I CREPUSCOLARI

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I crepuscolari

Se, in modo banale, potremo dichiarare la paternità del futurismo a D’Annunzio (nei suoi aspetti vitalistici, nell’amore – non sempre lineare – per la macchina e l’aeroplano, per il suo concetto politico, imperialista ed interventista), potremo dire che la poesia, giocata in minore da Giovanni Pascoli, possa essere ritenuta l’antecedente più immediato per quella che Giuseppe Antonio Borgese definì “poesia crepuscolare”.

Certo, detto così sarebbe un po’ troppo semplice: d’altra parte non mancano momenti magniloquenti nella poesia pascoliana (si pensi alla lirica da poeta vate) e momenti intimistici in D’Annunzio (basti vedere il suo Poema paradisiaco, fonte primaria oserei dire per i Crepuscolari).

In verità se i due modelli s’imponevano quasi obbligatoriamente, la loro musa bisogna ricercarla nella poesia un po’ provinciale ed estenuata dei tardo simbolisti belgi, primo fra tutti Maeterlinck, che insegnò loro quel senso di decadenza fisica ed impotenza verso la vita che i maggiori esponenti di questa scuola tradussero in modo singolare.

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Maurice Maeterlinck

Se infatti possiamo definire scuola quella scapigliata, dovremo dire che i suoi componenti non si frequentarono in modo diretto, ma “decisero” quasi simultaneamente di superare il simbolismo non “intellettualmente”, quanto inconsciamente operato dal Pascoli e la poesia ore rotundo di D’Annunzio.

Le poesie di questi primi anni del Novecento si richiamano a temi più o meno condivisi da tutti e, come già il crepuscolare/futurista Palazzeschi, mettono in discussione il ruolo di poeta nella società che s’avventura verso la Prima guerra mondiale.

Essi cantano soprattutto la vita di provincia, il senso di malattia, le piccole aspettative della borghesia non altolocata, i suoni usurati: cioè tutte quelle cose che le buone donne del tempo solevano mettere nel solaio e che con una sola espressione potremo definire con termine gozzaniano “piccole cose di pessimo gusto”, così come dice in L’amica di nonna Speranza. E’ per questo che il Borgese l’ha chiamati crepuscolari: poesia al crepuscolo, nell’incipiente sera, tra stanchezza e malinconia.

Il primo, colui che si può definire come il caposcuola dei crepuscolari è Sergio Corazzini, non perché ne avesse coscienza, ma perché in una lirica tratta da Piccolo libro inutile (1906) detta la poetica dell’intera scuola:

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Sergio Corazzini interpretato da Giuseppe Di Mauro

SERGIO CORAZZINI
DESOLAZIONE DEL POVERO POETA SENTIMENTALE

I
Perché tu mi dici: poeta?

Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?

II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.

III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tremare d’amore e d’angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

V

Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.

VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.

VII
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.

VIII

Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per essere detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.

In Corazzini troviamo forse l’espressione più chiara (anche se forse un po’ troppo ingenua) di ciò che il crepuscolarismo intendeva per poesia in “minore”, contrapposta certamente a quella dannunziana. Ma il poeta pescarese non è cancellato del tutto: se il suo alter ego, Andrea Sperelli, per ordine del padre, vive la propria vita come fosse un’opera d’arte, risulta evidente che anche il giovanissimo Corazzini, malato di tisi, prossimo alla morte, facesse della propria vita un’opera, non si sa se d’arte, ma di poesia. Infatti il giovane poeta romano sin da giovanissimo ebbe una vita travagliata, determinata dalle speculazioni paterne che portarono la famiglia dal benessere alla povertà e dalla malattia che colpì lui ed il fratello, morti, appunto, giovanissimi (Sergio aveva appena 21 anni).

Anche lui, come D’Annunzio nella Pioggia nel pineto, parte da una prima persona rivolgendosi ad un tu (in D’Annunzio Ermione) immaginario. Ma il giovane poeta in primo luogo si rivolge a se stesso: tono sommesso, riferimenti religiosi lasciano trasparire dolore, malinconia e rimpianto. Sembra quasi che, abbandonato ogni tipo di spiritualismo di maniera, il poeta si lasci per così dire morire in comunione silenziosa e intima con Dio.

Perché il titolo? La Desolazione esprime condizione esistenziale del poeta stanco di vivere e la poesia è fatta di sentimenti comuni, come semplice (povero) è l’animo del poeta espresso con stile prosastico.

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Marino Moretti

Altra la vita di un altro esponente che iniziò la sua attività come poeta crepuscolare, Marino Moretti. Visse infatti a lungo, tanto da attraversare varie fasi letterarie (oltre che poeta fu romanziere e conobbe e fu a contatto con scrittori come Aldo Palazzeschi e Federigo Tozzi). La sua fase crepuscolare la ascriviamo a quattro raccolte poetiche: Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911), i Poemetti di Marino (1913) e Il giardino dei frutti (1916) da cui prendiamo quello che è considerato il suo capolavoro:

A CESENA

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.

Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia della casa senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì , sorella

che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella la tua vita; bella,

bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora o sposa,
io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;

so che quell’uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolento,
il babbo che ti vuole un po’ di bene.

“Mamma!” tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,
che le parli dei miei vïaggi, poi…

poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,

quando, come, perché; ripeti ancora
quando, come, perché; chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo, di nuora.

Parli di una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch’è quasi al tramonto
il nonno ricco del tuo Dino, e dici:
“Vedrai, vedrai se lo terrò di conto”;

parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d’amor proprio, d’amore.

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui,
tutta d’un uomo ch’io conosco appena,

tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me parla… così,
senza dolcezza, mentre piove o spiove:

“La mamma nostra t’avrà detto che…

E poi si vede, ora si vede, e come!
sì, sono incinta… Troppo presto, ahimè!

Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome…
Ho fortuna, è una buona gravidanza…”

Ancora parli, ancora parli, e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. È tardi.

E l’anno scorso eri così bambina!

Poesia emblematica del crepuscolarismo: il critico Bárberi Squarotti la definisce poesia a grado zero: mimesi del parlato, prosaicità dello stile, enjambement e cesure del verso cercano continuamente di nascondere il “poetico” dietro una prosaicità e un dialogato che si distanziano in modo abissale dalla magnificenza dannunziana.

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Cesena inizio ‘900

In Moretti, a livello di riferimento possiamo trovare più che lo stile pascoliano un riferimento biografico: la rottura del nido familiare, sua sorella come Ida, che tradisce il nucleo originario: si osservi il climax ascendente Oh bambina, o sorellina, o nuora o sposa ad indicare il passaggio da compagna di giochi ad estranea. E si osservi ancora la pioggia, topos crepuscolare, che al contrario di quella dannunziana, che monda rimanda al grigiore di una vita senza senso.

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Guido Gozzano

L’esponente più importante del crepuscolarismo è certamente Guido Gozzano. Nato a Torino, nel 1883, non ebbe una vita con grandi avvenimenti. Sin da giovane cercò di emulare una vita (non una poesia) votata all’estetismo, vivendo una travagliata e chiacchierata storia d’amore con una poetessa fra le più conosciute di allora, Amalia Guglielminetti. Ma quel che traspare, anche tra le lettere dei due poeti, è quasi una volontà alla solitudine, dettata dal poeta, quella che potremmo definire, per usare un suo titolo, la Via del rifugio, in cui così lo stesso poeta definisce: ma dunque esisto! O Strano! / vive tra il Tutto e il Niente / questa cosa vivente / detta guidogozzano!. Egli attraversa l’Estetismo, lo ribalta, lo ironizza e in tal modo, più degli altri, attraversandolo (stessa operazione che farà Montale, lettore e ammiratore attento di Gozzano) apre le porte alla poesia maggiore del nostro Novecento.

Tutto ciò è ben presente in Totò Merumeni, nome che vuole riprendere ironicamente il titolo terenziano di una commedia Heautontimorumenos, in cui viene disegnato un velleitario e fallimentare imitatore a cui sarebbe piaciuto essere un po’ D’Annunzio, e si ritrova ad essere solo se stesso, cioè, traducendo il titolo della commedia latina, il punitore di se stesso:

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TOTO’ MERUMENI

I

Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei
balconi secentisti guarniti di verzura,
la villa sembra tolta da certi versi miei,
sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura…

Pensa migliori giorni la villa triste, pensa
gaie brigate sotto gli alberi centenari,
banchetti illustri nella sala da pranzo immensa
e danze nel salone spoglio da gli antiquari.

Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo,
Casa Rattazzi, Casa d’Azeglio, Casa Oddone,
s’arresta un automobile fremendo e sobbalzando;
villosi forestieri picchiano la gorgòne.

S’ode un latrato e un passo, si schiude cautamente

la porta… In quel silenzio di chiostro e di caserma
vive Totò Merùmeni con una madre inferma,
una prozia canuta ed uno zio demente.

II

Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.

Non ricco, giunta l’ora di «vender parolette»
(il suo Petrarca!…) e farsi baratto o gazzettiere,
Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette
ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.

Non è cattivo. Manda soccorso di danaro
al povero, all’amico un cesto di primizie;
non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro
pel tema, l’emigrante per le commendatizie.

Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti,
non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche
«…in verità derido l’inetto che si dice
buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti…».

Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca
coi suoi dolci compagni sull’erba che l’invita;
i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,
un micio, una bertuccia che ha nome Makakita…

III

La Vita si ritolse tutte le sue promesse.
Egli sognò per anni l’Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.

Quando la casa dorme, la giovanetta scalza,
fresca come una prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza
su lui che la possiede, beato e resupino…

IV

Totò non può sentire. Un lento male indomo
inaridì le fonti prime del sentimento;
l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo
ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento.

Ma come le ruine che già seppero il fuoco
esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,
quell’anima riarsa esprime a poco a poco
una fiorita d’esili versi consolatori…

V

Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima.
Chiuso in sé stesso, medita, s’accresce, esplora, intende
la vita dello Spirito che non intese prima.

Perché la voce è poca, e l’arte prediletta
immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va.
Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.

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Il giovane Gozzano

Totò Merùmeni vive in una villa aristocratica, ormai abbandonata da illustri famiglie piemontesi e ora frequentata da forestieri dall’aspetto volgare, segno del mutamento dei tempi. La sua famiglia si caratterizza negativamente: con lui convivono una madre inferma, una prozia canuta, uno zio demente.
Anche Totò ha le caratteristiche di un eroe negativo: è gelido e indifferente, consapevole delle proprie debolezze, è inoffensivo, ma non sa amare. È cioè un inetto, il contrario del superuomo: per anni ha sognato l’amore di donne teatrali e principesche, ma oggi ha una prosaica relazione con una serva diciottenne. Il male morale di Totò sono le complicazioni intellettualistiche, che lo rendono insensibile, amorfo.
Come dalle rovine di un edificio sbocciano i giaggioli, così Totò produce una fioritura di pochi e tenui versi che arrecano consolazione alla sua anima. Egli vive quasi felice, alternando la poesia alla meditazione, consapevole che se la voce di un poeta ha durata breve, al contrario la poesia è eterna. Deluse le aspirazioni e crollati i sogni di una vita eccezionale, non gli resta che accettare il proprio destino e aspettare inerte la fine dell’esistenza.

Gozzano raffigura ironicamente se stesso come un antieroe, un inetto: pur essendo tentato dai miti nietzscheani e dannunziani di una vita eccezionale (come gran parte della generazione del suo tempo), egli è incapace di viverli in prima persona, quindi fa la scelta opposta e preferisce la condizione di isolamento e inattività.

Unico gesto deciso è il suo rifiuto di vendere parolette, ossia di diventare un mestierante che commercia parole, a sottolineare l’incompatibilità tra la poesia e il materialismo del mondo borghese.

Al tono colloquiale, al lessico quotidiano e all’andamento prosastico, scandito dall’adozione del verso lungo, si accompagnano scelte stilistiche auliche con frequenti citazioni letterarie (Petrarca, Ariosto, Nietzsche).

Più famosa, e più importante e la poesia seguente:

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Giovanni Boldini: Profilo di una giovane donna

LA SIGNORINA FELICITA
OVVERO LA FELICITÀ.

I

Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l’orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa….

Vill’Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.

Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Ercole furibondo ed il Centauro,
le gesta dell’eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d’Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia del Nume ghermitore….

Penso l’arredo – che malinconia! –

penso l’arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell’Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere…. Che malinconia!

Antica suppellettile forbita!

Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi pazïente…. Avita
semplicità che l’anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

II 

Quel tuo buon padre – in fama d’usuraio –
quasi bifolco, m’accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell’uve e del massaio,
mi confidava certo antico guaio
notarile, con somma deferenza.

«Senta, avvocato….» E mi traeva inqueto
nel salone, talvolta, con un atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l’ascoltavo docile, distratto
da quell’odor d’inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,

da quel salone buio e troppo vasto….
«…. la Marchesa fuggì…. Le spese cieche….»
da quel parato a ghirlandette, a greche….
«dell’ottocento e dieci, ma il catasto….»
da quel tic-tac dell’orologio guasto….
«….l’ipotecario è morto, e l’ipoteche….»

Capiva poi che non capivo niente
e sbigottiva: «Ma l’ipotecario
è morto, è morto!!…» – «E se l’ipotecario
è morto, allora….» Fortunatamente
tu comparivi tutta sorridente:
«Ecco il nostro malato immaginario!»

III

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga….

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia….

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un’amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l’ignoto villeggiante forestiero.

Talora – già la mensa era imbandita –
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita….

Per la partita, verso ventun’ore
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma – poichè trasognato giocatore –
quei signori m’avevano in dispregio….

M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina….

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell’acciottolio.

Sotto l’immensa cappa del camino
(in me rivive l’anima d’un cuoco
forse….) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d’un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio, e il mio destino….

Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.

IV 

Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò ch’è stato e non sarà più mai,
bianca bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:

«È quella che lasciò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno…. E noi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena…. L’han veduta alcuni
lasciare il quadro; in certi noviluni
s’ode il suo passo lungo i corridoi….»

Il nostro passo diffondeva l’eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l’un piede ignudo in mano,
si riposava all’ombra d’uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.

Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v’era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!

Tra i materassi logori e le ceste
v’erano stampe di persone egregie;
incoronato delle frondi regie
v’era Torquato nei giardini d’Este.
«Avvocato, perchè su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliegie?»

Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
tre ceste, un canterano dell’Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!

Allora, quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dall’abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.

Non vero (e bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.

Ecco – pensavo – questa è l’Amarena,
ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei «cosi
con due gambe» che fanno tanta pena….

L’Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere
vane, divisi e suddivisi a schiere
opposte, intesi all’odio e alle percosse:

così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere….

Schierati al sole o all’ombra della Croce,
tutti travolge il turbine dell’oro;
o Musa – oimè – che può giovare loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell’oro, dell’alloro….

L’alloro…. Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l’alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui….

«Avvocato, non parla: che cos’ha?»
«Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città….
Sarebbe dolce restar qui, con Lei!…»
«Qui, nel solaio?…» – «Per l’eternità!»
«Per sempre? accetterebbe?…» – «Accetterei!»

Tacqui. Scorgevo un atropo soletto

e prigioniero. Stavasi in riposo
alla parete: il segno spaventoso
chiuso tra l’ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
si librò con un ronzo lamentoso.

«Che ronzo triste!» – «È la Marchesa in pianto….

La Dannata sarà, che porta pena….»
Nulla s’udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino tu mi piaci tanto,
siccome piace al mar una sirena….

Un richiamo s’alzò, querulo e rôco:

«È Maddalena inqueta che si tardi:
scendiamo: è l’ora della cena!» – «Guardi,
guardi il tramonto, là…. Com’è di fuoco!…
Restiamo ancora un poco!» – «Andiamo, è tardi!»
«Signorina, restiamo ancora un poco!…»

Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pipistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s’annunciò la notte
sulla serenità canavesana….

«Una stella!…» – «Tre stelle!…» – «Quattro stelle!…»
«Cinque stelle!» – «Non sembra di sognare?…»
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessità crepuscolare:
«Scendiamo! È tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle….»

V 

Ozi beati a mezzo la giornata,
nel parco dei Marchesi, ove la traccia
restava appena dell’età passata!
Le Stagioni camuse e senza braccia,
fra mucchi di letame e di vinaccia,
dominavano i porri e l’insalata.

L’insalata, i legumi produttivi
deridevano il busso delle aiole;
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggitivi….
Io ti parlavo, piano, e tu cucivi
innebriata dalle mie parole.

«Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m’avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!

Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell’aurora che dicono: l’Amore….»

Tu mi fissavi…. Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
«Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?»

«Perchè mi fa tali discorsi vani?
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!…»
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia, come fa la scolaretta.

Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza:
«Non mi ten….ga mai più…. tali dis…. corsi!»

«Piange?» E tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l’orecchio, il collo snello….
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d’improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.

Donna: mistero senza fine bello!

VI 

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte….

Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi…. E non mediti Nietzsche
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda….

Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista….

Ed io non voglio più essere io!

VII

Il farmacista nella farmacia
m’elogïava un farmaco sagace:
«Vedrà che dorme le sue notti in pace:
un sonnifero d’oro, in fede mia!»
Narrava, intanto, certa gelosia
con non so che loquacità mordace.

«Ma c’è il notaio pazzo di quell’oca!
Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!
La Signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca….
E la dote…. la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse nemmeno….»

«Ma dunque?» – «C’è il notaio furibondo
con Lei, con me che volli presentarla
a Lei; non mi saluta, non mi parla….»
«È geloso?» – «Geloso! Un finimondo!…»
«Pettegolezzi!…» – «Ma non Le nascondo
che temo, temo qualche brutta ciarla….»

«Non tema! Parto.» – «Parte? E va lontana?»
«Molto lontano…. Vede, cade a mezzo
ogni motivo di pettegolezzo….»
«Davvero parte? Quando?» – «In settimana….»
Ed uscii dall’odor d’ipecacuana
nel plenilunio settembrino, al rezzo.

Andai vagando nel silenzio amico,

triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
su quel dolce paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva «un punto sopra gigante».

In molti mesti e pochi sogni lieti,
solo pellegrinai col mio rimpianto
fra le siepi, le vigne, i castagneti
quasi d’argento fatti nell’incanto;
e al cancello sostai del camposanto
come s’usa nei libri dei poeti.

Voi che posate già sull’altra riva,
immuni dalla gioia, dallo strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l’Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

A lungo meditai, senza ritrarre

la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
s’udiva il grido delle strigi alterno….
La Luna, prigioniera fra le sbarre,
imitava con sue luci bizzarre
gli amanti che si baciano in eterno.

Bacio lunare, fra le nubi chiare
come di moda settant’anni fa!
Ecco la Morte e la Felicità!
L’una m’incalza quando l’altra appare;
quella m’esilia in terra d’oltremare,
questa promette il bene che sarà….

VIII

Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.

«Vïaggio con le rondini stamane….»
«Dove andrà?» – «Dove andrò! Non so…. Vïaggio,
vïaggio per fuggire altro vïaggio….
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio….

Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarà d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?»
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda
trenta settembre novecentosette….
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.

Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti….
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole….

«Un altro stormo s’alza!…» – «Ecco s’avvia!»
«Sono partite….» – «E non le salutò!…»
«Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò….»

Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine….

M’apparisti così, come in un cantico
del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico….

Quello che fingo d’essere e non sono!

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Villa Amarena: luogo dell’incontro tra Gozzano e Felicita

Quello che colpisce in questo lungo poemetto formato da otto parti con stanze in versi endecasillabi è la sua compattezza narrativa, racchiusa in due strofe in cui il poeta ricorda l’episodio, il suo andare, come ospite, in una villa, sul Canavese (località posta a nord del Piemonte). Lo stesso ricordo si colora, sin dalle prime battute di cose semplici, quotidiane, tutte rivestite da questa giovane donna che già nel nome richiama un’aspirazione, la felicità. Quindi la descrizione della villa, non certo principesca, circondata da “misteri”, che la rendono popolare per il visitatore intellettuale, che la metaforizza come una dama secentesca. Gli ovali dipinti sopra le sovrapporte ci dicono della sua cultura, ma come essa venga utilizzata in modo kitsch, cioè inconsapevole, frammista da foto di ballerine alla moda.

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Un’altra immagine di Guido Gozzano

La seconda parte rimarca la distanza, direi abissale tra i due personaggi, è svolta con grande perizia e un sottile filo sia di cattiveria (quasi invidiata) che sottolinea da una parte il senso pratico del vivere e quello di “scollamento dal mondo”: il padrone della villa, in fama di usuraio, il padre di Felicita, tutto teso agli affari e la vaghezza dell’avvocato, intellettuale e letterato.

L’incipit della terza parte, forse uno dei più belli della poesia novecentesca, ci mostra una donna tipicamente antidannunziana, nobilitata, tuttavia alla fine della 1 strofe, da un richiamo alla pittura fiamminga. Quindi procede con un ritmo narrativo: gli invitati più in vista della località che si recano per una piacevole partita, la semplice cucina di Maddalena (la domestica di casa), gli odori quotidiani… tra questi la riflessioni sulla sua creatività fatta di tali cose e sulla sua vita, bugiarda, basata sull’allontanamento, a vederla, più che a viverla (i giocatori lo dispregiano, la solitudine “psichica”, il sorriso disarmante d’una impossibile, ma desiderabile, vita).

La quarta parte descrive ciò che il poeta e la giovane donna vivono nel solaio: da una cassapanca ecco emergere vecchi quadri, vecchio vasellame, trappole per topi ormai in disuso ed altro: E’ la morte delle cose e forse anche dell’io del poeta, per questo piacevoli a cantarsi. E’ la parte in cui l’allontanamento dal mondo reale si fa più forte, la distanza dalla vita quasi abissale, con quella similitudine fra l’io poeta e l’essere poeta, con quell’immagine di Tasso e la sua triste fine. Ma la capacità di Gozzano è nel sorriso, nell’ignoranza, sottolineata quasi con discrezione, della ragazza che confonde l’alloro poetico con un ramo di ciliegie. Ne segue un momento quasi idilliaco: i due dall’abbaino secentesco guardano il mondo: per lui un altro momento per isolarsi da esso, per vederlo dall’esterno, per lei solo un panorama romantico. Non è un caso che Gozzano di fronte ad essa pensi alla morte, all’inutilità della lotta politica, espressione che sembra riprendere, almeno per l’idea la Batracomiomachia di leopardiana memoria, ma che verrà ripresa, in modo simile da Montale, nella poesia La storia. Ancora dopo la meditazione della volgarizzazione della vita cittadina, la voglia di una vita semplice l’impossibilità di viverla.

Tale concetto si ripete nella quinta parte, ma qui viene messa maggiormente in evidenza la distanza tra le donne dannunziane (da lui realmente frequentate a Torino) e la semplicità di Felicita, la sua profonda ingenuità, e con un semplice tratto una delle più belle pagine sul mutevole animo di una fanciulla: un pianto, un sorriso, un attimo di vita (ma lui può solo descriverla)

La sesta parte rimarca il desiderio di una vita semplice e l’impossibilità di esso: una vita fatta di piccole cose e l’irrealizzabilità di essa determinata dall’essere intellettuale (Io mi vergogno d’essere poeta!, topos crepuscolare con il corazziniano Perché tu mi dici poeta? / Io non sono un poeta e il palazzeschiano Son forse un poeta? / No certo). Vi è che lui, per usare le sue parole non vuole essere più stesso, l’esteta gelido, il sofista: potremo dire quasi il dannunzianesimo che è rimasto dentro di lui. Egli è colui che pensa la vita e non può viverla, voler essere qualcun altro e il non poterlo essere.

La settima riprende la narrazione: l’amicizia dell’avvocato con la giovane Felicita ha dato vita a delle chiacchiere, a delle invidie, a giudizi poco lusinghieri. E’ quasi necessario che l’avvocato parta. E nel camminare in luoghi deserti, sempre lontano dalla vita, Gozzano riflette sulla malattia e sulla morte che gli preme nei polmoni, antitetica alla felicità: l’a prima lo spinge al viaggio in India (che realmente effettuerà a cercare refrigerio), l’altra è una promessa senza realtà.

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Gozzano in India

L’ottava e ultima parte: è il momento degli addii e delle promesse, delle bugie dette a lei, ma anche a se stesso: lei, quasi bambina innamorata, incide, novella Angelica, su un muro i loro nomi dentro una ghirlanda; lui non sorride, consapevole della distanza abissale che, quasi impietosamente, a chiusa del poemetto, Gozzano sembra sottolineare: una eroina d’un cantico del Prati, di una poesia dozzinale, di un romanticismo becero, consunto: lui ha giocato a fare il romantico: infatti ha finto d’essere ciò che nella realtà non è.

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Guido Gozzano con la madre

 

SESTO PROPERZIO

painting1.jpegAuguste Jean-Baptiste Vinchon: Cinzia e Properzio

Properzio è un poeta elegiaco, più o meno contemporaneo di Tibullo. Ma se quest’ultimo fece della sua poesia un mezzo attraverso cui cantare l’amore e la sua sofferenza d’amore, Properzio va oltre: infatti non solo rispetta il tema erotico, tipico di questa forma d’arte, ma l’impreziosisce con riferimenti dotti e mitologici che lo rendono più complesso del suo coetaneo ma anche più “gradito” all’entourage culturale di Augusto.

Biografia

Sesto Properzio nacque nel 49 a.C. da famiglia agiata, probabilmente ad Assisi, in Umbria.  Venne pertanto coinvolto nelle conseguenze della guerra civile che si concluse con la battaglia di Azio; in particolare ricorderà come la sua famiglia subì le prescrizioni da parte di  Ottaviano quando si scontrò con Lucio Antonio, fratello di Marco Antonio. Perse il padre a 16 anni (quando prese, cioè la toga virile) e si trasferì a Roma, dove si legò ad una donna un po’ più grande di lui, Cinthia (dal nome Cinto del monte sacro ad Apollo). Tale figura femminile ci dice lo scrittore Apuleio fosse donna reale il cui nome vero è Hostia, presumibilmente discendente di un intellettuale, tanto da definirla puella docta. Lei costituì l’oggetto della sua passione e della sua poesia. Dopo la pubblicazione del primo libro, Properzio conobbe Mecenate ed altri importantissimi poeti, come Tibullo, Virgilio ed Ovidio. Non essendoci nelle sue poesie indizi riferibili dopo il 15, si pensa o che non abbia più pubblicato niente o che la morte lo colpì quand’era ancora giovane.

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Edizione del 1743

Elegie

Properzio è autore di quattro libri di elegie.

Il primo libro, pubblicato nel 28 a. C., detto anche monòbiblos è composto da 22 componimenti, piuttosto brevi, quasi tutti dedicati a Cinzia, e presenta tutti i temi erotici legati alla forma elegiaca. Infatti la prima parola che si trova all’inizio dell’opera è proprio il nome della donna amata dal poeta:

CINZIA
(I, 1 vv. 1-17)

Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis,
contactum nullis ante cupidinibus.
Tum mihi constantis deiecit lumina fastus
et caput impositis pressit Amor pedibus,
donec me docuit castas odisse puellas
improbus, et nullo vivere consilio.
ei mihi, iam toto furor hic non deficit anno,
cum tamen adversos cogor habere deos.
Milanion nullos fugiendo, Tulle, labores
saevitiam durae contudit Iasidos.
nam modo Partheniis amens errabat in antris,
rursus in hirsutas ibat et ille feras;
ille etiam Hylaei percussus vulnere rami
saucius Arcadiis rupibus ingemuit.
ergo velocem potuit domuisse puellam:
tantum in amore fides et benefacta valent.
in me tardus Amor non ullas cogitat artes,
nec meminit notas, ut prius, ire vias.

Cinzia per prima con i cari occhi mi prese, misero, / prima nessuna passione mi aveva sfiorato. / Mi spense allora Amore l’ardito lampo degli occhi, / mi premette sul capo i suoi piedi, / finché m’apprese a odiare ogni casta fanciulla, / perfido, e a vivere senza saper più come. / Già tutto un anno: non mi lascia questo folle desiderio, / costretto a vivere con avversi gli dei. / Ricordi, o Tullio, Milanione? Accettò ogni travaglio, e infine / spezzò la durezza ostile della figlia di Iaso. / Errava talvolta invasato per gli anfratti del Partenio, / e si scontrava, nel suo vagare, con irsute fiere; / una volta, percosso da un colpo della clava di Ileo, / pianse di dolore, ferito, tra le rupi d’Arcadia. / Così alla fine domò la veloce fanciulla: / tanto valgono in amore le suppliche e meritorie imprese. / Per me invece Amore indolente non trova rimedi / non sa più andare, come una volta, per le note vie.

E’ questo l’incipit della prima elegia, che assume certamente un valore programmatico per il monòbiblos: infatti tale libro appare come una sorta di bilancio del primo anno d’amore per Cinzia. Amore che verrà vissuto come furor, che acceca la voluntas del poeta e lo fa schiavo; per questo Properzio deve piegarsi al servitium amoris con tutto se stesso. Fino a qui nulla di nuovo rispetto ai topoi già visti nella poesia elegiaca e in special modo in quella di Tibullo. Tuttavia qualche novità la possiamo riscontrare: la prima è che il poeta sembra rivolgersi a qualcuno, in questo caso Tullio: è come se gli scrivesse (o gli parlasse) della sua storia con Cinzia; l’altro, più importante è il riferimento mitico (assente in Tibullo): Milanione era innamorato di Atalanta, figlia di Iaso, la quale rifiutava le nozze e sfidava i pretendenti alla corsa, in cui era imbattibile: Milanione la difese dal centauro Ileo, che voleva usarle violenza, e finalmente, con l’aiuto di Venere, riuscì a vincerla e a ottenerne la mano. E’ evidente che l’intento di Properzio è quello di rendere il carmen doctum per meglio emulare la poesia alessandrina e callimachea.

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Talvolta il riferimento mitologico cessa d’essere un fatto erudito per sposarsi in modo mirabile al tessuto narrativo dell’elegia:

CINZIA DORMIENTE
(I, 3 vv. 1-10)

Qualis Thesea iacuit cedente carina
languida desertis Cnosia litoribus;
qualis et accubuit primo Cepheia somno
libera iam duris cotibus Andromede;
nec minus assiduis Edonis fessa choreis
qualis in herboso concidit Apidano:
talis visa mihi mollem spirare quietem
Cynthia consertis nixa caput manibus,
ebria cum multo traherem vestigia Baccho,
et quaterent sera nocte facem pueri.

Quale si giacque la donna di Cnosso, e la nave di Teseo svaniva, / sfinita e languida sulla spiaggia deserta, / e quale Andromeda, la figlia di Cefèo, al primo sonno / s’abbandonò, libera ormai dalle aguzze scogliere; / e quale la Baccante, stanca della corda assidua, /crolla a terra sull’erboso Apidano, / così mi apparve nel calmo respiro del sonno / Cinzia, la testa poggiata sulle mani abbandonate, / mentre traevo i miei passi ebbri per il modo vino / e nella notte tarda i servi agitavano le torce.

Qui i riferimenti mitologici sono ad Arianna, Andromeda e ad una Baccante: figure che “nobilitano” la figura della donna dormiente, sollevandola in un’atmosfera rarefatta, in cui il poeta sembra perdersi. Ma il suo perdersi è dettato anche dal suo vile atteggiamento, d’uomo ebbro e quindi terreno, che fa da contrappasso e meglio sottolinea l’area sognante dell’immagine. C’è infatti in Properzio una capacità di tratteggiare con pochi tratti delle poeticissime immagini, che talvolta si collegano in modo ardito con il resto del testo e rendono i testi properziani talvolta complessi.

Altro elemento assai presente nella poesia di Properzio è il “soggettivismo” che meglio appare laddove esso si sposa quasi “romanticamente” con la forza e la crudeltà della natura:

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LA SOLITUDINE DEL POETA
(I, 17 vv. 1-18)

Et merito, quoniam potui fugisse puellam,
nunc ego desertas alloquor alcyonas.
Nec mihi Cassiope salvam visura carinam
omniaque ingrato litore vota cadent.
Quin etiam absenti prosunt tibi, Cynthia, venti:
aspice, quam saevas increpat aura minas.
Nullane placatae veniet fortuna procellae?
Haecine parva meum funus harena teget?
Tu tamen in melius saevas converte querelas:
sat tibi sit poenae nox et iniqua vada.
An poteris siccis mea fata reponere ocellis,
ossaque nulla tuo nostra tenere sinu?
A pereat, quicumque rates et vela paravit
Primus et invito gurgite fecit iter.
Nonne fuit melius dominae pervincere mores
(quamvis dura, tamen rara puella fuit),
quam sic ignotis circumdata litora silvis
cernere et optatos quaerere Tyndaridas?

E proprio perché ebbi l’animo di abbandonare /  la fanciulla, ora io parlo ai solitari alcioni. /  Né Cassipea vedrà più la mia nave intatta / mentre ogni presagio si dissolve sul lido inospitale. / Persino i venti sono favorevoli a te, lontana, o Cinzia: / osserva come l’aria risuona di funeste minacce! / Nessuna buona sorte verrà a placare la tempesta? / Questa minuscola sabbia coprirà il mio cadavere? / Tu tuttavia addolcisci i severi lamenti: / ti basti una notte di tormento e un mare avverso. / Avrai forse il coraggio di seppellire il mio corpo con occhi / asciutti, senza stringere nel tuo seno alcun mio osso? / Ah! Perisca chi per primo ha inventato le navi / e le vele, ed ha attraversato l’infido mare! / Non sarebbe stato meglio domare le abitudini della signora / (benché crudele, tuttavia fu rara fanciulla) / piuttosto che scrutare i lidi accerchiati da boschi sconosciuti / e ricercare nel cielo i desiderati figli di Tindaro?

E questo un frammento che rappresenta una sensibilità che più s’avvicina al gusto “moderno”: Cinzia per un suo tradimento lo ha abbandonato in un luogo deserto, dove non può che rapportarsi con gli alcioni solitari.  Ma, come spesso accade nella sua poesia, la solitudine s’accompagna al pensiero di morte. Interessante da un punto di vista stilistico e l’incipit con la congiunzione Et, come a voler correlare i suoi versi con un suo precedente discorso fatto tra sé e sé: da qui il tono “emotivo” dell’intero passo.

Ma è altrettanto famoso e moderno è l’atteggiamento di gelosia che Properzio illustra con grande capacità poetica:

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LA GELOSIA DEL POETA
(I, 11)

Ecquid te mediis cessantem, Cynthia, Baiis,
qua iacet Herculeis semita litoribus,
et modo Thesproti mirantem subdita regno
proxima Misenis aequora nobilibus,
nostri cura subit memores adducere noctes?
ecquis in extremo restat amore locus?
an te nescio quis simulatis ignibus hostis
sustulit e nostris, Cynthia, carminibus,
ut solet amota labi custode puella,
perfida communis nec meminisse deos?
atque utinam mage te remis confisa minutis
parvula Lucrina cumba moretur aqua,
aut teneat clausam tenui Teuthrantis in unda
alternae facilis cedere lympha manu,
quam vacet alterius blandos audire susurros
molliter in tacito litore compositam!
non quia perspecta non es mihi cognita fama,
sed quod in hac omnis parte timetur amor.
ignosces igitur, si quid tibi triste libelli
attulerint nostri: culpa timoris erit.
ah mihi non maior carae custodia matris
aut sine te vitae cura sit ulla meae!
tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes,
omnia tu nostrae tempora laetitiae.
seu tristis veniam seu contra laetus amicis,
quicquid ero, dicam ‘Cynthia causa fuit.’
tu modo quam primum corruptas desere Baias:
multis ista dabunt litora discidium,
litora quae fuerunt castis inimica puellis:
ah pereant Baiae, crimen amoris, aquae!

Mentre tu indugi, Cinzia, negli ozi di Baia, / là, dove lungo la riva d’Ercole s’adagia un sentiero, / e contempli quel mare che toccava il regno di Tesproto / e ora è vicino al nobile Miseno, / sorge per te un pensiero per me, che trascorro memori notti? / Resta all’estremo bordo dell’amor tuo uno spazio per me? / O un Non-so-chi, mio rivale, con simulati affetti, / ti ha già strappata, Cinzia, ai nostri canti? / Oh se piuttosto, fidando negli esili remi, / ti trattenessi in piccioletta barca sul lago di Lucrino, / o te tenesse prigioniera nell’onda lieve di Teutrante / la corrente, che facile asseconda il moto alterno delle braccia, / piuttosto che permetterti di udire i suadenti sussurri d’un altro, / mollemente adagiata sulla silente riva! / Così, se nessuno la sorveglia, la donna s’abbandona, / pronta a tradire, né più rammenta i fedeli giuramenti: / non perché mi è ignota la tua specchiata fama, io parlo, / ma perché in questa terra ogni amore è in pericolo. / Tu mi perdonerai, se una punta di tristezza / ti verrà dai miei versi: è colpa del timore. / Conta di più, per me, la cura di una madre amata? / Senza di te, ha senso la mia vita? / Tu sola sei la mia casa, Cinzia, tu sola i parenti, / tu sola gli istanti della mia letizia. / Se intristito verrò tra i miei amici, oppure lieto, / comunque sia, sempre dirò: «La causa è stata Cinzia». / Ma tu abbandona, e subito, questa corrotta Baia: / per molti questa spiaggia sarà la causa dell’addio, / questa spiaggia, da sempre nemica alle oneste fanciulle: / alla malora le acque di Baia, infamia dell’Amore!

Baia era una città termale, famosa per la vita dissoluta che vi si conduceva: Properzio è trepidante per teme che qui la sua donna, attratta dalle facili tentazioni, possa tradirlo. E’ diventato anche questo passo un “archetipo” della poesia erotica, ripreso ad esempio, da Boccaccio nelle sue Rime. Ma quello che qui più fortemente emerge è la paura per il mancato rispetto degli dei del comune amore: cioè, ci troviamo quasi in campo catulliano, dove l’amore è foedus et fides, a sottolineare l’importanza della lirica catulliana nell’esperienza elegiaca.

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Il secondo libro, pubblicato nel 25 a. C. o insieme al terzo nel 22 a.C., è composto da 34 elegie, che rispecchiano il mutamento avvenuto nella vita e nella posizione di Properzio rispetto al clima culturale romano.  Infatti il successo del monòbiblos aveva fatto avvicinare il poeta umbro agli ambienti ufficiali augusteo, diventando un protetto di Mecenate. Ne sono testimonianza la prima elegia, in cui Properzio si rivolge a Mecenate, proclamando la sua inadattabilità a percorrere le strade dell’epica:

LA RECUSATIO
(II, 1)

…..
sed neque Phlegraeos Iovis Enceladique tumultus
intonet angusto pectore Callimachus,
nec mea conveniunt duro praecordia versu,
Caesaris in Phrygios condere nomen avos.
navita de ventis, de tauris narrat arator,
enumerat miles vulnera, pastor ovis;
nos contra angusto versantes proelia lecto:
qua pote quisque, in ea conterat arte diem.

Ma le battaglie flegree di Encelado e di Giove / non potrebbe intonare Callimaco col suo corto respiro, / non si addice alla mia vena celebrare col duro verso dell’epica / la gloria di Cesare, fino ai suoi avi frigi. / I venti racconta il nocchiero, e l’aratore i buoi; / il soldato enumera le ferite, il pastore le pecore; / io, le battaglie che si combattono in un letto angusto: / impieghi ciascuno la sua giornata nell’arte che conosce.

E’ questa la “recusatio” che l’intellettuale Properzio rivolge a Mecenate e di conseguenza ad Augusto sulla poesia celebrativa, che, certamente non può essere né elegiaca, né, per conseguenza, erotica. Tale affermazione trova la sua forza nel sottolineare come il suo poeta di riferimento sia Callimaco, dal “corto respiro”. Ciò significa una poesia dotta, raffinata, con arditi passaggi (che in questo libro si amplificano) che chiedono più che disposizione emotiva, capacità critica da parte del lettore. Infatti non bisogna dimenticare che dietro l’apparente “disimpegno” vi è un profondo labor limae con cui Properzio cerca di raggiungere la perfezione stilistica.

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L’anfiteatro augusteo

Come abbiamo visto nell’elegia precedente i riferimenti alla corte augustea non mancano, foss’anche per recusare l’impegno epico, ma anche per ringraziare Augusto che, abolendo la legge contraria al celibato, non obbliga Properzio a lasciare la sua amata Cinzia, che sarà ancora la protagonista di questo libro. Infatti in questo secondo libro troviamo ancora la sua presenza, con i suoi amori, rifiuti e abbandoni, ma troviamo anche un’esaltazione all’operato di Augusto attraverso la figura retorica della preterizione sempre nella prima egloga ed una poesia d’occasione riguardante l’inaugurazione del portico intorno al tempio palatino.

Il terzo libro, è pubblicato nel 22 a.C. ed è composto da 25 elegie: l’elemento erotico è fortemente ridimensionato, ed anche il poeta dà l’addio alla donna amata, l’abbandono definitivo, il discidium appunto non solo verso Cinzia, ma verso quello che lei ha rappresentato: la poesia d’amore.

DISCIDIUM
(III, 25)

Risus eram positis inter convivia mensis
et de me poterat quilibet esse loquax.
Quinque tibi potui servire fideliter annos:
ungue meam morso saepe querere fidem.
Nil moveor lacrimis: ista sum captus ab arte;
semper ab insidiis, Cynthia, flere soles.
Flebo ego discendens, sed fletum iniuria vincit:
tu bene conveniens non sine ire iugum.
Limina iam nostris valeant lacrimantia verbis,
nec tamen irata ianua fracta manu.
At te celatis aetas gravis urgeat annis
et veniat formae ruga sinistra tuae!
Vellere tum cupias albos a stirpe capillos,
a! speculo rugas increpitante tibi,
exclusa inque vicem fastus patiare superbos
et quae fecisti facta queraris anus!
Has tibi fatales cecinit mea pagina diras:
eventum formae disce timere tuae!

Ero oggetto di riso nei conviti, davanti a tavole imbandite /  ogni pettegolo poteva dire tutto di me. / Per cinque anni ho potuto farti da schiavo fedele: / rimpiangerai questa mia fedeltà, mordendoti le unghie. / Alle lacrime non mi non mi commuovo: queste tue arti mi vinsero una volta; / tu, Cinzia, piangi solo per prendere in trappola. / Io piangerò nel lasciarti, ma l’offesa è superiore al pianto: / tu non vuoi che procediamo al giogo, che a noi due ben s’adattava. / Addio, soglia piangente per le mie parole, / e tuttavia la tua porta non fu mai colpita dalla mia mano irata. / Tu nascondi gli anni, ma che l’età incomba grave su te, / e giunga alla tua bellezza una ruga funesta! / Che ti venga la voglia di strappar dalla radice i capelli bianchi, / ma che lo specchio, ahimé, ti additi implacabile le rughe, / che tu respinta, soffra gli orgogliosi disdegni / e da vecchia ti dolga di subire quello che hai fatto agli altri! / Queste fatali imprecazioni cantano a te i miei versi: / impara a paventare la fine della tua bellezza!

Ricordiamo infatti che in questo libro il nome della donna è citato soltanto per tre volte. Il resto delle elegie, alcune di carattere celebrativo verso Augusto, insistono sulla poetica properziana, il suo preferire la poesia alessandrina e Callimaco alla poesia epica. Altre ancora affrontano temi diatribici, quali il rifiuto delle ricchezze, l’avidità causa di guerra, la filosofia come studio per la maturità e via dicendo (la diàtriba era una forma di conversazione o conferenza di contenuto filosofico, diretta dagli antichi filosofi a un pubblico non specialistico quindi di tono più popolare e rivolta con preferenza a questioni etiche).

Estremamente più impegnativo è il quarto libro, pubblicato nel 15 a.C., comprendendo solo 11 elegie, che tuttavia hanno respiro più lungo di quelle dei libri precedenti.  Abbandonata definitivamente la poesia erotica e accettando la linea culturale di Mecenate, egli ora decide di raccontare gli aitìa (le cause) delle solennità romane (argomento che verrà ripreso nei Fasti di Ovidio); ben in 5 di queste elegie, chiamate Elegie Romane, immagina di accompagnare un hospes mostrandogli, in una specie di passeggiata archeologica, le umili origini della potenza romana contro lo splendore dell’oggi. Anche altre elegie, come quella dedicata a Cornelia, madre dei Gracchi, può rientrare in queste elegie, pur non avendo carattere eziologico.

Le altre sembrano non avere rapporto con questo gruppo di elegie: in una di esse si racconta un sogno del poeta che rivede Cinzia, l’ottava torna ai vecchi temi della gelosia dell’amata, le rimanente si soffermano su temi amorosi.

Esemplare fra l’elegie romane, e forse la più bella, è quella dedicata alla Rupe Tarpea, sita sul Campidoglio:

LA STORIA DI TARPEA
(IV, 4)

Tarpeium nemus et Tarpeiae turpe sepulcrum
fabor et antiqua limina capta Iovis.
Lucus erat felix hederoso conditus agro,
multaque nativis obstepit arbora aquis,
Silvani ramosa domus, quo dulcis ab aestu
fistula poturas ire iubebat ovis
hunc Tatius fontem vallo praecingit acerno,
fidaque suggesta castra coronat humo.
….
Hinc Tarpeia  deae fontem libavit: at illi
urgebat medium fictilis urna caput.
….
Vidit  harenosis Tatium proludere campis
pictaque per flavas armalevare iubas.
Obstupuit regis faciet et regalibus armis,
interque oblitas exciditis urna manus.

La selva tarpea e di Tarpea l’infame sepolcro /  dirò, e la conquista dell’antico tempio di Giove. / C’era un bosco rigoglioso, celato in un anfratto ricco d’edera, / alberi fitti mormoravano con l’acque di una fonte, / ramosa dimora di Silvano, dove dolce la zampogna / invitava all’abbeverata le greggi, lungi dalla calura. / Questa fonte Tazio cinge d’un vallo d’aceri, / e la circonda con un argine di terra, per renderla sicura. / ….. / Da quella fonte, Tarpea attinse l’acqua per liberare alla dea / Le pesava sul capi un’anfora d’argilla. /….. / Vide Tazio addestrarsi sul terreno sabbioso, / sopra la fulva criniera del cavallo brandire le armi dipinte. / Rimase colpita dall’aspetto del re e dalle armi regali, / e l’anfora le cadde dalle mani obliose.

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Tarpea gettata dalla rupe

Tarpea con preghiere cerca d’allontanare i pericoli dal re Sabino, e così piange:

«Ignes castrorum et Tatiae praetoria turmae
et formosa oculis arma Sabina meis,
o utinam ad vestros sedeam captiva Penatis,
dum captiva mei consipcer esse Tati!
Romani montes, et montibus addita Roma,
et valeat probo Vesta pudenda meo:
ille equus, ille meos in castra reponet amores,
cui Tatius dextras collocas ipse iubas!…»

O fuochi del campo nemico, o tende della schiera di Tazio, / o belle agli occhi miei armi sabine, / oh se prigioniera sedessi davanti ai vostri Penati, / purché prigioniera del mio Tazio! / Addio, colli romani, e tu, che sui colli sorgi, addio, / addio Vesta, che del mio fallo dovrai arrossire: / quel cavallo riporterà nel suo campo il mio amore, quello / a  cui Tazio riporta a destra la fulva criniera.

Ella si offre, come riscatto per il “ratto delle Sabine” e prosegue nel suo sogno; e proprio mentre sta per addormentarsi, la dea Vesta, tradita dalla sua vestale, le prepara la fine. E’ festa in città e Romolo ordina alle guardie di riposarsi. Tarpea. Allora, apre le porte al nemico, in pegno dell’amore del re Sabino. Il quale così, infine, la ripagò:

«Nube» ait  «et regni scande cubile mei!»
dixit,  et ingestis comitum super obruit armis.
Haec, virgo officiis dos erat apta tuis.

«Sii la mia sposa» dice «e ascendi il talami mio!». / Disse, e la fece coprire con le armi ammicchiate dei compagni. / Era questa, o vergine, la dote conveniente ai tuoi servigi.

Questa elegia ci offre il destro per far capire esattamente come venivano sviluppate tali elegie: nella prima parte si invita il lettore a conoscere il perché e come è nato un particolare luogo o monumento e quale sia l’origine del suo nome. Quindi procede con la storia di esso, ricca di riferimenti mitici ed archeologici.

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L’uccisione di Tarpea

In questa elegia, tuttavia, prevale ciò che più gli è congeniale: la poesia d’amore. Infatti più che interessargli il luogo in sé, le falde del Campidoglio, è l’ambigua storia d’amore: certo Tarpea è colpevole di aver tradito la patria, ma se colpa c’è stata, questa è dovuta al furor d’amore che l’ha conquistata. Infatti il modo in cui chiude l’elegia non è di facile interpretazione: iniusta sors quella di Tarpea; un vero Romano l’avrebbe definita iusta, colpita “giustamente”, per il suo tradimento verso la patria, ma si potrebbe definire anche “ingiusta”, perché vittima di un altrettanto tradimento, quello di Tazio, che ha approfittato della debolezza della donna, ma soprattutto perché vittima d’amore.

Quello che occorre ancora sottolineare è che la poesia di Properzio ha avuto maggiore importanza per la letteratura contemporanea (ci piace pensare a Thomas Ernst Pound  autore di tradimenti/rifacimenti tratti dal secondo e terzo libro delle elegia properziane); ciò non toglie che, nel leggere il poeta umbro dobbiamo liberarci dallo schermo “romantico” che tende ad identificare vita e poesia; qui forse l’identificazione è da trovare a membri opposti poesia e vita: per Properzio tutto ciò che vive viene “tradotto” poeticamente, in una letteratura fatta a sua volta di tutti i poeti che lo hanno preceduto: per questo la sua poesia è così ricca di riferimenti e di trapassi arditi: è infatti poesia pura.