SESTO PROPERZIO

painting1.jpegAuguste Jean-Baptiste Vinchon: Cinzia e Properzio

Properzio è un poeta elegiaco, più o meno contemporaneo di Tibullo. Ma se quest’ultimo fece della sua poesia un mezzo attraverso cui cantare l’amore e la sua sofferenza d’amore, Properzio va oltre: infatti non solo rispetta il tema erotico, tipico di questa forma d’arte, ma l’impreziosisce con riferimenti dotti e mitologici che lo rendono più complesso del suo coetaneo ma anche più “gradito” all’entourage culturale di Augusto.

Biografia

Sesto Properzio nacque nel 49 a.C. da famiglia agiata, probabilmente ad Assisi, in Umbria.  Venne pertanto coinvolto nelle conseguenze della guerra civile che si concluse con la battaglia di Azio; in particolare ricorderà come la sua famiglia subì le prescrizioni da parte di  Ottaviano quando si scontrò con Lucio Antonio, fratello di Marco Antonio. Perse il padre a 16 anni (quando prese, cioè la toga virile) e si trasferì a Roma, dove si legò ad una donna un po’ più grande di lui, Cinthia (dal nome Cinto del monte sacro ad Apollo). Tale figura femminile ci dice lo scrittore Apuleio fosse donna reale il cui nome vero è Hostia, presumibilmente discendente di un intellettuale, tanto da definirla puella docta. Lei costituì l’oggetto della sua passione e della sua poesia. Dopo la pubblicazione del primo libro, Properzio conobbe Mecenate ed altri importantissimi poeti, come Tibullo, Virgilio ed Ovidio. Non essendoci nelle sue poesie indizi riferibili dopo il 15, si pensa o che non abbia più pubblicato niente o che la morte lo colpì quand’era ancora giovane.

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Edizione del 1743

Elegie

Properzio è autore di quattro libri di elegie.

Il primo libro, pubblicato nel 28 a. C., detto anche monòbiblos è composto da 22 componimenti, piuttosto brevi, quasi tutti dedicati a Cinzia, e presenta tutti i temi erotici legati alla forma elegiaca. Infatti la prima parola che si trova all’inizio dell’opera è proprio il nome della donna amata dal poeta:

CINZIA
(I, 1 vv. 1-17)

Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis,
contactum nullis ante cupidinibus.
Tum mihi constantis deiecit lumina fastus
et caput impositis pressit Amor pedibus,
donec me docuit castas odisse puellas
improbus, et nullo vivere consilio.
ei mihi, iam toto furor hic non deficit anno,
cum tamen adversos cogor habere deos.
Milanion nullos fugiendo, Tulle, labores
saevitiam durae contudit Iasidos.
nam modo Partheniis amens errabat in antris,
rursus in hirsutas ibat et ille feras;
ille etiam Hylaei percussus vulnere rami
saucius Arcadiis rupibus ingemuit.
ergo velocem potuit domuisse puellam:
tantum in amore fides et benefacta valent.
in me tardus Amor non ullas cogitat artes,
nec meminit notas, ut prius, ire vias.

Cinzia per prima con i cari occhi mi prese, misero, / prima nessuna passione mi aveva sfiorato. / Mi spense allora Amore l’ardito lampo degli occhi, / mi premette sul capo i suoi piedi, / finché m’apprese a odiare ogni casta fanciulla, / perfido, e a vivere senza saper più come. / Già tutto un anno: non mi lascia questo folle desiderio, / costretto a vivere con avversi gli dei. / Ricordi, o Tullio, Milanione? Accettò ogni travaglio, e infine / spezzò la durezza ostile della figlia di Iaso. / Errava talvolta invasato per gli anfratti del Partenio, / e si scontrava, nel suo vagare, con irsute fiere; / una volta, percosso da un colpo della clava di Ileo, / pianse di dolore, ferito, tra le rupi d’Arcadia. / Così alla fine domò la veloce fanciulla: / tanto valgono in amore le suppliche e meritorie imprese. / Per me invece Amore indolente non trova rimedi / non sa più andare, come una volta, per le note vie.

E’ questo l’incipit della prima elegia, che assume certamente un valore programmatico per il monòbiblos: infatti tale libro appare come una sorta di bilancio del primo anno d’amore per Cinzia. Amore che verrà vissuto come furor, che acceca la voluntas del poeta e lo fa schiavo; per questo Properzio deve piegarsi al servitium amoris con tutto se stesso. Fino a qui nulla di nuovo rispetto ai topoi già visti nella poesia elegiaca e in special modo in quella di Tibullo. Tuttavia qualche novità la possiamo riscontrare: la prima è che il poeta sembra rivolgersi a qualcuno, in questo caso Tullio: è come se gli scrivesse (o gli parlasse) della sua storia con Cinzia; l’altro, più importante è il riferimento mitico (assente in Tibullo): Milanione era innamorato di Atalanta, figlia di Iaso, la quale rifiutava le nozze e sfidava i pretendenti alla corsa, in cui era imbattibile: Milanione la difese dal centauro Ileo, che voleva usarle violenza, e finalmente, con l’aiuto di Venere, riuscì a vincerla e a ottenerne la mano. E’ evidente che l’intento di Properzio è quello di rendere il carmen doctum per meglio emulare la poesia alessandrina e callimachea.

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Talvolta il riferimento mitologico cessa d’essere un fatto erudito per sposarsi in modo mirabile al tessuto narrativo dell’elegia:

CINZIA DORMIENTE
(I, 3 vv. 1-10)

Qualis Thesea iacuit cedente carina
languida desertis Cnosia litoribus;
qualis et accubuit primo Cepheia somno
libera iam duris cotibus Andromede;
nec minus assiduis Edonis fessa choreis
qualis in herboso concidit Apidano:
talis visa mihi mollem spirare quietem
Cynthia consertis nixa caput manibus,
ebria cum multo traherem vestigia Baccho,
et quaterent sera nocte facem pueri.

Quale si giacque la donna di Cnosso, e la nave di Teseo svaniva, / sfinita e languida sulla spiaggia deserta, / e quale Andromeda, la figlia di Cefèo, al primo sonno / s’abbandonò, libera ormai dalle aguzze scogliere; / e quale la Baccante, stanca della corda assidua, /crolla a terra sull’erboso Apidano, / così mi apparve nel calmo respiro del sonno / Cinzia, la testa poggiata sulle mani abbandonate, / mentre traevo i miei passi ebbri per il modo vino / e nella notte tarda i servi agitavano le torce.

Qui i riferimenti mitologici sono ad Arianna, Andromeda e ad una Baccante: figure che “nobilitano” la figura della donna dormiente, sollevandola in un’atmosfera rarefatta, in cui il poeta sembra perdersi. Ma il suo perdersi è dettato anche dal suo vile atteggiamento, d’uomo ebbro e quindi terreno, che fa da contrappasso e meglio sottolinea l’area sognante dell’immagine. C’è infatti in Properzio una capacità di tratteggiare con pochi tratti delle poeticissime immagini, che talvolta si collegano in modo ardito con il resto del testo e rendono i testi properziani talvolta complessi.

Altro elemento assai presente nella poesia di Properzio è il “soggettivismo” che meglio appare laddove esso si sposa quasi “romanticamente” con la forza e la crudeltà della natura:

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LA SOLITUDINE DEL POETA
(I, 17 vv. 1-18)

Et merito, quoniam potui fugisse puellam,
nunc ego desertas alloquor alcyonas.
Nec mihi Cassiope salvam visura carinam
omniaque ingrato litore vota cadent.
Quin etiam absenti prosunt tibi, Cynthia, venti:
aspice, quam saevas increpat aura minas.
Nullane placatae veniet fortuna procellae?
Haecine parva meum funus harena teget?
Tu tamen in melius saevas converte querelas:
sat tibi sit poenae nox et iniqua vada.
An poteris siccis mea fata reponere ocellis,
ossaque nulla tuo nostra tenere sinu?
A pereat, quicumque rates et vela paravit
Primus et invito gurgite fecit iter.
Nonne fuit melius dominae pervincere mores
(quamvis dura, tamen rara puella fuit),
quam sic ignotis circumdata litora silvis
cernere et optatos quaerere Tyndaridas?

E proprio perché ebbi l’animo di abbandonare /  la fanciulla, ora io parlo ai solitari alcioni. /  Né Cassipea vedrà più la mia nave intatta / mentre ogni presagio si dissolve sul lido inospitale. / Persino i venti sono favorevoli a te, lontana, o Cinzia: / osserva come l’aria risuona di funeste minacce! / Nessuna buona sorte verrà a placare la tempesta? / Questa minuscola sabbia coprirà il mio cadavere? / Tu tuttavia addolcisci i severi lamenti: / ti basti una notte di tormento e un mare avverso. / Avrai forse il coraggio di seppellire il mio corpo con occhi / asciutti, senza stringere nel tuo seno alcun mio osso? / Ah! Perisca chi per primo ha inventato le navi / e le vele, ed ha attraversato l’infido mare! / Non sarebbe stato meglio domare le abitudini della signora / (benché crudele, tuttavia fu rara fanciulla) / piuttosto che scrutare i lidi accerchiati da boschi sconosciuti / e ricercare nel cielo i desiderati figli di Tindaro?

E questo un frammento che rappresenta una sensibilità che più s’avvicina al gusto “moderno”: Cinzia per un suo tradimento lo ha abbandonato in un luogo deserto, dove non può che rapportarsi con gli alcioni solitari.  Ma, come spesso accade nella sua poesia, la solitudine s’accompagna al pensiero di morte. Interessante da un punto di vista stilistico e l’incipit con la congiunzione Et, come a voler correlare i suoi versi con un suo precedente discorso fatto tra sé e sé: da qui il tono “emotivo” dell’intero passo.

Ma è altrettanto famoso e moderno è l’atteggiamento di gelosia che Properzio illustra con grande capacità poetica:

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LA GELOSIA DEL POETA
(I, 11)

Ecquid te mediis cessantem, Cynthia, Baiis,
qua iacet Herculeis semita litoribus,
et modo Thesproti mirantem subdita regno
proxima Misenis aequora nobilibus,
nostri cura subit memores adducere noctes?
ecquis in extremo restat amore locus?
an te nescio quis simulatis ignibus hostis
sustulit e nostris, Cynthia, carminibus,
ut solet amota labi custode puella,
perfida communis nec meminisse deos?
atque utinam mage te remis confisa minutis
parvula Lucrina cumba moretur aqua,
aut teneat clausam tenui Teuthrantis in unda
alternae facilis cedere lympha manu,
quam vacet alterius blandos audire susurros
molliter in tacito litore compositam!
non quia perspecta non es mihi cognita fama,
sed quod in hac omnis parte timetur amor.
ignosces igitur, si quid tibi triste libelli
attulerint nostri: culpa timoris erit.
ah mihi non maior carae custodia matris
aut sine te vitae cura sit ulla meae!
tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes,
omnia tu nostrae tempora laetitiae.
seu tristis veniam seu contra laetus amicis,
quicquid ero, dicam ‘Cynthia causa fuit.’
tu modo quam primum corruptas desere Baias:
multis ista dabunt litora discidium,
litora quae fuerunt castis inimica puellis:
ah pereant Baiae, crimen amoris, aquae!

Mentre tu indugi, Cinzia, negli ozi di Baia, / là, dove lungo la riva d’Ercole s’adagia un sentiero, / e contempli quel mare che toccava il regno di Tesproto / e ora è vicino al nobile Miseno, / sorge per te un pensiero per me, che trascorro memori notti? / Resta all’estremo bordo dell’amor tuo uno spazio per me? / O un Non-so-chi, mio rivale, con simulati affetti, / ti ha già strappata, Cinzia, ai nostri canti? / Oh se piuttosto, fidando negli esili remi, / ti trattenessi in piccioletta barca sul lago di Lucrino, / o te tenesse prigioniera nell’onda lieve di Teutrante / la corrente, che facile asseconda il moto alterno delle braccia, / piuttosto che permetterti di udire i suadenti sussurri d’un altro, / mollemente adagiata sulla silente riva! / Così, se nessuno la sorveglia, la donna s’abbandona, / pronta a tradire, né più rammenta i fedeli giuramenti: / non perché mi è ignota la tua specchiata fama, io parlo, / ma perché in questa terra ogni amore è in pericolo. / Tu mi perdonerai, se una punta di tristezza / ti verrà dai miei versi: è colpa del timore. / Conta di più, per me, la cura di una madre amata? / Senza di te, ha senso la mia vita? / Tu sola sei la mia casa, Cinzia, tu sola i parenti, / tu sola gli istanti della mia letizia. / Se intristito verrò tra i miei amici, oppure lieto, / comunque sia, sempre dirò: «La causa è stata Cinzia». / Ma tu abbandona, e subito, questa corrotta Baia: / per molti questa spiaggia sarà la causa dell’addio, / questa spiaggia, da sempre nemica alle oneste fanciulle: / alla malora le acque di Baia, infamia dell’Amore!

Baia era una città termale, famosa per la vita dissoluta che vi si conduceva: Properzio è trepidante per teme che qui la sua donna, attratta dalle facili tentazioni, possa tradirlo. E’ diventato anche questo passo un “archetipo” della poesia erotica, ripreso ad esempio, da Boccaccio nelle sue Rime. Ma quello che qui più fortemente emerge è la paura per il mancato rispetto degli dei del comune amore: cioè, ci troviamo quasi in campo catulliano, dove l’amore è foedus et fides, a sottolineare l’importanza della lirica catulliana nell’esperienza elegiaca.

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Il secondo libro, pubblicato nel 25 a. C. o insieme al terzo nel 22 a.C., è composto da 34 elegie, che rispecchiano il mutamento avvenuto nella vita e nella posizione di Properzio rispetto al clima culturale romano.  Infatti il successo del monòbiblos aveva fatto avvicinare il poeta umbro agli ambienti ufficiali augusteo, diventando un protetto di Mecenate. Ne sono testimonianza la prima elegia, in cui Properzio si rivolge a Mecenate, proclamando la sua inadattabilità a percorrere le strade dell’epica:

LA RECUSATIO
(II, 1)

…..
sed neque Phlegraeos Iovis Enceladique tumultus
intonet angusto pectore Callimachus,
nec mea conveniunt duro praecordia versu,
Caesaris in Phrygios condere nomen avos.
navita de ventis, de tauris narrat arator,
enumerat miles vulnera, pastor ovis;
nos contra angusto versantes proelia lecto:
qua pote quisque, in ea conterat arte diem.

Ma le battaglie flegree di Encelado e di Giove / non potrebbe intonare Callimaco col suo corto respiro, / non si addice alla mia vena celebrare col duro verso dell’epica / la gloria di Cesare, fino ai suoi avi frigi. / I venti racconta il nocchiero, e l’aratore i buoi; / il soldato enumera le ferite, il pastore le pecore; / io, le battaglie che si combattono in un letto angusto: / impieghi ciascuno la sua giornata nell’arte che conosce.

E’ questa la “recusatio” che l’intellettuale Properzio rivolge a Mecenate e di conseguenza ad Augusto sulla poesia celebrativa, che, certamente non può essere né elegiaca, né, per conseguenza, erotica. Tale affermazione trova la sua forza nel sottolineare come il suo poeta di riferimento sia Callimaco, dal “corto respiro”. Ciò significa una poesia dotta, raffinata, con arditi passaggi (che in questo libro si amplificano) che chiedono più che disposizione emotiva, capacità critica da parte del lettore. Infatti non bisogna dimenticare che dietro l’apparente “disimpegno” vi è un profondo labor limae con cui Properzio cerca di raggiungere la perfezione stilistica.

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L’anfiteatro augusteo

Come abbiamo visto nell’elegia precedente i riferimenti alla corte augustea non mancano, foss’anche per recusare l’impegno epico, ma anche per ringraziare Augusto che, abolendo la legge contraria al celibato, non obbliga Properzio a lasciare la sua amata Cinzia, che sarà ancora la protagonista di questo libro. Infatti in questo secondo libro troviamo ancora la sua presenza, con i suoi amori, rifiuti e abbandoni, ma troviamo anche un’esaltazione all’operato di Augusto attraverso la figura retorica della preterizione sempre nella prima egloga ed una poesia d’occasione riguardante l’inaugurazione del portico intorno al tempio palatino.

Il terzo libro, è pubblicato nel 22 a.C. ed è composto da 25 elegie: l’elemento erotico è fortemente ridimensionato, ed anche il poeta dà l’addio alla donna amata, l’abbandono definitivo, il discidium appunto non solo verso Cinzia, ma verso quello che lei ha rappresentato: la poesia d’amore.

DISCIDIUM
(III, 25)

Risus eram positis inter convivia mensis
et de me poterat quilibet esse loquax.
Quinque tibi potui servire fideliter annos:
ungue meam morso saepe querere fidem.
Nil moveor lacrimis: ista sum captus ab arte;
semper ab insidiis, Cynthia, flere soles.
Flebo ego discendens, sed fletum iniuria vincit:
tu bene conveniens non sine ire iugum.
Limina iam nostris valeant lacrimantia verbis,
nec tamen irata ianua fracta manu.
At te celatis aetas gravis urgeat annis
et veniat formae ruga sinistra tuae!
Vellere tum cupias albos a stirpe capillos,
a! speculo rugas increpitante tibi,
exclusa inque vicem fastus patiare superbos
et quae fecisti facta queraris anus!
Has tibi fatales cecinit mea pagina diras:
eventum formae disce timere tuae!

Ero oggetto di riso nei conviti, davanti a tavole imbandite /  ogni pettegolo poteva dire tutto di me. / Per cinque anni ho potuto farti da schiavo fedele: / rimpiangerai questa mia fedeltà, mordendoti le unghie. / Alle lacrime non mi non mi commuovo: queste tue arti mi vinsero una volta; / tu, Cinzia, piangi solo per prendere in trappola. / Io piangerò nel lasciarti, ma l’offesa è superiore al pianto: / tu non vuoi che procediamo al giogo, che a noi due ben s’adattava. / Addio, soglia piangente per le mie parole, / e tuttavia la tua porta non fu mai colpita dalla mia mano irata. / Tu nascondi gli anni, ma che l’età incomba grave su te, / e giunga alla tua bellezza una ruga funesta! / Che ti venga la voglia di strappar dalla radice i capelli bianchi, / ma che lo specchio, ahimé, ti additi implacabile le rughe, / che tu respinta, soffra gli orgogliosi disdegni / e da vecchia ti dolga di subire quello che hai fatto agli altri! / Queste fatali imprecazioni cantano a te i miei versi: / impara a paventare la fine della tua bellezza!

Ricordiamo infatti che in questo libro il nome della donna è citato soltanto per tre volte. Il resto delle elegie, alcune di carattere celebrativo verso Augusto, insistono sulla poetica properziana, il suo preferire la poesia alessandrina e Callimaco alla poesia epica. Altre ancora affrontano temi diatribici, quali il rifiuto delle ricchezze, l’avidità causa di guerra, la filosofia come studio per la maturità e via dicendo (la diàtriba era una forma di conversazione o conferenza di contenuto filosofico, diretta dagli antichi filosofi a un pubblico non specialistico quindi di tono più popolare e rivolta con preferenza a questioni etiche).

Estremamente più impegnativo è il quarto libro, pubblicato nel 15 a.C., comprendendo solo 11 elegie, che tuttavia hanno respiro più lungo di quelle dei libri precedenti.  Abbandonata definitivamente la poesia erotica e accettando la linea culturale di Mecenate, egli ora decide di raccontare gli aitìa (le cause) delle solennità romane (argomento che verrà ripreso nei Fasti di Ovidio); ben in 5 di queste elegie, chiamate Elegie Romane, immagina di accompagnare un hospes mostrandogli, in una specie di passeggiata archeologica, le umili origini della potenza romana contro lo splendore dell’oggi. Anche altre elegie, come quella dedicata a Cornelia, madre dei Gracchi, può rientrare in queste elegie, pur non avendo carattere eziologico.

Le altre sembrano non avere rapporto con questo gruppo di elegie: in una di esse si racconta un sogno del poeta che rivede Cinzia, l’ottava torna ai vecchi temi della gelosia dell’amata, le rimanente si soffermano su temi amorosi.

Esemplare fra l’elegie romane, e forse la più bella, è quella dedicata alla Rupe Tarpea, sita sul Campidoglio:

LA STORIA DI TARPEA
(IV, 4)

Tarpeium nemus et Tarpeiae turpe sepulcrum
fabor et antiqua limina capta Iovis.
Lucus erat felix hederoso conditus agro,
multaque nativis obstepit arbora aquis,
Silvani ramosa domus, quo dulcis ab aestu
fistula poturas ire iubebat ovis
hunc Tatius fontem vallo praecingit acerno,
fidaque suggesta castra coronat humo.
….
Hinc Tarpeia  deae fontem libavit: at illi
urgebat medium fictilis urna caput.
….
Vidit  harenosis Tatium proludere campis
pictaque per flavas armalevare iubas.
Obstupuit regis faciet et regalibus armis,
interque oblitas exciditis urna manus.

La selva tarpea e di Tarpea l’infame sepolcro /  dirò, e la conquista dell’antico tempio di Giove. / C’era un bosco rigoglioso, celato in un anfratto ricco d’edera, / alberi fitti mormoravano con l’acque di una fonte, / ramosa dimora di Silvano, dove dolce la zampogna / invitava all’abbeverata le greggi, lungi dalla calura. / Questa fonte Tazio cinge d’un vallo d’aceri, / e la circonda con un argine di terra, per renderla sicura. / ….. / Da quella fonte, Tarpea attinse l’acqua per liberare alla dea / Le pesava sul capi un’anfora d’argilla. /….. / Vide Tazio addestrarsi sul terreno sabbioso, / sopra la fulva criniera del cavallo brandire le armi dipinte. / Rimase colpita dall’aspetto del re e dalle armi regali, / e l’anfora le cadde dalle mani obliose.

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Tarpea gettata dalla rupe

Tarpea con preghiere cerca d’allontanare i pericoli dal re Sabino, e così piange:

«Ignes castrorum et Tatiae praetoria turmae
et formosa oculis arma Sabina meis,
o utinam ad vestros sedeam captiva Penatis,
dum captiva mei consipcer esse Tati!
Romani montes, et montibus addita Roma,
et valeat probo Vesta pudenda meo:
ille equus, ille meos in castra reponet amores,
cui Tatius dextras collocas ipse iubas!…»

O fuochi del campo nemico, o tende della schiera di Tazio, / o belle agli occhi miei armi sabine, / oh se prigioniera sedessi davanti ai vostri Penati, / purché prigioniera del mio Tazio! / Addio, colli romani, e tu, che sui colli sorgi, addio, / addio Vesta, che del mio fallo dovrai arrossire: / quel cavallo riporterà nel suo campo il mio amore, quello / a  cui Tazio riporta a destra la fulva criniera.

Ella si offre, come riscatto per il “ratto delle Sabine” e prosegue nel suo sogno; e proprio mentre sta per addormentarsi, la dea Vesta, tradita dalla sua vestale, le prepara la fine. E’ festa in città e Romolo ordina alle guardie di riposarsi. Tarpea. Allora, apre le porte al nemico, in pegno dell’amore del re Sabino. Il quale così, infine, la ripagò:

«Nube» ait  «et regni scande cubile mei!»
dixit,  et ingestis comitum super obruit armis.
Haec, virgo officiis dos erat apta tuis.

«Sii la mia sposa» dice «e ascendi il talami mio!». / Disse, e la fece coprire con le armi ammicchiate dei compagni. / Era questa, o vergine, la dote conveniente ai tuoi servigi.

Questa elegia ci offre il destro per far capire esattamente come venivano sviluppate tali elegie: nella prima parte si invita il lettore a conoscere il perché e come è nato un particolare luogo o monumento e quale sia l’origine del suo nome. Quindi procede con la storia di esso, ricca di riferimenti mitici ed archeologici.

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L’uccisione di Tarpea

In questa elegia, tuttavia, prevale ciò che più gli è congeniale: la poesia d’amore. Infatti più che interessargli il luogo in sé, le falde del Campidoglio, è l’ambigua storia d’amore: certo Tarpea è colpevole di aver tradito la patria, ma se colpa c’è stata, questa è dovuta al furor d’amore che l’ha conquistata. Infatti il modo in cui chiude l’elegia non è di facile interpretazione: iniusta sors quella di Tarpea; un vero Romano l’avrebbe definita iusta, colpita “giustamente”, per il suo tradimento verso la patria, ma si potrebbe definire anche “ingiusta”, perché vittima di un altrettanto tradimento, quello di Tazio, che ha approfittato della debolezza della donna, ma soprattutto perché vittima d’amore.

Quello che occorre ancora sottolineare è che la poesia di Properzio ha avuto maggiore importanza per la letteratura contemporanea (ci piace pensare a Thomas Ernst Pound  autore di tradimenti/rifacimenti tratti dal secondo e terzo libro delle elegia properziane); ciò non toglie che, nel leggere il poeta umbro dobbiamo liberarci dallo schermo “romantico” che tende ad identificare vita e poesia; qui forse l’identificazione è da trovare a membri opposti poesia e vita: per Properzio tutto ciò che vive viene “tradotto” poeticamente, in una letteratura fatta a sua volta di tutti i poeti che lo hanno preceduto: per questo la sua poesia è così ricca di riferimenti e di trapassi arditi: è infatti poesia pura.

 

 

 

 

ALBIO TIBULLO

Tibullus.jpgAlma Tadema (1836 – 1912): Albio Tibullo alla casa di Delia

Tibullo non è certamente considerato un grande poeta latino, forse neanche nell’ambito della poesia elegiaca; infatti a lui molti preferiscono la poesia di Properzio. Forse è proprio la sua malinconia a non essere pienamente accettata, anche se certamente essa può costituire un antico germe della sensibilità romantica.

Biografia

Pochissime le notizie biografiche di Albio Tibullo, tanto da non conoscere neanche il suo praenomen. Sembra che nacque da famiglia equestre tra il 55 e il 50 a.C, ma non si conosce il luogo preciso (si pensa il Lazio). Fu presumibilmente un giovane ricco e di bell’aspetto, secondo la testimonianza coeva di Orazio; legatosi a Messalla Corvino, partecipò a due campagne militari. La sua morte, avvenuta in giovane età, viene cantata da Ovidio e dovette avvenire tra il 19 e il 18 a. C.

Apoteosis_de_Claudio_(Museo_del_Prado_E-225)_01.jpgUrna cineraria di Messalla Corvino

Corpus Tibullianum

Con il Corpus Tibullianum intendiamo una raccolta giuntaci dagli antichi in cui si raccoglievano tre libri di elegie d’autori diversi, in seguito, ulteriormente suddiviso in età umanistica in quattro libri. Sicuramente i primi due libri di tale corpus appartengono a Tibullo.

Il primo libro è composto da dieci elegie di cui cinque dedicate a Delia (nome fittizio cui si nasconderebbe la reale Plania), tre a Marato (giovinetto), una per il compleanno di Messalla e una d’esaltazione della pace e della vita agreste.

13491060080.jpgEdizione del 1943 del Corpus Tibullianum

Dal numero delle elegie dedicate a Delia, comprendiamo come la figura di questa donna rappresenti il tema unificante di questo libro:

L’AMORE TOTALIZZANTE PER DELIA
(I, 1 vv. 45 – 58)

Quam iuvat inmites ventos audire cubantem
et dominam tenero continuisse sinu
aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster,
securum somnos igne iuvante sequi.
Hoc mihi contingat. Sit dives iure, furorem
qui maris et tristes ferre potest pluvias.
O quantum est auri pereat potiusque smaragdi,
quam fleat ob nostras ulla puella vias.
Te bellare decet terra, Messalla, marique,
ut domus hostiles praeferat exuvias;
me retinent vinctum formosae vincla puellae,
et sedeo duras ianitor ante fores.
Non ego laudari curo, mea Delia; tecum
dum modo sim, quaeso segnis inersque vocer

Quanto è piacevole, mentre si è a letto, ascoltare il soffio impetuoso dei venti e abbracciare teneramente la donna amata, o quando l’Austro invernale porta scrosci di gelida pioggia, lasciarsi andare serenamente al sonno, accompagnati dallo scoppiettante fuoco! Questo vorrei per me: sia ricco giustamente chi è in grado di sopportare la furia del mare e piogge funeste. Vadano pure in malore oro e smeraldi, piuttosto che una fanciulla pianga per la mia partenza. Per te, Messalla è naturale combattere per terra e per mare, in modo che la tua casa ostenti spoglie nemiche; io sono prigioniero di una bella ragazza e sto seduto, come un portiere, davanti a porte inclementi. Delia mia, non m’interessano le lodi degli altri; se posso starti vicino, mi sia dia pure del pigro e del fannullone.

Già dalla prima elegia troviamo, al centro, il topos dell’amore totalizzante, che si raffigura nell’immagine rassicurante di un abbraccio all’interno di una casa rustica, foriera di pace e tranquillità, contrapponendosi alla vita militare, qui rappresentata da Messalla, non mosso dall’ambizione, ma dalla gloria militare (motivo encomiastico). E già dalla prima elegia, si può notare come in Tibullo la vita privata sia preferita a quella pubblica, come, in altre parole l’otium sia il desiderio di una scelta, contraria all’impegno morale e poetico che l’appena conquistata pax augustea proponeva (la prima elegia viene pubblicata più o meno nello stesso periodo in cui Ottaviano assume il nome di Augustus.

LA REALIZZAZIONE DEL SOGNO D’AMORE
(I, 5 vv. 21 – 24; 27 – 32)

Rura colam, frugumque aderit mea Delia custos,
area dum messessole calente feret,
aut mihi servabit plenis in lintribus uvas
pressaque veloci candida musta pede

Illa deo sciet agricolae pro vitibus uvam,
pro segete spicas, pro grege ferre dapem.
Illa regat cunctos, illi sint omnia curae,
at iuvet in tota me nihil esse domo.
Huc veniet Messalla meus, cui dulcia poma
Delia selectis detrahat arboribus;

Coltiverò i campi e la mia Delia mi starà vicina, stando attenta alle messi, mentre sotto la calura del giorno, si trebbierà i grano nell’aia; oppure mi custodirà l’uva nei timi ricolmi, il limpido mosto spremuto agilmente  coi piedi (…) Imparerà a offrire al dio dei campi l’uva per le viti, le spighe per le messi e il cibo per il gregge. Lei controlli l’operato di tutti, di tutto si occupi, e io sia ben felice di non contar niente in casa. Qui verrà il mio caro Messalla e Deloia colga per lui dolci frutti dagli alberi.

donneromane.jpgDonne romane

E’ questa l’elegia del tradimento, altro elemento topico della poesia elegiaca, in cui Delia preferisce al poeta un uomo ricco. Dopo la delusione/disperazione per l’abbandono, si rifugia nella tranquillità della vita rustica, ma il pensiero di lei torna ad ossessionarlo ed egli la vorrebbe vedere, appunto come testimoniano questi pochi versi, come uxor a fianco del suo vir, negli atteggiamenti femminilmente domestici, tanto in essi da poter apparire allo stesso Messala, cui può apparecchiare la mensa. E’ evidente anche qui l’impossibilità da parte del poeta di realizzare il sogno soprattutto per l’evidente contraddizione tra la figura virtuosa di una “moglie” e la cortigiana Delia che, al di là di ogni fatto autobiografico, ci dice come la poesia elegiaca abbia subito l’importante influenza di Catullo.

L’AMORE DIVENTA ETICA
(I, 2 vv. 67-76)

Ferreus ille fuit, qui, te cum posset habere,
maluerit praedas stultus et arma sequi.
Ille licet Cilicum victas agat ante catervas,
ponat et in capto Martia castra solo,
totus et argento contextus, totus et auro
insideat celeri conspiciendis equo,
ipse boves mea si tecum modo Delia possim
iungere et in solio pascere monte pecus,
et te, dum liceat, tenere retinere lacertis,
mollis et inculta sit mihi somnus humo.

Cuore di ferro fu colui che, pur potendoti avere, preferì, sciocco, star dietro ad armi e bottini. Spinga pure dietro a sé  le schiere sopraffate dei Cilici, e faccia pure l’accampamento marziale del suolo conquistato e, rivestito interamente d’oro e d’argento, cavalchi un veloce destriero, facendosi notare da tutti. Per quanto mi riguarda, Delia mia, se solo potessi aggiogare i buoi avendoti vicina, e pascolare il gregge sul monte di sempre, dolce sarebbe per me dormire anche sull’arida terra, pur di poterti stringere a me teneramente.

Anche in questo passo Tibullo ripropone, come nelle altre elegie, il valore della vita rustica rispetto a quella della città che assume però, qui, una vera e propria valenza etica nella quale si sottolinea con forza la paupertas di contro alle divitiae, che la vita militare e la città offrono. Valore che si commisura, pertanto, in sottrazione piuttosto che in quelle virtù che Augusto propugnava per rinforzare il mos maiorum; il valore della campagna, già visto anche nelle Georgiche virgiliane non assume certamente una “valenza politica”, quanto piuttosto una scelta “singolare” che sembra corrispondere più al λάθε βιώσας, lathe biosas (vivi nascosto) d’epicurea memoria.

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Carlo Gioja: Campagna romana (XIX sec.)

SCHIAVO D’AMORE
(1, 2 vv. 29-34)

Quisquis amore tenetur, eat tutusque sacerque
qualibet: insidias timuisse decet.
Non mihi pigra nocent hibernae frigora noctis,
non mihi, cum multa decidit imber aqua.
Non labor hic laedit, reseret modo Delia postes
et vocet ad digiti me taciturna sonum.

Chi è ostaggio d’amore vada pure dove vuole, sicuro e inviolabile; non deve temere insidie. Non mi fa male il gelo paralizzante di una notte d’inverno, né i rovesci d’acqua piovana. Non è questa fatica a nuocermi, purché Delia apra la porta e mi chiami facendo schioccare le dita, senza dire parola.

E’ questo il cosiddetto “servitium amoris”, in cui l’uomo innamorato segue fedelmente, pedissequamente la volontà della donna amata. Egli è schiavo; basta, come dice il testo, un semplice schiocco di dita per farlo accorrere. Quanto è lontano anche qui, il poeta Tibullo, dall’uomo integerrimo, virtuoso ma determinato (si veda Enea, pur con le sue complessità, come riesce a star fermo di fronte alla disperazione di Didone), che l’ideologia imperante cercava o cercherà di lì a qualche anno  di rendere fattiva.

LA SOFFERENZA PER IL TRADIMENTO
(1, 5 vv. 16-20)

Omnia persolvi: fruitur nunc alter amore,
et precibus felix utitur ille meis.
At mihi felicem vitam, si salva fuisses,
fingebam demens, sed renuente deo.

Ho compito tutti i rituali: ora un altro gode del tuo amore e, beato, è lui che raccoglie il frutto delle mie preghiere. E io che, pazzo com’ero, m’immaginavo una vita felice, se fossi guarita; ma la divinità s’opponeva.

Altri elementi della poesia elegiaca rientrano nella lirica tibulliana: non possiamo dimenticare il paraklaysìthyron (lamento presso la porta chiusa) e il tradimento. Anch’esso può avere ascendenze catulliane, ma è descritto in modo estremamente più distaccato, senza quasi possibilità, in obbedienza, come si è detto, al genere più che al vissuto (non vuol dire che non ci sia la possibilità che non ci stato, ma che, anche se l’abbia vissuto, fosse filtrato letterariamente).

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DISTACCO
(1, 5 vv. 1-4)

Asper eram et bene discidium me ferre loquebar

at mihi nunc longe gloria fortis abest.
Namque agor ut per plana citus sola verbere turben,
quem celer adsueta versat ab arte puer.

Fui duro con te, dissi che avrei sopportato senza problemi il distacco, ma ora la presunzione di esser forte mi ha abbandonato. Mi trascino come una trottola che gira su un terreno piano sollecitata dalla sferza di un fanciullo veloce ed esperto.

Ed ecco la parola con cui la poesia elegiaca pone fine ad una storia d’amore: discidium, distacco separazione. Qui viene posta nella V elegia da parte di Tibullo e rappresenta, almeno sul piano poetico, la fine che che verrà mostrata nell’elegia successiva,  con il quale si esplicita il tradimento di Delia verso il marito con Tibullo  e quindi con la precettistica del tradimento, in cui a sua volta egli è caduto.

Nel 1 libro, come già detto, il romanzo per Delia è il nucleo centrale, ad esso si accompagna, rispettando tuttavia i topoi di una storia d’amore, la figura di Marato:

IL “DISCIDIUM” DA MARATO
(1, 9 vv. 39-56)

Quid faciam, nisi et ipse fores in amore puellae?
Sed precor exemplo sit levis illa tuo.
O quotiens, verbis ne quisquam conscius esset,
ipsa comes multa lumina nocte tuli!
Saepe insperanti venit tibi munere nostro
et latuit clausas post adoperta fores.
Tum miseri interii, stulte confisus amari:
nam poteram ad laqueos cautior esse tuos.
Quin etiam adtonita laudes tibi mente canebam,
et me nunc nostri Pieridumque pudet.
Illa velim rapida Volcanus carmina flamma
torreat et liquida deleat amnis aqua.
Tu procul hinc absis, cui formam vendere cura est
et pretium plena grande referre manu.
At te, qui puerum donis corrumpere es ausus,
rideat adsiduis uxor inulta dolis,
et cum furtivo iuvinem lassaverit usu,
tecum interposita languida veste cubet.

Che mai farei, se anche tu non ti fossi innamorato di una fanciulla? Mi auguro che, sul tuo esempio, sia frivola anche lei. Quante volte, perché nessuno conoscesse i vostri segreti, portandoti il lume, nel buio della notte ti sono stato io stesso compagno! Grazie a me, quando più non lo speravi, quante volte è venuta lei da te, nascondendosi, col capo velato, dietro i battenti della porta! Allora, sventurato, mi sono perduto, fidando ciecamente d’essere riamato: davanti ai tuoi lacci, potevo almeno usare cautela maggiore. Invece, con la mente ottenebrata, cantavo le sue lodi, e per me, per le Pièridi ora provo vergogna. Come vorrei che Vulcano bruciasse nell’impeto della fiamma quei canti e la corrente di un fiume li cancellasse. Tu, che pensi di vendere la tua bellezza e di ricavarne a piene mani un gran prezzo, sta’ lontano di qui. E di te invece, che con doni hai osato corrompere il ragazzo, rida senza rischi tua moglie tradendoti continuamente, e dopo aver sfiancato un giovane in amplessi furtivi, giaccia spossata con te, ponendo tra voi la veste.

913b8b8a37020d50a5e30e53c5bcb05e.jpgEfebo nel museo archeologico di Istanbul

A questo giovane Tibullo dedica tre elegie, la IV, l’VIII e la IX ognuna di esse con un aspetto simile a quello per l’amore per Delia: l’innamoramento nella prima, con l’intervento del dio Priapo che insegna al poeta l'”ars amandi” un ragazzo; la seconda in cui Tibullo scopre che il suo ragazzo si sia legato sentimentalmente ad una puella Fòloe e di come egli, pur soffrendo, non gli neghi tale possibilità, osservando come l’adulescens stia diventando un vir; la terza in cui avviene il distacco, non per l’amore eterosessuale ma perché Marato si è venduto per denaro ad un altro uomo.

Tibullo cioé pretende da lui quello che aveva preteso da Delia, foedus e la fides e là dove esso viene meno non può che esserci il discidium il distacco, la fine. Il fatto che i percorsi possono essere omologhi ci fa sospettare di un “alessandrinismo” poetico: già la poesia neoterica aveva parlato di amori omosessuali, quindi non è da escludere che Tibullo abbia ripreso un genere e così come per l’amore etero così per l’omo non neghiamo possa averlo realmente vissuto, ma in lui diventa forma e poesia.

Quindi l’amore è il nucleo intorno cui volge la poesia tibulliana nel primo libro. Tuttavia altri temi sono presenti, tra i quali ci piace citare quello della morte, sebbene anch’esso sia intrecciato con la sua principale storia d’amore:

IL VAGHEGGIAMENTO DELLA MORTE DURANTE LA MALATTIA
(1, 3 vv. 1-30)

Ibitis Aegaeas sine me, Messalla, per undas,
o utinam memores ipse cohorsque mei.
Me tenet ignotis aegrum Phaeacia terris.
Abstineas auidas, Mors, modo, nigra, manus;
abstineas, Mors atra, precor: non hic mihi mater
quae legat in maestos ossa perusta sinus,
non soror, Assyrios cineri quae dedat odores
et fleat effusis ante sepulcra comis,
Delia non usquam, quae, me cum mitteret urbe,
dicitur ante omnes consuluisse deos;
illa sacras pueri sortes ter sustulit: illi
rettulit e triviis omnia certa puer;
cuncta dabant reditus: tamen est deterrita numquam
quin fleret nostras respiceretque vias.
Ipse ego solator, cum jam mandata dedissem,
quaerebam tardas anxius usque moras;
aut ego sum causatus aves aut omina dira
Saturnive sacram me tenuisse diem.
O quotiens ingressus iter mihi tristia dixi
offensum in porta signa dedisse pedem!
Audeat invito ne quis discedere Amore,
aut sciat egressum se prohibente deo.
Quid tua nunc Isis mihi, Delia, quid mihi prosunt
illa tua totiens aera repulsa manu,
quidve, pie dum sacra colis, pureque lavari
te, memini, et puro secubuisse toro?
Nunc, dea, nunc succurre mihi nam posse mederi
picta docet templis multa tabella tuis, 

ut mea votivas persolvens Delia voces
ante sacras lino tecta fores sedeat
bisque die resoluta comas tibi dicere laudes
insignis turba debeat in Pharia.

Senza di me attraverserete le onde egee, Messalla, ma, che dio lo voglia, tu e la tua schiera di uomini lo farete almeno nel mio ricordo. Il paese dei Feaci mi trattiene, ammalato, in terre ignote; o Morte oscura, allontana da me la brama delle tue mani. Allontana, ti scongiuro, o Morte fosca: non ho qui una madre, che nella sua veste componga tristemente le mie ossa bruciate, né una sorella, che asperga le ceneri di profumi assiri e pianga davanti alla tomba con i capelli sciolti; in nessun luogo ho Delia, che si dice abbia consultato in precedenza tutti gli dei, al momento della mia partenza dalla città. Per tre volte tirò a sorte le tavolette sacre portate da un ragazzo; e per tre volte il fanciullo le dette risposte sicure. Tutto faceva presagire il mio ritorno: ma non smise mai di piangere e di pensare al mio ritorno con ansia. E io che la consolavo, pur avendo già dato gli ordini, preda dall’angoscia cercavo sempre nuove scuse per attardarmi. Ho tirato fuori come pretesto il fatto che mi avevano trattenuto gli auspici degli uccelli, o tristi premonizioni o il giorno sacro a Saturno. Quante volte, dopo essermi incamminato, ho detto che inciampando  sulla porta avevo avuto un cattivo presagio. Nessuno osi allontanarsi contro la volontà di Amore, o sappia di esser partito nonostante il veto del dio. E ora, Delia mia, a che mi serve la tua Iside, o sistri di bronzo che la tua mano tante volte ha percosso; e il tuo bagnarti in acqua pura, mentre ti attendevi pianamente al sacro rito – ben lo ricordo – e il tuo dormire in un letto di casta solitudine? Ora, o dea,  ora aiutami, posso infatti guarire, come provano i numerosi quadri appesi nei tuoi templi; che la mia Delia, sciogliendo le promesse votive, sieda con vesti di lino davanti alle tue sacre porte e, con i capelli sciolti, sia costretta ad innalzare le tue lodi, brillando in mezzo alla folla faria.

Passo di duplice importanza: la prima sta soprattutto nel concetto di “morte compianta”, che verrà ripresa con altra forza e con valore civile dal Foscolo dei Sepolcri; l’altra, più incisiva ad indicare la “posizione” di Tibullo nei confronti del regime augusteo è la presenza di Iside. La religione egiziana era entrata a Roma nel primo secolo a. C. e si era diffusa soprattutto tra gli strati bassi della popolazione; a tale religione si riferiscono anche i sistri (strumenti di bronzo il cui suono accompagnavano i riti dedicati a Iside) ed il fatto che Delia dovrà emergere tra le donne farie, cioè egizie. Si è che proprio negli anni di Tibullo che Augusto cerca con forza di frenare un sincretismo religioso che mal si addice con la volontà di restaurare il mos maiorum con la devozione agli dei tradizionali che presiedono all’Urbe e ne garantiscono la forza. Anche quando Tibullo si riferisce agli dei tradizionali non sceglie mai gli ufficiali, quanto quelli familiari, i Lari e i Penati, a sottolineare un riferimento più familiare che sociale e solcando una linea, se pur debole, tra la cultura ufficiale e quella di Messalla.

Altro tema presente è quello dell’età dell’oro, riportato a seguito del precedente, anche se quello per cui va giustamente famoso è quello della pace:

800px-Rubens126.jpegRubens: Il tempio di Giano

INVETTIVA CONTRO LA GUERRA
(1, 10 vv. 1-14)

Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses?
Quam ferus et vere ferreus ille fuit!
Tum caedes hominum generi, tum proelia nata,
tum brevior dirae mortis aperta via est.
An nihil ille miser meruit, nos ad mala nostra
vertimus, in saevas quod dedit ille feras?
Divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt,
faginus astabat cum scyphus ante dapes.
Non arces, non vallus erat, somnumque petebat
securus varias dux gregis inter oves.
Tunc mihi vita foret, Valgi, nec tristia nossem
arma nec audissem corde micante tubam.
Nunc ad bella trahor, et iam quis forsitan hostis
haesura in nostro tela gerit latere.

Chi fu l’uomo che inventò le spade orrende? Quant’era feroce, e veramente di ferro! Allora nacquero per il genere umano le stragi e le guerre, e fu aperta alla morte una via più breve. O forse, pover’uomo, non ebbe colpa, e siamo noi a volgere al nostro male l’arma che lui ci diede contro le belve? E’ tutta colpa dell’oro: non c’erano guerre quando sulla mensa stavano coppe di faggio. Non c’erano fortezze né trincee, e il comandante del gregge prendeva sonno tranquillamente tra le sue pecore sparse. Fossi vissuto allora! Non avrei conosciuto le tristi armi del volgo, né sentito la tromba con animo trepido;ora mi trascinano alla guerra, e forse già qualche nemico porta le armi destinate a piantarsi nel mio fianco.

Risulta evidente che se il sogno di Tibullo è quello di vivere in campagna poveramente e tra le braccia della donna amata, tale utopia potrà avvenire solo con la pace. Non sono le armi a favorire la guerra, dice il poeta, ma l’oro, la brama di ricchezze a favorire la bellicosità tra gli uomini; il tema della pace, legato a quella della paupertas ci dà l’idea di come essa non sia solo un invito che ben può stare nell’alveo del progetto augusteo che si aveva in realtà chiuso le porte del tempio di Giano, ma una vera forza civilizzatrice il cui compito e quello di favorire la semplicità e l’amore.

Il secondo libro di Tibullo è composto da sei elegie, di cui ben tre diretti ad una donna, Nemesi (il cui significato dalla lingua greca è Vendetta), ancora sulla festa degli Ambarvalia (un’antica festa romana celebrata per purificare le messi e allontanare gli influssi cattivi), una per Cornuto e per Messalino.

sapho-icone.jpgRagazza che scrive

Il III libro, come detto, fu in età umanista diviso in due libri:

  • i primi sei sono firmati da un certo Ligdamo che riprende temi e situazioni tipicamente tibulliani; a questi fanno seguito un panegirico di Messalla, scritto intorno al 31 d.C. ed appare più una esercitazione di scuola che opera di un vero e proprio poeta;
  • Il IV è più interessante: certamente sono tibulliani le 5 brevi liriche, sempre in distico elegiaco, in cui si racconta l’amore di Sulpicia per Cerinto; 6 invece sono proprio a  nome di Sulpicia per Cerinto. Se fosse vera l’attribuzione di questi ultimi avremo l’esempio della prima poetessa latina di cui possediamo i testi.

SULPICIA: PROFESSIONE D’AMORE
(4, 7)

Tandem venit amor, qualem texisse pudori
quam nudasse alicui sit mihi fama magis.
Exorata meis illum Cytherea Camenis
adtulit in nostrum deposuitque sinum.
Exsoluit promissa Venus: mea gaudia narret,
dicetur siquis non habuisse sua.
Non ego signatis quicquam mandare tabellis,
ne legat id nemo quam meus ante, velim.
Sed peccasse iuvat, voltus conponere famae
taedet: cum digno digna fuisse ferar.

Finalmente è venuto l’amore e per me sarebbe più vergognoso averlo tenuto nascosto, anziché averne parlato con qualcuno. Commossa dalle suppliche delle mie Camene, Venere citerea l’ha portato da me e lo ha adagiato nel mio letto. Venere ha mantenuto la sua promessa: parli pure della mia felicità colui che ha fama di non averla mai provata. Io non vorrei affidare le mie parole a tavolette sigillate, perché nessuno deve leggerle prima del mio amato. Ma gioia è per me il peccato, sono stanca di recitare una parte di chiacchiere della gente: diranno che sono stata con un uomo degno di me e io di lui.

“Questa breve elegia di Sulpicia, la prima di quelle che costituiscono il suo piccolo canzoniere, è una vibrante professione d’amore, in cui la giovane dà espressione immediata alla sua gioia per la venuta dell’amore e la conquista dell’amato, una sorta di versione al femminile del topos dell’amator triumphans, ben attestato negli altri poeti elegiaci.” (Gian Biagio Conte)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ELEGIA LATINA

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L’elegia latina trova il suo massimo sviluppo durante l’età augustea e ne saranno autori, appunto, gli “elegiaci” Gallo (di cui non possediamo pressoché nulla) Tibullo e Properzio, nonché Ovidio, che pratica questo genere sia in gioventù con gli Amores che in età adulta con le Heroides. Di questo genere ci dice Quintiliano elegia quoque Graecos provocamus, anche l’elegia compete con i Greci.

L’origine latina dell’elegia

Questo ci dice che tale genere deriva da quello greco con alcune rilevanti differenze: pur conservando il metro originale, il distico elegiaco (unione d’esametro e di pentametro), l’elegia romana si caratterizza per il contenuto strettamente erotico, mentre l’ellenico contiene temi vari, fra cui anche il guerresco ed il moraleggiante.

Non sappiamo con certezza l’origine del nome, forse dal metro, in greco  elegòs cioè l’unione di due versi, qualcuno invece la fa derivare dallo strumento del flauto che accompagnava tale composizione, ma possono anche essere vere le due derivazioni; quello che appare è che lo stesso strumento non può che darci un senso di tristezza e di malinconia con cui ancora oggi ci si riferisce con questo termine.

1200px-Egitto_romano,_testa_forse_di_g._cornelio_gallo,_30_ac_ca.jpgBusto di Cornelio Gallo

Ad inaugurarlo sembra sia stato Cornelio Gallo, autore di un libro d’elegie Amores dedicato alla donna amata, Licoride, che dopo aver ottenuto l’incarico di pretore d’Egitto, cadde in disgrazia presso l’imperatore. Di lui non c’è rimasto pressoché nulla, ma sembra sia stato lui ad operare un cambiamento tematico rispetto al modello. Tale cambiamento va ricercato sia per la mutata condizione storica, che forse non permetteva argomenti direttamente “politici”, sia perché il tema erotico aveva avuto un’ottima tradizione latina.

Possiamo infatti, schematicamente, individuare i “precedenti” dell’elegia romana in:

  • L’elegia greca;
  • L’elemento soggettivo con Catullo ed i neoteroi;
  • L’elemento erotico-mitografico dell’epigramma alessandrino.

Temi dell’elegia romana

Se fra gli antecedenti troviamo la poesia catulliana è perché con essa l’elegia condivide l’estrema raffinatezza formale ed il gusto per l’otium, la vita estranea ad ogni impegno, la prevalenza della sfera privata su quella pubblica. Per questi poeti, quindi la poesia ha un forte carattere soggettivo, all’interno tuttavia di modalità ricorrenti al genere elegiaco che li allontanano dal biografismo puro.

William-Adolphe_Bouguereau_(1825-1905)_-_Elegy_(1899).jpgWilliam Adolphe Bouguereau (1825-1905):  Elegy (1899)

Tali modalità sono da ricercare soprattutto nell’esperienza d’amore, l’unica capace di riempire la vita di un uomo: attraverso essa l’uomo raggiunge l’aspirata autarkeia, cioè la piena autosufficienza. Essa si pone come servitium, rapporto di schiavitù verso la domina, che è sempre capricciosa e tendenzialmente traditrice (e quindi quanto più lontano dalla virtuosa uxor); ciò produce rari momenti di gioia e molti di dolore. Sembra tuttavia che ci sia infine una sorta di compiacimento nell’addolorarsi dell’infedeltà della donna amata e perciò i poeti spesso vagheggiano un’età felice o miti antichi raffiguranti amori illustri (è evidente qui la lezione dei poeti alessandrini e dei carmina docta di Catullo).

Se la vita si rifugia nella continua ricerca di un amore appagante con una donna dai facili costumi (si ricorda qui, per inciso, la Lesbia catulliana) tale vita si situa sotto il segno della nequitia, cioè una vita di dissipazione, nettamente contraria alla rivalutazione del mos maiorum che è l’asse portante della politica culturale augustea, soprattutto per il desiderio irraggiungibile di costituire, nell’irregolarità del rapporto, una regolarità “sociale” impossibile da realizzarsi. E’ proprio il giocare all’interno di questi due estremi che si situa la loro ricerca docta, che evita così di essere fine a stessa.

o-STATUA-VILLA-MESSALLA-facebook.jpgRitrovamento archeologico della villa di Messalla

Messalla  

E’ il personaggio intorno al quale fa perno la poesia elegiaca, almeno quelli che appaiono nel Corpus Tibullianum. Dapprima repubblicano, si spostò poi sulla linea augustea, arrivando ad ottenere incarichi anche importanti. Uomo certamente colto, volle a un certo punto della sua vita far ciò che faceva Mecenate con la differenza che, dietro a quest’ultimo vi era la figura del princeps. Ciò ha permesso di avere una posizione che se non d’opposizione, poteva avere una più sfumata autonomia.

QUINTO ORAZIO FLACCO

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Quinto Orazio Flacco

Se Virgilio, grazie all’epica, potrà fregiarsi del titolo di padre della civiltà latina, Quinto Orazio Flacco può invece considerarsi il classico per eccellenza della letteratura romana e non soltanto grazie alla lirica, ma soprattutto per il modo in cui egli seppe, attraverso essa, guardare alla realtà del suo periodo, la Roma che va dall’affermazione all’apogeo di Augusto.

Biografia
 Orazio parla molto di sé nella sua opera, anche se le informazioni maggiori le ricaviamo dal De poëtis di Svetonio.
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Venosa, la cosiddetta casa d’Orazio

Nasce l’8 dicembre del 65 a. C a Venosa, località militare posta tra l’Apulia e la Lucania. Il padre è un liberto e possiede qui una piccola proprietà. Ben presto la famiglia si trasferisce a Roma, dove il padre intraprende la carriera di coactor argentarius, cioè esattore delle imposte; tale attività gli permette di offrire al figlio la migliore educazione possibile. Orazio stesso ci racconta come sin da giovane fosse costretto ad imparare i grandi dell’età arcaica dal plagosus (manesco) Orbilio. Nel 44 a. C. decide, come gran parte della buona gioventù di allora, di recarsi ad Atene per perfezionare le sue conoscenze, ma si trova invischiato nella lotta che i triumviri Antonio, Lepido ed Ottaviano stanno conducendo contro il cesaricida Bruto. Ardente di spirito libertario, il giovane Orazio sceglie di stare con quest’ultimo e combatte, come ufficiale, nella battaglia di Filippi (42 a.C.). Orazio, in una delle sue Odi (ΙΙ, 7) parla di questa battaglia e ci rammenta come egli, allo stesso modo di Archiloco

«ἀσπίδι μὲν Σαΐων τις ἀγάλλεται, ἣν παρὰ θάμνωι,
ἔντος ἀμώμητον, κάλλιπον οὐκ ἐθέλων·
αὐτὸν δ’ ἐξεσάωσα. τί μοι μέλει ἀσπὶς ἐκείνη;
ἐρρέτω· ἐξαῦτις κτήσομαι οὐ κακίω.»

del mio scudo ora uno dei Sai si fa bello: presso un cespuglio abbandonai quell’arma perfetta a malincuore; ma salvai la vita: che m’importa di quello scudo. Vada alla malora: me ne procurerò un altro non peggiore

abbandona lo scudo e se la dà a gambe.

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Giorgio Esposito: la battaglia di Filippi (1993)

ODI
(II, 7 vv. 9-12)

Tecum Philippos et celerem fugam
sensi relicta non bene parmula,
cum fracta virtus et minaces
turpe solum tetigere mento;

Con te provai Filippi e la vergogna
dello scudo gettato nella fuga,
quando vinti ma fieri
toccammo il suolo con il mento

 

Ritornato a Roma dalla battaglia di Filippi, trovandosi in ristrettezze economiche per aver perduto il fondo paterno, si riduce a fare lo scriba quaestorius, un lavoro burocratico non senza importanza. Durante questo periodo egli, con molta probabilità, inizia a scrivere e quindi, attraverso la sua prima produzione, viene a contatto con Varo e Virgilio. Saranno loro a presentarlo, per la prima volta nel 37 a. C., a Mecenate. Un incontro non facile, perché il nostro si dimostra impacciato; ma solo dopo nove mesi nasce una vera e forte amicizia che fa sì che Mecenate gli doni un piccolo fondo in Sabina.

E sicuramente Mecenate che lo avvicina ad Augusto, che gli mostra sempre un atteggiamento cordiale e di profondo rispetto per la sua ars.

Il resto della sua vita ci appare piuttosto oscuro: ma più che oscuro forse senza eventi degna di nota, se non per le opere che periodicamente lui pubblica e che lo rendono, già per gli intellettuali contemporanei e per lo stesso imperatore, un “classico”.

Infatti fu Augusto a fare di lui un poeta ufficiale, degno erede di quel Virgilio, morto nel 19, da lui tanto ammirato quanto il poeta mantovano abbia ammirato lui, quando gli commissiona il Carmen saeculare nel 17 a. C.

Orazio muore nell’8 a. C., dopo solo due mesi dall’amico Mecenate.

Opere
 
E’ difficile fare un discorso cronologico sulle opere di Orazio, in quanto egli lavora ai libri delle stesse in modo parallelo. Sarà pertanto dato qui, in modo schematico, il genere della produzione artistica del nostro:

opere a carattere satirico e moralistico: Satire (due libri) e l’Epistole (I libro);
opere a carattere teorico o di riflessione letteraria: l’Epistole (II libro) e l’Epistula ad Pisonem (o Ars poëtica);
opere a carattere giambico e lirico: Epòdi (o Iambi) e Carmina (o Odi) (IV libri)
opere a carattere celebrativo: Carmen saeculare.
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Una vecchia edizione delle Odi e degli epodi di Orazio

Epòdi
 
Ci dice Orazio in una delle Epistole:

I GIAMBI DI ORAZIO
(I, vv. 24-26)

… Parios ego primus iambos
ostendi Latio, numeros animosque secutus
Archilochi, non res et agentia verba Lycamben. 

Io per primo i giambi di Paro
portai nel Lazio, seguendo il ritmo e lo spirito
di Archiloco, non gli argomenti e le parole che perseguitavano Licambe

da cui si può arguire che gli Epòdi hanno, come concezione, una forte ascendenza letteraria. Inizia cioè quel topos del primus, che tanta parte ebbe nella cultura augustea.

Infatti, primo poeta latino, riprende i poeti greci Archiloco (VII sec. A. C.) ed Ipponatte (IV sec. A. C.), famosi per le loro invettive ed aggressività. Tuttavia Orazio ne prende subito le distanze: se infatti vuole imitarne il metro e lo spirito, non così gli argomenti.

Gli epòdi sono 17 componenti, in cui prevale il metro, appunto epodico (che indica in un distico, che il secondo verso è più breve del precedente). Il titolo oraziano era Iambi, ma, come già in Catullo, la titolazione preminente, datagli dai grammatici medievali, è di tipo metrico. Si pensa che essi siano stati composti tra il 41 e il 30, anno della loro pubblicazione (insieme al secondo libro delle Satire) e rappresentano, a livello contenutistico una certa varietà:

  • il 3, il 4, il 6 ed il 10 riprendono il tema dell’invettiva tipica del genere greco; il 3 è un divertissement (un’invettiva contro l’aglio che gli ha cucinato Mecenate) gli altri due si rivolgono più ad un “vizio” che a persone specifiche (al contrario dei giambografi greci), soltanto l’ultimo è rivolto a Mevio, cui viene augurato un naufragio:

AUGURIO DI CATTIVO VIAGGIO
(10)

Mala soluta navis exit alite
ferens olentem Mevium.
Ut horridis utrumque verberes latus,
Auster, memento fluctibus;
niger rudentis Eurus inverso mari
fractosque remos differat;
insurgat Aquilo, quantus altis montibus
frangit trementis ilices;
nec sidus atra nocte amicum adpareat,
qua tristis Orion cadit;
quietiore nec feratur aequore,
quam Graia victorum manus,
cum Pallas usto vertit iram ab Ilio
in impiam Aiacis ratem.
O quantus instat navitis sudor tuis
tibique pallor luteus,
et illa non virilis eiulatio
preces et aversum ad Iovem,
Ionius udo cum remugiens sinus
Noto carinam ruperit!
Opima quodsi praeda curvo litore
porrecta mergos iuverit,
libidinosus immolabitur caper
et agna Tempestatibus.
 

Con funesto presagio è salpata e va la nave
che porta il fetido Mevio.
Di sferzarne entrambi i fianchi con spaventose
ondate ricordati, Austro;
Euro nero sconvolgendo il mare ne possa le gomene
e i rami spezzati disperdere;
Aquilone si levi impetuoso come quando sugli alti monti
schianta i lecci tremanti;
e nessuna costellazione nella cupa notte brilli amica
là dove tramonta Orione tempestoso;
e su acque sia portato non più calme
di quelle che ebbe l’armata dei Greci vincitori,
quando Pallade dalle ceneri d’Ilio volse la sua ira
contro la nave empia di Aiace.
Oh quanto sudore attende i tuoi marinai,
e te pallore giallastro,
e quel tuo non virile piagnucolio,
e preghiere a Giove che non t’ascolta,
quando il mar Ionio mugghiando sotto le piovose raffiche
di Noto ti fracasserà la chiglia!
Se poi una preda succulenta sul lido ricurvo
lunga distesa pascerà gli smerghi,
un lascivo capro sarà da me immolato
con un’agnella alle Tempeste.

E’ questa l’unica invettiva rivolta contro una persona (sembra fosse un mediocre poeta), ma nulla ci rimanda ad un motivo, un’occasione che abbia spinto Orazio a rivolgergli l’augurio di un naufragio: guardando il modello archilocheo, ci viene qui da pensare che si tratti di un puro esercizio letterario, tanto più che è trattato secondo lo schema del propemtikòn (augurio di buon viaggio) completamente rovesciato.
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Nave d’epoca romana sommersa (dipinto)

  • l’8 ed il 12 sono rivolti a due “vecchie libidinose” che tentano di concupirlo. La loro bruttezza fisica è accentuata da una descrizione espressionistica;
  • il 5 ed il 17 descrivono invece la maga Canidia, contro le cui arti magiche il poeta si scaglia;
  • il 7 ed il 16 da una parte ed l’1 ed il 9 sono d’argomento civile: i primi due risalgono alla disfatta di Filippi (il 7 esprime il suo sdegno per la ripresa della guerra civile, il 16 invita i Romani ad andarsene nelle Isole Felici per sfuggire alla guerra); le seconde due in prossimità alla battaglia di Azio (la numero 1, che funge da dedica a Mecenate, in cui il poeta assicura fedeltà ad Ottaviano e la 9, mostrandosi in ansia, schernisce gli avversari e si prepara a brindare per la loro sconfitta;

LA FOLLIA DELLE GUERRE CIVILI
(7)
Quo, quo scelesti ruitis? aut cur dexteris
aptantur enses conditi?
Parumne campis atque Neptuno super
fusum est Latini sanguinis,
non ut superbas invidae Karthaginis
Romanus arces ureret,
intactus aut Britannus ut descenderet
sacra catenatus via,
sed ut secundum vota Parthorum sua
urbs haec periret dextera?
Neque hic lupis mos nec fuit leonibus
umquam nisi in dispar feris.
Furorne caecus an rapit vis acrior
an culpa? Responsum date!
Tacent et albus ora pallor inficit
sic est: acerba fata Romanos agunt
scelusque fraternae necis,
ut inmerentis fluxit in terram Remi
sacer nepotibus cruor

Dove, dove vi gettate voi, scellerati?
perché impugnate le spade in disarmo?
Forse non si è sparso sulla terra e sul mare
sangue latino a sufficienza?
e non perché i romani incendiassero in guerra
le rocche altere di Cartagine
o gli indomiti britanni in catene
scendessero per la Via Sacra,
ma perché, come sperano i parti, perisse
questa città di propria mano?
Non è costume questo di lupi o leoni,
feroci solo coi diversi.
Follia cieca vi travolge? forza invincibile
o colpa? Rispondete.
Tacciono, e un pallore scolora il loro volto,
la mente attonita, sgomenta.
Certo: un fato atroce perseguita i romani,
l’infamia di aver ucciso un fratello,
quando, a maledizione dei nipoti, il sangue
di Remo bagnò innocente la terra.

Ad osservare questo epodo sembra quasi che il lettore non riconosca nella voce del poeta quella pacatezza, giusta misura, quale la tradizione gli riconosce. Infatti le incalzanti interrogative, l’esempio pregnante dei lupi e dei leoni sembrano riferirsi maggiormente al sentimento dell’ira e dell’invettiva. E’ proprio dell’epodo tale stile. Difficile collocare tale passo: alcuni lo pensano come uno fra i primi quando, appena terminata la guerra di Filippi, doveva assistere alla ribellione di Perugia il pericolo con la rottura fra Ottaviano e Antonio. Certamente è il sentimento di pace che domina, vissuto più come aspirazione che realtà: per questo la poesia si apre e chiude ad anello sul termine scelesti/scelus quasi fosse destino il travaglio per i nipoti di Romolo.

  • l’11, il 14 e il 15 sono d’argomento erotico: l’11 ed il 14 riprendono il topos dell’incapacità di riprodurre versi per il troppo amore che gli riempie il cuore e la mente, mentre il 15 è rivolto ad una donna infedele.

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Moneta raffigurante Orazio

LA BELLA INFEDELE
(15)
Nox erat et caelo fulgebat Luna sereno
inter minora sidera,
cum tu, magnorum numen laesura deorum,
in verba iurabas mea,
artius atque hedera procera adstringitur ilex
lentis adhaerens bracchiis;
dum pecori lupus et nautis infestus Orion
turbaret hibernum mare
intonsosque agitaret Apollinis aura capillos,
fore hunc amorem mutuom,
o dolitura mea multum virtute Neaera:
nam siquid in Flacco viri est,
non feret adsiduas potiori te dare noctes
et quaeret iratus parem
nec semel offensi cedet constantia formae,
si certus intrarit dolor.
et tu, quicumque es felicior atque meo nunc
superbus incedis malo,
sis pecore et multa dives tellure licebit
tibique Pactolus fluat
nec te Pythagorae fallant arcana renati
formaque vincas Nirea,
heu heu, translatos alio maerebis amores,
ast ego vicissim risero. 

Era notte e la luna scintillava
tra le luci minori delle stelle
e tu alle mie parole rispondevi
“giuro”, pronta a tradire
il santo nome degli dei – io ero
avvinto alle tue morbide braccia
come l’edera stringe l’alto leccio –
“finché sarà nemico al gregge il lupo
e Orione al marinaio
quando agita il mare nell’inverno
e fin che l’aria toccherà la chioma
mai recisa d’Apollo,
tuo e mio sarà il nostro amore” –
ma molto dovrai piangere
Neera, per questo mio essere uomo!
Perché se l’uomo c’è in questo Flacco
non patirà che tutte le tue notti
le dia a chi è il più forte
e l’ira chiederà la parte uguale.
Sarà allora infallibile il dolore,
sarà fermo
davanti alle bellezza così offesa.
Io non so chi tu sia,
più fortunato,
che superbo cammini sul mio mare.
Ma puoi essere ricco e di terre e di armenti,
ti può scorrere l’oro come un fiume,
puoi essere maestro nei misteri
di Pitagora che nacque e che risorse
e superare Nireo per bellezza –
avrai la ricompensa di un amore
che va da un altro. E sarà la mia volta,
riderò.

Un epodo “erotico” che ci permette di sottolineare la profonda differenza tra la concezione d’amore catulliana e questa d’Orazio: come sappiamo anche Clodia tradisce Catullo: ma lì vi è la rottura di un foedus, d’un patto d’amore; in Orazio ad essere colpito invece è l’orgoglio che la punirà con la stessa moneta: il tradimento. Ma non finisce qui: l’invettiva è rivolta anche a colui che l’ha sostituito: quando a sua volta sarà abbondonato dalla fedifraga Neera sarà lui a ridere. Si noti l’“incipit” che sembra aver ispirato certi notturni tassiani e leopardiani.

  • Isolati gli epodi 2 e 13: il primo è un elogio della vita di campagna (con sorpresa finale, a farlo è un usuraio), il secondo apre il tema simposiaco: è infatti un invito a bere in una notte d’inverno.

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Uva: pittura parietale

Come abbiamo già accennato a caratterizzare gli Epodi e l’estrema varietas, dall’esaltazione a Mecenate alle guerre civili; alla varietà degli argomenti risponde anche una varietà di tono, che può essere indignato, affettuoso, ironico e sarcastico.

Ma l’Orazio degli Epodi è realmente irato o “finge” di esserlo? Per rispondere basta sottolineare le differenze tra la sua poesia ed il modello: se l’una è rivolta a personaggi o situazioni specifiche (almeno quanto ci è rimasto), il poeta lucano sembra maggiormente rivolgersi a “tipi” a “situazioni generiche”. Forse non sono proprio un “falso” (d’altra parte nascono all’interno di una situazione storica ancora fluida), ma già in questa produzione in versi vi appare l’Orazio fine letterato.

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Edizione Ottocentesca delle Satire

Satire
 
A definire lo stile della satira è lo stesso Orazio:

I PADRI DELLA SATIRA
(I, 4 vv. 1-7)
Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poetae
atque alii, quorum comoedia prisca virorum est,
siquis erat dignus describi, quod malus ac fur,
quod moechus foret aut sicarius aut alioqui
famosus, multa cum libertate notabant,
hinc omnis pendet Lucilius, hosce secutus,
mutatis tantum pedibus numerisque… 

Eupoli, Cratino e Aristofano, questi poeti,
e altri, che furono gli autori della commedia antica,
se uno meritava di esser messo in berlina perché furfante o ladro,
adultero o assassino o in ogni caso
malfamato, lo bollavano senza tanti complimenti.
Da questi in tutto deriva Lucilio, che ne segue l’esempio,
mutando soltanto il metro e io ritmo.

 

che l’ascrive totalmente al poeta Lucilio, che visse, come si ricorderà in età sillana. Egli stesso ci dice che Lucilio l’avrebbe derivata dagli autori della commedia arcaica, conservando lo stile mordace irriverente, ma al contempo cambiandone il genere ed il metro. Stesso il discorso di Quintiliano che nella sua opera descrive come “poeti satirici” appunto Lucilio, Orazio e Persio. Sebbene anche Nevio ed Ennio furono autori di Satire, il poeta ed il critico latino ne danno piena paternità a Lucilio, e lo stesso Quintiliano, orgogliosamente afferma: Satura tota nostra est, rivendicando l’originalità e l’indipendenza dal modello greco. Ma a marcarne la differenza, poco dopo Orazio aggiunge:

LO STILE DI LUCILIO

(I, 4 vv. 11-14)
cum flueret letulentus, erat quod tolleret velles;
garrulus atque piger scribendi ferre laborem,
scribendi recte: nam ut multum, nil moror…

siccome scorreva fangoso, c’erano cose che avresti voluto levare;
era ciarliero e insofferente della fatica di scrivere,
di scrivere bene: perché io del molto scrivere non me ne curo.

distinguendosi dal modello e quindi mostrando la volontà di rifondare il genere, per sostituirsi e diventare a sua volta punto di riferimento.

Orazio scrive due libri di Satire in esametro, il primo tra il 40 ed il 35, anno in cui lo pubblicò, il secondo tra il 34 ed il 30. Pertanto la loro composizione coincide con quella degli Epodi.

Le prime 10 Satire del primo libro trattano:

  • Rivolta a Mecenate: si parla del raggiungimento della felicità e come tale ricerca sia illusoria; infatti raggiuntala si vuole sempre andare oltre. Per vivere se non felicemente ma in armonia con se stessi, bisognerà prendere atto di ciò che realmente ci occorre.

L’INCONTENTABILITA’ DEGLI UOMINI
(I, 1 vv. 1-20; 106-107)

Qui fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem
seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa
contentus vivat, laudet diversa sequentis?
«O fortunati mercatores» gravis annis
miles ait, multo iam fractus membra labore;
contra mercator, navim iactantibus Austris,
«Militia est potior. quid enim? concurritur: horae
momento cita mors venit aut victoria laeta.»
Agricolam laudat iuris legumque peritus,
sub galli cantum consultor ubi ostia pulsat;
ille, datis vadibus qui rure extractus in urbem est,
solos felicis viventis clamat in urbe.
Cetera de genere hoc – adeo sunt multa – loquacem
delassare valent Fabium. ne te morer, audi
quo rem deducam. si quis deus «En ego» dicat,
«iam faciam quod voltis: eris tu, qui modo miles,
mercator; tu, consultus modo, rusticus: hinc vos,
vos hinc mutatis discedite partibus. Eia,
quid statis?» nolint: atqui licet esse beatis.

 
Com’è, Mecenate, che nessuno è contento della sorte,
che la ragione gli ha dato o il caso gli gettato davanti,
e tutti invece non fanno che esaltare chi persegue una vita diversa?
«Fortunati i mercanti!», dice il soldato appensatito,
dagli anni, le membra ormai rotte dalla lunga fatica.
E il mercante, da parte sua, mentre gli Austri sballottano la nave:
« Meglio soldato. Che cos’è in fin dei conti? Ci si scontra: nel volger
di un’ora viene rapida la morte o la vittoria gioiosa».
Fa l’elogio del contadino l’esperto di diritto e di leggi,
quando sul cantare del gallo, il cliente gli batte la porta.
L’altro invece, che, per aver presentato malleverie, viene tratto in forza dalla campagna in città,
va proclamando felice chi vive in città.
Gli altri di questo genere varrebbero – tanto on numerosi – a sfinire
una lingua come quella di Fabio. Per farla breve, ascolta
dove vado a parare. Se un dio dicesse: «Ecco,
io ora farò ciò che volete: sarai mercante, tu che eri poc’anzi soldato;
tu, prima giureconsulto, sarai campagnolo. Voi da questa parte,
e voi da quest’altra, a ruoli scambiati. Ehi,
che fate lì impalati?» non vorrebbero. Eppure è dato loro di essere felici.

Il poeta ci ricorda:

est modus in rebus, sunt certi denique fines
quos ultra citraque nequit consistere rectum.

in tutto c’è dunque una misura, ci sono confini ben precisi
al di fuori dei quali il giusto non può darsi

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Auguste Rodin: Il pensatore (Parigi)

La prima satira ci porta direttamente nel nucleo ideologico del pensiero di Orazio: nell’individuazione che nessuno si contenta di ciò che è ed ha ed aspira ad essere diverso, si misura il senso dell’insoddisfazione che attanaglia l’uomo; la soluzione il poeta la trova nella misura, cioè l’equidistanza dagli eccessi (metriòtes), che sarà cantata con altri accenti nelle Odi.

  • la seconda è sempre rivolta alla ricerca del ben vivere: se si vuole far l’amore perché cercare il brivido dell’adulterio piuttosto che andare con le prostitute nate per far ciò?
  • Presentando un uomo privo del senso della misura, Orazio ci ricorda dei difetti di ognuno, prendendo in giro i saggi stoici, che pensano a se stessi come perfetti, e insegnandoci ad essere indulgenti con noi stessi.
  • E’ questa la satira in cui riconosce la paternità del genere a Lucilio. Inoltre ricorda come il padre, insegnandogli a guardare i vizi della vita altrui, lo invitasse a tenere una condotta migliore nel proprio comportamento.
  • Qui si descrive il viaggio a Brindisi affrontato insieme a Mecenate e ad altri amici;

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Colonna romana a Brindisi che segnava la fine della via Appia

VIAGGIO A BRINDISI
(I, 5 vv. 1-20)

Egressum magna me accepit Aricia Roma
hospitio modico; rhetor comes Heliodorus
Graecorum longe doctissimus; inde Forum Appi
differtum nautis cauponibus atque malignis.
Hoc iter ignavi divisimus altius ac nos
praecinctis unum: minus est gravis Appia tardis.
Hic ego propter aquam quod erat deterrima ventri
indico bellum cenantis haud animo aequo
exspectans comites. Iam nox inducere terris
umbras et caelo diffundere signa parabat.
Tum pueri nautis pueris convicia nautae
ingerere: “Huc adpelle”; “Trecentos inseris?” “Ohe
iam satis est!” Dum aes exigitur, dum mula ligatur,
tota abit hora. Mali culices ranaeque palustres
avertunt somnos; absentem cantat amicam
multa prolutus vappa nauta atque viator
certatim: tandem fessus dormire viator
incipit, ac missae pastum retinacula mulae
nauta piger saxo religat stertitque supinus.

 
Partito che fui da Roma, dalla gran città, in un modesto alloggio
Ariccia mi ospitò; ero accompagnato da Eliodoro, maestro d’eloquenza,
coltissimo: nessuno, tra i Greci, alla sua altezza. Poi Forappio,
tutta un brulicare di barcaioli e tavernieri truffaldini.
Che pigrizia, la nostra! Dividemmo il tratto in due tappe, ma sarebbe una sola
per viaggiatori un po’ più disinvolti: andando adagio l’Appia è meno faticosa.
Qui per via dell’acqua, ch’era infame, io dichiaro
guerra all’intestino; e cupo, mi riduco ad aspettare
i compagni che cenano. Ormai la notte s’accingeva
a stendere le tenebre sul mondo, a spargere le stelle in cielo.
Ed ecco, tra schiavi e barcaioli, tra barcaioli e schiavi, scoccare
scintille: “Accosta qua!”, “Quanti ne imbarchi: trecento?”, “Ehi,
basta così!”. Un’ora intera se ne va tra l’incassare i soldi
e l’aggiogar la mula. Malefiche zanzare e rane palustri
mettono in fuga il sonno. Ingaggiano una sfida un barcaiolo avvinazzato
e un viaggiatore cantano entrambi, a gara, la ragazza
lontana; finché il secondo, stanco morto, si addormenta,
e l’altro, lasciata andare al pascolo la mula, ne lega
pigramente le redini ad un masso, si corica supino, e russa.

Questa satira, di cui si riportano i solo primi versi, racconta l’esperienza di viaggio di Orazio compiuto a Brindisi, per accompagnarvi Mecenate e Cocceio Nerva, inviati in missione diplomatica da Ottaviano per rinsaldare i rapporti, che si erano fatti un po’ tesi, con Antonio. Nell’intera satira del motivo politico del viaggio e dell’importanza che esso poteva rappresentare per il rafforzamento di quel progetto di pace (che poi sapremo non riuscire) che legavano i massimi rappresentanti politici. Orazio si limita a descrivere figure, piccole macchiette, che, seppure non unite fra loro, rimandano ad un brulicare di “vita” che rendono la satira stessa assai vivace, E’ chiaro, infine, l’intento di inserirsi sulla stessa linea di Lucilio, che aveva descritto, appunto, un viaggio in Sicilia: ma non bisogna dimenticare che il tema del viaggio era molto apprezzato dai lettori di allora.

  • Ancora vengono sottolineati gli insegnamenti paterni: infatti il nobile Mecenate lo ha accolto nel suo cerchio perché, pur figlio di un liberto, gli ha trasmesso la purezza e l’integrità;
  • Viene descritto un contrasto tra due personaggi, chiamati in giudizio;
  • Il dio Priapo ci racconta le magie di una fattucchiera;
  • Qui il poeta mette in scena se stesso, che mentre passeggia viene importunato da uno “scocciatore”;

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Via Sacra

LO SCOCCIATORE
(I, 9 vv. 1–34)
 
Ibam forte via Sacra, sicut meus est mos,
nescio quid meditans nugarum, totus in illis.
Accurrit quidam notus mihi nomine tantum
arreptaque manu: “Quid agis, dulcissime rerum?”.
“Suaviter, ut nunc est”, inquam “et cupio omnia quae vis”.
Cum adsectaretur, “Num quid vis?” occupo, at ille
“Noris nos” inquit, “docti sumus”. Hic ego: “Pluris
hoc” inquam “mihi eris”. Misere discedere quaerens
ire modo ocius, interdum consistere, in aurem
dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos
manaret talos. “O te, Bolane, cerebri
felicem!” agebam tacitus, cum quidlibet ille
garriret, vicos, urbem laudaret. Ut illi
nil respondebat. “Misere cupis” inquit “abire:
iamdudum video. Sed nil agis; usque tenebo,
persequar. Hinc, quo nunc iter est tibi?”. “Nil opus est te
circumagi: quendam volo visere non tibi notum;
trans Tiberim longe cubat is prope Caesaris hortos”.
“Nil habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te”.
Demitto auricolas, ut iniquae mentis asellus,
cum gravius dorso subiit onus. Incipit ille:
“Si bene me novi, non Viscum pluris amicum,
non Varium facies: nam quis me scribere pluris
aut citius possit versus? Quis membra movere
mollius? Invideat quod et Hermogenes, ego canto”.
Interpellandi locus hic erat: “Est tibi mater,
cognati, quis te salvo est opus?”. “Haud mihi quisquam;
omnis conposui”. “Felices! Nunc ego resto.
Confice. Namque instat fatum mihi triste, Sabella
quod puero cecinit divina mota anus urna:
“hunc neque dira venena nec hosticus auferet ensis
nec laterum dolor aut tussis nec tarda podagra:
garrulus hunc quando consumet cumque: loquacis,
si capiat, vitet, simul atque adoleverit aetas”. 

Passeggiavo per combinazione lungo la Via Sacra, vecchia abitudine,
e intanto meditavo una mia sciocchezza, tutto concentrato.
Mi abborda d’improvviso un tizio di cui conosco solo il nome.
Afferra la mia mano: “Come va, carissimo?”
“Fin qui stupendamente”, gli rispondo “e t’auguro ogni bene”
Non molla, mi tallona: “Insomma, cosa vuoi?”, gli butto là. E lui:
“Dovresti pur conoscerci” dice, “siamo intellettuali”. “Avrò per te”,
gli dico, “stima ancor maggiore”. Tentando disperato di tagliar la corda
ora accelleravo il passo, ora mi fermavo a sussurrare
qualche cosa nell’orecchio del mio servo. Grondavo di sudore
fino alle calcagna. “Beato te, Bolano, spirito
bollente!”, rimuginavo a bocca chiusa. E l’altro garrulo,
ciarlava, proclamava il suo entusiasmo per le strade, la città. Io
non replicavo. “Ma tu” sogghigna, “tu non vedi l’ora di piantarmi in asso.
Da un pezzo l’ho notato. Niente da fare. Ti terrò ben stretto,
restandoti alle costole. Dove sei diretto adesso?” “Giri inutili
per te: vado a trovare una persona che certo non conosci.
E’ a letto. Sta di là dal Tevere, lontano, dalle parti dei giardini di Cesare.”
“Non ho nessun impegno, e non sono affatto pigro: t’accompagno”.
Mi si abbassano le orecchie come a un somarello rassegnato suo malgrado
quando sul dorso gli grava una soma più pesante. Quello ricomincia:
“Mi conosco bene: la mia amicizia ti sarà preziosa almeno quanto
quella con Visco e Vario. Ti sfido a trovare chi sappia scrivere
più versi e più velocemente: chi danzi con maggiore
grazia. Se udisse il mio canto persino Ermogene m’invidierebbe”.
Era giunto il momento d’interromperlo: “hai ancora la madre,
dei parenti cui stia a cuore il tuo stato di salute?”. “Più nessuno,
tutti li ho sepolti”. “Beati! Io, purtroppo, sopravvivo.
Dammi il colpo di grazia: un tragico destino incombe su di me. Una vecchia
Sabina, scuotendo l’urna, per i vaticini (ero fanciullo), lo predisse.
‘Questo ragazzo non l’ammazzeranno terribili veleni, spade nemiche,
attacchi di pleurite o tisi o podagra che rallenta il passo;
lo porterà alla tomba, un giorno o l’altro, un chiacchierone. Uscito dunque
dalla pubertà, abbia buon senso di stare alla larga dai loquaci”.

Il racconto prosegue con l’intenzione del “seccatore” di essere presentato a Mecenate, e, mostrando ad Orazio le bassezze di cui è capace pur di ottenere lo scopo. Intanto s’avvicina un amico di Orazio, che conosce bene il tipo, e per questo, vuol far dispetto al poeta, facendo lo gnorri. Poi finalmente lo scocciatore sembra esser preso da fretta improvvisa; infatti vede arrivare il suo avversario, aveva citato in giudizio, e prega Orazio di essergli testimone.
Può sembrare una satira facile, divertente, un tranche de vie costruito su un piccolo prepotente e il pavido Orazio. Ma non è così. Pur con ironia ciò che sta alla base della racconto oraziano un forte moralismo e questo viene espresso attraverso una costruzione quasi tragica: i due attori che si scambiano continue battute (il servo e poi l’amico sono quasi completamente muti), il destino avverso del protagonista, ed infine l’intervento del deus ex machina che risolve la questione.

  • In quest’ultima satira del primo libro, Orazio torna a parlare di letteratura e del suo modo di poetare. Egli è certo di essere apprezzato dai suoi docti

Il secondo libro di Satire, pubblicate, come detto nel 30, sono otto e trattano:

  • Qui Orazio si rivolge ad un giurista per ricevere risposte sulla sua attività di scrittore satirico; ascoltata la sentenza secondo cui essa è inutile, gli si risponde che questa è la sua vocazione;
  • Il contadino Ofello rivolge una lode al cibo modesto; ma anche questa satira ha valore sapienziale in quanto rimanda al concetto del “giusto mezzo”
  • Qui si sviluppa, tramite le parole di filosofo, il tema secondo cui “siamo tutti folli”;
  • Ancora, riprendendo Lucilio, una satira “gastronomica”, raccontata come fosse di norme filosofiche;
  • Appare il fantasma di Tiresia a consigliare ad Ulisse, dopo aver a lungo viaggiato a ricostruire la sua eredità;
  • Ringraziando Mercurio, per il dono fattogli da Mecenate della villa in Sabina, il poeta svolge in questa satira un appassionato elogio della vita di campagna;

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TOPO DI CAMPAGNA E TOPO DI CITTA’
(II, 6 vv. 80-117)
 
Rusticus urbanum murem mus paupere fertur
accepisse cavo, veterem vetus hospes amicum,
asper et attentus quaesitis, ut tamen artum
solveret hospitiis animum. Quid multa? Neque ille
sepositi ciceris nec longae invidit avenae,
aridum et ore ferens acinum semesaque lardi
frusta dedit, cupiens varia fastidia cena
vincere tangentis male singula dente superbo,
cum pater ipse domus palea porrectus in horna
esset ador loliumque, dapis meliora relinquens.
Tandem urbanus ad hunc “Quid te iuvat” inquit, “amice,
praerupti nemoris patientem vivere dorso?
Vis tu homines urbemque feris praeponere silvis?
Carpe viam, mihi crede, comes, terrestria quando
mortalis animas vivunt sortita neque ulla est
aut magno aut parvo leti fuga: quo, bone, circa,
dum licet, in rebus iucundis vive beatus,
vive memor, quam sis aevi brevis. “Haec ubi dicta
agrestem pepulere, domo levis exsilit; inde
ambo propositum peragunt iter, urbis aventes
moenia nocturni subrepere. Iamque tenebat
nox medium caeli spatium, cum ponit uterque
in locuplete domo vestigia, rubro ubi cocco
tincta super lectos canderet vestis eburnos
multaque de magna superessent fercula cena,
quae procul exstructis inerant hesterna canistris.
Ergo ubi purpurea porrectum in veste locavit
agrestem, veluti succinctus cursitat hospes
continuatque dapes nec non verniliter ipsis
fungitur officiis, praelambens omne quod adfert.
Ille cubans guadet mutata sorte bonisque
rebus agit laetum convivam, cum subito ingens
valvarum strepitus lectis excussit utrumque.
Currere per totum pavidi conclave magisque
exanimes trepidare, simul domus alta Molossis
personuit canibus. Tum rusticus:” Haud mihi vita
est opus hac” ait et “ valeas: me silva cavosque
tutus ab insidiis tenui solabitur ervo”.

Un rustico topo un topo urbano si dice accogliesse
nella povera tana, il vecchio ospite il vecchio amico
severo e parsimonioso, ma capace di sciogliere
il chiuso animo all’ospitalità. Che dire? Né quello
risparmiò il cece messo da parte né la lunga avena,
portando alla bocca chicchi di uva secca e lardo
per metà rosicchiato diede in pezzetti, desiderando
vincere il fastidio di chi mal toccava i singoli pezzi
con dente superbo, grazie a una cena variegata,
mentre lo stesso padrone di casa, su fresca paglia disteso,
mangiava loglio e farro, lasciando il meglio del banchetto.
Allora l’urbano disse a questi: “Che ti giova, o amico,
vivere a fatica sul dorso di un bosco a precipizio?
Vuoi tu anteporre gli uomini e la città alle selvagge selve?
Prendi la strada, credimi, o compagno, poiché le creature
terrestri vivono anime mortali ricevute in sorte
e per il grande e per il piccolo non c’è alcuna fuga dalla morte:
per questo, mio caro, finché ti è lecito, vivi beato
in mezzo ai piaceri, ricordati che la vita è breve.” Quando queste
parole convinsero il campagnolo, questi salta via leggero dalla sua casa,
poi entrambi fanno il viaggio stabilito, con il desiderio
di strisciare sotto le mura della città di notte. Già alta era la notte,
quando i due mettono le loro impronte in una ricca dimora,
dove una coperta tinta di rosso scarlatto brillava sopra
letti di avorio e restavano molti piatti da una grande cena,
rimasti da parte in cesti pieni dal giorno prima. L’ospite,
fatto sdraiare il campagnolo sul tappeto purpureo,
come uno schiavo con vesti arrotolate, corre su e giù,
porta una pietanza dopo l’altra e fa il servizio come
lo schiavo di casa, prima assaggiando tutto ciò che serve.
L’altro se ne sta sdraiato e gode della mutata sorte
e in mezzo a queste delizie, fa il convitato felice,
quando d’improvviso un grande strepito di porte li fece sobbalzare
dai letti. Allora corsero via impauriti per tutta la sala,
tremarono senza fiato, quando l’alta dimora risuonò per i latrati
dei cani molossi. Allora il topo di campagna disse: “Non fa per me
questa vita, ti saluto, la mia tana nel bosco, sicura
dai pericoli, mi consolerà dei miei pochi legumi”.

Favoletta diventata celeberrima rappresenta una specie di apologo sulla condizione umana desiderata da Orazio stesso, che rivendica per sé un ideale di vita qui rappresentato dal mus rusticus. La perizia oraziana sta tutta nel descrivere due topi reali nel loro agire ed “umani” nel loro dialogare, caratterizzati anche da un linguaggio potremo dire diverso, perché diversa è la loro classe sociale. Si nota tuttavia una certa “incoerenza” del poeta, ma a sottilinearla ci pensa Orazio stesso.

  • Secondo il costume dei Saturnali a prendere la parola è il servo Davo che fa una vera e propria predica al suo padrone Orazio, a cui il padrone riesce a porre termine con le minacce;

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Ernesto Biondi: Saturnali (1890)

DAVO RIMPROVERA ORAZIO
(II, 7 vv. 22-35)

“Laudas
fortunam et mores antiquae plebis, et idem
si quis ad illa deus subito te agat, usque recuses,
aut quia non sentis quod clamas rectius esse,
aut quia non firmus rectum defendis, et haeres
nequiquam caeno cupiens evellere plantam.
Romae rus optas, absentem rusticus urbem
tollis ad astra levis. Si nusquam es forte vocatus
ad cenam laudas securum holus ac, velut usquam
vinctus eas, ita te felicem dicis amasque
quod nusquam tibi sit potandum. Iusserit ad se
Maecenas serum sub lumina prima venire
convivam: “nemon oleum fert ocius? Ecquis
audit?” cum magno blateras clamore fugisque.

 
“Tu lodi
la maniera di vivere e i costumi del buon tempo antico, ma tu stesso,
se un dio di punto in bianco volesse farti risalire a quella età, mai ti decideresti
o perché non senti che sia migliore ciò che predichi,
o perché, privo di costanza, difendi il bene e resti impagliato
nel fango, da cui invano desideri staccare i piedi.
A Roma tu sospiri la campagna; quando sei in villa, volubile,
levi alle stelle la città lontana. Se per caso da nessuno sei invitato
a cena, esalti il tuo tranquillo piatto di legumi e, come se,
ovunque vai, andassi trascinato a forza, ti proclami così felice
e ti compiaci di non dover andare da nessuna parte. Ma lascia
che t’inviti Mecenate, ad andare da lui commensale sul tardi,
all’accendersi dei primi lumi: “nessuno mi porterà un po’ d’olio? Siete
tutti sordi?” sbraiti con grande schiamazzo e poi di corsa.

Prendendo a pretesto la festa dei Saturnali (una specie del nostro Carnevale) in cui i ruoli venivano rovesciati, Orazio può mettere in bocca al suo servo tutte le sue contraddizioni e debolezze, non potendosi, cioè su un piedistallo a stigmatizzare comportamenti altrui, ma facendosi uomo tra gli uomini con i propri vizi e le proprie virtù, descritte con ottima capacità di autoanalisi e d’ironia.

  • Qui viene descritto il banchetto di un uomo ricco ma assolutamente privo di eleganza.

Al di là delle pur necessarie precisazioni dei contenuti delle singole satire ad emergere è l’atteggiamento del poeta di fronte ad un genere che non conosceva un “modello” letterario greco da emulare, quanto invece un modello romano, certamente da superare per diventare, lui stesso, un pater di questo genere latino. E’ qui che va a commisurarsi l’ambivalenza che egli nutre verso Lucilio: come primus (così da lui, e da Quintiliano, reputato) è certamente lui, ma sarà Orazio a dover essere guardato, in futuro, come nuovo “modello” a cui ispirarsi: infatti darà alla satira quella cura formale che non contrasta anzi accentua con il sermo cotidianus che utilizza. Egli infatti li definisce Sermones, chiacchierate, che non nascondono, tuttavia un sottofondo moraleggiante. Esso trova la sua linfa, oltre che sulle convinzioni oraziane vere e proprie, tipiche del suo pensiero in ogni sua opera, sulle speculazioni filosofiche diatribiche svolte dai cinici. Queste ultime erano infatti delle demistificazioni di verità etiche attraverso esempi tratti dal quotidiano portati avanti da filosofi di strada il cui compito era di scandalizzare. Niente di tutto questo in Orazio, dove l’esempio etico viene sì stigmatizzato, ma mitigato da un profonda autoironia.

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Giacomo De Chirico: Quinto Orazio Flacco

Odi

Le Odi di Orazio sono 103 e sono suddivise in 4 libri, di cui i primi tre scritti tra il 30 e il 23, quando furono pubblicate, l’ultimo libro nel 13.

L’opera, chiamata anche Carmina, è certamente la più ambiziosa, se egli, nella I del primo libro, dedicata a Mecenate, afferma:

A MECENATE
(I, 1 vv. 29- 36)
 
Me doctarum hederae praemia frontium
dis miscent superis, me gelidum nemus
Nympharumque leves cum Satyris chori
secernunt populo, si neque tibias
Euterpe cohibet nec Polyhymnia
Lesboum refugit tendere barbiton.
Quod si me lyricis vatibus inseres,
sublimi feriam sidera vertice.
 

Ma l’edera che premia la fronte dei sapienti
mi porta tra i Celesti, un fresco bosco,
un coro di spiriti lievi del bosco,
se Euterpe sceglie il flauto,
e la Musa dell’inno tocca corde Lesbie,
mi portano lontano dalla mia gente. Mecenate,
se mi comprenderai tra i poeti che hanno nome della lira
con una mano toccherò le stelle.

Vengono qui sottolineati due aspetti fondamentali: da una parte la sottolineatura di essere tra i docti e quindi tra i poëtae, qualifica che ancora non era valida per i Sermones, ed ancora come questa scelta lo porti nell’isola di Lesbo, cioè là dove ha operato il poeta Alceo e la poetessa Saffo, cioè tra i lirici. E’ evidente che tale scelta lo allontani, ancor di più, dal vulgus; ma questo ormai è il segno di chi vuol dare vita ad una lirica che abbia su di sé l’imprimatur della classicità.

In ogni libro, pur presentando tematiche non riconducibili a temi precisi, possiamo individuare dei nuclei ispirativi che li caratterizzano:

I libro, composto di 38 componimenti si apre, con la dedica a Mecenate: maggiormente numerose appaiono le poesie che celebrano la gioia del convito, spesso accompagnate da riflessioni sulla brevità della vita:
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NON INTERROGARE IL DOMANI (I, 9)

Vides ut alta stet nive candidum
Soracte, nec iam sustineant onus
silvae laborantes geluque
flumina constiterint acuto.

Dissolve frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
deprome quadrimum Sabina,
o Thaliarche, merum diota.

Permitte divis cetera, qui simul
stravere ventos aequore fervido
deproeliantis, nec cupressi
nec veteres agitantur orni.

Quid sit futurum cras fuge quaerere et
quem fors dierum cumque dabit lucro
adpone, nec dulcis amores
sperne, puer, neque tu choreas,

donec virenti canities abest
morosa. Nunc et Campus et areae
lenesque sub noctem susurri
composita repetantur hora,

nunc et latentis proditor intumo
gratus puellae risus ab angulo
pignusque dereptum lacertis
aut digito male pertinaci.

Tu guarda come svetta il Soratte chiaro
di neve alta, quasi non regge il peso
la selva stanca, e osserva i corsi
d’acqua rappresi nel gelo acuto.
Ma sciogli il freddo dando vigore al fuoco
con altra legna, senza timore poi
il vino puro di quattr’anni
versa dall’anfora, mio Taliarco.
Il resto lascia tutto agli dèi, che appena
sul mare grosso placano i venti forti
tra loro in lotta, non stormisce
più il cipresso né l’orno vecchio.
Al tuo domani non ci pensare, segna
qualunque giorno voglia donarti il caso
a tuo guadagno e non sprezzare,
tu che sei giovane, amori e danze,
finché capelli bianchi e malanni stanno
da te lontani. Ora più spesso invece
la sera scendi al Campo, in piazza,
corri ai sussurri di chi ti aspetta,
ritorna al caro riso con cui si svela
la tua ragazza ferma nel buio fitto,
al pegno tolto dal suo braccio,
dalle sue dita che stringe piano.

L’inizio dell’ode e tratto da Alceo, ma la citazione è ben lontana dallo sviluppo, che subito piega verso la “romanizzazione” del testo e più ancora verso le tematiche tipiche della poesia oraziana. La prima avviene attraverso la descrizione di un paesaggio tipicamente laziale, la seconda, invece è strutturata secondo la grazia e la levità del dettato oraziano: dapprima il paesaggio invernale (ritratto secondo la convenzione del freddo e della neve), quindi per difendersi l’intimità, il fuoco ed il vino; terzo momento riflessione gnomica sullo scorrere del tempo e l’imprevedibilità del futuro (quid sit futurum cras fuge quaerere) per terminare con l’arrivo della primavera dove il passaggio si fa urbano e svela i giochi erotici della gioventù (di forte ascendenza ellenistica)

o ancora la celeberrima:
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Daniela Cataldi: Carpe diem

CARPE DIEM
(1,9)

Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius quidquid erit pati!
seu plures hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.

Non chiedere, o Leuconoe, (non è lecito saperlo) qual fine
abbiano a te e a me assegnato gli dèi,
e non tentare calcoli babilonesi. Quant’è meglio accettare
quel che sarà! Ti abbia assegnato Giove molti inverni,
oppure ultimo quello che ora affatica il mare Tirreno
contro gli scogli, sii saggio, filtra vini, tronca
lunghe speranze per la vita breve. Parliamo, e intanto fugge l’astioso
tempo. Afferra l’attimo, credi al domani quanto meno puoi.

Brevissimo carmen da cui generano, con naturalezza, i temi più tipici della poesia oraziana, nonché temi, oserei dire, universali per la loro valenza umana e filosofica: dalla riflessione dello scorrere del tempo e dell’esigenza di non interrogare il domani ne derivano il gusto della vita, contro la malinconia, la gioia dell’amore che sottende tutto il testo che si esprime attraverso un intima convivialità: nessun peso nell’invitarci al carpe diem epicureo, ma solo una riflessione di quanto sia importante saper godere di ciò che la vita quotidianamente ci offre.

Per la poesia erotica riportiamo questo delicato ritratto adolescenziale:

CLOE
(1, 23)

Vitas inuleo me similis, Chloe,
quaerenti pavidam montibus avis
matrem non sine vano
aurarum et siluae metu.
 
Nam seu mobilibus veris inhorruit
adventus foliis seu virides rubum
dimovere lacertae,
et corde et genitus tremit.
 
Atqui non ego te tigris ut aspera
Gaetulusve leo frangere persequor:
tandem desine matrem
tempestiva sequi viro. 

Tu mi eviti, o Cloe, come un cerbiatto
che per impervie balze la sgomenta
madre ricerchi, scosso
dal fogliame e dal vento,
che se, giungendo primavera, appena
freme una foglia, o un viscido serpente
smuove il roveto, trema
nelle gambe e nel cuore.
Ma non ti seguo, io, per lacerarti,
come una tigre o un leone getulo:
non cercare tua madre,
sei da marito ormai.
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Ritratto di giovane donna

Sa osservare Orazio, che oltre a conoscere la poesia topica dell’adolescente oggetto d’attenzione per gli uomini, di cui è spia il nome greco Cloe, letteralmente “erba tenera e verde”, le prime paure e il vago tremore di chi, non ancora donna, sente tuttavia i primi segni di un corpo trasformantesi in oggetto di desiderio; ma non manca la capacità ironica del nostro che sa ben sottolineare, sempre con leggerezza ed ironia, il passaggio del tempo.

Il II libro comprende 20 componenti in cui vengono ripresi temi già trattati come quello del convito, della morte incombente, dell’amore: Ma si ripetono anche quelli che contengono delle pillole di saggezza gnomica, tratte sempre dalla speculazione epicurea e quella cinico-stoica.

Eccone un esempio:
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Felix Vallotton: Il vento

AUREA MEDIOCRITAS
(II, 10)

Rectius vives, Licini, neque altum
semper urgendo neque, dum procellas
cautus horrescis, nimium premendo
litus iniquum.
 
Auream quisquis mediocritatem
diligit, tutus caret obsoleti
sordibus tecti, caret invidenda
sobrius aula.
 
Saepius ventis agitatur ingens
pinus et celsae graviore casu
decidunt turres feriuntque summos
fulgura montis.
 
Sperat infestis, metuit secundis
alteram sortem bene praeparatum
pectus: informis hiemes reducit
Iuppiter, idem
 
submovet; non, si male nunc, et olim
sic erit: quondam cithara tacentem
suscitat Musam neque semper arcum
tendit Apollo.
 
Rebus angustis animosus atque
fortis adpare, sapienter idem
contrahes vento nimium secundo
turgida vela.

 
Vivrai con maggior saggezza, Licinio, se non ti
spingerai sempre verso il mare aperto e se non rasenti
eccessivamente la costa pericolosa
mentre, cauto, provi orrore delle tempeste.
Chi ama la dorata via di mezzo,
sicuro evita la miseria di una casa
fatiscente e sobrio un palazzo
che susciti invidia.
Più spesso l’alto pino è scosso dai venti
e le torri elevate cadono con rovina
maggiore ed i fulmini feriscono
le cime dei monti.
Un animo ben agguerrito spera
nelle sventure e nelle fortune teme il cambiamento
della sorte. Giove ogni anno porta lo squallido inverno
ed egli stesso poi lo allontana.
Non sarà sempre così, se ora va male:
talvolta Apollo risveglia con la cetra
a musa che tace e non sempre
tende il suo arco.
Mostrati forte e coraggioso
nelle sventure; tu stesso saggiamente
ritirerai le vele gonfie per un vento
eccessivamente favorevole.

Nel verso 5 di quest’ode troviamo il concetto che, pur di Orazio, lo banalizza presso il largo volgo (cosa da lui aborrita) auream quisquis mediocritatem diligit: non si tratta, se si vuole, come già per il carpe diem di accontentarsi, ma di non vivere la vita superficialmente. E’ vero, è già stato detto, non soltanto da Orazio, ma anche da molti altri poeti greci: ma non è compito di un classicista e classico a sua volta inventare nuovi concetti, quanto dialogare e rielaborarli ed inserirli nella nuova realtà in cui il poeta stesso si trova. Potremo dire che tale atteggiamento sia fondamentale nel clima politico ed ideologico augusteo: non nascondersi e non apparire, appunto, scusarsi per non voler scrivere un “nuovo” poema (recusatio), ma sentirsi grandi poeti da voler confrontarsi Pindaro, cantore ufficiale delle idealità greche.

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Medaglia ungherese di guerra con il motto oraziano

Il III libro si apre con le sei famose odi romane, tutte datate dopo il 27.

DULCE ET DECORUM
(III, 2 vv. 13-20)
 
Dulce et decorum est pro patria mori:
mors et fugacem persequitur uirum
nec parcit inbellis iuuentae
poplitibus timidoue tergo.
 
Virtus, repulsae nescia sordidae,
intaminatis fulget honoribus
nec sumit aut ponit securis
arbitrio popularis aurae

E’ per la patria bello e pio soccombere:
la Morte incalza anche chi la evita,
né risparmia i polpacci o il tergo
timoroso di un giovane imbelle.
La virtù, ignara di ripulse sordide,
brilla di onori immacolati e fulgidi
non prende o depone le scuri
secondo il capriccio del popolo.

Come si dimostra in questo passo l’ode è di valore civile, con quello che, anche nel nostro secolo è diventato un motto militare. Qui ci troviamo di fronte ad una espressione tipicamente pindarica, che dà il segno dell’ispirazione cui sono espressione queste opere: l’esaltazione del mos maiorum, l’esaltazione della grandezza di Roma, ottenuta anche grazie ai sacrifici dei giovani, la lode verso Augusto, uomo che ha saputo, anche attraverso questi ideali, riportare la pace a Roma, non è un caso, forse che dopo la pubblicazione di tale libro, sarà affidato proprio ad Orazio il Carmen saeculare.

Le altre 24 odi, anch’esse fra le più celeberrime di Orazio, riprendono toni già cantati. Spiccano tuttavia due carmina, uno di perfezione lirica e descrittiva:
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Carl Frommel: Incisione della Fonte Bandusia

FONTE BANDUSIA
(III, 13)
 
O fons Bandusiae splendidior vitro,
dulci digne mero non sine floribus,
cras donaberis haedo,
cui frons turgida cornibus
primis et venerem et proelia destinat.
Frustra: nam gelidos inficiet tibi
rubro sanguine rivos lascivi suboles gregis.
Te flagrantis atrox hora Caniculae
nescit tangere, tu frigus amabile fessis
vomere tauris praebes et pecori vago.
Fies nobilium tu quoque fontium
me dicente cavis impositam ilicem
saxis, unde loquaces
lymphae desiliunt tuae. 

O fonte di Bandusia che brilli più del vetro
e meriti il dolce vino e le corone,
domani ti verrà dato un capretto
col gonfio delle corna che gli nascono
per destinarlo alla lotta e all’amore:
no, la creatura vivida del gregge,
arrosserà di sangue,
le tue acque di gelo.
La spietata Canicola non sa
toccarti. E offrì la frescura amata
ai tori stanchi d’aratura,
al bestiame errabondo. Anche tu
sarai tra le fontane celebrate,
perché parlo di un leccio che sovrasta
la tua grotta e la roccia da cui balza
la tua acqua purissima che parla.

Poesie tra le più celebri di Orazio. Non importa capire qui se tale fonte sia in un suo luogo d’infanzia e nella villa regalatagli da Mecenate: quel che conta è la perfetta aderenza con il leptos callimacheo, ovvero la leggerezza di una poesia breve. L’immagine tuttavia è teocritea: cioè vi è una chiara presenza della natura. Il sacrificio del capretto e l’arsura dei buoi ci rimandano a quella partecipazione emotiva con il mondo animale che, almeno per questo testo, lo fa vicino al Virgilio delle Georgiche.

Il terzo libro si chiude con una poesia in cui, a conclusione della sua fatica, si lascia andare all’orgoglio di aver fatto qualcosa d’importante:
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Anne e Patrick Poirier: Exegi monumentum aere perennius (1998, Prato, Firenze) 

ORGOGLIO DI POETA
(III, 30)

Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo impotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar, multaque pars mei
vitabit Libitinam: usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita virgine pontifex.
Dicar, qua violens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum, ex humili potens
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
quaesitam meritis et mihi Delphica
lauro cinge volens, Melpomene, comam.

Ho eretto un monumento più perenne del bronzo
più alto dell’elevate piramidi regali,
tale che non la pioggia che consuma, non l’impotente Aquilone
possa distruggere o l’innumerevole
serie degli anni e la fuga dei tempi.
Non morirò del tutto, e gran parte di me
eviterà Libitina: io continuerò a crescere
rinnovato nella lode futura, mentre il pontefice
salirà il Campidoglio con una tacita vergine.
Sarò detto, là dove il violento Aufido rumoreggia
e là dove il povero d’acqua Dauno sul rustico
popolo regnò, da umile grande
per primo aver dedotto il carme eolico
agli italici ritmi. Assumi il superbo
orgoglio con i meriti e cingimi benigna
con l’alloro delfico, o Melpomene.

I manoscritti che ci hanno tramandato le Odi oraziane, alla fine di questo componimento recano scritto: Q. Horatii Flacci carminum liber III explicit, ad indicare che con questa ode il poeta mise la parola fine alla raccolta Carmina in tre libri, del 23. L’orgoglio con cui egli esprime la sua gioia di poeta non è tuttavia da considerarsi contraddittorio rispetto al sui senso della misura, così presente nella sua produzione: è che egli si sente profondamente consapevole di aver terminato, nel riportare i metri alcaici e saffici di aver completato l’iter dei neoteroi. Roma quindi, con lui, può annoverare un’altra conquista, quella del genere lirico. Per questo se il problema del tempo che passa è stato così vivo e così fortemente accettato come uomo, ora questo tempo cessa di essere limitato ed acquista il valore dell’eternità. Eternità del tempo poetico in Orazio: ancora in Foscolo sembrano permanere le conquiste del poeta romano.

Il IV libro viene composto nel 13, dopo 10 anni della prima pubblicazione, con 15 soli componimenti. Sembra che l’insuccesso della prima raccolta lo abbia riportato verso forme più care al suo pubblico, come quello delle Epistolae: egli infatti soltanto dopo esse si deciderà per questa nuova raccolta. Anche qui vengono presentati temi come l’amore, la poesia, la riflessione sulla morte, ed altre poesie ancora civili.

Interessante è il modo in cui egli, in età ormai matura, si avvicina all’amore:

FILLIDE
(IV, 11)
 
Est mihi nonum superantis annum
plenus Albani cadus, est in horto,
Phylli, nectendis apium coronis,
est hederae vis
 
multa, qua crinis religata fulges;
ridet argento domus, ara castis
vincta verbenis avet immolato
spargier agno;
 
cuncta festinat manus, huc et illuc
cursitant mixtae pueris puellae,
sordidum flammae trepidant rotantes
vertice fumum.
 
Ut tamen noris, quibus advoceris
gaudiis, Idus tibi sunt agendae,
qui dies mensem Veneris marinae
findit Aprilem,
 
Iure sollemnis mihi sanctiorque
paene natali proprio, quod ex hac
luce Maecenas meus adfluentis
ordinat annos.
 
Telephum, quem tu petis, occupavit
non tuae sortis iuvenem puella
dives et lasciva tenetque grata
compede vinctum.
 
Terret ambustus Phaethon avaras
spes et exemplum grave praebet ales
Pegasus terrenum equitem gravatus
Bellerophontem,
 
semper ut te digna sequare et ultra
quam licet sperare nefas putando
disparem vites. age iam, meorum
finis amorum
 
– non enim posthac alia calebo
femina -, condisce modos, amanda
voce quos reddas: minuentur atrae
carmine curae.

Ho un’anfora piena di vino albano
che ha piú di nove anni, e c’è nell’orto,
Fíllide, l’apio per le tue corone;
e rigogliosa è l’edera
che fra i capelli ti farà risplendere;
brilla d’argenti la casa; e l’altare avvolto
di verbena chiede in rito
il sangue di un agnello.
Ogni mano è in faccende; in ogni luogo
corrono insieme ragazzi e fanciulle;
guizzano le fiamme esalando in cima spire
di fumo nero.
Ma sai a quali gioie
sei invitata? Le Idi, queste devi celebrare,
che dividono il mese sacro a Venere marina,
ora d’aprile:
ed è, giusto per me, giorno solenne
forse più sacro del mio compleanno, perché da oggi
conta Mecenate il fiume
dei suoi anni.
Tèlefo, il giovane che tu desideri, non fa per te:
l’ha preso una fanciulla ricca, spensierata,
e in dolci catene
cosí lo tiene avvinto.
Fuga il fuoco di Fetonte ogni insana
speranza; e Pègaso, il cavallo
alato che rifiutò l’uomo
Bellerofonte,
ti ammonisce severo a cercare solo
ciò che ti si addice e, poiché empio
è sperare oltre il lecito, ad evitare chi non t’assomiglia.
Ultimo amore mio
(nessuna piú riscalderà
il mio cuore) impara i ritmi
che con voce amabile mi ripeterai:
dileguerà al canto ogni
fosco pensiero.
 

E’ questa l’ultima poesia d’amore delle Odi. Qui il poeta invita Fillide (anch’esso nome tradizionale) ad un banchetto per il compleanno di Mecenate; dopo aver scritto i preparativi, la poesia piega verso i nuovi amori di Fillide, ma il giovane che lei ama, ama a sua volta una giovane e ricca fanciulla. Conviene va Fillide, che ricca non è, a posare il suo sguardo verso persone a lei più confacenti, al poeta stesso: il canto e la poesia, l’allevieranno la tristezza. Questo piccolo quadretto non nasconde ti temi cari: il tema simposiaco, l’amicizia per Mecenate, l’esortazione all’equilibrio, e, non ultimo, il tema dell’eternità della poesia.

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Vecchia foto del 1924

Carmen saeculare
 
Questo carme si può accostare alla sua produzione lirica, scritto in occasione dei Ludi saeculares in onore delle due divinità Apollo e Diana, protettori di Roma. Il carme venne eseguito da due cori: uno di giovani vergini e l’altro da casti ragazzi. Tale commissione, affidatagli da Augusto, oltre a dirci l’alta considerazione in cui era tenuto presso la corte augustea, ci offre il segno di come, grazie all’altezza della sua poesia, fosse stato chiamato a compiere atti ufficiali.
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Manoscritto che riporta la vita do Orazio

Epistulae
 

Le Epistolae, opera poetica oraziana, si riallaccia, stilisticamente e, in parte contenutisticamente alle Satire: non è un caso che anch’esse prendano il nome di Sermones e che il metro sia lo stesso, l’esametro dattilico.

Esse sono una raccolta di “lettere” scritte in versi e a farne un opera unitaria nella letteratura latina sembra sia stato proprio Orazio, che anche qui, come nelle Odi, dichiara orgogliosamente la sua novità. Tale opera è composta in due libri, di cui il primo in 20 componimenti e il secondo di soli 2, ma fra loro vi è la lunga e articolata Ars poetica, e scritta dopo la pubblicazione dei primi tre libri delle Odi.

La forma epistolare costringe il nostro ad una maggiore attenzione allo stile del sermo cotidianus, già precedentemente usato nelle Satire. Ma qui appare più stringente il fine morale, che prevale su quello narrativo. E’ che il nostro è invecchiato e non riesce più a ridere o sorridere come un tempo; non è che qui manchino spunti ironici, è che tutta l’opera è sottesa da una profonda malinconia, dove si acuiscono i temi dell’autàrkeia e della metriòtes, ma dove sembra si sottolinei la continua ricerca con una approfondimento critico verso se stesso che forse precedentemente mancava.

Importante tra le Epistole è l’Ars poetica, dedicata alla famiglia degli Scipioni (la datazione è incerta). Qui egli delinea la figura del perfetto poeta, ma accorda soprattutto l’importanza al teatro classico.

Ciò avviene per due ragioni:

  • Riprende il modello della Poetica aristotelica che proprio sul teatro in quanto arte che meglio sviluppa il concetto di “mimes” poneva la propria attenzione ed importanza;
  • La volontà di Augusto di ripristinare a Roma tale genere, a cui Orazio risponde per lo meno da un punto di vista teorico,

 

PUBLIO VIRGILIO MARONE

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Il poeta latino ritratto in un mosaico romano (Treviri, Landsmuseum).

L’importanza di Virgilio è talmente immensa nella storia del pensiero occidentale da stare al pari di Omero, Dante, Shakespeare e Goëthe. A testimoniarlo è lo stesso Dante, che nel I canto dell’Inferno, che fa da Introduzione all’intera Commedia, ce lo presenta in questo modo:

 «O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore.

Da come si evince dal testo la sua grande importanza sta nel bello stilo che in Dante vuol dire stilo tragico, lo stile più alto per la poesia epica. Ciò significa che, se il padre della letteratura italiana dichiara d’essere “umile” seguace dell’insegnamento virgiliano, se, a sua volta, la cultura italiana è stata maestra di quella europea, l’importanza di Virgilio varca realmente i confini di spazio e tempo per arrivare fino agli intellettuali del ’900, come testimoniato dal romanziere di lingua tedesca Herman Broch che dedica all’autore dell’Eneide un intero romanzo, La morte di Virgilio.

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Biografia

La biografia virgiliana ci è testimoniata da Elio Donato, che a sua volta l’aveva ripresa da una sezione del libro di Svetonio, intitolata De poëtis, andata perduta. A tale biografia si rifà lo stesso Dante:

… li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.

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Statua di Virgilio a Mantova

Sappiamo, più o meno che egli è nato nel 70 a. C. nei pressi di Mantova, più precisamente, secondo alcuni, ad Andes (località oggi collocabile nella città di Pietole in Lombardia), da agiati proprietari terrieri, se gli stessi hanno avuto la possibilità di farlo studiare dapprima a Cremona e quindi a Milano, per poi trasferirsi a Roma. L’urbe, in quel periodo era attraversata dalla guerra civile dapprima tra Cesare e Pompeo, quindi dal cesaricidio ed infine dalla guerra tra Antonio e Ottaviano contro gli assassini di Cesare. Anni fortemente problematici per il timido Virgilio, che nel frattempo si era trasferito a Napoli per seguirvi le lezioni di filosofia epicurea tenute da Sirone e Filodemo di Gadara. E’ di questi anni la notizia non confermata del primo tentativo da parte di Antonio di requisire parte dei suoi terreni per offrirli ai suoi soldati dopo la guerra di Filippi, che vide i cesaricidi sconfitti; non sappiamo se il tentativo sia fallito grazie alle influenti conoscenze di Virgilio stesso, oppure portato a termine e poi “riparato” da Augusto stesso. E’ che questo episodio lo deriviamo dalla sua prima opera ufficiale, le Bucoliche, composte tra il 42 e il 39 a. C., opera che ebbe una buona eco da far sì che lo stesso poeta venisse avvicinato da Mecenate e quindi entrasse a far parte della cerchia di Augusto.

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Mecenate

Accompagnando il volere del principe con la sua ispirazione poetica egli si accinse a scrivere le Georgiche , la cui composizione occupò quasi un decennio (38 – 29 a.C.) in cui la restaurazione agricolo-pastorale di Augusto faceva da sfondo al mondo georgico di Virgilio stesso.

Gli anni successivi furono tutti dedicati alla composizione dell’Eneide, attesa con ansia non solo dallo stesso Augusto, ma anche dagli stessi intellettuali come si può arguire da Properzio che dichiara nescio quid maius nascitur Iliade (non so che cosa di più grande nasca dell’Iliade). L’opera prese forma tra il 29 e il 19 a. C., anno della sua morte. Per Virgilio mancava l’ultima revisione (secondo il suo parere da svolgere in circa tre anni) e per far ciò si reca ad Atene, dove incontra lo stesso Augusto. Decide quindi di tornare con lui, ma durante una visita a Megara, a seguito di un’insolazione, è colto da malore e muore a Brindisi il 21 settembre del 19. Verrà seppellito a Napoli e la tradizione gli attribuisce il seguente epitaffio:

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Tomba di Virgilio a Napoli

EPITAFFIO

Mantua me genuit, Calabri rapuere tenet nunc
Partenope; cecinit pascua, rura, duces.

Mantova mi ha generato, mi ha rapito la Calabria, mi tiene ora
Napoli; ho cantato i pascoli, la campagna, gli eroi

Bucoliche

Le Bucoliche sono la prima opera virgiliana, composta tra il 42 e il 39, quando la guerra tra Ottaviano e Marco Antonio era ancora ben lontana dall’esaurirsi. Il titolo deriva direttamente dal greco e sottintende il termine carmina. Quindi Bucolica carmina sta per “Canti dei pastori”. Ogni canto si definisce ecloga o egloga (il cui significato greco è “poesia scelta”). Il modello cui Virgilio s’ispira è il poeta siracusano Teocrito, vissuto nel III secolo, i cui poemetti venivano chiamati Idilli dai grammatici, il cui successo a Roma fu enorme. Particolarmente apprezzati furono quelli d’ispirazione pastorale (non i soli nel poeta siracusano) ma che furono, quindi, ripresi e sviluppati, in modo proprio e personale da Virgilio. A dire il vero non siamo in grado di raccogliere testimonianze che ci diano il percorso di tale genere nella poesia latina: Virgilio rappresenta pertanto il poeta da cui partire e che, proprio da lui, prenderà le mosse per affermarsi in Italia nel Quattrocento con Sannazzaro e nel Settecento con il movimento poetico dell’Arcadia.

L’opera virgiliana è strutturata in dieci brevi poemetti in esametro.

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Miniatura che riporta la prima ecloga

Già dal primo possiamo individuare l’aurea poetica che li caratterizza.

TITIRO E MELIBEO
(I, 1-35)

MELIBOEUS

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui musam meditaris avena:
nos patriae finis et dulcia linquimus arva.
Nos patriam fugimus: tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas.

TITYRE

O Meliboee, deus nobis haec otia fecit.
namque erit ille mihi semper deus, illius aram
saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus.
Ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum
ludere quae vellem calamo permisit agresti.

MELIBOEUS

Non equidem invideo, miror magis; undique totis
usque adeo turbatur agris. En, ipse capellas
protenus aeger ago; hanc etiam vix, Tityre, duco.
Hic inter densas corylos modo namque gemellos,
spem gregis, a! silice in nuda conixa reliquit.
Saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset,
de caelo tactas memini praedicere quercus.
Sed tamen iste deus qui sit, da, Tityre, nobis.

TITYRE

Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi
stultus ego huic nostrae similem, quo saepe solemus
pastores ovium teneros depellere fetus.
Sic canibus catulos similes, sic matribus haedos
noram, sic parvis componere magna solebam.
Verum haec tantum alias inter caput extulit urbes
quantum lenta solent inter viburna cupressi.

 MELIBOEUS

Et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi?

 TITYRE

Libertas, quae sera tamen respexit inertem,
candidior postquam tondenti barba cadebat,
respexit tamen et longo post tempore venit,
postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit.
namque, fatebor enim, dum me Galatea tenebat,
nec spes libertatis erat nec cura peculi:
quamvis multa meis exiret victima saeptis,
pinguis et ingratae premeretur caseus urbi,
non umquam gravis aere domum mihi dextra redibat.

Melibeo: Titiro, tu che riposi all’ombra di un ampio faggio / Componi un carme silvestre su un esile flauto: / noi lasciamo i confini della patria e i dolci campi; /  fuggiamo la patria; tu, o Titiro, placido nell’ombra / fai risuonare le selve del nome della dolce Amarilli.
Titiro: O Melibeo, un dio mi ha donato questa pace / e infatti lo considererò sempre un dio, il suo altare / un tenero agnello dei nostri ovili bagnerà. / Egli ha permesso che i miei armenti vaghino e che io stesso / canti con un flauto agreste quello che desidero.
Melibeo: Non t’invidio, sono maggiormente meravigliato. In ogni parte in tutti / i campi fino a tal punto è confusione. Ecco io stesso / malato le caprette spingo avanti; questa, o Titiro, conduco a stento. / Qui tra i fitti noccioli, or ora, due gemelli, / speranza del gregge, dopo aver partorito, ha lasciato sulla nuda pietra. / Spesso questo male a noi, se la mente non fosse stata distratta, / ricordo che ce lo predisse una quercia colpita da un fulmine. / Ma tuttavia, chi sia questo dio, dicci, o Titiro.
Titiro: Una città, che chiamano Roma, o Melibeo, ho creduto, io pazzo, / simile a questa nostra, dove spesso siamo soliti / noi pastori allontanare i teneri figli degli agnelli. / Così i cagnolini simili ai cani, così i capretti alle madri / conoscevo; così ero solito confrontare le cose grandi con le piccole / In verità questa ha sollevato il capo tra le altre città, / quanto sogliono i cipressi tra i flessibili viburni.
Melibeo: E quale grande motivo avesti di vedere Roma?
Titiro: La verità, che sebbene tardi, tuttavia ha guardato me inerte / dopo che la barba cadeva più bianca a me che mi radevo; / finalmente ha volto lo sguardo e dopo lungo tempo è venuta, / da quando Amarilli mi ha, Galatea mi ha lasciato. / E infatti, lo confesserò dunque, per tutto il tempo che Galatea mi possedeva, / non vi era speranza di libertà, né cura del denaro: / sebbene molte vittime uscissero dai miei ovili, / e ricco formaggio fosse premuto per l’ingrata città / giammai tornai a casa con le mani piene di denaro.

Il poemetto prosegue con l’incontro di Titiro con un giovane che lo invita a riprendere il lavoro dei campi e a tornare ai valori della terra. Sconsolato Melibeo ricorda che la sua terra verrà requisita:

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Contadini nell’antica Roma

UN EMPIO SOLDATO AVRA’ I CAMPI COLTIVATI
(I, 70-83)

MELIBOEUS
………………..
Impius haec tam culta novalia miles habebit,
barbarus has segetes: en quo discordia civis
produxit miseros: his nos consevimus agros!
Insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vitis.
Ite meae, quondam felix pecus, ite capellae.
Non ego vos posthac viridi proiectus in antro
dumosa pendere procul de rupe videbo;
carmina nulla canam; non me pascente, capellae,
florentem cytisum et salices carpetis amaras.

TITYRUS

Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem
fronde super viridi: sunt nobis mitia poma,
castaneae molles et pressi copia lactis,
et iam summa procul villarum culmina fumant,
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.

Melibeo: Un empio soldato possederà queste maggesi così coltivate / un barbaro questi raccolti. Ecco dove la discordia / ha portato i miseri cittadini! Per questi noi abbiamo coltivato i nostri campi! / Innesta ora, o Melibeo, i peri, pianta in ordine le viti. / Andate, gregge un tempo felice, andate mie caprette. / D’ora in avanti non io, sdraiato in una verde grotta, / vi vedrò pendere lontano sospese da un rupe; / non canterò nessun canto; mentre io vi pascolo, caprette / non raccoglierete il citiso in fiore e i salici amari.
Titiro: Qui tuttavia potrai riposare tutta la notte, / sopra le verdi fronde: noi abbiamo frutti maturi, / tenere castagne e abbondante formaggio / e ormai fumano da lontano le sommità dei tetti delle case / e più grandi scendono le ombre dagli alti monti.
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Manoscritto medievale sul testo virgiliano

La prima ecloga rappresenta sia il modo attraverso cui Virgilio “rilegge” l’opera teocritea, nonché il clima poetico che il poeta mantovano ha voluto dare all’opera: se gli Idilli, infatti, rispettano proprio il loro significato (da “eidos”, vedere) rappresentando un “quadretto”, appunto “bucolico” o anche “quotidiano”, in Virgilio tale situazione si “sentimentalizza” per:

  • la creazione di un modo “mitico” in cui l’otium possa fare da contraltare alla realtà ancora sconvolta dalla guerra civile;
  • l’autobiografismo non “scoperto”, ma accennato nell’episodio della requisizione della terra che se non riguarda Virgilio direttamente, rappresenta uno vero e proprio stato d’animo dei proprietari terrieri dopo la battaglia di Filippi;
  • il servitium amoris che vedremo anche nella poesia augustea successiva, ma che qui assume quasi una certa “quotidianità” nel sottolinearne l’aspetto economico attraverso due ninfe.

Al di là dei motivi summenzionati quello che caratterizza l’opera è la fondazione di un topos che resterà presente nella poesia elegiaca latina e in quella successiva in lingua italiana: il locus amoenus, cioè la descrizione di un luogo non reale in cui prevale la bellezza e la floridezza (prati verdi, boschi frondosi, ruscelli limpidi e canti di uccelli).

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Mosaico di pastore nella basilica d’Aquileia 

La II ecloga rappresenta una storia d’amore omosessuale (il pastore Coridone si lamenta che l’amato non lo corrisponde). Non ci deve sorprendere la presenza di un amore omosessuale sia perché l’omosessualità non rappresentava allora un problema, sia perché nella poesia bucolica si scandagliava l’amore in qualsiasi forma si presentasse.

Nella III ecloga vi è una gara poetica tra i pastori Menalca e Dameta e l’indecisione del giudice Polemone che non sa a chi dare la palma del migliore. E’ pertanto un “carme amebeo”, cioè con versi pronunciati in modo alternato.

La IV ecologa è famosissima:

PUER
(IV, 1- 17)

Sicelides Musae, paulo maiora canamus!
Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae;
si canimus silvas, silvae sint consule digne.
Ultima Cumaei venit iam carminis aetas;
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo;
iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum
desinet ac toto surget gens aurea mundo,
casta fave Lucina: tuus iam regnat Apollo.
Teque adeo decus hoc haevi, te consule, inibit,
Pollio, et incipient magni procedere menses;
te duce, si qua manent sceleris vestigia nostri,
inrita perpetua solvent formidine terras.
Ille deum vitam accipiet divisque viderit
permixtos heroas et ipse videbitur illis,
pacatumque reget patriis virtutibus orbem.

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Partoriente con ostetrica

Muse Siciliane, cantiamo argomenti un po’ più elevati! / Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici; / se cantiamo i boschi, i boschi siano degni d’un console. / Ormai è giunta l’ultima profezia della sibilla cumana; / una grande serie di generazioni nasce da capo; / torna anche la Vergine, tornano i regni di Saturno; / ormai una grande progenie è mandata dall’alto cielo. / Tu al fanciullo che ora nasce, per il quale dapprima la ferrea / stirpe cesserà e sorgerà in tutto il mondo l’aurea (generazione), / sii favorevole, casta Lucina, ormai regna il tuo Apollo. / Ed essendo proprio tu console inizierà questo decoro dell’età (età splendida), / o Pollione, e inizieranno a procedere i grandi mesi, / sotto la tua guida, se rimangono alcune ombra della nostra scelleratezza, / cancellate, libereranno le terre dalla paura. / Egli accoglierà la vita degli dei, e vedrà agli dei / misti gli eroi e lui stesso sarà visto da loro, /e guiderà il mondo pacificato dalle virtù patrie.

La sua notorietà è dovuta soprattutto al fatto che essa fu alla base di quella fama cha nel Medioevo fece di Virgilio un “mago”: infatti il “puer” presente in quest’ecloga venne inteso come la prefigurazione di Gesù Cristo. E’ evidente che il senso profetico virgiliano sta tutto all’interno della visione trascendentale del periodo medioevale: oggi interessa maggiormente capire che tale riferimento non è religioso, anzi, quasi seguendo l’opposta filosofia epicurea, sotto l’egida della filìa, si tratta dell’omaggio ad un amico, Pollione, che allora stava per diventare padre. Ma come sempre in Virgilio ridurlo all’aspetto familiare, sebbene di pregevole fattura, così come è tessuto di poetica alessandrina, sembrerebbe riduttivo: nel testo poetico, infatti, appare evidente il richiamo alla mitica “età dell’oro” e dell’esigenza di un suo ritorno, a suggellare la fine del periodo di guerra a cui il poeta guarda con angoscia.

Non si può poi dimenticare come i primi versi, quasi capovolgendone il senso, sia diventati centrali per la visione poetica di Giovanni Pascoli, che proprio a partire dalla citazione sulle tamerici virgiliane, titolerà una sua fondamentale raccolta poetica Myricae (1891-1911).

La V ecloga è la più rappresentativa da un punto di vista bucolico: infatti i pastori Menalca e Mopso, in un carme amebeo, piangono la morte di Dafni, nato da una ninfa ed inventore del canto pastorale.

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Particolare della statua di Sileno (Louvre)

Nella VI ecloga troviamo il vecchio satiro Sileno, rappresentato con orecchie e zampe equine. Per scherzo viene legato da due pastorelli e costretto a cantare l’origine del mondo ed altri miti.

Nella VII ecloga ci viene presentata una gara poetica tra Coridone e Tirsi, caratterizzata anch’essa dalla forma “amebea”.

Il tema dell’VIII ecloga è la gelosia ed il tradimento: mentre il pastore Damone narra la disperazione per il tradimento dell’amata Nisa, Alfesibeo racconta l’incantesimo amoroso di una pastorella per recuperare il proprio amore.

La IX ecloga ripresenta il tema dell’espropriazione dei campi dopo la guerra: infatti Menalca è stato privato della sua terra e i pastori Licida e Meri piangono la sorte dell’amico.

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Cornelio Gallo

La X ed ultima è un omaggio a Cornelio Gallo: narra la sua infelice storia d’amore con la bella Licoride, e solo va cantando la sua tristezza nei campi solitari dell’Arcadia.

Le Bucoliche, nel loro complesso, sono un’opera nella quale vengono a convergere le aspettative degli intellettuali di quel periodo: quello di un ritorno ad un mondo in cui la pace domina sulla distruzione, la quiete sullo sconvolgimento; ma per far questo si ha bisogno di una “palingenesi”, palingenesi ben rappresentata dalla presenza del puer nella IV ecloga: infatti la nascita di un fanciullo può ben rappresentare il “nuovo”, la rigenerazione, da contrapporsi alla morte delle guerre civili non ancora concluse.

Non bisogna dimenticare come Virgilio cerchi di rappresentare questa speranza:

  • la creazione di un mondo mitico come quello dell’Arcadia;
  • l’esaltazione della poesia, posta nell’ecloga centrale, quella di Dafni, inventore del canto pastorale;
  • l’idealizzazione della vita pastorale

ma non s’allontana dalla realtà:

  • l’esproprio delle terre da parte di Ottaviano;
  • la presenza esplicita della figura d’Ottaviano;
  • Asinio Pollione, console, di cui narra la nascita del figlio;
  • Cornelio Gallo, richiamato nell’ultima ecloga.

Ecco che realtà ed immaginazione riescono a convergere nel dettato poetico: nulla di descritto appare “falso”, ma nulla “crudo”; si ripensi all’ultima scena della prima ecloga, quando Melibeo piange per la perdita del suo terreno e Titiro l’invita a riposare: nell’immagine dei camini delle case e della notte che scende dal monte, non c’è una rappresentazione veriteria, ma un paesaggio dell’anima in cui il poeta rivede con nostalgia i luoghi della sua infanzia.

Pur essendola la prima opera virgiliana bisogna sottolineare come l’autore voglia, a fronte di diverse  tematiche, infondere un tono unitario, lavorando su una struttura che, attraverso richiamo tra un’egloga e un’altra, dia un tono armonioso all’intero testo: le egloge pari hanno una struttura narrativa, le dispari dialogica; la V, posta al centro esalta la poesia bucolica, l’ultima rappresenta proprio, attraverso la narrazione della scelta di Cornelio Gallo, poeta elegiaco, per l’amore e la poesia, il punto conclusivo, se l’autore stesso la definisce, nel 1 v. extremum laborem.

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Edizione de Le georgiche virgiliane del 1777

Georgiche

Le Georgiche sono la seconda opera virgiliana, la cui composizione si situa tra il 37 ed il 30 a. C. ed hanno anch’esse, come le Bucoliche, un titolo di derivazione greca Gheorghica carmina, il cui significato rimanda alla poesia contadina.

Se il riferimento della poesia pastorale era stato Teocrito, qui Virgilio si trova in un campo assai frequentato dalla poesia greca e latina: il poema didascalico. A partire dal padre di tale genere, l’Esiodo delle Opere e i giorni dell’VII secolo fino ai Fenomeni di Arato, così famosi a Roma che lo stesso Cicerone ne fece una versione, gli Aratea, appunto, i latini si erano appropriati del genere fino a renderlo un vero e proprio capolavoro con il De rerum natura di Lucrezio.

Virgilio si trovava quindi di fronte ad un’impresa non semplice, scendere in un campo in cui gli antichi e gli alessandrini, nonché i neoteroi ed il grande Lucrezio si erano già espressi. Ma come mai intraprese tale compito?

Interea Driadum silvas saltusque sequamur
intactos, tua, Maecenas, haud iussa mollia.

Nel frattempo seguiamo i boschi e pascoli segreti
delle driadi* tuoi non lievi comandi
* driadi: ninfe delle querce

A leggere questi due versi, tratti dal terzo libro, vv. 40-41 ci accorgiamo che:

  • Ad apparire vi è il nome di Mecenate, quindi Virgilio è già entrato nell’entourage di Ottaviano, non ancora diventato Augusto;
  • L’opera sembra essere stata commissionata, più che sentita dal poeta stessa, se deve obbedire ad ordini non facili.

L’opera è strutturata in quattro libri in esametro i cui argomenti possono essere così suddivisi, come ci dice lui stesso nel proemio del libro primo:

ARGUMENTA
(I, 1-5)

Quid faciat laetas segetes, quo sidere terram
vertere, Maecenas, ulmisque adiungere vites
conveniat, quae cura boum, qui cultus habendo
sit pecori, apibus quanta experentia parcis
hinc canere incipiam. …. 

Quel che allieti le messi, a quale stella  / voltar la terra, Mecenate, e agli olmi / unir le viti, quale aver de’ buoi / cura e qual modo in allevare armenti / seguire, quanta dall’api frugali / esperienza, qui a cantare io prenda.

Quindi essi sono

  • Il lavoro dei campi;
  • L’arboricoltura;
  • L’allevamento del bestiame;
  • L’apicoltura.

Come si può vedere gli argomenti erano prettamente tecnici. Tuttavia non bisogna pensare che, pur avendo come lettore ideale l’agricola, fossero proprio i contadini i destinatari: si trattava infatti di un modello sia alessandrino che, per quanto riguarda la poesia latina, neoterico, di conciliare, come fosse una sfida, uno stile altissimo e ricercato ad un argomento umile, tecnico.

Virgilio in parte segue questo modello, ma in parte lo adotta alla sua sensibilità. Fin a partire dal primo libro, infatti, se nel modello esiodeo il lavoro era visto come una punizione divina per Prometeo (aveva donato il fuoco agli uomini, contro il volere del dio) fatta scontare agli uomini, per Virgilio invece esso è un dono divino, affinché gli uomini aguzzassero l’ingegno:

IL LAVORO, PER IL PROGRESSO DELL’UMANITA’
(1, 118-142)

Nec tamen, haec cum sint hominumque boumque labores
versando terram experti, nihil improbus anser
Strymoniaeque grues et amaris intiba fibris
officiunt aut umbra nocet. pater ipse colendi
haut facilem esse viam voluit primusque per artem
movit agros curis acuens mortalia corda,
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
Ante Iovem nulli subigebant arva coloni;
ne signare quidem aut partiri limite campum
fas erat: in medium quaerebant, ipsaque tellus
omnia liberius nullo poscente ferebat.
Ille malum virus serpentibus addidit atris,
praedarique lupos iussit pontumque moveri,
mellaque decussit foliis ignemque removit,
et passim rivis currentia vina repressit,
ut varias usus meditando extunderet artis
paulatim, et sulcis frumenti quaereret herbam,
ut silicis venis abstrusum excuderet ignem.
Tunc alnos primum fluvii sensere cavatas;
navita tum stellis numeros et nomina fecit
Pleiadas, Hyadas, claramque Lycaonis Arcton;
tum laqueis captare feras et fallere visco
inventum et magnos canibus circumdare saltus;
atque alius latum funda iam verberat amnem
alta petens, pelagoque alius trahit umida lina;
tum ferri rigor atque argutae lammina serrae
(nam primi cuneis scindebant fissile lignum),
tum variae venere artes. labor omnia vicit
improbus et duris urgens in rebus egestas.

 

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Retro di moneta del ‘600 francese con il motto virgiliano

Tuttavia, benché le fatiche di buoi ed uomini abbiano sperimentato / a proprie spese queste azioni rivoltando la terra, l’anatra testarda, / le gru dello Strimone e la cicoria dai filamenti amari / nuocciono o l’ombra nuoce. Proprio Giove volle che la via / per la coltivazione non fosse facile ed egli per primo attraverso un prodigio fece dissodare / i campi, stimolando i cuori degli uomini con i bisogni / e non permise che i suoi regni si intorpidissero in una pesante apatia. / Prima di Giove nessun agricoltore coltivava i campi / e non era neppure lecito segnare i confini o ripartire un campo / con una linea di confine; procuravano in comune e la terra da sola / più spontaneamente produceva, anche se nessuno doveva chiedere. / Egli aggiunse ai serpenti terribili il tremendo veleno, / ordinò ai lupi di cercarsi delle prede, al mare di agitarsi, / scosse via dalle foglie i mieli, tolse il fuoco / e fermò i vini che copiosamente scorrevano nei ruscelli, / perché il bisogno, attraverso la riflessione, foggiasse le arti diverse, / poco a poco, e nei solchi cercasse la pianta del frumento, / perché facesse sprizzare il fuoco nascosto nelle vene del sasso. Allora per la prima volta i fiumi sentirono su di sé gli ontani incavati; / allora il marinaio creò numeri e nomi per le stelle, / Pleiadi, Hiadi e l’Orsa splendente di Licaone; allora si scoprì come catturare coi lacci le belve, catturare col vischio / e circondare coi cani i grandi anfratti boscosi, e chi sferza il largo fiume con una rete, cercando il fondo dirigendosi al largo, chi ritrae dal mare le reti umide di lino; / allora la durezza del ferro e la lama della sega stridente (infatti i primi uomini tagliavano il legno tenero con i cunei), / allora vennero le svariate tecniche. Il lavoro ostinato vince tutto, / e come il bisogno che incalza nelle situazioni difficili.

In questo passo, tratto dal primo libro, si capisce perfettamente come il destinatario non sia il contadino alle prese con il duro lavoro dei campi, ma il cives Romanus: il concetto per cui il labor omnia vicit, infatti appartiene a quel concetto già presente nella quarta ecloga delle Bucoliche, quello della rinascita, che qui si iscrive sotto l’egida di una profonda pietas, cioè rispetto per i valori religiosi tradizionali. E’ da qui che bisogna ripartire se si vuole rifondare, dopo le guerre civile, il destino dell’Italia.

Nel secondo libro troviamo come tema quello dell’arboricoltura. Alla fine di esso vi è un appassionato elogio della vita agreste:

ELOGIO DELLA VITA CAMPESTRE
(II, vv. 458 – 474)
O fortunatos nimium, sua si bona norint,
agricolas! quibus ipsa procul discordibus armis
fundit humo facilem victum iustissima tellus.
Si non ingentem foribus domus alta superbis
mane salutantum totis vomit aedibus undam
nec varios inhiant pulchra testudine postis
inlusasque auro vestis Ephyreiaque aera
alba neque Assyrio fucatur lana veneno
nec casia liquidi corrumpitur usus olivi,
at secura quies et nescia fallere vita,
dives opum variarum, at latis otia fundis,
speluncae vivique lacus et frigida Tempe
mugitusque boum mollesque sub arbore somni
non absunt; illic saltus ac lustra ferarum
et patiens operum exiguoque adsueta iuventus,
sacra deum sanctique patres; extrema per illos
Iustitia excedens terris vestigia fecit.

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Villa Livia a Roma

O troppo fortunati, se conoscessero i loro beni / gli agricoltori! per i quali la stessa lontano dalle discordie delle armi / giustissima terra dal suolo spande un facile vitto. / Se l’alta casa dalle porte superbe un’ingente / marea non riversa al mattino da tutte le stanze al (cliente) che saluta / né osserva con la bocca aperta gli stipiti intarsiati di bella tartaruga / e vesti ricamate d’oro e bronzi d’Efira / né la bianca lana è tinta dal colore assiro / né l’uso del puro olio è corrotto dalla cannella, / ma una sicura pace e una vita che non sa sbagliare / ricca di beni diversi, ma ozi nei vasti possedimenti / grotte e laghi naturali e la fresca Tempe / e il muggito dei buoi e i dolci sonni sotto l’albero, / non mancheranno; la i boschi e i covili della fiere / e la gioventù paziente delle fatiche e contenta di poco / i culti degli dei e il rispetto inviolabile dei padri; attraverso essi gli ultimi / passi la Giustizia mosse abbandonando la terra.

E’ un passo fondamentale per comprendere quanto l’influenza lucreziana abbia operato nel lavoro dell’autore mantovano: ci troviamo qui di fronte alla contrapposizione tra la città e la vita agreste, tra il lusso sfrenato e la pacatezza dell’otium. E’ un inno all’autarkeia, all’accontentarsi del poco, ma anche del sapiens, che sa riconoscere qual è il vero bene. Sintomatico sotto questo aspetto il primo verso: “O fortunati gli agricoltori se sapessero conoscere il loro bene” in cui mostra come sia importante la consapevolezza della conoscenza. Ma egli va anche oltre Lucrezio, quando afferma che essa non può essere non accompagnata dal rispetto verso gli dei e verso i padri. Tema dominante, in seguito dell’Eneide.

Il terzo libro si apre con la prefigurazione della scrittura del poema epico. Poi prosegue con l’allevamento e con un excursus sulla lotta tra i tori e l’innamoramento dei cavalli. Si chiude con la peste di Norico, abbattutasi sulle pecore nell’attuale Austria, provincia romana, chiamata, appunto, Norico. Tale digressione si rifà alla peste d’Atene di lucreziana memoria.

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Lotta tra tori da un codice miniato (musei Vaticani)

Più importante il IV libro dove viene riportata la favola di Aristeo:

Aristeo è figlio della ninfa delle acque Cirene. Disperato per la morte delle api, si rivolge a lei che gli permette di scendere nel suo regno. Qui Aristeo può vedere il meraviglioso mondo delle acque cristalline, quindi, sotto consiglio delle madre, va ad interrogare Proteo, divinità dalle mille forme, che gli rivela che le ninfe sono adirate con lui perché ha causato la morte di una di loro, Euridice, che, mentre fuggiva alla sua furia amorosa, è morda da un serpente. Ma Euridice era anche l’amata infelice di Orfeo e Proteo racconta la sua triste storia. Per riparare al danno arrecato, Aristeo sacrifica quattro buoi e quattro giovenche; dopo nove giorni dal sacrificio torna e trova che dai corpi putrescenti sono natte le api. E’ questa l’origine della “bugonìa” (generazione dal corpo dei buoi) che spiega una credenza folcrorica del mondo romano, che da un corpo morto potesse rinascere la vita.

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Euridice morsa da un serpente inseguita da Aristeo (codice del 1400)

BUGONIA
(IV, 548-558)

Haud mora, continuo matris praecepta facessit:
ad delubra venit, monstratas excitat aras,
quattuor eximios praestanti corpore tauros
ducit et intacta totidem cervice iuvencas.
Post ubi nona suos Aurora induxerat ortus,
inferias Orphei mittit lucumque revisit.
Hic vero subitum ac dictu mirabile mostrum
aspiciunt, liquefacta boum per viscera toto
stridere apes utero et ruptis effervere costis,
immensasque trahi nubes, iamque arbore summus
confluere et lentis uvam demittere ramis.

Non v’ha indugio, d’un subito i precetti / adempie della madre. S’avvia al tempio, / erige l’are a lui indicate e quattro / tori, tra i più belli, di robusto corpo / vi guida e in egual numero giovenche / d’intatto collo. Poi, quando la nona, / aurora riportava le sue luci, / offre i funebri doni ad Orfeo e ritorna / a rivedere il bosco. Ed ecco, un nuovo / miracolo, mirabile a narrarsi, / s’offre: dei tori nei corrotti visceri / da tutto il corpo un gran brusire d’api / e un brulicare sulle rotte costole, / e gran nuvoli uscire e sulla cima / d’un albero raccogliersi, e dai rami / protesi, intorno pendere un grappolo.

Da come si dovrebbe aver capito, le Georgiche non sono certamente opera destinata ai contadini (a tale scopo provvedevano i vari libretti in prosa che circolavano copiosi nel mercato romano), ma piuttosto al ricco cittadino, latifondista (il cui terreno peraltro era lavorato dai servi), che era capace sia d’apprezzare la perizia compositiva che un richiamo ai valori che il “mito” della terra racchiudeva in sé.

In questo campo non c’è una gerarchia tra Augusto e Virgilio tramite Mecenate, ma un convergere insieme verso un progetto di “restaurazione valoriale” di cui la campagna diventava lo strumento; non per niente la Roma “virtuosa” era nata nei campi (si pensi a Catone il Censore e al suo De agricultura), ma ancor più evidente è l’acrimonia con cui descrive la Roma da fine repubblica, con i suoi cliens, il suo lusso sfrenato, l’ostentazione vuota, che un giovane intellettuale formatosi sulla scuola epicurea mal tollerava.

Da un punto di vista stilistico l’opera, pur nella varietà tematica, si può a grosso modo dividere in due: la prima parte (I e II libro) dedicati alla terra, la seconda (III e IV libro) dedicati agli animali. Ma a tenere insieme la materia è una vera e propria ricercatezza strutturale: tutti e quattro i libri si aprono con la dedica a Mecenate, inoltre ciascuno dei quattro libri si chiude con un excursus. Quest’ultimi sono posti in modo alterno: infatti nel primo e nel terzo la chiusa è fortemente drammatica: le guerre civili (I libro), la peste di Norico (III), nel secondo e nel quarto invece la conclusione è felice: l’elogio della vita campestre (II), la “bugonia” (IV).

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Virgilio con l’Eneide in mano Tra Clio (musa della storia) e Melpomene (musa della tragedia)

Eneide

L’Eneide è un poema epico in 12 libri scritto in esametri. Prima di ogni altro discorso dobbiamo chiarire cos’è un poema epico: una lunga narrazione in versi (poema) in cui si raccontano fatti eroici, leggendari o storici. Virgilio, quindi, rispettando il genere (e lo stile) che l’opera richiedeva aveva di fronte l’opera letteraria per eccellenza, quella dell’Iliade e dell’Odissea omerica. Non erano certo mancati continuatori (ed anche detrattori) del genere stesso: esempio illustre, nell’epoca augustea, sono certamente le Argonautiche di Apollonio Rodio, che tuttavia, in pieno alessandrinismo, conserva il contenuto ma riduce notevolmente la lunghezza. Roma stessa, nel momento in cui si vuole dotare di una letteratura propria, non può far di meglio che iniziare nel nome di Omero: l’Odusia di Livio Andronico è il primo tentativo di inserire gli strumenti retorici e stilistici ed adattarli linguisticamente. Nevio con il suo Bellum Poenicum o Ennio con i suoi Annales costituirono certamente per Virgilio un continuo e ricco punto di riferimento (si pensa che sia da Nevio che egli trasse alcuni spunti per la storia di Enea e Didone). Ma certamente fu Omero a dargli l’ispirazione e a fornirgli materiale che lui seppe mirabilmente elaborare.

L’Eneide è stata scritta tra il 27 ed il 19 a. C.; la redazione dell’opera a noi giunta non è quella che Virgilio prospettava: mancava ancora qualche ritocco per rendere il testo definitivo: 58 versi non sono conclusi, i cosiddetti tibicĭnes, rarissime volte si riscontra qualche leggera contraddizione. Fu stampata così come lui l’ebbe lasciata e contro la sua volontà per volere di Augusto. Essa narra:

Libro I
Il primo libro inizia con la protasi (cioè l’argomento) e l’invocazione:

PROEMIO
(vv. 1-11) 

Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam fato profugus laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum saevae memorem Iunonis ob iram,
multa quoque et bello passus, dum conderet urbem
inferretque deos Latio, genus unde Latinum
Albanique patres atque altae moenia Romae.
Musa, mihi causas memora, quo numine laeso
quidve dolens regina deum tot volvere casus
insignem pietate virum, tot adire labores
inpulerit. Tantaene animis caelestibus irae!

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Enea

Armi canto e l’uomo, che primo dai lidi di Troia / venne in Italia fuggiasco per fato, giunse e alle spiagge / lavinie, e molto in terra e sul mare fu preda / di forze divine, per l’ira ostinata della crudele Giunone, / molto sofferse anche in guerra, finch’ebbe fondato / la sua città, portato nel Lazio i suoi dei, donde il sangue / Latino e i padri Albani e le mura dell’alta Roma. / Musa, tu dimmi le cause, per quale offesa divina / Per qual dolore la regina dei numi a soffrir tante pene, / a incontrar tante angosce condannò l’uomo pio. / Così grandi nell’animo dei celesti le ire!

Sin dall’incipit del poema ci muoviamo sul solco della emulazione/confronto con i poemi omerici: arma si riferiscono alle guerre, al mondo iliaco, che fanno da sfondo all’ira dell’eroe Achille, (Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta); virum sembra maggiormente riferirsi all’uomo, in questo caso l’Ulisse dell’Odissea, per lo più iactatus terris et alto (mari) sbattuto per terre e per mare, e quindi a quel girovagare alla ricerca del suo fine. Ma qui il fine sono le altae Romae moenia, le alte mura di Roma, la fondazione della città, il suo bisogno di una rigenerazione che passasse anche per la riformulazione di un muto, quello d’Enea, che, personaggio omerico, fuggito da Troia, fonderà Roma per volontà degli dei. Per questo egli è insignis pietate “insigne per pietà”, perché ottempera a ciò che il destino (fata) hanno deciso per lui. Ma Virgilio non può non pensare di essere nato nel I secolo a. C., quanto la visione degli dei romana aveva subito un forte ridimensionamento per lo svilupparsi a Roma delle ideologie epicuree e neppure egli può fare a meno di pensare la storia come un avvenimento “casuale” determinato quasi “meccanicamente”, né, può abbracciare semplicemente la credulità popolare: ecco allora che si situa, sin da subito un rapporto dialettico, oserei dire conflittuale con il divino; da qui la sua riflessione Tantaene animis caelestibus irae! Che sottolinea il grado di difficoltà personale (che trasmetterà anche ad Enea) nel rapportarsi con la tradizione della religione romana. Non possiamo qui dimenticare la eco che tale incipit ebbe: si pensi solo all’inizio sia alferiano Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto, ma ancor più pedissequamente l’inizio della Gerusalemme Liberata di Tasso: Canto l’arme pietose e ’l capitano / che ’l gran sepolcro liberò di Cristo.

Il primo canto prosegue spiegando l’ira di Giunone, protettrice di Cartagine. Ella sapeva che nei disegni divini ci sarebbe stata la potenza di Roma, per questo cerca di ritardare l’arrivo di Enea nel Lazio. Quindi, mentre Enea naviga verso la Sicilia, con l’aiuto di Eolo (re dei venti), fa scoppiare una tremenda tempesta. Per intervento di Nettuno le acque si placano e il nostro eroe raggiunge le terre della Libia. Mentre Enea sta perlustrando il luogo, incontra la madre, trasformatasi in cacciatrice, che le racconta la storia della regina Didone, mentre Giove ispira a quest’ultima benevolenza verso gli ospiti. Venere, per essere più sicura, chiede a suo figlio Cupido, dio dell’amore, di prendere le sembianze del piccolo figlio di Enea, Ascanio. Quando i due giungeranno alla reggia, Cupido con le sue arti farà innamorare Didone dell’eroe troiano, a cui chiederà di raccontare sin dall’inizio le sue disavventure.

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Enea incontra Venere nelle vesti di cacciatrice

Libro II

Inizia il racconto d’Enea e qui, Virgilio, si mostra un vero e proprio maestro nell’istituire un parallelo con l’antecedente omerico: infatti come Ulisse ha raccontato nella terra dei Feaci le sue avventure, allo stesso modo Enea le dovrà raccontare alla regina:

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Narcisse Guérin: Enea racconta a Didone (1815)

ENEA COMINCIA A RACCONTARE…
(vv. 1-13)

Conticuere omnes intentique ora tenebant
inde toro pater Aeneas sic orsus ab alto:
«Infandum, regina, iubes renovare dolorem,
Troianas ut opes et lamentabile regnum
eruerint Danai, quaeque ipse miserrima vidi
et quorum pars magna fui. Quis talia fando
Myrmidonum Dolopumue aut duri miles Ulixi
temperet a lacrimis? et iam nox umida caelo
praecipitat suadentque cadentia sidera somnos
sed si tantus amor casus cognoscere nostros
et breviter Troiae supremum audire laborem,
quamquam animus meminisse horret luctuque refugit,
incipiam.» 

Tacquero tutti e intenti il viso tendevano. / Dall’alta sponda il padre Enea cominciò: / «Dolore indicibile tu vuoi ch’io rinnovi, o regina, / come la forza troiana e il misero regno / i Danai distrussero, le cose tristi che io vidi, / e ne fui parte grande. E chi raccontandole, / sia Mirmidone o Dolopo, o del duro Ulisse soldato, / può tenere le lacrime? E già l’umida notte del cielo / precipita e invitano al sonno cadendo le stelle. / Ma se tanto è l’amore è d’apprendere le nostre vicende, / d’udir brevemente l’angoscia estrema di Troia, / quantunque l’animo frema al ricordo e rifugga dal pianto, / comincerò.» (Rosa Calzecchi Onesti)

Anche l’incipit di questo canto è famosissimo, soprattutto perché di loro si ricorderà Dante nell’episodio in cui a Francesca ed al conte Ugolino sarà richiesto di raccontare la “radice prima” del loro dolore ed essi risponderanno come chi “piange e dice” (Francesca) e “parlar e lagrimar vedra’mi insieme” (Ugolino). Ma qui ancor più importante è l’atteggiamento che caratterizza il racconto d’Enea, e di come esso sia fautore di un infandus dolor, cioè di un dolore che non ha parole, per meglio dire inesprimibile.

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Il cavallo di Troia in un immagine del Tiepolo

Il canto secondo prosegue appunto con il racconto. Poiché i Greci non riescono ad assalire Troia, ricorrono all’inganno: costruiscono un enorme cavallo di legno e quindi lo depositano sulla spiaggia di fronte alla città e si nascondono in un’isola vicina. I Troiani, non scorgendo più i nemici e vedendo il cavallo credono che i Greci siano fuggiti. Ma il sacerdote Laooconte teme sia un inganno. Ma ecco apparire Sinone, greco, che dichiara di essere stato abbandonato dai compagni che sono fuggiti ed hanno recato in risarcimento al furto nel tempio della città quel cavallo per ottenere il perdono degli dei e raggiungere felicemente le loro terre. Laooconte non ci crede e lancia un dardo contro il ventre del cavallo, ma ecco uscire dal mare due grandi serpenti che lo avvinghiano e lo uccidono insieme ai figli.

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Il famoso gruppo di Laocoonte  nei Musei Vaticani

LAOCOONTE
(vv. 201-227)

Laocoon, ductus Neptuno sorte sacerdos,
sollemnis taurum ingentem mactabat ad aras.
ecce autem gemini a Tenedo tranquilla per alta
(horresco referens) immensis orbibus angues
incumbunt pelago pariterque ad litora tendunt;
pectora quorum inter fluctus arrecta iubaeque
sanguineae superant undas, pars cetera pontum
pone legit sinuatque immensa volumine terga.
Fit sonitus spumante salo; iamque arva tenebant
ardentisque oculos suffecti sanguine et igni
sibila lambebant linguis vibrantibus ora.
Diffugimus visu exsangues. Illi agmine certo
Laocoonta petunt; et primum parva duorum
corpora natorum serpens amplexus uterque
implicat et miseros morsu depascitur artus;
post ipsum auxilio subeuntem ac tela ferentem
corripiunt spirisque ligant ingentibus; et iam
bis medium amplexi, bis collo squamea circum
terga dati superant capite et cervicibus altis.
Ille simul manibus tendit divellere nodos
perfusus sanie vittas atroque veneno,
clamores simul horrendos ad sidera tollit:
qualis mugitus, fugit cum saucius aram
taurus et incertam excussit cervice securim.
At gemini lapsu delubra ad summa dracones
effugiunt saevaeque petunt Tritonidis arcem,
sub pedibusque deae clipeique sub orbe teguntur.

Laooconte, chiamato a sorte ministro a Nettuno, / presso l’are solenni un gran toro uccideva. / Ed ecco gemelli da Tenedo, per l’alto mare tranquillo, / (rabbrividisco a narrarlo) con giri immensi due draghi / incombon sull’acque e tendono insieme alla spiaggia. / Alti hanno i petti tra l’onde, le creste / sanguigne superan l’onde, l’altra parte sul mare / striscia dietro, s’inercan l’immense terga in volute. / Gorgoglia l’acqua e spumeggia. E già i campi tenevano, / gli occhi ardenti iniettati di sangue e di fuoco, / con le lingue vibratili lambendo le bocche fischianti. / Qua, là, agghiacciati a tal vista, fuggiamo. Ma quelli diritto / su Laocoonte puntavano: e prima i piccoli corpi / dei due figli stringendo, l’uno e l’altro serpente / li lega, divora a morsi le misere membra; / poi lui che accorreva in aiuto e l’armi tendeva, / afferrano avvinghiano fra le spire tremende. Due volte / già l’hanno annodato alla vita, due volte al suo collo / cingon le terga squamose, ardue le teste levando. / Lui con le mani tenta di sveller quei nodi, / bava le bende sacre gocciando e nero veleno, / e intanto urla orribili manda alle stelle, / come muggiti, se il toro fugga piagato dall’ara, / via dal collo scrollata la scure esitante. / E fuggono i draghi gemelli agli templi strisciando, / e cercan la rocca della Tritonia feroce, / e ai piedi di lei si nascondono sotto lo scudo rotondo.

Racconto fondamentale questo in cui s’illumina il confronto problematico che Enea personaggio ha con il divino: la morte atroce del giusto Laocoonte, resa ancora più drammatica dalla fine atroce dei suoi figli, sembra un’ingiusta punizione contro i Troiani e quindi contro se stesso, a favore di coloro che compiono un gesto empio, mentendo con Sinone, per ottenere la vittoria. Ma il rovesciamento di prospettiva avverrà proprio quando empie non appariranno le false parole del greco, ma il lancio contro ciò che, dopo l’episodio, apparirà come un vero e proprio votum. Risulta evidente l’interrogarsi di Enea sulla “giustizia” divina, ed altre prove dovrà sopportare, per capire che invece essa c’è ed è nel disegno provvidenziale che fa di lui il protagonista della rinascita.

Proseguendo il racconto vedremo come la morte del sacerdote convince i Troiani ad introdurre il cavallo di legno in città, ma durante la notte, dal suo ventre escono i guerrieri greci che fanno strage. Dapprima Enea combatte, ma quindi appare la madre Venere, ordinandogli di andar via, in quanto il suo destino è già deciso dagli dei. Quindi riesce a prendere con sé il padre, caricandolo sulle spalle, ed il figlio che gli corre accanto; dietro la moglie Creusa. Ad un certo punto, voltandosi indietro, non vede più la moglie, che, dopo averla cercata invano, gli apparirà come un’ombra, essendo morta, e gli confermerà che egli è destinato a fulgidi destini e per far ciò dovrà unirsi ad una donna regale.

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Federico Barocci: Fuga di Enea (1598)

Libro III

Prosegue il racconto di Enea, il quale va alla ricerca di una nuova terra in cui fondare la patria. Approdato con la flotta sulle spiagge della Tracia, comincia qui a costruire la sua nuova città; ma un prodigio blocca il suo progetto:

POLIDORO
(vv. 22-46)

Forte fuit iuxta tumulus, quo cornea summo
virgulta et densis hastilibus horrida myrtus.
Accessi viridemque ab humo convellere silvam
conatus, ramis tegerem ut frondentibus aras,
horrendum et dictu video mirabile monstrum.
Nam quae prima solo ruptis radicibus arbos
vellitur, huic atro licuntur sanguine guttae
et terram tabo maculant. Mihi frigidus horror
membra quatit gelidusque coit formidine sanguis.
Rursus et alterius lentum convellere vimen
insequor et causas penitus temptare latentis:
ater et alterius sequitur de cortice sanguis.
Multa movens animo Nymphas venerabar agrestis
Gradivumque patrem, Geticis qui praesidet arvis,
rite secundarent visus omenque levarent.
Tertia sed postquam maiore hastilia nisu
adgredior genibusque adversae obluctor harenae,
– eloquar an sileam? – gemitus lacrimabilis imo
auditur tumulo et vox reddita fertur ad auris:
«Quid miserum, Aenea, laceras? iam parce sepulto,
parce pias scelerare manus. Non me tibi Troia
externum tulit aut cruor hic de stipite manat.
Heu fuge crudelis terras, fuge litus avarum:
nam Polydorus ego. Hic confixum ferrea texit
telorum seges et iaculis increvit acutis.» 

C’era li accanto un’altura e sulla cima cornioli, / e un cespuglio di mirto, irte bacchette affollate. / M’avvicino, e tentando strappare da terra una verde / frasca, per ornare di rami frondosi l’altare, / orrendo – stupore a narrarlo – vedo un prodigio. / L’arbusto che, rotte le radiche, per primo dal suolo / è divelto, ecco ne colano gocce di sangue corrotto, / putredine macchia la terra. Un brivido freddo / le membra mi scuote, gelato d’orrore si ferma il mio sangue. / D’un secondo, di nuovo, il tronco flebile insisto / a svellere, a cercare le cause laggiù sotto nascoste. / Corrotto pur nella corteccia del secondo esce sangue. / Col cuore in tumulto, le Ninfe veneravo dei campi / e il padre Gradivo, sovrano delle Getiche terre, / che propiziassero quella visione, il malaugurio annullassero. / Ma quando una terza bacchetta con sforzo maggiore / afferro puntando il ginocchio contro la rena, / – parlo o taccio? – un singhiozzo straziante da sotto / l’altura risuona, e chiara mi viene agli orecchi una voce: / «Enea, perché un misero scerpi? Lascia in pace un sepolto, / lascia, non contaminar le pie mani. Non estraneo ti nacqui / in Troia, non cola questo sangue dal legno. / Oh fuggi terre crudeli, fuggi un avido lido! / Perché io son Polidoro. Qui m’inchiodò seppellendomi / ferrea selva di dardi: poi germogliarono l’aste puntute».

Veniamo a sapere che Polidoro, ultimo figlio di Priamo, era stato mandato con un grosso tesoro da Polimestore, suo genero, per fuggire la distruzione di Troia. Ma giunto qui viene ucciso, per impossessarsene. Inorridito dall’evento quindi Enea lascia la Tracia e si dirige a Delo, per consultare il sacerdote di Apollo, che gli indica come patria quella dell’“antica madre”. Pensando fosse Creta Enea vi si dirige, ma qui scoppia una pestilenza, mostrando così la contrarietà degli dei. Durante la notte Enea vede i Penati che gli indicano la strada: e l’Italia in cui egli deve andare. Enea, quindi riparte ma è costretto, da una tempesta, a fermarsi nelle isole Strofadi dove viene accolto dalle Arpie:

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Immagine di un Arpia (manoscritto medievale)

ARPIE
(vv. 214-218)

Tristius haud illis monstrum nec savio ulla
pestis et ira deum stygiis sese extulit undis.
Virginei volucrum voltus, foedissima ventris
proluvies uncaque manus et pallida semper
ora fame.

Più tristo mostro di quelle non c’è, né peggiore / peste: e per l’ira divina per l’onde di Stige s’alzarono. / Virginei volti su corpi d’uccelli, puzzo lentissima / profluvie del ventre, adunchi artigli, pallida sempre / la faccia di fame.

Se abbiamo scelto questi due passi è proprio per far capire come l’Eneide virgiliana possa fungere da stimolo per i poeti successivi: vediamo in questo caso come Dante riprenda ed unisca i due “miti” virgiliani nel XIII canto dell’Inferno, quello di Pier delle Vigne, anche se inserisce la figura di Polidoro nel Purgatorio. E’ chiaro come l’intento dei due autori, pur con la felice ripresa quasi “letterale” del poeta fiorentino sia diverso. Non è un caso che le fonti che Virgilio usa per questo passo non siano omeriche, quanto, piuttosto tragiche e di come egli si sia servito di un mito piuttosto recente, alessandrino, per Polidoro. Infatti qui si vuole sottolineare l’interesse eziologico, oltre che narrativamente tragico e pietoso, dell’episodio; si tratta insomma di spiegare l’origine del mirto e delle sue scure bacche, come frutto appunto del sangue con cui il giovane troiano bagna la pianta.

Enea cerca di cacciare le Arpie che confermeranno la fondazione della città, ma solo dopo aver patito la fame da mangiare le mense. Fuggiti dalle Strofadi, costeggiando la terra Enea e i suoi compagni sbarcano ad Azio, dove vengono accolti da Eleno, indovino troiano. Costui conforterà il nostro eroe e gli offrirà consigli per un viaggio sicuro. Ripreso il viaggio il nostro si ferma in Sicilia, dove approderà nelle terre dei Ciclopi. Qui incontrerà un greco dimenticato dai compagni. Mentre costui narra la tragica vicenda occorsa ai greci, appare da lontano Polifemo con il suo gregge. Il nostro riesce a fuggire, e, fatto il periplo dell’isola, giungono nei pressi di Trapani, dove muore Anchise. Ripartiti Enea viene ancora una volta sorpreso da una tempesta che lo lascia nelle spiagge libiche. Qui finisce il suo racconto.

Libro IV

Con il III terzo libro, quindi, termina il lungo flash-back di Enea, ed inizia uno dei canti più celebrati dell’intero poema, il quarto, dove si consuma la storia d’amore tra Enea e Didone. Questa, capendo i suoi sentimenti, si confida con la sorella Anna:GalleriaDoriaPamphilj-D19.jpg

Dosso Dossi: Didone (1519)

DIDONE FERITA DALL’AMORE
(vv. 1 – 30)

At regina gravi iamdudum saucia cura
vulnus alit venis et caeco carpitur igni.
Multa viri virtus animo multusque recursat
gentis honos, haerent infixi pectore vultus
verbaque nec placidam membris dat cura quietem.
Postera Phoebea lustrabat lampade terras
umentemque Aurora polo dimoverat umbram,
cum sic unanimam adloquitur male sana sororem:
«Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent!
Quis novus hic nostris successit sedibus hospes,
quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis!
Credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.
Degeneres animos timor arguit. Heu quibus ille
iactatus fatis! Quae bella exhausta canebat!
Si mihi non animo fixum immotumque sederet
ne cui me vinclo vellem sociari iugali,
postquam primus amor deceptam morte fefellit;
si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,
huic uni forsan potui succumbere culpae.
Anna, fatebor enim, miseri post fata Sychaei
coniugis et sparsos fraterna caede penates,
solus hic inflexit sensus animumque labantem
impulit. Adgnosco veteris vestigia flammae.
Sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat
vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras,
pallantes umbras Erebi noctemque profundam,
ante, Pudor, quam te violo aut tua iura resolvo.
Ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores
abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro».
Sic effata sinum lacrimis implevit obortis.

Ma sanguina ormai la regina in un tormento pesante, / nelle sue vene nutre una piaga, da chiuso fuoco è consunta. / Grande il valore dell’uomo, grande le assedia la mente / la gloria del nome: è fitto in cuore quel volto, / la voce: placido sonno non dà alle membra il tormento. / Illuminava la terra l’Aurora seguente col lume di Febo / e l’umida ombra aveva cacciato dal cielo, / e lei così parla, già pazza, alla fedele sorella: / «Anna, sorella, che sogni m’hanno sconvolta! / Che straordinario ospite m’è venuto in palazzo, / che portamento, che forza in cuore e nell’armi! / Credo, certo, né è fede vana, è stirpe di dei. / Un’indole ignobile, vil timore la smaschera. E quale / destino lo incalza! che guerre durate narrava! / Se immobilmente fisso non avessi nell’animo / di non legarmi a nessuno con nodo di nozze, / dacché con la morte mi tradì il primo amore; / se non odiassi per sempre talamo e fiaccole, / forse a questa unica colpa avrei potuto soccombere. / Anna, te lo confesso, dopo la morte del misero sposo / e la strage fraterna, che la casa m’insanguina, / egli solo ha scosso i miei sensi, m’ha fatto tremare / il cuore. Oh, dell’antica fiamma i segni conosco! / Ma voglio che prima la terra mi s’apra davanti, / che all’ombre il padre onnipotente mi fulmini, / all’ombre dell’Erebo pallide, e nella notte profonda, / prima che io ti vìoli, o Pudore, o sciolga il tuo vincolo. / Lui, che m’ha unita a sé per primo, il mio amore / s’è preso, e lo tenga con sé chiuso dentro il sepolcro!». / Così diceva, e il petto inondò a un tratto di lagrime.

Anna, sentita la sorella, la esorta, e vince così le flebili resistenze della regina. Giunone si accorge di ciò e, per rallentare l’arrivo dei troiani in Italia, cerca di favorire la situazione. Venere la asseconda, per non provocare ulteriori rallentamenti, sicura sempre della volontà di Giove. Sarà pertanto organizzata una battuta di caccia, durante la quale ci sarà una tempesta. Rifugiatisi in una grotta, Enea e Didone compiranno il loro atto d’amore. La situazione precipiterebbe se non intervenisse il padre Giove che, attraverso Mercurio, ordina ad Enea di abbandonare la Libia e di raggiungere l’Italia. Enea dunque si prepara all’abbandono, ma Didone è presaga di quel che sta per succedere e lo affronta a viso aperto:

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Rutilio Manetti : Enea e Didone (1630)

AT REGINA DOLOS
(vv. 296-330)

At regina dolos (quis fallere possit amantem?)
praesensit, motusque excepit prima futuros
omnia tuta timens. Eadem impia Fama furenti
detulit armari classem cursumque parari.
Saevit inops animi totamque incensa per urbem
bacchatur, qualis commotis excita sacris
Thyias, ubi audito stimulant trieterica Baccho
orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron.
Tandem his Aenean compellat vocibus ultro:
«Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum
posse nefas tacitusque mea decedere terra?
nec te noster amor nec te data dextera quondam
nec moritura tenet crudeli funere Dido?
quin etiam hiberno moliris sidere classem
et mediis properas Aquilonibus ire per altum,
crudelis? quid, si non arva aliena domosque
ignotas peteres, et Troia antiqua maneret,
Troia per undosum peteretur classibus aequor?
mene fugis? per ego has lacrimas dextramque tuam te
(quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui),
per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,
si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam
dulce meum, miserere domus labentis et istam,
oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem.
Te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni
odere, infensi Tyrii; te propter eundem
exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam,
fama prior. Cui me moribundam deseris hospes
(hoc solum nomen quoniam de coniuge restat)?
quid moror? an mea Pygmalion dum moenia frater
destruat aut captam ducat Gaetulus Iarbas
saltem si qua mihi de te suscepta fuisset
ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula
luderet Aeneas, qui te tamen ore referret,
non equidem omnino capta ac deserta viderer.

Ma la regina (chi ingannerà donna amante?) / presentì il tradimento, capi prima le mosse future, / lei che del sicuro tremava. E a lei, già fremente, la Fama / empia narrò che armavan le navi, la partenza allestivano. / Smania, fuori di sé, per tutta la città delirando / impazza, come Baccante invasata, al muover dei sacri / segni, quando al grido di Bacco l’orgia triennale / la stimola, e il Citerone con il richiamo notturno la invita. / E finalmente per prima così affronta Enea: / «Speravi anche, spergiuro, di potermi nascondere / tanta empietà? senza una parola dalla mia terra partirtene? / né il nostro amore, la destra, che pur mi hai data, / né può tenerti Didone, che morrà crudelmente? / E sotto le stelle invernali muovi le navi? / Me fuggi? oh, per queste mie lagrime, per la tua destra / (quando null’altro io stesso ho lasciato a me misera), / pel nostro amore, per le nozze recenti, / se t’ho fatto del bene, se pur qualche cosa / di me ti fu dolce, pietà della casa che cade, oh ti prego, / se posto c’è ancora per le suppliche, smetti questo pensiero! / Per te i popoli d’Africa, i sovrani dei Nomadi / m’odiano, i Tirii mi sono nemici; per te, per te solo / morto è il pudore, la gloria di prima, quell’unica / per cui salivo alle stelle. A chi mi lasci, che muoio, / ospite, ormai questo nome soltanto resta, da sposo. / Che aspetto? che le mie mura distrugga il fratello / Pigmalione? che Iarba getulo mi porti via schiava? / Se un figlio, almeno un figlio da te avessi avuto / prima della tua fuga, se nelle stanze giocare / un piccolo Enea mi vedessi, che pur avesse il tuo viso, / non del tutto delusa, non tradita sarei!»

Enea ascolta, senza controbattere, finché non può non ricordarle che egli non è padrone del suo destino e che pertanto deve partire per volontà degli dei. Lei non ci crede e gli rinfaccia il suo tradimento, allontanandosi sorretta dalle ancelle. Enea non recede dalle sue intenzioni, nonostante intervenga Anna per cercare di convincerlo a rimanere fino alla primavera. Ma ricevuto un nuovo diniego, Didone medita il suicidio. Finge con la sorella di voler preparare un nuovo rimedio per trattenere Enea o per liberarsi dall’amore che la lega a lui, poi prepara il rogo, dove si dovranno bruciare tutte le cose appartenute all’eroe. Una maga prepara il rituale a cui Didone assiste e nel far questo vede la flotta allontanarsi. Quindi lancia la sua maledizione verso Enea e la sua stirpe:

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Giovanni Francesco Romanelli: Enea abbandona Didone

LA MALEDIZIONE DI DIDONE
(vv. 612-629)

(…) Si tangere portus
infandum caput ac terris adnare necesse est,
et sic fata Iovis poscunt, hic terminus haeret,
at bello audacis populi vexatus et  armis,
finibus extorris, complexu avulsus Iuli
auxilium imploret videatque indigna suorum
funera; nec, cum se sub leges pacis iniquae
tradiderit, regno aut optata luce fruatur,
sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena.
Haec precor, hanc vocem extremam cum sanguine fundo.
Tum vos, o Tyrii, stirpem et genus omne futurum
exercete odiis, cinerique haec mittite nostro
munera. nullus amor populis nec foedera sunto.
Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor
qui face Dardanios ferroque sequare colonos,
nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires.
litora litoribus contraria, fluctibus undas
imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque.

(…) Se pur deve giungere / al porto quel maledetto, se deve toccare la terra, / così vuole il fato di Giove, fisso è questo termine, / oppresso però dalla guerra d’un popolo audace, / ramingo dalla città, strappato all’abbraccio di Iulio, / mendichi aiuto, veda strazio orrendo dei suoi. / E quando anche di pace umiliante ai patti si pieghi, / non goda del regno, non dell’amabile luce, / ma cada avanti il suo giorno, su nuda terra, insepolto. / Chiedo questo, quest’ultima voce col mio sangue effondo. / E voi, Tiri, per sempre la stirpe e tutta la razza / tormentare con l’odio, queste inferie al mio cenere / offrite. Nessun amore, mai, nessun patto tra i popoli. / E sorgi, vendicatore, oh, dalle mie ossa, / col ferro, col fuoco, perseguita i coloni Troiani, / ora, poi, non importa: quanto bastin le forze. / I lidi ai lidi contrari, all’onde supplico l’onde, / l’armi all’armi: essi e i nipoti combattano.

E quindi si prepara a morire, trafiggendosi con la spada che Enea le aveva donato.
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Claude Augustin Cayot: La morte di Didone (Museo del Louvre, 1711)

LA MORTE DI DIDONE
(vv. 651 – 671) 

«Dulces excuviae, dum fata deusque sinebat,
accipite hanc animam meque his exsolvite curis.
Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,
et nunc magna mei sub terras ibit imago.
Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi,
ulta virum poenas inimico a frate recepi:
felix, heu nimium felix, si litora tantum
numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae»
Dixit, et os inpressa toro: «Moriemur inultae,
sed moriamur», ait,«sic, sic iuvat ire sub umbras.
Hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto
Dardanus et nostrae secum ferat omina mortis».
Dixerat, atque illam media inter talia ferro
conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore
spumantem sparsasque manus. It clamor ad alta
atria: concussam bacchatur Fama per urbem.
Lamentis gemituque et femineo ululatu
tecta fremunt, resonat magnis plangoris aether,
non aliter quam si immissis ruat hostibus omnis
Carthago aut antiqua Tyros flammaeque furentes
culmina perque hominum volvantur perque deorum. 

«O spoglie, dolci fin che il fato, un dio permetteva, / la vita mia ricevete, da queste pene scioglietemi: / ho vissuto, ho compiuto la strada che m’ha dato Fortuna, / e ora sotto la terra grande andrà la mia immagine. / Città bellissima ho fatto, ho visto mie mura, / vendicato lo sposo, punito il fratello nemico: / felice, oh troppo felice, solo che le mie spiagge / mai navi dardane fossero giunte a toccare»: / Disse e premendo sul letto le labbra: «Morirò invendicata, / ma voglio morire» gridò, «così voglio scendere all’ombre. / Beva con gli occhi dal mare questo fuoco il crudele / Dardano, maledizione la morte mia con sé porti». / Parlava, e fra tali parole sul ferro la vedono / gettarsi le ancelle, e scorrer la spada di sangue / schiumante, e piene le mani. Un grido ai soffitti / altissimi sale, impazza la Fama per la città costernata. / Di lamenti, di gemiti, d’ululi freme femminei / tutto il palazzo, l’aria è tutta un gran pianto, / non altrimenti che se, entrati i nemici, crollasse / Cartagine intera, o Tiro antica, e le fiamme ruggenti / intorno ai tetti degli uomini, ai templi dei numi salissero.

Di questo quarto libro non si è voluta seguire l’analisi brano per brano, ma vederlo, attraverso diversi passi nella sua interezza e complessità. In primo luogo notiamo uno spostamento sul piano dei personaggi non senza significato: il protagonista qui, infatti, non è Enea, che invece viene relegato nel ruolo di deuteragonista, ma Didone, la donna innamorata e abbandonata. (Questo personaggio Virgilio lo riprende da Nevio, la cui infelice storia d’amore con Enea fornisce il motivo – significato eziologico – della guerra contro Cartagine). Virgilio costruisce il testo basandosi più sull’exemplum della tragedia, soprattutto quella di Euripide, e della nuova epica “patetica” di Apollonio Rodio, che su quella “classica”, “omerica” appunto. Ne sono esempio il climax ascendente con cui viene strutturato il brano: esso viene diviso in tre parti, l’innamoramento, la rottura e l’abbandono: ogni parte è progressivamente più ampia per poter quindi concentrare tutta l’attenzione sul “dramma” vissuto dalla regina, che pertanto al pari di Medea e di Fedra, analizza dentro se stessa il sentimento e il dissidio interiore che ne deriva. Per far questo il poeta Virgilio cessa d’essere obiettivo, cioè quella capacità già espressa nei primi tre canti ottenuta attraverso una narrazione di secondo grado, per concentrarsi esclusivamente sulla figura di Didone con cui s’immedesima. Tale immedesimazione può avvenire in quanto permane, in lui, la concezione dell’amore vissuto come furor, quindi, epicureisticamente, lontano dal raggiungimento dell’atarassia. E’ chiaro che, per quanto il nucleo del suo pensiero sia filosofico, questa concezione rimanga quasi una costanza nel poetare virgiliano: si va dall’impazzimento per l’abbandono in amore di Cornelio Gallo nella decima egloga, all’esaltazione dell’amore “asessuato” delle api nelle Georgiche. Ma non bisogna neppure dimenticare il suo passaggio attraverso la conoscenza e l’apprendimento della poesia neoterica: ciò per dire che se, perlomeno limitandoci a quanto sappiamo della sua scarsa biografia, egli l’amore come passione non lo visse, ebbe la fortuna e la capacità di farlo “letterariamente suo”, attraverso la conoscenza di carmina catulliani.

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Giochi sacri in Onore di Anchise (miniatura del 1430 ca)

Libro V

I Troiani, ormai in mare, vedano dalle nave innalzarsi i fumi che dalla città di Troia: sono le fiamme che si sprigionano dalla pira di Didone e, sebbene Enea non ne abbia la certezza, è preso da un certo sgomento. Quindi veleggia ancora verso la Sicilia e si ritrova nel luogo dove il padre era morto. Quindi in suo onore compie i riti funebri e i giochi sacri. Questi vengono descritti con perizia di particolari, richiamandosi alla stessa descrizione che Omero fa in onore di Patroclo, nel XXIII canto dell’Iliade. Proclamato il vincitore, Giunone decide nel frattempo di suscitare la rabbia nelle donne troiane, stanche per il lungo viaggio. Quindi decidono di bruciare un certo numero di navi. Non sapendo se lasciare le donne nell’isola, Enea si rivolge ad un oracolo, che lo esorta a proseguire il viaggio. Enea riprende il cammino, ma durante il viaggio, Palinuro, vinto dal sonno, muore e viene rapito dal mare.

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Giovanni Vasso: Mito di Palinuro (2016)

LA MORTE DI PALINURO
(vv.835-861)

Iamque fere mediam caeli Nox umida metam
contigerat, placida laxabant membra quiete
sub remis fusi per dura sedilia nautae:
cum levis aetheriis delapsus Somnus ab astris
aera dimovit tenebrosum et dispulit umbras
te, Palinure, petens, tibi somnia tristia portans
insonti; puppique deus consedit in alta
Phorbanti similis funditque has ore loquelas:
«Iaside Palinure, ferunt ipsa aequora classem,
aequatae spirant aurae, datur hora quieti.
pone caput fessosque oculos furare labori.
Ipse ego paulisper pro te tua munera inibo.»
Cui vix attollens Palinurus lumina fatur:
«Mene salis placidi vultum fluctusque quietos
ignorare iubes? mene huic confidere monstro?
Aenean credam quid enim? fallacibus auris
et caeli totiens deceptus fraude sereni?»
Talia dicta dabat, clavumque adfixus et haerens
nusquam amittebat oculosque sub astra tenebat.
Ecce deus ramum Lethaeo rore madentem
vique soporatum Stygia super utraque quassat
tempora, cunctantique natantia lumina solvit.
Vix primos inopina quies laxaverat artus,
et super incumbens cum puppis parte revulsa
cumque gubernaclo liquidas  proiecit in undas
praecipitem ac socios nequiquam saepe vocantem;
ipse volans tenuis se sustulit ales ad auras. 

E già il mezzo del cielo l’umida Notte toccava, / in placida quiete abbandonavano i corpi, / sotto i remi, e pei duri sedili distesi, le ciurme. / Ed ecco leggero dagli astri celesti il Sonno scendendo / agitò l’aria oscura e dissipò l’ombre, / te, Palinuro, cercando, a te portando il mal sogno, / o innocente. Sull’alta poppa il dio si posò, / e sembrando Forbante queste parole diceva: / «Iaside Palinuro, il mare porta le navi / da solo, uguale spira la brezza: ecco un’ora pel sonno. / Appoggia il capo, strappa gli occhi stanchi al tormento: / io posso, per poco, sostener la tua parte». / E a lui Palinuro, levando a stento le palpebre: / «E vuoi che la faccia del mare tranquillo, che l’onde assopite / io non conosca? E che d’un simile mostro mi fidi? / Enea, ma sei pazzo?, lasciarlo alle brezze bugiarde, / proprio io, tante volte ingannato dal cielo sereno?» / Queste parole diceva, e fisso e attaccato al timone, / non lo lasciava un momento, gli occhi tesi alle stelle. / Ma un ramo stillante di acqua di Lete, veleno / di stigia potenza, gli scuote il dio sulle tempie, / e mentre invano resiste gli occhi oscillanti gli chiude.  / Quel sonno improvviso gli ebbe appena sciolto le membra: / volandogli addosso, strappato un pezzo di poppa, / giù con tutto il timone lo gettò il dio nell’acqua / a capofitto, che invano chiamava e richiamava i compagni. / Poi come uccello a volo s’alzò, nell’aria sparendo.

L’episodio di Palinuro, ricco di pathos, sottolinea ancora una volta il rapporto conflittuale tra il mondo del divino e Virgilio: anche qui infatti l’insons Palinuro, fidato nocchiero del nostro eroe, sarà vittima sacrificale del patto tra Nettuno e Venere stipulato per favorire il viaggio tranquillo di Enea.

Enea, accortosi che la nave non ha più guida, ne prende il comando, mentre piange l’amico scomparso.

Libro VI

E’ questo il canto della catabasi, cioè della discesa agli inferi di Enea.

I troiani giungono a Cuma, e mentre i suoi compagni si fermano nella spiaggia alla ricerca di legna e di acqua, Enea si dirige nel tempio di Apollo e l’antro della Sibilla. Qui gli verrà confermata la permanenza nel Lazio, dove dovrà subire ancora stragi e lutti. Quindi Enea chiede di poter vedere il padre nell’Ade: per farlo dovrà trovare un ramoscello d’oro, offerta per Proserpina e seppellire Miseno, suo compagno, che contamina la flotta. Compiuti tali riti si dirige nell’Ade (regno dei morti), nel cui vestibolo sono tutti i mali che affliggono l’uomo. Al centro c’è un grande olmo, in cui sono racchiusi i sogni vani; lo dovrà seguire: e là che troverà la via che lo porterà all’Acheronte:

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Enea e la Sibilla salgono sulla barca di Caronte

CARONTE
(vv.298-316)

Portitor has horrendus aquas et flumina servat
terribili squalore Charon, cui plurima mento
canities inculta iacet, stant lumina flamma,
sordidus ex umeris nodo dependet amictus.
Ipse ratem conto subigit velisque ministrat
et ferruginea subvectat corpora cumba,
iam senior, sed cruda deo viridisque senectus.
Huc omnis turba ad ripas effusa ruebat,
matres atque viri defunctaque corpora vita
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
impositique rogis iuvenes ante ora parentum:
quam multa in silvis autumni frigore primo
lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto
quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus
trans pontum fugat et terris immittit apricis.
Stabant orantes primi transmittere cursum
tendebantque manus ripae ulterioris amore.
Navita sed tristis nunc hos nunc accipit illos,
ast alios longe summotos arcet harena.

Traghettatore orrendo, guarda quest’acque ed il fiume / Caronte, irto, pauroso: a lui la lunga dal mento, / bianca scende la barba incolta, sbarra occhi di fiamma; / sordido dalle spalle gli pende, annodato, il mantello. / Da solo spinge col palo la barca e le vele governa, / dentro il suo livido scafo i corpi trasporta, / vecchissimo. Ma cruda e salda è la vecchiezza del dio. / Qui tutta una folla ammassandosi sulle rive accorreva, / donne e uomini, corpi liberi ormai dalla vita, / di forti eroi, fanciulli e non promesse fanciulle, / giovani messi sul rogo davanti agli occhi dei padri: / tante così nei boschi, al primo freddo d’autunno, / volteggiano e cadono foglie, o a terra dal cielo profondo / tanti uccelli s’addensano, quando, freddo ormai, l’anno / di là del mare li spinge verso le terre del sole. / Stavano là, sperando d’essere i primi a passare, / e tendevan, per brama dell’altra riva, le mani. / Ma il triste nocchiero or questi accoglie, ora quelli, / altri tiene lontani e caccia via dalla spiaggia.

La Sibilla spiega ad Enea che potranno essere traghettate solo le anime dei sepolti: Palinuro, morto in mare, dovrà attendere cento anni. Enea lo incontrerà tre le anime, e sarà lo stesso Palinuro a dirci di aver raggiunto la riva, ma gli abitanti di quel luogo lo avevano ucciso e lasciato insepolto. La Sibilla gli assicurerà che avverrà anche per lui il rito funebre e il luogo riceverà il suo nome. Convinto dal ramo d’oro, (che Enea aveva precedentemente raccolto) i due vengono traghettati da Caronte e giungono all’altra riva. Qui incontrano Cerbero e Minosse.

CERBERO E MINOSSE
(vv.417-423; 432-439)

Cerberus haec ingens latratu regna trifauci
personat adverso recubans immanis in antro.
Cui vates horrere videns iam colla colubris
melle soporatam et medicatis frugibus offam
obicit. Ille fame rabida tria guttura pandens
corripit obiectam atque immania terga resolvit
fusus humi totoque ingens extenditur antro.
Quaesitor Minos urnam movet; ille silentum
consiliumque vocat vitasque et crimina discit.
Proxima deinde tenent maesti loca, qui sibi letum
insontes peperere manu lucemque perosi
proiecere animas. quam vellent aethere in alto
nunc et pauperiem et duros perferre labores.
Fas obstat, tristisque palus inamabilis undae
alligat et novies Styx interfusa coercet.

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John Martin: Enea e la Sibilla nell’Ade (1817)

Cerbero qui, gigantesco, con tre gole latrando, / rintrona quei regni, steso ferocemente nell’antro. / A lui la Sibilla, vedendo già i serpi drizzati sui colli, / gettò una focaccia sonnifera, di miele e drogata farina. / Con fame rabbiosa, tre gole aprendo, l’afferra / quello a volo: ed ecco il corpo pauroso crollò, / sdraiato in terra, immenso per tutto l’antro si stese. / Inquisitore è Minosse e scuote l’urna: di muti / egli aduna un concilio, le colpe indaga e le vite. / I luoghi vicini, in angoscia tengono quelli che morte / innocenti si dettero, di loro mano, in odio alla luce / la vita buttarono via. Oh come adesso vorrebbero / su nella luce e miseria e dure pene soffrire! / Il Fato s’oppone, e la trista palude dell’onda esecrabile / li lega, li stringe e li fascia per nove volte lo Stige.

Superati i due mostri, in una specie d’Antinferno incontrano i morti anzitempo (bambini, suicidi, condannati a morte ingiustamente;); poco lontano i morti per amore: qui incontra Didone:

ENEA E DIDONE NELL’ADE
(vv. 450-476)

Inter quas Phoenissa recens a vulnere Dido
errabat silva in magna; quam Troius heros
ut primum iuxta stetit agnovitque per umbras
obscuram, qualem primo qui surgere mense
aut videt aut vidisse putat per nubila lunam,
demisit lacrimas dulcique adfatus amore est:
«Infelix Dido, verus mihi nuntius ergo
venerat exstinctam ferroque extrema secutam?
Funeris heu tibi causa fui? per sidera iuro,
per superos et si qua fides tellure sub ima est,
invitus, regina, tuo de litore cessi.
Sed me iussa deum, quae nunc has ire per umbras,
per loca senta situ cogunt noctemque profundam,
imperiis egere suis; nec credere quivi
hunc tantum tibi me discessu ferre dolorem.
Siste gradum teque aspectu ne subtrahe nostro.
Quem fugis? extremum fato quod te adloquor hoc est.»
Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem
lenibat dictis animum lacrimasque ciebat.
Illa solo fixos oculos aversa tenebat
nec magis incepto vultum sermone movetur
quam si dura silex aut stet Marpesia cautes.
Tandem corripuit sese atque inimica refugit
in nemus umbriferum, coniunx ubi pristinus illi
respondet curis aequatque Sychaeus amorem.
Nec minus Aeneas casu percussus iniquo
prosequitur lacrimis longe et miseratur euntem.

Tra l’altre, fresca ancor di ferita, Didone fenicia / vagava per la foresta immensa. Ed ecco l’eroe / teucro le fu vicino, e la conobbe, fra l’ombre / incerta, come chi sorgere, al principiare del mese, / vede, o crede vedere, fra nubi luna; / e lasciò correr le lagrime e la chiamò con amore: / «Didone misera! e dunque era vero l’annunzio / che t’eri uccisa col ferro, che avevi voluto morire. / Di morte io ti fui causa? Per le stelle ti giuro, / pei superi, per quale valga mai pegno sotto la terra profonda, / io non volevo, regina, lasciar la tua spiaggia. / Ma la legge dei numi, che or mi fa andare tra l’ombre, / per luoghi squallidi, mucidi, entro la notte profonda, / con la sua forza mi urgeva: e non potevo, no, credere / che t’avrei dato, partendo, così disperato dolore. / Ferma il passo, oh non sottrarti al mio sguardo. / Chi fuggi? Per fato, è l’ultima volta che posso parlarti!» / Così quell’anima ardente, che torvo guardava, / Enea tentava lenir con le parole, e piangeva. / Ma lei gli occhi a terra, nemica, fissi teneva. / Né al suo parlare cambia espressione del volto, / più che se rigida roccia o scoglio marpesio là stesse. / Si scosse alla fine, e corse, nemica, a nascondersi / nel bosco ombroso: là dove il primo marito / al suo affanno risponde, uguaglia il suo amore, Sicheo. / Tanto più Enea, sconvolto dall’ingiusta sciagura, / la segue con lagrime a lungo, mentre fugge, e ne piange.

Questo passo si lega strutturalmente al IV, offrendo, così la chiusura dell’incontro/scontro/incomunicabilità, attraverso cui si delinea l’arco della storia d’amore tra Didone ed Enea. Di fronte alle crude parole rinfacciate al perfidus inimicus, cui nulla riesce a ribattere in modo convincente l’eroe troiano, qui vi è finalmente la “spiegazione” alle quale lei assiste sdegnando l’interlocutore: il passo si chiude, tuttavia, verso un segno di speranza per la donna: nell’Ade non è sola, ma è accompagnata da Sicheo, suo marito, cui si rifugia, ritrovando la fides rotta per un amore impuro.

Continuando nel cammino nell’Ade, Enea dapprima incontra i caduti in guerra, quindi, si trova di fonte ad un bivio, una strada conduce al Tartaro, dove sono puniti i malvagi, l’altra ai campi Elisi, dove risiedono i beati. Tra essi vi è Anchise. Qui il vecchio padre mostra le anime che si sarebbero reincarnate; dopo aver spiegato il mistero della metempsicosi, mostra al figlio le anime che sarebbero diventate i suoi discendenti.

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Ferdinand Bol: Enea accolto dal re Latino (Amsterdam, 1661-1663 ca)

Libro VII  

Il canto inizia con i riti funebri per Caieta, nutrice di Enea. Ripreso il viaggio, costeggiano Creta, finché giungono alla foce del Tevere. Qui il narratore, dopo una nuova invocazione, racconta la gente latina: vi è re Latino, alla cui unica figlia, Lavinia, aspirava Turno, re dei Rutuli. Il re si mostra ostile a questo matrimonio, perché troppi presagi appaiono negativi. Intanto i Troiani, giunti nel Lazio, si rendono conto che è questo il posto a cui erano destinati: infatti si avvera la profezia delle Arpie, quella per cui avrebbero mangiato le loro mense (preparate focacce di farina, vi pongono i cibi, quindi si nutrono anche di esse). Vengono accolti benevolmente dal re Latino, che si rende conto che sarà Enea destinato per sua figlia. Giunone accortasi di ciò, manda la furia Aletto per creare discordia tra i protagonisti: dapprima va da Amata, moglie di Latino, e gli intima di non dare sua figlia ad Enea, quindi si reca da Turno e lo spinge a prender le armi contro i troiani ed infine eccita i pastori del re, facendo uccidere una splendida cerva della figlia da una freccia di Ascanio. Vengono, forzando la volontà del re, aperte le porte di Giano. Nella presentazione appare, splendida, la descrizione della vergine Camilla:

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Niccolò dell’Abate: Camilla sorretta da Acca (Palazzo Poggi, Firenze)

LA VERGINE CAMILLA
(vv. 803-807; 812-817)

Hos super advenit Volsca de gente Camilla
agmen agens equitum et florentis aere catervas,
bellatrix, non illa colo calathisve Minervae
femineas adsueta manus, sed proelia virgo
dura pati cursuque pedum praevertere ventos.

(…)

Illam omnis tectis agrisque effusa iuventus
turbaque miratur matrum et prospectat euntem,
attonitis inhians animis ut regius ostro
velet honos levis umeros, ut fibula crinem
auro internectat, Lyciam ut gerat ipsa pharetram
et pastoralem praefixa cuspide myrtum.

Dopo tutti costoro, Volsca di stirpe, ecco Camilla: / squadre a cavallo guidava, caterve fiorite di bronzo, / guerriera, che mai conocchia o cestello toccò di Minerva / con le mani femminee, ma, vergine, lotte / dure imparò a sopportare, a vincere il vento correndo. (…)  Lei tutti i giovani, dalle case, dai campi, accaldandosi, / e una folla di madri ammira, e la guardano andare / a bocca aperta, stupiti, come l’onore regale / della porpora, veli le belle spalle e d’oro la fibbia / s’intrecci ai capelli, e come la licia faretra / e il pastorale mirto, armato di punta lei porti.

Appare qui la donna guerriera, quella che Dante stesso cita nel I canto dell’Inferno, madre di quelle vergine guerriere di cui, più che il poeta medievale, si nutriranno i poemi cavallereschi di Ariosto, nella figura di Bradamante e soprattutto di Tasso, disegnando, con Clorinda, forse l’apice di questa figura femminile.

Libro VIII

Sia Enea che i suoi nemici cercano alleanze per la guerra. Enea si dirige dal vecchio Evandro, che ricevutolo rivede in lui le fattezze di Anchise, e lo accoglie con benevolenza. Quindi il re racconta la storia di quella terra e in seguito gli consiglia di cercare anche l’alleanza con gli Etruschi. Nel frattempo lui garantirà un numero congruo di cavalieri, una parte dei quali verrà guidata dal suo giovane figlio Pallante. Venere, nel frattempo, preoccupata per l’imminente guerra, si rivolge a Vulcano, affinché costruisse armi invincibili per il figlio. Quando Enea le riceverà potrà ammirare, disegnate nello scudo, le future vicende di Roma, sino alla battaglia di Azio:

AGIOGRAFIA DI AUGUSTO
(vv. 671-681)

Haec inter tumidi late maris ibat imago
aurea, sed fluctu spumabant caerula cano;
et circum argento clari delphines in orbem
aequora verrebant caudis aestumque secabant.
In medio classis aeratas, Actia bella,
cernere erat, totumque instructo Marte videres
fervere Leucaten auroque effulgere fluctus.
Hinc Augustus agens Italos in proelia Caesar
cum patribus populoque, penatibus et magnis dis,
stans celsa in puppi, geminas cui tempora flammas
laeta vomunt patriumque aperitur vertice sidus.

Tra queste figure scorreva del gonfio mar vastamente / l’immagine aurea, ma spumeggiava cerulea di bianchi frangenti: / e intorno, argentei splendendo in cerchio, i delfini / spazzavano il mar con le code e il flutto solcavano. / In mezzo, flotte armate di bronzo, l’Aziaca battaglia / si poteva vedere, e sotto le belliche schiere scorgevi / spumeggiar tutto il Leucate, splendere d’oro le onde. / Cesare Augusto, di qui, gli Itali in guerra guidando, / coi padri, col popolo, con i penati e i gran dei, / ritto sull’alta poppa: e due fiamme le tempie / fortunate lampeggiano, appare sul cupo la stella paterna.

Libro IX

Mentre Enea sta cercando alleati per la guerra, Giunone spinge Turno ad attaccare battaglia; non riuscendo ad assalire le mura, dentro le quali i Troiani si sono asserragliati, pensa di bruciarne le navi, ma una magia di Cibele, con cui tale navi furono costruite, le trasforma in ninfe marine. Sbigottiti i Rutuli meditano l’attacco per il giorno seguente. Vengono pertanto predisposte le guardie: sotto le mura troiane ci sono Eurialo e Niso. Niso dice all’amico che vuole andare da Enea per avvertirlo del nemico, ma Eurialo non è disposto a lasciarlo andare solo, anche se nel campo rimane la vecchia madre.

INSIEME AD OGNI COSTO
(vv. 197-223; 367-445)

Obstipuit magno laudum percussus amore
Euryalus, simul his ardentem adfatur amicum:
«Mene igitur socium summis adiungere rebus,
Nise, fugis? solum te in tanta pericula mittam?
Non ita me genitor, bellis adsuetus Opheltes,
Argolicum terrorem inter Troiaeque labores
sublatum erudiit, nec tecum talia gessi
magnanimum Aenean et fata extrema secutus:
est hic, est animus lucis contemptor et istum
qui vita bene credat emi, quo tendis, honorem.»
Nisus ad haec: «Equidem de te nil tale verebar
nec fas, non; ita me referat tibi magnus ovantem
Iuppiter aut quicumque oculis haec aspicit aequis.
Sed si quis, quae multa vides discrimine tali,
si quis in adversum rapiat casusve deusve,
te superesse velim, tua vita dignior aetas.
Sit qui me raptum pugna pretiove redemptum
mandet humo, solita aut si qua id Fortuna vetabit,
absenti ferat inferias decoretque sepulcro.
Neu matri miserae tanti sim causa doloris,
quae te sola, puer, multis e matribus ausa
persequitur, magni nec moenia curat Acestae.»
Ille autem: «Causas nequiquam nectis inanis
nec mea iam mutata loco sententia cedit:
adceleremus» ait. Vigiles simul excitat, illi
succedunt servantque vices: statione relicta
ipse comes Niso graditur regemque requirunt.

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Jean Baptiste Louis Roman: Eurialo e Niso (Museo del Louvre, 1827)

Restò senza fiato, dal grande amore di gloria, / Eurialo: e così subito parla all’amico eccitato: / «Me dunque compagno alle imprese più grandi non vuoi / prendere, Niso? Ti lascerò solo in tanto pericolo? / Non così il padre Ofelte avvezzo alle guerre / m’educò, poiché in mezzo al terrore dei Danai, allo strazio / di Troia io son nato: non con te vissi / e del magnanimo Enea seguii fino in fondo il destino: / c’è qui, c’è un cuore che disprezza la luce, che crede / buon prezzo pagar con la vita l’onore a cui tendi». / E Niso: «No, certo, non questo di te potevo  temere, / sarebbe stata ingiustizia; così a te mi riporti in trionfo / il gran Giove, o chi altro guarda benigno l’impresa! / Ma se, tu vedi che molte sono le cose in tali frangenti, / se un caso, se un dio dovesse gettarmi nel peggio, / te vorrei vivo, più degni di vita i tuoi anni. / E poi ci sarebbe chi, vinto in battaglia o comprato con oro, / m’affidi alla terra, o se la Fortuna s’oppone, / faccia l’esequie all’assente e di tombe m’onori. / E alla tua misera madre non voglio essere causa di pianto, / a lei che sola, fra tante donne, fanciullo, / osò seguirti, e nulla per lei furon le mura d’Alceste.» / Ma quello: «Scene inutili intessi, senza costrutto; / non cede, non muta comunque la mia decisione, / facciamo presto», dice. E sveglia le scolte, e subentrano / quelli a prendere la guardia: egli lascia il suo posto, / compagno a Niso si muove e cercano il re.

Quindi insieme i due amici, dopo aver ottenuto il permesso per la loro impresa, s’infiltrano nel campo dei nemici che trovano addormentati; ne uccidono tanti e si impossessano di alcune delle loro armi, tra cui un elmo.

Interea praemissi equites ex urbe Latina,
cetera dum legio campis instructa moratur,
ibant et Turno regi responsa ferebant,
ter centum, scutati omnes, Volcente magistro.
Iamque propinquabant castris murosque subibant
cum procul hos laevo flectentis limite cernunt,
et galea Euryalum sublustri noctis in umbra
prodidit immemorem radiisque adversa refulsit.
Haud temere est visum. Conclamat ab agmine Volcens:
«State, viri. Quae causa viae? quive estis in armis?
quove tenetis iter?» Nihil illi tendere contra,
sed celerare fugam in silvas et fidere nocti.
Obiciunt equites sese ad divortia nota
hinc atque hinc omnemque aditum custode coronant.
Silva fuit late dumis atque ilice nigra
horrida, quam densi complerant undique sentes;
rara per occultos lucebat semita callis.
Euryalum tenebrae ramorum onerosaque praeda
impediunt, fallitque timor regione viarum.
Nisus abit; iamque imprudens evaserat hostis
atque locos qui post Albae de nomine dicti
Albani (tum rex stabula alta Latinus habebat),
ut stetit et frustra absentem respexit amicum:
«Euryale infelix, qua te regione reliqui?
quave sequar?» rursus perplexum iter omne revoluens
fallacis silvae simul et vestigia retro
observata legit dumisque silentibus errat.
Audit equos, audit strepitus et signa sequentum;
nec longum in medio tempus, cum clamor ad auris
pervenit ac videt Euryalum, quem iam manus omnis
fraude loci et noctis, subito turbante tumultu,
oppressum rapit et conantem plurima frustra.
Quid faciat? qua vi iuvenem, quibus audeat armis
eripere? an sese medios moriturus in enses
inferat et pulchram properet per vulnera mortem?
Ocius adducto torquet hastile lacerto
suspiciens altam Lunam et sic voce precatur:
«Tu, dea, tu praesens nostro succurre labori,
astrorum decus et nemorum Latonia custos.
Si qua tuis umquam pro me pater Hyrtacus aris
dona tulit, si qua ipse meis venatibus auxi
suspendive tholo aut sacra ad fastigia fixi,
hunc sine me turbare globum et rege tela per auras».
Dixerat et toto conixus corpore ferrum
conicit. Hasta volans noctis diverberat umbras
et venit aversi in tergum Sulmonis ibique
frangitur, ac fisso transit praecordia ligno.
Volvitur ille vomens calidum de pectore flumen
frigidus et longis singultibus ilia pulsat.
Diversi circumspiciunt. Hoc acrior idem
ecce aliud summa telum librabat ab aure.
Dum trepidant, it hasta Tago per tempus utrumque
stridens traiectoque haesit tepefacta cerebro.
Saevit atrox Volcens nec teli conspicit usquam
auctorem nec quo se ardens immittere possit.
«Tu tamen interea calido mihi sanguine poenas
persolves amborum» inquit; simul ense recluso
ibat in Euryalum. Tum vero exterritus, amens,
conclamat Nisus nec se celare tenebris
amplius aut tantum potuit perferre dolorem:
«Me, me, adsum qui feci, in me convertite ferrum,
o Rutuli! mea fraus omnis, nihil iste nec ausus
nec potuit; caelum hoc et conscia sidera testor;
tantum infelicem nimium dilexit amicum.»
Talia dicta dabat, sed viribus ensis adactus
transadigit costas et candida pectora rumpit.
Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus
it cruor inque umeros cervix conlapsa recumbit:
purpureus veluti cum flos succisus aratro
languescit moriens, lassove papavera collo
demisere caput pluvia cum forte gravantur.
At Nisus ruit in medios solumque per omnis
Volcentem petit, in solo Volcente moratur.
Quem circum glomerati hostes hinc comminus atque hinc
proturbant. Instat non setius ac rotat ensem
fulmineum, donec Rutuli clamantis in ore
condidit adverso et moriens animam abstulit hosti.
Tum super exanimum sese proiecit amicum
confossus, placidaque ibi demum morte quievit.

Intanto, mandati avanti dal borgo latino, ché altro / esercito, pronto, resta in attesa nel piano, / cavalieri venivano, e a Turno re risposte portavano; / trecento, tutti armati di scudi, e Volcente era il capo. / E già si avvicinavano al campo e alle mura arrivavano, / quando lontano, costoro vedon girare a sinistra, / e l’elmo, nell’ombre della notte lunare, tradì / l’immemore Eurialo, colpito dai raggi splendette. / Non impunemente fu visto. / Volcente gridò alla schiera: «Fermi, uomini, che cosa vi muove? chi siete in armi? / dove siete diretti?». Essi nulla rispondono, / ma rapidi fuggono al bosco e alla notte si affidano. / I cavalieri si lanciano ai passaggi ben noti / di qua, di là, tutti i bivii con guardie coronano. / La selva era vasta, di macchie e d’elci nerastri / foltissima, e densi spineti per tutto l’empivano: / radi sentieri lucevano fra intrichi nascosti. / Eurialo, l’ombra dei rami, la preda onerosa / impaccia, l’inganna l’orrore nel tentare la via. / Niso andava: già senza accorgersene ha passato i nemici, / e i boschi sacri, che poi dal nome d’Alba si dissero / Albani (allora il re Latino, pascoli folti, li aveva): / come ristette, e invano a cercar l’amico si volse, e non c’era: / «Eurialo infelice, dove mai t’ho lasciato? dove ti cerco / tutto facendo di nuovo il confuso cammino / dell’ingannevole selva?» E scruta all’indietro / le impronte recenti e le segue, s’aggira tra mute boscaglie. / Ecco, ode cavalli, strepito ode, e gli inseguitori, e i richiami: / e molto non passa, che un urlo agli orecchi / gli arriva, e vede Eurialo; già tutta la schiera / (colpa della notte e del luogo) con subito confuso tumulto / lo raggiunge, lo tiene, che tutto invano pur tenta. / Che fare? con quale forza, con quali armi oserà / strappar loro il fanciullo? o è meglio gettarsi a morire, / su quelle spade, affrettare la bella morte nel sangue? / Rapidamente flettendo il braccio palleggia l’astile, / e in alto, alla Luna rivolto, la prega così: / «Tu, dea, tu valido aiuto, soccorri il nostro pericolo, / o bellezza degli astri, o dei boschi Latonia custode. / Se mai per me sui tuoi altari il padre mio Irtaco / portò doni, se anch’io con le mie cacce ne aggiunsi, / e ne appesi alla cupola, e ai sacri fastigi ne affissi, / fammi sconvolgere tu quella folla, reggi l’arma per aria». / Disse, e con tutto il corpo tendendosi il ferro / lanciò. L’asta volando straccia l’ombra notturna, / e vien nella schiena a Sulmone, voltato, e lì stesso / s’infrange, ma passa col legno rotto i precordi. / Rotola quello, dal petto un caldo fiume versando; / già freddo, gli ultimi aneliti con lunghi singulti dà ancora. / di qua, di là guardano. E Niso, più ardente, / ancora scoccava dall’orecchio una picca: / stavan quelli confusi, e l’asta passò a Tago le tempie / stridendo, restò a intiepidirsi nel cervello trafitto. / Volcente infuria, feroce: non riesce a vedere l’autore / del colpo, né dove possa pieno di rabbia scagliarsi. / «Tu intanto, però, col sangue vendetta / mi pagherai per entrambi», gridò e col ferro sguainato / piombava su Eurialo. Allora folle, sconvolto, / Niso scoppia a gridare, non può più nel buio nascondersi, / non può sopportare così orrendo dolore. / «Me, me! qui son io che ho colpito, su me il ferro volgete / o Rutuli! Mio è tutto l’inganno, nulla osò questo, / nè avrebbe potuto: il cielo lo attesti e, consce, le stelle. Soltanto, amò troppo il suo misero amico». / Queste parole gridava, ma spinta a forza la spada / tagliò le costole, il candido petto sfondò. / S’accasciò Eurialo morto, per il bel corpo / scorreva il sangue, cadde la testa sulla spalla, pesante: / così purpureo fiore, che l’aratro ha tagliato, / languisce morendo, o chinano il capo i papaveri / sul collo stanco, quando la pioggia li grava. / Ma Niso si butta nel mezzo, solo fra tutti / Volcente ricerca, Volcente solo egli vuole. / Intorno i nemici si stringono / di qua di là tentano / di ributtarlo: e nondimeno resiste, e ruota la spada / fulminea, finché al Rutulo urlante la cacciò nella gola / e tolse, morendo, al suo nemico la vita. / Allora si buttò in terra, sull’amico già esamine, / e lì, trafitto, trovò in placida morte riposo.

Episodio celeberrimo questo di Eurialo e Niso, non solo perché viene ripresa pedissequamente da Ariosto, nelle figure di Cloridano e Medoro, ma perché ci pone il problema del superamento, in chiave concettuale, dell’idea di amicizia della filosofia di Cicerone, che aveva dedicato ad essa un libro: infatti, per il pensatore repubblicano, l’amicizia è un sentimento che, per quanto altissimo, dev’essere subordinato al bene della res publica, per Virgilio l’amicitia, va al di là e significa sacrificio, abnegazione, generosità, lo stesso concetto cui disegnerà nella sua filosofia morale lo stoico Seneca. Inoltre non bisogna dimenticare che qui Virgilio adombri le figure di Achille e Patroclo con il concetto di amore “alla greca” – ancora un omaggio al padre dell’epica Omero.

Preparandosi all’assalto, i cavalieri portano sulle lance le teste dei due giovani, così che della loro morte viene a sapere la povera madre di Eurialo. S’accende la battaglia, morti da ambedue le parti. Turno, circondato dai nemici, fugge, gettandosi nel Tevere.

Libro X 

I Rutuli continuano la battaglia, mentre tra i Troiani emerge la figura del giovane Ascanio che lotta gloriosamente. Enea s’affretta a tornare, spronato dalle ninfe marine, barche già state trasformate, con l’esercito degli alleati. Nella lotta spicca Pallante, figlio di Evandro. Ma contro lui si fa forte Turno: inutile la preghiera del giovane ad Ercole, che piange per la sua morte; il re dei Rutuli riesce a sopraffarlo e gli ruba, trionfante, il balteo. Il dolore di Enea è grande, che si vendica uccidendo moltissimi nemici: Giunone, per far sfuggire Turno dalla sua ira, prende le sembianze del Troiano e l’allontana. Intanto Enea si trova a combattere col giovane Lauso che aveva preso le difese del padre Mesenzio ferito. Quando quest’ultimo s’allontana per detergere la ferita, Enea uccide il ragazzo. Grande è il dolore del padre, che si scaglia contro Enea, ma non cerca la vita: dopo la morte del figlio essa non ha più alcuno scopo.

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Turno uccide Pallante

MESENZIO A ENEA
(vv. 900-906)

Hostis amare, quid increpitas mortemque minaris?
nullum in caede nefas, nec sic ad proelia veni,
nec tecum meus haec pepigit mihi foedera Lausus.
unum hoc per si qua est victis venia hostibus oro:
corpus humo patiare tegi. Scio acerba meorum
circumstare odia: hunc, oro, defende furorem
et me consortem nati concede sepulcro.

Nemico amaro, che gridi? che morte minacci? / Non è empio l’uccidermi, non così venni in guerra, / non con te questo patto mi ha pattuito il mio Lauso. / Solo, se esiste pietà pei vinti nemici, ti prego: / il corpo mio, che la terra lo copra. So che acerbo dei miei / m’è intorno l’odio: ti prego, dal loro furore difendendimi, / me pure concedi compagno alla tomba del figlio.

Pochissimi versi, a chiusura del canto a sollolinare l’aspetto dellas pietas, pur di fronte alla morte del guerriero: le parole usate, venia e furor (perdono e furore) sembrano sollecitare infatti la virtù del grande eroe che sa esercitare pure sui vinti (victis) un alto senso di giustizia, rendendo il padre al figlio.

Libro XI

Si raggiunge una tregua tra i due contendenti, durante la quale vengono rese esequie funebri ai morti delle due parti. Intanto nel campo dei Latini serpeggia un certo malcontento nei confronti di Turno con alcune defezioni. Enea propone, per risolvere la guerra, un duello con Turno, il quale, pur non rinunciando a combattere contro i Troiani, accetta come ultima ratio. Sa, d’altra parte, che se alcuni hanno rinunciato alla lotta, ancora valorosi eroi stanno al suo fianco, come la vergine Camilla. Cu viene raccontata la sua vita (Il padre fuggito dopo esser stato cacciato per crudeltà, porta la piccola figlia con sé. Di fronte ad un fiume in piena, la lega su una lancia e la lancia nell’altra sponda chiedendo la protezione di Diana. Dopo averla raggiunta, la nutre nei boschi, dove cresce conservando la sua verginità e dedicando la sua vita alla dea). Ma è arrivato il suo momento:

MORTE DI CAMILLA
(vv. 768-804)

Forte sacer Cybelo Chloreus olimque sacerdos
insignis longe Phrygiis fulgebat in armis
spumantemque agitabat equum, quem pellis aënis
in plumam squamis auro conserta tegebat.
Ipse peregrina ferrugine clarus et ostro
spicula torquebat Lycio Gortynia cornu;
aureus ex umeris erat arcus et aurea vati
cassida; tum croceam chlamydemque sinusque crepantis
carbaseos fulvo in nodum collegerat auro
pictus acu tunicas et barbara tegmina crurum.
Hunc virgo, sive ut templis praefigeret arma
Troia, captivo sive ut se ferret in auro
venatrix, unum ex omni certamine pugnae
caeca sequebatur totumque incauta per agmen
femineo praedae et spoliorum ardebat amore,
telum ex insidiis cum tandem tempore capto
concitat et superos Arruns sic voce precatur:
«Summe deum, sancti custos Soractis Apollo,
quem primi colimus, cui pineus ardor acervo
pascitur, et medium freti pietate per ignem
cultores multa premimus vestigia pruna,
da, pater, hoc nostris aboleri dedecus armis,
omnipotens. Non exuvias pulsaeve tropaeum
virginis aut spolia ulla peto, mihi cetera laudem
facta ferent; haec dira meo dum vulnere pestis
pulsa cadat, patrias remeabo inglorius urbes.»
Audiit et voti Phoebus succedere partem mente dedit,
partem volucris dispersit in auras:
sterneret ut subita turbatam morte Camillam
adnuit oranti; reducem ut patria alta videret
non dedit, inque Notos vocem vertere procellae.
Ergo ut missa manu sonitum dedit hasta per auras,
convertere animos acris oculosque tulere
cuncti ad reginam Volsci. Nihil ipsa nec aurae
nec sonitus memor aut venientis ab aethere teli,
hasta sub exsertam donec perlata papillam
haesit virgineumque alte bibit acta cruorem.

Sacro al Cìbelo un tempo e sacerdote, splendeva / Clorèo lontano, vistoso in frigia armatura. / Spronava schiumante cavallo: lo copriva una pelle /  irta di bronzee squame simili a penne, trapunta in oro. / Bello d’esotico turchino e di porpora, frecce scagliava / cortesi da lieto arco: e d’oro era l’arco / agli omeri appeso, d’oro l’elmetto del vate; / le pieghe fruscianti di mussola della clamide crocea / teneva raccolte con fulvo oro in un nodo; / e tunica aveva a richiami e gambiere barbariche. / Questo la vergine, o che armi troiane appender volesse / nel tempio, o per far pompa lei stessa all’oro predato, / della battaglia fra tutte le mischie, qual cacciatrice, / rincorre, lui solo, senza guardarsi, per tutte le schiere, / ardendo di brama femminea per quelle spoglie e la preda. / Ed ecco, l’arma, insidioso, trovato finalmente il momento, / scaglia Arrunte, e i superi così invoca in preghiere: / «Sommo fra i numi, Apollo, del sacro Soratte custode, / che noi sopra gli altri onoriamo; per te resinosa la fiamma / la catasta divora, e tra il fuoco, nella pietà fiduciosi, / su molta brace noi, tuoi cultori, poniamo le piante; / dammi, padre, ch’io possa con le mie armi abolir la vergogna, / tu che puoi tutto. Non spoglie o trofeo dell’uccisa / vergine, nessuna preda domando, la gloria a me l’altre / imprese daranno: soltanto, dal mio colpa abbattuta, la peste / crudele cada, e tornerò senza onore alla patria città.» / Udì Febo, e in cuore concesse che parte del voto / fosse compiuta, parte tra i soffi dell’aria disperse: / che, in subita morte travolta, abbattesse Camilla / diede all’orante, che reduce vedesse la nobile patria / non diede, e le procelle rapirono tra i venti la voce. / E dunque, come scagliata sibilò l’asta in aria, / animi e sguardi febbrili tutti rivolsero / alla regina i suoi Volsci. Ma lei non di soffio, /  non di sibilo è accorta o d’arma che corra per l’aria, / finché l’asta, venuta sotto la nuda mammella, / s’infisse, e fonda entrò e bevve sangue virgineo.

Si conclude con questo passo la raffigurazione di Camilla, donna guerriera. E’ questa la seconda rappresentazione femminile, creata dalla mente virgiliana: ma se la prima Didone, la cui figura occupa un intero canto, discende direttamente dalle grandi eroine greche ed ellenistiche, innamorate ed abbandonate; Camilla, invece, appartiene alla schiera dei giovani “eroi” sia latini che troiani portati via dalla guerra. Camilla è discendente, diversamente da Didone, dalle grandi figure guerriere mitiche, le Amazzoni, le quali, nella letteratura classica greca, vengono rappresentate “simili ai maschi”; in Virgilio invece tale figura viene addolcita da un piccolo tocco di femminilità: il desiderio di possedere un’“armatura”, non per gloria, ma per vanità (femineo praedae et spoliorum ardebat amore). Ciò non toglie, come già abbiamo visto precedentemente, l’humanitas con la quale Virgilio descrive la morte di ambedue i fronti.

Appena Turno sa della morte della bellatrix, si reca a Laurento, sua città, per difenderla. Si dirige verso essa anche Enea. Si sarebbero certamente scontrati a duello se non fosse sopraggiunta la notte.

Libro XII

 Si prepara il duello: Latino cerca di dissuadere Turno, sapendo che per destino dovrà cedere ad Enea. Anche Giunone sa della sorte dei re dei Rutuli e tenta di procrastinarne la morte. Preso l’aspetto di un guerriero di Turno, rimprovera i compagni di lasciar solo il loro re. Un prodigio spinge i Latini a riprendere coraggio, uno dei quali, scagliando una freccia uccide un troiano. Si riprende a lottare, Enea viene ferito. Guarito dalla madre, cerca Turno, che ancora una volta viene difeso da Giunone. Ma questa volta interviene Giove, che ordina alla dea di cessare di voler fermare l’esito del destino. Ella acconsente a patto che i latini conservino il nome, la lingua e i costumi, e Troia scompaia per sempre. Giove promette e afferma che la nuova città sarà il frutto della comunione tra i due popoli. Abbandonato da Giunone, può iniziare il redde rationem:

LA MORTE DI TURNO
(vv. 919-952) 

Cunctanti telum Aeneas fatale coruscat
sortitus fortunam oculis et corpore toto
eminus intorquet. Murali concita numquam
tormento sic saxa fremunt nec fulmine tanti
dissultant crepitus. Volat atri turbinis instar
exitium dirum hasta ferens orasque recludit
loricae et clipei extremos septemplicis orbes.
Per medium stridens transit femur: incidit ictus
ingens ad terram duplicato poplite Turnus.
Consurgunt gemitu Rutuli totusque remugit
mons circum et vocem late nemora alta remittunt.
Ille humilis supplex oculos dextramque precantem
protendens «Equidem merui nec deprecor» inquit:
«utere sorte tua; miseri te si qua parentis
tangere cura potest, oro (fuit et tibi talis
Anchises genitor), Dauni miserere senectae
et me seu corpus spoliatum lumine mavis
redde meis. Vicisti et victum tendere palmas
Ausonii videre; tua est Lavinia coniunx;
ulterius ne tende odiis». Stetit acer in armis
Aeneas volvens oculos dextramque repressit;
et iam iamque magis cunctantem flectere sermo
coeperat, infelix umero cum apparuit alto
balteus et notis fulserunt cingula bullis
Pallantis pueri, victum quem volnere Turnus
straverat atque umeris inimicum insigne gerebat.
Ille, oculis postquam saevi monumenta doloris
exuviasque hausit, furiis accensus et ira
terribilis: «Tunc hinc spoliis indute meorum
eripiare mihi? Pallas te hoc volnere, Pallas
immolat et poenam scelerato ex sangue sumit».
Hoc dicens ferrum adverso sub pectore condit
fervidus; ast illi solvuntur frigore membra
vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.

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Luca Giordano: Enea uccide Turno (1600 ca)

E mentre esita, Enea vibra l’asta fatale, / scelta la sua fortuna con gli occhi, e con tutte le forze / di lontano la scaglia. Mai lanciati da macchina / murale così rombano sassi, né a scoppio di fulmine tanto / rimbomban tuoni. Vola come turbine nero, / dura morte l’asta portando, e della lorica / straccia l’orlo, e dello scudo settemplice l’ultimo giro: / penetra in pieno, stridendo, nel femore. Cade colpito / il grande Turno, sulle ginocchia, per terra. / Balzan con gemito i Rutuli in piedi e tutto rimbomba / il monte intorno e i boschi profondi ripetono l’eco. / Lui supplice tende da terra gli occhi e la destra a pregare: / «L’ho meritato, sì», esclama «e non maledico. Tu puoi / usar la tua sorte. Ma se del misero padre un pensiero / può ancora toccarti, ti prego (anche tu il vecchio padre / Anchise avesti), pietà della vecchiezza di Dauno, /  e, sia pur corpo privo di vita, se questo ti piace, / rendimi ai miei. Hai vinto, e vinto tender le mani / m’hanno visto gli Ausoni: è Lavinia tua sposa. / Di più non voglia il tuo odio». S’arrestò, aspro in armi, / Enea, rotando gli occhi, lasciò cadere la destra: / e sempre e sempre di più le parole piegavano / il cuore esitante, ma ecco brillò sulla spada, fatale, / il balteo, brillaron le cinghie dalle borchie ben note, / del fanciullo Pallante, che Turno colpì di ferita / e calpestò: e il trofeo del nemico sulle spalle portava. / Enea, come con gli occhi, ricordo d’atroce dolore, /  toccò quell’insegna, acceso di furia e nell’ira /  terribile: «Tu dunque, vestito delle spoglie dei miei, / mi sfuggirai dalle mani? Pallante con questo mio colpo, /  Pallante t’immola, e si vendica del tuo sangue assassino!» /  Così gridando, gl’immerge nel petto la spada / senza pietà. Con un fremito s’abbandonò allora il corpo, /  e la vita gemendo fuggì, angosciata fra l’ombre.

Così, allo stesso modo in cui Omero aveva terminato la sua Iliade con il duello tra Achille ed Ettore, allo stesso modo Virgilio chiude il suo poema con il duello tra Enea e Turno. Anche in questo epilogo tuttavia Virgilio non vuole smettere di sottolineare l’ambivalenza tra il ritratto tradizionale dell’eroe vittorioso (stetit acer in armis, eretto con le armi in pugno) e il nuovo concetto, seppure sfiorato solo per un attimo dell’humanitas (iam iamque magis cunctantem flectere sermo coeperat, e sempre più le parole di Turno avevano cominciato a piegare lui esitante). Ma alla fine del ritratto, forse per obbedire al modello achilleo, ecco Enea riprendere il ruolo del vendicatore, ruolo che stride col personaggio quale sinora abbiamo conosciuto.

Dopo averne percorso la trama, si tratta ora di andare a cogliere il significato che tale opera ha significato non solo per la letteratura latina in sé, ma anche, come si è cercato di dimostrare, per l’intera cultura “occidentale”.

Ciò può sembrare strano a partire dal fatto che l’opera, sin dall’incipit si presenta come non originale. Essa infatti si vuole porre sullo stesso piano, per la letteratura latina, di quella che per la letteratura greca erano stati i poemi omerici, passando attraverso la mediazione alessandrina: infatti è ellenisticamente breve, dodici canti al posto dei quarantotto complessivi omerici, ma è anche “modernamente” fedele rispetto a quelli che sono i topoi del genere epico: il viaggio (Odissea) nei primi sei libri e la guerra (Iliade) in quelli successivi; l’intervento degli dei nelle vicende degli uomini, la catabasi posta al centro della vicenda, la rassegna delle schiere combattenti e lo scudo su cui sono narrate le vicende della successiva storia di Roma. Ma tale ossequio rivolto alla grandissima epica greca lo costruisce anche facendo Roma figlia di quella civiltà (Enea è un Troiano), cioè legando il mythos romano a quello greco.

Eppure il poema si pone come assolutamente nuovo rispetto non solo ai precedenti omerici, ma anche a quei poemi che, prima di lui, erano considerati come “nazionali” nell’allora cultura romana, si pensi solo agli Annales di Ennio (non è un caso che l’uscita del poema virgiliano abbia cancellato quelli precedenti). Esso vuole porsi infatti non solo come continuatore, ma anche come “fondante” la nuova civiltà augustea: il mondo latino, infatti, è figlio di quello greco, ma lo ha superato, ponendosi su un livello più alto e maggiormente universale. Tutto questo lo incarna Enea: è lui che incarna una nuova Weltanschauung sulla quale si vuole costruire la Roma di Augusto: la pietas cioè quel profondo rispetto verso la patria, la famiglia, le tradizioni, sorretta da una profonda humanitas. Tutto ciò, tuttavia, non viene rappresentato in modo monolitico, senza alcun tentennamento da parte dell’eroe: sin dall’esordio Enea è caratterizzato dal participio passus (che sopporta, da patior), infatti molti critici hanno sottolineato l’aspetto “paziente” di Enea, di colui che sa attendere e aspettare il volere degli dei, o più correttamente del destino cui lui obbedisce. Infatti il poema sembra quasi costruirsi intorno alla crescita di Enea, crescita che tuttavia avviene sempre attraverso una rinuncia, ripercorriamole: dapprima Creusa, poi Anchise, Didone, Palinuro, Eurialo e Niso ed infine Pallante. Egli infatti sembra crescere attraverso il dolore dell’assenza; ma è l’assenza che lo fortifica lo fa “prendere” fors’anche con violenza, come negli ultimi versi, la terra e la donna che gli dei gli hanno assegnato.

Questo ci spiega perché l’Eneide è costruita attraverso la triangolazione che contrappone, nella prima parte, gli dei Giunone e Venere con la mediazione di Giove; nella seconda gli uomini Turno ed Enea, con la mediazione di Latino. All’interno di queste triangolazioni si sviluppano le vicende, per meglio dire le azioni che contrappongono la storia ed il Fato, di cui Enea è portatore. E’ proprio il peso del destino che Enea porta con sé, ma è un peso necessario, in quanto, pur profugus, iactatus, passus, (aggettivi e participi passati con valori fortemente negativi) egli riuscirà nel compito che gli hanno affidato, un pò come la Roma, sconvolta, depredata, tradita, alla fine ritrova se stessa con la figura di Augusto.

Certo, non è possibile dimenticare un altro aspetto fondamentale: Virgilio, scrivendo un testo la cui funzione è quella di esaltare la Roma di Ottaviano/Augusto, corre il rischio del’agiografia: lo supera brillantemente, facendo sì che il suo poema raccontasse una storia mitica e non storica.

ETA' AUGUSTEA

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Ritratto di Augusto

Convenzionalmente con l’età di Augusto si suole indicare quel periodo che va dal 44 a. C (anno dell’uccisione di Cesare) al 14 d. C. (anno della morte del princeps).

Pertanto potremmo dividere tale periodo in due momenti:

  • Quello dello scontro tra Marco Antonio e Ottaviano (43 – 30 a. C.);
  • Quello dell’edificazione del Principato (Impero) augusteo vero e proprio (29 a. C. – 14 d. C.).

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Marco Antonio e Cleopatra

La prima potremo indicarla come il prosieguo di quel lungo periodo delle guerre civili che ha visto il suo inizio con la morte dei Gracchi (121 a.C.) e che termina grazie ad Ottaviano stesso; la seconda vede invece l’affermarsi di un lungo periodo di pace e quindi un periodo in cui risulta possibile strutturare su nuove basi lo “stato romano” e il modo in cui esso, attraverso l’arte, debba riflettere se stesso nel mondo.

Vicende politiche

Per riassumere velocissimamente l’ultimo periodo della Repubblica ricorderemo:

  • lo scontro dapprima sull’eredità di Cesare, conteso tra Marco Antonio e Ottaviano: infatti se alla morte del grande condottiero romano alla plebs sembrava naturale che fosse il suo più fedele luogotenente a raccoglierne l’eredità, l’apertura del testamento lo sconfessò; infatti venne nominato il giovane figlio della sorella di Giulia, Ottaviano, di appena 19 anni, che se ne assunse l’intera responsabilità e prese il nome di Gaio Cesare a rimarcare sia di chi fosse figlio per adozione ed il suo diritto a prendere il posto.  
  • lo scontro tra il Senato, che voleva che Ottaviano si unisse con i cesaricidi (e quindi gli uccisori del padre) che, invece lo spinsero ad accordarsi con Antonio formando, anche con Lepido, il secondo triumvirato (43 a. C.); infatti in poche parole, se dapprima i due si scontrarono, alla fine, mossi da diversi interessi, ma che tuttavia li opponevano all’immobilismo del senato, superarono gli attriti e diedero vita ad una nuova magistratura, a cui associarono anche Lepido (triumviri rei publicae costituendae): ricostituire la repubblica oppure decretarne la fine? 
  • la relazione tra Antonio e Cleopatra e la guerra conclusa con la vittoria di Azio nel 31 a. C. che lasciò Ottaviano solo a gestire il potere; infatti, dopo un primo periodo di crisi, il triumvirato venne riconfermato: ad Antonio l’Oriente, l’Occidente a Ottaviano, la meno importante Africa a Lepido. Proprio alla morte di quest’ultimo assunse anche la carica di Pontifex Maximus. Lo scontro era inevitabile, scontro che, assumendo un valore quasi identitario, diede la vittoria all’Occidente influenzando l’operato e il progetto culturale di Augusto.

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Palazzo Arese Borromeo: Augusto chiude le porte di Giano

Nel 29 a. C. Ottaviano torna a Roma e, dopo aver chiuso le porte di Giano e garantita la pace, inizia l’edificazione dello stato imperiale che tuttavia, sotto il suo governo, continuerà a mantenere l’aspetto formale della Repubblica in cui egli si fece garante; il nome che diedero gli storici al periodo fu principato.
Vediamo da vicino, proprio sull’aspetto politico, le trasformazioni che porteranno Ottaviano da condottiero ad Augusto e dalla Repubblica al Principato.

  • dal 31 al 23 a. C. ricopre continuativamente la carica di console;
  • nel 27 a. C. gli viene assegnato il titolo di princeps senatus (il primo tra i senatori) in quanto detentore di un auctoritas che lo poneva al di sopra di tutti i patres conscripti; infatti gli era stato attribuito il titolo di Augustus (colui che aumenta “augeo” il benessere dello Stato) perché dei filius (figlio di un dio, Cesare era stato divinizzato);
  • nel 23 a. C. gli viene confermato l’imperium proconsulare (che gli garantiva il controllo di tutto l’esercito) e la postestas tribunicia (che gli permette sia il diritto di veto che l’inviolabilità);
  • nel 12 a. C., alla morte di Lepido diviene pontifex maximus (capo della sfera religiosa).
  • risulta pertanto evidente che nel giro di un ventennio egli sarà l’indiscusso capo del senato, del tribunato della plebe e dei riti religiosi. Ciò lo farà l’unicus dello stato a detenere il potere effettivo su ogni aspetto e che pertanto darà vita, con il suo successore, all’Impero vero e proprio.

Come organizzò Ottaviano-Augusto il nuovo stato?

Vediamo velocemente i punti salienti:

  • trasformazione di Roma in vera e propria capitale dell’Impero, attraverso opere strutturali e monumentali che ne sanciscono la centralità: tra queste ricordiamo l’Ara pacis e il Forum Augusti;

 
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  • riorganizzazione dell’esercito che, tolto dalle mani degli ufficiali, ridiventava esercito di stato con arruolamento volontario. Al termine ai militari veniva assegnato un premio in denaro o un appezzamento di terreno. A tale scopo venne creato un aerarium militare, le cui casse erano fornite da una nuova tassa di successione;
  • l’istituzione del praefectus praetorii a capo appunto dei praetoriani (guardia personale del princeps); praefectus urbi (con compiti di polizia per la città di Roma); praefectus annonae (per l’approvvigionamento dei viveri a Roma) e in ultimo praefectus Egypti (governatore dell’Egitto, proprietà privata di Augusto);
  • la risistemazione delle province in provinciae populi (governate dal Senato attraverso la nomina – come un tempo – di governatori provenienti dalle sue fila, e la cui riscossione delle entrate terminava nell’aerarium, cassa dello stato e in provinciae Caesaris (poste ai confini o di nuova acquisizione controllate dallo stesso Augusto attraverso governatori, (legati detti procuratori);
  • per quanto riguarda la politica estera il compito di Augusto fu quello, soprattutto, di rafforzare i confini, che determinò, invero, in un epoca di pace, qualche guerra: si ricordano qui la formazione dell’Augusta Praetoria (Aosta) e la riduzione in province della Rezia, (posta tra l’attuale Svizzera e l’Italia nord-orientale), del Norico e della Pannonia (l’Austria e l’Ungheria di oggi).

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Augusta Praetoria (Aosta)

Morale e religione

Un compito non propriamente militare ma politico era dover giustificare il fatto di essersi guadagnato il titolo di princeps. Tale giustificazione doveva passare, per essere accettata, attraverso il concetto di una “restaurazione” degli antiqui mores. Era come se il loro venir meno avesse creato quel disordine, quell’amoralità, quella ingiustificata prepotenza che avevano caratterizzato gli ultimi anni della Repubblica. Non si tratta soltanto di ripensare e rivivere la storia della Roma antica, ma d’imporla attraverso divieti (l’adulterio, il lusso, l’indifferenza religiosa) ed il rafforzamento e la riproposizione (come la costruzione di nuovi templi, la riaffermazione degli antichi collegi sacerdotali e di antichi riti propiziatori).

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La tradizionale lupa di Roma con Romolo e Remo

Certamente tale compito richiese uno sforzo notevole, soprattutto da un punto di vista urbanistico; ma non riuscì del tutto da un punto di vista etico; è impossibile “obbligare” la gente a “credere”, ma soprattutto è impossibile cancellare la storia.

Cultura

La volontà di fare di Roma la nuova capitale dell’Impero, il tentativo di presentare se stesso al mondo come il perno su cui ruotava il modo d’essere e il modo di fare, fece sì che Augusto s’impegnasse, in modo non banale, a sollecitare un impegno diretto e vivo degli intellettuali al suo progetto.

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Busto di Agrippa conservato al Louvre

Piuttosto facile era magnificare la nuova era attraverso la monumentalità: Agrippa, il suo “architetto”, gli disegnò una nuova Roma e fece sì che tutte le città dell’Impero, nel loro piccolo, la imitassero. Allo stesso modo non difficile fu, per gli scultori e l’arte figurativa, ricoprire le città d’immagini e statue che celebrassero la raggiunta pace augustea. Ma anche lui non si risparmiò scrivendo un’opera apologetica su stesso in cui magnificava le sue imprese, il Res gestae divi Augusti.

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Iscrizione delle Res Gestae nel Mausoleo di Augusto

Più problematico era operare dal punto di vista letterario. Ma se Agrippa gli fu di grande aiuto nel costruire la città e artigiani di gran classe a ricoprire le strade di Roma con sue statue e a dipingere affreschi privati e/o pubblici, Mecenate lo fu altrettanto nel creare intorno ad Augusto una rete di fini intellettuali che lo coadiuvarono (senza tuttavia piegarsi ad una mera e “falsa” adulazione) nel suo progetto.

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Busto raffigurante Mecenate

Chi è stato realmente Mecenate? Un finissimo intellettuale, certamente autore di apprezzati componimenti di cui niente ci resta, che nella sua vita condivise le attese e le aspirazioni di molti giovani che, spinti o chiamati, giunsero a Roma grazie al loro talento. La sua estrema bravura fu quella di far incontrare questi intellettuali con le volontà di Augusto, facendo in modo che né i primi si sentissero utilizzati, né il secondo ignorato dalle loro produzioni.

Ciò fu possibile perché le esigenze del princeps e quelle di questi intellettuali conversero tutte verso una “rifondazione”. Se infatti Augusto voleva rifondare, attraverso la tradizione, la nuova capitale dell’Impero e fare di essa il centro intorno al quale l’intero mondo ruotava, gli intellettuali volevano “rifondare” la cultura, facendo di essi, distogliendo lo sguardo da Atene, il nuovo punto di riferimento. Non si sa quanto questo avvenne: certamente nella cultura romana (e, quindi, occidentale) sì.

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Charles François Jalabert: Virgilio e Varo a casa di Mecenate

E’ che le riconquistata “pace”, dopo i lunghi anni di guerre civili, il tremare ancora e la trepidazione nell’attesa e nel compiersi di una nuova età, (Virgilio); il riguardare senza più odio, ma con “ironia” e saggezza il cives Romanus (si pensi ad Orazio), raccontare liricamente la propria biografia in estrema purezza stilistica (gli elegiaci) non era soltanto un fare letteratura ma un “viverla” nel senso più proprio. Per rendere ancora meglio il concetto è che non si percepisce, ancora oggi, distanza tra l’io narrante e il narrato degli autori citati. Ciò fa delle opere di questa età dei “classici”, intendendo con questo termine la capacità delle stesse di andare al di là del tempo (e dello spazio) in cui esse vennero alla luce.

Ora ancora da noi l’epica omerica o la lirica greca arcaica, come quella di Alceo o di Saffo, ci fanno, al di là della nostra capacità critica, indicarle come classici: ecco, gli autori augustei, soprattutto i due più importanti, non si limitarono, per così dire a rifare o a rendere, personalmente, o a diffondere la cultura greca (si pensi ai grandi dell’età cesariana, Lucrezio, Catullo, Cicerone), ma a diventare essi stessi novelli poeti epici o lirici da mettere al fianco con i grandi greci, cioè partire da loro per prima affiancarli e poi superarli. Si pensi a Virgilio: la sua Eneide parte dalla poesia omerica, ma non imita, la affianca e in qualche modo la supera in quanto se le prime erano la voce della Grecia arcaica, egli è il nuovo vate dell’età aurea della pace universale, perché l’impero è universale.

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Giovan Battista Tiepolo: Mecenate presenta le arti ad Augusto

Certo, tale altissima produzione cancella la precedente: all’arrivo della poesia epica virgiliana, piano piano l’epica di Livio Andronico scompare, allo stesso modo la satira di Orazio soppianta quasi del tutto quella di Lucilio; per questo motivo delle opere precedenti, non ci è giunto quasi nulla.

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Stefan Bakałowicz: Circolo di Mecenate (1890)

E allora c’è da chiedersi: perché l’opera di Lucrezio, Cicerone, Cesare, Catullo, Sallustio ci è invece pervenuta come essa stessa “classica”?

Vediamo di dare una risposta per ogni singolo autore:

Lucrezio è una tarda scoperta in clima umanistico-rinascimentale (e quindi laico); non ci fosse stata molto probabilmente del poema epicureo sapremo poco o nulla, ed inoltre rispecchiava quel sentire “antropocentrico” che il ‘400 ed il ‘500 esprimevano;

Catullo ci giunge perché alessandrino nella forma, come è ellenistico-alessandrino tutto il fare poetico dei lirici augustei, con altro intento. Così come sono personali e legati alla temperie storica i carmi catulliani, allo stesso modo sono così universali e “classiche” le odi di Orazio;

Cesare ci giunge in quanto padre del Divo Augusto e simbolo dell’unità cristiana dell’Impero e quindi della Chiesa;

Cicerone ci giunge perché è un oratore e l’oratoria al tempo di Augusto, naturalmente, scompare; quindi esso appare l’ultimo grande in cui il periodo storico gli garantisse la “libertà” della parola stessa, accompagnata da una maestria stilistica riconosciutagli in ogni tempo (d tanto da essere preso ad esempio da Boccaccio per la sua Introduzione al Decameron)

Sallustio è un caso strano: è uno storico che scrive quasi contemporaneamente a Virgilio e quindi facilmente inseribile nell’età augustea: ma se le sue opere, composte tra il 43 e il 40 a. C., sono tutte legate all’età cesariana è perché il loro sguardo è rivolto al passato, le Bucoliche virgiliane, di poco posteriori (38 a. C.), invece, sono completamente proiettate al futuro; ma la sua grandezza sta nella descrizione, oserei dire, tragica, dei suoi personaggi, che sarà un modello per il grandissimo Tacito.

 

PUBLIO OVIDIO NASONE

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Publio Ovidio Nasone

Ovidio, pur non essendo nato a Roma, rappresenta nell’imbrunire della cultura augustea, meglio di qualsiasi altro autore, ciò che Roma era diventata per eleganza e modus vivendi. Egli infatti si può definire come il portavoce di quell’urbanitas che si era imposta tra la società ricca e che, nonostante i divieti imperiali, fa bella mostra di sé nella Capitale dell’Impero e del Mondo. Egli può farlo perché a sopraintendere la sua capacità descrittiva vi è soprattutto la sua straordinaria perizia retorica che gli permette di versificare su tutto con estrema semplicità. Nemmeno la sua relegazione verso Tomi sul mar Rosso lo fermerà: continuerà a scrivere versi in qualsiasi situazione e, se cambierà dai toni leggeri a quelli più profondi, non cambierà il suo atteggiamento che fa della poesia l’unica vera forma di realtà.

Biografia

Publio Ovidio Nasone nasce nel 43 a. C. da una famiglia equestre a Sulmona, in Abruzzo. Educato dai migliori maestri, studia a Roma dove sin da giovanissimo si dedica all’attività letteraria. Legatosi all’ambiente di Messalla Corvino, raggiunse una vastissima notorietà dapprima con la tragedia Medea e quindi con i primi componenti di poesia elegiaca: gli Amores.

Con l’Ars amatoria il suo successo raggiunse l’apice, tanto da far sì che egli si considerasse al di là delle attenzioni etiche e culturali di Augusto. Con molta probabilità proprio mentre stava lavorando ad opere d’impianto maggiormente elevato e quando, finalmente, aveva raggiunto una certa quiete psicologica con la sua terza moglie, nell’8 a. C. gli fu ingiunto di lasciare Roma per Tomi, luogo sperduto, sulle rive del Mar Nero. Non sappiamo perché venne relegato (non esiliato: infatti l’essere relegato non includeva l’espropriazione dei beni); egli ci dice per carmina et error: probabilmente per carmina allude all’Ars amatoria la cui “licenziosità” poteva risultare sgradita alla politica moralizzatrice di Augusto; per error probabilmente perché aveva aiutato la nipote di Augusto, Giulia minore, a realizzare una tresca amorosa contro il marito, motivo per cui venne anch’ella relegata dal nonno (relegatio avvenuta nello stesso anno). Inutili furono i tentativi di rientrare a Roma. Neppure con l’avvento di Tiberio il suo tentativo ottenne l’esito sperato. Morì, appunto, a Tomi, il 17 d. C.

Il corpus delle opere
Ovidio fu un autore alquanto prolifico.

Tra le poesia elegiache ricordiamo:

  • Amores: elegia amorosa;
  • Heroides: lettere di donne del mito ai loro amanti lontani; a queste si aggiungono, scritte in età posteriore, tre epistole doppie (scritte da uomini a donne amate, con relativa risposta):
  • Ars amatoria: tecnica dell’amore, i primi due dedicati agli uomini e l’ultimo alle donne;
  • Remedia amoris: gli antidoti all’amore (rivolto ai delusi d’amore)
  • Medicamenta faciei feminae: i segreti della cosmesi femminile

Poesia epica:

  • Le Metamorfosi

Poesia eziologica:

  • I Fasti (interrotti per via dell’esilio)

Poesia dell’esilio:

  • Tristia: poesia elegiaca in forma epistolare in cui l’autore esprime la sua tristezza e angoscia per l’allontanamento da Roma;
  • Epistulae ex Ponto: segue lo schema dell’opera precedente;
  • Ibis: poemetto ingiurioso attraverso cui si scaglia contro un personaggio di cui non conosciamo il nome che sparge nuove accuse nei suoi confronti.

Amores

Ovidio esordisce sulla scena letteraria con una raccolta di poesie di genere elegiaco in cinque libri; tale opera sarà quindi rivista dall’autore stesso molto più tardi, nell’1 circa d. C., che la ridurrà in tre libri ed è in questa versione che è giunta sino a noi.

Egli riprende i temi tipici che ormai erano diventati classici della poesia elegiaca: l’amore verso una donna (qui Corinna), i tradimenti e la gelosia, il servitium amoris, e via dicendo. In Ovidio, tuttavia, tale repertorio appare estremamente più sfumato e virato decisamente verso l’ironia; si pensi all’episodio in cui, secondo il costume del tempo, esprime la sua recusatio per una poesia più impegnata:

INSOLITA RECUSATIO
(I, 1 , 1-4)

Arma gravi numero violentaque bella parabam
edere, materia conveniente modis.
Par erat inferior versus; risisse Cupido
dicitur atque unum surripuisse padem.

Mi accingevo a cantare con ritmo solenne le armi e le violente / guerre, argomento adattatato alla cadenza del metro. / Uguale il secondo verso al primo; si dice che Cupido / abbia sorriso e sottratto ad esso un piede.

Il poeta si trova quindi di fronte ad un distico elegiaco e pertanto non può che seguire la poesia elegiaca, caratterizzata per l’appunto da questo verso.

Vari sono gli elementi che conducono a pensare la poesia degli Amores ovidiani più come un frutto letterario col quale giocare più che come il rispecchiamento (pur con i limiti che abbiamo visto) di una storia possibilmente reale. La figura della donna è piuttosto eterea, non riusciamo a coglierla né fisicamente né psicologicamente; le contraddizioni del poeta che una volta dichiara di amare solo lei e poi afferma che gli piacciono tutte le donne; il dolore per il tradimento di lei e, nell’elegia successiva, raccomandazione alla serva che è stata con lui di non farsene accorgere, ci dice che tale poesia è un divertissement giocato all’interno del genere.

Tale aspetto ci fa godere un’elegia come questa, che avrà così tanta fortuna che ci ricorda un po’ l’aria del Don Giovanni di Mozart, Il catalogo è questo e perché no, una vecchia canzone battistiana, Dieci ragazze:

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Donne romane dalla Villa dei Misteri a Pompei

OGNI DONNA MI FA SOSPIRAR
(II, 4, 9-32)

Non est certa meos quae forma invitet amores?
centum sunt causae, cur ego semper amem.
sive aliqua est oculos in humum deiecta modestos,
uror, et insidiae sunt pudor ille meae;
sive procax aliqua est, capior, quia rustica non est,
spemque dat in molli mobilis esse toro.
aspera si visa est rigidasque imitata Sabinas,
velle, sed ex alto dissimulare puto.
sive es docta, places raras dotata per artes;
sive rudis, placita es simplicitate tua.
est, quae Callimachi prae nostris rustica dicat
carmina?cui placeo, protinus ipsa placet.
est etiam, quae me vatem et mea carmina culpet?
culpantis cupiam sustinuisse femur.
molliter incedit?motu capit; altera dura est?
at poterit tacto mollior esse viro.
haec quia dulce canit flectitque facillima vocem,
oscula cantanti rapta dedisse velim;
haec querulas habili percurrit pollice chordas?
tam doctas quis non possit amare manus?
illa placet gestu numerosaque bracchia ducit
et tenerum molli torquet ab arte latus?
ut taceam de me, qui causa tangor ab omni,
illic Hippolytum pone, Priapus erit!

Non una bellezza stabilita eccita i miei amori: / cento le cause del mio amore ininterrotto. / Se una ha gli occhi modesti rivolti a terra, / ne brucio: è quel suo pudore che m’insidia. / Se un’altra è provocante, mi affascina perché non è ingenua, / e promette di sapersi muovere nel morbido letto. / Se è parsa intrattabile e rigida, somigliante alle Sabine, penso / che provi desiderio ma dissimuli nel profondo del cuore. / Se sei istruita, mi piaci per questa dote di rare qualità; / grezza, mi sei piaciuta per la tua semplicità. / V’è quella che dice rozzi i carmi di Callimaco / al confronto dei miei: subito mi piace quella cui piaccio. / Un’altra mi riprova come poeta, e critica i miei versi: / di chi mi critica ardo sostenere la coscia sulla mia. / Se incede mollemente, m’innamora del suo passo. / Un’altra è dura, potrà ammorbidirsi al contatto dell’uomo. / A quella che canta dolcemente e con facilità gorgheggia, / vorrei strappare baci mentre canta. / Questa percorre con abile pollice le risonanti corde / Chi potrebbe non amare mani così esperte? / Quella mi piace per i suoi gesti e muove ritmicamente le braccia / e curva con molle arte il tenero fianco; / per tacere di me che stimolano tutte le cause, / metti lì Ippolito, subito diventerà Priamo!

Il passo ovidiano, posto nel secondo libro dell’opera gli Amores, mostra come, di fronte a tale testo, siano completamente “bugiardi” i pretesi turbamenti amorosi verso Corinna. Egli qui si fa sbandieratore dei suoi mendaces mores, (corrotti costumi), ma più che provare per essi rabbia e risentimento, sembra sbandierarli con divertita ironia offrendoci un quadro assai variegato delle capacità seduttive femminili. Ma a maggior conferma di tale discorso, non possiamo esimerci dal sottolineare il riferimento mitico: Ippolito, infatti, è il protagonista di una tragedia euripidea, dove la castità del protagonista lo condurrà all’ingiusta morte. A contrapporsi a lui, Ovidio evoca Priapo e, naturalmente, non c’è alcun bisogno che si sottolinei quale sia la sua caratteristica.

D’altra parte la vis ironica si misura anche nel rovesciamento un po’ blasfemo tra il massimo del negotium per un uomo romano (bellum) al peggiore dell’otium (Amor, in Ovidio, spesso, licentia). Il tema non è nuovo, ma Ovidio lo sviluppa per l’intera elegia, nobilitandolo con esempi mitici:

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Trasmissione manoscritta dell’opera ovidiana degli “Amores”

L’AMANTE E’ UN SOLDATO
(I, 9, vv. 1-20)

Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido;
Attice, crede mihi, militat omnis amans.
Quae bello est habilis, Veneri quoque convenit aetas.
turpe senex miles, turpe senilis amor.
Quos petiere duces annos in milite forti,
hos petit in socio bella puella viro.
Pervigilant ambo; terra requiescit uterque:
ille fores dominae servat, at ille ducis.
Militis officium longa est via; mitte puellam,
strenuus exempto fine sequetur amans.
ibit in adversos montes duplicataque nimbo
flumina, congestas exteret ille nives,
nec freta pressurus tumidos causabitur Euros
aptave verrendis sidera quaeret aquis.
Quis nisi vel miles vel amans et frigora noctis
et denso mixtas perferet imbre nives?
Mittitur infestos alter speculator in hostes;
in rivale oculos alter, ut hoste, tenet.
Ille graves urbes, hic durae limen amicae
obsidet; hic portas frangit, at ille fores.

Ogni amante è un soldato e Cupido ha i suoi accampamenti; / Attico, credimi, ogni amante è un soldato. / L’età adatta alla guerra, conviene anche all’amore; / turpe un soldato vecchio, turpe un amore senile. / Gli anni che richiedono i comandanti in un forte soldato, / li chiede una donna bella nell’uomo che le si accompagna. / Vegliano entrambi; l’uno e l’altro riposano in terra: / l’uno è a guardia della porta della donna, l’altro / del comandante. Ufficio del soldato i lunghi viaggi: allontana / la donna, l’irriducibile amante la seguirà dovunque, / attraverserà i moti che gli si oppongono, i fiumi gonfiati / dalle piogge burrascose, calpesterà i cumuli di neve. / E nel mettersi in mare non prenderà a scusa gli Euri impetuosi, / non aspetterà le stelle favorevoli al solcare le acque. / Chi se non un soldato o un amante sopporterà i geli / della notte e le nevi miste a pioggia? / L’uno si manda a spiare il minaccioso nemico, / l’altro tiene lo sguardo sul rivale come su un nemico. / Quello assedia le grandi città, questo la porta / dell’amica ostinata. Quello infrange la porta delle mura, / questo la porta di una casa.

Il rovesciamento attuato dal poeta è divertito: se il soldato deve mostrare tutte le sue doti di coraggio, sprezzo del pericolo, volontà indomita nel vincere il nemico, le stesse virtù deve possedere l’amante. Se anche precedentemente la poesia elegiaca aveva parlato della militia amoris, Ovidio porta alle estreme conseguenze lo stesso concetto, con spirito fortemente divertito e anticonformista.

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Rubens: Schizzo preparatorio per il suo Cupido

Ars amatoria, Remedia amoris, Medicamenta faciei femineae

Nell’ottava elegia del primo libro degli Amores, vi è una vecchia ruffiana, Dipsas, che dispensa consigli d’amore ad una pulchra puella, su come affrontare i suoi affabili spasimanti.

Si può considerare quest’elegia come il passaggio tra la prima opera elegiaca e le cosiddette opere precettistiche, in cui, al contrario di Tibullo e Properzio che si scagliano con veemenza contro le ruffiane, si fa egli stesso “maestro” e dispensatore di consigli su temi squisitamente erotici.

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Coppia romana

Nel primo, e più famoso, di essi, Ars amatoria (o Ars amandi), Ovidio insegna nel primo libro agli uomini dove ed in che modo conquistare le donne, nel secondo come conservare l’amore; il terzo, aggiunto posticipatamente per risarcire il sesso femminile, insegna alle donne come conquistare gli uomini.

DOVE “RIMORCHIARE” LE DONNE
(I, 89-99; 135-152)

Sed tu praecipue curvis venare theatris:
haec loca sunt voto fertiliora tuo.
Illic invenies quod ames, quod ludere possis,
quodque semel tangas, quodque tenere velis.
Ut redit itque frequens longum formica per agmen,
granifero solitum cum vehit ore cibum,
aut ut apes saltusque suos et olentia nactae
pascua per flores et thyma summa volant,
sic ruit ad celebres cultissima femina ludos:
copia iudicium saepe morata meum est.
Spectatum veniunt, veniunt spectentur ut ipsae
….
Nec te nobilium fugiat certamen equorum.
multa capax populi commoda Circus habet.
Nil opus est digitis, per quos arcana loquaris,
nec tibi per nutus accipienda nota est:
proximus a domina, nullo prohibente, sedeto,
Iunge tuum lateri qua potes usque latus.
Et bene, quod cogit, si nolis, linea iungi,
quod tibi tangenda est lege puella loci.
Hic tibi quaeratur socii sermonis origo,
et moveant primos publica verba sonos:
«Cuius equi veniant», facito studiose requiras:
nec mora, quisquis erit, cui favet illa, fave.
At cum pompa frequens caelestibus ibit eburnis,
tu Veneri dominae plaude favente manu.
Utque fit, in gremium pulvis si forte puellae
deciderit, digitis excutiendus erit.
Etsi nullus erit pulvis, tamen excute nullum:
quaelibet officio causa sit apta tuo.

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La corsa dei cavalli

Ma tu andrai a caccia soprattutto a teatro, sulle ricurve gradinate: /  il raccolto, in quei luoghi, è superiore a ogni speranza. / Potrai trovare amori ed avventure, / conquiste passeggere o più durevoli legami. / Come le formiche vanno avanti e indietro gremite in lunga fila, / quando col grano in bocca portano il loro cibo / o come le api, sparse sui declivi o sui campi profumati, / volano di fiore in fiore o sopra il timo, / così tutte eleganti corrono le donne in frotta agli spettacoli affollati: / e l’abbondanza ha imbarazzato spesso la mia scelta. / Vanno a teatro per guardare, certo, ma anche per essere guardate. /….. / E non dimenticare le corse dei cavalli di razza: / il Circo, con tutta la sua folla, offre molti vantaggi. / Non c’è bisogno di far segni con le dita per mandare segreti messaggi, / né di attendere un cenno d’intesa. / Siederai vicino alla donna prescelta e nessuno avrà niente da ridire: / stringiti ben bene fianco a fianco, più che puoi. / Il bello è che la linea divisoria, si voglia o no, impone di star stretti / e che proprio le regole del luogo ti fanno toccare la ragazza. / A questo punto dovrai cercare d’attaccar discorso / E una frase banale sarà l’avvio della conversazione: /  “Di chi sono quei cavalli, laggiù”, domanderai da buon tifoso; / e se lei fa il tifo per qualcuno, fallo subito anche tu. /  E quando sfilerà la grande processione con gli dei d’avorio, / Venere, tua signora, applaudirai con calorosi battimani; /  se poi, come succede, un po’ di polvere le cade sul vestito, / subito devi scuoterla via con le dita, / e se la polvere proprio non c’è, scuoti via quella che non c’è: /ogni occasione è buona per le tue attenzioni.

Se l’amore è ars, tale ars richiede tecnica; l’ars retorica, infatti, ha bisogno dell’inventio per trovare le argomentazioni; qui l’inventio sono le ragazze e compito del precettore è “insegnare” dove trovarle e come “catturarle”.

E’ un gioco estremamente sopraffino quello che mette in atto Ovidio che, non si sa quanto inconsapevolmente, descrive il modus vivendi della buona società romana, soprattutto sul piano della amoralità: infatti quello che qui il poeta sottolinea è veramente l’arte della conquista fine a se stessa, che si conclude nel possesso fisico, dimentico, come ancora era negli elegiaci precedenti, del sentimento. Non è un caso sarà proprio quest’opera a “dar fastidio” ad Augusto, che tentava di “moralizzare”, con la riscoperta dei valori antichi, la sua Roma. Che tale operetta, inoltre, segni una differenza con l’esperienza elegiaca precedente si misura anche dal passaggio dal soggettivismo all’oggettivismo realizzato attraverso un insegnamento verso un tu generico. Infatti se negli Amores leggiamo che ad Ovidio gli piacciono tutte, nell’Ars, viceversa, deve insegnare ai suoi discepoli a “farsi piacere tutte le donne”. Affinché ciò avvenga egli utilizza la metafora della caccia, in cui le donne sono le prede di cacciatori che devono utilizzare tutte le trappole e tutte le tecniche venatorie atte a conquistarle. La conquista si disegna pertanto non come l’affermazione di un “rapporto” che, da Catullo a Properzio è visto come foedus, ma solo come il raggiungimento di un piacere sessuale al quale le femmine devono cedere.

E’ evidente che tale situazione si presti più ad un gioco delle parti che ad una vera e propria rappresentazione di un amans complesso, tanto più che egli stesso appare più un attore all’interno di una piéce in cui tutti conoscono le loro parti. Il problema è che il palcoscenico reale è Roma, e questo ad Augusto non va giù.

Nei Remedia amoris, Ovidio capovolge la sua funzione: se nell’Ars egli si professava come magister, qui egli si fa medico, che prescrive i rimedi necessari per guarire dalla passione contratta. Infatti così si rivolge a Cupido, nell’incipit della sua operetta, appena poco più di 800 versi:

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William Bouguereau: Cupido

Il NUOVO COMPITO DI GUARITORE DELLE FERITE D’AMORE
(vv. 11-22)

Nec te, blande puer, nec nostra prodimus artes,
nec nova praeteritum Musa retexit opus.
Si quis, amans quod amare iuvat, feliciter ardet,
gaudeat et vento naviget ille suo;
at si quis male fert indignae regna puellae,
ne pereat, nostrae sentiat artis opem.
Cur aliquis laqueo collum nodatus amator
a trabe sublimi triste pependit onus?
Cur aliquis rigidfo fodit sua pectora ferro?
Invidiam caedis pacis amator habes.
Qui, nisi desierit, misero periturus amores est,
desinat, et nulli funeris auctor eris.

Non tradisco te, sedicente fanciullo, né l’arte che è mia, /  e una nuova Musa non ha disfatto la trama del mio precedente lavoro. / Se c’è chi ama e questo amore gli provoca piacere, felice della sua passione / goda e navighi col favore del vento, / ma se qualcuno mal sopporta la tirannia di una fanciulla ingrata, / per non soccombere, provi l’efficacia della mia arte. / Come mai c’è chi, per amore, stretto il collo in un laccio, / s’è impiccato a un’altissima trave, triste fardello? / Perché un altro si è trafitto il petto col duro ferro? / Tu che ami la pace ti rendi odioso col puro sangue. / Chi, se non smette di amare, è destinato a morire di un amore infelice, / smetta, tu non sarai causa di un amore infelice.

Qui il poeta si rivolge direttamente a Cupido, che lo aveva ispirato nelle opere precedenti: e lo istruisce, ricordandogli che, se egli è il dio dell’amore, non può esserlo della morte che a volte tale sentimento può provocare. La finzione dell’Ars si applica anche ai Remedia: se nella prima Ovidio individua le tecniche, nella seconda le rovescia: se per conquistare si va a teatro, per guarire d’amore si sta solo, se per portarsi una donna a letto bisogna farcela piacere, adesso dobbiamo solo guardare i difetti ecc. ecc. Ma non è questo il vero interesse del testo, quanto la difesa della sua poesia, considerata dai lettori, lasciva e diseducativa. Il suo attacco non è sull’oggetto poesia, ma sull’invidia che il suo straordinario successo ha provocato; d’altra parte afferma che il genere dell’elegia richiede solo argomenti bassi, mentre è dell’epica la descrizione di personaggi complessi e profondi.

I Medicamenta faciei s’inseriscono a loro volta tra i libri didascalici: è un operetta, di cui ci è giunta soltanto la prima parte, che insegna alle donne la cura del corpo. Questi appartengono più al lusus tipicamente letterario, in cui il nostro mette in luce la sua versatilità di poeta al servizio delle donne, discettando sui loro cosmetici e sul modo di diventare belle; egli individua la vera bellezza femminile nella cura di sé che si allontanano tanto dalla disardorna semplicità delle matrone, quanto dallo sfarzo eccessivo. Per lui “essere belle” equivale aver cura di sé e a tale scopo offre alle donne alcune ricette di creme di bellezza.

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Museo Archeologico Di Napoli: Teca con oggetti di cosmesi

UNA CREMA DI BELLEZZA
(vv. 52-68)

“Dic age, cum teneros somnus dimiserit artus
candida quo possint ora nitere modo.”
Hordea, quae Libyci ratibus misere coloni
exue de palea tegminibusque suis;
par ervi mensura decem madefiat ab ovis:
(sed cumulent libras hordea nuda duas)
haec, ubi ventosas fuerint siccata per auras
lenta iube scabra frangat asella mola.
Et quae prima cadent vivaci cornua cervo
contere (in haec solidi sexta fac assis eat),
iamque, ubi pulvereae fuerint confusa farinae,
protinus innumeris omnia cerne cavis.
Adice narcissi bis sex sine cortice bulbos,
strenua quos puro marmore dextra terat,
sextantemque trahat cummi cum semine Tusco;
huc novies tanto plus tibi mellis eat.
Quaecumque afficiet tali medicamine vultum,
fulgebit speculo levior illa suo.

«Suvvia, spiega in che modo, dopo che il sonno ha abbandonato /  le tenere membra, il viso possa risplendere candido. / All’orzo, che inviano per mare i coloni africani, / togli via paglia e pula; una misura uguale di ervi sia fatta macerare / in dieci uova (che l’orzo mondato ammonti a due libbre / quando il tutto si sarà asciugato al soffio del vento, fallo, / macinare con ruvida mola da un’asina lenta. Trita anche / corna che cadranno per prime ad un cervo longevo (ce ne / vada una sesta parte di libbra), e poi, quando si saranno / mescolate a questa polvere farinosa, setaccia subito il tutto / nei fitti fori di un vaglio. / Aggiungi dodici bulbi di narciso sbucciati, / da pestare con mano instancabile in un mortaio / ben pulito; la gomma insieme a sementa d’Etruria / pesi un sestante; a questo si aggiunga nove volte tanto di miele. / Qualunque donna curerà il volto con questo cosmetico / risplenderà più liscia del suo specchio.

Con queste tre opere, che possiamo considerare un unicum, Ovidio fonde il genere didascalico con il genere elegiaco; specchio ne è la scelta metrica: se infatti l’opera didascalica in versi utilizza l’esametro (si pensi al De rerum natura di Lucrezio) Ovidio opta per il distico tipico della poesia erotica.

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Edizione delle Heroides del 1732

Heroides

L’ultima opera di carattere elegiaco, prima del suo forzato allontanamento da Roma, sono le Heroides, con cui il nostro offre un nuova forma letteraria all’interno dell’elegia: si tratta infatti di lettere di donne del mito (solo Saffo sarà una donna reale, ma l’attribuzione di tale elegia è ancora oggi discussa) rivolte verso l’uomo, allontanatosi o per motivi di guerra o per tradimento: le Heroides, quindi, si strutturano come epistole poetiche.

Anche di quest’opera esiste una duplice redazione: ad una prima raccolta contenente quattordici elegie, se ne aggiunge un’altra (scritta, presumibilmente poco prima dell’esilio): composta da tre lettere doppie in cui alla missiva della donna segue, in risposta, quella dell’uomo.

Le Heroides, nella mente di Ovidio, sono un’opera di nuova concezione: nessuno, infatti, prima di lui, aveva scritto, sotto forma di epistola poetica, un intero libro; è pur vero che di tale “tecnica” narrativa ne aveva offerto un saggio Properzio (lettera di Aretusa al marito lontano, IV, 3), ma si tratta di un caso isolato, non di un intero progetto che è quindi da ascrivere completamente al poeta abruzzese.

Cosa fa di queste lettere un esempio di poesia elegiaca? Il fatto stesso che a scriverle siano donne innamorate che si rivolgono a uomini che, per un motivo o per un altro, le hanno abbandonate: esse, infatti, vogliono tutte rivendicare il loro diritto d’amore, che per volontà o per destino, è stato infranto.

DIDONE AD ENEA
(VII, 91-113) 

Fluctibus eiectum tuta statione recepi
vixque bene audito nomine regna dedi.
His tamen officiis utinam contenta fuissem,
et mihi concubitus fama sepulta foret!
Illa dies nocuit, qua nos declive sub antrum
caeruleus subitis compulit imber aquis.
Audieram vocem; nymphas ululasse putavi;
Eumenides fatis signa dedere meis.
Exige, laese pudor, poenam et violate Sychaeu
ad quem, me miseram, plena pudoris eo.
Est mihi marmorea sacratus in aede Sychaeus
(oppositae frondes velleraque alba tegunt);
hinc ego me sensi noto quater ore citari;
ipse sono tenui dixit: “Elissa, veni.”
Nulla mora est, venio, venio tibi dedita coniunx;
sum tamen admissi tarda pudore mei.
Da veniam culpae; decepit idoneus auctor;
invidiam noxae detrahit ille meae.
Diva parens seniorque pater, pia sarcina nati,
spem mihi mansuri rite dedere viri;
si fuit errandum, causas habet error honestas;
adde fidem, nulla parte pigendus erit.
Durat in extremum vitaeque novissima nostrae
prosequitur fati, qui fuit ante, tenor.

Sfuggito ai flutti, ti accolsi in un porto sicuro / e avevo a malapena udito il tuo nome che ti concessi il mio regno. / Magari mi fossi accontentata di questi favori / e il mio buon nome non fosse stato sepolto dalla nostra unione! / O quel giorno in cui un oscuro temporale con i suoi scrosci improvvisi / ci spinse nell’antro di una grotta. / Avevo udito una voce, pensai che avessero ululato le ninfe: / invece furono le Eumenidi a dare il segnale al mio destino. / Chiedi, pudore offeso, la punizione, e voi, leggi coniugali / violate e tu, mio buon nome, che non ho conservato fino alla morte / e voi, miei mani e ombre e cenere di Sicheo, da cui vado, / o me infelice, piena di vergogna. / C’è una immagine di Sicheo che ho consacrato in un tempio di marmo: / lo coprono sul davanti fronde e bende di lana bianche. / Da lì per quattro volte mi sono sentita chiamare / da una voce conosciuta: era lui che in un sussurro / mi disse: «Elissa, vieni». Nessun indugio: vengo, vengo a te, / sposa legittima, ma sono trattenuta dalla vergogna del mio peccato. / Perdona la mia colpa: mi ha ingannato una persona degna / e questo limita l’odiosità del mio errore. / Sua madre, che è una dea e il vecchio padre, pietoso fardello del figlio / mi illusero che sarebbe stato un marito fedele. / Se ero destinata a sbagliare, l’errore ha cause oneste. / e fosse stato fedele, sarebbe stato del tutto irreprensibile. / Il destino che è stato mio in passato perdura identico / fino alla fine, fino agli ultimi istanti della mia vita.

Conosciamo l’episodio per averlo letto in Virgilio: l’abbandono di Enea, costretto dal fato, costringe al suicidio, Didone. Quello che qui manca è proprio la forte motivazione, il dubbioso, alfine anche un po’ vigliacco, atteggiamento dell’eroe troiano, la rabbia e la preghiera, il senso dell’inutilità come donna e come madre: gli insegnamenti virgiliani sono tutti ripresi dalla grande tragedia greca; per Ovidio, il dolore è sopito, si sente in lui quasi l’incapacità di far emergere quell’orgoglio di donna ferita che la Didone virgiliana possiede. Osserviamo, infatti la tecnica: Ovidio s’inserisce nel momento in cui la Didone del poema è più fragile; il momento in cui si rivolge piangente alla sorella Anna. E da lì, che Ovidio la riprende, facendo di lei una donna umile, disposta a piegarsi di fronte all’uomo e da offrirgli i commoda che una vita nella reggia gli avrebbe procurato.

ERO A LEANDRO
(XIX, 1,18)

Quam mihi misisti verbis, Leandre, salutem
ut possim missam rebus habere, veni!
longa mora est nobis omnis, quae gaudia differt.
da veniam fassae; non patienter amo.
urimur igne pari, sed sum tibi viribus impar:
fortius ingenium suspicor esse viris.
ut corpus, teneris ita mens infirma puellis;
deficiam, parvi temporis adde moram.
vos modo venando, modo rus geniale colendo
ponitis in varia tempora longa mora.
aut fora vos retinent aut unctae dona palaestrae
flectitis aut freno colla sequacis equi;
nunc volucrem laqueo, nunc piscem ducitis hamo,
diluitur posito serior hora mero.
his mihi summotae, vel si minus acriter urar,
quod faciam, superest praeter amare nihil.
quod superest facio, teque, o mea sola voluptas,
plus quoque, quam reddi quod mihi possit, amo.

Christopher Williams: Ero e Leandro (1915)

Perché io possa godere del bene che mi hai mandato a parole, vieni, o Leandro, tu stesso. E’ lungo per me ogni indugio che ritarda la nostra gioia. Perdona la mia confessione: il mio amore è impaziente. Bruciamo di uguale fiamma, ma non sono uguale a te nella forza: gli uomini suppongo che abbiano un carattere più forte. Come il corpo, anche l’anima è fragile nelle tenere fanciulle; aggiungi solo un breve ritardo, ed io morirò. Voi uomini, ora nella caccia, ora coltivando i campi fecondi, consumate lungo tempo in varie attività. Vi trattiene il foro o gli esercizi della lucente palestra o piegate col morso il collo del cavallo rendendolo docile; ora prendete col laccio gli uccelli, ora i pesci con l’amo; e col vino davanti fate passare le ore tarde. A me, cui tutto questo è negato, non resta altro da farte, anche se la mia passione fosse meno ardente, se non amare. Faccio ciò che mi resta, e amo te, o mio solo piacere, anche più di quanto mi possa esser ricambiato.

Anche in questo episodio manca il supporto tragico del mito, come dice Giampero Rosati “le eroine ovidiane soffrono insomma non solo in quanto innamorate tradite o non corrisposte, ma anche – direi soprattutto – in quanto donne: (…) è questa la condizione comune che le condanna a un’esistenza segnata dall’abbandono, dall’umiliazione, dalla paura, dalla violenza”

Ciò fa di queste eroine un personaggio che, pur richiamandosi alla tragedia greca, alla novellistica, alla commedia nuova, alla poesia tragica, rimandino principalmente alle matronae o puellae romane del suo periodo: non è un caso che il passo di Ero a Leandro ci fa ripensare al Proemio del Decameron: sono le stesse donne, forse nel ‘300 maggiormente “borghesi “a cui lo scrittore di Certaldo  dedica la sua opera, per dire che le eroine ovidiane sono più da tragedia borghese, che tragica, mancando in loro quel respiro epico/tragico che ha reso grande le donne del mito.

Eppure tale difetto percorre l’intera opera. E che l’artificio della lettera, fa sì che la donna prenda subito parola, al di là dell’inserimento in un fatto narrativo ben preciso: sono lamenti ad un “tu” lontano nello spazio e a volte nel tempo in cui si riversa il lamento della donna abbandonata: il fatto che esse siano, infine, quattordici non fa che rendere a volte un po’ tediosa la lettura in cui situazioni ed atteggiamenti risultano essere per lo più ripetitivi: che sia Penelope ad Ulisse, o Elena a Paride, per nominare le più conosciute, il sottofondo non cambia: si tratta sempre di rivendicare il loro diritto di non rimanere sole e abbandonate.

Metamorfosi

E’ certamente l’opera più importante di Ovidio, il suo poema, quello che, come per l’elegia, ne sancisce il cambiamento:

PROEMIO
(1, vv. 1-4)

In nova fert animus mutatas dicere formas
corpora; di, coeptis (nam vos mutastis in illa)
adspirate meis primaque ab origine mundi
ad mea perpetuum deducite tempora carmen.

La mia mente mi porta a raccontare delle forme mutate in nuovi / corpi; la mia impresa, o dei, (perché anche quella voi l’avete mutata) / sostenetela e guidate il mio poema e guidate il mio poema /  dalla prima origine del mondo ai nostri giorni.

Ad Ovidio occorrono solo quattro versi del proemio per introdurre la sua opera più imponente in 15 libri che aspira a raccontare ben più di duecento storie (247) di trasformazione dall’origine del mondo a oggi. A dire il vero il disegno è appena accennato: nel primo libro, infatti si parlerà della nascita del mondo e delle prime fasi dell’umanità; soltanto negli ultimi si accennerà alla storia di Roma sino alla divinizzazione di Cesare per opera del figliastro Augusto.

E’ che l’opera che egli si accinge a scrivere non si rifà ad Omero, ma alla Teogonia di Esiodo, come antecedente più tardo, e si confronta inoltre con la cultura erudita del tempo, quella alessandrina o più precisamente di Callimaco e dei suoi Aitìa, ma è anche vero che egli, con la sua grande capacità versificatoria lo supera: se infatti è colmo di ricercatezza e d’estrema bravura nel raccogliere in pochi versi elegantissimi miti sconosciuti, egli si accinge a farne, invece un lungo poema dove tutto il passato mitologico venga raccolto in unicum narrativo che trova la sua ragione d’essere, come dice negli ultimi versi, dalla teoria della filosofia pitagorica.

Ma, sebbene impossibile, raccogliamo almeno, in ordine di “apparizione” i miti più noti, quelli che, proprio grazie ad Ovidio, hanno ricevuto da parte di poeti e pittori, fama imperitura. Si parte da Deucaliane e Pirra, che, unici viventi dopo il “diluvio universale” chiedono a Giove di avere altre persone intorno a loro, e vengono accontentati e ordina loro di lanciare delle pietre: quelle lanciate da Deucalione si trasformano in uomini, da Pirra, donne. Si passa quindi al racconto dell’amore di un dio per una donna. Qui si inserisce la celeberrima vicenda di Apollo e Dafne:

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Gianlorenzo Bernini (1624)

APOLLO E DAFNE
(1, 452- 567)

Primus amor Phoebi Daphne Peneia: quem non
fors ignara dedit, sed saeva Cupidinis ira.
Delius hunc nuper, victo serpente superbus,
viderat adducto flectentem cornua nervo
«Quid» que «tibi, lascive puer, cum fortibus armis?»
Dixerat, «ista decent umeros gestamina nostros,
qui dare certa ferae, dare vulnera possumus hosti,
qui modo pestifero tot iugera ventre prementem
stravimus innumeris tumidum Pythona sagittis.
Tu face nescio quos esto contentus amores
inritare tua nec laudes adsere nostras.»
Filius huic Veneris: «Figat tuus omnia, Phoebe,
Te meus arcus» ait, «quantoque animalia cedunt
cuncta deo, tanto minor est tua gloria nostra».
Dixit et, eliso percussis aere pennis,
inpiger umbrosa Parnasi constitit arce
eque sagittifera prompsit duo tela pharetra
diversorum operum: fugat hoc, facit illud amorem;
quod facit, auratum est et cuspide fulget acuta,
quod fugat, obtusum est et habet sub harundine plumbum.
Hoc deus in nympha Peneide fixit, at illo
laesit Apollineas traiecta per ossa medullas:
protinus alter amat, fugit altera nomen amantis
silvarum latebris captivarumque ferarum
exuviis gaudens innuptaeque aemula Phoebes;
vitta coercebat positos sine lege capillos.
Multi illam petiere, illa aversata petentes
inpatiens expersque viri nemora avia lustrat
nec, quid Hymen, quid Amor, quid sint conubia, curat.
Saepe pater dixit «generum mihi, filia, debes»,
saepe pater dixit «debes mihi, nata, nepotes»:
illa velut crimen taedas exosa iugales
pulchra verecundo subfuderat ora rubore
inque patris blandis haerens cervice lacertis
«Da mihi perpetua, genitor carissime,» dixit
«virginitate frui: dedit hoc pater ante Dianae.»
Ille quidem obsequitur; sed te decor iste, quod optas,
esse vetat, votoque tuo tua forma repugnat.
Phoebus amat visaeque cupit conubia Daphnes,
quodque cupit, sperat, suaque illum oracula fallunt;
utque leves stipulae demptis adolentur aristis,
ut facibus saepes ardent, quas forte viator
vel nimis admouit vel iam sub luce reliquit,
sic deus in flammas abiit, sic pectore toto
uritur et sterilem sperando nutrit amorem.
Spectat inornatos collo pendere capillos
et «Quid, si comantur?» ait; videt igne micantes
sideribus similes oculos, videt oscula, quae non
est vidisse satis; laudat digitosque manusque
bracchiaque et nudos media plus parte lacertos;
siqua latent, meliora putat. Fugit ocior aura
illa levi neque ad haec revocantis verba resistit:
«Nympha, precor, Penei, mane! non insequor hostis;
Nympha, mane! sic agna lupum, sic cerva leonem,
sic aquilam penna fugiunt trepidante columbae,
hostes quaeque suos; amor est mihi causa sequendi.
Me miserum! ne prona cadas indignave laedi
crura notent sentes, et sim tibi causa doloris.
Aspera, qua properas, loca sunt: moderatius, oro,
curre fugamque inhibe: moderatius insequar ipse.
Cui placeas, inquire tamen; non incola montis,
non ego sum pastor, non hic armenta gregesque
horridus obseruo. Nescis, temeraria, nescis
quem fugias, ideoque fugis. Mihi Delphica tellus
et Claros et Tenedos Patareaque regia servit;
Iuppiter est genitor; per me, quod eritque fuitque
estque, patet; per me concordant carmina nervis.
Certa quidem nostra est, nostra tamen una sagitta
certior, in vacuo quae vulnera pectore fecit.
Inventum medicina meum est, opiferque per orbem
dicor, et herbarum subiecta potentia nobis:
ei mihi, quod nullis amor est sanabilis herbis,
nec prosunt domino, quae prosunt omnibus, artes!»
Plura locuturum timido Peneia cursu
fugit cumque ipso verba inperfecta reliquit,
tum quoque visa decens; nudabant corpora venti,
obviaque adversas vibrabant flamina vestes,
et levis inpulsos retro dabat aura capillos,
auctaque forma fuga est. Sed enim non sustinet ultra
perdere blanditias iuvenis deus, utque monebat
ipse amor, admisso sequitur vestigia passu.
Ut canis in vacuo leporem cum Gallicus arvo
vidit, et hic praedam pedibus petit, ille salutem;
alter inhaesuro similis iam iamque tenere
sperat et extento stringit vestigia rostro;
alter in ambiguo est, an sit conprensus, et ipsis
morsibus eripitur tangentiaque ora relinquit:
sic deus et virgo; est hic spe celer, illa timore.
Qui tamen insequitur, pennis adiutus amoris
ocior est requiemque negat tergoque fugacis
inminet et crinem sparsum cervicibus adflat.
Viribus absumptis expalluit illa citaeque
victa labore fugae, spectans Peneidas undas
«Fer, pater,» inquit «opem, si flumina numen habetis!
Qua nimium placui, mutando perde figuram!»
Vix prece finita torpor gravis occupat artus:
mollia cinguntur tenui praecordia libro,
in frondem crines, in ramos bracchia crescunt;
pes modo tam velox pigris radicibus haeret,
ora cacumen habet: remanet nitor unus in illa.
Hanc quoque Phoebus amat positaque in stipite dextra
sentit adhuc trepidare novo sub cortice pectus
conplexusque suis ramos, ut membra, lacertis
oscula dat ligno: refugit tamen oscula lignum.
Cui deus «At quoniam coniunx mea non potest esse
arbor eris certe» dixit «mea. Semper habebunt
te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae.
Tu ducibus Latiis aderis, cum laeta triumphum
vox canet et visent longas Capitolia pompas.
Postibus Augustis eadem fidissima custos
ante fores stabis mediamque tuebere quercum,
utque meum intonsis caput est iuvenale capillis,
tu quoque perpetuos semper gere frondis honores».
Finierat Paean: factis modo laurea ramis
adnuit utque caput visa est agitasse cacumen.

Il primo amore di Febo fu Dafne, figlia di Peneo, / e non fu dovuto al caso, ma all’ira implacabile di Cupido. / Ancora insuperbito per aver vinto il serpente, il dio di Delo, / vedendolo che piegava l’arco per tendere la corda: / «Che vuoi fare, fanciullo arrogante, con armi così impegnative?» / gli disse. «Questo è peso che s’addice alle mie spalle, / a me che so assestare colpi infallibili alle fiere e ai nemici, / a me che con un nugolo di frecce ho appena abbattuto Pitone, / infossato col suo ventre gonfio e pestifero per tante miglia. / Tu accontèntati di fomentare con la tua fiaccola, / non so, qualche amore e non arrogarti le mie lodi». / E il figlio di Venere: «Il tuo arco, Febo, tutto trafiggerà, / ma il mio trafigge te, e quanto tutti i viventi a un dio / sono inferiori, tanto minore è la tua gloria alla mia». / Disse, e come un lampo solcò l’aria ad ali battenti, / fermandosi nell’ombra sulla cima del Parnaso, / e dalla faretra estrasse due frecce / d’opposto potere: l’una scaccia, l’altra suscita amore. / La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora, / la prima è spuntata e il suo stelo ha l’anima di piombo. / Con questa il dio trafisse la ninfa penea, con l’altra / colpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo. / Subito lui s’innamora, mentre lei nemmeno il nome d’amore / vuol sentire e, come la vergine Diana, gode nella penombra / dei boschi per le spoglie della selvaggina catturata: / solo una benda raccoglie i suoi capelli scomposti. / Molti la chiedono, ma lei respinge i pretendenti / e, decisa a non subire un marito, vaga nel folto dei boschi / indifferente a cosa siano nozze, amore e amplessi. / Il padre le ripete: «Figliola, mi devi un genero»; / le ripete: «Bambina mia, mi devi dei nipoti»; / ma lei, odiando come una colpa la fiaccola nuziale, / il bel volto soffuso da un rossore di vergogna, / con tenerezza si aggrappa al collo del padre: / «Concedimi, genitore carissimo, ch’io goda», dice, / «di verginità perpetua: a Diana suo padre l’ha concesso». / E in verità lui acconsentirebbe; ma la tua bellezza vieta /  che tu rimanga come vorresti, al voto s’oppone il tuo aspetto. / E Febo l’ama; ha visto Dafne e vuole unirsi a lei, /  e in ciò che vuole spera, ma i suoi presagi l’ingannano. /  Come, mietute le spighe, bruciano in un soffio le stoppie, / come s’incendiano le siepi se per ventura un viandante / accosta troppo una torcia o la getta quando si fa luce, / così il dio prende fuoco, così in tutto il petto / divampa, e con la speranza nutre un impossibile amore. / Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo, / pensa: ‘Se poi li pettinasse?’; guarda gli occhi che sfavillano / come stelle; guarda le labbra e mai si stanca /  di guardarle; decanta le dita, le mani, / le braccia e la loro pelle in gran parte nuda; / e ciò che è nascosto, l’immagina migliore. Ma lei fugge / più rapida d’un alito di vento e non s’arresta al suo richiamo: / «Ninfa penea, férmati, ti prego: non t’insegue un nemico; / férmati! Così davanti al lupo l’agnella, al leone la cerva, / all’aquila le colombe fuggono in un turbinio d’ali, / così tutte davanti al nemico; ma io t’inseguo per amore! / Ahimè, che tu non cada distesa, che i rovi non ti graffino / le gambe indifese, ch’io non sia causa del tuo male! / Impervi sono i luoghi dove voli: corri più piano, ti prego, / rallenta la tua fuga e anch’io t’inseguirò più piano. / Ma sappi a chi piaci. Non sono un montanaro, / non sono un pastore, io; non faccio la guardia a mandrie e greggi / come uno zotico. Non sai, impudente, non sai / chi fuggi, e per questo fuggi. Io regno sulla terra di Delfi, / di Claro e Tènedo, sulla regale Pàtara. / Giove è mio padre. Io sono colui che rivela futuro, passato / e presente, colui che accorda il canto al suono della cetra. / Infallibile è la mia freccia, ma più infallibile della mia / è stata quella che m’ha ferito il cuore indifeso. / La medicina l’ho inventata io, e in tutto il mondo guaritore / mi chiamano, perché in mano mia è il potere delle erbe. / Ma, ahimè, non c’è erba che guarisca l’amore, / e l’arte che giova a tutti non giova al suo signore!». / Di più avrebbe detto, ma lei continuò a fuggire / impaurita, lasciandolo a metà del discorso. / E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo, / spirandole contro gonfiava intorno la sua veste / e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli / rendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divino / non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore / lo sprona, l’incalza inseguendola di passo in passo. / Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto / una lepre, e scattano l’uno per ghermire, l’altra per salvarsi; / questo, sul punto d’afferrarla e ormai convinto / d’averla presa, che la stringe col muso proteso, / quella che, nell’incertezza d’essere presa, sfugge ai morsi / evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla, / un fulmine lui per la voglia, lei per il timore. / Ma lui che l’insegue, con le ali d’amore in aiuto, / corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle / della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento. / Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa / allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e: / «Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere, / dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui». / Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra, / il petto morbido si fascia di fibre sottili, / i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; / i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici, / il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva. / Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco, / sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia / e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo, / ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae. / E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia, / sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno, / o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra; / e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante / intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei. / Fedelissimo custode della porta d’Augusto, / starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo. / E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa, / anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!». / Qui Febo tacque; e l’alloro annuì con i suoi rami.

E’ questo uno degli episodi più celebrati dell’intero poema, posto quasi all’incipit dell’opera stessa. Esso ci dà infatti la misura di come costruisce Ovidio la sua ars “narrativa”: si tratta infatti di un vero e proprio epillio, o meglio un breve passo epico (cioè scritto in esametri), in sé conchiuso. Il passo è costruito secondo il seguente schema:

  • gelosia del dispettoso Cupido verso il fratello maggiore;
  • il lancio della freccia verso il dio che s’innamora perdutamente della ninfa Dafne;
  • il lancio della freccia verso la donna che da quel momento proverà repulsione verso il dio;
  • l’inseguimento e la fuga dei due amanti e nemici;
  • richiesta di aiuto da parte di Dafne a Peleo, fiume, suo padre;
  • trasformazione di Dafne in alloro attraverso la tecnica dell’omologia; ogni parte del corpo corrisponde all’albero in cui si trasforma: piedi, radici; rami, braccia; capelli, fronde; volto , chioma vegetale; corpo, tronco).

Il motivo per cui si parla di questa trasformazione è eziologico: il nome della dea corrisponde al nome greco della pianta; non solo; il dio Apollo, è dio anche della poesia e dell’arte militare: venivano cinti d’alloro le fronti sia dei poeti che dei generali portati in trionfo.

Continuando ad esaminare il I canto dove avviene un’altra trasformazione (Io trasformata in giovenca e poi tornata donna) inizia l’episodio di Fetonte (figura mitologica che vuole, pur inesperto, guidare i carri del sole; i cavalli s’imbizzarrirono e volano troppo in alto, bruciando un tratto di cielo che diviene la via lattea, quindi scendono in picchiata verso terra, bruciando la vegetazione, dando così vita al deserto della Libia; Giove, adirato contro di lui, lo uccide con un fulmine. Le sorelle lo piangono a lungo, venendo trasformate in pioppi biancheggianti.)

Le trasformazioni ovidiane offrono un mare d’immagini alcune delle quali potremo ritrovarle in Dante, nel primo canto del Purgatorio:

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Tintoretto: Gara tra le Muse e le Pieridi (1540)

LA GARA TRA LE MUSE E LE PIERIDI
(V, 662 – 676)

Finierat doctos e nobis maxima cantus;
at nymphae vicisse deas Helicona colentes
concordi dixere sono. Convicia victae
cum iacerent, «Quoniam – dixit – certamine vobis
supplicium meruisse parum est, maledictaque culpae
additis, et non est patientia libera nobis,
ibimus in poenas et, qua vocat ira , sequemur.»
Rident Emathides spernuntque minacia verba;
conataeque loqui et magno clamore protervas
intentare manus, pennas exire per ungues
adspexere suos, operiri bracchia plumis,
alteraque alterius rigido concrescere rostro
ora videt volucresque  novas accedere silvis.
Dumque volunt plangi, per bracchia mota levatae
aëre pendebant, nemorum convicia picae.

La maggiore tra di noi aveva finito i dotti carmi; / ed ecco che le Ninfe, con voci concordi, proclamarono / che le abitatrici d’Elicona avevano vinto. Ma poiché le vinte / attaccarono contesa : «Giacchè è poco per voi» essa disse « l’aver meritato un castigo a causa della tenzone, e alla colpa / aggiungete la tracotanza, né senza confini è la nostra sopportazione, / provvederemo al castigo e arriveremo là dove ci trascina lo sdegno». /Le fanciulle di Emazia si mettono a ridere, beffeggiano le minacciose parole; / ma mentre tentano di parlare e di avventare, con grandi grida, / le mani audaci, videro dalle proprie unghie / spuntare penne, coprirsi le braccia di piume; / l’una scorge il volto dell’altra prolungarsi con un duro becco / e aggiungersi nei boschi quali nuovi uccelli. / Mentre volevano percuotersi di dolore il petto, per aver agitato le braccia / Si trovano sospese nell’aria, quali piche, schiamazzanti nei boschi.

 e nel primo canto del Paradiso:

unnamed.jpgJusepe De Ribera: Apollo e il satiro Marsia

IL SATIRO MARSIA
(VI, 385 – 391)

Sic ubi nescio quis Lycia de gente virorum
rettulit exitium, satyri reminiscitur alter,
quem Tritoniaca Latous harundine victum
affecit poena. «Quid me mihi detrahis?» inquit;
«A! piget, a! non est» clamabat «tibia tanti».
Clamanti cutis est summos direpta per artus
nec quicquam nisi vulnus erat; cruor undique manat
detectique patent nervi trepidaeque sine ulla
pelle micant venae; salientia viscera possis
et perlucentes numerare in pectore fibras.»

Quando così ebbe riferito, né so chi sia stato, la miserabile fine / di quegli uomini della gente di Licia, un altro si rammenta del satiro, / che il figlio di Latona punì, dopo vinto col suono del flauto, sacro alla dea / Tritonide. «Perché mi strappi a me stesso?» egli diceva; / «Ahimè mi pento! Ahimè! Un flauto non vale tanto strazio!» / Ma mentre egli urlava, a fior delle membra gli fu strappata la pelle / né altro era se non una sola ferita; da ogni parte scorre sangue, affiorano scoperti i muscoli e senza alcuna protezione / guizzano pulsando le vene. Potresti contargli le viscere palpitanti / e il brillio delle fibre sul petto.

Tutti gli episodi proseguono nel poema senza soluzione di continuità. Perché tale scelta? Se la vita è un continuo tramutarsi da un oggetto all’altro, anche l’opera sarà un continuo trasformarsi da un corpo ad un altro:

L’INSEGNAMENTO DI PITAGORA
(XV, 153-159; 165-168)

O genus attonitum gelidae formidine mortis,
quid Styga, quid tenebras et nomina vana timetis,
materiem vatum, falsi terricula mundi?
Corpora, sive rogus flamma seu tabe vetustas
abstulerit, mala posse pati non ulla putetis.
Morte carent animae semperque priore relicta
sede novis domibus vivunt habitantque receptae.

Omnia mutantur, nihil interit: errat et illinc
huc venit, hinc illuc, et quoslibet occupat artus
spiritus eque feris humana in corpora transit
inque feras noster nec tempore deperit ullo.

… animam sic semper eandem
esse, sed in varias doceo migrare figuras.

O razza spaurita dall’incubo della gelida morte, / perché temete lo Stige, perché le tenebre e i nomi senza consistenza, / argomenti di poeti e minacce di un mondo irreale? / Sia che il rogo con le fiamme, sia che il lungo tempo con la consunzione, / ci abbiano sottratto i nostri corpi, state certi che essi non possono subire alcun danno. / Libere da morte sono le anime; lasciata la precedente sede, esse sempre vivono in nuove / dimore e, quivi accolte, stanno come nella propria casa. / …. / Tutto si muta, nulla perisce: libero si muove lo spirito: / da là viene qua e, da qua, là; occupa indifferenti membra; / da corpi ferini esso trasmigra in corpi umani, / così come da noi in quelli ferini, né in alcun tempo viene meno. / …. / … così io vii insegno che l’anima è sempre la stessa, / ma trasmigra in vari aspetti.

E’ che per Ovidio la natura e ciò che è stato creato (il costruito) ha in sé uno spirito vitale che mai non muore e che pertanto “passa” da uno spirito all’altro, continuamente; per questo la sua opera non ha fratture, ma non ha neanche cronologia; il nostro ci ha tentato nei primi canti e negli ultimi; ma lo spirito non ha tempo: è un morire e rinascere che non si esaurisce mai.

Quindi quello che permane sono le storie della trasformazione, alcune delle quali sono diventate, anche grazie a lui, delle vere e proprie storie eterne, come quelle di Orfeo ed Euridice, o storie in cui lui si riconosce, non senza una punta di orgoglio, come quella di Aracne, trasformata dall’invidiosa Latona, in ragno a tessere, per tutta la vita (come fa Ovidio stesso nel suo poema), e Narciso: ed è proprio in quest’ultimo esempio che traiamo la straordinaria capacità versificatoria e lessicale: Se cupit imprudens et qui probat ipse probatur, / dumque petit petitur pariterque accendit et ardet (ignaro brama se stesso; mentre loda è da se stesso lodato; mentre desidera è desiderato: parimenti causa e scopo della sua passione.)

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Caravaggio: il mito di Narciso (1597/1599)

Fasti

Con i Fasti Ovidio torna allo stile elegiaco e, così come con le Heroides aveva preso a modello un’elegia di Properzio, lo stesso fa con quest’opera: infatti nella sua opera il nostro aveva trovato, nel IV libro, 5 poesie “eziologiche” in cui il venivano descritte l’origine delle località e dei riti di Roma.

Lo stesso fa Ovidio, ma, allo stesso modo dell’Heroides, un exemplum properziano, diventa l’occasione per scrivere un intero libro. Questa volta si tratta di spiegare l’origine dei dodici mesi, il perché del loro nome e delle feste che in essi si svolgono.

Dall’argomento sopra descritto è evidente che tale opera doveva, in qualche modo, avvicinare, forse ancor più delle Metamorfosi, il poeta all’entourage augusteo. Ma questo non avviene; infatti nel bel mezzo della composizione dell’opera giunge l’ordine dell’imperatore di lasciare Roma e di esser stato relegato nell’incivile città di Tomi.

E’ un fulmine a ciel sereno per Ovidio. L’opera che doveva ingraziarlo ad Augusto, viene abbandonata al VI libro, poi ripresa nella città straniera, dove ci giunge la notizia che il poeta avesse corretto la prima parte e l’avesse portata a termine, cambiandone il destinatario, non più Augusto e nemmeno Tiberio, da cui ormai non aspettava alcuna grazia ma a Germanico, nipote di Tiberio, come estrema speranza, semmai avesse raggiunto il soglio imperiale, di poter rivedere l’amata Roma.

Quest’ultima parte, di cui si discute l’esistenza (ma è reale la correzione della prima e il cambio del destinatario, effettuato alla morte di Augusto), non ci è pervenuta, e ci restano appunto i primi sei libri corrispondenti ad altrettanti sei mesi.

PROEMIO
(vv. 1-12)

Tempora cum causis Latium digesta per annum
lapsaque sub terras ortaque signa canam.
Excipe pacato, Caesar Germanice, voltu
hoc opus et timidae derige navis iter,
officioque, levem non aversatus honorem,
en tibi devoto numine dexter ades.
Sacra recognosces annalibus eruta priscis
et quo sit merito quaeque notata dies.
invenies illic et festa domestica vobis;
saepe tibi pater est, saepe legendus avus,
quaeque ferunt illi, pictos signantia fastos,
tu quoque cum Druso praemia fratre feres.

Canterà i tempi distinti per anno Latino / con i loro motivi, quali stelle nascano e quali tramontino. / O Cesare Germanico, accogli con volto sereno / quest’opera, e guida il corso della mia timida nave / e non disdegnare un così piccolo dono del mio ossequioso dovere, / assisti a quest’opera con i tuoi Auguri, che a te consacro. / Qui troverai le feste tratte dagli antichi Annali, / gli eventi straordinari di cui sono riportati ogni giorno. / Qui troverai i giorni festivi della tua famiglia, / spesso dovrai leggere il nome di tuo padre o di un tuo avo, / e riporterai ancora gli onori insieme a tuo fratello Druso / che segnano i Fasti dipinti.

Certo per l’irridente Ovidio i tempi erano cambiati e, quando li aveva cominciati a Roma, non si respirava più quell’aria “frizzante” degli amori leggeri: era ora il tempo di un’opera seria, in linea con la volontà di Augusto e il suo spirito di “restaurazione”. Allora cosa non ha funzionato? Perché nel bel mezzo di un’opera per lui celebrativa l’ha voluto allontanare da Roma.

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Copia del ‘700 dei Fasti

A leggere il proemio ci sono tutti i temi dei sei Fasti rimastoci: l’unica differenza tra quelli scritti a Roma e la correzione fatta a Tomi è nel nome di Germanico. Vi è in essi tutta la conoscenza della storia di Roma attraverso la consultazione degli “Annali”, vi è, come già nelle Metamorfosi, la profonda erudizione storica e mitologica; vi è ancora l’attenzione ossessiva della forma che si richiama all’alessandrinismo; vi è inoltre una conoscenza non certo banale delle stelle e del loro movimento celeste, che cosa mancava, per essere accettata?

E’ che manca l’adesione, ed un lettore attento se ne accorge: Ovidio sceglie questo argomento perché gli permette, come nel poema epico, di raccontare, siano esse leggende o miti e di scegliere il momento straordinario, quello che colpisce il lettore (per esempio per la divinizzazione di Romolo, la poesia ovidiana si sofferma più sull’occhio esterrefatto di chi osserva il fenomeno che per il significato in sé).

Può anche “piacerci” l’ironia con cui dipinge certi rituali, ma può accadere a noi moderni: non inganna chi vuole una poesia che si richiami ai vecchi valori e non che li giudichi sotto l’egida dell’estetica.

Tristia

I Tristia sono la prima opera scritta fuori di Roma. In essi Ovidio riprende il significato letterale greco di tale genere e dà vita, pertanto, ad una vera e propria “poesia del lamento”. Sono divisi in cinque libri:

  • Nel primo (composto da 11 elegie) ci racconta del viaggio compiuto verso Tomi;
  • Il secondo presenta una sola lunga elegia indirizzata ad Augusto a cui impetra il ritorno;
  • il terzo, il quarto e il quinto ci narrano della sua permanenza a Tomi.

L’ULTIMO SGUARDO
(1, 3, vv.27-40)

Iamque quiescebant voces hominumque canumque,  
lunaque nocturnos alta regebat equos.
Hanc ego suspiciens et ad hanc Capitolia cernens,  
quae nostro frustra iuncta fuere Lari,  
«numina vicinis habitantia sedibus» inquam,  
«iamque oculis numquam templa videnda meis,
dique relinquendi, quos urbs tenet alta Quirini,  
este salutati tempus in omne mihi,
et quamquam sero clipeum post vulnera sumo,
attamen hanc odiis exonerate fugam,
caelestique viro, quis me deceperit error,  
dicite. pro culpa ne scelus esse putet,
ut, quod vos scitis, poenae quoque sentiat auctor:  
placato possum non miser esse deo»

Si spegnevano ormai le voci e l’abbaiare dei cani, / e la luna alta nel cielo guidava i il carro nella notte. / A essa, alzando gli occhi, e al suo chiarore distinguendo / il Campidoglio, che era inutilmente contiguo alla mia casa: / «Dei che vivete in questa dimora», dissi / «templi che i miei occhi ormai più non vedranno, / dei che albergate nell’alta città di Quirino, / e che vi devo lasciare, vi saluto per sempre; / e anche se troppo tardi, dopo che già sono ferito, prendo lo scudo, / togliete però al mio esilio il fardello dell’odio, / e dite al sovrano qual è l’errore in cui sono incorso, / perché egli non ritenga un atto deliberato quella che è solo una colpa, / e perché quanto voi sapete giunga all’orecchio di chi ha emanato la pena: / se quel dio si placa io ho la possibilità di non essere sventurato».

Da come si può notare il tono è completamente cambiato e all’immagine un po’ virgiliana del silenzio degli animali risponde lo sguardo non certo adirato, ma oserei dire quasi sorpreso della scelta augustea di relegarlo. Qui si nota, infatti, come il poeta non neghi la colpa (lo fa perché non confessarla equivarrebbe ad un inasprimento della pena?) ma come essa si configuri come non volontaria.

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Ion Theodorescu-Sion: Ovidio in esilio (1915)

E’ un tema che riprenderà più volte e che svilupperà in modo più articolato nella lunga egloga indirizzata ad Augusto. Anche qui egli parla di error, cioè quasi volesse indicare uno sbaglio morale, senza volontà di dolo, ma ci dirà anche che non potrà renderlo noto e quindi il tentativo di ricostruire nell’esattezza il comportamento che lo ha condotto fuori da Roma è un’operazione inutile.

Più importante è l’associare oltre il danno morale, la “colpa” poetica, cioè quell’Ars amatoria che sembra non sia proprio andata giù ad Augusto. Egli, invece, ne rivendica la liceità distinguendo il comportamento reo di personaggi letterari da quelli di chi le scrive. E’ proprio dell’elegia esser gioiosa, è proprio dell’elegia esser “erotica”; d’altra parte, ci dice Ovidio, quando egli descriveva personaggi di sesso femminile, non erano mai matrone, ma “accompagnatrici”, per meglio dire prostitute, il cui gioco d’amore descritto non recava alcun danno alla loro onorabilità.

D’altra parte il libro è ricco della poesia del malinconia per la città lasciata e per gli affetti familiari spezzati, dell’insistenza nella richiesta di ritorno, dell’impossibilità di vivere in mezzo all’inciviltà: è una poesia in cui Ovidio mostra di aver perso l’amore per la vita.

Epistulae ex Ponto

Come le Heroides anche queste sono Epistulae poetiche in versi elegiaci. Il nostro ne scrive quattro libri, che ripetono stancamente temi già presenti nei Tristia. Il fatto è che Ovidio non sa più scrivere: laddove c’è troppo dolore, la sola Musa capace ad ispirarlo non può essere che malinconica. Ecco allora che qui, rivolgendosi ad amici intellettuali e lamentandosi della sua sorte, egli cerchi in qual modo di crearsi una sorta di rete epistolare in cui non si senta completamente escluso. In queste lettere, infatti, viene ribadito con forza il concetto dell’amicizia, di cui adesso ha estrema difficoltà. E’ per questo che continua a scrivere, ripetendo sempre gli stessi temi. Ma se non lo facesse , rimarrebbe muto, essendo la parola scritta, capace di sostituire l’orale. Negli ultimi libri, sembra infine, parlare anche in modo “positivo” degli incivili Geti, di cui ci dice della loro gentilezza ed accoglienza nei suoi confronti, tanto da averlo indotto a scrivere versi in getico (sarà vero?) e di essere stato, per questo, apprezzato da loro.

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Eugène Delacroix: Ovidio tra gli Sciti (1862) 

Ibis

Anche quest’unica elegia di 642 versi viene scritta in esilio ed è rivolta contro una malalingua che non faceva che spargere notizie irriverenti verso il poeta, anche quando questo è in esilio. Il titolo dell’opera viene ripreso da un omonima opera callimachea, che lo aveva intitolato col nome dell’uccello noto per nutrirsi di escrementi. Ovidio dichiara di rimanere ora nello stile del poeta greco, non nominando il suo avversario, ma maledicendolo per le infamie da lui compiute, ma se dovesse dar seguito al suo comportamento la sua poesia diverrebbe giambica e quindi piena di invettive, naturalmente dopo averne svelato il nome.