LA CULTURA DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA

Caratteri generali

Caratteri generali

La prima guerra mondiale costituisce una vera e propria frattura nella storia che si può così sintetizzare:

  • Fine dell’eurocentrismo economico e politico e l’affacciarsi nella storia di due superpotenze, ideologicamente contrapposte: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica;
  • L’affacciarsi delle masse come soggetti politici;
  • I totalitarismi (fascismo in Italia e nazismo in Germania).

Tutta l’Europa, all’indomani della guerra, si leccava le ferite causate da un ingente sforzo economico per farvi fronte, dai milioni di morti, mutilati e reduci, da un impossibile ritorno alla “normalità”, se per normalità s’intende la situazione prebellica che aveva caratterizzato la “belle epoque”.

A pagare le maggiori conseguenze dell’esito della guerra fu la Germania, alla quale, soprattutto per volontà francese, venne attribuita l’intera responsabilità del conflitto. Così i trattati di pace, più che avviarsi verso un equilibrato sistema di rapporti tra i paesi europei, determinarono sentimenti di rivincita. Se la situazione parve lentamente migliorare tra il ’24 e il ’28, per una buona congiuntura economica, foriera di un rasserenamento politico fra le nazioni, il crack delle banche americane del ’29, fece di nuovo precipitare la situazione, creando così le premesse, intorno agli anni Trenta, alla nascita del nazismo che condurrà l’Europa alle seconda guerra mondiale.

Altro fattore destabilizzante fu la Rivoluzione bolscevica. L’incapacità del governo zarista di offrire un sia pur minimo miglioramento alla masse contadine che vivevano ancora in un’economia semifeudale, diede forza agli esponenti più radicali che si posero alla testa di una rivoluzione che costrinse la Russia ad uscire dal conflitto con enormi conseguenze sul piano territoriale ed economico. L’esempio russo ebbe un impatto emotivo e politico che incise fortemente all’interno degli stati nazionali europei. Pur consapevoli della difficile esportazione della dittatura del proletariato, quest’ultima agì profondamente: da un lato (anche per l’indeterminatezza con cui filtravano le notizie) come modello, se non come mito, a cui masse di operai, nonché di intellettuali, guardavano con fiducia; dall’altro, per reazione, il “pericolo rosso” coagulò intorno a sé un fronte, seppur non omogeneo, che andava dal piccolo-borghese, minacciato dal basso, alle gerarchie ecclesiastiche, fino ai grandi proprietari terrieri e agli industriali.

Se gli Stati Uniti avevano promosso con la loro entrata in guerra l’idea di una Europa che si articolasse al suo interno in una prospettiva liberal-democratica, promuovendo, sin dal ’18 la nascita della Società delle Nazioni, la miopia parlamentare americana, diede luogo ad una nuova forma di isolazionismo.

Situazione in Italia

L’Italia uscì dalla prima guerra mondiale profondamente cambiata. L’assetto sociale, ormai, aveva assunto caratteri massificati che convogliavano in una compatta sindacalizzazione, in una forte affermazione del Partito Socialista (che d’altra parte visse, nel ’21 una drammatica scissione tra riformisti e massimalisti guidati rispettivamente da Turati e da Gramsci) e nella nascita del Partito Popolare da parte di Sturzo, approvato ed appoggiato dalle gerarchie ecclesiastiche.

Ma il ceto che più di ogni altro cambierà le sorti dell’Italia e che la condurrà, con cieca fiducia, alla dittatura, sarà la piccola borghesia. Quest’ultima visse, negli ultimi anni, una drammatica ambiguità, un senso di smarrimento, determinato dall’accettazione passiva del sistema capitalistico degenerato in un affarismo senza scrupoli e da un’invidia e paura profonda verso il proletariato organizzato. Per meglio dire, il piccolo borghese si sentiva schiacciato da una parte dai “pescecani” arricchitisi con loschi affari durante la guerra, dall’altra dalla massa dei lavoratori che, avanzando delle richieste di miglioramento salariale o, addirittura, prospettando, sul modello dell’URSS, la “dittatura del proletariato”, gli rubava quello che per l’“eroismo di guerra”, gli spettava di diritto. Portavoce del suo malcontento divenne Benito Mussolini, già socialista, che nel 1919 fondò a Milano i “Fasci Italiani di Combattimento”.

Il Patto di Londra aveva assegnato la costa dalmata all’Italia e la città di Fiume alla Croazia. Al termine della guerra la città istriana votava per l’annessione all’Italia, mentre la costituenda Jugoslavia reclamava per sé la costa dalmata. Sul tavolo di pace a Parigi la delegazione italiana rivendicava ambedue i territori: uno per il principio di autodeterminazione dei popoli (rati-ficato alla fine del conflitto), l’altro per il rispetto del Patto di Londra. Il presidente americano, non avendo sottoscritto l’accordo italo-inglese, invitava il popolo italiano a rinunciare alla Dalmazia. Il presidente del consiglio italiano, irritato da ciò, andò a Roma e chiese la fiducia del governo, ottenuta a grandissima maggioranza. L’allontanamento dal tavolo delle trattative risultò, tuttavia, esiziale per l’Italia: dalla spartizione degli ex possedimenti tedeschi in terra d’Africa venne totalmente esclusa. Ciò determinò una recrudescenza di sentimenti sciovinistici, animati dal mito della “vittoria mutilata” che portò a grandi dimostrazioni di piazza sotto il segno del “nazionalismo”. A tali dimostrazioni si aggiunsero e, spesso, confluirono, quelle operaie e contadine, determinate dalle difficilissime condizioni economiche in cui l’Italia si trovò all’indomani della guerra.

Queste ultime assunsero, in alcune regioni, vere e proprie forme miranti a preparare una rivoluzione ed ebbero particolare vigore nel biennio 1919-1920 (“biennio rosso”) in cui si procedette all’esproprio di terre, occupazioni di fabbriche e saccheggi di negozi e forni.

La difficile situazione italiana veniva anche alimentata dalle azioni di D’Annunzio che, con un gesto clamoroso, occupò Fiume (precedentemente eletta a città libera) nel 1919, da cui venne ricacciato l’anno successivo dal governo italiano per non incrinare i rapporti internazionali precedentemente raggiunti.

E’ evidente come tutto ciò determinasse il tramonto del liberalismo politico di tipo ottocentesco e l’affacciarsi di un conflitto sociale completamente nuovo i cui protagonisti saranno i partiti di massa socialisti e popolari e il nascente, ma non ancora forte, movimento fascista, guidato da Benito Mussolini.

Il vecchio Giolitti venne richiamato per la quinta volta per salvare le sorti del liberalismo: ma al di là dei risultati positivi da lui raggiunti sul terreno diplomatico, non riuscì a realizzare il suo disegno.

L’opera di mediazione da lui condotta nei precedenti governi fra le diverse classi sociali, questa volta fallì: il padronato industriale e la FIOM (Federazione Italiana Operai Metallurgici), infatti, non riuscirono a portare a termine un accordo per il rinnovo del contratto. Gli operai, allora, passarono decisamente all’attacco, occupando le fabbriche: lasciati soli dal Partito Socialista, non poterono che dichiarare il loro fallimento. E fu allora il padronato a mettere in atto la sua controffensiva: gli industriali e i capitalisti agrari armarono la mano allo squadrismo fascista che, con estrema violenza, cercò di liquidare le organizzazioni operaie e contadine. I socialisti, abbandonati dalle istituzioni, si mostrarono incapaci a offrire una forte risposta e consumarono la loro scissione nel Congresso di Livorno in Partito Socialista (riformisti) e Partito Comunista (massimalisti) nel 1921.

Giolitti, stanco e amareggiato, si ritirò e i governi a lui succedutisi (Bonomi e Facta) si mostrarono incapaci di affrontare la situazione.

Al tentativo di “sciopero legalitario” proposto dai partiti della sinistra per accusare i metodi illegali dei rappresentanti del partito di Mussolini, il PFN (Partito Nazionale Fascista, fondato nel 1921) rispose con un’offensiva a tutto campo, con violenza inaudita, sia nelle piazze che su un piano istituzionale.

I capi del partito, infatti, riunitisi a Napoli, marciavano verso Roma per conquistare il potere; Facta ottenne dal re la promulgazione dello stato d’assedio che Vittorio Emanuele III, il giorno seguente, non ratifica. Di fronte a tale gesto al residente del Consiglio non rimase che dimettersi. Il nostro monarca accettò le dimissioni e quindi offrì l’incarico di formare un nuovo governo a Benito Mussolini.

Una volta al potere, Mussolini dichiarò di voler reprimere l’illegalità, sotto qualsiasi forma essa si fosse presentata. La “normalizzazione” che egli tuttavia perseguiva, non toccava lo squadrismo che continuava indisturbato la sua azione violenta contro le associazioni di sinistra, ma soprattutto riguardava il sovvertimento delle istituzioni liberali e l’erezione progressiva del fascismo in un regime che, per poter essere accettato, doveva pagare lo scotto a quelle classi che fino ad allora lo avevano sostenuto. Le prime scelte politiche, infatti, riguardavano una serie di provvedimenti favorevoli ai capitalisti e la continua pressione verso i sindacati che dovevano, per amore o per forza, accettare l’abbassamento dei salari.

Certo tale politica, aumentando la produttività a scapito delle classi più deboli, riuscì a determinare un incremento industriale notevole che, nell’immediato, serviva a rafforzare il fascismo stesso.

D’altra pare Mussolini, per consolidare ulteriormente il suo potere, aveva bisogno di conquistare il consenso dei cattolici che ancora si riconoscevano nel Partito Popolare. Bastava rompere il patto di solidarietà fra la Chiesa ed il partito, cosa che Mussolini fece, alleandosi con la destra cattolica che spinse lo stesso fondatore del Partito Popolare, don Luigi Sturzo, ad abbandonare l’agone politico.

Allargatasi quindi la base su cui poggiava il suo potere, Mussolini indisse nuove elezioni, che si svolsero in un clima d’intimidazione e violenza. Otte-nuta la maggioranza nel paese, il capo del fascismo vide tuttavia vacillare il suo potere quando il deputato socialista, Matteotti, che aveva denunciato alla Camera i metodi illegali con i quali si erano svolte le consultazioni elettorali, venne ucciso dagli squadristi. L’emozione nel paese fu grande ed i partiti d’opposizione fecero quadrato abbandonando l’aula parlamentare, sperando che in questo modo il re intervenisse per revocare il potere a Mussolini.

Ciò non avvenne, anzi il fascismo passò ad una violenta controffensiva di piazza: Mussolini, spinto dagli eventi e assenti gli aventiniani, dichiarò alla Camera la cessazione di ogni garanzia liberale.

Il fascismo si trasforma quindi in un regime dittatoriale (1925).

Gli atti di tale regime furono:

  • soppressione della libertà di stampa;
  • sostituzione dei sindaci e dei consigli comunali con podestà e consulte di nomina governativa;
  • proibizione del diritto di sciopero;
  • istituzione delle “corporazioni” che, rappresentando le categorie econo-miche nella loro totalità, privavano i lavoratori dei sindacati;
  • istituzione del confino di polizia e del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato;
  • reintroduzione della pena di morte.

L’opposizione fu costretta a vivere nella clandestinità o a emigrare: il nucleo più consistente di essa, che si riconosceva nei partiti socialisti, comunisti e liberali, dirigeva la sua lotta da Parigi.

Un punto a favore del regime Mussolini lo conseguì con i Patti Lateranensi (1929), con i quali riuscì a legare a sé l’intera gerarchia cattolica.

Una serie di problemi il duce dovette affrontarli con la svalutazione della lira verificatasi intorno al 1925. Se la politica economica aveva registrato, dal ’22 al ’25, buoni risultati, permettendo un incremento delle esportazioni, il deprezzamento della lira fece sì che, tuttavia, le materie importate costassero di più. Bisognava, quindi, “salvare la lira” e per fare ciò la cosa più semplice che il duce attuò fu la riduzione dei salari (dal 12% al 15%) e la creazione di grandi trust monopolistici che, se aiutarono il grande capitale, grazie anche all’autarchia, risultò lesiva per le piccole e medie imprese.

Fondamentale risultò anche la “battaglia del grano” che, se da una parte riuscì ad evitare l’importazione di questo fondamentale alimento, ne aumen-tò considerevolmente il prezzo. Nel 1928 iniziò il progetto di bonifica delle zone paludose, non sempre portato a buon fine, in quanto lasciato in mano ai privati che, una volta ottenuti i sovvenzionamenti statali, procedettero con scarsa produttività. Diverso fu il caso dell’agro pontino che, fra l’altro, riuscì ad alleviare la disoccupazione allora imperante per la crisi sopra descritta.

L’altra arma usata dal regime per affrontare il problema della disoccupazione fu lo sviluppo delle opere pubbliche, con lavori di tipo strutturale che sarebbero in seguito serviti a sviluppare l’economia del paese, ma soprattutto a porre le premesse per il futuro riarmo dell’Italia. Infatti l’autarchia economica non poteva che spingere il governo verso una politica estera di tipo imperialistico. Essa venne infatti inaugurata con l’impresa africana, per poi proseguire con la conquista dell’Albania ed il tentativo d’occupazione della Grecia.

Risulta evidente che tale politica mal si accordava con le difficoltà economiche che lo stato fascista cercava di nascondere.

Per quanto riguarda l’aspetto culturale è evidente che, nel momento in cui il fascismo si ergeva a vero e proprio regime, non poteva mancare un attento controllo che si focalizzava su quelle forme che maggiormente potevano avere influenza sulle masse, in primo luogo la stampa, in seguito radio e cinema, nonché la formazione del consenso attraverso il GUF (Gruppi Universitari Fascisti).

Intanto nel ’25 sul Popolo d’Italia, il filosofo Giovanni Gentile elaborava un manifesto nel quale cercava di indirizzare e motivare gli intellettuali a farsi “propagatori” del verbo fascista (tra i firmatari alcuni nomi eccellenti come Luigi Pirandello e Giuseppe Ungaretti).

MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI FASCISTI

Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di significato e interesse per tutte le altre.

Le Origini

Le sue origini prossime risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e risoluti a combattere energicamente la politica demosocialista allora imperante. La quale della grande guerra, da cui il popolo italiano era uscito vittorioso ma spossato, vedeva soltanto le immediate conseguenze materiali e lasciava disperdere se non lo negava apertamente il valore morale rappresentandola agli italiani da un punto di vista grettamente individualistico e utilitaristico come somma di sacrifici, di cui ognuno per parte sua doveva essere compensato in proporzione del danno sofferto, donde una presuntuosa e minacciosa contrapposizione dei privati allo Stato, un disconoscimento della sua autorità, un abbassamento del prestigio del Re e dell'Esercito, simboli della Nazione soprastanti agli individui e alle categorie particolari dei cittadini e un disfrenarsi delle passioni e degl'istinti inferiori, fomento di disgregazione sociale, di degenerazione morale, di egoistico e incosciente spirito di rivolta a ogni legge e disciplina. 
L'individuo contro lo Stato; espressione tipica dell'aspetto politico della corruttela degli anni insofferenti di ogni superiore norma di vita umana che vigorosamente regga e contenga i sentimenti e i pensieri dei singoli. Il Fascismo pertanto alle sue origini fu un movimento politico e morale. La politica sentì e propugnò come palestra di abnegazione e sacrificio dell'individuo a un'idea in cui l'individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà e ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tradizione perciò e missione.

Il Fascismo e lo Stato

Di qui il carattere religioso del Fascismo. Questo carattere religioso e perciò intransigente, spiega il metodo di lotta seguito dal Fascismo nei quattro anni dal ’19 al ’22. I fascisti erano minoranza, nel Paese e in Parlamento, dove entrarono, piccolo nucleo, con le elezioni del 1921. Lo Stato costituzionale era perciò, e doveva essere, antifascista, poiché era lo Stato della maggioranza, e il fascismo aveva contro di sé appunto questo Stato che si diceva liberale; ed era liberale, ma del liberalismo agnostico e abdicatorio, che non conosce se non la libertà esteriore. Lo Stato che è liberale perché si ritiene estraneo alla coscienza del libero cittadino, quasi meccanico sistema di fronte all’attività dei singoli. Non era perciò, evidentemente, lo Stato vagheggiato dai socialisti, quantunque i rappresentanti dell’ibrido socialismo democratizzante e parlamentaristico, si fossero, anche in Italia, venuti adattando a codesta concezione individualistica della concezione politica. Ma non era neanche lo Stato, la cui idea aveva potentemente operato nel periodo eroico italiano del nostro Risorgimento, quando lo Stato era sorto dall’opera di ristrette minoranze, forti della forza di una idea alla quale gl’individui si erano in diversi modi piegati e si era fondato col grande programma di fare gli italiani, dopo aver dato loro l’indipendenza e l’unità.

Gioventù e squadrismo

Contro tale Stato il Fascismo si accampò anch’esso con la forza della sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un numero rapidamente crescente di giovani e fu il partito dei giovani (come dopo i moti del ’31 da analogo bisogno politico e morale era sorta la “Giovane Italia” di Giuseppe Mazzini). Questo partito ebbe anche il suo inno della giovinezza che venne cantato dai fascisti con gioia di cuore esultante! E cominciò a essere, come la “Giovane Italia” mazziniana, la fede di tutti gli Italiani sdegnosi del passato e bramosi del rinnovamento. Fede, come ogni fede che urti contro una realtà costituita da infrangere e fondere nel crogiolo delle nuove energie e riplasmare in conformità del nuovo ideale ardente e intransigente. Era la fede stessa maturatasi nelle trincee e nel ripensamento intenso del sacrificio consumatosi nei campi di battaglia pel solo fine che potesse giustificarlo: la vita e la grandezza della Patria. Fede energica, violenta, non disposta a nulla rispettare che opponesse alla vita, alla grandezza della Patria. Sorse così lo squadrismo. Giovani risoluti, armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente, si misero contro la legge per instaurare una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare il nuovo Stato. Lo squadrismo agì contro le forze disgregatrici antinazionali, la cui attività culminò nello sciopero generale del luglio 1922 e finalmente osò l’insurrezione del 28 ottobre 1922, quando colonne armate di fascisti, dopo avere occupato gli edifici pubblici delle province, marciarono su Roma. La Marcia su Roma, nei giorni in cui fu compiuta e prima, ebbe i suoi morti, soprattutto nella Valle Padana. Essa, come in tutti i fatti audaci di alto contenuto morale, si compì dapprima fra la meraviglia e poi l’ammirazione e infine il plauso universale. Onde parve che a un tratto il popolo italiano avesse ritrovato la sua unanimità entusiastica della vigilia della guerra, ma più vibrante per la coscienza della vittoria già riportata e della nuova onda di fede ristoratrice venuta a rianimare la Nazione vittoriosa sulla nuova via faticosa della urgente restaurazione delle sue forze finanziarie e morali.

Il governo fascista

Lo squadrismo e l’illegalismo cessavano e si delineavano gli elementi del regime voluto dal Fascismo. Tra il 29 e il 30 ottobre ripartirono da Roma nel massimo ordine le cinquantamila camicie nere che dalle provincie avevano marciato sulla Capitale, partirono, dopo aver sfilato innanzi a S. M. il Re, partirono ad un cenno del loro Duce, divenuto Capo del Governo e anima della nuova Italia auspicata dal Fascismo.

(…)

Ma gli stranieri, che sono venuti in Italia, sorpassando quella cerchia di fuoco creata intorno all’Italia fascista dai tiri di interdizione con cui una feroce propaganda cartacea e verbale, interna ed esterna, di italiani e non italiani, ha cercato di isolare l’Italia fascista, calunniandola come un paese caduto in mano all’arbitrio più violento e più cinico, negatore di ogni civile libertà legale e garanzia di giustizia; gli stranieri che hanno potuto vedere coi propri occhi questa Italia, e udire coi propri orecchi i nuovi italiani e vivere la loro vita materiale e morale, hanno cominciato dall’invidiare l’ordine pubblico oggi regnante in Italia, poi si sono interessati allo spirito che si sforza ogni giorno più d’impossessarsi di questa macchina così bene ordinata e han cominciato a sentire che qui batte un cuore pieno di umanità, quantunque scosso da un’esasperante passione patriottica; giacché la Patria del Fascista è pure la Patria che vive e vibra nel petto di ogni uomo civile, quella Patria cui il sentimento dappertutto si è riscosso nella tragedia della guerra e vigila, in ogni paese, e deve vigilare a guardia di interessi sacri, anche dopo la guerra; anzi per effetto della guerra, che nessuno più crede l’ultima.Codesta Patria è pure riconsacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà, nel flusso e nella perennità delle tradizioni. Ed è scuola di subordinazione di ciò che è particolare ed inferiore a ciò che è universale ed immortale, è rispetto della legge e disciplina, è libertà ma libertà da conquistare attraverso la legge, che si instaura con la rinuncia a tutto ciò che è piccolo arbitrio e velleità irragionevole e dissipatrice. È concezione austera della vita, è serietà religiosa, che non distingue la teoria dalla pratica, il dire dal fare, e non dipinge ideali magnifici per relegarli fuori di questo mondo, dove intanto si possa continuare a vivere vilmente e miseramente, ma è duro sforzo di idealizzare la vita ed esprimere i propri convincimenti nella stessa azione o con parole che siano esse stesse azioni, impegnando chi le pronuncia e impegnando con lui il mondo stesso di cui egli è parte viva e responsabile in ogni istante del tempo, in ogni segreto respiro della coscienza. (…)

Il Manifesto di Gentile assegna una missione che potremo definire “religiosa” al fascismo; egli infatti, mutuando il concetto di Stato dal pensiero hegeliano, e dando ad esso il significato di stato etico, subordina l’interesse e la libertà individuale a quella dello stato. Dirà Gentile: «Il fascismo non vede altro individuo soggetto di libertà che quello che sente pulsare nel proprio cuore l’interesse superiore della comunità e la volontà sovrana dello Stato». Interessante inoltre, ci sembra il richiamo che il filosofo vuole sottolineare tra il Risorgimento ed il fascismo, mettendo in relazione il movimento mazziniano della “Giovane Italia” con le Avanguardie fasciste in camicia nera, insistendo sulla loro poca numerosità, ma capaci di portare il “Verbo” alle masse.

La risposta a tale manifesto fu quella di Croce, importantissimo filosofo napoletano, che, usando come strumento anche l’ironia, rintuzza con efficacia alle affermazioni un po’ “verbose” come lui stesso afferma, del suo collega Giolitti. Il suo manifesto venne pubblicato lo stesso anno sulle riviste “Il Mondo” e “Il Popolo” (tra i firmatari Luigi Einaudi, Aldo Palazzeschi e Eugenio Montale) 

MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI ANTIFASCISTI

Gl’intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto agl’intellettuali di tutte le nazioni per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista. Nell’accingersi a tanta impresa quei volenterosi signori non debbono essersi rammentati di un consimile famoso manifesto, che, agli inizî della guerra europea, fu bandito al mondo dagli intellettuali tedeschi: un manifesto che raccolse, allora, la riprovazione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore. E, veramente, gl’intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell’arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l’ascriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l’opera dell’indagine e della critica, e con le creazioni dell’arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale, affinché, con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie. Varcare questi limiti dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza, è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi neppure un errore generoso. E non è nemmeno, quello degl’intellettuali fascisti, un atto che risplenda di molto delicato sentire verso la Patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni. Nella sostanza, quella scrittura, è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocinî: come dove si prende in iscambio l’atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo democratico del secolo decimonono, cioè l’antistorico e astratto e matematico democraticismo, con la concezione sommamente storica della libera gara e dell’avvicendarsi dei partiti al potere, onde, mercé l’opposizione, si attua, quasi graduandolo, il progresso; o come dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degl’individui al Tutto, quasi che sia in questione ciò, e non invece la capacità delle forme autoritarie a garantire il più efficace elevamento morale […]. Ma il maltrattamento della dottrina e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell’abuso che vi si fa della parola «religione»; perché, a senso dei signori intellettuali fascistici, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte, la quale le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; e ne recano a prova l’odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani. Chiamare contrasto di religione l’odio e il rancore che si accendono contro un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere d’italiani e li ingiuria stranieri e in quest’atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono proprî di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l’animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto perfino ai giovani dell’Università l’antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro gli altri in sembianti ostili: è cosa che suona, a dir vero, come un’assai lugubre facezia. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto;  e d’altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all’autorità e di demagogismo, di professata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamento alla Chiesa cattolica, di aborrimento della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo. E, se anche taluni plausibili provvedimenti sono stati attuati o avviati dal governo presente, non è in essi nulla che possa vantare un’originale impronta, tale da dare inizio di un nuovo sistema politico, che si denomini dal fascismo. Per questa caotica e inafferrabile «religione» non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, dell’Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l’educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l’Italia operarono, patirono e morirono; e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri italiani avversarî, e gravi e ammonitori a noi perché teniamo salda in pugno la loro bandiera. La nostra fede non è un’escogitazione artificiosa e astratta o un invasamento di cervello, cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale e morale. Ripetono gl’intellettuali fascisti, nel loro manifesto, la trista frase che il Risorgimento d’Italia fu l’opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale; e anzi par quasi che si compiacciano della odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d’Italia di fronte ai contrasti tra il fascismo e i suoi oppositori. I liberali di tal cosa non si compiacquero mai, e si studiarono a tutto potere di venire chiamando sempre maggior numero d’italiani alla vita pubblica; e in questo fu la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atti, come la largizione del suffragio universale. Perfino il favore, col quale venne accolto da molti liberali, nei primi tempi, il movimento fascista, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercè di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica, forze di  rinnovamento e (perché no) anche forze conservatrici. Ma non fu mai nei loro pensieri di mantenere nell’inerzia e nell’indifferenza il grosso della nazione, appagandone taluni bisogni materiali, perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito le ragioni del Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei governatori assolutistici e quietistici. Anche oggi, né quell’asserita indifferenza e inerzia, né gli impedimenti che si frappongono alla libertà, c’inducono a disperare o a rassegnarci. Quel che importa, è che si sappia ciò che si vuole e che si voglia cosa d’intrinseca bontà. La presente lotta politica in Italia varrà, per ragione di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amara con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l’Italia doveva percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile.

Se in un primo momento Benedetto Croce aveva ritenuto il fascismo un argine contro la minaccia comunista, si riteneva certo che poi lo stesso sarebbe rientrato nell’alveo del liberalismo e quindi, in parte, neutralizzato. Capito il fallimento di tale prospettiva, si era ritirato e dedicato agli studi. D’altra parte si racconta che il cavaliere Mussolini, chiese ai suoi: “Quante copie tira ‘La Critica’?. “Millecinquecento”  gli risposero. “Allora lasciatelo perdere!”. Noi sappiamo e ci piace immaginare che la sua statura internazionale sconsigliasse a Mussolini stesso di perseguitarlo.

Per quanto riguarda il Manifesto degli intellettuali antifascisti, da lui redatto, egli affermava il diritto della cultura a indagare e criticare le opere di creazione artistica, affinché tutti potessero elevarsi alla più alta sfera spirituale. Allo stesso modo comparare l’ideologia fascista a una religione e legittimare lo squadrismo, cioè l’arbitrio e la violenza politica, riteneva fossero di per sé intollerabili perché privavano la dialettica politica, la sola in grado di comporre una migliore società civile; d’altra parte piegare anche la creazione artistica è come privare l’artista della necessaria libertà: per Croce arte e politica sono necessariamente separate, perché laddove venisse meno la libertà di pensiero ne consegue l’impossibilità di fare arte. In lui si sente il concetto di “arte pura” di cui la rivista “La Ronda” si fece portatrice.

Per quanto riguarda la letteratura, il fascismo trova un po’ di difficoltà a trovare un indirizzo che meglio lo possa rappresentare, e se mai uno ce n’è si tratta certamente di paraletteratura:

Liala, scrittrice di enorme successo commerciale (fino agli anni Settanta), che descrive, nei primi romanzi storie d’amore appassionate con bei ufficiali, rappresentanti l’uomo volitivo e forte, dell’aeronautica e della marina e Pitigrilli, autore del famoso romanzo Cocaina, con cui rendeva popolare la tipologia dei protagonisti dei romanzi dannunziani.

Se invece si parla di letteratura alta, il fascismo dovette convivere con esperienze diverse e in qualche modo opposte, ma tutte “internazionalmente” importanti, perlopiù con autori che avevano aderito al manifesto gentiliano: da il ricercato D’Annunzio, al futurista Marinetti, sino al premio Nobel Pirandello.

Esperienze importanti tuttavia furono:

Strapaese

L’idea di definire Strapaese un progetto culturale fu di Mino Maccari e lo concretizzò intorno alla rivista Il Selvaggio. Scopo era quello di raccontare un’Italia provinciale, con tipi umani spontanei e genuini, un po’ maneschi e plebei, bestemmiatori toscani: in una parola i protagonisti di coloro che “menavano le mani” contro i comunisti o i giornalisti antifascisti. Portavoce letterario di tale rivista fu Curzio Malaparte, che vi pubblicò vari testi in versi (canzoni), che vennero in seguito pubblicati nel libro l’Arcitaliano del 1928.

CANTATA DELL’ARCIMUSSOLINI

O italiani ammazzacattivi
il bel tempo torna già:
tutti i giorni son festivi
se vendetta si farà.
Son finiti i tempi cattivi
Chi ha tradito pagherà.
Pace ai morti e botte ai vivi:
cosa fatta capo ha.
Spunta il sole e canta il gallo
Mussolini monta a cavallo.

Dacci pane pei nostri denti
fantasie e cazzottature
ogni sorta d’ardimenti
di mattane e d’avventure.
Sono acerbi gli argomenti
ma le sorbe son mature:
siam tutti pronti e attenti
pugni sodi e teste dure.
Spunta il sole e canta il gallo
o Mussolini monta a cavallo.

(…)

O Mussolini facciadura
quando smetti di far buriana?
Aspetti vento d’avventura
Greco libeccio o tramontana?
La stagione è già matura
il brutto tempo s’allontana:
per montagna e per paura
combatteremo all’italiana.
Spunta il sole e canta il gallo
o Mussolini monta a cavallo.

Combatteremo alla vecchia maniera
guai a voi se prendiamo l’aire:
vi bucheremo la panciera
a lama fredda vogliam ferire.
La morte è buona cavaliera
piglia in sella chi vuol fuggire:
o traditori addio bandiera
Mussolini è duro a morire.
Spunta il sole e canta il gallo
o Mussolini monta a cavallo.

E’ chiaramente una canzone il cui senso apparente è quello di elogiare Mussolini (e d’altra parte lo fa). Tuttavia l’operazione di Malaparte è più sottile: la semplicità dei versi dal ritmo cantilenante non nascondono la mescolanza di parole auliche con quelle vernacolari (tipiche del dialetto senese), l’influenza letteraria di Berni, e, come un tappetto sottostante, la profonda ironia del testo. Ma fare un testo ironico sul duce poteva dar vita ad interpretazioni non proprio univoche.

D’altra parte al di là delle poesie di Malaparte e delle vignette satiriche di Maccari, ne Il Selvaggio poco di rimane di racconti in cui venga esaltato il vigore dell’italiano contadino; ci sembra infatti un’operazione totalmente intellettuale, che non abbia saputo realizzare il progetto cui ambiva.

Stracittà

A polemizzare con il progetto culturale di Maccari fu Massimo Bontempelli la cui aspirazione fu uscire dall’autarchismo letterario de Il Selvaggio e dare vita ad un vero e proprio inserimento della letteratura italiana nel contesto europeo. A tale scopo fondò la rivista 900 e, in opposizione allo Strapaese, definì il suo progetto Stracittà.

A fondamento della sua ricerca letteraria di questo periodo, che s’invera nei romanzi La scacchiera di fronte allo specchio (1922), Il figlio di due madri (1929), Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1930) Gente nel tempo (1937) è la ricerca di un’arte “che rifiuta così la realtà per la realtà, come la fantasia per la fantasia e vive nel senso magico scoperto nella vita quotidiana  degli uomini e delle cose”. Tale arte dovrà avere “precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la nostra vita si proietta” Questi sono i canoni  con cui Bontempelli definisce il suo “realismo magico”.

Ad esempio della sua prosa prendiamo un brano da “La scacchiera di fronte lo specchio

LA VITA RIFLESSA NEGLI SCACCHI

Capitolo secondo
Spiegazione del titolo

Avvenne dunque un giorno, prima della guerra europea – e precisamente quando avevo otto anni – avvenne che per punizione fu chiuso, solo, virgola in una stanza.
E’ inutile raccontare perché mi avessero chiuso in quella stanza, tanto più che non lo ricordo. Sono incidenti che possono accadere a tutti quelli che hanno otto anni. Qualche volta accadono anche in età molto maggiore, e allora il fatto è più grave. Quella volta il fatto non era grave, tant’è vero che non ricordo perché mi avessero condannato a quella reclusione; la quale, diciamolo súbito, non durò che un’ora o due. Chiudendo me in quella stanza mi dissero:
«E non uscirai di qui finché non veniamo ad aprirti.» (Io pensai: «E’ naturale: se non vengono ad aprirmi come faccio a uscire da qui?»
Mi dissero ancora: «Sta attento a quello specchio, che non è da rompere. Nella stanza c’era un grande specchio, appeso a una parete appoggiato con la cornice inferiore sopra il piano di un caminetto. (Anche questa seconda raccomandazione mi parve superflua, perché tutti, anche a otto anni, sanno che gli specchi non sono fatti per romperli.)
Ci fu una terza e ultima ingiunzione, e fu la seguente. «E non toccare quella scacchiera.» Infatti sul piano dei già ricordato caminetto c’era una scacchiera con su tutti i suoi pezzi, bianchi e neri, disposti nelle relative caselle: trentadue pezzi, perché, chi non lo sapesse, i pezzi degli scacchi sono trentadue, come i denti dell’uomo.
Essendo posata sul piano del caminetto, la detta scacchiera veniva a trovarsi davanti allo specchio. Ed ecco spiegata già fin dal secondo capitolo, la ragione del titolo di questo racconto.

(…)

Capitolo quarto
Prima stramberia

Eccoci dunque in tre, come ho detto:
io,
lo specchio, la scacchiera.
Io guardavo lo specchio, lo specchio rifletteva la scacchiera.
Ho già detto che lo specchio era vecchio leggermente verdognolo. Io osservai súbito che i pezzi della scacchiera riflessi nello specchio erano, tanto i bianchi quanto i neri, più pallidi di quelli veri, e con i contorni meno nitidi, quasi sfumati: anzi, fissandoli un po’ a lungo, là dentro, mi pareva che avessero una leggera vibrazione come le erbe e i sassi che si vedono dentro l’acqua di un laghetto.
Non ho ancora avvertito una cosa importante: cioè che lo specchio, appoggiato sul marmo del caminetto, era leggermente inclinato in avanti, perciò la scacchiera e i trentadue pezzi che vi si vedevano stavano sullo stesso piano dei trentadue pezzi veri, ma sembrava che si arrampicassero sopra un leggero declivio.
Di là, i pezzi specchiati guardavano i pezzi veri; ognuno il suo compagno: il Re Bianco guardava al Re Bianco, la Regina Nera alla Regina Nera, e così via; e quelli di là, stando così in alto un po’ di sbieco, pareva che guardassero questi di qua con sprezzatura. Questi di qua si lasciavano guardare impassibili, e pareva che con questa indifferenza si vantassero forse da essere più coloriti, più nitidi, e ben posati sopra un piano perfettamente orizzontale.
Mi alzai una volta ancora in punta di piedi, per vedere se riuscivo a scorgere almeno un poco della mia persona nello specchio. Ma era inutile. Ho detto che non ricordavo se vi fosse nella stanza una sedia: penso ora che certamente non v’era, altrimenti sarei salito in piedi su quella.
Ma così stirandomi in su, feci la seguente riflessione:
«In quello specchio c’è tutto quello che c’è in questa stanza, la parete azzurra, la scacchiera, i pezzi: dunque se non mi vedo, ci devo essere anch’io.»
Allora accadde una cosa buffissima.
Accadde che il Re Bianco – non quello vero, che era di qua; quello riflesso e un po’ più pallido, che era di là – il Re Bianco cessò di fissare, traverso la superficie dello specchio, il suo compagno, e guardò invece verso di me, si scosse un poco e parlò.
Parlò proprio a me, e come se avesse letto nel mio pensiero, mi disse:
«Certo che ci sei. Sei qui sotto. Vieni anche tu di qua, e ti vedrai.»
Tutte le volte che ho ripensato a quel momento, e anche ora, il fatto mi è parso, e mi pare strambissimo e quasi incredibile.
Invece allora non ci troverei nulla di strano. Risposi tranquillamente:
«Verrei volentieri, ma prima di tutto non so come fare; in secondo luogo Ella deve sapere che mi hanno ordinato di non muovermi di qui fin che non vengono ad aprirmi.» Il Re Bianco di là dello specchio mi fece un obiezione:
«Quando dico che sei qui, intendo che qui c’è un altro come te: la tua immagine, via; siete due, come io e quel Re Bianco che sta costì dalla tua parte. Dunque se tu vieni di qua può anche darsi che la tua immagine passi di là, e così ci sarà sempre qualcuno per qualunque evenienza.
«Allora» obiettai «non è vero che incontrerò me stesso di là.
«Hai ragione. Ma sarà sempre una gita interessante.
«Lo credo» gli risposi. «Ma rimane sempre la prima difficoltà: non so come fare a venirci. Se Ella volesse insegnarmi…»
Il Re Bianco mi ammonì severamente:
«Con la volontà si riesce a tutto.»

E’ un libro pubblicato nella collana “Biblioteca dei ragazzi” della Bemporad. Racconta un episodio minimale: un bambino di otto anni viene messo in castigo in una stanza dove vi è uno specchio che riflette una scacchiera. La realtà riflessa appare al bambino più vera della realtà e ne nasce un vero e proprio dialogo tra ciò che lo specchio rimanda (in questo caso il Re Bianco) e il protagonista. Il fatto che il racconto sia omodiegetico, fa assumere allo stile il carattere veritiero che un bambino può vedere, mescolando appunto realtà e fantasia. D’altra parte il suo mondo è così scevro da ogni elemento dei doveri dell’adultità, facendogli reclamare la sua non confinabile libertà. Il modo di scrivere, come fosse quello di un bambino, fa sì che la tonalità infantile ed il fantastico si armonizzino tra loro, dando vita, così, al suo “realismo magico”.

La Ronda

La rivista La Ronda (1919 – 1923), anche in ottemperanza del suo nome che si richiama alla  vigilanza e al controllo, affinché si riacquistasse il senso dell’ordine, si pone in netta antitesi contro le esperienze sia dannunziane che pascoliane, quanto dall’intemperanze futuriste. Per i redattori di tale rivista vi è la necessità di un ritorno alla classicità del dettato, ad una prosa “elegante” e alla purezza dello stile. Innamoratosi della prosa leopardiana (dedicarono ben tre numeri allo Zibaldone) non furono nemmeno contrari al frammentarismo. Tenendo ben distanti la politica con l’arte, essi promossero sia la poesia con Vincenzo Cardarelli che la prosa con Emilio Cecchi, ambedue fondatori della rivista.

Vincenzo Cardarelli (1887 – 1959), partecipò attivamente alla vita culturale romana, prendendo parte alla redazione e fondazione di alcune tra le riviste più importanti del primo Novecento. La sua poesia parla dello scorrere del tempo, della dolorosa memoria e adotta forme metriche libere di ascendenza leopardiana, che servono ad alleggerire la tensione emotiva.

Tra la sua produzione scegliamo un testo del ’31:   

AUTUNNO

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.

Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

E’ un testo dove a prevalere è il tema del trascorrere del tempo, percepito da un “noi” indefinito. I primi sette versi sottolineano il passaggio cadenzato dapprima dal vento d’agosto, poi le piogge di settembre, per concludersi con il sole smarrito, che ha perduto la sua forza e il suo calore estivo. Questi diventano metafora del passare degli anni nella vita di un uomo che “incedono” cioè passano lentamente, portandolo alla maturità che cancella “il miglior tempo” (citazione leopardiana).

ADOLESCENTE

Su te, vergine adolescente,
sta come un’ombra sacra.
Nulla è più misterioso
e adorabile e proprio
della tua carne spogliata.
Ma ti recludi nell’attenta veste
e abiti lontano
con la tua grazia
dove non sai chi ti raggiungerà.
Certo non io. Se ti veggo passare
a tanta regale distanza,
con la chioma sciolta
e tutta la persona astata,
la vertigine mi si porta via.
Sei l’imporosa e liscia creatura
cui preme nel suo respiro
l’oscuro gaudio della carne che appena
sopporta la sua pienezza.
Nel sangue, che ha diffusioni
di fiamma sulla tua faccia,
il cosmo fa le sue risa
come nell’occhio nero della rondine.
La tua pupilla è bruciata
dal sole che dentro vi sta.
La tua bocca è serrata.
Non sanno le mani tue bianche
il sudore umiliante dei contatti.
E penso come il tuo corpo
difficoltoso e vago
fa disperare l’amore
nel cuor dell’uomo!

Pure qualcuno ti disfiorerà,

bocca di sorgiva.
Qualcuno che non lo saprà,
un pescatore di spugne,
avrà questa perla rara.
Gli sarà grazia e fortuna
il non averti cercata
e non sapere chi sei
e non poterti godere
con la sottile coscienza
che offende il geloso Iddio.
Oh sì, l’animale sarà
abbastanza ignaro
per non morire prima di toccarti.
E tutto è così.
Tu anche non sai chi sei.
E prendere ti lascerai,
ma per vedere come il gioco è fatto,

per ridere un poco insieme.

Come fiamma si perde nella luce,
al tocco della realtà
i misteri che tu prometti
si disciolgono in nulla.
Inconsumata passerà
tanta gioia!
Tu ti darai, tu ti perderai,
per il capriccio che non indovina
mai, col primo che ti piacerà.
Ama il tempo lo scherzo
che lo seconda,
non il cauto volere che indugia.
Così la fanciullezza
fa ruzzolare il mondo
e il saggio non è che un fanciullo
che si duole di essere cresciuto.

E’ un testo che, come il precedente, parla del tempo, qui mettendolo al centro già dal titolo “Adolescenza”, il passare della giovinezza. La donna adolescente vive con leggerezza forse consapevole di quando sboccerà per diventare donna. Per ora ella non sa, non conosce, ma arriverà il momento in cui qualcuno si interesserà a lei e sarà la stessa che si perderà ed il tempo, che ama l’attimo in cui la gioia è ancora intorno a lei, e non il tempo che aspetta.

Il testo ci ricorda la canzone A Silvia, anche lì il poeta consapevole vede la giovinezza della dolce fanciulla dal di fuori, “d’in su i veroni del paterno ostello”; anche Cardarelli la guarda da lontano, ma se alla prima la Natura le ha negato di diventar donna, l’adolescente cardarelliana lo sarà, perdendo forse l’innocenza. Leopardiana è la scelta metrica endecasillabi e settenari, ma anche dannunziana con l’utilizzo di versi diversi. Il linguaggio è piano, ma sostenuto “recludi”, “veggo” “astata”, “gaudio” ed altre ancora, che tuttavia non inficia la scorrevolezza del testo che riesce ad essere armonicamente disposto.

Emilio Cecchi (1884 – 1966), fu un intellettuale e un finissimo critico letterario che interpretò con capacità più di mezzo secolo di letteratura italiana. S’interessò anche della letteratura inglese (Scrittori inglesi e americani, del 1935). Per lui l’arte è quello strumento che permette di restituire, elementi anche minimi di realtà, le ragioni affettive e morali dell’autore: l’ansia di una ricerca che tenta di aderire alle pieghe nascoste della vita e della psicologia dello scrittore studiato, attraverso una controllatissima immedesimazione. Tali qualità si apprezzano anche nel prosatore, che vuole programmaticamente delimitare la sua opera nell’ambito delle impressioni di viaggio, della nota, del bozzetto e dell’immagine. Come si può vedere in questo breve frammento:

IL CANGURO ZOPPICANTE

Il canguro zoppicava come un artritico. S’arrestò; e dondolandosi sulla vita, si dette la mossa e si trovò ritto sulle zampe posteriori. Aveva puntato in terra il poderoso bastone della coda e pareva un cavalletto a tre gambe.
Per un poco si tenne in tasca i suoi moncherini, fissandomi, con la bocca leprina accomodata all’atto di fischiettare. Ma poi cominciò ad accompagnarsi e sfoderati gli unghioni neri della orribile mano tra d’uomo e d’avvoltoio, si grattava la pancia, come se invece d’una pancia fosse una chitarra. In realtà era una pancia, sordida e intimpanita; e io non avrei saputo dire che cosa m’imbarazzasse più, se l’ostinazione di quei grossi occhi vitrei d’uccello col loro sguardo antidiluviano, o l’oscenità della ventraia che pareva insaccata di stoppa e spelata sulle ricuciture, come la pelle di una mummia tignosa.
Lo vedevo contro il sole, contro il sole più civico, più domestico: apparizione ributtante nella cui forma era un segno diabolicamente sovvertito della mia forma, confuso agli avanzi e alle rovine d’epoche condannate. E non capivo la necessità di rievocare, nel cerchio delle case e degli orti, cotesti spettacoli tenebrosi e irrimediabili, e non potevo capacitarmi per quale avvelenata curiosità e libidine di distruzione mi fossi fermato e fossi entrato.
Allora tra i ferri da un’altra gabbia scivolo qualcosa di flessuoso e formidabile, come un floscio serpe azzurrastro. Si mise a tastare nell’erba e nel fango avendo trovato quel che cercava si risollevò in spirali verso una lurida fessura triangolare che sormontava un gozzo appuntito, con pochi peli di barba.
Era un mostro calvo, a forma di montagna, che schizzava rosso dall’occhio suino e sventolava le orecchie smerlate come larghe foglie acquatiche, scrollandosi sulle colonne delle zampe avvinte di catene e schiacciate sotto il peso della mole rugosa che si sarebbe potuta credere coperta di minutissimi segni egiziani. Mi dissero che si dondolava così da almeno duecent’anni. Era nato al secolo che gli uomini andavano in parrucca e la moda prescriveva alle nostre avole i pennuti turbanti all’uso di Persia. Gli erano rotolati sul dorso i terremoti e gli sfaceli, le rivoluzioni, gl’interregni e i galoppi delle cavallerie di Napoleone. E aspettava tuttavia, dicendo di no dalla punta della proboscide al codino arroncigliato.
Io ho conosciuto gli elefanti storici. Quelli di Ramsete e quelli di Psammetico, quelli di Kipling, di Pirro, e il pulcino di piazza della Minerva. Ma cotesta massa senza tempo pareva lì a negare il Tempo, col suo scrollo inutile e colossale; e addirittura a stritolare e sperdere anche il piccolo, lo straziante, piccolo tempo che m’è toccato, che rodono e consumano dentro di me tanti altri avversari. La cupola della sua groppa montava violenta come una nuvola nera. Una nuvola di pietra che volesse otturare il cielo.

In questa breve rassegna di autori rondisti non può mancare Riccardo Bacchelli (1891 – 1985), autore poliedrico toccò varie tipologie sia artistiche che critiche. Per le prime dà cita ad una serie di romanzi che vanno dal registro ironico a quello psicologico (Una passione coniugale) o a quello storico (Il diavolo al Pontelungo), ma la sua penna si esercitò anche nella critica letteraria, con saggi su Fogazzaro,  Leopardi e Manzoni. Si occupò anche di critica musicale. Il suo capolavoro è un poderoso romanzo storico, in tre volumi, Il mulino del Po.

IL SALVATAGGIO DI CECILIA

Era dunque la piena lunga del ’39, e a bordo del San Michele appiardato provvisoriamente a ridosso della punta, i quattro uomini si alternavano alla guardia della corrente. Tre sfaccendavano sotto la loggia e attorno ai palmenti, o dormicchiavano pigri e svogliati, perché il vento, continuo già da due mesi da ostro e da scirocco, or più greve e fastidioso or più spiegato e rabbioso, sempre afoso, gravava il cervello e ammolliva le gambe, e, rendeva stanchi e sudaticci per la minima fatica. Quello che stava alla guardia sull’andialetto, addossato alla parete, con un arpione di lungo manico a portata di mano, ravvolto nel ferraiuolo, prendeva la pioggia e guardava annoiato ciò che veniva giù per il fiume, ma specialmente se la secca il pennello della Guarda teneva duro contro il rodio del fiume paziente furioso. Codesta secca e quel pannello di gabbioni, infatti formavano la punta di cui era protetto il mulino.
Dalla lanca, dove l’acqua a momenti ridondava e girava a ritroso in tondo su se stessa, di modo che l’ulà si fermava, quasi stanca; dal mulino, si scorgeva la corrente, l’immane flusso della piena, fremere ribollire infuriando sulla punta, scrosciare e rimbalzare, fuggire con una fila di gorghi e di risucchi avidi e astiosi, che segnavano il margine fra le acque vive grosse del filone, e le semimorte della lanca.
Affioravano e affondavano, veloci, i più diversi oggetti; e qualcuno veniva spinto dalla corrente dell’acqua pigra, aggirato a lungo, respinto e ripreso. Potevan diventare pericolosi, se un mutamento del letto venisse a buttare contro il mulino tutta o parte della corrente; erano tronchi d’albero, barche perdute, e masserizie e carri colonici anche, o caduti dagli argini su cui la gente spaurita s’accalcava con le sue robe, o rapinati dal fiume nelle golene o nei campi invasi; eran carogne di animali domestici e di stalla, sordide e sconce, ben tristi, coinvolte e travolte.
A Lazzaro, quella furia paziente degli elementi ricordava, guardando il fiume, una cosa lontana nella memoria, e che non sapeva ritrovare. La ritrovò, quando le giornate marcie di quel novembre sciroccale si fecero così brevi e buie sotto la cupa nuvolaglia, che il giorno pareva sorgesse soltanto per annotare. Tali giornate gli rammentarono le Russie. Il torbido scirocco, che gonfiava e ostacolava il fluire della disperata vena del fiume, che assiepava le acque adriatiche contro le foci del Po, lavorando così alla perdita del paese, era nemico degli uomini, come i geli spietati di quell’atroce inverno della ritirata da Mosca. Il Po insidioso riportava lui al Vop micidiale, e a quel giorno disastroso della sua giovinezza avventurosa.
Ed ecco un grosso natante, ben più grosso dei soliti, veniva giù giù col fiume. Era un mulino. Scansò, come volle fortuna, la punta, contro la quale ci sarebbe sfasciato, e tra il ribollio della ribattuta e l’onda della corrente libera, per un istante rullò col sandoncello e beccheggiò col sandon grande, fra due acque, simile a un cavallo riottoso e bramoso, tenuto a freno, che si tramuta fremendo d’una zampa sull’altra, e su tutte scalpita e balza. Così lo videro, trabalzato e conteso dalle due acque sulla punta che dirompeva il fiume; e subito che fu ripreso dalla corrente e rientrò nel filo, strapoggiò, si mise in traverso, diede di banda, sicché sembrò dovesse ribaltarsi, camminando per fianco travagliosamente. Poco andò, che ridrizzato dal fiume, mise le prore sulla via d’andare a investire la proda opposta alla svolta, il che sarebbe avvenuto senza scampo, se l’abbrivo impressogli dalla corrente non l’avesse sviato d’improvviso nelle acque torbide della lanca.
Schiavetto era saltato sul sandalo con un’ ancorotto, e raggiungeva il relitto, e l’ancorava. Poi tutti e quattro, a forza di remi, colla barca lo rimorchiarono al sicuro. Ma sbandava dalla parte del sandon grande, mezzo pieno d’acqua e aggravato dalle macine; del resto, pur essendo di antica costruzione, appariva robusto e ben conservato. Perché non andasse a fondo, era urgente arenarlo; la qual cosa fu fatta. Vi salirono poi Giuseppe e Schiavetto. Scacerni, con Malvasone, aspettava sul sandalo. Sentì un’esclamazione di meraviglia, e vide comparire Schiavetto con una giovinetta fra le braccia, fuori dai sensi.
Ecco quattro uomini impacciati. Era tutta bagnata indosso, e doveva essere sfinita dal freddo e dallo stento. Il viso emaciato ed esangue faceva gran pietà.
«Che sia morta?» disse Schiavetto nel calarla fra le braccia di Scacerni.
«Chi può mai dirlo?» fece Malvasoni «Le donne sono come i gatti.»
«Qui,» disse Scacerni «ci vuole aiuto di donne: la porto da Venusta Chiccoli. Schiavetto, sellami il cavallo.»
Sbarcarono, e Schiavetto corse a sellare il cavallo del padrone legato a un alberello sulla riva. Poco dopo, Scacerni trottava, colla svenuta in braccio, verso la Guarda.
Messa a letto fra panni di lana e bottiglie d’acqua calde, Venusta la soccorse, la ravvivò, la rianimò con l’aceto dei sette ladri. Si riscosse finalmente la poverina con un profondo sospiro, e tornò a svenire due volte, ma, riaprendo gli occhi per la seconda, già cercava e distingueva a quelli affettuosi e seri della Venusta, che le porgeva un cordiale. Sorrise un poco, e colla poca voce che poté avere trasognata:
«Dove sono?» domandò.
«Fra amici, non vi affannate,» le diceva Venusta.
Era visibile in quegli occhi uno stupore così grande e strano, che Venusta ebbe un’inquietudine e disse a  Scacerni:
«Vive, ma che sia diventata matta, poverina? Ohi, ohi, che cosa succede adesso?»
Lo stupore della ragazza s’era cangiato in spavento, ed ella voleva levarsi, chiamava disperatamente, benché fievole e fiocca, il babbo. Poi sbarrò gli occhi, e rimase come tramortita.
Colla vita e la coscienza, tornava dolore che lei non aveva ancor la forza di dire né di concepire intiero, ma le si vedeva negli occhi pauroso.
«Ve l’andiamo a cercare,» le diceva Venusta «ve lo mandiamo a chiamare il babbo: diteci di dove venite, dov’era la piarda del vostro mulino. Poverina, le sta venendo un febbrone, e non vorrei che il cervello non reggesse,» soggiunse rivolta a Scacerni, che assisteva impietosito. «Non mi piacciono questi occhi invetrati: sarebbe meglio che piangesse si disperasse. Diteci dunque, poverina: chi era, come si chiamava vostro padre?»
Quasi che ridestandola al dolore la richiamasse alla ragione, ruppe in un pianto disperato.
«Meglio questo,» diceva la Venusta lasciandola sfogare, «è molto meglio così. Poverina, poverina … Dunque» soggiunse quando i singhiozzi cominciarono a placare un poco, «che cosa possiamo fare?» Fece di no con la testa e disse sconsolata:
«Nulla. Vi ringrazio. L’ho visto morire.»
«Dove? Quando?»
«Nel fiume.»
Più tardi raccontò. Si chiamava Cecilia, unica nata di un Rei, mugnaio, che viveva solo, con lei sola, vedovo della madre morta nel partorirla, sul vecchio mulino appiardato in un tratto solitario di un fiume, contro una proda di golena larga, imperdia e selvosa. Codesto misantropo Rei scendeva a terra soltanto per necessità e rarissime volte, e la figlia non l’aveva lasciata sbarcare nemmeno una volta, fosse gelosia dell’indole, o stravaganza del cervello, o altra ragione che nessuno avrebbe mai più saputo. Certo le aveva voluto un gran bene dell’anima, e giudicando col senso comune, un bene pazzo. Da bambina e da ragazzina, Cecilia era cresciuta senza conoscere altro di umano fuor che codesta passione paterna, che s’adombrava di qualunque parola le fosse rivolta dai contadini che venivano a far macinare, o dalla gente che passando in barca la scorgeva di lontano e la salutava. E tanto bastava per rannuvolare il Rei, che le raccomandava di non rispondere, di non guardare, di non farsi vedere, di rientrar subito nella casa del sandoncello. La passione aveva infatti dato anche più nello strano col crescere della figliuola, e col crescer bella d’adusta e vigorosa bellezza bruna; tanto più quanto lei mostrò di saperlo, perché non conoscesse l’uso degli specchi. A che serviva, le diceva il padre, esser bella? Brutta, le avrebbe voluto anche più bene, e sarebbero stati più tranquilli. “Perché, chiedeva lei perché di sì, rispondeva lui.

Il brano ci offre la possibilità di analizzare l’opera di Bacchelli da due punti di vista:

  1. Tematico: la scelta del romanzo storico il cui vero protagonista dell’intero romanzo è il Po. Grazie ad esso si svolge la vita di ben tre generazioni e qui, in questo breve estratto, ne abbiamo chiarissima dimostrazione: s’inizia con il salvataggio di un mulino, grazie ad esso si trova semiassiderato il corpo di una giovane donna, la quale, perso il padre, travolto dal fiume, troverà nuova vita accolta dai due vecchi;
  2. Stilistico: Bacchelli mescola sapientemente terminologia tecnica con parole auliche, prese dalla forma classica. Anche il periodare è ampio, denotando il gusto per un argomentazione ariosa. Non mancano inoltre varie figure retoriche come la dittologia, l’allitterazione e metafore.

Solaria

Esaurita l’esperienza rondesca, le sue istanze furono proseguite da Solaria (1926 – 1936): se La Ronda aveva puntato il suo interesse sulla ripresa classica della tradizione (basti l’esempio di Bacchelli), questa rivista intendeva allargare lo sguardo verso le grandi forme letterarie europee nate tra l’Ottocento e il Novecento. Essi infatti guardarono con interesse alla narrativa russa di Dostoevskij, alla francese di Proust, alla tedesca di Mann e, d’estremo interesse per il nostro discorso (si ricordi che siamo all’interno del fascismo) quella ebraica di Kafka. Se la rivista poté – pur guardata con sospetto dalle gerarchie del regime – passare indenne dieci anni, fu il suo chiudersi all’interno della letteratura, censurando ogni forma d’interesse verso l’esterno.

Come esempio osserveremo l’opera di Giovanni Comisso (1895 – 1969). Affascinato dalle esperienze più diverse (fu commerciante, mercante d’arte, libraio, avvocato) e soprattutto dalla libera vita di mare, espresse le sue qualità poetiche in racconti, libri di ricordi e nelle corrispondenze giornalistiche. La sua produzione narrativa va da Il porto dell’amore ristampato nel 1928 col titolo Al vento dell’Adriatico, Gente di mare del ’28 e vari racconti. Scrisse anche saggi, tra cui il più famoso è Il mio sodalizio con De Pisis. Fu scrittore d’istinto che consegnò alla pagina l’esperienza di una vita trascorsa come meravigliosa, felice avventura.

Il maggiore esempio della sua capacità di rappresentare reale con acuta sensibilità visiva è Giorni di guerra pubblicato nel 1930, dove egli trascrive con efficacia le impressioni più elementari dell’esistenza che scorre nelle ore di sole di vento, nella fatica e nel riposo.

LA RITIRATA DOPO CAPORETTO

Il paesetto dove avevamo pernottato si chiamava Fagagna. L’alba era umida, la strada fangosa, ma non pioveva. Il nostro passo si risvegliò sulla strada con un’ energia che non ci doveva mancare. Si andava verso Bonzicco per passare il Tagliamento. La strada era deserta, da prima dava piacere perché si poteva camminare spediti, poi finì per impressionare. Nessun soldato, nessun carro per la strada diritta fiancheggiata da acacie, tutta arata dalle ruote dei carriaggi. Nella notte mentre noi si dormiva, tutti se ne erano andati. Si pensava di avere troppo ritardato, così da essere proprio gli ultimi di tutto l’esercito in ritirata. Non avevamo armi, eravamo in pochi e all’apparire dietro di noi dalle prime pattuglie nemiche non potevamo che arrenderci. Ognuno doveva essere dominato da questo stesso pensiero, ma nessuno osava comunicarlo, il passo dei miei soldati sul fango lamentoso si era fatto agitato, per dare la calma scesi dal mulo e merciai con loro. Indispettito contro quel fango più non sentivo l’acqua entrarmi per le suole consumate. Se volgevo lo sguardo verso i miei soldati, era anche per guardare in fondo alla strada deserta se apparisse qualcuno e al mio insistere, anche qualche altro si voltava a guardare. La luce bieca e la terra disfatta dall’autunno non potevano essere più favorevoli a un episodio di arresa o di sterminio, ma al prossimo paese le donne che portavano il latte dalle stalle a una fabbrica di burro, ci tolsero ogni ansia.
Si seppe che il ponte di Bonzicco era crollato nella notte trascinato dalla piena: per questo nessuno percorreva quella strada. Ci rimaneva allora solo da puntare verso Codroipo per passare il Tagliamento sul Ponte della Delizia. Presa una piccola strada, si camminò a lungo nel livido della giornata senza sole, lasciandoci abbandonare a un passo dolce. La distanza non era grande, ma assecondati dalla buona strada si percorse di certo una deviazione immensa, perché solo verso sera si arrivò in vista del Tagliamento e ancora distanti una decina di chilometri dal ponte.
Trovammo da poterci riposare in una casa assieme a un gruppo di allievi ufficiali, giovanissimi e distinti. Se ne andavano beati all’avventura. I contadini ci fecero la polenta, avevo il burro comperato al paese attraversato nella mattina e i miei soldati si arrangiarono con i polli rubati. Dormimmo nella stalla e alla mattina, dal mio giaciglio, scorsi gli allievi ufficiali reclinate le teste leggiere nel respiro dell’ultimo sonno. L’alba illuminava, tra la camicia aperta, il loro petto bianchissimo. Le voci allarmate dei miei soldati, dal cortile, li destarono. Si diceva che gli austriaci fossero arrivati con gli auto cannoni a Bonzicco. Verso le montagne il cannone sparava lento, pesante e tetro. Il Ponte della Delizia non distava molto e ci mettemmo in cammino sicuri che al di là del Tagliamento si sarebbe finalmente terminato il marciare.
Un rumore continuo di motori, di carri, di voci  e di passi si sentiva avvicinandoci al ponte. La strada era ingombra. Un cannone, sfasciata una ruota, ostruiva il passaggio. Molti, stanchi di attendere, abbandonavano gli autocarri e proseguivano a piedi: signore con poca roba assieme ai soldati, una fila di soldati ammanettati, con paia di scarpe nuove da borghese appesa al collo, qualche ufficiale superiore solo con una valigetta, prigionieri austriaci che se ne andavano liberi. Tutti venivano svelti per passare il ponte. Si temeva di non riuscire e il terreno sul ponte era così consumato che già apparivano le travi. Il ponte vibrava il passaggio. Sotto l’acqua tumultuava nella piena. Un aeroplano cadde tra sfracellandosi su di un ghiaione. Una carretta davanti a noi con una ruota sterzata e immobilizzata proseguiva ancora scavando il fango. Il ponte vacillava. Non si credeva resistesse. Un cavallo, stramazzato a terra, più non si rialzava e venne buttato nel torrente. La ruota sterzata resisteva. Ancora pochi metri e si sarebbe arrivati all’altra riva dove si riteneva di trovarci del tutto al sicuro. Il terreno più non vibrava sotto i nostri piedi. Il ponte era finito.
Come un’altra aria era di là. Qualcuno fermo ci guardava arrivare e sorrideva. I campi vicini erano invasi da soldati che accendevano fuochi. Uno si era messo a radere barbe all’aperto. Altri tiravano su da un fosso un cavallo morto e già preparavano le baionette per dividerselo. Ritrovammo il nostro carrozzino e subito ci rifornimmo. Gli altri soldati, vedendo la nostra abbondanza, venivano a domandarmi di aggregarsi alla mia compagnia.
Si cercò una casa dove passare la notte e, poco lontano dal fiume, trovammo in fondo a una stradetta una grande casa di contadini. Il cortile era pieno di soldati, altri apparivano nella cucina, alle finestre, nella stalla, al di là della siepe nei campi. Alcune donne molto calme pensavano a procurarci qualunque cosa si chiedesse. Per nulla si preoccupavano alle innumerevoli richieste. Parevano abituate a servire molta gente. Volevamo una grande pentola per cucinarvi galline, conigli, carne delle scatolette e anche un piccolo maiale. Alcuni già si erano disposti a spennacchiare, a spelare, a scuoiare e a tagliare a pezzi. Altri presero un grande carro piatto per usare come tavola e vi portarono le stoviglie e il vino. Il fuoco fu acceso sotto la pentola. Molti venivano a guardare più che curiosi e allora parve necessario farci tutti vicini alla pentola pronti a difenderla. Specialmente alcuni soldati napoletani insistevano ad annusare l’odore dell’intingolo, ma dai napoletani del mio plotone e specialmente da un sergente che aveva una voce dolcemente modulata vennero consigliati di girare al largo. Al cominciare della sera si attaccò a cenare, qualcuno disse che non si vedeva, allora si chiese alle donne un paio di candele si ebbe anche queste.
Dai campi vicini veniva il grande brusio degli accampati, sovente si accendevano risse e scoppiavano bombe lanciate per spaventare i contadini e potere rubare galline, se ancora ve ne erano.
Dopo cena andammo a dormire in un grande fienile vicino alla casa quasi con il pensiero che non ci si sarebbe mossi per un bel pezzo. Altri soldati dormivano affondati nel fieno e bisognava stare attenti a non pestarli, qualcuno accendeva un cerino e subito si gridava di non dare fuoco. Altri continuavano ad arrivare, molti a coppia, di armi diverse, neanche compaesani, compagni di viaggio di ventura incontratisi sulla stessa strada, decisi di arrangiarsi assieme, presi da inattesa simpatia. Il sergente napoletano era venuto a dormire vicino a me quasi nella stessa buca e mi sarebbe piaciuto andare con lui, così come quelli che sopraggiungevano, preso dall’incanto della sua voce sommersa come in un vago rancore e parlante di più nell’eco che suscitava attorno ai suoi occhi.
All’alba, mentre gli altri si rialzavano per partire, dal cortile gridarono di sloggiare presto, perché si stava per far saltare il ponte. Si diceva che gli austriaci fossero arrivati sulla riva opposta e avessero iniziato scariche di mitragliatrice. Tutti si precipitarono sulla strada, una colonna di artiglieria stava ferma senza poter proseguire. Pareva tutti avessero riposato molto bene, gli ufficiali a cavallo andavano su e giù presi dal piacere del sole che li avvolgeva sull’alto delle loro selle. Uno gridò a un soldato: «Torna all’ albergo che vi ò dimenticato il fustino della mia camera».
A stento si riuscì a passare ed eravamo già avanti sulla strada quando dietro a noi s’intese il fragore delle mine che rompevano il ponte. Si arrivò a Pordenone, qualche bandiera smorta pendeva dalle finestre chiuse delle prime case del paese. Come fosse mercato le strade erano affollate di donne che avevano ritrovato tra i soldati i loro mariti o parenti e di soldati che insistevano nei caffè e nelle botteghe a ricercare qualcosa da mangiare. Davanti a un negozio di pizzicagnolo, dove non vi era più niente, un soldato, rotto con il calcio del fucile un vetro che copriva un breve strato di pasta messo per mostra, raspava con le mani nere e mangiava quella roba cruda e insecchita dal sole. Altri cercavano in grandi vasi di peperoni, ma nulla riuscivano a pescare nella brodaglia, che poi qualcuno osò bere. Un gruppo di carabinieri armati e furibondi, si fece largo tra la folla, trainando un carretto pieno di sacchi di pane. Avevano prelevato questo pane per loro dai magazzini della stazione. Si tenevano pronti alla difesa e mai erano apparsi minacciosi a tale punto. Minacciavano come uomini e come carabinieri. E se la folla li lasciava passare, poi però li inseguiva con urla: «Voi sì, camorristi, avete avuto il pane». «Venduti, sempre ingrassati». Anche le donne gridavano e mostravano i pugni, fiere di avere trovato i loro uomini, che presto si portavano a casa per vestirli subito da borghesi. Un soldato della mia compagnia che ci aveva preceduti ed era di quel paese, lo ritrovai vestito così. Era padrone di un caffè e nella retrobottega ci offerse, a bicchieri da vino, un dolcissimo liquore ricostituente. Tutti ne riempimmo le borracce. Mi assicurava che appena messa a posto la famiglia, ripresa la divisa, ci avrebbe subito raggiunti e mi regalò una bella bottiglia di liquore che infilai nella tasca del cappotto. Per le strade era l’inferno, e si continuò a marciare.

“Il ritmo narrativo, serrato e senza indugiare ad un facile descrittivismo, scandisce il racconto in brevi e concentrate unità sintattiche. La paratassi è lo strumento della rappresentazione comissiana, che allinea sapientemente le immagini l’una dietro l’altra, e le accumula senza gremire e opprimere la pagina, lasciando ad ognuna una funzione autonoma. La semplicità della tecnica narrativa contribuisce ad incidere un quadro di drammatica forza, in cui gli eventi si succedono angosciosamente, per una sorta di logica conseguenza e tuttavia non appaiono mai scontati o prevedibili, ma si rivelano con l’evidenza di una naturalezza assoluta”. (Scrivano)

Ermetismo

Con il termine “Ermetismo” s’intende un movimento poetico, nato a Firenze ed operante intorno agli anni ’30, che, riunitosi intorno alla rivista “Campo di Marte” dà vita ad un tipo di poesia che, sulla scia del simbolismo di Valery, ne accentua il valore, arrivando ad un dettato che a volte, grazie all’analogia, può apparire oscuro.

Il termine venne dato dal critico Francesco Flora che in un saggio del ’36, inserì in tale movimento gran parte dei giovani poeti, da Ungaretti a Montale. Egli utilizzò tale definizione in modo negativo, ma fu Carlo Bo, in quello che potremo definire come il manifesto di tale poetica, “Letteratura come vita”, ad appropriarsene: d’altra parte fu proprio il leggendario Ermete Trismegisto a scrivere “testi ermetici”, con un fondo di religiosità ed orfismo, di derivazione neoplatonica.

Essi furono alla ricerca di una “poesia pura”, fornita di un linguaggio essenziale, spoglia di qualsiasi abbellimento estetico. Il suo fine è quello di superare i limiti della finitezza mondana e trascendere verso l’assoluto: da qui il senso mitico/religioso dell’esperienza poetica.

Di qui l’importanza data alla “parola”: solo essa è in grado di evocare affinché possa giungere all’essenzialità di un significato, (grazie al suo portato polisemico) da condividere con il lettore.

Non importa cioè cogliere il significato, ma la condivisione dell’esperienza tra il poeta e colui che usufruisce del testo poetico: tendere insieme verso l’assoluto.

Per riassumere potremo definire i principali aspetti della poesia ermetica:

  1. L’azzardo del nulla, la tensione verso ciò che non si può dire, il silenzio e l’assenza;
  2. Ricerca di purezza e assolutezza del linguaggio;
  3. Valore salvifico ed evocativo della poesia, fino ad esiti religiosi
  4. “Rendere nuda” la parola, togliendo l’articolo e scegliendo termini vaghi e indeterminati;
  5. L’uso insistito dell’analogia e della sinestesia;
  6. Lessico raro e colto;
  7. L’utilizzo di metri tradizionali e forme chiuse come il sonetto.

Qualcuno ha definito l’Ermetismo come una forma attraverso cui alcuni intellettuali si opponevano al regime. Certo la mancanza di magniloquenza e di retoricità, la ricerca di un’arte che valesse per se stessa e non avesse valore civile, può certamente apparire come forma antifascista. Ma è pur vero che l’essenzialità ungarettiana (accademico d’Italia, iscritto al Partito fascista) ed i versi montaliani (così espressamente antifascisti, per non parlare della sua firma nel Manifesto crociano) non esularono loro dal prendere posizione; il loro Aventino, come in parte i rondisti, non esaltò ma neanche disturbò la politica del duce.

Tra i maggiori ermetici ci piace ricordare Salvatore Quasimodo (1901 – 1968), poeta siciliano. Fra le sue più importanti raccolte poetiche ricordiamo Acque e terre (1930) e Oboe sommerso (1932). Nel 1942 la terza raccolta poetica, Ed è subito sera. Dopo la guerra la sua poesia si apre a temi maggiormente civili, come nella raccolta Giorno dopo giorno. Alcuni ritengono che il suo capolavoro sia la traduzione dei Lirici greci, del ’40. Nel 1956 viene insignito del premio Nobel per la letteratura.

VENTO A TINDARI

Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima

A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.

Vento a Tindari è una poesia sull’assenza, sulla lontananza determinata dall’esilio del poeta, guardiamo le stanze, una per una:

  1. il ricordo di Tindari e del suo clima mite invade il cuore del poeta;
  2. mentre sta con amici sull’alto di un monte, il richiamo del paese natio lo invade, con i suoi suoni ed amore, mentre ora c’è ombra e morte nel cuore;
  3. Tindari non sa dov’è che il poeta scriva i suoi versi;
  4. L’esilio è aspro, di contro all’armonia che il suo paese gli offriva;
  5. Un amico gli indica il precipizio, il poeta finge di aver timore per nascondere l’emozione del ricordo.

Il testo ha come parola chiave, già dal titolo il “vento” (v. 7 “vento dei pini”; “vento che m’ha cercato”). Già dal primo caso questo vento esula da un aspetto puramente atmosferico, per acquistare un valore analogico, (vento che attraversa gli alberi, ma che inoltre lo conduce lontano, verso il recupero di un mondo lontano, dove ha lasciato i suoi affetti). La ricerca delle parole e della loro disposizione nel testo è ricercatissima, l’analogia presente nel testo si ottiene attraverso spostamenti lessicali (iperbato) accostamenti di percezioni lontane (sinestesie), metafore. Inoltre la scelta delle stesse rimandano ad un senso di profonda vaghezza sentimentale.

I richiami alla classicità sono presenti: la mitizzazione dell’isola, ad esempio. Ma più ancora è il riferimento dantesco nella terza strofe.

OBOE SOMMERSO

Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.

Un oboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;

In me si fa sera:
l’acqua tramonta
sulle mie mani erbose.

Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,

e i giorni una maceria.

Forse uno dei tentativi più estremi dell’analogia, tanto che il critico De Robertis parlò di un vero e proprio non-sense.  Eppure a leggere bene potremo intuire un momento d’attesa, il suono di un oboe sommerso, parole poetiche lontane, di felicità, dette da un altro. Per lui tale gioia non c’è; il cuore vola lontano dal luogo in cui era felice, è la realtà odierna è solo “maceria”.

ED E’ SUBITO SERA

Ognuno sta solo nel cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

Julian Peters: Poeti italiani

“Il componimento si basa su una fulminea immagine di solitudine esistenziale dell’uomo, siglata dal fatale e rapido sopraggiungere della morte. Quasimodo riesce a condensare in tre versi tutta la tragedia della condizione umana:

  1. la vita è breve
  2. ma la luce è accecante ed intensa
  3. e subito arriva la sera, cioè la morte

Soprattutto il poeta insiste sulla solitudine (“Ognuno sta solo”), sconsolata e senza scampo, che non è soltanto dell’uomo ma di ogni creatura. L’uomo viene così escluso da un mondo di sentimenti e di valori cui è vanamente proteso nell’illusione di ritrovare frammenti di se stesso (“sul cuor della terra”). Nel secondo verso si assiste a un capovolgimento del termine sole che perde l’accezione positiva e vivificatrice e si trasforma in strumento di dolore e di inesorabilità (“trafitto”). Attraverso l’uso della congiunzione copulativa (“ed è”) la luce del sole del secondo verso denuncia la sua inconsistenza: si genera un rapporto di continuità con il termine sera, assunto a metafora della morte. In tal modo sia il sole sia la sera diventano allegorie della perdita e della sconfitta esistenziale”. (Corrado Bologna)

Mario Luzi

L’altro grande poeta la cui produzione iniziale si può iscrivere all’ermetismo è Mario Luzi (1914 – 2005). Sin da giovane egli è mosso da una profonda spiritualità cattolica che lo fa avvicinare ai grandi poeti trecenteschi Dante e Petrarca. Luzi traduce da queste matrici culturali la tensione della ricerca di tensione verso la pienezza di uomo e spirito. Tale tensione, tuttavia, non sempre viene esaurita: ed ecco allora che la sua poesia diventa registrazione di tale lotta: storia contro assoluto, tempo contro eternità, decisione contro indecisione.

La raccolta poetica con la quale esordisce è La barca, pubblicata nel 1935:

ALLA VITA

 Amici ci aspetta una barca e dondola
nella luce ove il cielo s’inarca
e tocca il mare, volano creature pazze ad amare
il viso d’Iddio caldo di speranza
in alto in basso cercando
affetto in ogni occulta distanza
e piangono: noi siamo in terra
ma ci potremo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
come rose dai muri nelle strade odorose
sul bimbo che le chiede senza voce.

Amici dalla barca si vede il mondo
e in lui una verità che precede
intrepida, un sospiro profondo
dalle foci alle sorgenti;
la Madonna dagli occhi trasparenti
scende adagio incontro ai morenti,
raccoglie il cumulo della vita, i dolori
le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita.
Le ragazze alla finestra annerita
con lo sguardo verso i monti
non sanno finire d’aspettare l’avvenire.

Nelle stanze la voce materna
senza origine, senza profondità s’alterna
col silenzio della terra, è bella
e tutto par nato da quella.

La poesia inizia con un invito dantesco, quel famoso “Guido, i’vorrei che tu Lapo ed io”, diventa un “Amici, ci aspetta una barca”, quindi il richiamo verso loro di cercare con affetto Dio, ma tale affetto è insufficiente. Nella seconda strofa l’invito è nel guardare il mondo ed il tempo del mondo che fluisce. Ma scende la Madonna a raccogliere i desideri e i dolori degli uomini: la styanza si chiude con ragazze alla finestra che aspettano l’avvenire. Infine una voce senza origine, materna che ci parla alternandosi con quella della terra: sono loro ad averci donato la vita.

 

 

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