PLINIO IL GIOVANE

Salvatore Lo Leggio: Plinio il Giovane. In diretta da Roma antica (Lidia Storoni)

Plinio il Giovane (facciata del Duomo di Como)

Biografia

Della vita di Plinio il Giovane ci informa lui stesso: nel suo Epistolario, infatti, parla molto di sé e dice che Cecilio Secondo nasce nel 61 a  Secundum Comum tra il 61 o il 62. La famiglia d’origine, agiata e prestigiosa nella provincia, pur non avendo il rango di senatoriale, era tra le più illustri, in cui regnava un forte rispetto per la tradizione. Alla morte del padre venne adottato dallo zio, da cui assunse il nome, Plinio il Vecchio, che lo portò a Roma e lo affidò agli insegnamenti retorici di Quintiliano.

Inziò la sua attività politica sotto Domiziano, fu infatti tribuno militare in Siria, questore e pretore; raggiunse il culmine del cursus honorum con la nomina di console nel 100 sotto Traiano, riuscendo inoltre ad ottenere la  sua piena fiducia, diventando un consigliere dell’imperatore, entrando a far parte del collegium principis. Nel 111 venne mandato, come legato consolare (governatore) in Asia Minore, dove dovette affrontare la difficile questione dell’espandersi della religione cristiana. Dovette morire intorno al 113, non avendo più suoi notizie successive a quella data.

Opere

Sappiamo probabilmente che fu autore di versi, sebbene lui le ritenesse un lusus con cui intrattenere i suoi alti e colti amici, ma al di là di pochi versi non ci è giunto niente, lo stesso accade per la sua attività forense; le uniche opere a noi giunte sono il Panegyricum Traiani e l’Epistolario.

Panegyricum Traiani

S’intende per panegirico un genere letterario greco vicino all’encomio. Ottenuto l’incarico consolare da Traiano, Plinio pronuncia un vero e proprio elogio dell’imperatore per ringraziarlo della carica da lui ottenuta nel 100:ZB Zürich / C. Plinii Caecilii Secundi Panegyricus Traiano imperatori dictus ...

Edizione del 1748

ELOGIO PER UN NUOVO PRINCIPE

Discernatur orationibus nostris diversitas temporum, et ex ipso genere gratiarum agendarum intelligatur, cui, quando sint actae. Nusquam ut deo, nusquam ut numini blandiamur: non enim de tyranno, sed de cive; non de domino, sed de parente loquimur. Unum ille se ex nobis, et hoc magis excellit atque eminet, quod unum ex nobis putat; nec minus hominem se, quam hominibus praeesse meminit. Intelligamus ergo bona nostra, dignosque nos illis usu probemus, atque identidem cogitemus, quam sit indignum, si maius principibus praestemus obsequium, qui servitute civium, quam qui libertate laetantur. Et populus quidem Romanus dilectum principum servat, quantoque paullo ante concentu formosum alium, hunc fortissimum personat; quibusque aliquando clamoribus gestum alterius et vocem, huius pietatem, abstinentiam, mansuetudinem laudat. Quid nos ipsi? divinitatem principis nostri, an humanitatem, temperantiam, facilitatem, ut amor et gaudium tulit, celebrare universi solemus? Iam quid tam civile, tam senatorium, quam illud additum a nobis «Optimi» cognomen? quod peculiare huius et proprium arrogantia priorum principum fecit. Enimvero quam commune, quam ex aequo, quod felices nos, felicem illum praedicamus? alternisque votis, «haec faciat, haec audiat», quasi non dicturi, nisi fecerit, comprecamur? Ad quas ille voces lacrimis etiam ac multo pudore suffunditur. Agnoscit enim sentitque, sibi, non principi, dici.

Dai nostri discorsi si veda subito quanto i tempi siano diversi e bastino le caratteristiche dei ringraziamenti per far capire a chi e quando furono pronunciati. Non ricorriamo mai a piaggerie che lo proclamino un dio, che lo proclamino un essere sovrumano; infatti non parliamo di un tiranno ma di un cittadino, non di un padrone ma di un padre. Ad accrescergli superiorità e preminenza è proprio questo suo crederci uno di noi, questo suo ricordarsi non meno di essere uomo quanto di essere a capo degli uomini. Rendiamoci conto pertanto della nostra fortuna, dimostriamo di meritarcela con l’uso che ne facciamo ed esaminiamo assiduamente se non prestiamo una più solerte obbedienza agli imperatori che si compiacciono della schiavitù dei cittadini che non a quelli che ci tengono alla loro libertà. Il popolo romano sa certamente operare una distinzione tra gli imperatori: non molto tempo fa, in un’altro, era la bellezza che veniva acclamata dalla folla compatta, in questo invece è l’impavida intrepidezza che viene glorificata con un identico applauso; una volta era il modo di porgere e di cantare di un’altro che gli strappavano grida di entusiasmo, ora invece sono la devozione, il disinteresse e la benevolenza di questo che suscitano uguali ovazioni. E noi personalmente come ci comportiamo? Tutti insieme, trascinati dall’amore e dalla gioia, siamo soliti esaltare pubblicamente la divinità del nostro imperatore oppure la sua umanità, la sua discrezione e la sua arrendevolezza? E poi che cosa c’è che si addica tanto ad un cittadino, che si addica tanto ad un senatore quanto la denominazione di «Ottimo» che noi gli abbiamo assegnata? La boria altezzosa degli imperatori precedenti gliene ha fatto un appellativo specifico ed individuale. Proprio! Quale atmosfera di solidarietà e di uguaglianza testimoniamo quando affermiamo in pubblico che noi siamo fortunati e che egli è fortunato, e quando, alternando l’augurio, esprimiamo questi voti: «Tale sia sempre sia la sua condotta, tale sia la sua gloria», facendo capire che non diremo così se tale non fosse la sua condotta! A queste esclamazione il suo volto si bagna di lacrime e si cosparge di rossore. Infatti si accorge e sente che quelle voci di plauso sono dirette alla sua persona e non alla sua dignità.
(F. Trisoglio)


Traiano

Da questo passo intendiamo come Plinio voglia “esaltare” l’essere princeps di Traiano rispetto ad altri principes che lo hanno preceduto (chiaro il riferimento a Domiziano e a Nerone): cioè essere sì un princeps ma soprattutto un cives, circondato omnibus civibus, cioè, sembra dirci Plinio, un “primus inter pares”; ma non è esattamente così.

Innanzitutto il “primus inter pares” di memoria augustea richiedeva un difficile equilibrio tra il Cesare ed il Senato; in questo caso il senato, composto soprattutto da provinciali nominati dallo stesso Tiberio, non poteva che essere sottomesso; in secondo luogo la qualità che Plinio vuole assegnargli appartiene maggiormente ad una captatio benevolentiae che ad una realtà dei fatti. Infatti egli qui sembra voler dar sfoggio dell’oratoria epidittica, all’interno della quale s’inserisce quella elogiativa. E’ un tipo di oratoria nata in Grecia, nel periodo di Alessandro Magno e che si era affermata, a Roma, in tempi piuttosto recenti. Molto presumibilmente dovevano essere piuttosto numerosi, ma possediamo soltando il Panegirico di Plinio il Giovane, per farcene un’idea.

Quello che qui Plinio vuole dimostrare è come tali elogia, precedentemente a Traiano, fossero falsi, invece il suo corrisponde a verità. Se avesse usato uno stile meno ridondante, iperbolico, retoricamente eccessivo, non avremmo avuto nessun problema a ritenere il giudizio dell’intellettuale romano corretto: sono gli stessi storici a ricordarci la grandezza di Traiano che aveva allargato i confini di Roma, l’aveva abbellita (si pensi al Forum Traiani), aveva ottenuto una “pace sociale” aiutando i più deboli, attraverso le “elargitiones”; ma lo stile smaccatamente adulatorio, più che “sminuire” la “grandezza” di Traiano, ledono la “sincerità” del suo “laudatore” (anche se non siamo lontani dal credere che la superficialità dell’autore corrisponda alla “verità” del suo sentire).

EpistolarioPlinio il Giovane e le lettere con Traiano sui cristiani - La Nuova Bussola Quotidiana

Per parlare dell’Epistolario di Plinio dobbiamo rifarci non a quello di Seneca, ma a quello di Cicerone. Se il primo, infatti, aveva un fine filosofico facendo sì che l’autore neroniano svilupasse le sue teorie da trasmettere ad un solo destinatario (Lucilio), il secondo non aveva un filo logico, ma nasceva da episodi che mano mano capitavano al protagonista. Lo stesso fa Plinio che non raccoglie le sue lettere (che nessuno può obiettare che non siano state realmente spedite) in modo organico, ma in modo oseremmo dire casuale, per conservare, come ci dice l’autore stesso, quella varietas che rende piacevole la lettura.

Le lettere sono 247, raccolte in nove libri, a cui se ne aggiunge un terzo che contiene la corrispondenza tra Plinio e l’imperatore Traiano.

Non possiamo trovare nelle lettere dello scrittore comasco la profondità del pensatore stoico, nè l’umanità dell’uomo Cicerone: infatti esse risultano straordinarie per il modo in cui ci fa rivivevere la vita di corte offrendoci squarci della vita mondana dell’alta società imperiale. Uomo dalle molteplici amicizie, Plinio abbonda le lettere di parole elogiative verso ognuno di loro; ma ciò non toglie che talvolta autocelebri anche se stesso: scrive per incensare le opere del suo amico Tacito o per i versi di Marziale; per complimentarsi verso qualche lieto evento o per il raggiumento di qualche carica; commenta in modo positivo l’attività forense di qualcuno.

Non mancano lettere in cui il nostro esprime l’amore per la campagna, raccontando la bellezza di luoghi nei quali egli possedeva meravigliose ville, oppure le eleganti prose in cui mostra lo splendore di luoghi visitati.

Interessanti dal suo epistolario la lettera in cui Plinio, su richiesta di Tacito, che molto probabilmente voleva inserire l’episodio nel suo libro storico, parla della morte dello zio:

PLINIO IL VECCHIO E L'ERUZIONE DEL VULCANO
(6, 10)

Erat Miseni classemque imperio praesens regebat. Nonum Kal. Septembres hora fere septima mater mea indicat ei apparere nubem inusitata et magnitudine et specie. Usus ille sole, mox frigida, gustaverat iacens studebatque; poscit soleas, ascendit locum, ex quo maxime miraculum illud conspici poterat. Nubes (incertum procul intuentibus, ex quo monte, Vesuvium fuisse postea cognitum est), oriebatur, cuius similitudinem et formam non alia magis arbor quam pinus expresserit. Nam longissimo velut trunco elata in altum quibusdam ramis diffundebatur, credo, quia recenti spiritu evecta, dein senescente eo destituta aut etiam pondere suo victa in latitudinem vanescebat, candida interdum, interdum sordida et maculosa, prout terram cineremve sustulerat. Magnum propiusque noscendum, ut eruditissimo viro, visum. Iubet liburnicam aptari; mihi, si venire una vellem, facit copiam; respondi studere me malle, et forte ipse, quod scriberem, dederat. Egrediebatur domo; accipit codicillos Rectinae Casci imminenti periculo exterritae (nam villa eius subiacebat, nec ulla nisi navibus fuga); ut se tanto discrimini eriperet, orabat. Vertit ille consilium et, quod studioso animo incohaverat, obit maximo. Deducit quadriremes, ascendit ipse non Rectinae modo, sed multis (erat enim frequens amoenitas orae) laturus auxilium. Properat illuc, unde alii fugiunt, rectumque cursum, recta gubernacula in periculum tenet adeo solutus metu, ut omnis illius mali motus, omnis figuras, ut deprenderat oculis, dictaret enotaretque. Iam navibus cinis incidebat, quo propius accederent, calidior et densior, iam pumices etiam nigrique et ambusti et fracti igne lapides, iam vadum subitum ruinaque montis litora obstantia. Cunctatus paulum, an retro flecteret, mox gubernatori, ut ita faceret, monenti: «Fortes», inquit, «fortuna iuvat, Ponponianum pete!» Stabiis erat, diremptus sinu medio (nam sensim circumactis curvatisque litoribus mare infunditur); ibi, quamquam nondum periculo appropinquante, conspicuo tamen et, cum cresceret, proximo, sarcinas contulerat in naves certus fugae, si contrarius ventus resedisset. Quo tunc avunculus meus secundissimo invectus; complectitur trepidantem, consolatur, hortatur, utque timorem eius sua securitate leniret, deferri in balineum iubet: lotus accubat, cenat, aut hilaris aut, quod aeque magnum, similis hilari. Interim e Vesuvio monte pluribus locis latissimae flammae altaque incendia relucebant, quorum fulgor et claritas tenebris noctis excitabatur. Ille agrestium trepidatione ignes relictos desertasque villas per solitudinem ardere in remedium formidinis dictitabat. Tum se quieti dedit et quievit verissimo quidem somno; nam meatus animae, qui illi propter amplitudinem corporis gravior et sonantior erat, ab iis, qui limini obversabantur, audiebatur. Sed area, ex qua diaeta adibatur, ita iam cinere mixtisque pumicibus oppleta surrexerat, ut si longior in cubiculo mora, exitus negaretur. Excitatus procedit, seque Pomponiano ceterisque qui pervigilaverant reddit. In commune consultant, intra tecta subsistant an in aperto vagentur. Nam crebis vastisque tremoribus tecta nutabant, et quasi emota sedibus suis nunc huc nunc illuc abire aut referri videbantur. Sub dio rursus quamquam levium exesorumque pumicum casus metuebatur, quod tamen periculorum collatio elegit; et apud illum quidem ratio rationem, apud alios timorem timor vicit. Cervicalia capitibus imposita linteis constringunt; id monimentum adversus incidentia fuit. Iam dies alibi, illic nox omnibus noctibus nigrior densiorque; quam tamen faces multae variaque lumina solvebant. Placuit egredi in litus, et ex proximo adspicere, ecquid iam mare admitteret; quod adhuc vastum et adversum permanebat. Ibi super abiectum linteum recubans semel atque iterum frigidam aquam poposcit hausitque. Deinde flammae flammarumque praenuntius odor sulpuris alios in fugam vertunt, excitant illum. Innitens servolis duobus adsurrexit et statim concidit, ut ego colligo, crassiore caligine spiritu obstructo clausoque stomacho qui illi natura invalidus et angustus et frequenter interaestuans erat. Ubi dies redditus – is ab eo, quem novissime viderat, tertius – corpus, inventum integrum illaesum opertumque, ut fuerat indutus: habitus corporis quiescenti quam defuncto similior. Interim Miseni ego et mater – sed nihil ad historiam, nec tu aliud quam de exitu eius scire voluisti. Finem ergo faciam.

(L. Rusca)

L’ultimo giorno di Pompei, di Karl Pavlovic Brjullov, 1830-1833

Egli (Plinio il Vecchio) era a Miseno e comandava la flotta. Il nono giorno prima delle calende di settembre (24 agosto), verso l’ora settima, mia madre lo avverte che si scorge una nube insolita per vastità e per aspetto. Egli, dopo aver preso un bagno di sole e poi d’acqua fredda, aveva fatto uno spuntino giacendo e stava studiando: chiese le calzature, salì a un luogo dal quale si poteva veder meglio quel fenomeno. Una nube si formava (a coloro che la guardavano così da lontano non appariva bene da quale monte avesse origine, si seppe poi dal Vesuvio), il cui aspetto e la cui forma nessun albero avvrebbe meglio espressi di un pino. Giacché, proptesasio verso l’alto come un altissimo tronco, si allargava poi a guisa di rami; perché, ritengo, sollevata dapprima sul nascere da una corrente d’aria e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella o cedendo al proprio peso, si allargava pigramente, a trattio bianca, a tratti sporca e chiazzata, a cagione del terriccio o della cenere che trasportava. Da persona erudita qual era, gli parve che quel fenomeno dovesse essere osservato meglio e più da vicino. Ordina che si prepari un battello liburnico: mi permette, se lo voglio, di andar con lui; gli rispondo che preferisco rimanere a studiare, anzi per avventura lui stesso mi aveva assegnato un compito. Stava uscendo di casa quando riceve un biglietto da Rettina, moglie di Casco, spaventata dal pericolo che la minacciava (giacché la sua villa era ai piedi del monte e non vi era altro scampo che per nave): supplicava di essere strappata da una così terribile situazione. Lo zio cambiò i propri piani e ciò che aveva intrapreso per amor di scienza, condusse a termine per spirito di dovere. Mette in mare la quadriremi e si imbarca lui stesso per recar aiuto non solo a Rettina, ma a molti altri, giacché per l’amenità del lido la zona era molto abitata. Si affretta là donde gli altri fuggono, va dritto, rivolto il timone verso il luogo del pericolo, così privo di paura, da dettare e descrivere ogni fenomeno di quel terribile flagello, ogni aspetto, come si presenta ai suoi occhi. Già la cenere cadeva sulle navi, tanto più calda e densa quanto più si approssimava; già della pomice e anche dei ciottoli anneriti, cotti e frantumati dal fuoco; poi ecco un inatteso bassofondo e la spiaggia ostruita da massi proiettati dal monte. Esita un momento, se doveva rientrare, ma poi al pilota che lo esorta a far ciò, esclama: «La fortuna aiuta gli audaci , punta verso Pomponiano!». Questi era a Stabia, dall’altra parte del golfo (giacché il mare si addentra seguendo la riva che va via via disegnando una curva). Quivi Pomponiano, benché il pericolo non fosse prossimo, ma alle viste però e col crescere potendo farsi imminente, aveva trasportato le sue cose su alcune navi, deciso a fuggire, se il vento contrario si fosse quietato. Ma questo era allora tutto favorevole a mio zio, che arriva, abbraccia l’amico trepidante, lo rincuora, lo conforta, e per calmare la paura di lui con la propria sicurezza, vuole essere portato al bagno: lavatosi, cena tutto allegro o, ciò che è ancor più, fingendo allegria. Frattanto dal Monte Vesuvio in parecchi punti risplendevano larghissime fiamme e vasti incendi, il cui chiarore la cui luce erano resi più vivi dalle tenebre notturne. Lo zio andava dicendo, per calmare le paure, e cerca case che bruciavano abbandonate e lasciate deserte dalla fuga di contadini. Poi si recò a riposare dormi di un autentico sonno: giacché la sua respirazione, resa più pesante e rumorosa dalla vasta corporatura, fu udita da coloro che passavano accanto alla soglia. Ma il livello del cortile, attraverso il quale si accedeva a quell’appartamento, se era già talmente alzato, perché ricoperto dalla cenere mista alla lapilli virgola che, se egli si fosse più a lungo indugiato nella camera virgola non avrebbe potuto più uscirne. Svegliato, ne esce raggiunge Pomponiano E gli altri che non avevano chiuso occhio. Si consultano fra loro, se debbano rimanere in un luogo coperto o fuggire all’aperto. Continue e prolungate scosse telluriche scuotevano l’abitazione e quasi l’avessero strappato dalle fondamenta sembrava che ora andasse da una parte ora dall’altra, per poi di assestarsi. D’altra parte all’aperto si temeva la pioggia dei lapilli per quanto leggeri e porosi; tuttavia, confrontati i pericoli, egli scelse di uscire all’aperto. Ma se in lui prevalse ragione a ragione, negli altri timore a timore. Messi dei guanciali sulla testa li assicurano con lenzuoli; fu questo il loro riparo contro quella pioggia. Già faceva giorno ovunque, ma colare regnava una notte più scura e fonda di ogni altra, ancorché mitigata da molti fuochi e varie luci. Egli voglio uscire sulla spiaggia e vedere da vicino se fosse possibile mettersi in mare; Ma questo era ancora agitato e impraticabile. Quivi, riposando il sopra un lenzuolo disteso, chiese e richiese dell’acqua fresca e la bevve avidamente punto ma poi le fiamme il puzzo di zolfo che le annunciava mettono in fuga taluni e riscuotono lo zio. Sostenuto da due schiavi si alzò in piedi, ma subito ricadde, perché, io suppongo, l’area ispessita dalla cenere aveva ostruita la respirazione è bloccata la trachea che gli aveva per natura delicata e stretta e frequentemente infiammata punto quando ritorno il giorno (il terzo dopo quello che aveva visto per ultimo) Il suo corpo fu trovato intatto e illeso, coperto dei panni che aveva indosso: l’aspetto più simile a un uomo che dorme, che è un morto. Frattanto a miseno io e la mamma… Pacio non importa alla storia virgola e tu non volevi conoscere altro che racconto della sua morte. Faccio dunque punto.

Pierre Henri de Valenciennes (1813)

Il celeberrimo passo di Plinio il Giovane dedicato al famoso zio, si muove su due livelli:

  • la descrizione con cui mostra l’avvenimento vulcanico attraverso un climax stilistico che permette anche una certa “suspance”, giocando con un pianissino o lontano per concludere con la morte di Plinio il Vecchio;
  • la figura dello zio, che contrasta con la violenza del vulcano, emergendo sia da un punto di vista filosofico (il bagno prima dell’esplosione sismica, ricorda la morte di Seneca), scientifico (la curiositas tipica per chi vuole capire la realtà), umano (la volontà di aiutare l’amico)

Il nostro, inoltre, mostra una grandissima perizia retorica utilizzando figure come quella del chiasmo, dell’allitterazione, dell’antitesi, a dimostrazione di una profonda eleganza stilistica.

Altra lettera fondamentale la leggiamo nel X libro, quella in cui chiede all’imperatore, come comportarsi con i membri della religione cristiana che si stava diffondendo in modo piuttosto esteso:

CHE FARE CON I CRISTIANI?
(10, 96)

Cognitionibus de Christianis interfui numquam: ideo nescio quid et quatenus aut puniri soleat aut quaeri. Nec mediocriter haesitavi, sitne aliquod discrimen aetatum, an quamlibet teneri nihil a robustioribus differant, detur paenitentiae venia, an ei, qui omnino Christianus fuit, desisse non prosit, nomen ipsum, si flagitiis careat, an flagitia cohaerentia nomini puniantur. Interim, <in> iis qui ad me tamquam Christiani deferebantur, hunc sum secutus modum. Interrogavi ipsos an essent Christiani. Confitentes iterum ac tertio interrogavi supplicium minatus; perseverantes duci iussi. Neque enim dubitabam, qualecumque esset quod faterentur, pertinaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri. (…) Affirmabant autem hanc fuisse summam vel culpae suae vel erroris, quod essent soliti stato die ante lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem seque sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta ne latrocinia ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum appellati abnegarent. Quibus peractis morem sibi discedendi fuisse rursusque coeundi ad capiendum cibum, promiscuum tamen et innoxium; quod ipsum facere desisse post edictum meum, quo secundum mandata tua hetaerias esse vetueram. Quo magis necessarium credidi ex duabus ancillis, quae ministrae dicebantur, quid esset veri, et per tormenta quaerere. Nihil aliud inveni quam superstitionem pravam et immodicam. Ideo dilata cognitione ad consulendum te decucurri.

Jean-Léon Gérome: Ultime preghiere dei martiri cristiani (1883)

Non ho mai preso parte a nessuna istruttoria sul conto dei cristiani: pertanto non so quali siano abitualmente gli oggetti e i limiti sia della punizione che dell’inchiesta. Sono stato fortemente in dubbio se si debba considerare qualche differenza di età, oppure se i bambini nei più teneri anni vadano trattati alla stessa stregua degli adulti che hanno raggiunto il fiore della forza; se sia d’uopo mostrarsi indulgenti davanti al pentimento, oppure se a chi sia stato effettivamente cristiano non serva a nulla l’aver rinunciato; se si debba punire il nome in se stesso anche quando sia immune da turpitudini, oppure le turpitudini connesse con il nome. Provvisoriamente, a carico di coloro che mi venivano denunciati come cristiani, ho seguito questa procedura. Li interrogavo direttamente se fossero cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda volta e una terza volta, minacciando loro la pena capitale: se perseveravano, ordinavano che fossero messi a morte. (…) Attestavano poi che tutta la loro colpa, o tutto il loro errore, consisteva unicamente in queste pratiche: riunirsi abitualmente in un giorno stabilito prima del sorgere del sole, recitare tra di loro a due cori un’invocazione a Cristo considerandolo dio e obbligarsi con giuramento, non a perpretare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né aggressioni a scopo di rapina, né adulteri, a non eludere i propri impegni, a non rifiutare la restituzione di un deposito, quando ne fossero richiesti. Dopo aver terminato questi atti di culto, avevano la consuetudine di ritirarsi e poi di riunirsi di nuovo per prendere un cibo, che era, ad ogni modo, quello consueto e innocente; avevano però sospeso anche quest’uso dopo il mio editto con il quale, a norma delle tue disposizioni, avevo vietato l’esistenza di sodalizi. Ciò tanto più mi convinse della necessità di indagare che cosa ci fosse effettivamente di vero, attraverso a due schiave, che venivano chiamate diaconesse, ricorrendo anche alla tortura. Non ho trovato nulla, all’infuori di una superstizione balorda e squilibrata. Pertanto ho aggiornato l’istruttoria e mi sono affrettato a chiedere il tuo parere.

Mentre Plinio è in Bitinia, sia per situazioni pratiche che per sciogliere qualche dubbio, si rivolge allo stesso Traiano, mostrando il rapporto di fiducia che ormai intercorreva tra il funzionario e l’imperatore.

Questa lettera ha lasciato più di un dubbio: “In passato l’epistola di Plinio è stata giudicata un falso, anche se elaborata non molto tempo dopo la morte dell’autore, visto che Tertulliano nell’Apologeticum dimostra di conoscere tanto la lettera pliniana quanto la risposta dell’imperatore; e l’opera tertullianea è datata 197. Decaduta l’ipotesi del testo apocrifo e riconosciuta l’autenticità della lettera, alcuni critici hanno tuttavia affermato che l’epistola era stata pesantemente rimaneggiata  e interpolata dall’intervento del martire Apollonio, vissuto nel II secolo. Altri studiosi, infine, hanno sostenuto che Plinio avrebbe costruito la lettera non a seguito di un’indagine da lui effettivamente condotta nella sua provincia, bens^ alla stregua di un passo liviano in cui lo storico aveva descritto la repressione dei Baccanali” (Conte – Pianezzola)

 

 

 

 

 

 

PLINIO IL VECCHIO

Biografia

Sulla vita di Gaio Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio ci informa, attraverso il suo Epistolario, il nipote, figlio di una sorella, Cecilio Secondo, detto appunto, per distringuerlo dal famoso zio, Plinio il Giovane.
Nasce a Secundum Comum, l’attale Como, intorno al 27 d.C., da famiglia di origine equestre. Come gran parte dei giovani si traferì a Roma dove compì studi retorici. In seguito, sotto l’imperatore Claudio, iniziò la carriera militare che lo portò a partecipare in modo non continuativo a due campagne militari in Germania, tra il 45 e il 58. Tornato a Roma, si eclissò durante Nerone (di cui molto probabilmente non condivideva la politica), per poi riaffacciarsi sotto Vespasiano, che lo impiegò in cariche amministrative e militari: fu procuratore nella Gallia Narborense, poi in Africa ed infine nella Gallia Belgica.

Nel 79 divenne un membro importante dei consiglieri del princeps e fu nominato prefetto della flotta imperiale di Capo Miseno in Campania. Era in servizio quando avvenne la devastante eruzione del Vesuvio, che avrebbe causato la distruzione di Ercolano, Pompei e Stabia. Plinio si recò sul posto sia per portare aiuto alle popolazioni colpite sia per studiare “da vicino” il fenomeno, ma, investito da esalazioni tossiche dovute all’eruzione o per un probabile collasso, morì il 25 agosto dello stesso anno.
La sua morte ci viene raccontata in modo mirabile e dettagliato in una lettera che suo nipote indirizza al grande storico Tacito.

Il grande classico. Le confessioni di Plinio il Giovane - la Repubblica

Thomas Burke: Plinio il Vecchio rimprovera il giovane nipote perchè non pone attenzione all’eruzione del Vesuvio

Personalità e opere perdute

Da Plinio il Giovane sappiamo che fu

Sed erat acris ingenium, incredibile studium, summa vigilantia. Lucubrare a Volcanalibus incipiebat, non auspicandi causa, sed studiendi, statim a nocte multa; hieme vero hora septima, vel cum tardissime, octava, saepe sexta. Erat sane somni paratissimi, nonnumquam etiam inter studia instantis et deserentis. Ante lucem ibat ad Vespasianum imperatorem: nam ille quoque noctibus utebatur: inde ad delegatum sibi officium. Reversum domum, quod reliquum erat temporis, studiis reddebat.

Ma egli possedeva un ingegno penetrante, una passione incredibile, un’insuperabile capacità di resistere al sonno. Incominciava le sue veglie di lavoro durante le feste di Vulcano e ciò non per trarre degli auspici favorevoli, ma per procurarsi del tempo favorevole allo studio: allora iniziava quando ormai era notte fonda, d’inverno invece vi si accingeva all’una o, quando faceva più tardi, alle due, spesso a mezzogiorno: va ad ogni modo ricordato che gli era assai pronto ad addormentarsi; talora anche durante le sue stesse indagini erudite si appisolava e si risvegliava. Prima di giorno andava dall’imperatore Vespasiano (poiché anch’egli sfruttava le notti per i suoi lavori) poi all’ufficio che gli era stato affidato. Tornato a casa, il tempo che gli rimaneva lo dedicava allo studio.  (trad. di F. Trisoglio)

Questa sua indefessa attitudine verso lo studio gli permisero di comporre opere storiche, come Bella Germaniae (Sulle guerre germaniche), A fine Aufidi Bassi una storia che trattava il priodo tra il 50 ed il 70 riprendendo l’opera precedente dello storico Aufidio Basso, De iaculatione equestri (Sul modo di lanciare il giavellotto dal cavallo) e il De vita Pomponi Secundi (Sulla vita di Pomponio Secondo, un poeta tragico). Tutte queste opere, più altre di carattere puramente retorico-letterario, sono andate perdute. L’unica opera pervenuta è la Naturalis historia.

Edizione del 1573

Naturalis historia

Potremo definire la Naturalis historia come una vastissima enciclopedia in 37 libri. Tale opera è così strutturata:

Libro I: indice e fonti;
Libro II: Cosmologia e geografia fisica;
Libri III – VI: Geografia;
Libro VII: Antropologia
Libri VIII – XI: Zoologia
Libri XII – XIX: Botanica
Libri XX – XXXII: Medicina;
Libri XXXIII – XXXVII: Matallurgia e mineralogia (con excursus sulla storia dell’arte).

Appare evidente dagli argomenti appartenenti ai vari libri che l’opera di Plinio tende ad abbracciare l’intero scibile. Se infatti esistevano opere di trattatistica (De architectura di Vitruvio o De re rustica di Columella, per citare i più famosi), nessuno si era posto il fine di raccogliere in modo integrale tutto ciò che presentava la natura o che il mondo aveva elaborato, neppure nella letteratura greca.

Si trattava per l’autore comasco d’inventariare la somma delle conoscenze dell’uomo e forse ciò ne indica la finalità. Il fatto stesso di porre all’inizio di essa l’indice e le fonti delle infomazioni fa sì che essa possa essere utilizzata come un’enciclopedia da cui il lettore romano colto poteva scegliere di volta in volta l’argomento più consono ai suoi interessi o ai suoi bisogni del momento.

Il metodo di lavoro ce lo indica lui stesso in un passo, dal carattere proemiale, appartenente ai libri XXVIII – XXXII riguardante i rimedi medici tratti dagli animali:La 'fortuna' critica dell'artista donna: tutto nasce da una storiografia al maschile?

L’AUTORITA’ DELLE FONTI
(28, 1-3)

Dictae erant naturae omnium rerum inter caelum ac terram nascentium, restabantque quae ex ipsa tellure fodiuntur, si non herbarum ac fruticum tractata remedia auferrent traversos ex ipsis animalibus, quae sanantur, reperta maiore medicina. Quid ergo? Dixerimus herbas et florum imagines ac pleraque inventu rara ac difficilia, iidem tacebimus, quid in ipso homine prosit homini, ceteraque genera remediorum inter nos viventia, cum praesertim nisi carenti doloribus morbisque vita ipsa poena fiat? Minime vero, omnemque insumemus operam, licet fastidii periculum urgeat, quando ita decretum est, minorem gratiae quam utilitatium vitae respectum habere. Quin immo externa quoque et barbaros etiam ritus indagabimus. Fides tantum auctores appellet, quamquam et ipsi consensu prope iudicii ista eligere laboravimus potiusque curae rerum quam copiae institimus. Illud admonuisse perquam necessarium est, dictas iam a nobis naturas animalium et quae cuiusque essent inventa – neque enim minus profuere medicinas reperiendo quam prosunt praebendo – nunc quae in ipsis auxilientur indicari, neque illic in totum omissa; itaque haec esse quidem alia, illis tamen conexa.

Avevamo finito di illustrare le proprietà di tutte le forme di vita comprese tra il cielo e la terra e restava da parlare dei prodotti che si estraggono dal suolo; ma il fatto di aver trattato i rimedi ricavati dalle erbe e dalle piante ci distoglie dal programma e ci indirizza verso una medicina più efficace, quella offerta dalle creature del Regno animale che ne sono anche l’oggetto. E allora? Avremmo descritto le piante, l’aspetto dei fiori e tanti vegetali rari e difficili da trovarsi, e poi dovremmo tacere delle risorse presenti nell’uomo stesso da lui utilizzabili, e degli altri tipi di rimedio che vivono in mezzo a noi, quando sappiamo che solo per chi è esente da dolore e malattie la vita in sè non è un tormento? No di certo. Anzi vi metteremo tutto il nostro impegno, anche a rischio di diventare noiosi; Abbiamo infatti deciso di preoccuparci più dell’utilità pratica che della piacevolezza. Indagheremo perfino le usanze straniere e le pratiche dei barbari. Ci affideremo soltanto alle autorità delle fonti, sebbene anche personalmente siamo giunti ad una scelta del materiale in base all’accordo delle testimonianze, privilegiando l’esattezza rispetto all’abbondanza. Ma è necessaria una premessa: abbiamo già parlato delle proprietà degli animali e delle scoperte dovute a ciascuno di essi – infatti furono utili come scopritori di terapie e continuano ad esserlo col fornircele essi stessi -; ora dovremmo descrivere i rimedi che racchiudono in sé, materia parzialmente trattata nei libri precedenti. Così la presente esposizione è diversa, ma al tempo stesso collegata con quella di prima. (trad. di U. Capiani e I. Garofalo)

Il passo in primo luogo ci conferma come Plinio, sapendo che la sua opera è di consultazione, lo inserisca tra gli argomenti che lo hanno preceduto e che lo seguiranno. Inoltre ricorda che questa materia era sta già sommariamente affrontata (“abbiamo già parlato delle proprietà degli animali e delle scoperte dovute a ciascuno di essi”), quindi ci dice in che modo egli è andato a “ricercare” le informazioni per affrontarla: autorità delle fonti e scelta del materiale sulla base dell’autorevolezza e precisione delle testimonianze. Per meglio dire “proprio perché l’intenzione è l’utilità pratica, Plinio si preoccupa di segnalare che quanto scrive è tratto dagli autori più degni fede”: d’altra parte non dovremo meravigliarci. Come poteva un autore antico procedere a verifiche sperimentali o giungere in luoghi – i più disparati – dove alcuni fenomeni avvenivano?

Tale metodologia lo porta a riportare tutto ciò che si dice su un determinato argomento, come accadeva nella paradossografia (genere letterario nato in età ellenistica in cui si raccoglievano i paradossi o le mirabilia) e a stare un po’ lontano dal rigore scientifico aristotelico e finanche dal Seneca delle Naturales quaestiones.

LUPI E LUPI MANNARI
(VIII, 80-84)

Sed in Italia quoque creditur luporum visus esse noxius vocemque homini, quem priores contemplentur, adimere ad praesens. Inertes hos parvosque Africa et Aegyptus gignunt, asperos trucesque frigidior plaga. Homines in lupos verti rursusque restitui sibi falsum esse confidenter existimare debemus aut credere omnia quae fabulosa tot saeculis conperimus. Unde tamen ista vulgo infixa sit fama in tantum, ut in maledictis versipelles habeat, indicabitur. Evanthes, inter auctores Graeciae non spretus, scribit Arcadas tradere ex gente Anthi cuiusdam sorte familiae lectum ad stagnum quoddam regionis eius duci vestituque in quercu suspenso tranare atque abire in deserta transfigurarique in lupum et cum ceteris eiusdem generis congregari per annos VIIII. Quo in tempore si homine se abstinuerit, reverti ad idem stagnum et, cum tranaverit, effigiem recipere, ad pristinum habitum addito novem annorum senio. Id quoque adicit, eandem recipere vestem. Mirum est quo procedat Graeca credulitas! Nullum tam inpudens mendacium est, ut teste careat. Item Scopas, qui Olympionicas scripsit, narrat Demaenetum Parrhasium in sacrificio, quod Arcades Iovi Lycaeo humana etiamtum hostia faciebant, immolati pueri exta degustasse et in lupum se convertisse, eundem X anno restitutum athleticae se exercuisse in pugilatu victoremque Olympia reversum. Quin et caudae huius animalis creditur vulgo inesse amatorium virus exiguo in villo eumque, cum capiatur, abici nec idem pollere nisi viventi dereptum. Dies, quibus coeat, toto anno non amplius duodecim. Eundem in fame vesci terra inter auguria; ad dexteram commeantium praeciso itinere si pleno id ore fecerit, nullum ominum praestantius. Sunt in eo genere qui cervari vocantur, qualem e Gallia in Pompei Magni harena spectatum diximus. Huic quamvis in fame mandenti, si respexerit, oblivionem cibi subrepere aiunt digressumque quaerere aliud.Un lupo mannaro a...Taranto - MediterraneoAntico

Anche in Italia si crede che lo sguardo dei Lupi sia dannoso e che tolgano l’uso della voce ad un uomo se lo guardano per primi. Africa ed Egitto li producono senza vigore e piccoli, mentre i paesi più freddi generano esemplari forti e feroci. Dobbiamo ritenere senz’altro falso quello che gli uomini possano trasformarsi in lupi e poi tornare uomini, oppure dobbiamo credere a tutte quelle favole che da tanti secoli sappiamo essere tali. Nondimeno indicherò l’origine di questa diceria, così radicata fra il popolo che l’espressione «lupo mannaro» si usa come insulto. Secondo Evante, che pure non è disprezzabile fra gli autori greci, in Arcadia si racconta che un membro della famiglia di un certo Anto viene tirato a sorte e condotto presso uno stagno di quella regione. Appesa la veste a una quercia, egli passa a nuoto lo specchio d’acqua e se ne va in luoghi deserti e si trasforma in lupo, e rimane per nove anni in un branco insieme agli altri di quella specie. Se durante questo periodo si è tenuto lontano dall’uomo, ritorna poi a quello stesso stagno, e riattraversatelo, riprende il suo aspetto umano, e alla sua antica immagine si aggiunge un invecchiamento di nove anni. Lo scrittore aggiunge anche questo particolare, che riprende la stessa veste. E straordinario fino a che punto si spinga la credulità dei Greci. Nessuna bugia è tanto spudorata da essere priva dell’autorità di un testimone. Così Scopas, che scrisse Gli olimpionici, narra che Demeneto di Parrasia, durante un sacrificio che gli Arcadi facevano a Giove Liceo, ancora a quel tempo con vittime umane, mangiò le viscere di un ragazzo che era stato immolato e si trasformò in lupo; egli stesso, riacquistata forma umana dopo nove anni, si esercitò nel pugilato e ritornò vincitore da Olimpia. Inoltre il popolo crede che nella coda di questo animale ci sia un talismano amoroso in un piccolo ciuffo di peli e che il lupo, quando viene catturato, lo getti via: il talismano non ha alcuna proprietà se non è strappato ad un’esemplare vivo. Si crede che i giorni nei quali il lupo può accoppiarsi nell’arco di un intero anno non siano più di dodici e che quando ha fame mangi la terra; fra i presagi, se un lupo taglia la strada a destra di chi cammina e ha la bocca piena, nessun auspicio è più favorevole. Fanno parte di questa specie di animali chiamati lupi cervieri, come quello che abbiamo detto fu portato dalla Gallia e si vide nell’arena durante i giochi di Pompeo Magno. Dicono che questo, mentre mangia, per quanto sia affamato, se guarda dietro di sé, si dimentica di ciò che sta mangiando e se ne va a cercare altro cibo. (trad. E. Giannerelli)

E’ questo un passo tratto dalla sezione riguardante la zoologia. Possiamo notare come qui l’autore citi sia dati reali che le cosiddette mirabilia, cioè aneddoti curiosi e superstizioni. Questo testimonia come di un argomento egli tenda a dirci tutto, ma nello stesso tempo come polemizzi sull’attendibilità delle fonti greche sulla credulità popolare.
Se mai dovessimo trovare nell’opera di Plinio un sottofondo filosofico, potremmo indicarlo nello stoicismo, cioè in quella visione del logos che guida l’intero mondo, che l’uomo deve conoscere per far sì che egli possa rispecchiarne in sé la sua virtù; ma sarebbe “limitante”. Più che un solo riferimento in lui dobbiamo parlare di un vera e propria affabulazione di tutto il sapere, tanto da fargli dire che non esisteva nessun libro tanto brutto da non avere in sé qualche utilità.
In questo abbracciare il mondo e riflettere su di esso, Plinio, pur a volte così lontano dalla nostra sensibilità scientifica, arriva a delle riflessioni che suscitano in noi meraviglia per la loro modernità:

Plinio e Leopardi

LA NATURA MATRIGNA
(7, 1 – 3)

Mundus et in eo terrae, gentes, maria, flumina insignia, insulae, urbes ad hunc modum se habent, animantium in eodem natura nullius prope partis contemplatione minore, si quidem omnia exequi humanus animus queat. Principium iure tribuetur homini, cuius causa videtur cuncta alia genuisse natura, magna, saeva mercede contra tanta sua munera, ut non sit satis aestimare, parens melior homini an tristior noverca fuit. Ante omnia unum animantium cunctorum alienis velat opibus. Ceteris varie tegimenta tribuit, testas, cortices, coria, spinas, villos, saetas, pilos, plumam, pinnas, squamas, vellera; truncos etiam arboresque cortice, interdum gemino, a frigoribus et calore tutata est: homine tantum nudum et in nuda humo natali die abicit ad vagitus statim et ploratum, nullumque tot animalium aliud ad lacrimas, et has protinus vitae principio; at Hercule risus precox ille et celerrimus ante XL diem nulli datur. Ab hoc lucis rudimento quae ne feras quidem inter nos genitas vincula excipiunt et omnium membrorum nexus; itaque feliciter natus iacet manibus pedibusque devinctis, flens animal ceteris imperaturum, et a suppliciis vitam auspicatur unam tantum ob culpam, qua natum est. Heu dementia ab his initiis existimantium ad superiam se genitos!

Così, come l’ho descritta, è la situazione del mondo, con le sue terre, le popolazioni, i mari, i fiumi importanti, le isole, le città. Ma degna di non minore attenzione, in quasi tutti i suoi aspetti, sarebbe la natura degli esseri viventi che lo popolano, sol che l’intelligenza umana fosse in grado di indagarne ogni sua parte. Cominceremo a buon diritto dall’uomo, in funzione del quale sembra che la natura abbia generato tutto il resto. Ma essa ha preteso virgola in cambio di doni così grandi, un prezzo alto e crudele, fino al punto che non è possibile dire con certezza se essa sia stata per l’uomo più una buona madre o una crudele matrigna. In primo luogo lo costringe, unico fra tutti gli esseri viventi, a procacciarsi all’esterno i suoi vestiti. Agli altri, in vario modo, la natura fornisce qualcosa che li copra: gusci, cortecce, pelli, spine, peli, setole, piume, penne, squame, velli; anche i tronchi degli alberi li protegge dal freddo e dal caldo, con uno e talora due strati di corteccia. Soltanto l’uomo essa getta nudo sulla nuda terra, il giorno della sua nascita, abbandonandolo fin dall’inizio ai vagiti e al pianto e, come nessun altro fra tanti esseri viventi, alle lacrime, subito, dal primo istante della propria vita: invece il riso, per Ercole, anche quando è precoce, il più rapido possibile, non è concesso ad alcuno prima del quarantesimo giorno. Subito dopo il suo ingresso alla luce, l’uomo è stretto da ceppi e legami in tutte le membra, quali non si impongono neppure agli animali domestici. Così lui, che ha aperto gli occhi alla felicità, giace a terra con mani e piedi legati, piangente – lui, destinato a regnare su tutte le altre creature – e inaugura la sua vita fra i tormenti, colpevole solo di esser nato. Che stoltezza quella di chi, dopo inizi siffatti, si ritiene destinato ad imprese superbe!

Questo passo appartiene, e funge da introduzione, alle sezione dedicata all’antropologia. Deve essere stato studiato a fondo da Leopardi che lo riecheggia in Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e ne La ginestra. Ma se tale tematica nel pensatore recanatese era situata in una speculazione ferrea e rigorosa, in Plinio la visione pessimista sulla natura dell’uomo si alterna a temi, diciamo così, ottimisti, come quelli in cui stoicamente si lasciava andare all’entusiasmo di fronte alle meraviglie della natura. “Si può credere che una certa alternanza – nell’opera pliniana – di toni ottimistici e altri pessimistici possa dipendere dalla pluralità delle fonti consultate, che lo inflenzarono diversamentre. Né si può escludere che tali mutamenti di prospettiva derivino dall’oggettiva difficoltà del naturalista di trovare una spiegazione per tutto e in primis di quell’angoscia, di quel dolore, di quella precarietà della vita umana nei quali, durante la sua ricerca, si era imbattuto. (Mauro Reali).

D’estrema modernità è poi il passo riguardante la distruzione della natura:

ACCANIMENTO DELL’UOMO CONTRO LA NATURA
(XXXVI, 1-3)

Lapidum natura restat, hoc est praecipua morum insania, etiam ut gemmae cum sucinis atque crystallinis murrinisque sileantur. Omnia namque, quae usque ad hoc volumen tractavimus, hominum genita causa videri possunt: montes natura sibi fecerat ut quasdam compages telluris visceribus densandis, simul ad fluminum impetus domandos fluctusque frangendos ac minime quietas partes coercendas durissima sui materia, caedimus hos trahimusque nulla alia quam deliciarum causa, quos transcendisse quoque mirum fuit. In portento prope maiores habuere Alpis ab Hannibale exsuperatas et postea a Cimbris: nunc ipsae caeduntur in mille genera marmorum. Promunturia aperiuntur mari, et rerum natura agitur in planum; evehimus ea, quae separandis gentibus pro terminis constituta erant, navesque marmorum causa fiunt, ac per fluctus, saevissimam rerum naturae partem, huc illuc portantur iuga, maiore etiamnum venia quam cum ad frigidos potus vas petitur in nubila caeloque proximae rupes cavantur, ut bibatur glacie. Secum quisque cogitet, et quae pretia horum audiat, quas vehi trahique moles videat, et quam sine iis multorum sit beatior vita. Ista facere, immo verius pati mortales quos ob usus quasve ad voluptates alias nisi ut inter maculas lapidum iaceant, ceu vero non tenebris noctium, dimidia parte vitae cuiusque, gaudia haec auferentibus!cartografia romana

Carta romana

Resta da considerare la natura delle pietre, nelle quali la follia dei costumi umani si esplica più che altrove, anche a tacere delle gemme, dei gioielli d’ambra e dei vasi di cristallo e di murra. In effetti tutti gli oggetti di cui abbiamo trattato fino a questo libro può sembrare che siano stati prodotti per l’utilità degli uomini: ma le montagne la natura le aveva fatte per sé come una sorta di scheletro che doveva consolidare le viscere della terra e nel contempo frenare l’impeto dei fiumi e frangere i frutti marini, nonchè stabilizzare gli elementi più turbolenti con l’aiuto della loro solidissima materia. Noi invece tagliamo a pezzi e trasciniamo via, senza nessun altro scopo che i nostri piaceri, montagne che un tempo fu oggetto di meraviglia anche solo valicare. I nostri avi considerarono quasi un prodigio che le Alpi fossero state attraversate da Annibale, e più tardi dai Cimbri – ora questi stessi monti vengono fatti a pezzi per ricavarne marmi delle specie più varie. I promontori vengono spaccati per lasciare passare il mare, e la natura è ridotta ad un piano livellato. Svelliamo ciò che era stato posto a far da confine fra popoli diversi, si fabbricano navi per caricarvi i marmi, e le vette montane sono portate a destra e a sinistra sui flutti, l’elemento naturale più selvaggio – la cosa rimane comunque più perdonabile di quando, per avere bevande fresche, se ne va a cercare il vaso fra le nubi e, per averle ghiacciate, si scavano le rocce più vicine al cielo. Tutti dovrebbero riflettere su queste cose, rendersi conto del prezzo che hanno, della grandezza dei massi che si spostano e si portano via, del fatto che senza di essi la vita di molti sarebbe tanto più felice. E questo lavoro, o meglio queste sofferenze, per quale utilità o per quale piacere gli uomini se li sobbarcano, se non pesare su pavimenti di pietre variopinte? – come se questo piacere non lo togliesse il buio della notte virgola che occupa la metà della vita di ognuno. (trad. A. Corso)

Certo non possiamo attribuire a Plinio una coscienza ecologica: eppure il sapere che già nel I sec. d.C. tali argomenti venivano rilevati da un naturalista, ci fa pensare al lungo sfruttamento dell’uomo su ciò che la natura ci offre. Qui lo sdegno dell’autore è nel non pensare a quali conseguenze porterà lo sfruttamento selvaggio dell’ambiente, ma soprattutto a come tale sfruttamento viene finalizzato per un ottenere dei benefici irrisori, che certo non portano alla felicità dell’uomo.

Einaudi Bologna - Plinio, Naturalis historia

La Naturalis historia curata da Italo Calvino

Ci piace concludere con un grande autore italiano che molto ha amato Plinio il Vecchio, Italo Calvino, di cui prendiamo un estratto tratto da Perché leggere i classici, 1995:

Quando parliamo di Plinio non sappiamo mai fino a che punto possiamo attribuire a lui le idee che esprime; suo scrupolo è infatti di metterci di suo il meno possibile, e tenersi a quanto tramandano le fonti; e ciò conformemente a un’idea impersonale del sapere, che esclude l’originalità individuale. Per cercare di comprendere qual è veramente il suo senso della natura, quanto posto ha in esso l’arcana maestà dei principi e quanto la materialità degli elementi, dobbiamo tenerci a ciò che è certamente suo, cioè alla sostanza espressiva della sua prosa. Si vedano ad esempio le pagine sulla Luna, dove l’accento di commossa gratitudine per questo «astro ultimo, il più familiare a quanti vivono sulla terra, rimedio alle tenebre» (II 41: novissimum sidus, terris familiarissimum et in tenebrarum remedium…) e per tutto quel che esso ci insegna col moto delle sue fasi e delle sue eclissi, si unisce alla funzionalità agile delle frasi a rendere questo meccanismo con cristallina nettezza. È nelle pagine astronomiche del libro II che Plinio dimostra di poter essere qualcosa di più del compilatore dal gusto immaginoso che si dice di solito, e si rivela uno scrittore che possiede quella che sarà la principale dote della grande prosa scientifica: rendere con nitida evidenza il ragionamento più complesso traendone un senso d’armonia e di bellezza. Questo, senza mai inclinare verso la speculazione astratta. Plinio si tiene sempre ai fatti (a quelli che lui considera fatti o che qualcuno ha considerato tali): non accetta l’infinità dei mondi perché la natura di questo mondo è già abbastanza difficile da conoscere e l’infinità non semplificherebbe il problema (II 4); non crede al suono delle sfere celesti, né come fragore al di là dell’udibile né come indicibile armonia, perché «per noi, che stiamo al suo interno, il mondo scivola giorno e notte in silenzio» (II 6).

PIER VITTORIO TONDELLI

Tondelli è uno scrittore | GQ Italia

Pier Vittorio Tondelli nasce a Correggio, in provincia di Reggio Emilia, nel 1955. Qui passa i primi anni della sua vita, frequentando gli istituti scolastici e raggiungendo la maturità presso il Liceo Classico “Rinaldo Corso”. E’ in questo periodo che partecipa attivamente alle attività dell’oratorio, facendo parte dell’associazionismo cattolico e scrivendo, presso piccole riviste ciclostilate, brevi articoli con lo pseudonimo di Vicky. Ed è ancora nella cittadina emiliana, pur in piena adolescenza, che mostra la sua vocazione “artistica”, scrivendo e mettendo scena piccoli lavori teatrali, tra i quali ricordiamo una sua rappresentazione tratta dal romanzo di Saint-Exupéry.

Nell’anno accademico 1974/1975 si sposta a Bologna, dove s’iscrive al DAMS (acronimo per Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo). Tale corso universitario, il primo in Italia, nasce nel 1971 e costituirà per la città emiliana un coacervo di sperimentazioni artistiche assolutamente innovative dal punto di vista culturale: tra i primi docenti il semiologo e scrittore Umberto Eco, il regista teatrale Luigi Squarzina, il narratore Gianni Celati, il critico letterario Luciano Anceschi. Grazie ad esso Bologna diventerà il centro di raccolta delle più svariate esperienze creative e di diversi apporti di giovani intellettuali provenienti da tutta Italia, soprattutto dalle regioni del Sud.I festeggiamenti per i 50 anni del DAMS | Zero

Un’assemblea al DAMS (in primo piano Umberto Eco e Luigi Squarzina)

Ma gli anni ’70 sono anche anni in cui il dibattito, pur feroce, esploso nella rivolta studentesca, sfocerà negli “anni di piombo” con l’eversione di frange extraparlamentari sia di destra che di sinistra e che troveranno nel rapimento ed uccisione di Aldo Moro (parlamentare della Democrazia Cristiana) e nell’attentato alla Stazione di Bologna i punti estremi di quella strategia della tensione e della lotta armata che caratterizzeranno quel decennio.
Insomma, per quegli anni «teniamo buona la qualifica di “anni di piombo”, che vale se non altro a conservare memoria di quell’inaudito sbocco di sangue. Anche se, per equità, sarebbero Piombo e Tritolo (prima il tritolo, in ordine di apparizione) i materiali simbolici del periodo. Ma l’applicazione della pena di morte da parte di bande di superbi (“superbi” è l’aggettivo, secondo me di mirabile precisione, adoperato dal professor Enrico Fenzi per definire il fondamentale vizio umano del terrorismo rosso, nel quale aveva militato) non racconta dei Settanta, che l’aspetto più macroscopico e più mediatico. Quello che produceva i titoli cubitali, magari offuscando il resto e quasi tutto il resto.
(…)
La straordinaria energia artistica di quel periodo trasportò dentro la cultura di massa prodotti fino allora di fronda o di cantina, come la canzone d’autore. Non solo la letteratura, il teatro, il cinema, la grafica, il fumetto, i festival di poesia: fu la socialità nel suo complesso a vivere una stagione febbrile e creatrice nella quale sperimentare a tutti i costi – anche nei costumi sessuali – fu certamente anche un vezzo e una moda; e generò non pochi fenomeni di vero e proprio kitsch “di sinistra”; però dava voce e corpo a un’irrequietezza culturale e politica che si respirava a pieni polmoni, ovunque fino a stordirsi. Il contagio era ingovernabile, trascinava “fuori casa”, sconsigliava la pigrizia, quasi obbligava a confrontarsi con abitudini, scenari, costumi inediti. Tra i quali il consumo di droghe prese la mano a molti: tra le stragi del decennio quello dell’eroina è ricordata poco e male ma lo contraddistinse, nel male e nel dolore, tanto quanto la violenza politica» (Michele Serra)Andrea Pazienza al PAFF! in un monologo disegnato con Andrea Santanastaso | PAFF!

Andrea Pazienza

E’ questo l’humus culturale che respirò Pier Vittorio Tondelli nella Bologna degli anni Settanta, la voglia di sperimentare che coinvolse, appunto, la musica, con gli Skiantos di Freak Antoni, il fumetto con i disegni e le storie di Andrea Pazienza e con i racconti raccolti nella sua opera prima Altri libertini. 

Altri libertini esce per i tipi Feltrinelli nel 1980 con la definizione di romanzo. Infatti nonostante fosse composto da sei racconti, lo stesso Tondelli li inquadra come sei episodi di una stessa vicenda, in cui si racconta (con richiami interni) la vita di diversi giovani che, in un periodo completamente “post”, post moderno, (nato con il Nome della rosa di Eco, pubblicato nello stesso anno), post anni di piombo, post ideologie sembrano cercare una nuova identità nella nullificazione di se stessi attraverso l’eroina, il sesso e l’idea utopica di un’altrove.

LN- ALTRI LIBERTINI - PIER VITTORIO TONDELLI - FELTRINELLI --- 1980 - – lettoriletto

Edizione originale di Altri libertini

NELLA SOFFITTA DELL’ANNACARLA

La notte la facciamo poi dall’Annacarla, nella sua soffitta di Piazza Bonifazio Asioli dove in questi anni ci si e sempre ritrovati a tirar mattino tanto da farla diventare un’istituzione del giro nostro, un po’ come lo Sporting. E in quelle stanze piene di spot arancioni e paralumi violacei è successo un po’ di tutto e non c’è nessun fricchettino che sia passato da queste parti che non abbia trovato ospitalita tra gli Oscar Mondadori sparsi qua e la e tutt’intera la collezione dei Classici dell’Arte Rizzoli impilata come pronta alla rivendita tra la collana grigiobianca di Psicologia e Psicoanalisi di Feltrinelli, gli Strumenti Critici Einaudiani e quelli di Marsilio e di Savelli un po’ bistrattati in seconda fila accanto alle Edizioni Mediterranee e alia Biblioteca Blu e ai Centopagine e ai rari Squilibri, troppo pericolosamente accanto agli Adelphi e ai Guanda civettosamente sparsi accanto ai beveraggi; e non c’è stato nessun precario capitato quaggiù a settembre a vendemmiare che non si sia stonato di tutti quegli incensi Made in India sempre accesi e sparsi, dai secchissimi bastoncini Musk di Lord Shiva agli aromi primaverili dei Bouquet dei Three Birds e a quelli Agarbatti cioé Jasmine, Patchouly, Rose, Amber, Violet, Chameli, Lotus, Mogra e quegli altri cofanetti sparsi del Panda Brand Incense ancora Ambergris e Jasmine, eppoi Sandal Wood e Cypre vicini quasi a confondersi coi sottilissimi Meigui Xiang, Tan Xiang, Tisian Tsang altri bastoncini fragili e sottili e puzzolenti anche dalle loro scatole cellophanate come quelli impastati al talco, i tibetani Wing Tun Fook pestilenziali davvero, insomma non c’è stato nessuno che una volta uscito da quelle stanze coi bracieri accesi senza soluzione di continuità non abbia stramaledetto quegli odori, così come non c’è stato nessun intellettuale della nostra provincia che qui non sia venuto a rovistare fra le centinaia di dischi e la selva dei posters e manifesti e gigantografie accatastate e usate come seggiole, oppure appesi alle pareti assieme alle sete e ai tappetini di cammello, come la foto di Carlos e Smith ancora riconoscibili all’Azteca di Città del Messico col pugno alzato e guantato di nero sul podio della premiazione, un gagliardetto delI’UCLA accanto a Mark Frechette e Daria Halprin spersi nel boro di Zabriskie Point e appena distinguibili sotto altri manifesti i capelli zazzeruti di Pierre Clementi nei Cannibali di Liliana Cavani, il viso spigoloso di Murray Head a confronto col pacato Peter Finch in Sunday, Bloody Sunday e appena la scritta Al Pacino in Panico a Needle Park e un guantone di Fat City e la città frontiera di The Last Picture Show, il ciuffo di Yves Beneyton nei Pugni in Tasca, quello di Giulio Brogi in La Città del Sole, Sotto il segno dello Scorpione, l’Invenzione di Morel e anche una foto di scena di John Mulder Brown che abbraccia la sagoma di Jane Asher nella piscina di Deep End e un’altra di Taking Off, una di Joe Hill, una delle Quattro Notti di un Sognatore che lambisce il viso di Hiram Keller nel Satyricon di Fellini che un po’ si confonde con le locandine del Fantasma del Palcoscenico e quelle di The Rocky Horror Picture Show e sopra due disegni di Ronald Tolkien comprati da Foyles dignitosamente rivestiti di vetro come il piccolo Escher e le fotografie che riempiono tuttaquanta la parete e per la maggior parte autografate come quella di Francesco Guccini, di Peter Gabriel, di Marco Ferreri ritratto per le giornate del cinema italiano il due di settembre del settantatré, Annacarla coi capelli sciolti e le spalle nude, Ferreri con una camicia bordata di pizzo sul davanti e poi ritratti scattati qua e là a convegni e simposi e seminari e convivi, giornate rassegne e dibattiti a cui nessuno in questi anni si è sottratto… così nella mansarda ci prepariamo a far un cenone che qualcuno ha portato una stecca di fumo da Bologna e non bisogna mica farla invecchiare quella roba.

E’ una pagina dell’episodio che dà il titolo al libro ed è indicativa perché ci indica come la prosa di Tondelli, così accumulativa, sia in parte completamente diversa da quella tipica delle narrazioni “tradizionali”: il suo modo di scrivere è infatti fatto di paratassi e soprattutto sostantivato, costruito su oggetti e nomi di persone più che di azioni espresse da verbi, ma che inoltre ci dà le suggestioni letterarie tipiche di  quella generazione.

E’ evidente che tali suggestioni siano le stesse dell’autore, anche se appare chiaro che, per ammissione dello stesso autore, ci siano gli americani Kerouac, Bukowski e Burroughs, nonché gli immancabili Ferlinghetti e Corso, autori obbliganti in quegli anni; ma è altrettanto evidente come il nostro senta il ritmo narrativo, nonché tematico di Hubert Selby, cantore americano degli emarginati della società americana, come appare in questa pagina, la cui scrittura ha certamente evocato l’autore di Correggio:Autostrada A10, in arrivo due weekend di passione: da Genova a Savona bisognerà passare da Masone o fare l'Aurelia - IVG.it

VIAGGIO

Notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade d’Emilia a spolmonare quel che ho dentro, notte solitaria e vagabonda a pensierare in auto verso la prateria, lasciare che le storie riempiano la testa che così poi si riposa, come stare sulle piazze a spiare la gente che passeggia e fa salotto e guarda in aria, tante fantasie una sopra e sotto all’altra, però non s’affatica nulla. Correre allora, la macchina va dove vuole, svolta su e giù dalla via Emilia incontro alle colline e alle montagne oppure verso i fiumi e le bonifiche e i canneti. Poi tra Reggio e Parma lasciare andare il tiramento di testa e provare a indovinare il numero dei bar, compresi quelli all’interno delle discoteche e dei dancing all’aperto ora che è agosto e hanno alzato persino le verande per godersi meglio le zanzare e il puzzo della campagna grassa e concimata. Lungo la via Emilia ne incontro le indicazioni luminose e intermittenti, i parcheggi ampi e infine le strutture di cemento e neon violacei e spot arancioni e grandifari allo iodio che si alzano dritti e oscillano avanti e indietro così che i coni di luce si intrecciano alti nel cielo e pare allora di stare a Broadway o nel Sunset Boulevard in una notte di quelle buone con dive magnati produttori e grandi miti. Ne immagino ventuno ma prima di entrare in Parma sono già trentatré, la scommessa va a puttane, pazienza, in fondo non importa granché.

L’incipit con quell’ipallage, i verbi all’infinito ad indicare spazio, campi semantici che contrastano “raminga, fuggitiva, vagabonda e riempire” “stare, spiare, lasciare”, per concludere con quel “però” con valore deduttivo che indica un senso di apatia, di abbandono verso un altrove irraggiungibile, concluso con un “nulla” certamente più suggestivo di un “niente”.

Il tutto condito con una prosa il cui ritmo segue i fili del discorso del narratore che sembra richiamare più una partitura musicale di tipo jazzato, il cui finale sembra spegnersi in un assolo, che rimanda a un non so che di malinconico con quel “la scommessa va a puttane, pazienza, in fondo non importa granché”: assolo che si spegne, smorzandosi, in un silenzio assoluto.Forever young: una guida all'opera di Pier Vittorio Tondelli a 30 anni dalla morte

Il libro fu sequestrato per oscenità, per poi essere assolto, ma ciò (come sempre) esercitò una maggiore capacità di divulgazione: qualcuno parlò di semplice libro generazionale, ma ci furono anche lettori più attenti che ne individuarono le novità stilistiche e narrative. Certo alcune scene potevano certamente risultare disturbanti, come in Postoristoro, dove un ragazzo viene masturbato per trovare una vena per iniettarsi l’eroina, ma, al di là del fatto che erano situazioni che realmente accadevano e che denunciavano come la generazione degli anni Ottanta si stesse perdendo, il modo in cui venivano descritte lo riscattavano, trasformando il dato cronachistico in letteratura, in quanto mescolava linguaggio crudo, osceno, con espressioni dialettali o con espressione liriche, tutte risolte attraverso lo sguardo attento (e forse “innocente”) dell’autore stesso.

Il successo del libro, convinse la casa editrice a pubblicare un testo, già in parte “anticipato” nelle pagine de “Il Resto Del Carlino” che aveva chiesto all’autore di descrivere un anno di servizio militare. Nascono così dieci episodi col titolo Diario del soldato Acci che, insieme alle prose Affari militari farà parte del progetto un Weekend Postmoderno.Vita di leva, quando era d'obbligo il servizio militare - Corriere.it

Prima di parlare del romanzo, è necessario fare una precisazione: il servizio militare, più precisamente detto coscrizione obbligatoria di una classe, venne istituito sin dal 1861 e venne abrogato solamente nel 2004. Ciò significa che tutti i ragazzi, all’incirca dai diciotto ai venticinque anni, a seconda degl’impegni studenteschi, dedicavano all’incirca 12 mesi della loro gioventù alla patria.

PAO PAO, (ripetizione dell’acronimo che sta per Picchetto Armato Ordinario), pubblicato nell’ottobre del 1982, racconta infatti la storia, certamente autobiografica, dello stesso Tondelli il quale svolse l’obbligo militare nel 1981.

.Amazon - Pao Pao. : TONDELLI Pier Vittorio -: Libri

Copertina dell’edizione originale

L’INCIPIT

Ma Renzu, il mio grande amico Renzu, lo rivedo dunque per l’ultima volta in una parata primaverile di granatieri a Roma, a quasi un anno da quel nostro primo e gelido inizio di servizio militare su alla rupe di Orvieto, fine aprile dell’ottanta o giù di lì, ma ancora un vento gelido e sferzante spazzava la piazza d’armi mentre i ragazzi marciavano e correvano, i ferrei granatieri, i prodi artiglieri e i piccoli e saettanti bersaglieri che incontravo ogni giorno all’infermeria con vescicacce aperte e contusioni ai piedi per via di quegli anfibi così rigidi e appunto così militareschi che dovevano calzare come scarpettine da danzatrici e batterci sopra i ritmi e la grancassa come proprio allievi del Bolscioj.

LA FINE

Io sono lì nel piazzale, in piedi sul muricciolo sotto le palme, i camion mi sfilano davanti e io mi sbraccio e grido Renzu, Renzu e finalmente vedo l’Agi Carcassai che fa un versaccio e grida il di me nome come un indemoniato. Ma Renzu non lo scorgo, proprio non gliela faccio, so che c’è ma come distinguerlo fra altre centinaia simili in tutto a lui? Poi finalmente la banda prende a suonare la marcia dei granatieri, i ragazzi in costume storico sfilano come tanti tableaux vivants, davanti quelli del Seicento, poi quelli napoleonici, poi quelli del regno e così via. Allora corro verso l’uscita e mi arrampico sul muro del Castro lungo il viale e lì li vedo sfilare tutti, proprio tutti, finché nel plotone in fondo non scorgo Renzu, impassibile, sudato, lo sguardo dritto, la mascella serrata, le mani inguantate e rattrappite sul fucile, il suo passo cadenzato. Ma lui non può scorgermi. Così corro avanti fino a Piazza Esedra fra i passanti esultanti e scolaresche vocianti e il fiume dei reduci che mi travolge fra alamari di stoffa biancorossi e visi vecchi e storpi e gridamenti e tutti lì ad applaudire ed acclamare i prodi granatieri, gli autobus fermi sotto il sole, i taxi che suonano i clacson, la gente che guarda e s’affolla prima di qua e dopo di là e a questo punto uno mi mette una mano sulle spalle e dice più o meno ehi ehi che felice rivederti, ed io mi volto ed è quell’odiosissimo tenente Stravella con il capitano di Orvieto e allora sono infognato lì con loro a parlottare, ma intanto la parata si snoda e già sta per scendere per via Nazionale tutta indrappeggiata con striscioni e coccarde patriottiche e sempre la gente che esulta e acclama, gruppi di reduci già imbriachi che si trascinano abbracciati fra un bar e l’altro e hanno ricamate sul giubbetto tutte le battaglie e le spedizioni che han fatto e medaglie e medagliette e fregi sui baschi come dei goliardi, ma io sono lì intrigato con questi due e non gliela faccio a smollarmi finché non approfitto di una loro distrazione e scappo via, ma Renzu, il grande amico Renzu non si accorgerà di me finché quasi non lo sfiorerò con un versaccio e allora lui finalmente volterà un attimo il viso al mio indirizzo e io salterò sulle teste delle persone e correrò fra le transenne e mi sbraccerò gettando il basco in aria e lui nient’altro farà che una smorfia trattenuta e raggelata, lì in prima fila del suo plotone, al centro, ecco Renzu che mostra il pregio della sua razza marchigiana, il Renzu dello Champagne fregato a Orvieto e delle canne e delle sbronze per le stradine della rupe, il Renzu dei seggi elettorali, il Renzu che saltava davanti al duomo cantando il mio nome con quel suo sound preziosissimo che non ho più sentito, mai più, il Renzu ora inquadrato che non può parlare né muoversi lì intruppato e incastrato da far paura e io che continuo a chiamare il suo nome correndo giù per Via Nazionale passando davanti a Grandelele a Miguel e Beaujean e tutti gli altri che sfilano e marciano e battono il tempo della grancassa, e gli grido sto bene caro Renzu e fatti vivo e lui storcerà gli occhi, solo quelli e finalmente i nostri sguardi si incontreranno per un attimo fra la folla e sarà come ci fossimo detti mille cose e io riderò a quello sguardo e m’illuminerò a quel suo bagliore, Renzu che spinge le pupille nell’angolo dell’occhio e mi incontra e io prenderò a gridare di nuovo spingendomi fra la gente e le donne e i turisti e i marocchini, mi farò largo in quella calca di persone che strepitano e applaudono e sorridono, ma Renzu non potrà dir niente, manco una parola, manco un saluto con le mani o un gesto di bocca, segnerà il passo e alzerà il fucile davanti alle autorità, ma dirà niente, solo la grancassa che strabatte la marcia e la mia voce Renzu, Renzu che si smorza infine nel caos di Piazza Venezia stracolma di auto e di gente.

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I due passi mostrano come la struttura del romanzo sia circolare, inizia con lo stesso personaggio e la stessa immagine con il quale finisce; nel mezzo la storia che Tondelli definisce “sentimentale” di un gruppo di giovanotti costretti a convivere in una caserma, cercando un senso verso un’istituzione che certamente tale senso aveva totalmente perduto.

Ciò fa del romanzo un Bildungsroman (romanzo di formazione), in cui i protagonisti (è un romanzo corale, in cui l’io narrante vive e pensa in relazione a tutti gli altri) cercano spazi di libertà in un ambiente che li nega. Il fatto è che tale spazi di libertà non sono solamente descritti come ricerche centrifughe che allontanano i ragazzi dal centro (la caserma) verso luoghi “diversi”, ma anche come capovolgimento della morale “patriottica” in cui il sesso e l’amore raccontato è quasi esclusivamente gay, accompagnato da ubriacature, canne e romanticismo a iosa.

A salvare il tutto è che Tondelli evita di fare un romanzo solo ed esclusivamente basato sui sentimenti, che in qualche modo lo avrebbe eccessivamente “carattetizzato”: il suo modo di descrivere mescola vari registri stilistici, per cui, anche se nell’ultima pagina tale pericolo vi corre, il modo in cui descrive il suo incontro con Renzu, il suo sbracciare e la “rigidezza coatta” di Renzu, lo rendono straniante, sottolineato dall’espressione “lui storcerà lo sguardo” e da quello splendido finale in cui Renzu si perde nel caos e nella folla di Piazza Venezia.

Ciò ci conduce ad un ultima osservazione: nella seconda parte del romanzo, concluso il CAR (Centro Addestramento Reclute) ad Orvieto e spostato alla caserma Macao vicino a Termini, Roma, con le sue piazze, le sue trattorie, i luoghi degli incontri gay, la spiaggia di Ostia, diventa a sua volta protagonista, in quanto ciò che avviene nel romanzo non può che avvenire perché è lì che avviene. 

TRA PARENTESI

– (Ma è tutto già successo, e succederà di nuovo quella sera in cui non sentii i Weather Report giù al Palazzetto di Roma per il loro concerto che invece attendevo da mesi, serata davvero memorabile sotto il cielo molto Star Wars della capitale con i Boeing colorati che solcavano il blu intenso e le stelle planetarie che si muovevano – ne sono certo – e traballavano attorno ai loro sistemi, la sera in cui non feci quello che dovevo fare o quello che avevo programmato trovando un’insana soddisfazione a lasciarmi solo in un bettolaio stracolmo di turisti a buttar dentro il terzo litro di birra – e non sarebbe stato l’ultimo – quella tiepida sera in cui vagavo fra Trastevere e Campo de’ Fiori confuso in mezzo ai turisti e ai soldati in libera uscita e alle coppiette mercenarie di Ponte Sisto che mi guardavano vogliose perché quelli erano tempi in cui potevo far girare la testa a chiunque, erano i tempi del successo e della voglia di stare al mondo, i tempi supremi del mio egoismo che mi permetteva di star a mio agio con tutti, con i coatti del Circo Massimo, i negri di Termini, i battoni dei Cinquecento, i punkettari di S.S. Apostoli, gli intellettuali dei salotti, i cinematografari delle terrazze, be’ quella sera nutrivo una brutta storia dentro come una bestia che mi rodeva e mi faceva pensare e metteva tutto sossopra con macabri pensieri di morte per cui decisi che non mi sarei fatto vedere dove mi si aspettava poiché tanto la mia immagine era già là e già sapevo come sarebbe andata a finire, insomma la noia forsanche la malinconia accidiosa di dire tutto è sempre uguale e simile a se stesso da che mondo e mondo e invece io ho paura come fossi il primo uomo, quella sera così pericolosamente incline a un suicidio bevuto e cinico che per fortuna o puro caso talmente era evidente che non sfiorò neppure il nervo più scoperto, quella sera bighellona e vagabonda e ubriaca e meditabonda sull’acqua limacciosa del Tevere, ecco quella sera incontrai a Piazza Argentina, miracolosamente incontrai il vecchio compagno di università Gabriele, a Roma per il corso nella Guardia di Finanza, e lo trascinai sotto un albero del lungotevere e gli dissi quel che tutta sera stavo dicendo a me, ho vent’anni ed è ora che capisca come va il mondo, e lui avrebbe raccontato di tutti i suoi sfasamenti di caserma e aggiunto: è tutto un problema che noi siamo cariche affettive che vanno e girano e s’attaccano dove s’attaccano senza possibilità di spiegazione, insomma quel che sta succedendo o ci succederà non puoi né spiegarlo né prevederlo, tutto meno che la morte. E io allora al quarto litro di schifosissima e pisciatissima birra avrei come un pezzente vomitato giù dall’argine e avrei detto non mi piace come vanno le storie della gente, nemmeno la mia, è come se tutto fosse troppo piccolo e racchiuso quando invece sento il mio cervello partire e volare e alzarsi mio dio fin verso quell’oltre che non posso dire, non so, ma che ci sto a fare qui dove il Tempo m’insegue e mi bracca e non sono più io sempre diverso da un attimo all’altro e mi dimentico, mi dimentico, le cose che cambiano, i muri, i cieli che s’illuminano, qual è la nostra vera storia? E Gabriele avrebbe poi accompagnato il di me fantoccio in albergo e buttato su letto, avrebbe solo detto passerà, quel che c’è di buono in tutto quello che provi è che domani nient’altro rimarrà che una cicatrice suturata di quel che provi, che si riaprirà e si richiuderà fino alla fine così come le ore si aprono e si chiudono una nell’altra poiché il Tempo ti ammazza, questo è certo, ma anche ti salva. Sarà allora in quella sera scazzata in cui il terrore della mia consapevolezza al mondo quasi quasi era giunto ad abbattermi come una bestia al macello, sarà in quella notte che deciderò di non aprire più parentesi nella mia vita senza la certezza di poterle chiudere, di non spingere più con le droghe il mio cervello in un tempo vuoto dal quale non si torna indietro se non con una sola ineliminabile certezza, che io non sei tu, non lo sei mai stato e non lo sarai mai, solo un sacco di sangue marcio che va al diavolo…) –

Ed il pensiero si fa pagina, lo scorrere di pensieri e rimpianti diventa letteratura in un fluire di parole che scorrono, con pochissime pause (tre punti fermi ed un interrogativa) che non vogliono fermare, ma far riprendere fiato in un ricordo vissuto/vissuta un’assenza, il cui tema è infatti un non esserci, scandito dall’anafora di quella sera in cui non…La caserma Castro Pretorio

Caserma di Castro Pretorio dove è ambientato il romanzo

Il terzo romanzo, dopo l’esperienza teatrale di Dinner Party del 1984, è Rimini, che potremo anticiparlo con un piccolo estratto tratto da un Weekend Postmoderno, intitolato Adriatico kitsch, scritto nel 1982:

E’ dunque questa della riviera adriatica una cosmogonia estiva e ferragostana della libido nazionalpopolare che, a dispetto dei decenni, delle mode e delle recessioni, persiste, più o meno intatta, nel costume e nelle manie della nostra gente, per cui ancora una volta sul fianco destro delle patrie sponde s’inscena la sfilata del desiderio in un missaggio di antiche forme e nuovissime attitudine, insomma ecco in breve qualche nota dalla riviera postmoderna.

Rimini - Pier Vittorio Tondelli - Italian fiction - Storytelling - Library - dimanoinmano.it

Per la prima volta Tondelli cessa con una sorta di autobiografismo, sia esso generazionale che ideologico, per raccontare una storia, fatte di diverse storie, quasi a voler dimostrare a se stesso di saper “raccontare” e dar vita ad una narrazione: scommessa (certamente vinta) ma non facile, perché il vero protagonista è la città romagnola e la varia umanità che entra in questo divertimentificio. Vi sono diverse storie, infatti, che camminano tra loro, talvolta sfiorandosi, talaltra svolte in modo autonomo senza incontrarsi. Le storie principali sono:

1) Marco Bauer e Susy e la storia gialla
2) Bruno May e il suo amore per Aelred e il romanzo da scrivere
3) Robby e Tony e il finanziamento per un film da fare
4) Beatrix e Claudia e un riavvicinamento sororale
5) Alberto e Milvia, un amore vero, ma clandestino

Marco Bauer (l’unico a cui l’autore dà la possibilità di raccontarsi, essendo un personaggio autodiegetico) viene nominato direttore de La pagina dell’Adriatico e incontra la piccola redazione, composta da Susanna Borgosanti, Romolo Zanetti, il giovane Guglielmo ed il fotografo Johnny.

MARCO BAUER

«Sono Romolo Zanetti», disse, con un breve sorriso di cortesia. «Faccio il corrispondente qui da vent’anni».
Ci stringemmo la mano. Mi fece entrare per primo.
La redazione era composta di tre stanze, più un bagno e un cucinotto. Nella sala grande stavano tre scrivanie, un grande divano addossato a una parete ingombra di riproduzioni di stampe antiche, due poltrone su cui erano appoggiate riviste e quotidiani senza nessun ordine apparente, un buffet con vetrinette colmo di bottiglie, un lampadario a gocce, due finestre e una porta-finestra da cui si passava per raggiungere il balcone affacciato sul Corso.
«Le piace?» chiese Zanetti, avvicinandosi al buffet e prendendo due bicchieri.
«Sì, mi piace,» risposi perplesso.
Offrì del porto e mi spinse, con gentile premura, verso una seconda sala in cui stavano due telecopy collegati con Milano. Alla fine mi fece entrare nel suo ufficio arredato come un vero e proprio studio.
«E qui che vengo a scrivere i miei saggetti», disse compiaciuto.
«Quali saggetti?»
«Mi interesso di storia antica, sa? Prenda pure». Mi consegnò una pubblicazione di una trentina di pagine stampata da una tipografia di Rimini. Lessi il titolo. Si trattava di uno studio condotto sull’iscrizione di una lapide funeraria romana. Ringraziai Zanetti e spinsi l’opuscolo nella tasca della giacca. Tornammo nel salone. Mi misi a girare per la sala guardando le riviste impilate, i tavoli, le macchine da scrivere. C’era ovunque molta polvere. Il tappeto, per esempio, non sembrava battuto da un secolo.
«Non si preoccupi», disse Zanetti che si era accorto delle smorfie. «La donna delle pulizie è venuta soltanto ieri. Per riaprire la stanza. Ma tornerà».

«Riaprire?»
«D’inverno sono il solo che lavora, qua dentro. Sto nel mio studio. Qui ricevo una qualche visita. Interviste di prestigio, capisce?»

Annuii.
«Lo scorso inverno non è successo nulla», disse rassegnato. Sì palpeggiò la gola. I suoi modi erano vagamente untuosi, la sua voce, al contrario, simpatica. Portava un paio di occhiali con lenti a mezza luna che si toglieva e metteva in continuazione. Aveva i capelli brizzolati, corti e curati in modo maniacale nel taglio sopra le orecchie e sulla nuca. Non c’era un pelo di troppo. Era grasso e la sua pancia generosa esplodeva dalle fettucce delle bretelle tirate. Indossava un completo beige e non portava cravatta.
«Vuol forse dirmi che il porto è stato aperto due anni fa?»

Zanetti tossì. In quel preciso momento suonò il telefono.
Mi avventai al ricevitore. «Sì?»
«Romolo! Sono… Chi parla?» Era la voce di una ragazza. Una voce sensuale e calda.
«Bauer».
«Ah, è già arrivato?»
«Eravamo d’accordo per la mezza, signorina Borgosanti», dissi gelido, guardando Zanetti. Abbassò gli occhi come fosse colpa sua.
«Telefonavo per avvertire… Fra dieci minuti sarò lì.»

«La aspettiamo».
Zanetti si avvicinò. «E’ una brava ragazza. Sono tre anni che lavora qui d’estate. E’ molto intraprendente».
Era un complimento? «Talmente tanto che non sta qui», dissi.
«Quello è il suo tavolo».Indicò la scrivania verso la finestra.
«Perché il ‘suo’?»
«Per via della sedia», disse sottovoce quasi confidasse segreto.
Mi venne da ridere. «La sedia?»
Il corrispondente raggiunse il tavolo e scostò la sedia. Cristo, non era una sedia, era una poltroncina Luigi XV con il tessuto ad arazzo e una scena di passeggio cittadino nell’ovale dello schienale e tanti ghirigori sulle zampette e sui braccioli! Avevo voglia di bestemmiare. Quella cretina s’era addirittura portata la poltrona come i generali sul campo di battaglia. Zanetti mi invitò a provarla. «E’ per via della schiena. Susy è a disagio con quelle altre», disse Zanetti, con l’aria di voler aggiustare qualcosa.
«Certamente. E a che ora prendete il tè, qui?» Lo guardai con aria di sfida. Parve offendersi. Ritrasse improvvisamente le dita dal bracciolo che stava accarezzando.
«Com’è che gli altri praticanti non sono qui?» dissi.

«Ne abbiamo uno solo. Arriverà a luglio».
«Santiddio!» urlai. «Me ne hanno promessi due. Vogliono ingrandire, alzare la tiratura, allargarsi e mi danno una principessa del pisello e un diavolo di praticante! Non stiamo lavorando al supplemento di un giornale letterario letto da qualche marchesa. Stiamo facendo una professione moderna, dinamica, veloce. Non voglio avere l’impressione di lavorare a
un giornale rococò. O al foglio della Deputazione di Storia Patria! Molte cose cambieranno, qui dentro, glielo assicuro».
«Potrà cambiare quello che vuole, Bauer. Ma non la mia sedia».
Mi voltai. Era lì che si stava togliendo la giacchetta gettandola distrattamente sul divano. Era la principessa e che razza principessa. Aveva capelli neri, occhi neri, pelle abbronzata, paio di gambe affusolate inguantate in calze trasparenti, nere, scarpe col tacco alto anch’esse nere. E una camicetta senza maniche di seta bianca che lasciava indovinare un paio di tette da schianto, ritte e dai grandi capezzoli scuri.
«Mi chiamo Susanna Borgosanti», disse la fata. Era una favola, una bellissima favola.
«Ciao, Susy» fece Zanetti.
Mi avvicinai per stringerle la mano. La porse lentamente un gesto dinoccolato. «Molto piacere», soffiò guardandomi dura negli occhi.
«Sono contento che lei sia arrivata. Stavo facendo rilevare alcune questioni a Zanetti». Mi arrestai. «Vorrei fare una riunione e vorrei anche il marmocchio. E’ possibile?»
«E’ possibile», disse lei.
«Alle diciotto?»
«Certo. Alle diciotto».
«Allora a stasera. Ah, dimenticavo. Voglio anche il fotografo. Provvederò io stesso ai beveraggi, non disturbatevi». E uscii.

(…)
«Ecco come intendo organizzare il nostro lavoro», dissi alzandomi in piedi e posando il bicchiere vuoto su una scrivania. Eravamo nella sala grande della redazione da una ventina di minuti circa. Erano le sei e mezza del pomeriggio. Avevo portato con me un paio di bottiglie di scotch e qualche bibita da allungare per sbloccare un poco la tensione che immaginavo alta. Almeno per quanto mi riguardava. Zanetti era seduto sul divano di fianco a Susy e mi guardava con una nota di apprensione. Ogni tanto Susy si infilava le dita fra i capelli, formava un ricciolo e lo stuzzicava tenendo gli occhi bassi. Il moccioso invece ci dava dentro con lo scotch. Si chiamava Guglielmo, aveva l’aria sveglia e mi piaceva. Aveva detto che la sua massima aspirazione era diventare cronista. Lui stesso giocava in una squadra di rugby. Aveva un buon fisico e reggeva bene l’alcool: le prime qualità che si chiedono a un buon giornalista. Di questo fui contento. Sapevo che avrei potuto fidarmi di lui. Il fotografo invece era un ragazzone attorno ai quaranta, del tutto calvo sul cranio ma con due sbuffi di capelli arruffati che gli scendevamo da sopra le orecchie e dalla nuca. Aveva un paio di baffi prodigiosi, foltissimi e neri. Gli occhi piccoli, gonfi, dalle pupille cerulee erano incassati nel volto come se qualcuno glieli avesse cacciati indietro. In realtà tutto il suo viso aveva una espressione bastonata e schiacciata come il grugno di un mastino. Era grasso, tozzo, con piccole mani cicciottelle. Portava anelli di fattura grossolana a entrambi i mignoli e una pesante catena d’oro pendeva al centro del petto premendo contro i peli del torace. Indossava una camicia nera aperta fino all’ombelico e un paio di jeans stracciati e scampanati in fondo. Ai piedi un paio di scarpe da tennis con un buco in coincidenza dell’alluce destro; ma anche quello di sinistra premeva e tendeva la tela per far capolino. Cosa che sarebbe avvenuta presumibilmente entro un paio di giorni. O forse, quella sera stessa.
«Innanzitutto vorrei che qui ci organizzassimo come in una redazione centrale. L’unica differenza sarà che ognuno di noi diverrà l’unico responsabile del proprio settore e non riceverà nessun altro aiuto se non da se stesso». Andai con gli occhi sui loro visi. Erano attenti e tesi. «La Pagina dell’Adriatico», proseguii, «svolge soprattutto un servizio di cronaca. Per questo non sorgono molti problemi se non quello di distribuirci bene le fonti di informazione e i settori di intervento. Ma la Pagina dell’Adriatico vuole anche essere qualcosa di più e di meglio. Vuole offrire un servizio di informazione completa non soltanto su quel che succede ma anche su tutto ciò che è nell’aria. Inoltre, essendo un giornale popolare, dovremo assolvere a una funzione di intrattenimento. Il lettore deve sentire anche dal proprio giornale che è in vacanza, che ha tempo da dedicare a se stesso e al proprio divertimento. Potenzieremo le rubriche quotidiane di consigli e suggerimenti per la vacanza. Daremo questi consigli e nello stesso tempo gli offriremo il modo per tenersi informato senza annoiarsi».
Feci una pausa e mi versai un goccio di scotch. Stavo andando bene, benché parlassi a braccio. Mi stavano seguendo con attenzione. Non era ancora fiducia, ma attenzione, sì. Solamente il fotografo rollava distrattamente una sigaretta col tabacco olandese.

«Ecco il piano», ripresi. «Il nostro corrispondente ufficiale, lei, Zanetti, si occuperà della cronaca giudiziaria, di quella nera e, se sarà il caso, di quella gialla. Questo perché Zanetti già conosce, ed è conosciuto, da tutte le fonti indispensabili a questo genere di informazioni: carabinieri, questura, commissariati di zona, procure. Non credo, d’altra parte, che avrà molto lavoro in questo periodo di vacanza. Quindi a lui spetteranno anche i rapporti con gli enti pubblici, in particolare con l’Azienda di Soggiorno e con gli uffici turistici delle varie municipalità costiere. Le, sta bene?»
Zanetti trasse un profondo sospiro. Si palpeggiò la gola, «Questo fa già parte del mio lavoro», sottolineò.

«E’ per questo che continuerà a farlo. Ma lo farà, se possibile, in modo nuovo, più svelto e più sbrigativo. Mi bastano le notizie. Non voglio i commenti. Abbiamo poco spazio e dovremo sfruttarlo al meglio».
Parve rassicurato. Quando attaccai con Susy, la sua espressione divenne quasi felice. Sapevo il perché. Per il momento non lo avevo estromesso dal suo studiolo.
«Per quanto riguarda te, Susy, ti occuperai della cronaca rosa, della cultura e dello spettacolo. Questo perché voglio che tu copra tutti gli avvenimenti con lo stesso stile. Non mi interessa se ci sarà un concerto di Schönberg o uno di Mick Jagger. Voglio sapere dove alloggiano il direttore d’orchestra o il cantante. Voglio il loro parere sulla Riviera e non sulla loro musica. Voglio sapere cosa mangiano prima o dopo il concerto. E’, sufficientemente chiaro?»
«Vuoi scandali o semplicemente pettegolezzi?»
«Oh, no, mia cara», dissi, fingendo di ridere. «Voglio semplicemente alzare la tiratura».
«Tutto qui?»

«Avrai tre rubriche quotidiane: moda, salute, gastronomia».
Susy rise apertamente. Era la prima volta che lo faceva da quando l’avevo conosciuta, qualche ora prima. Rise spingendo avanti la bocca e aprendo le labbra in modo da spalancare la visione dei denti bianchissimi e serrati. Il suono della risata aveva qualcosa di estremamente infantile. Si arrotolava su se stesso per riprendere poi più squillante. Solamente nel momento in cui portò con eleganza le dita contro le labbra – qualche secondo più tardi – parve placarsi. «Mi devi scusare», disse, «ma non ho nessuna intenzione di sgobbare tanto su queste sciocchezze».
«Se sono sciocchezze non ti costeranno fatica», risposi appoggiandomi al ripiano della scrivania. «E poi, come saprai, queste cose
sono il giornale».
Ci fu qualche attimo di silenzio imbarazzato. Il fotografo tossì ripetutamente e si versò un po’ di aranciata.
«E per me?» intervenne Guglielmo. Si stropicciava le dita nervosamente. Restavano pochi settori ancora da coprire e già intuiva, con apprensione, quale sarebbe stato il suo.
«Ti occuperai di giovani e di sport. Tornei cittadini, gare di bocce, maratone di paese, vela, wind-surf, tornei di pesca, competizioni per la costruzione di castelli di sabbia, pugilato, basket, minigolf. Tutto. Ogni giorno voglio almeno cinque servizi di sport. Non ha importanza di quale sport si tratti, ma li voglio. Non dovrai preoccuparti per la lunghezza: dal semplice trafiletto alla cartella e mezzo. Mai di più. E anche interviste agli atleti, dal semplice turista che fa la gara di nuoto al campione arrivato qui per un torneo importante. Abbiamo da queste parti l’autodromo di Misano e l’ippodromo di Cesena. Voglio sapere chi li frequenta, chi gioca ai cavalli, chi paga un centone sopra l’altro per fare un giro di pista su una Ferrari presa a noleggio. Non voglio dichiarazioni di dirigenti, allenatori, amministratori, politici. Non frega niente a nessuno. Tanto meno a me. Voglio solo i protagonisti sul campo. E per te, Guglielmo, vale lo stesso discorso di prima: non mi interessano le tattiche di gara, né chi ha deciso che il tal ciclista dovesse scattare proprio a quel chilometro in cui ha preso avvio la sua fuga. Voglio sapere con chi sono venuti qui. Se con la moglie o la fidanzatina o l’amante o la mamma. Solo questo mi interessa. Non siamo un giornale sportivo. Siamo un giornale di cronaca spicciola. Tutto ci riguarda, ma solo il particolare ci interessa. O.k.?»
Il ragazzo rimase serio e immobile. Mi guardò, e la sua espressione era quella che cercavo. Diffidenza, ma volontà di scavalcare quella stessa diffidenza impegnandosi al massimo. Dimostrarmi quello che poteva valere.
«Ognuno di voi, ogni giorno, fin d’ora sa quello che deve fare. Sa quali avvenimenti coprire. Ma ognuno, ogni giorno, sarà tuttavia disponibile per le eventualità del momento: sarà l’inviato e il

caposervizio di se stesso. Per quanto mi riguarda, oltre a coordinare il lavoro e mantenere i contatti con Milano, mi occuperò dei servizi speciali». Mi guardarono in un modo interrogativo. Li lasciai nel loro brodo. Poi riattaccai: «Questo vuol dire, prima di tutto, i servizi fotografici».
Il fotografo ebbe un balzo e mi guardò con curiosità. «In apertura di supplemento voglio tutti i giorni una sequenza di fotografie organizzata come un servizio. Fotografie di notevole richiamo e curiosità. Potrà anche trattarsi di una sola foto svolta, però, con ingrandimenti successivi di un qualche particolare, come una notizia».
«Non ci sono tante cose qui da fotografare. Le solite turiste a seno nudo».
«Il tuo compito è di dimostrarmi il contrario».
«Non c’è nient’altro», insistette il fotografo.
«Ci sarà. Perché tu lo troverai o lo inventerai. Il reportage di prima pagina sarà la tua rubrica fissa. Sei un giornalista a tutti gli effetti».
«Certo. Ma…»
«D’accordo?» Lo stavo pungolando.

«Non so se riuscirò… Ogni giorno…»
“Sappiamo tutti che tu ci riuscirai.”
Spense la sigaretta nel posacenere. Sbuffò il fumo dalle narici. Stava dicendo di sì. Non gli lasciai certo il tempo per fare obiezioni. Mi bastava che, davanti a tutti, non opponesse una resistenza valida. Gli avrei lasciato una vita intera per essere perplesso, ma non un secondo per rifiutare.

(…)

I cambiamenti che imposi furono accettati con qualche mugugno, soprattutto da parte di Zanetti che trovò ogni occasione buona per manifestare il suo dissenso scuotendo la testa, ma poi, in fondo, lasciandomi fare. Riunii le scrivanie al centro del soggiorno in modo che si potesse lavorare gomito a gomito. Tolsi dalla porta le vecchie stampe e feci appendere una grande cartina geografica che raffigurava la costa dalla foce del Po fino al promontorio di Gabicce. Centotrenta chilometri all’incirca che costituivano la nostra zona di intervento. Sul cerchietto che indicava Rimini infilzai uno spillo rosso. Alla base della cartina misi una cassettina divisa in piccoli scompartimenti, ognuno ripieno di spilli dalla capocchia colorata. Distribuii i colori: bianco a Susy, giallo a Guglielmo, blu a Johnny e verde chiaro a Zanetti. Io mi tenni quelli rossi. Ogni componente della nostra redazione avrebbe dovuto segnalare sulla cartina la propria presenza in qualsiasi località diversa dalla redazione. In questo modo avrei sempre avuto la situazione dei movimenti sotto controllo e, in più, mi sarei reso conto con un solo sguardo se per quel giorno stavamo coprendo tutta la zona che ci era stata assegnata, non tralasciando nemmeno un qualche fottuto borgo sperduto nel delta del Po.

Rimini di Tondelli: un classico che diverte

La descrizione che l’autore fa di uno dei principali protagonisti della storia è tutta affidata alla sua idea di come “costruire” il giornale:

  • fortemente egocentrico e volitivo
  • non colto;
  • si lascia sedurre dal fascino femminile in modo sensuale
  • cerca la precisione per controllare la realtà
  • ha l’idea che la “realtà” non sia quella “vera”, ma quella riportata sul giornale (se non c’è, si deve fare in modo che ci sia)

E’ evidente che un personaggio così non poteva essere amato dall’autore, ma è proprio un tale personaggio che gli permette di disegnare la parabola di una sconfitta, di chi, volendo “vivere” e capire la vita si trova ad essere oggetto di scelte altrui e da colui che deve controllare, essere controllato. Nel romanzo sembra che Marco Bauer si trovi sempre nel posto sbagliato, marionetta di chi guida le fila in un gioco più grande di lui, e pertanto che non possa che accettare la sconfitta.

Tale sconfitta gliela procurerà la donna di cui è diventato amante, quella Susanna, per meglio dire Susy del romanzo, che, lui inconsapevole, fa parte del gioco:

SUSY

Mangiammo qualcosa al ristorante di fianco al motel. Avevo bisogno di mandar giù un boccone. Lo stomaco mi sembrava una caverna puzzolente di gin e stretta come una bara. Dovevo sforzarmi di mandar giù qualcosa. Altrimenti di lì a poco avrei rigettato in strada anche le viscere.
La sala del ristorante era illuminata e deserta. Gran parte dei clienti infatti si era radunata davanti al televisore per avere notizie di come procedeva la fine imminente. Dal nostro tavolo potevamo sentire gli speakers alternarsi e dare notizie in diretta. Intervistavano il capo della polizia, qualche sindaco, la gente per strada.
«Torniamo a Rimini», disse Susy.
Accennai un sì. Ero distrutto. Continuavo a fissare sul tavolo quella busta gialla. Proprio non sapevo cosa avrei fatto il giorno dopo. Andare alla polizia? Consegnare tutto? Abbandonare il giornale? Far finta di niente? C’era qualcosa per cui valesse la pena di agire? No, non lo sapevo proprio. Susy restò in silenzio per tutta la durata della nostra cena. Il suo cervello cercava di capire i vari passaggi della questione, ma forse ancora non ci riusciva. Anch’io, d’altra parte, vivevo quei momenti come un incubo. Avrei pagato chissà cosa, tutti gli stipendi futuri della mia grande carriera per qualcuno che fosse arrivato lì a dirmi: “Ehi, Bauer, é solo un sogno.” Ma nessuno entrava in quel diavolo di ristorante. E il sogno era sempre più simile alla realtà.
«Guida tu, Susy», chiesi. «Lascia la tua macchina al parcheggio; verremo domani. Ho solamente voglia di cacciarmi sul letto, terminare la sbronza e dormire».

Susy acconsentì. Innestò la marcia della Rover e lasciammo il parcheggio in direzione di Rimini. Poco prima di giungere in città ci trovammo inesorabilmente stretti nella morsa di un ingorgo. Molte auto lasciavano la città in direzione della campagna e della collina retrostante. C’erano stati alcuni tamponamenti. Il traffico era interrotto dalle autoambulanze che per poter raggiungere gli ospedali invadevano la corsia opposta di marcia. Così, pur viaggiando in senso contrario alla ressa di auto che fuggivano, ci trovammo ugualmente bloccati.
«Potremmo proseguire a piedi», disse Susy. «Non siamo troppo lontani dal centro».
«Preferirei andare a dormire», dissi.
«Ma dove? Il tuo residence é troppo lontano. Potresti però venire da me».

«E’ una buona idea. Allora che si fa?»
La colonna accennò a muoversi. Avanzammo lentamente per una ventina di metri, poi di nuovo ci trovammo bloccati.

«Non ce la faccio più», strillò Susy. «Ora lascio la macchina!»
«Appena puoi, Cristo!» urlai. «Appena trovi un viottolo, uno spiazzo. Guarda laggiù».
Tra i fanalini rossi delle vetture che ci precedevano scorsi una strada che si addentrava nella campagna. Svoltammo a destra, lasciammo la Rover e continuammo a piedi. Fummo costretti a camminare al centro della corsia perché da una parte e dall’altra il ciglio era occupato da macchine lasciate in sosta. La gente, dentro alle vetture, aveva espressioni neutre e assenti. Più di noia che di paura. Avrebbero senz’altro passato la notte in quel gigantesco ingorgo da cui non avanzavano né potevano indietreggiare. Cercavano scampo e avrebbero dovuto arrendersi all’immobilità. Proseguimmo verso il centro di Rimini. Ai lati della strada, verso i binari della ferrovia, un’auto bruciava schizzando scintille infuocate sull’asfalto. La gente tentava di tenersi distante. Una ragazza piangeva. C’era del sangue. I poliziotti tentavano di far circolare quelle poche auto che potevano, ma era tutto inutile. Quella notte poteva anche non succedere nulla: la terra non tremare, il mare non riversarsi sulla spiaggia, le fiamme non attaccare le case e le piante e ogni genere di costruzione. Tutto poteva restare tranquillo come in una qualsiasi sera d’agosto sulla costa. Il peggio sarebbe in ogni modo accaduto per conto suo. Stava già accadendo. L’uragano si agitava non sul lungomare, né sulla costa, ma dentro al cervello della gente.
Le strade che portavano a Rimini erano gremite di folla. Lasciata la provinciale ingorgata dalle auto, ora il centro appariva in preda ai pedoni. Migliaia, centinaia di miglia di formiche che andavano avanti e indietro, vorticosamente, senza conoscere la propria direzione, né tantomeno la propria meta.
Afferrai Susy per mano. Con l’altra mi serravo al petto la busta. Avevo il terrore che mi fosse strappata via dall’urto della gente.
«Facciamo il lungomare», disse Susy. «Tagliamo via questa ressa. Vieni».
Dovevamo urlare per capirci tra il chiasso infernale. Raggiungemmo a fatica il grande viale. Lo spettacolo fu impressionante. La spiaggia, davanti a noi era illuminata a giorno da fotoelettriche e da grossi fari appesi ai normali pali della luce. La gente era seduta gomito a gomito con pacchi, tende, asciugamani, sporte, sacchetti di ogni colore e di ogni dimensione. Tutti guardavano in direzione del mare come se da un momento all’altro qualcosa avesse dovuto sgorgare: un’isola, un vulcano, una balena, un mostro. Ogni tanto, la sequenza della gente seduta era interrotta da gruppi che, attorno a un fuoco, saltavano e ballavano e suonavano passandosi fiaschi di vino. Riuscii a vedere i pattini che solitamente stanno all’asciutto, al largo. C’erano delle luci che provenivano dal buio del mare e un cartello che diceva “La fine del mondo sul moscone. Cinquemilalire l’ora. Per tutta la notte.”

Proseguimmo fra le motorette dei ragazzi che sfrecciavano in ogni direzione fra urla, bottiglie gettate in terra, richiami, impennate. Da questa parte della città la forza pubblica era praticamente assente. Ognuno era lasciato solo a se stesso. C’era gente che in ginocchio pregava, altra che ballava, altra ancora che si stringeva e si baciava. Improvvisamente un gruppo di ragazzi dai capelli lunghi fece irruzione sul lungomare provenendo da una trasversale. Gridavano come ossessi e facevano roteare delle catene. Trascinai Susy da una parte. Ci riparammo dietro il tronco di un pino marittimo. «Quanto manca alla tua casa?» chiesi.
«Oltre la rotonda», disse lei.
Feci un lungo sospiro. Le strinsi più forte la mano. «Forza», dissi. Sbucammo dal nascondiglio. Procedevamo svelti con la testa china come se tutto quanto si stava svolgendo sulla strada non ci riguardasse. Ma quando giungemmo alla rotonda, fummo costretti a sollevare gli occhi.
Un paio di negozi al piano terra di un grande edificio bruciavano gettando bagliori infuocati sulla piazzetta. Le macchine erano bloccate in mezzo alla strada. La gente fuggiva terrorizzata dal palazzo, saltando sulle capote delle auto, lasciando brandelli di vestiti sui paraurti, strillando e piangendo. Dal fuoco sbucarono come demoni tre-quattro-cinque ragazzi con il viso nascosto dal passamontagna. Reggevano in mano piastre per hi-fi, dischi, videoregistratori, telecamere. Gridavano per spaventare la gente, ma era inutile. Nessuno si sarebbe sognato di fermarli. Dall’altro lato della piazza, un grosso autobus prese improvvisamente fuoco. Fu il panico. Sentii un rumore provenire alle mie spalle. Mi voltai, ma fu troppo tardi. Una motoretta mi investì in pieno. Lasciai la mano di Susy. Caddi a terra. Sentii l’odore della benzina. Era tutto buio, là in fondo. Un dolore violento mi torse la gamba sinistra. Un dolore acuto e veloce e rapido. Non lasciai la busta gialla che tenevo serrata al petto come una corazza. L’urto mi spinse sotto a una macchina ferma. Ero incastrato, non riuscivo a uscire. Vidi del fumo e le gambe di Susy e il suo braccio allungato e il suo viso chino che mi parlava e mi diceva qualcosa e io che dicevo no, no, e scuotevo il capo. I clacson urlarono da pazzi, le sirene delle autoambulanze, dei vigili del fuoco, tutto gridava sotto quella maledetta macchina. L’olio del motore mi gocciolava sul volto, Susy continuava, china, ad allungare il braccio. Fu allora che le consegnai il pacco e il dolore alle gambe divenne più forte. Mi aggrappai con le mani ai ferri del telaio dell’auto, riuscii a togliere il viso da quella carrozzeria puzzolente. Vidi le sue gambe, dritte, il suo volto, le sue braccia accanto al fuoco. La sua espressione assente davanti a quei pezzi di carta che incendiati volavano via nel turbine della fine del mondo. Poi tutto divenne nero e caldo e troppo odoroso. Un odore fortissimo e nauseante. Persi i sensi. Per me l’ultima notte del mondo finì in quel momento.

E’ più o meno la fine del romanzo: Marco Bauer era riuscito a scoprire un fatto corruttivo tra il comune riminese e un politico democristiano della stessa città: il fatto si è che lo stesso Bauer aveva precedentemente avvolorato la tesi del suicidio.  Ora si ero reso conto che forse era ben altro: e tale prova era tutto in quel plico, lascitogli da un convento di clausura, che si stringeva al petto e che la sua donna, la sua amante, gli toglie dalle mani e gli dà fuoco.

Cari saluti dall'apocalisse: Rimini di Pier Vittorio Tondelli - Galleria Millon

In un mondo di cartapesta, anche gli amori sono orchestrati in un mondo di cartapesta; non ci può essere tragedia che non possa essere riassorbita, e laddove tragedia ci dev’essere è sempre figlia di un amore sbagliato, come per Bruno May, scrittore omosessuale e Aelred:

BRUNO MAY

A Londra, tre anni prima, nel tardo pomeriggio di una rigidissima giornata di novembre, Bruno stava partecipando, in compagnia di amici, al vernissage di una collettiva di scultura in una galleria di Floral Street, a due passi dal Covent Garden. L’esposizione si sviluppava su due piani. Nella scala al pian terreno stavano alcune opere costituite da carrelli da supermarket colmi di oggetti elettronici; alcune gomme di auto sovrapposte e impilate per circa due metri di altezza e percorse da striature colorate di vernice; due cartelli segnaletici capovolti e decorati da strisce di plastica nera simile a quella dei sacchi per la spazzatura. C’era inoltre un tavolo dietro cui un cameriere offriva birra e pasticcini. Al piano superiore stavano il resto delle opere e la gran massa dei visitatori avvolta dal fumo delle sigarette. Bruno trovò insopportabile resistere ancora e benché gli acrochages lo interessassero per la casualità degli accostamenti simile per certi versi alle associazioni libere della poesia, uscì ben presto. Si fermò sulla soglia della galleria per terminare la sua birra. Un ragazzo stava attraversando la via provenendo da Saint James Street. Reggeva un portfolio sotto il braccio. Un ciuffo rossiccio di capelli gli pendeva sul viso ondeggiando a ogni passo di una particolarissima andatura dinoccolata e, nello stesso tempo, strascicata. Bruno lo osservò meglio. Le punte dei piedi leggermente rivolte all’esterno, la schiena curva e un braccio penzoloni rendevano la sua andatura totalmente indipendente dall’esterno, dalle automobili che passavano, dai pedoni che erano obbligati a scansarlo per non farsi urtare, dai clacson che suonavano. Il ragazzo camminava in simbiosi con la propria andatura, così naturalmente sovrapposto alla artificialità del suo passo, così completamente abbandonato alla legge dei gesti appresi (che parlavano di palestre, di basket ball, di cavalli, di lavoro a tavolino) che il suo carattere si diffondeva, completamente svelato, all’esterno. Bruno notò che la sua corazza gestuale non appariva come una difesa, non nascondeva, non occultava; anzi parlava chiaramente e dolcemente. La sua camminata infatti, nient’altro era, che il tic del suo animo.
Il ragazzo indossava un giubbone da parà color piombo, zeppo di tasche e cerniere. Il cappuccio che scendeva sulle spalle era decorato con strisce sottili di pelliccia maculata. Portava un paio di pantaloni bianchi sporchi di colore e calzava grosse scarpe di pelle grigia che sembravano ortopediche. Quando si incrociarono, si guardarono per un istante negli occhi. Bruno lo seguì con lo sguardo. Vide che salutava alcune persone. Decise di rientrare.
Il ragazzo si era appartato e stava mostrando il contenuto del portfolio a una donna. Bruno si avvicinò e gettò lo sguardo su quelle tavole. Chiese di poterle vedere da vicino. Si trattava di grandi collages fatti con matite, pennini, retini, carte geografiche e topografiche, fotografie dipinte e ritoccate. Riunivano tutte le immaginarie metropoli del globo sotto una medesima atmosfera: fra le cupole della Piazza Rossa di Mosca spuntavano palmizi hawaiani; caratteri cirillici costituivano scritte pubblicitarie in una Times Square percorsa da una identica fauna umana negroide o asiatica. Una devastazione atmosferica e geotermica aveva ridisegnato il mondo. Parlò al ragazzo. In quel momento Reginald Clive, un critico abbastanza noto, salutò Bruno. Ne approfittò per presentare il ragazzo e così sapere il suo nome. Aelred, così si chiamava, si dimostrò impacciato. Bruno dovette soccorrerlo sostenendo la conversazione. Reginald apprezzò le tavole. Si congedò dicendo che doveva passare in Fleet Street a buttar giù il pezzo. Si diedero un appuntamento telefonico.
«Non sarei mai riuscito a mostrare qualcosa a Clive nemmeno pagandolo mille sterline», disse Aelred. Bruno gli raccontò come lo aveva conosciuto a Venezia, qualche anno prima.
«Perché non vieni a mangiare qualcosa con me al club?» propose Aelred.
Bruno indugiò.
“E’ qui vicino… Ho voglia di bere qualcosa di buono. E tu?”
Bruno rispose di sì, aveva anche lui una gran voglia di bere. Salutò gli amici e uscì in compagnia di Aelred.
Il club era nascosto in un intrigo di viuzze strettissime attorno al Covent Garden. Per raggiungerlo procedettero uno davanti all’altro poiché non c’era spazio per due. Aelred disse qualcosa a proposito di Charles Dickens che Bruno non afferrò. Giunsero davanti al club. Si trattava di un ristorantino polveroso anni quaranta. Davanti all’entrata stava un panchetto di legno su cui era posto il registro delle visite. Aelred salutò il cameriere e firmò invitando Bruno a fare altrettanto nello spazio riservato ai visitors. Il cameriere spostò il panchetto e li fece passare.

Il ristorante era vuoto. Seguì Aelred che passava tra i tavoli apparecchiati con destrezza. Si diressero verso uno sgabuzzino. Aelred accese la luce tirando una corda che pendeva dalla lampadina spiovente. Più avanti iniziava una scala di legno. La discesero. Immediatamente li investì uno sbuffo di aria calda, odore di sigarette e di alcolici. Si sentiva, in sottofondo, musica rock.
Entrarono in una grande stanza circolare con il soffitto a volta e le pareti verniciate di nero. Al centro stava il banco degli alcolici con un paio di rubinetti per la birra e uno scaffale ripieno di bottiglie ben allineate. Nella parete attorno si aprivano alcune nicchie che avanzavano nel cemento per qualche metro. Il fondo era ricoperto di cuscini colorati. Davanti a ogni nicchia stava l’imitazione di un rudere antico decorato da luci intermittenti. La fauna era abbastanza giovane, sui trent’anni. Aelred presentò Bruno a qualche amico: una soprano critico musicale di una rivista marxista, un pittore calvo e grassoccio, un tenore che aveva studiato in Italia, un architetto che Bruno già aveva visto, nella galleria di Floral Street. Ordinarono dello scotch e chiacchierarono con i membri del club. Erano tutti alticci, la soprano, un donnone imponente vestita di un robe manteau lungo fino ai piedi cantò il brindisi della Cavalleria Rusticana in onore di Bruno. Quando finì il club esplose in applausi e grida di compiacimento.

Bruno andò al bancone per un altro scotch. «Bevi qualcosa, Aelred?» Aelred non rispose. Bruno ripeté la domanda, si girò e si accorse che non stava rivolgendosi ad Aelred, ma a un altro ragazzo. Si scusò. Guardò attorno ma non lo vide. Prese il bicchiere e raggiunse il gruppo di prima. Domandò alla soprano se lo avesse visto in giro. La donna fece un grande sorriso e cantò il brindisi dalla Lucrezia Borgia. Bruno scorse una nicchia vuota. Si sedette a bere. Passò mezz’ora. Di Aelred nessuna traccia. Prese un altro scotch e lo bevve d’un fiato. Aveva fame, ma certo non si sarebbe fermato in quel posto a cenare da solo. Chiese al barman due biglietti da visita del club. Uno se lo infilò rapidamente in tasca. Sull’altro scrisse una frase di congedo e il proprio indirizzo. Lo riconsegnò al cameriere pregandolo di consegnarlo ad Aelred qualora fosse reato. Il barman prese il biglietto e lo infilò in mezzo a due bottiglie di whisky.

Loving, il libro che racconta l'amore con le fotografie del passato

L’amore nasce da una visione. Alread è un’epifania, ma un’epifania disturbante; sembra che non vi sia “naturalezza”: cammina come se l’andatura fosse in simbiosi con la sua andatura, sovrapposto all’artificialità; si lascia a gesti appresi e il suo carattere si diffondeva, completamente svelato, all’esterno. Aggiunge, poi, che il suo camminare rivelava il “tic” del suo animo.

Il suo sparire alla fine del brano è indice di un amore “difficile”: Aelread è alla ricerca di sé, non sa ancora chi realmente sia, se omo o etero, si lascia andare con Bruno ad un sesso sfrenato, ma ad avere e a desiderare il suo corpo è Bruno, che non riuscirà a sopportare l’assenza o il tradimento. Obnubilato dall’amore è disposto a perdonargli tutto, ad accettare tutto di lui e lui questo lo sa e ne approfitta. Vi è in Bruno un amore assoluto, quasi metafisico, e quando non riesce ad ottenerlo, si lascia andare, si annulla attraverso l’alcool, perde se stesso e con se stesso la sua capacità di scrivere.

Non è un caso che nell’abbandono e nella ripresa della scrittura vi è la figura di Anselme, un monaco. Il cattolico Tondelli non può scindere l’amore dallo spirito e di questo spirito egli si sente invaso dopo che decide di confessarsi. Sente il bisogno di rivedere Alread, sente il bisogno di chiarire cosa sia lui per lui: e solo quando percepisce che il rapporto è finito, può cominciare a scrivere.

EACH MAN KILLS THE THING HE LOVES

Verso le tre, quella stessa notte, Bruno uscì silenziosamente di casa. Camminò speditamente fino al mare, la testa china, come seguisse una direzione prestabilita. Sul lungomare incontrò una fila di auto incolonnate e ferme in mezzo alla strada. Un paio di vetture della stradale erano messe per traverso e bloccavano il traffico. Bruno si mantenne sul marciapiede. Vide i poliziotti che cercavano di sedare una rissa causata da un tamponamento. Un ragazzo dai capelli lunghi era disteso a terra e vomitava. I suoi compagni ubriachi imprecavano contro un uomo che non osava scendere dalla macchina. Arrivò una autoambulanza a sirene spiegate, Bruno proseguì fin verso la rotonda del Grand Hotel. Fu allora che attraversò la strada con l’intenzione di raggiungere i giardinetti.
Fra gli alberi il buio era fitto e odorava di hashich. Le chiazze di luce che filtravano attraverso il fogliame illuminavano alcune siringhe. Alcuni piccoli fagotti respiravano addossati ai tronchi o distesi sul prato rivelando la presenza di qualcuno nei sacchi a pelo. Bruno si mosse per i vialetti con sicurezza, li conosceva ormai bene. Alla luce di un lampione un ragazzo fumava una sigaretta sdraiato su una panchina. Quando lo sentì arrivare, si alzò a sedere e scrutò nell’ombra. Bruno passò via velocemente. Incontrò, più avanti, una coppia di vecchi che conducevano a mano le biciclette procedendo prudentemente nel lato dei giardini illuminato. Sbirciarono nel buio, incontrarono i suoi occhi. Nessuno si fermò.
Improvvisamente la ghiaia scricchiolò alle sue spalle. Bruno si arrestò. Sentì un rumore di passi che lo stavano raggiungendo. Cautamente si voltò. Scorse un’ombra. Una figura alta gli andava incontro, superò il vialetto e calpestò l’erba a una decina di metri da lui. Bruno non si mosse. Cercò di individuare quella persona. Sentì gli arbusti scrocchiare e poi il fischio di una canzoncina, dapprima tenue, poi sempre più nitido man mano che l’ombra gli si avvicinava. Bruno si inchiodò a terra. Conosceva molto bene quella canzone. La ripescò dalla memoria. Faceva:

Did I really walk all this way
Just to hear you say
“Oh, I don’t want to go out tonight”…

I ricordi si scatenarono l’uno nell’altro, lo stordirono. L’ombra lo aveva ormai raggiunto e continuava a canticchiare:

I don’t owe you anything
But you owe me something
Repay me now…

Bruno vide un ciuffo di capelli biondi. Alzò la mano come per accarezzarli. «Aelread» soffiò. «Come hai fatto a trovarmi ancora?»

(…)

L’ombra uscita dai giardinetti di fronte al Grand Hotel gli era di fronte. Smise di fischiettare quel motivo.
«Aelred», disse Bruno avvicinando la mano fino ad accarezzarlo. Un colpo violento lo prese alla bocca dello stomaco. Cadde in terra. Sentì altri colpi alle costole e sul cranio e una voce che lo offendeva. Perse i sensi. Quando si svegliò, si trovò spogliato della giacca e pieno di sangue sul volto e sulle mani. Si rialzò a fatica. Cominciava ad albeggiare. Gli ubriachi tornavano in albergo dopo una notte di follie. Tutti erano nelle stesse condizioni, più o meno. Certo, Bruno era sporco di sangue, ma chi dava importanza a quel particolare? Ognuno voleva solo ficcarsi a letto nel più breve tempo possibile. Ognuno voleva dimenticare qualcosa. Barcollò fino a raggiungere la casa. Entrò nella sua stanza. Chiuse gli occhi. Quello che seguì non fu altro che un dolore ridicolo e fulmineo. Per un istante tutti i colori del mondo, tutti gli abbracci del mondo scoppiarono nel suo cervello finché non ci fu più nessun Aelred nella sua vita, né scrittura, né Dio, né alcool, né ferite, né amori né passioni. Soltanto un respiro lento che faticava a venire. Non disse un’ultima parola, né lasciò scritto niente. Fu il suo mattino terminale.

Brad Davis from the film Querelle : r/LadyBoners

Immagine dal film Querelle

Each man kills the thing he loves, così Jeanne Moreau cantava nel film Querelle di Rainer Werner Fassbinder. Siamo certi che Tondelli l’abbia visto, ma non siamo certi che la storia d’amore e morte tra Bruno e Aelred sia stato ispirato da questo brano.

Qui Tondelli sembra usare la tecnica dell’entrelacement, la storia dell’arrivo di Alread alle spalle di Bruno ubriaco, nel giorno della presentazione del suo romanzo, viene ripreso, dopo un bel po’, nello stesso istante.

La scena è costruita in modo preciso: notte, rimore dio passi, gli Smiths, così precisi nel testo Ho davvero camminato fino in fondo / solo per sentirti dire / “Oh non voglio uscire stasera // Non ti devo niente, ma mi devi qualcosa. Ripagami ora. e Alread che sembra che lo canticchi per ricordare che Bruno lo deve ripagare (per cosa, poi?): perché gli ha rubato il tempo e l’amore?, perchè lo ha soffocato con la sua protezione?, perchè non gli ha dato il modo di tovare se stesso? Non lo sappiamo. Ma lo uccide; forse lo ama e non vuole sentirselo dire: “Ogni uomo uccide ciò che ama”.

La storia di Robby e Tony vira tra il comico e surreale: due giovani che cercano un finanziamento per un film e che, non trovando nessuno, si “adattano” ad una sottoscrizione popolare, chiedendo ai bagnanti della spiaggia:

Tondelli proiettò su Rimini come fosse uno schermo gli eccessi dell'Italia  anni '80 - Il Piccolo

IL SOGNO DI CINEMA 

Il giorno seguente decisero di separarsi. Avrebbero battuto lo stesso bagno, ma andando uno a destra e l’altro a sinistra del corridoio in quadri di granito, adagiato sulla spiaggia come una passerella, che in certe ore del giorno scottava come una piastra di ardesia rovente. In questo modo si sarebbero spalleggiati a vicenda, ma avrebbero raggiunto il doppio di persone. Tony ebbe grane con il bagnino del numero sessantacinque. Era un ragazzone con un paio di mani larghe come pagaie e gambe che sembravano sequoie. Ci fu ben poco da discutere. Quello agitava un ombrellone chiuso come fosse uno stuzzicadenti. Dovettero battere in ritirata. Mangiavano di solito nei bar sulla spiaggia dove era molto più facile combinare qualcosa. Si stava all’ombra e le persone arrivavano al banco con il portamonete. La maggior parte era poi rilassata dall’aver appena fatto il bagno e parlava volentieri. Era più facile che qualche sottoscrizione abbandonasse il pacco che loro reggevano e trovasse la giusta direzione. Ma il ritmo con cui questo passaggio di mano avveniva non fu mai quello che una notte Tony sognò: vide i tre grandi cartoni abbandonati sulla spiaggia aprirsi improvvisamente come investiti da un turbine e tutti i fogli uscire uno dopo l’altro con un suono di battito d’ali e formare un vortice che subito si innalzò altissimo nel cielo come una tromba d’aria e ricadere poi a pioggia su tutta la spiaggia. La gente usciva dall’acqua e correva, abbandonava le sedie a sdraio, veniva a riva con i mosconi, correva dalle strade, dai bar, dai ristoranti, dalle pensioni e si precipitava sulla spiaggia tendendo le mani e guardando in aria e cercando per terra, perché tutta la spiaggia era ormai ricoperta dai fogli come se un grande autunno avesse lì ammassato tute le foglie della terra. I bambini giocavano con quelle pagine, facevano aeroplanini, aquiloni, barche, cappelli, freccette a cono, facevano maschere, facevano vestiti, torri, festoni, coriandoli, stelle filanti. Gli adulti li prendevano e si abbracciavano e si baciavano per la gioia e non li portavano via, né li ammassavano, ma una volta raccoltili in grandi bracciate li rigettavano in aria per la gioia di poterli riprendere. Dai tre cartoni il turbinio di carta bianca non aveva fine. I ragazzini più agili salivano sui pennoni accanto alle bandierine che segnalavano lo stato del mare, e da lì, chiamavano la gente dagli altri tratti di spiaggia, che poi accorreva e gridava di gioia finché tutta la costa non fu un solo grande momento di festa, di trionfo, di gioia. La realtà invece era che fino a quel momento avevano raccolto insieme cinquantamila lire.
Robby camminò per qualche decina di metri sul bagnasciuga con la testa china, attento a saltare la risacca delle onde e non inciampare in un qualche corpo disteso. Indossava la solita maglietta azzurra che la sera, arrivato in pensione, lavava sotto un getto di acqua corrente e lasciava ad asciugare alla finestra. Aveva un paio di slip bianchi. Camminava scalzo, tenendo in una mano un paio di espadrillas sfasciate e nell’altra la cartella con le sottoscrizioni. Nella ressa del bagnasciuga, fra gente che giocava a bocce e altri che inseguivano aeroplani gracchianti, tra i fili ingarbugliati degli aquiloni, i palloni, i freesby, avvistò un gruppo consistente di persone. Si diresse verso di loro. Attaccò discorso con le frange più esterne. Chiese se a loro interessava il cinema e quale film avessero visto l’ultima volta che si erano recati in una sala; chiese se preferivano la televisione, se i film della passata stagione erano piaciuti, se li divertivano più quelli americani o quelli italiani; se amavano la commedia, il dramma, il comico, il musical, il tragico, il film storico, la fantascienza o i cartoni animati. Ben presto la discussione diventò incontrollabile. Robby si sentì tagliato fuori come un moderatore televisivo estromesso dal suo dibattito. Ognuno parlava per i fatti suoi, urlando e sbrecciandosi. Robby attendeva il momento buono per piazzare le sottoscrizioni, ma il baccano era ormai infernale. Fu allora che lo vide.
Stava inginocchiato a terra davanti a un tappeto in cui dominavano i colori rossi e bruni e su cui erano disposti in ordine collane, statuette, bracciali, anelli, orologi, zanne di elefante in finto avorio e statuette in legno finto ebano. Incontrò il suo sguardo. Indossava un caffettano marrone lungo fino ai piedi e in testa portava un fez bordeau. Senza ormai più clienti, il marocchino si alzò di scatto e sputò una sequela di ingiurie in arabo. Robby era paralizzato. La gente attorno si accorse che stava succedendo qualcosa di poco piacevole. A poco a poco tacque formando loro attorno una specie di arena. Robby farfugliò qualcosa. Il marocchino parlò in francese, gli diede del bastardo e del figlio di puttana. Robby fece per andarsene, ma qualcuno in quel momento lo trattenne. Si girò di scatto e incontrò un altro paio di carboni accesi. I due marocchini cominciarono a gridare, la gente si scansò. Robby aveva una unica speranza, che arrivasse Tony. Lanciò lo sguardo verso la fila degli ombrelloni, ma fu inutile. Cercò di spiegare che non voleva affatto rubare il mestiere a nessuno, che non stava vendendo niente, che passava di lì per puro, accidentalissimo, caso. I marocchini non vollero sentir scuse. Un ceffone beccò Robby al collo. Incassò il colpo. Tentò di restituirlo, ma il secondo marocchino lo teneva stretto. Gli presero la cartella e la vuotarono sulla sabbia. La gente non diceva niente. Solo uno, dai bordi di quella maledetta arena, osò lanciare un “finitela!”. Robby si guardò intorno cercando l’alleato. Fu terribile. Vide solamente pance gonfie e grasse e bianche e cicatrici di ernie e appendiciti, mastectomie, ulcere, calcoli renali, calcoli alla cistifellea, alla vescica, vide tette flosce e cosce adipose, rotoli di grasso, ascelle fradicie di sudore, natiche cascanti, scroti lunghissimi, enormi, disgustosi, unghie incarnate, crani calvi, vide moncherini di braccia, gambe poliomelitiche, dentiere d’oro, parrucche, mani finte. Si sentì perduto. L’attenzione dei due marocchini era accentrata sulla sua cartella. Si parlavano fitto, uno dei due si chiamava Kacem. Approfittando della loro disattenzione, riuscì a sfilare dallo slip dell’elastico ventimila lire. Li alzò in alto. Quello che lo teneva da dietro, inginocchiato, prese i soldi. Tony arrivò in quel preciso momento. Trascinò da parte Robby, cercò di sapere quello che era accaduto. I due marocchini gli parlarono velocemente. Tony rispose duro: «Non mi frega una sega se dovete comprarvi venti cammelli per sposarvi, rivoglio quei soldi!»

«Lasciali stare!» gridò Robby. La sua voce era acuta e stridente come fosse sull’orlo di una crisi isterica.
«Ti hanno fregato o no quei soldi!» sbraitò Tony.

«Non me ne importa dei soldi! Sono dei poveracci!»
La gente aveva preso a squagliarsi. Qualcuno andò ad bagnino. Tony si azzuffò con il marocchino. Aveva voglia di menare le mani, sentiva l’odore della rissa, dei nervi scoperti, un odore che lo faceva impazzire. Accorsero i bagnini e li separarono. Quando si fu calmato si accorse che i due se l’erano filata. Restò in silenzio. Raccolse uno a uno i fogli sparsi sulla sabbia. Robby, in piedi, lo guardava senza espressione. Vedeva il suo amico chino a terra che prendeva con cura quei fogli stropicciati, ne levava via i granelli di sabbia soffiandoci sopra, li riponeva nella cartellina; vedeva il suo amico, ma tutto gli appariva completamente estraneo. Non si parlarono per tutto il pomeriggio. Robby riprese a girare fra gli ombrelloni abbordando la gente con poche e secche parole: «Vuole comprare un’azione per produrre un film?» Tutto qui. Non si sprecava, non gliene importava nulla. Era aggressivo, se qualcuno lo mandava al diavolo rispondeva sbraitando e menando in aria le mani. Se riceveva una bacchettata rispondeva con un pugno. Trovò una donna, non più giovane. Aveva labbra dipinte di viola, pesanti anelli alle orecchie e una capigliatura di un biondo stopposo. Agli angoli degli occhi due sottolineature di rimmel parevano cicatrici. Il suo corpo, sotto il costume, era una camera d’aria. Lo ascoltò e gli disse di seguirla verso la cabina poiché teneva i soldi nel vestito. Robby la seguì. Girò la chiavetta nella toppa. Entrarono insieme. Dentro, l’aria era soffocante e c’era puzzo di piscio. La luce era scarsa ed entrava a strisce dalle fessure della porta. La donna lo guardò e scoprì i seni. «Voglio i soldi», fece Robby. Lei prese dal borsellino un rotolo di banconote. Fece per darglieli. Si arrestò. «Voglio vederti nudo. Per favore… Fammi vedere come sei fatto, ti prego». Robby sentì una profonda, angosciosa quiete salirgli allo stomaco. Si tolse la maglia. Si abbassò lo slip fino alle cosce. La donna si inginocchiò. In silenzio, si mise a piangere, senza avere il coraggio di toccarlo.
«Dimmi come ti chiami», fece Robby, prendendole i soldi. Li contò. Erano trentamila lire. «Avanti, dimmi come ti chiami».
La donna prese a singhiozzare coprendosi il volto con le mani. Balbettò il proprio nome fissando il sesso di Robby. Scrollava la testa. Non si capiva se piangesse di dolore o di felicità. O di umiliazione. Robby trascrisse i dati della donna su tre fogli. La prese sotto le ascelle e la rialzò. Le ricompose i seni nelle coppette. Poi prese la mano ingioiellata della donna e guardandola fisso negli occhi la portò dolcemente sul proprio sesso. Era un saluto. Uscì dalla cabina. La donna si sedette in terra piangendo, sfogandosi. Poi, prima di uscire, asciugò le sue lacrime sature di trucco in quei pezzi di carta che il ragazzo le aveva lasciato.

Una delle espressioni che Robby fa, appena arrivato nella stazione di Rimini, è:

Faceva caldo, probabilmente attorno ai trentacinque-trentasette all’ombra. E questo caldo appiccicoso e denso, un caldo sporco, praticamente nient’altro che la traspirazione evaporata nell’atmosfera di quelle decine e decine di migliaia di bagnanti che in quello stesso momento prendevano il sole sulla striscia di sabbia della riviera, ecco, un caldo umano, non un caldo puro, e per questo già istintivamente insopportabile – benché tutto ciò costituisse una sensazione grave e a suo modo importante, non era minimamente paragonabile a quell’altra immagine-sensazione che gli aveva folgorato il cervello pochi istanti prima, mentre scendeva dalla carrozza del convoglio: “Ma questo è già un set.” C’era dunque qualcosa di intimamente “artificiale” in ciò che aveva intorno, “totalmente” predisposto quasi come quel caldo opprimente e animalesco che fiutava nell’aria immobile della stazione. Era tutto non naturale. Tutto troppo dannatamente perfetto.

Rimini è di cartapesta ed è già, dunque, un set cinematografico e l’idea che spinge i due protagonisti nella ricerca affannosa di denaro, fa sì che Tondelli possa disegnare l’irrealtà di un sogno e degli stessi bagnanti della spiaggia, utilizzando, anche in questo brano, attraverso un’antitesi narrativa, sia l’immagine onirica che, come una festa carnevalesca, fa scendere fogli (probabilmente con la sceneggiatura) sulla spiaggia, visione di una irrealizzabile espressione cinematografica (linguaggio che ebbe sempre un certo fascino per Tondelli) sia, attraverso una delle forme tipiche del suo linguaggio, l’elencazione quasi surrealistica delle persone in riva al mare, descritte nella loro più trita volgarità.

In arrivo il DADISC, il DASPO delle discoteche | Deer Waves

Certo si è che il sogno così festoso e addirittura ludico si scontri infine con quello sovraesposto di un mondo violento, fatto di ultimi che cercano di sopravvivere o, sottolineandolo con maggior forza, fatto di solitudini come quella melanconica della vecchia imbellettata di pirandelliana memoria che chiede a se stessa di poter rivivere, colpevolmente, il voglia di una impossibile sessualità, ci fa sentire non proprio approriato il finale che l’autore riserva alla fine di questa storia, che forse risulta troppo “consolatorio” o, in qualche modo, obbligato per un lettore a cui bisogna dare tutte le risposte. Avremmo immaginato altro nelle figure di due poveri e disgraziati picari, oppure, forse, Tondelli ci vuole rimarcare che in un mondo di cartapesta anche le soluzioni possono essere tali, e se finzione ci dev’essere è maggiormente quella della “maschera” di questi “improbabili” cinematografari e, come fosse un vero e proprio primo piano, gli occhi del marocchino che osservano lucidi, cattivi, chi gli sta portando via il guadagno, capovolgendo il pregiudizio beota secondo cui “vengono in Italia per rubarci il lavoro” e facendolo rubare a noi poveri italioti il lavoro d’accatonaggio di quei disgraziati venditori di perline:       

Arrivammo davanti al cinema. C'era una gran folla di gente ai lati dell'ingresso principale. Aspettavano che gli invitati entrassero per occupare i posti rimasti. 
«E' già stato giudicato il miglior film dell'anno», disse Susy, prendendo posto. «A ottobre uscirà nelle sale normali.»
«Siamo cavie», dissi, guardandomi attorno.
«In un certo senso sì, siamo cavie privilegiate». 
Ci fu un applauso. Gli spettatori si alzarono in piedi e si voltarono verso la galleria della sala. Entrarono un gruppo di persone, un branco ordinato ed elegante di giovanotti. 
«Ecco gli attori!» fece eccitata Susy. «Quello in mezzo è il regista. Ha raccolto una parte del danaro qui a Rimini. Dicono sia andato ombrellone per ombrellone a chiedere i finanziamenti». 
«E quello là in fondo?»
«Chi?»
Indicai a Susy un uomo di mezza età.
«E' Fermignani, il produttore. Viene sempre a Riccione, ogni anno, per le vacanze. L'altr'anno ha incontrato il regista in spiaggia e hanno combinato il film».
In quel momento le luci si spensero e la proiezione partì. Al termine, a giudicare dall'accoglienza del pubblico, il successo fu straordinario.

Ancora la storia di due sorelle, Beatrix e ClaudiaChristiane F. (1981)

Un’immagine dal film Christiane F.

CLAUDIA

Presi la Rover e seguii il lungomare in direzione di Riccione. La strada era illuminata e piena di gente. Si trattava in maggioranza di stranieri, poiché i turisti italiani sarebbero arrivati in massa solo nei mesi seguenti. L’impressione fu che quelli avessero assunto, in tutto e per tutto, il contagio delle nostre cattive maniere: attraversavano la strada come pollastre ubriache senza rispettare né le precedenze né i pochi semafori accesi. Gironzolavano sui risciò e sui tandem eseguendo miracolose serpentine fra gli autobus e le automobili con il risultato di intasare il traffico. Gridavano, schiamazzavano, stiracchiavano “ciao” a tutti con quelle mani sporche di gelato sciolto o di pizza o di spaghetti al sugo. Una ragazzina bionda, esile, dal viso arrossato dal sole, mi venne incontro e chiese un passaggio parlando un italiano stravolto. Aveva una minigonna bianca a pois minuti color pervinca, una maglietta nera e un foulard giallo allacciato attorno ai fianchi. Dissi che non era il caso. Tirò fuori la lingua e si piazzò seduta sul cofano. Il semaforo scattò sul verde. Alle mie spalle la colonna di vetture prese a eccitarsi suonando il clacson. Suonai anch’io, ma lei niente, restava lì seduta sul cofano della Rover come fosse il suo salotto e salutava e alzava le braccia fischiando “tschuss” a tutti. Continuai con il clacson. La ragazza si distese con la schiena e alzò le gambe in alto battendole come dovesse nuotare. I passanti si erano fermati e formavano una piccola folla curiosa. Mi sporsi dal finestrino: «Togliti, perdio!»
«Mi porti allora? Mi porti?»
Da dietro tuonarono: «E portala!»
Scesi dalla macchina. La afferrai per il polso e le diedi uno strattone. «Sali, avanti!»
La ragazza gorgheggiò qualcosa, fece un paio di inchini al suo pubblico e salì come su di una Limousine. E naturalmente l’autista ero io.
«Dove vuoi andare?» chiesi.
«Non lo so. Voglio fare un giro in macchina».
«E quando ti viene la voglia ti piazzi in mezzo alla strada e assali le persone come stasera?»
«Poi torno indietro», disse come fosse la risposta più naturale di questo mondo. Abbassò il finestrino e sporse completamente la testa. I suoi capelli biondi entravano nell’auto come tante fiamme d’oro liquido. Urlò qualcosa, cantò, agitò le braccia. Allontanai la mano dalla cloche e la tirai dentro.
«Come ti chiami?»
«Claudia… Ti importa qualcosa?»
«Sei tedesca?… Austriaca?»
Non rispose. «Sei sola qui?»
Chiese una sigaretta e si grattò il naso. Fu un brutto gesto. Un gesto che parlava da solo. Ci sono molti modi per togliersi un prurito dal naso, ma ce n’è uno solo, inequivocabile, eseguito con il palmo della mano, che dimostra che quel prurito non é un fastidio momentaneo; ma il semplice segno di un anestetico assunto in dosi massicce. Come quando si esce da una camera operatoria. Come quando ci si era trattati come si era trattata lei.
«Mi fermerò a Riccione», dissi.
«E’ lo stesso…»
«Non abiti in albergo?»
«No».
«Sei ospite di qualcuno?»
Cacciò un urlo: «Voglio scendere! Fammi scendere!»

«Non posso ora! Aspetta!»
Gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Si attaccò al mio braccio e prese a tirarlo con tutte e due le mani. L’auto sbandò, ma non mi fermai. Ero incolonnato e mi sarei fatto tamponare. Rallentai. «Sto fermandomi!» dissi.
Claudia cacciò un altro urlo e mi azzannò il braccio. Sentii un dolore acuto. La macchina scartò sulla destra nella zona di sosta dell’autobus. Claudia schizzò fuori. Si mise a correre nella direzione opposta cercando di fermare un’altra macchina. La chiamai più volte. Fu inutile. Finì inghiottita dai fari accesi e dalle luci della strada.

Claudia è una tedesca, fuggita da casa, tossicodipendente. Vi è in lei una prepotenza bambinesca, forse anche una paura. Non si sa se vuole divertirsi o vuole fuggire. Sa solo che quando si vuole sapere qualcosa di lei, è pronta ad urlare, fuggire.

A sentire il bisogno di cercarla sarà Beatrix, sorella maggiore:

BEATRIX

Beatrix era una donna né bella né brutta, alta, dai lunghi capelli neri e lisci che lasciava cadere sulle spalle strette e ossute. Aveva grandi occhi azzurri, labbra appena pronunciate e grandi denti che rendevano il suo sorriso simpatico, infantile, confidenziale. In quanto all’età appariva come una donna fra i trenta e i quarant’anni con la spigliatezza dei primi e la maturità dei secondi. Dieci anni prima era stata sposata con un americano, militare di carriera. Un matrimonio tiepido che era durato per lei anche troppo, cinque anni. Ora Roddy se ne stava in una base militare in Italia nei pressi di Udine. Aveva sempre amato vivere in Europa e una volta lasciata Berlino, avendo la possibilità di scegliere un altro paese dell’Alleanza Atlantica per svolgere il suo servizio, aveva optato per l’Italia. L’ultima volta che si erano sentiti, Beatrix aveva appreso che presto se ne sarebbe partito per gli USA poiché, come molti militari statunitensi, situazione a Beirut permettendo, avrebbe terminato la carriera in America. Roddy si era poi fatto vivo con una lettera natalizia. Aveva scritto, tra le altre cose, di essere diventato padre per la seconda volta. Beatrix sapeva perché Roddy le aveva scritto questo, per non risparmiarle una stoccata. Voleva figli e lei assolutamente no, non ne avrebbe mai voluti, non gliene avrebbe dati.
Beatrix abitava ora, di nuovo, in Leibnizstrasse, all’incrocio con Mommsenstrasse, a due passi dal negozio, in una zona costituita da abitazioni ordinate con la facciata dipinta in tinte pastello molto simili e quelle di Amsterdam. Erano palazzine ricostruite dopo la guerra, presuntuose e appariscenti. Avevano un’ampia scala davanti alla porta d’ingresso e una siepe che le separava dal marciapiede. Beatrix era nata in quella casa e anche Claudia, pur se venuta al mondo in modo drammatico in una clinica di Schöneberg, aveva sempre vissuto lì. Sempre. Non volendo considerare i sette mesi e più da quando era partita. O per meglio dire: sparita.

Certamente Beatrix, persa dopo il fallimento matrimoniale con Roddy, rappresenta il contraltare di Claudia, ma ambedue rappresentano simbioticamente una sola femminilità. E Beatrix a tirare le fila della storia, ad inseguire, non la sorella, ma per un bisogno di ritrovarla per ritrovare se stessa. Ma questa ricerca sarà contrassegnata da cadute (la violenza subita)  e rinascite, l’amore di Mario, e quindi attraverso queste prove in cui Beatrix si rafforzerà, potrà cercare quel qualcosa che le permetterà di sentire se stessa integralmente. E questo qualcosa lo troverà in un non luogo, nel luna park riminese, dove Claudia, la notte, con l’aiuto di un vecchio (forse l’amore di un nonno mancato o di un vecchio delle favole), andrà a rifugiarsi in un finto vascello nella nebbia, quasi a cullarsi di nuovo in un ventre materno protettivo.

Hanno ambedue trovato l’amore, Beatrix quello di un uomo, Claudia, quello di un vecchio saggio: possono ritrovarsi e completarsi e ricominciare a vivere.

E’ questa, come quella di Robby e Tony, l’altra storia dall’esito felice, del reincontro tra Beatrix e Claudia, forse anche questa nata per soddisfare il lettore. Ma anche qui Tondelli va più a fondo, a disegnarci l’arcano di un mondo femminile che si ritrova ricongiungendosi e solo allora, quindi, sentire la possibilità di rientrare nel reale, lontano dal finto mondo riminese, dove lo strumento linguistico (Mario, pur italiano, parla bene il tedesco) non sia “storpiato” in quella babele di lingue che creano un vocio indistinto in cui parlare, per non dirsi, è lo stesso di non ascoltare/tacere. 

“Da notare è che i narratori non sono mai femminili, mentre per quanto riguarda i protagonisti dei filoni l’unica donna è Beatrix, allegoria dell’ansia di scoperta e viaggio tanto cara a Tondelli e perciò figura fondamentale all’interno di tutto il corpus della narrativa tondelliana. Beatrix compie un quadruplo viaggio: alla ricerca della sorella Claudia – la sé dispersa, infantile, sovversiva che Beatrix vorrebbe addomesticare –, alla scoperta del viaggio in sé, alla scoperta – se pure non per esperienza diretta – delle droghe, alla ricerca di sé e della propria vita, dell’Amore. E’, questo, il Viaggio così come l’ha sempre inteso Tondelli: un viaggio a un tempo mentale, fisico, umano, stupefacente. Di conseguenza, Beatrix non è solo una figura femminile, ma una delle figure femminili per eccellenza, un personaggio muliebre che più che un altro-da-Tondelli è Tondelli stesso in un’altra veste, un’altra identità di genere”. (Antonella Lattanzi: Le figure femminili nella narrativa di Pier Vittorio Tondelli).

L’ultima storia, pur breve rispetto alle altre, ma forse la più bella, è quella del sassofonista Alberto e Milvia:

ALBERTO E MILVIA

Alle prime luci dell’alba Alberto salì lentamente le scale della sua pensione facendo tintinnare le chiavi. Non appena ebbe raggiunto il pianerottolo vide la luce accendersi nella stanza di fronte alla sua. Ormai era una consuetudine. Una delle ultime volte aveva intravisto l’ombra di una donna, sapeva che lo stava aspettando. Fece scattare la serratura. Aprì la porta, finse di fare qualche passo, attese un attimo e la richiuse davanti a sé. Si gettò immediatamente nella parte più buia del corridoio. Attese. Pochi istanti dopo, dalla camera di fronte uscì una donna. Era giovane, aveva i capelli in disordine, una vestaglia trasparente che le arrivava a metà delle cosce. Era scalza. La donna si guardò intorno e raggiunse la porta della stanza di Alberto. Alberto trattenne il fiato. Ebbe paura che i suoi occhi chiari, emergendo dall’oscurità come quelli di un gatto, lo tradissero.
La donna era davanti alla porta. Vi si appoggiò. Sfiorò la maniglia con il palmo della mano come temesse di infrangere qualcosa. Avvicinò la guancia. La appoggiò all’uscio. Fece per rannicchiarsi. In quel momento Alberto allungò il braccio, la trasse a sé e con l’altra mano le tappò la bocca. Cercò i suoi occhi. Si guardarono a lungo. Da una prima espressione di terrore, la donna addolcì il suo sguardo fino a stringerlo attorno alle pupille indagatrici di Alberto come un abbraccio di desiderio. La sua reazione si allentò. Si abbandonò a quell’abbraccio. Alberto continuò a fissarla. Tolse la mano dalla bocca di lei. Restarono così in piedi uno davanti all’altra, illuminati soltanto dal taglio di luce proveniente dalla stanza di fronte. Non si dissero una parola. La donna si incollò al corpo di Alberto. Lui la strinse. Trovarono le labbra. Alberto aprì la porta della sua stanza. Fece per entrare. La donna si staccò dal suo abbraccio. Lo guardò. Raggiunse la propria camera. Entrò. Alberto rimase immobile nel corridoio. Si avvicinò alla camera di fronte fino a sporgersi dentro. Vide due bambini che stavano dormendo e lei di spalle, china su uno dei due. La donna spense la luce. Alberto tornò velocemente nella sua stanza. Lasciò la porta aperta. Andò in bagno e stappò la birra. Gettò la testa sotto il rubinetto dell’acqua fredda. Sentì l’uscio richiudersi.
«Come ti chiami?» domandò raggiungendola.

«Milvia… Tu?»
Glielo disse. «Vuoi bere?»
Milvia fece un cenno negativo. «Tutte le notti ti sento tornane in albergo… Mi sono affezionata ai tuoi passi… Non pensare che io sia matta». Lo guardava con sicurezza e nello stesso tempo timore. Come se avesse già raggiunto qualcosa e avesse paura di prenderlo. Alberto la abbracciò, la baciò. Si stesero sul letto. Nell’amplesso che seguì, arruffato e scomposto, cigolante e soffocato, Alberto disse: «Piano… I tuoi bambini potrebbero svegliarsi.»
Le notti seguenti Alberto prese a tornare di corsa dal Top In per gettarsi in quell’amore clandestino e notturno che gli era entrato ormai nel sangue. Milvia lo attendeva insonne. Non appena sentiva emergere dall’oscurità silenziosa i passi di Alberto, usciva dalla stanza. Già sul pianerottolo iniziavano a baciarsi e i loro abbracci divennero sempre più placidi e distesi. Non ci fu bisogno di parole. Avanzavano il loro amore nel crescere dell’intimità e della consuetudine dei loro corpi. Certe notti Alberto guardava Milvia, pacata dopo l’amplesso, e le percorreva con la mano i seni, il ventre, le cosce, quasi si trattasse di una creatura di sogno che ancora faticava a credere reale. E, d’altra parte, la loro unione pareva effettivamente costruita della sostanza stessa dei sogni: l’intorpidimento di quelle ore a cavallo fra la notte e il nuovo giorno, la stanchezza, il fiato affannoso che Alberto aveva spremuto nel suo sax fin quasi a rimanerne soffocato; e che poi, miracolosamente, ritrovava nell’abbracciare Milvia. E lei, che a quella creatura della notte aveva affidato tutto il peso della sua insoddisfazione matrimoniale e della ricerca di una felicità, si vedeva – quando ricordava nella luce incandescente della spiaggia i momenti di amore con Alberto – attorniata dalla notte, dal silenzio, dalla sua voce emessa a gemiti e sussurri; e quell’uomo di cui non sapeva assolutamente nulla le appariva avvolto dal mistero, un mistero in cui era lentamente riuscita a penetrare fino a elevarsi, essa stessa, a fantastica creatura della notte. In questo modo i due amanti procedevano nei loro abbracci costruendosi reciprocamente una sorta di loro personalissima leggenda. E così facendo entravano nel mito: Alberto non era solo un uomo, ma tutti gli uomini di questa terra; e lei, Milvia, tutta la dolcezza recettiva e femminea di questo mondo.

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L’amore di Alberto e Milvia è un amore di luce/assenza di luce, cioé è uno scambio di percezioni: lui suona il suo sax la notte, il buio è il suo vissuto, la cancellazione nera di ogni forma artistica, annegato nel vuoto chiacchiericcio della gente del piano-bar. Suona perché deve, ma dentro il suono sentiamo che Alberto mette in gioco la sua anima, indifferente da chi sia in grado di ascoltarla.

E’ durante il buio che torna, dopo la notte, sempre un po’ alticcio, per nascondersi dalla luce e annegarsi in un sonno “innaturale”.

Milvia è la luce, è lei che l’aspetta e che apre un varco d’illuminazione nell’oscurità; una luce che lo riempe, una luce che porta chiarezza dove l’indifferenza musicale diventa attenzione nell’amore e dove, in tale amore, si scoprono due entità, due vissuti solitari, che, ogni notte, come se possano rappresentare una eclissi e fare sì che luce ed oscurità per quelle notti s’incontrino.

ANNEGARE NEL MATTINO

Raggiunse il palco e iniziò a suonare, benché lo spartito non prevedesse in quel momento la sua entrata. Suono così per tutta la notte, senza staccare mai. Si sarebbe detto che volesse lui stesso scoppiare nel suono del suo sax. I compagni non tentarono di calmarlo. Quello era anche il suono di vendetta di tutti i musicisti condannati a suonare per accompagnare il chiacchiericcio della gente, per servire come sottofondo agli intrighi delle troie da balera. Lo lasciarono andare per i fatti suoi finché, esausto, non cadde a terra.
Verso mattino Alberto raggiunse la pensione. I suoi passi erano faticosi. Impiegò molti minuti per salire le rampe di scale. Quando fu sul pianerottolo, gettò lo sguardo verso la porta da cui tante volte era provenuta quella luce calda e femminile. Quella mattina, per la prima volta, era spenta. La porta chiusa. Milvia era partita il giorno prima con i suoi figli. Era arrivato il marito e se li era portati via con sé. Fu la prima volta che sentì una profonda, dolorosa nostalgia per quella luce che non c’era più. Barcollò fino alle tende, in fondo al corridoio che trattenevano la luce del giorno. Si aggrappò e tirò con tutta la sua forza. Il chiarore entrò nel corridoio come un lampo. Strinse gli occhi. Pensò che annegare forse doveva essere la stessa cosa: dissolversi rabbiosamente nella luce troppo forte di un nuovo mattino.

Ed è per questo che, portata via dal marito e sparita Milvia, la luce, non quella di Milvia ma del giorno, rischia di cancellarlo, di dissolverlo in un bagliore acceccante che cancella l’amore e la poesia musicale che lo vivificava.

L'Estate dei divertimentificatori: Tondelli, Rimini e quel 5 luglio di 30 anni fa al Grand Hotel - Riminiduepuntozero

Rimini, pubblicato nel 1985, è, come si è tentato di descrivere, un vero e proprio caleidoscopio di vite, portate, dall’eccesso dell’industria del divertimento, a giocare con se stesse, ognuna secondo le proprie peculiarità. L’ambizione tondelliana è quelle di farle partecipare, pur nella loro esclusività, in modo contemporaneo, perchè contemporaneamente avvengono, ma perchè solo così potesse ricreare quell’immenso bailamme che era negli anni ’80 la riviera romagnola: disco music, il famoso “edonismo reganiano”, la Milano da bere, la corruzione dilagante: ed è naturale che questo frastuono fatto di voci, urla di ragazzini, canzoni che escono da macchine rombanti, pulsioni erotiche mal represse, gigolò a iosa, l’autore tenda ad unificarlo attraverso una vera e propria colonna sonora che, a fine romanzo pubblica, con i gruppi e i musicisti più importanti o più rappresentativi di quegli anni, fra i quali ci piace ricordare, fra i molti che cita,  The Smiths, Joe Jackson, Prince, The Style Council, Bronski Beat e U2.

Immagine 1 - Camere separate - Pier Vittorio Tondelli - Bompiani - 5414

E’ dell’89 il quarto ed ultimo romanzo tondelliano: Camere separate. Il testo è diviso in tre “movimenti”, come fosse una partitura musicale, il primo “Verso il silenzio“, il secondo “Il mondo di Leo” e l’ultimo “Camere separate“.

I tre movimenti disegnano un vero e proprio percorso: si inizia con l’incontro e l’innamoramento tra Leo e Thomas e la morte di quest’ultimo. Il capitolo è costruito attraverso un flash back, all’interno di un aereo, dove sin da subito viene sottolineata l’assenza, la mancanza, verrebbe quasi voglia di affermare il taglio traumatico che la scomparsa di Thomas (per colpa dell’AIDS, – sebbene non ci venga detto, risulta abbastanza chiaro) ha creato nel protagonista.

IL PRESENTE STATO DI QUESTO SOGNO

Solo qualche mese fa ha compiuto trentadue anni. E’ ben consapevole di non avere una età comunemente definita matura o addirittura anziana. Ma sa di non essere più giovane. I suoi compagni di università si sono per la maggior parte sposati, hanno figli, una casa, una professione più o meno ben retribuita. Quando li incontra, le rare volte in cui torna nella casa dei suoi genitori, nella casa in cui è nato e da cui è fuggito con il pretesto degli studi universitari, li vede sempre più distanti da sé. Immersi in problemi che non sono i suoi. Sia i vecchi amici, sia lui, pagano le tasse, fanno le vacanze estive, devono pensare all’assicurazione dell’automobile. Ma quando si trovano occasionalmente a parlarne lui capisce che si tratta di incombenze del tutto differenti e che, nelle rispettive esistenze, rivestono ruoli assolutamente distanti. Così, privato ogni giorno del contatto con l’ambiente in cui è cresciuto, distaccato dal rassicurante divenire di una piccola comunità, lui si sente sempre più solo, o meglio, sempre più diverso. Ha una disponibilità di tempo che gli altri non hanno. E già questo è diversità. Svolge una professione artistica che anche i suoi cosiddetti colleghi svolgono ognuno in un modo differente. Anche questo accresce la sua diversità. Non è radicato in nessuna città. Non ha una famiglia, non ha figli, non ha una propria casa riconoscibile come “il focolare domestico”.
Una diversità ancora. Ma soprattutto non ha un compagno, è scapolo, è solo. L’aereo perde bruscamente quota iniziando la discesa verso Monaco. Lui distoglie lo sguardo dal finestrino e si concentra sui suoi oggetti. Ripone il libro che stava sfogliando, infila gli occhiali nella custodia, spegne la sigaretta. Reclina la testa all’indietro. Tra una ventina di minuti toccherà terra. Immagina Thomas camminare nervosamente nell’atrio degli arrivi internazionali, su e giù, controllando il proprio orologio e gli orari previsti di atterraggio. Vede la sua figura dinoccolata che si dirige impaziente verso alcune vetrine in cui sono esposte scatole di tabacco per pipa e sgargianti confezioni di sigari Avana. Immagina il suo maglione slabbrato, la giacca di lana pesante, i pantaloni di velluto, le scarpe grandi, robuste, di cuoio bordeaux. Vede i suoi liquidi occhi neri, il sorriso largo e disteso, le braccia ossute e calde che come al solito lo abbracceranno, guidandolo deciso verso una qualche Citroën o Renault di quarta mano, parcheggiata lontano. Ma non riesce a sentirne la voce. Vede distintamente l’abbraccio, avverte il profumo della sua pelle, la ruvidezza della sua guancia con la barba di un paio di giorni, vede le sue labbra che soffiano un “Come ti è andato il viaggio?” ma non riesce ad ascoltare il suono, l’inflessione di quella voce. Vede l’abbraccio, ma non lo può sentire.
Emette un profondo sospiro con gli occhi chiusi, la nuca ancora appoggiata sullo schienale abbassato. La hostess gli si accosta rivolgendogli alcune parole. Lui esce lentamente da quel suo abbandono e riporta lo schienale nella posizione prevista dalle manovre di atterraggio. Ha riaperto gli occhi ormai. Una volta di più si rende completamente conto, con una inorridita vibrazione interiore, di quella che banalmente si definisce realtà e che lui preferisce invece chiamare “il presente stato di questo sogno”. Non ci sarà Thomas ad aspettarlo all’aeroporto con la sua Citroën scassata. E non ci sarà nessun amico al posto suo. Poiché Thomas, o almeno tutto ciò che sulla terra aveva questo nome e a questo nome, per lui e per chi lo amava, era riconducibile, non c’è più. Thomas è morto. Da due anni ormai. E lui è sempre più solo. Più solo e ancora più diverso.

E’ evidente che, pur essendo scritto in terza persona, l’autore si identifichi con Leo; l’autobiografismo appare sia nell’età che nell’attività di Leo. Tuttavia la pagina tondelliana cerca, attraverso un registro, pur paratattico, di uscire da una forma quasi espressionistica del dire che aveva caratterizzato le opere precedenti, per assumere viceversa un “movimento lento”, quasi oserei dire impressionistico: il mondo è disegnato a sua misura e si rapporta continuamente al suo pensiero. Leo è così solipsistico già da questa parte iniziale, che capiamo come la sua solitudine riflette la sua incapacità di darsi, e come questo diventi il filo rosso dell’intera narrazione.

Pier Vittorio Tondelli, 25 anni dopo

THOMAS

La luce del primo mattino entra nella stanza. Thomas sta dormendo un sonno leggero fatto di piccoli e impercettibili assestamenti. I suoi occhi si aprono e vedono Leo in piedi accanto al letto, in silenzio, impacciato.
«Buongiorno Thomas» soffia Leo con la voce che trema.
Thomas non risponde al saluto. Gira la testa lentamente verso il braccio in cui ha infilato l’ago ipodermico. Controlla, con quella che sembra una fatica estrema, il livello del flacone di glucosio che lo sta nutrendo. Leo gli si accosta. Lo tocca sulla mano.
«Come stai?»
Thomas lo inquadra nella luce dei suoi occhi neri. Scopre il lenzuolo e fa un cenno con la testa indicandogli il ventre. Una striscia di garza bianca e di cerotti lo attraversa dall’inguine al
centro del petto. Dal fianco sinistro escono alcune cannule scure che scendono verso la parte nascosta del letto. Il padre di Thomas, ritto in un angolo, lo ricopre con un istintivo gesto di pudore. E’ lui che ha telefonato a Leo per dirgli, fra i singhiozzi, di venire a Monaco. «Mio figlio la vuole vedere. Faccia presto perché non abbiamo molto tempo».

Leo si trovava nella sua abitazione di Milano. Ha preso la macchina, ha viaggiato tutta la notte ed è arrivato alla clinica. Sono trascorsi cinque giorni dall’intervento chirurgico e dieci da quando Thomas ha avvertito per la prima volta degli insopportabili dolori al ventre. Fitte che gli scorticavano la carne, bruciori, come di veleni, che gli dissolvevano l’intestino. E l’addome così stranamente, innaturalmente, dilatato.
Leo non si sarebbe mai aspettato di trovarlo così sfiancato. Dimagrito in modo osceno, quasi mummificato. Il volto scavato, tirato sugli zigomi. Le labbra quasi scomparse, ridotte a un esile filo di pelle che non riesce a ricoprire i denti. I capelli rasati a zero. Le braccia e le gambe simili a quelle di un bambino denutrito. E quel ventre enorme, rivoltato e squartato. Del Thomas che ha conosciuto restano solo gli occhi, se possibile ancora più grandi, più larghi, più neri. Sono occhi che si muovono a fatica, che restano praticamente immobili e in cui le pupille sono quasi scomparse. Sono due buchi neri spalancati sul vuoto e che sembrano ossessivamente ripetere una sola cosa: “Non posso, non posso credere che stia succedendo a me.”
«Papà, lasciaci soli, ti prego» dice Thomas. Anche la sua voce, un soffio appena percettibile, è completamente cambiata. Esile, infantile, femminea.
Il padre scuote la testa come per chiedere spiegazioni.
«Ho dei segreti» dice Thomas sforzandosi di sollevare con un sorriso l’imbarazzo del padre. Fa ricorso a un codice familiare, probabilmente a quando era un bambino e si ritirava con gli amici “per i segreti” fuori dalla portata dei genitori.
Il padre guarda Thomas facendogli capire che uscirà. «Solo cinque minuti» aggiunge.
Aspettano in silenzio che l’uomo esca. Rimasti soli Leo si siede sul letto e gli prende la mano portandosela al viso.
«Stringimi la mano, ti prego» dice Leo. «Stringimela forte».
«Ho avuto tanta paura di morire» sussurra Thomas guardando fisso davanti a sé.
Leo deglutisce. Avverte il calore della pelle di Thomas, ma anche la sua assenza. E’ come se l’enormità di quello che ha dovuto sopportare lo avesse già ucciso. Come se il terrore – che lo sta invadendo ora dopo ora, inesorabilmente – lo avesse già completamente annullato. Leo ha visto altre volte quello sguardo. Lo sguardo di un bambino palestinese che sta per essere ucciso. Di un piccolo negro agonizzante accanto al corpo della madre squarciato dalle bombe. Lo sguardo implorante di un piccolo indio dell’Amazzonia davanti allo sterminio della sua razza. Lo sguardo di chi sta morendo e implora senza fiducia un aiuto che non gli verrà dato. Bambini, bambini. E Thomas, bambino, che si rivolge al padre come tanti anni prima.

Leo vede l’ultima volta Thomas nell’istante in cui il suo corpo va inesorabilmente verso la fine. E l’immagine che lo invade è quella di un “bambino”. Leo, così indicibilmente attratto ed innamorato, non sa costruire un amore “adulto”, se non un amore “protettivo”. La rabbia/gelosia che proverà quando, uscito dalla camera di Thomas, si renderà conto che l’esclusività “familiare” che lega il padre al ragazzo morente, lui non è riuscito a ricrearla.

Non è certo la situazione sociale ad impedirlo; é che lui vuole il “riconoscimento sociale” dell’unità Leo e Thomas.

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NON SIAMO SOLI

Un giorno un amico gli aveva detto: «Non vado mai solo quando mi invitano. E’ naturale che se si invita un cinquantenne come me a un pranzo, a una manifestazione o a un convegno costui vada con la moglie. Ora, io ho un compagno da venticinque anni. E da venticinque anni lui mi accompagna ai ricevimenti e ai convegni. Così come io accompagno lui quando viene invitato. E’ il minimo che dobbiamo fare: non permettere che ci invitino soli.»
Da quando aveva sentito per la prima volta queste parole Leo si era adeguato come seguendo una rivelazione. Certo, esisteva il rischio del fraintendimento. Per non dire dell’imbarazzo. Quando spiegava che non sarebbe stato solo e dall’altra parte del cavo telefonico gli rispondevano con sussiego «Ma certo, porti pure sua moglie» e lui invece pregava di prendere nota del fatto che sarebbe stato accompagnato dal signor tal dei tali e che la camera d’albergo avrebbe dovuto essere intestata anche a quest’ultimo, un silenzio, uno schiarimento di voce, un colpo di tosse veniva a introdursi nella conversazione come un tangibile gesto di imbarazzo. Allora lui, dolcemente, spiegava che avrebbe provveduto al viaggio dell’amico, ma non alla sua ospitalità alberghiera. E dall’altra parte il funzionario di turno chiudeva sbrigativamente la conversazione con un remissivo «Come vuole lei».

Ma è solo nel momento del lutto per Thomas che Leo cerca se stesso. La lunga elaborazione dell’assenza fa sì che egli ripercorra l’esperienza di condivisione e possesso, ma anche di paura e ripulsa che il rapporto con Thomas aveva prodotto. E per far questo Leo si rivolge al passato, al sé bambino con un rapporto colla madre contadina, forte e volitiva e con il padre “difficile”, il suo vivere intensamente la religione e la ricerca, ora, come questa religione debba “riconoscere” e quindi “approvare” la sua relazione omosessuale, e soprattutto la ricerca di una “filiazione” che si esplicita nella letteratura, ma che risulta “difficile”, ora che il “figlio amato” non c’è più:

AFFIDARSI ALLE PAROLE

Lui che aveva affidato alle parole, non ancora alla letteratura, non ancora ai libri, ma proprio alle lettere e ai racconti tutta l’ansia e il desiderio di un cambiamento della sua vita, si trova ora annullato dalla mancanza di desiderio per le parole. E, conseguentemente, per le cose. E se guarda fuori di sé, se vede come si comportano gli altri e soprattutto chi siano gli altri che svolgono la sua stessa occupazione si sente precipitato di nuovo in quella classe ginnasiale da cui ha cercato per anni di fuggire. Gli altri parlano ancora di sport, c’è chi, dicono, riesce bene in geografia, chi in scienze naturali, chi in chimica, chi in educazione civica o in storia o in religione. Vede, anche nei suoi coetanei-colleghi, chi è avviato all’Accademia o al Potere nello stesso modo in cui vedeva già il figlio quindicenne del commercialista ereditare con successo lo studio del padre, la presidenza del Rotary o del Lions provinciale, la segreteria cittadina del partito di governo. Vede le carriere e così si sente in trappola ancora una volta. Vuole uscire dalla classe, lasciare i suoi compagni per seguire il proprio destino diverso. Ma ora tutto è più difficile, quasi senza via di uscita, perché Leo è oppresso proprio dai risultati della sua scelta di libertà. Ora non può più scappare. Può solo tacere e defilarsi.
Prende corpo in lui il progetto di scrivere libri per dieci, venti persone. Dei libri espressamente destinati a chi può comprenderlo, agli amici di cui si fida. Che lo rispettano, che gli prestano attenzione, che non giudicano se ha fatto una cosa buona o cattiva, ma che interpretano la disponibilità di partenza, la sua necessità di raccontare qualcosa a qualcuno. Diventa ossessivamente geloso di quello che scrive. Un giorno gli capita di scorgere, in metropolitana, uno sconosciuto che legge un suo libro. Deve scendere, rosso di vergogna. Avrebbe voluto strapparglielo dalle mani, picchiarlo con violenza e insultarlo. E per un attimo gli si è avvicinato obbedendo a queste precise parole: “Ora vado lì e gli spacco la faccia.” Poi è sceso, quasi scappato, sconvolto.
Quando pensa a questo episodio lo colpisce l’idea di essere stato sorpreso, nudo, da uno sconosciuto. Sente insomma quel libro, o altri che ha scritto, come il suo corpo spogliato. Non una emanazione di sé, una proiezione, un transfert, ma proprio, realmente il suo corpo. Leggere quelle pagine è addentrarsi sulla sua pelle e nei suoi nervi, far l’amore con lui, odiarlo, ricordarlo, sognarlo. E questo gli pare intollerabile. Forse, nell’uscire da quella classe ginnasiale, lui ha voluto proprio che così accadesse, ha desiderato darsi in pasto agli altri offrendo il corpo delle sue parole. Ora si sente come una pin-up invecchiata che scopre un ragazzino brufoloso masturbarsi sulle sue foto giovanili, spiare con libidine gli accoppiamenti carnali della sua gioventù. E di tutto questo non prova un piacere narcisistico, al limite della civetteria, ma solo un’idea di vergogna e di morte. Forse allora se lui non scrive, se non vuole più scrivere non è tanto perché gli manca l’ispirazione, non è tanto perché ha perduto Thomas, ma perché sta invecchiando. Perché il suo corpo incomincia a scricchiolare sotto il peso di quanto si è scritto addosso; in sostanza lui si vergogna di quel suo corpo troppo incurvato dalle parole. E allora desiste e ricade nell’inattività.
Ogni giorno che passa si rende maggiormente conto che la perdita di Thomas sta lavorandogli dentro con una dirompenza devastante e catastrofica. Ora, se riesce a circoscrivere razionalmente la scomparsa di Thomas dicendosi “E’ andata così, non posso farci niente” non può assolutamente ripetere la stessa cosa per quello che gli sta succedendo interiormente. Perché non ha la più vaga idea di quello che gli sta succedendo. Per tutto questo ancora non ha parole, né spiegazioni plausibili. L’unica cosa che può fare è porsi in un atteggiamento di attesa. E, riflettendo su questo, si accorge che da mesi e mesi, inconsapevolmente, nelle sale-gioco di Soho o nel suo girovagare fra i night club di Milano, tutta la sua vita altro non è stata che una preghiera di ininterrotta sincerità. Per mesi e mesi tutto quello che ha fatto o ha detto, sia che abbia mangiato, sia che abbia bevuto, dormito o viaggiato, tutto ha fatto in nome e in lode di Thomas. Ha trasformato la sua ossessione in uno sguardo aperto su se stesso. Da quando Thomas è morto la sua sensibilità si è come purificata; e ora cerca di andare verso l’essenziale. In questo senso Thomas non è solo un cadavere che si sente incollato addosso, ma un seme di vita sepolto nella propria mortalità. Lui culla, nel profondo, questo seme, lo scalda, assiste alla sua crescita cercando di crescere con lui. Poiché Thomas nelle sue complicate introiezioni e rimozioni è ormai l’illuminato, il trapassato. Quando lo avevavisto sul letto di morte, avvolto nel sudario, aveva pensato proprio a questo, a Thomas che stava trasformandosi nel Thomas-bambino; che avanzava, in quel breve tempo che la vita ancora gli concedeva, verso l’origine; che si trasformava, attraverso l’enormità della sofferenza, non in qualcosa di diverso, ma in quello che intimamente gli assomigliava di più: una materia infantile precocemente formata e nostalgica della quiete del nulla.
Così quella che lui chiama preghiera, altro non è che un atteggiamento di ascolto delle cose e degli uomini, un osservare e contemplare, che ha a che fare con il suo stesso modo di essere. Non ha altari davanti ai quali inginocchiarsi, non ha templi né simulacri a cui sacrificare; allora celebra come liturgia la vita stessa. Avverte la presenza del sacro come qualcosa di tangibile nella realtà, qualcosa su cui il suo sguardo si posa con devozione. Quando pensa alla preghiera lui si dice: “Io non so pregare, soprattutto non so chi pregare.” Poi ricorda la sua giovinezza, le ore di
meditazione, le discussioni con i sacerdoti, la recita della parola. E la sua mano cerca nella libreria, automaticamente, la Bibbia.

Biglietti da camere separate – Teatri di Vita

Rappresentazione teatrale tratta dal romanzo Camere separate

La parola, non ancora la letteratura, dice Leo. Ma Tondelli fa letteratura e il Leo/Pier Vittorio è proprio colui che, uscito dalla fase della giovinezza, entra in quella in cui un uomo, fatto d’esperienza e capacità di leggersi, può affidare alla pagina le sue paure.

Quello che ci viene detto in questo secondo movimento “Il mondo di Leo” è proprio la costruzione del sè attraverso il ricordo: sembra proprio che l’intero capitolo venga scritto come fosse una novella recherche, un attraversamento in cui Leo possa ricostruirsi nella sua pur difficile identità. E’ che ora tale identità dev’essere costruita in assenza, quasi percepisse la consapevolezza che non si può dare una nuova storia, un nuovo amore, una nuova vita che non sia un ripiegamento verso una consapevolezza di un inaridimento, che lo porti a considerare che per lui, più che condivisione, non ci possono essere che “camere seperate”.

Ed è proprio nel terzo movimento che si arriva ad una chiarificazione, a partire dalla prima: la storia con Thomas, era una vera storia o qualcosa di altro?:

MEGLIO RIMANERE SOLI

Ma il mattino successivo, insieme allo stordimento e al mal di testa, Leo seppe, con una brutalità dolorosa, che non avrebbe mai potuto vivere con Thomas nella stessa casa. Per i due anni in cui erano stati insieme la precarietà geografica del rapporto, il fatto di vivere distanti, era stato uno stimolo a continuare. Ora doveva affrontare seriamente una convivenza con un altro uomo. Ma per fare questo non aveva né modelli di comportamento da seguire, né esperienze da riciclare e alle quali far ricorso nei tentennamenti del rapporto. Sapeva che l’amore che lui continuava a nutrire per Thomas non sarebbe stato sufficiente. Si sarebbero sbranati e lui questo non lo voleva. Si sarebbero feriti, si sarebbero abbandonati. Vivere insieme significava credere in un valore che nessuno era in grado di riconoscere. Che fine avrebbe fatto il loro amore? Dovevano per forza normalizzare un rapporto che la società non poteva appunto recepire come norma? Non sarebbero divenuti lo specchio di quelle convivenze grottesche di omosessuali in cui qualcuno sempre cucina e qualcun altro va sempre al mercato a fare la spesa? In cui i due amanti si assomigliano, negli atteggiamenti, nei modi di fare, addirittura nelle espressioni del viso, al punto da diventare due  patetici replicanti di un medesimo, insostenibile, immaginario maschile, svirilizzato e infemminato? Non sarebbero diventati, nel corso del tempo, due androidi isterici, sempre sul punto di beccarsi nella conversazione, con quella pelle del viso un po’ troppo lucida e tirata e abbronzata e i capelli sempre un po’ troppo perfetti nel nascondere, al millimetro, una calvizie? Sarebbero riusciti ad accettare, dignitosamente, virilmente, l’invecchiamento non solo del proprio corpo, ma del proprio sogno e quindi del proprio amore? Leo non aveva una risposta a tutto questo. Ma era sicuro di una cosa. Che non voleva vivere nella stessa casa, nella stessa città in cui Thomas viveva. Voleva continuare a essere un amante separato, voleva continuare a sognare il suo amore e a non permettergli di infangarsi nella quotidianità. Vivendo insieme sarebbero diventati uno la caricatura dell’altro, come due osceni e imbellettati dioscuri sulla scena di un cabaret berlinese. Lui era certo del suo amore per Thomas, lo voleva per tutta la sua vita, fino alla fine. Ma non nella sua camera. Come avrebbe potuto far capire tutto questo a Thomas senza addolorarlo, senza offenderlo, senza fargli male?
La frattura fu brusca, improvvisa, anche se preparata da giorni di svogliatezze, di contatti trasandati, di contrasti. Ogni giorno si ripeteva la stessa scena. Litigavano e si rappacificavano. Ma ogni volta ognuno aggiungeva nell’altro qualcosa, finché improvvisamente accadde, inevitabile, un traboccamento di odio e di violenza. Thomas lasciò Milano. Questa volta Leo non lo accompagnò, come al solito, al treno. Si alzò solamente per chiudere la porta dell’appartamento con un doppio giro di chiave. Thomas, che aspettava l’ascensore, sul pianerottolo, dovette accorgersi di quegli scatti della serratura e Leo immaginò che ne fosse mortalmente offeso. Si sentì meschino e ridicolo. Ma in fondo era soddisfatto di rimanere solo. Accese lo stereo, staccò il telefono e si sdraiò sul divano con la bottiglia di Calvados in terra. Ne bevve un lungo sorso. Avvertiva il profumo autunnale delle mele, pensava alla Francia e ai suoi viaggi con Thomas che forse non avrebbe fatto più.

E’ che Leo sa “proteggere” non amare, e non saper amare vuol dire non saper condividere. Glielo rinfaccerà Thomas: il “bimbo” Thomas vuole vivere con chi ama; l’ “uomo” Leo vuole fuggire da chi ama, glielo scrive in uno scambio epistolare che dopo la fine della convivenza i due si scmbiano: in queste lettere Leo trova l’espressione “camere separate”, e cerca di spiegare a Thomas che lui “avrebbe voluto, con lui, un rapporto di contiguità, di appartenza, ma non di possesso“.

Tondelli e la conquista della solitudine - Tessere

Ma Thomas è alla ricerca di amore più maturo e lo trova, in una donna, e Leo ne rimane ferito. Perché poi? Sarà proprio Thomas a dirglielo:

TU MI VUOI LONTANO PER POTERMI SCRIVERE

Girarono per oltre un’ora. Thomas si era dapprima appoggiato al grembo di Leo e poi si era addormentato. Leo ne sentiva il respiro regolare e prese a cullarlo. Abbassando gli occhi poteva vedere il suo volto, come concentrato in quell’atto, le narici che si dilatavano, i capelli arruffati e lunghi sul collo. Aveva bisogno di pensare e di muoversi come se, guidando attraverso la città deserta, fosse più facile ossigenare i suoi pensieri, renderli più lucidi.
Durante la notte, solo poche ore prima in realtà, Thomas gli aveva detto: «Tu mi vuoi tenere lontano per potermi scrivere. Se io vivessi con te, non scriveresti le tue lettere. E non mi potresti pensare come un personaggio della tua messinscena. Deve esserci qualcosa di sbagliato anche in me se accetto di amarti a questo prezzo… A volte ti penso come un avvoltoio. E mi fai paura. E’ come se tu avessi bisogno ogni giorno di carne fresca con cui cibarti. Per fare questo  tu laceri, squarci, strappi via. Non ti chiedi chi sia la tua vittima, né se ti sia amica o ti ami o ti sia, al più, indifferente. C’è una voracità, che hai con le persone che ti vivono intorno, che mi spaventa. E questo tanto più perché io so quanto, dentro di te, ci sia solamente un fondo di sincera bontà».

Ed è qui forse il nodo di Leo, quello di osservare vivere e non vivere, secondo l’adagio pirandelliano, per cui: Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina, perché ogni forma è una morte.

E’ la vita di Leo, in tutto il romanzo è una lunga ed estenuante riflessione sulla morte. Eros e Thanatos, perdersi come finire: per questo non vuole più amori, per questo si era conquistato la solitudine:

SOPRAVVIVERE IN PROPRIA COMPAGNIA

E’ vero, negli ultimi anni si è conquistato, faticosamente, la propria solitudine. Ha scoperto di poter sopravvivere in propria compagnia. Ha, come direbbe un guru, ruotato gli occhi verso l’interno per andare lontano, in quello che avrebbe potuto chiamare “il mondo di Leo”. Ma facendo questo lui si è chiuso agli altri. Ritenendo di poter sopravvivere solo in se stesso altro non ha fatto che scambiare delle risposte di morte in risposte di vita. Niente amore, niente passioni, niente amicizie, niente contatti con l’esterno se non per le piccole incombenze della vita quotidiana. Gli era sembrata una soluzione saggia in cui si era, anno dopo anno, adagiato. La sua svogliatezza nei confronti delle amicizie, anche  verso quelle che più delle altre aveva a cuore, era dettata dal fatto che stava concentrandosi su di sé e che per nessun motivo poteva esserne distolto. E ora si accorge che, mentre lui ha dimenticato gli altri, gli altri hanno continuato a ricordarlo, a parlare di lui, a chiedersi della sua vita. E questo fatto lo blocca. E’ come se ora non avesse con Rodolfo alcun codice di comportamento. Gli stanno proponendo un party, qualche ragazzo, un po’ di mondanità. Niente di eccezionale. Offerte comuni. E lui non trova niente di meglio che reagire offendendosi. Perché il fatto reale è che la proposta di Rodolfo lo ha offeso. E lui lo sta disprezzando.

Il critico Severini definisce Camere separate “descrizione impietosa della perdita della prima giovinezza” d’altra parte Leo sembra vivere in un vero e proprio limbo: il suo è quello stare tra un’età fanciullesca e il non essere entrato ancora nel mondo adulto e questa duplicità la si riscontra anche nel suo essere outsider: uscire dal mondo giovanilistico ma non riuscire, o meglio non potere e non volere essere “integrato”.

D’altra parte anche lo stesso Tondelli si era sentito descrivere come autore generazionale ed ora, passati i trent’anni vuole essere percepito uno scrittore che ha trovato la sua maturità letteraria.

Tondelli cerca di costruirla attraverso un racconto metaforico: il limbatico Leo non può che ritrovarsi nello scoprirsi attraverso il ricordo; per questo i rapporti del suo protagonista vengono vissuti su due piani:

1) quello della filiazione;
2) quello religioso;

Il primo è lo strumento attraverso cui Leo  vive i rapporti: le sue storie principali le vive non solo con chi è più piccolo, ma con persone che ancora non sono integrate, studiano, suonano, ma non sono né professori, né ancora completamente musicisti.

Il secondo lo avvicina non solo alla sua infanzia, ma soprattutto al concetto di amore “assoluto” che egli prova per il Thomas morto, ede il volto di Cristo, in processione, il suo essersi sacrificato per gli uomini, la volontà di baciarne il volto il Venerdì Santo, e di scoprire che in quel momento vive la sua prima esperienza sentimentale, fa in modo che Leo viva le sue storie attraverso il dolore e, per non soffrirne, le evita.

Ma abbiamo anche letto nel romanzo l’importanza della letteratuta «Il ruolo dello scrittore – nel quale Leo si riconosce e si accetta – concilia insieme presenza e assenza dalla scena. Camere separate è un romanzo di formazione, certamente non canonico, ma senza dubbio l’unico possibile nel momento storico in cui Tondelli sta scrivendo: è l’individuo che prende coscienza della sua voce in una società postmoderna in cui le istituzioni, la politica, il sistema educativo, la famiglia o il mondo del lavoro non entrano più in rapporto diretto col problema dell’identità» (Campofreda).

Forse Tondelli questa nuova identità l’avrebbe trovata se, nel 1991, la morte per AIDS non l’avrebbe messo a tacere, ma grazie anche alla nuova forma d’intellettuale che seppe imprimere, così inserito in ogni orma d’arte “popolare e non” (il rock, il jazz e il cinema) di cui seppe darne una forma ibrida in due libri Weekend post moderno (sugli anni Ottanta) e  L’abbandono (sugli anni Novanta), in cui raccolse, come un moderno Zibaldone, tutti gli articoli e gli scritti che produsse su L’Espresso, Rockstar, Linus ed altre ed anche abbozzi di scritture altre; oppure facendosi talent scout di una nuova generazione di scrittori di cui raccolse i racconti in ben tre volumi; o ancora la via teatrale con cui partecipò con la piéce Dinner party.

 

GRAZIA DELEDDA

Grazia Deledda nasce nel 1871, quarta di sette figli, a Nuoro da Giovanni Antonio e Francesca Cambosu. Il padre, che ricoprì anche, per un brevissino periodo, il ruolo di sindaco, era un possidente terriero che tentò, senza grandi risultati, anche l’avventura commerciale; ciò rendeva la famiglia Deledda piuttosto agiata, in una realtà così povera e periferica qual era quella della città sarda.

Secondo il costume di allora poté frequentare la scuola sino alla quarta elementare (allora costituiva l’obbligo scolastico), ma la voglia d’istruzione della futura scrittrice fece sì che la ripetesse per un secondo anno. Inoltre un precettore privato l’avvicinò allo studio del latino e del francese.

Da qui ad allora la giovane Grazia si dedicò a letture eterogenee, non distinguendo forse anche per la penuria della biblioteca paterna nonché del luogo, dai tipici feuilleton francesi (Pierre Ponson du Terrail, Eugéne Sue, Alexander Dumas), a scrittici femminili come Carolina Invernizio, ai russi come Dostoevskij e Tostoj, sino alla Bibbia, letta non per il suo valore teologico quanto per le varie storie che in essa era contenute.

Casa di Grazia Deledda a Nuoro

Fu il sardo Enrico Costa (autore de Il muto di Gallura) ad incitarla quando, ancora diciassettenne inviò alla rivista romana L’ultima moda i primi scritti di cui ricordiamo il romanzo Storia di Fernanda e la raccolta di racconti Novelle sarde, ricevendone di contro l’ostracismo della comunità del paese che “si sentì offesa d’ospitare nella sua comunità una fanciulla che bisognava mettere al bando per l’audacia nel raccontare storie non adatte alle giovinette e per le scelte libere dalla rigida sottomissione alle regole di un mondo patriarcale” (Maria Elvira Ciusa).

Enrico Costa

Con il secondo romanzo Anime oneste (1894) l’autrice sarda cominciò ad affacciarsi nel mondo culturale nazionale, ma è con La via del male (1896) che ricevette la patente di scrittrice, datole dall’importante critico letterario Luigi Capuana che scrisse “[…] Qualcuno dirà: Ebbene, che ha voluto provare l’autrice con questa sua Via del male? Niente, rispondo io; ha tentato di metter fuori delle creature vive, e c’è riuscita. Non si è smarrita dietro un lavorodi analisi psicologica, artificiale; ma ha fatto sentire, pensare, agire, tutte quelle creature nel loro ambiente, proprio come fa la natura con le sue.”

Caparbia ed ambiziosa, la Deledda comprende sin da subito che se vuole diventare una scrittrice affermata deve spostarsi dal capoluogo barbaricino e trasferirsi a Cagliari.

Ed  lì che supera la paura di rimanere zitella (aveva, infatti, già ventisette anni e per la mentalità di allora era ormai destinata al nubilato) quando incontrò il mantovano Palmiro Madesani, inviato in Sardegna in qualità di funzionario delle Finanze.

Grazia Deledda e Palmiro Madesani

Dopo il matrimonio Grazia ed il marito, nel 1900, lasciano l’isola. Aveva già dato alle stampe Il vecchio della montagna, mentre stava pubblicando a puntate sulla Nuova Antologia uno dei suoi capolavori Elias Portolu che uscirà in volume nel 1903.

Il protagonista Elias, un pastore barbaricino che a seguito di una condanna sconterà la pena detentiva in un carcere della penisola, dopo la scacercazione ritorna in Sardegna spinto dal desiderio di iniziare una vita nuova. Mentre lavora nell’ovile della famiglia, Elias si innamora di Maddalena, la sposa di suo fratello Pietro, e con lei commette adulterio, mettendola incinta. Lui decide di farsi prete. Prima che nasca il bambino, Pietro muore per un’infiammazione ai reni, e Berteddu viene riconosciuto come suo figlio. Ma a questo punto Elias è sul punto di ricevere gli ordini. Tre giorni prima della cerimonia, Maddalena prega Elias di sposarla e di dichiararsi padre del bambino. Ma Elias è determinato a prendere l’ordinazione sacerdotale e la sua decisione è irrevocabile. Pochi anni più tardi, il figlioletto di Elias e Maddalena, affetto da una grave malattia, morirà.

UOMINI COME CANNE

Elias si sentiva triste; non sapeva come cominciare, e si guardava ostinatamente le mani; zio Martinu capì in quale stato d’animo si trovava il suo giovane amico, e cercò di trarlo d’imbarazzo.
«Elias Portolu,» disse gravemente, «io so quello che vuoi dirmi. Maddalena è innamorata di te.» «Zitto!» disse l’altro con spavento, mettendogli la mano sul braccio. «Ogni piccola macchia porta piccole orecchie!» aggiunse tosto, per scusare il suo turbamento.
«Sì,» rispose con voce grave il “padre della selva”, «ogni piccola macchia, ogni albero, ogni pietra porta orecchie. E che perciò? Ciò che io ho detto e che dirò lo può ascoltare chiunque, cominciando da Dio che è lassù, e terminando nel più misero servo. Maria Maddalena ti ama, tu l’ami; unitevi in Dio, perchè egli vi ha creato l’uno per l’altra.»
Elias lo guardava trasognato; ricordava il colloquio avuto con prete Porcheddu, i consigli, gli avvertimenti avuti in quella indimenticabile notte di San Francesco. A chi dare ascolto?
«Ma è la sposa di mio fratello, zio Martinu!»
«E se è la sposa di tuo fratello? Lo ama forse! No. Dunque non e sua e non sarà mai sua secondo le leggi del Signore. Il matrimonio d’amore è il matrimonio di Dio, quello di convenienza è il matrimonio del diavolo. Salvati, Elias Portolu, e salva la colomba, come la chiama tuo padre. Maria Maddalena accettò Pietro perchè glielo imposero, perchè egli aveva grano, perchè aveva orzo, fave, casa, buoi, terre. Il diavolo operava. Ma Dio aveva destinato altrimenti. Egli ti fece tornare, ti fece incontrare con la ragazza: vi siete visti, vi siete amati, pur sapendo che secondo i pregiudizi degli uomini non potevate neppure guardarvi. Non senti tu in questo una forza superiore all’uomo, che gli addita la sua via? Non è la mano di Dio? Pensaci bene. Elias Portolu; ci pensi, pensato ci hai?»
«È vero. Ma Pietro è mio fratello.»
«Siamo tutti fratelli, Elias Portolu. Pietro non è uno stupido, egli capisce la ragione. Va, digli: “Fratello mio, io amo la tua sposa e lei mi ama; che pensi di fare? Vuoi rendere infelice fratello tuo e quell’altra creatura innocente?»
Elias sentì freddo al solo pensiero di parlar così a suo fratello, e scosse la testa con dolore e con terrore.
«Mai! Mai! Pietro mi ammazzerebbe, zio Martinu!»
«A mio avviso, tu hai paura.»
«Sì, perchè nascondervelo? Ho paura, ma non della morte. È che anche Maddalena sarebbe perduta, e anche Pietro e tutta la mia famiglia. Ma non è solo questa spina che io ho nel cuore, zio Martinu. È che io amo mio fratello e non voglio, anche ammesso che egli si rassegni, che sia infelice.»
«Pietro potrebbe rassegnarsi più facilmente di te; è un carattere diverso dal tuo. Io capisco i tuoi buoni sentimenti, Elias Portolu, ma non li approvo. Pensa alle conseguenze; ci hai pensato mai? Maddalena ti ama perdutamente, io gliel’ho letto negli occhi. Se tu taci, ella sposerà Pietro, verrà a stare a casa tua, e finirete col perdervi, poichè la natura umana è fragile. Lo senti, Elias Portolu? Pensato ci hai? La tentazione si vince oggi, si vince domani, ma posdomani finisce col vincere lei, perchè noi non siamo di pietra. Ci hai pensato, Elias Portolu?»
«È vero, è vero!» disse Elias, con gli occhi pieni di terrore.
Tacquero un momento; intorno a loro il silenzio era intenso, infinito; l’ombra calava sui boschi, il cielo di peonia impallidiva in tenere sfumature di viola. E d’un tratto Elias sentì quella gran pace arcana penetrargli fino al cuore.
«Ma io,» disse con voce mutata, «me n’andrò di casa mia.»
«Prenderai moglie? Bada che ciò sarà forse peggio.»
«No, io non prenderò mai moglie.»
«Cosa farai dunque!»
«Mi farò prete. Voi non vi meravigliate, zio Martinu?»
«Io non mi meraviglio di nulla.»
«Che cosa dunque mi consigliate? Nel sogno che vi raccontai, fatto la prima sera del mio ritorno, voi mi consigliavate di farmi prete.»
«Una cosa è il sogno, un’altra è la realtà, Elias Portolu. Io non ti sconsiglio se tu hai la vocazione, ma ti dico che neppure ciò ti salverà. Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne; pensaci bene.»  

Deledda e la disperazione di Elias

Il brano ci porta dentro il mondo deleddiano in cui si mescolano passioni ancestrali, sensi di colpa, una religiosità “punitiva” che rende i protagonisti della scrittrice sarda quasi schiavi di un destino già segnato. Elias è un uomo che si è trovato di fronte ad una passione che lo ha travolto, andando contro i divieti sociali. Ciò lo condurrà ad una lacerazione interiore che dovrà pagare con il senso della rinuncia, rinuncia a cui non dovrà mai venir meno, perchè solo attraverso essa potrà superare il senso di colpa e diventare così un buon prete.

Sembra qui proporsi il tema nuovo in cui l’ancestrale si scontri con il razionale, il primo rappresentato da Elias e il secondo da zio Martino, ma tutto ciò non viene riprodotto con tecniche innovative: rimane il narratore onniscente che ci guida alla comprensione dei personaggi.

Nel giro di poco tempo si può tranquillamente affermare che la Deledda riesce ad inserirsi a pieno titolo nell’ambiente culturale romano, riuscendo, nel giro di tre anni, a pubblicare altri due romanzi, Dopo il divorzio e Cenere (quest’ultimo ritenuto uno dei suoi migliori e da cui sarà tratto un celebre film muto interpretato da Eleonora Duse), e a conoscere scrittori di una certa risonanza nazionale, come Edmondo De Amicis e Antonio Fogazzaro.

Rosalia “Olì” Derios, appena quindicenne, fa la conoscenza del giovane Anania, mezzadro di un ricco proprietario dei cui campi situati nelle vicinane si prende saltuariamente cura, risiedendo a Nuoro. I due si innamorano. Il padre di Olì scopre che Anania era un uomo sposato e quando il padre si accorge “che sua figlia aveva peccato” con lui, la caccia di casa. Olì si trasferisce a Fonni, a casa di una vedova, e lì partorisce il figlio di Anania, battezzato col nome paterno. In seguito si reca col figlio, ormai di sette anni, a Nuoro, e lo introduce a casa del padre, facendo poi perdere le proprie tracce. Tatàna, la moglie di Anania padre, si affeziona al bimbo e lo terrà con sé. Anania padre, a Nuoro, gestisce un frantoio di proprietà di Daniele Carboni, sindaco della città. Quest’ultimo, avendo appurato l’intenzione del giovane Anania di intraprendere una professione, si assume l’onere di accompagnarlo negli studi. Passano gli anni, e, quando Anania è studente ginnasiale, fra lui e la figlia di Carboni, Margherita si instaura un rapporto amoroso. Le differenze di classe sociale si fanno sentire, e Anania soffre della condizione di figlio illegittimo, e teme che questo fatto possa inficiare fra loro due. Anania si trasferisce prima a Cagliari, dove frequenta il liceo e i primi anni universitari, poi a Roma, per completare gli studi. Il rapporto con Margherita prosegue, sebbene Anania perseverasse nel voler  rintracciare la madre e starle vicino. Cercata in lungo e in largo, e alla fine l’aveva ritrovata non lontana da Fonni, terribilmente invecchiata. Anania vuole provvedere a lei, anche se ciò avrebbe potuto significare la fine del suo rapporto con Margherita, essendo Olì disonorata e degradata. Quando Anania torna a Nuoro il rapporto con Margherita ha tristemente termine. Anania viene richiamato a Fonni, e lì vi trova la madre morta, suicida.

E’ evidente come in questo romanzo emergano più di un riferimento letterario. Partiamo dall’Assommoir di Zola:

NEL MOLINO

La sera, poi, si riunivano intorno al fuoco della caldaia le persone più freddolose del vicinato: per lo più la compagnia veniva composta, oltre che dal mugnaio e dai clienti, che aiutavano a spingere la sbarra del torchio, da cinque o sei individui sempre alticci. Uno di questi, Efes Cau, già ricco possidente, ridotto in estrema miseria dal vizio del vino, dormiva quasi ogni notte nel molino, infestando di insetti l’angolo dove si coricava. Una sera, appunto, sorse questione fra il mugnaio ed un ricco contadino che aveva trovato un brutto insetto in un suo sacco di olive. 
«Dovresti vergognarti, per Dio!» gridava il contadino. «Perchè lasci entrare qui tutti i vagabondi di Nuoro?» 
«Dopo tutto egli era ricco, più ricco di te!» gridò il mugnaio, difendendo il Cau. 
 «Questo non impedisce che ora egli viva di elemosine e sia pieno di insetti,» rispose l’altro con disprezzo. 
Allora zio Pera l’ortolano, che stava seduto accanto al fuoco col suo randello fra le ginocchia, recitò una canzonetta: 

Onzi pessone bia
nde juchet de munnia.
E tue chi tu sers nende
nde juches unu andende
issu collette!

Il contadino si toccò istintivamente il colletto e tutti risero. Anche il contadino rise, si calmò ed anzi fece portare da casa sua un bottiglione di vino.
Anania e Bustianeddu, seduti in un angolo, sulle sanse calde, si divertivano nell’udire i discorsi dei grandi: e quando arrivò Efes, come sempre ubriaco, barcollante, vestito d’un vecchio abito da caccia del signor Carboni, Bustianeddu gli andò incontro e gli cantò la canzonetta di zio Pera.

Onzi pessone bia…

Efes lo guardò coi suoi occhi vitrei, rotondi e sporgenti, e mentre sulle sue guancie gialle e cascanti passava come un brivido di disgusto, la sua mano palpava il lurido collo della giacca abbottonata. 
La gente ricominciò a ridere, e l’infelice si guardò attorno e barcollò; poi si mise a piangere accorgendosi che lo deridevano. 
«Efes!» gridò zio Pera, mostrandogli un bicchiere colmo che al riflesso del fuoco pareva di rubino. 
L’ubriaco si avanzò, sorridendo fra le lagrime con un sorriso ebete. 
«No,» disse Franziscu Carchide, il giovane calzolaio, nonchè ricamatore di cinture, bel giovine galante, dal viso roseo, «se tu non balli non bevi.» 
E preso il bicchiere dalle mani del vecchio lo sollevò in alto, mentre Efes guardava e tendeva le braccia animato dal brutale desiderio del vino. 
«Dammi, dammi...» 
«No, se non balli, no.» Egli fece un giro intorno a sè, reggendosi in equilibrio. 
«Bisogna anche cantare, Efes!» 
Ed egli apri la bocca puzzolente ed emise una nota rauca:

Quando Amelia sì pura e candida

Egli tentava sempre questo motivo; ma arrivato all’ultima parola contorceva la bocca come spasimando per la vana ricerca dell’altro verso che non ricordava. Anania e Bustianeddu ridevano sgangheratamente, accoccolati sulle sanse, simili a due pulcini. «Senti,» propose Bustianeddu, «mettiamogli delle spille, nel posto dove si corica.» «Perchè vuoi mettergli delle spille?» «Perchè si punga, ecco: allora ballerà davvero. Io ho le spille.» «Mettiamole,» rispose l’altro, sebbene a malincuore. L’ubriaco ballava ancora, barcollante, cascante, tendendo le mani verso il bicchiere; e la gente rideva. Ma l’allegria giunse al colmo quando entrò nel molino Nanna, l’ubriacona. Quella sera, però, ella era sana, aveva le vesti pulite e la faccia meno ripugnante del solito; i suoi occhietti brillavano d’una certa intelligenza. Era stata durante il giorno a cogliere erbe mangerecce selvatiche, e veniva a domandare un po’ d’olio per condirle. Vedendo Efes in quello stato, fatto ludibrio della gente, ella ebbe un lampo negli occhi; si avanzò, prese l’infelice per un braccio e nonostante le comiche proteste del ricco contadino, lo costrinse a sedersi su un sacco di olive.

Eleonora Duse interprete di Cenere dal romanzo della Deledda

al Manzoni dell’Addio ai monti:

ADDIO ALL’ORTHOBENE

Addio, addio, orti guardanti la valle; addio scroscio lontano del torrente che annunzia il tornar dell’inverno; addio canto del cuculo che annunzia il tornar della primavera; addio grigio e selvaggio Orthobene dagli elci disegnati sulle nuvole come capelli ribelli d’un gigante dormente; addio rosee e cerule montagne lontane; addio focolare tranquillo e ospitale, cameretta odorosa di miele, di frutta e di sogni!
Addio umili creature inconscie della propria sventura, vecchio zio Pera vizioso, Efes e Nanna disgraziati, Rebecca infelice, Maestro Pane stravagante, pazzi, mendicanti, delinquenti, fanciulle belle e inconsapevoli, bambini votati al dolore, gente tutta infelice o spregevole che Anania non ama ma sente attaccata alla sua esistenza come il musco alla pietra, gente tutta che egli abbandona con gioia e con dolore!
E addio dolcezza e luce sopra tanti oscuri dolori, arcobaleno incurvato come cornice di perle sul quadro screpolato di una miseria antica ed eterna, – Margherita, addio!

Il monte Orthobene

a momenti idillici ricchi di eco dannunziani:

PRIMA DELLA PARTENZA

Un’agitazione febbrile invase Anania; senza esitare oltre uscì e camminò come un sonnambulo per le straducole buie e deserte. Dietro i muri dei cortili, nelle rozze tettoie delle case paesane, i galli continuavano i loro canti dispettosi; l’aria umida odorava di stoppia; una povera infornatrice di pane d’orzo, che tornava dal compiere il suo faticoso mestiere, attraversò una viuzza; il passo di due alti carabinieri risuonò sinistramente sul lastrico del Corso: poi più nessuno, più nulla.
Anania rasentava i muri, pauroso d’esser riconosciuto nonostante il buio, e appena impostata la lettera si mise a correre. Ma non potè rientrare a casa; gli pareva di soffocare, aveva bisogno d’aria, di immensità. Scese verso lo stradale di Orosei, risalì il ciglione, e solo quando si trovò ai piedi dell’Orthobene respirò, aprendo le narici come un puledro sfuggito al laccio. Avrebbe voluto gridare di gioia e di spasimo. Albeggiava; tenui veli azzurrognoli coprivano le grandi valli umide, le ultime stelle svanivano. Non sapeva perchè Anania ripeteva i versi:

Care stelle dell’Orsa io non credea….

e cercava di ricacciare da sè il pensiero di ciò che aveva fatto, mentre se ne sentiva felice fino allo spasimo.
egli sarebbe al di là delle montagne, e Margherita penserebbe invano all’ignoto ranuncolo che l’amava e che era lui.
Ed ecco, una cinzia cantò nel suo nido selvaggio, nel cuore d’un elce, e nella sua nota tremolò tutta la poesia del luogo solitario; Anania ricordò allora il canto di un altro uccellino entro l’umido fogliame d’un castagno, in una lontana mattina d’autunno, lassù, lassù, in una di quelle montagne dell’orizzonte, e rivide un bimbo che scendeva lieto la china, ignaro del proprio triste destino.
“Anche adesso,” pensò rattristandosi, “anche adesso sono lieto di partire, e chissà invece che cosa mi aspetta!”

Il richiamo ad autori e “mode” culturali, ancora imperanti nell’Italia dei primi anni del Novecento, rendono questo romanzo non perfettamente riuscito, in quanto la scrittrice non riuscire a volte a trovare una propria cifra stilistica, ma ad inseguire le attese e le abitudini letterarie di lettori piccolo borghesi. D’altra parte la Deledda, anche in questo caso, mettendo in luce la storia di “un figlio del peccato” e dall’impossibilità, per lui, di non pagarne il fio, se non con il sacrificio della madre, rafforza le aspettative di tale pubblico, anche se lo problematizza facendo di Anania uno sconfitto incolpevole.

A Roma la scrittrice trova proprio un personale modus operandi: a farle da press agent sarà il marito, dando così il modo a Pirandello di ironizzare sulla coppia allora in auge con il romanzo Giustino Roncella nato Bocciolo, mentre lei si dedicherà alla lettura e alla scrittura due ore al giorno nel pomeriggio.

Grazia Deledda con Palmiro Madesani e i figli Sardus e Franz

Sarà in questo modo che continueranno ad uscire romanzi e racconti, tra cui  il più importante e quello che gli darà fama internazionale sarà Canne al vento del 1913.

Nella casa delle dame Pintor, Ruth, Noemi, Ester, discendenti di una famiglia sarda nobile andata in rovina, il servo Efix riesce a tenere in vita l’antica dignità a prezzo di grandi fatiche e di una devozione senza fine alle padrone. Egli coltiva l’ultimo podere rimasto, con i proventi del quale si mantengono le sorelle: due Ruth ed Ester, ormai rassegnate in un malinconico limbo di memorie e di antiche tradizioni, Noemi invece ancora ricca di sangue giovane, ribelle e chiusa in sdegnosa solitudine. In passato, una quarta sorella, Lia, che si era rifiutata all’egoismo del padre, era fuggita nel continente. Alla sua fuga aveva assistito, testimone silenzioso e forse innamorato, Efix, forse colpevole involontario della morte del padre che aveva tentato di fermare la figlia fuggiasca: nessuno, tuttavia, è al corrente del segreto, la morte del padre essendo stata attribuita a disgrazia. Ora, morta Lia, torna nella terra materna Giacinto, il figlio di lei, e nella vecchia casa irrompono ricordi, risentimenti, speranze, passioni dimenticate. Giacinto conduce una vita dissipata e finisce per ridurre alla rovina le zie: quando egli si allontana in cerca di lavoro, le dame Pintor sono costrette a vendere il podere a don Predu, cui Noemi, soggiogata da un rapporto di amore odio per il nipote, ha rifiutato la mano. Solo più tardi, dopo l’allontanamento di Efix dalla casa che egli crede maledetta per il delitto di cui si accusa, il suo successivo ritorno e il matrimonio di Giacinto con Grixenda la figlia della vecchia serva Pottoi, Noemi accetta le nozze ed Efix trova finalmente pace. Egli muore il giorno stesso delle nozze di Noemi: a Ester aveva detto: «Siamo canne, e la sorte è il vento!», e alla richiesta del perché del destino, Efix aveva risposto: «E il vento perché? Dio lo sa!»

Canne al vento: sceneggiato RAI

L’USURAIA POTTOI, IL SERVO EFIX E IL GIOVANE GIACINTO

Nei tempi di carestia, cioè nelle settimane che precedono la raccolta dell’orzo, e la gente, terminata la provvista del grano, ricorre all’usura, la vecchia Pottoi andava a pescare sanguisughe. Il suo posto favorito era una insenatura del fiume sotto la Collina dei Colombi presso il poderetto delle dame Pintor.
Stava là ore ed ore immobile, seduta all’ombra di un ontano, con le gambe nude nell’acqua trasparente verdognola venata d’oro; e mentre con una mano teneva ferma sulla sabbia una bottiglia, con l’altra si toccava la collana.
Di tanto in tanto si curvava un poco, vedeva i suoi piedi ondulare grandi e giallastri entro l’acqua, ne traeva uno, staccava dalla gamba bagnata un acino nero lucente che vi si era attaccato, e lo introduceva nella bottiglia spingendovelo giù con un giunco. L’acino s’allungava, si restringeva, prendeva la forma di un anello nero: era la sanguisuga.
Un giorno, verso la metà di giugno, ella salì fino alla capanna di Efix. Faceva un gran caldo e la valle era giù tutta gialla sotto il cielo d’un azzurro velato.
Il servo intrecciava una stuoia, all’ombra delle canne, con le dita che tremavano per la febbre di malaria; vedendo la vecchia che gli si sedeva ai piedi con la bottiglia in grembo, sollevò appena gli occhi velati e attese rassegnato, quasi sapesse già quello che ella voleva da lui.
«Efix, sei un uomo di Dio e puoi parlarmi con la coscienza in mano. Che intenzioni ha il tuo padroncino? Egli viene a casa mia, si mette a sedere, dice al ragazzo: suona la fisarmonica (gliel’ha regalata lui), poi dice a me: manderò zia Ester, a chiedervi la mano di Grixenda; ma donna Ester non si vede, e un giorno che io sono andata là, donna Noemi mi ha preso viva, e morta m’ha lasciata, tanti improperi mi ha detto. Tornata poi a casa, Grixenda m’ha anche lei mancato di rispetto, perchè non vuole che vada dalle tue padrone. Io non so da qual parte rivolgermi, Efix; non siamo noi che abbiamo chiamato il ragazzo dalla strada: è venuto lui. Kallina mi dice: cacciatelo fuori. Ma lei lo caccia fuori, quando ci va?»
Efix sorrise.
«Là non va certo per far all’amore!…»
Allora la vecchia sollevò irritata il viso e il suo collo parve allungarsi più del solito, tutto corde.
«E in casa mia viene forse a far all’amore? No; egli è un ragazzo onesto. Neppure tocca la mano a Grixenda. Essi si amano come buoni cristiani, in attesa di sposarsi. Dimmi in tua coscienza, Efix, che intenzioni ha? Fammi questa carità, per l’anima del tuo padrone.»
Efix diventò pensieroso.
«Sì, una sera, alla festa, egli mi disse: la sposerò…. In mia coscienza credo però che egli non possa.»
«Perchè? Egli non è nobile.»
«Non può, ripeto, donna!» disse Efix con più forza.
«Per denari ne ha, questo si vede. Spende senza contare. E il tuo padrone morto diceva, mi ricordo, quando anche lui veniva a sedersi a casa mia ed era giovine e viveva mia nonna: l’amore è quello che lega l’uomo alla donna, e il denaro quello che lega la donna all’uomo.»
«Lui? Diceva così? A chi?»
«A me, sei sordo? Sì a me. Ma io avevo quindici anni ed ero senza malizia. Mia nonna cacciò via di casa don Zame e mi fece sposare Priamu Piras. E Priamu mio era un valent’uomo: aveva un pungolo con una lesina in cima e mi diceva, avvicinandomelo agli occhi: vedi? ti porto via la pupilla viva se guardi don Zame quando ti guarda. Così passò il tempo. Ma i morti ritornano: eccoli, quando don Giacintino sta seduto sullo sgabello e Grixenda sulla soglia della porta, mi par di essere io e il beato morto…»
Quando ella incominciava a divagare così non la finiva mai, ed Efix che lo sapeva la mandò via infastidito.
«Andate in pace! Cercate anche voi un uomo con un buon pungolo, per nipote vostra!»
E la vecchia contenta di sapere che il ragazzo una sera alla festa aveva detto: “la sposerò” andò via senz’altro. Efix rimase solo in faccia alla luna rossa che saliva tra i vapori cinerei della sera, ma si sentiva inquieto: nel sopore in cui tutta la valle era immersa, il mormorio dell’acqua gli pareva il ronzio della febbre, e che i grilli stessi col loro canto si lamentassero senza tregua.
No, la vita che Giacinto conduceva non era quella di un giovane onesto e timorato di Dio: giorno per giorno le grandi speranze fondate su lui cadevano lasciando posto a vere inquietudini. Egli spendeva e non guadagnava; ed anche il pozzo più profondo, pensava Efix, ad attingervi troppo si secca.

Anchise Picchi: Canne al vento (1968)

A guardare con attenzione questo brano ci dimostra come la prosa deleddiana sia il frutto di varie influenze: da quella verista come appare nel suo incipit, con annesso, alla fine, l’uso dei proverbi: anche il pozzo più profondo ad attingervi troppo si secca; a quella lirica come nella descrizione di alcuni particolari: il servo intrecciava una stuoia, all’ombra delle canne, con le dita che tremavano per la febbre di malaria; allo stesso modo sono presenti i richiami anche ad una cultura ancestrale: ti porto via la pupilla viva se guardi don Zame quando ti guarda.

LA PARTENZA DI EFIX

Anche il viso di donna Noemi, curva cucire nel cortile, era velato d’ombra.
Efix colse una viola del pensiero dall’orlo del pozzo e andò a offrirgliela. Ella sollevò gli occhi meravigliati e non prese il fiore.
«Indovina chi glielo manda? Lo prenda».
«Tu l’hai colto e tu tienilo»
« No, davvero, lo prenda, donna Noemi».
Sedette davanti a lei, per terra, a gambe in croce come uno schiavo, prendendosi i piedi con le mani: non sapeva come cominciare, ma sapeva già che la padrona indovinava. Infatti Noemi aveva lasciato cadere la viola in una valletta bianca della tela; le batteva il cuore; sì, indovinava.
« Donna Ester, dov’è?» disse Efix curvandosi sui suoi piedi. « Come sarà contenta, quando saprà! Don Predu mi aveva fatto tornare in paese per questo…»
«Ma cosa dici, disgraziato?»
«No, non mi chiami disgraziato! Sono contento come se morissi in grazia di Dio in questo momento e vedessi il cielo aperto. Sono stato in chiesa, prima di tornar qui, e ringraziare il Signore. In coscienza mia, è così…»
«Ma perché, Efix?» ella disse con voce vaga, pungendo con l’ago la viola. «Io non ti capisco».
Egli sollevò gli occhi: la vide pallida, con le labbra tremanti, con le palpebre livide come quelle di una morta. È la gioia, certo, che la fase sbiancare così; e degli prova un tremito, un desiderio di inginocchiarsi davanti a lei e dirle: sì, sì, è una grande gioia, donna Noemi, piangiamo assieme.
«Lei accetta, donna Noemi, padrona mia? È contenta, vero? Devo dirgli che venga?»
Ella fece violenza a se stessa; si morsicò le labbra, riaprì gli occhi e il sangue torno a colorile il viso, ma lievemente, appena intorno alle palpebre e sulle labbra. Guardò Efix ed egli rivide gli occhi di lei come nei giorni terribili, pieni di rancore e di superbia. L’ombra ridiscese su di lui.
«Non si offenda se gliene parlo io per il primo, donna Noemi! Sono un povero servo, sì, ma sono chiuso come una lettera. Se lei accetta, don Predu manderà il prete a fare la domanda, o chi vuol lei…»
Noemi butto giù la viola ferita e se rimise a cucire. Pareva tranquilla.
«Se Predu ha voglia di ridere, rida pure; non m’importa nulla».
«Donna Noemi!»
«Ebbene, che hai adesso? Levati, non star lì inginocchiato, con le mani giunte! Sei stupido!»
«Ma donna Noemi, che ha? Rifiuta?»
«Rifiuto»
«Rifiuta? Ma perché, donna Noemi mia?»
«Perché? Ma te lo sei dimenticato? Sono vecchia, Efix, e le vecchie non scherzano volentieri. Non parlarmene più».
«Questo solo mi dice?»
«Questo solo ti dico».
Tacquero. Ella cuciva: egli aveva sollevato le ginocchia e si stringeva in mezzo le mani giunte. Gli pareva di sognare, non capiva. Finalmente alzò gli occhi e si guardò attorno. No, non sognava, tutto era vero; il cortile era pieno di sole e d’ombra: qualche filo di legno cadeva dal balcone come cadono le foglie dei pini in autunno; e al di là del muro si vedeva il monte bianco come di zucchero, e tutto era soave tenero come al mattino quando egli era uscito dalla casa di don Predu. Gli pareva di sentire ancora le donne a sbattere i mobili; ma erano colpi sulla sua persona; sì, qualche cosa lo percoteva, sulla schiena, sulle spalle, sulle scapole e sui gomiti e sui ginocchi e sulle nocche delle dita. E donna Noemi era lì, pallida, che cuciva, cuciva, che gli pungeva l’anima col suo ago: e le rondini passavano incessantemente in giro, sopra le loro teste, come una ghirlanda mobile di fiori neri, di piccole croci nere. Le loro ombre correvano sul terreno come foglie spinte dal vento: ed egli ricordò la pena provata nell’alzarsi di sotto al pulpito e l’ombra sul viso della Maddalena. Sospirò profondamente. Capiva. Era il castigo di Dio che gravava su di lui.
Allora, piano piano, cominciò a parlare, afferrando il lembo della gonna di Noemi, e non capiva bene ciò che diceva, ma doveva essere un discorso poco convincente perché la donna continuava a cucire e non rispondeva, di nuovo calma e con un sorriso ambiguo sulle labbra.
Solo dopo ch’egli parve aver detto tutto, tutte le miserie passate, tutti gli splendori da venire, ella parlò, ma piano, sollevando appena gli occhi quasi parlasse con gli occhi soltanto.
«Ma non prenderti tanto pensiero, Efix, non immischiarti oltre nei fatti nostri. E poi lo sai: abbiamo vissuto finora; non siamo state bene, finora? Che ci è mancato? E ti diremo avanti, con l’aiuto di Dio: il pane non mancherà. In casa di Predu c’è troppa roba e non saprei neppure custodirla».
Efix meditava, disperato. Che fare, se non ricorrere a qualche menzogna?
«Eppoi devo dirle cose gravi, donna Noemi mia. Non volevo, ma lei, con la sua ostinazione, mi costringe. Don Predu è tanto preso che se lei non lo vuole morrà. Sì, è come stregato, non dorme più. Lei non sa cosa sia l’amore, donna Noemi mia; fa morire. È Poca coscienza far morire un uomo…»
Allora Noemi rise e i suoi denti intatti luccicare sino in fondo come quelli di una fanciulla follemente allegra. Quel riso fece tanto male a Efix, lo irritò, lo rese maligno e bugiardo.
«Eppoi Un’altra cosa più grave ancora, donna Noemi! Sì, mi costringe a dirgliela. Don Giacinto minaccia di tornarsene qui… Intende?»
Ella smise di cucire, si drizzò sulla vita, si piegò indietro col viso per respirare meglio: le sue mani abbrancare la tela.
Ed Efix balzò su spaventato, credendo che ella stesse per svenire.
Ma fu un attimo. E la torno a guardarlo coi suoi occhi cattivi e disse calma: «Anche se torna non c’e piu nulla da perdere. E non abbiamo bisogno di nessuno per difenderci».
Egli raccolse di terra la viola e andò a sedersi sulla scala, come la notte dopo la morte di donna Ruth. Non si domandava più perché Noemi rifiutava la vita: gli sembrava di capire. Era il castigo di Dio su di lui: il castigo che gravava su tutta la casa. Ed egli era il verme dentro il frutto, era il tarlo che rodeva il destino della famiglia. Appunto come il tarlo egli aveva fatto tutte le sue cose di nascosto: aveva roso, roso, roso, adesso si meravigliava se tutto sera sgretolato intorno a lui? Bisognava andarsene: questo solo capiva. Ma un filo di speranza lo sosteneva ancora, come lo stelo ancor fresco sosteneva la viola livida che egli teneva fra le dita. Dio non abbandonerebbe le disgraziate donne. Andato via lui, donna Noemi, forse offesa dalla stessa maniera dell’ambasciata, si piegherebbe. Dopo tutto, due donne sole non possono vivere.
Bisognava andare. Come aveva fatto, a non capirlo ancora? Gli sembrò che una voce lo chiamasse: e una voce lo chiamò davvero, al di là del muro, dal silenzio della strada.
S’alzò e s’avviò: poi tornò indietro per riprendere la Bisaccia attaccata al piuolo sotto la loggia. Il piuolo, fisso lì da secoli, si staccò e balzò fra i ciottoli del cortile come un grosso dito nero. Egli trasalì. Sì, bisognava andarsene: anche il piuolo si staccava per non sostener più la bisaccia.
E con sorpresa di Noemi, che aveva seguito con la coda dell’occhio tutti i movimenti di lui, egli non riattaccò il piuolo, e s’avviò.

Edizione originale di Canne al vento

E’ questa una pagina in cui l’arte della Deledda emerge con evidenza. Sebbene non manchi un eccessivo intervento dell’autrice, vediamo qui come il tema della colpa d’espiare (la morte del padre delle sorelle, in questo caso di Noemi, di cui Efix s’incolpa) l’eros tabuizzato di Noemi emergano attraverso i gesti: l’accovaciarsi a gambe incrociate, la viola donata e punta, come felicità rifiutata, il volo delle rondini analogicamente accostate ad un destino funesto; elementi che hanno fatto accostare l’autrice ad una sensibilità decadente; tuttavia in questoi caso l’influenza di letture suggestionanti (gli uccelli con il simbolo della croce rimandano alle Myricae pascoliane, di solo due anni antecedenti) non inficiano la scrittura deleddiana vche comincia ad acquisire una propria asciuttezza stilistica.

La Deledda non poteva non incontrare all’interno delle sue storie, una delle figure più carismatiche della cultura sarda, quella del bandito. D’altra parte essa aveva già avuto, nella cultura verista, un antecedente illustre nella novella di Verga L’amante di Gramigna. E’ evidente che la Deledda lo inserisca all’interno di una storia fatta di divieti tra l’impulso dell’eros e quello della convenzione sociale; ma non è nemmeno un caso che non sarà lui ad essere il portatore del mondo ideologico della Deledda, ma la donna, il cui nome dà il titolo al romanzo  Marianna Sirca del 1915.

Amore rosso (tratto da Marianna Sirca) film del 1952

Marianna Sirca è una ricca proprietaria terriera che si innamora di uno dei più famosi banditi della zona, Simone Sole. L’amore è ricambiato da Simone, tanto che questi è disposto a sposare Marianna nonostante tutte le difficoltà che si interpongono fra loro e le tradizioni familiari. Alla fine, fra mille bugie e sotterfugi, Simone decide di lasciare Marianna per non rinunciare alla sua libertà e per evitarle gravi problemi con i componenti della famiglia, soprattutto con Sebastiano Sirca, cugino di Marianna, innamorato di lei e nemico di Simone. Il loro rapporto terminerà definitivamente in maniera tragica con la morte di Simone per mano di Sebastiano.

 

LA LIBERTA’ DI MARIANNA

Era sola e tranquilla; nulla le mancava; aveva intorno a sé il suo vasto patrimonio custodito da un servo fidato e d’animo semplice qual era suo padre; e laggiù a Nuoro la sua casa era anch’essa custodita dalla serva fedele che alla notte non dormiva per vegliare contro i ladri.
Nulla le mancava: eppure ripiegata su se stessa, si guardava dentro, con piena coscienza di sé, e vedeva un crepuscolo, sereno, sì, ma crepuscolo: rosso e grigio, grigio e rosso e solitario come il crepuscolo della tanca.
Le sembrava di esser vecchia; si rivedeva bambina in quel luogo medesimo, la prima volta che l’avevano condotta lassù e qualcuno le aveva sussurrato all’orecchio: “se sarai brava tutto questo sarà tuo.” E lei s’era guardata attorno, coi suoi occhi placidi, senza meraviglia e senza desiderio, pure rispondendo di sì. E gira di qua, gira di là, non troppo lontano per non smarrirsi, aveva trovato un nascondiglio, una pietra scavata come una culla, e vi si era messa dentro, tutta contenta di essere sola, padrona di tutto, ma nascosta a tutto: e le pareva di essere come il nocciolo dentro il frutto, come l’uccellino dentro l’uovo. Così, rannicchiata, contenta che i pastori non la prendessero per la sottanina, al suo passare, e le dicessero ammiccando: “mi presti il tuo posto, Marianna?” s’era anche addormentata. Ed ecco si svegliava, dopo tanti anni. Ne aveva trenta, adesso, e ancora neppure conosceva l’amore. L’avevano allevata apparentemente come una ragazza di famiglia nobile, destinata ad un ricco matrimonio; in realtà la sua vita era stata quella di una serva sottomessa non solo ai padroni ma ai servi di maggior grado di lei.  

LA LIBERTA’ DI SIMONE

«Lo vedi? Ti ha ingannato. E chi sa se tu, conoscendo tutta la verità, avresti pronunziato quella parola! Chi sa mai nulla? Tu credi che Simone ti lasci per amore, per debolezza, e invece ti lascia per vanità o per coraggio, forse… Chi sa mai nulla? Intanto io non ti ho detto tutto, disgraziata. Non ti ho detto che quei tre di un anno fa sono venuti ancora a cercare Simone, e lo hanno lusingato, adulato, e il più giovane, Bantine Fera, ha riso sapendo Simone innamorato, ed ha sputato in segno di disprezzo sapendo che Simone voleva sposarsi in segreto e presentarsi al giudice. Ecco perché Simone ti lascia: perché ha vergogna di amare. Io avevo un bel predicare: un bel dirgli: “Simone, bada alla tua coscienza, Simone, non rendere infelice una donna che ti ama”. Finché è stato davanti a me, soli, ha riso di me e delle mie prediche; lui è il più forte, o si crede il più forte, e si capisce che ascoltava solo il suo desiderio. Ma venuto l’altro, Bantine Fera, che è più forte di lui, si è piegato; ma per fingere anche a se stesso che è forte, ha tirato fuori la solita scusa: che non sapeva cosa si faceva, ch’era ammaliato, che tu lo avevi ammaliato, ma che ora vuol essere forte, libero, generoso. Perché Bantine Fera ha abbandonato una donna (che non valeva neppure l’unghia tagliata del dito mignolo del tuo piede, Marianna!) anche lui ti abbandona. E ti ama, Marianna! Chi non deve amarti? Scendessero i giganti dal monte si piegherebbero davanti a te. Ma egli vuole imitare Bantine Fera: ed egli esagera; per imitarlo, gli corre davanti come il cane corre davanti al cavallo!»

Banditismo sardo primi Novecento

Questi due brani metteno bene in luce l’impossibilità di realizzazione dell’amore tra Marianna e Simone, quasi fosse ciascuno “geloso” della propria libertà. Ma, a leggere il romanzo, non è così. Il bandito Simone Sole non è un personaggio negativo: vive in lui (e nel suo nome) un codice accettato dalla comunità in quanto egli si è fatto bandito perchè non vi era altro modo per uscire dallo stato di servaggio cui era destinato. Costretto dalla situazione a doversi occupare della famiglia e delle sorelle, si era dato alla latitanza, ma non aveva mai ucciso nessuno. D’altra parte gli altri banditi (il più feroce Bantine Fera, anche qui nomen omen) vengono visti dal giovane Simone come sostitutivi di un padre che lui non ha conosciuto.

Permangono in questo caso nella narrativa della Deledda, elementi che ci riportano alla visione di un bandito di maniera, d’ascendenza romantica, cui la scrittrice ci dà gesti che ci rimandano ad una adolescenza non pienamente vissuta, come se Marianna potesse rappresentare anche una figura protrettrice materna, come quando lui le pioggia il capo nel grembo.

Tutto il romanzo è pervaso da elementi naturalistici  che simboleggiano lo stato d’animo, raffigurando le montagne d’Oliena e la loro solitudine come specchio della solitudine dei personaggi.

Un’altra delle prove più riuscite della Deledda è senz’altro La madre (1919), più che un romanzo una novella lunga in cui riappaiono i suoi classici temi: la colpa e la lotta per sconfiggerla attraverso un sacrificio. In questo caso la colpa è rappresentata dall’amore “impossibile” tra il prete Paulo e la bella Agnese ed il sacrificio di Maria Maddalena:

La protagonista è Maria Maddalena, madre di Paulo, il parroco di Aar (nome immaginario), un paesino sui monti sardi. Paulo si è innamorato della giovane Agnese, che vive sola, e ben presto fra i due nasce una relazione amorosa. Paulo è diviso fra l’amore per Dio e quello per la bella parrocchiana. Maria Maddalena, che tanti sacrifici ha fatto nella sua vita per allevare il figlio, scopre la relazione e inizia a tormentarsi. A un certo punto Paulo, spinto da sensi di colpa, decide di lasciare Agnese, la quale in un primo momento vorrebbe vendicarsi rendendo nota la vicenda all’intera comunità. Ma la donna infine rinuncia al suo proposito: ciò nonostante la madre di Paulo, profondamente provata dal dolore e dall’angoscia, muore all’improvviso in chiesa, lasciando nel prete un grande rimorso.

Immagine di copertina del romanzo deleddiano

PAULO E LA MADRE

Attraversò le stanzette seguendo quel sentieruolo di luce, inciampò sullo scalino dell’uscio di cucina e arrivò fino al focolare con le mani tese in avanti come per salvarsi dalla caduta.
«E perché siete ancora alzata?», domandò con tono brusco.
La madre si volse, pallidissima nel viso, ancora improntato dalla maschera del sogno; era ferma, però, quieta, quasi dura: i suoi occhi cercavano gli occhi del figlio, mentre lui sfuggiva quello sguardo.
«Ti aspettavo, Paulo. Dove sei stato?»
Egli sentiva che qualunque parola che non fosse la verità, sarebbe stata fra loro due una commedia inutile: eppure bisognava mentire.
«Da una malata», rispose subito.
La sua voce forte parve per un attimo dissipare il cattivo sogno. Un attimo. La madre s’illuminò di gioia: poi l’ombra le ricadde sul viso, sul cuore.
«Paulo», disse piano, abbassando gli occhi con un senso di vergogna, ma senza esitare oltre, «avvicinati, devo parlarti.»
E sebbene egli non s’avvicinasse, continuò sottovoce, come parlandogli all’orecchio: «Lo so, dove sei stato. È da parecchie notti che ti sento uscire; e questa sera ti son venuta appresso, e ho veduto dove entravi. Paulo, pensa a quel che fai».
Egli taceva: pareva non avesse sentito. La madre tornò a sollevare gli occhi; lo vide alto sopra di lei, d’un pallore di morte, immobile sulla sua ombra sul muro come Cristo sulla croce. E avrebbe voluto che egli gridasse, protestando la sua innocenza. Egli invece ripensava al grido dell’anima sua davanti alla porta della chiesa: ed ecco che Dio l’aveva inteso e gli mandava incontro la madre stessa per salvarlo. Desiderò piegarsi, caderle sul grembo, pregarla di condurlo subito via così un’altra volta dal paesetto; e nello stesso tempo sentiva il mento tremargli per l’umiliazione e la rabbia: umiliazione di vedere la sua debolezza scoperta; rabbia di essere stato sorvegliato e spiato. Eppure soffriva anche per il dolore che dava a lei.
Pensò subito che non solo bisognava salvarsi, ma salvare anche le apparenze.
«Mamma», disse avvicinandosi e posandole una mano sulla testa; «vi dico che sono stato da una malata.»
«Non vi sono malati in quella casa.»
«Non tutti i malati stanno a letto.»
«E allora tu sei malato più della donna che vai ad assistere, e bisogna che ti curi. Paulo, io sono una donna ignorante, ma sono tua madre: e ti dico che il peccato è una malattia peggiore di ogni altra perché intacca l’anima. Eppoi», aggiunse prendendogli la mano e tirandolo giù perché egli si piegasse e ascoltasse meglio, «non sei tu solo che devi salvarti, figlio di Dio… Pensa che non devi perdere l’anima di lei… e neppure portarle danno in questa vita.»
Egli si era piegato alquanto, ma tosto si raddrizzò come una verga d’acciaio: la madre lo aveva colpito al cuore. Sì, era vero, in tutta quell’ora d’inquietudine, dopo lasciata la donna, non aveva pensato che a sé solo.
Tentò di ritirare la mano, da quella dura e fredda di lei, ma la sentì stretta in modo insostenibile; ed ebbe l’impressione di essere legato, arrestato, condotto in carcere.
Di nuovo pensò a Dio. Era Dio che lo legava; bisognava lasciarsi condurre; ma provava anche l’irritazione e la disperazione dell’arrestato colpevole, che non vede via di scampo.
«Lasciatemi», disse aspro, ritirando a forza la mano, «non sono più un ragazzo, e vedo da me il mio bene e il mio male.»
Allora la madre si sentì gelare tutta: le parve ch’egli le avesse confessato il suo errore.
«No, Paulo, tu non vedi il tuo male. Se tu lo vedessi non parleresti così.»
«E come dovrei parlare?»
«Dovresti non gridare, e dirmi che non c’è nulla di male, fra te e la donna. Invece, questo tu non dici, perché in tua coscienza non puoi dirlo: e allora è meglio che tu non parli. Non parlare: non te lo domando; ma pensa bene a quello che fai, Paulo…»
Paulo infatti taceva, scostandosi lentamente: arrivato in mezzo alla cucina si fermò, aspettando ch’ella proseguisse.
«Paulo, io non ho altro da dirti, e non voglio dirti più nulla. Ma parlerò di te con Dio.»
Allora egli le balzò di nuovo accanto, parve volesse percuoterla; i suoi occhi luccicavano.
«Basta!» gridò. «Fareste bene davvero a non parlare più di questo; né con me né con nessuno. Tenetevi per voi le vostre immaginazioni.»
Ella si alzò, dura, ferma: lo afferrò per le braccia e lo costrinse a guardarla negli occhi; poi lo lasciò e tornò a sedersi, con le mani intrecciate sul grembo e i pollici che si premevano e si facevano forza l’uno con l’altro.

Mario Monicelli: Proibito (1954) tratto da La madre della Deledda

E’ questo un brano dove l’incontro/scontro vive quasi il momento del rovesciamento sacramentale: è il parroco che deve confessarsi alla figura che meglio conosce la sua anima, la madre. Ma è proprio perché lei è capace di leggergli l’anima, che mette a nudo il suo senso di colpa, che rende palese il suo venir meno al dovere, che viene a svelare le contraddizioni che l’uomo Paulo vive.

Forse non siamo ancora nella critica del celibato, come in qualche modo lo era stato per la monacazione forzata (a partire dal Manzoni fino ad arrivare a Verga), ma siamo invece nella descrizione virtuosa di un personaggio tolstojano: Maria Maddalena rappresenta infatti la coscienza pura posta di fronte al male (rappresentato in tutta la storia dal vento, simbolo che acquista valenza demoniaca)

L’EPILOGO IN CHIESA

Egli sentiva quel soffio di morte.
Come nelle mattine rigide di gennaio, aveva la punta delle dita ghiacciate; il tremito alla nuca lo scuoteva più forte. Quando si volse per la benedizione, vide Agnese che lo guardava. I loro occhi s’incontrarono, in un baleno di luce, ed egli, come gli annegati che vanno a fondo, ricordò in quell’attimo tutta la gioia della sua vita, unica gioia tutta venuta dall’amore di lei, dal primo sguardo, dal primo bacio di lei.
La vide alzarsi col suo libro in mano.
«Dio mio, sia  fatta  la tua  volontà», gemette  inginocchiandosi; e gli  parve di essere davvero nell’Orto degli Ulivi, sotto l’imminenza del destino inevitabile.
Pregava ad alta voce, ed aspettava; e tra il mormorìo delle preghiere gli sembrava di sentire il passo di Agnese che si avanzava verso l’altare.
«Eccola… s’è alzata dalla panca, è nello spazio fra la panca e l’altare. Eccola… è lì che cammina: tutti la guardano. È lì alle mie spalle.»
L’ossessione   lo   riprese   così   forte   che   la   voce   gli   si   fermò   in   gola.  Vide   Antioco,   che   già cominciava a spegnere i ceri, volgersi d’improvviso e guardare; e non ebbe più dubbio. Ella era lì, alle sue spalle, sui gradini dell’altare.
Si alzò; gli parve di toccare la volta con la testa e di sentirsi schiacciare; le ginocchia gli si piegavano di nuovo, ma con uno sforzo riuscì a risalire il gradino e ad andare verso l’altare per riprendere la pisside.
E volgendosi per rientrare in sagrestia vide Agnese che dalla sua panca s’era avanzata fino alla balaustrata e s’apprestava a salire i gradini.
«Dio, Signore, perché non mi hai permesso di morire?»
Egli piegò la testa sulla pisside; e parve esporre la nuca pallida al colpo di scure che doveva ferirlo.
Avanzandosi verso l’uscio della sagrestia vide però Agnese che si piegava anche lei, inginocchiandosi sul gradino sotto la balaustrata.
Ella aveva urtato col piede il primo gradino sotto la balaustrata e come se una muraglia le si fosse d’improvviso alzata davanti, si era piegata sulle ginocchia. Non poteva andare più oltre. Un fitto velo le offuscava gli occhi.
Solo dopo qualche momento rivide i gradini, il tappeto giallastro ai piedi dell’altare, l’altare fiorito e la lampada accesa.
Ma il prete era scomparso: al suo posto un raggio obliquo di sole attraversava l’aria e metteva una macchia d’oro sul tappeto.
Ella si fece il segno della croce, s’alzò e andò verso la porta. La serva la seguiva: i vecchi, le donne, i fanciulli si volgevano a guardarla e le sorridevano e la benedicevano con gli occhi, come la loro padrona, il loro simbolo di bellezza e di fede: tanto lontana da loro eppure in mezzo a loro e alla loro miseria come la rosa canina in mezzo al rovo.
Prima di uscire, la serva le porse con la punta delle dita l’acqua santa, e sulla porta si chinò per sbatterle con la mano la polvere del gradino dell’altare che le era rimasta sulla veste.
Nel sollevarsi vide il viso pallidissimo di Agnese rivolto verso l’angolo della chiesa ov’era la medre del prete: e questa che stava immobile, seduta contro la parete, con la testa piegata sul petto, e pareva facesse forza a raggere appunto la parete come avesse tomore che crollasse.
Una donna, accorgendosi dell’attenzione di Agnese e della serva, si volse anche lei a guardare; poi d’un balzo s’accostò alla madre del prete, la chiamò sottovoce, le sollevò il viso con la mano.
Gli occhi della madre erano socchiusi, ma vitrei, e la pupilla era salita in su, scomparsa; il rosario le cadde di mano, la testa si piegò sul fianco della donna che la reggeva.
«È morta», gridò la donna.
In un attimo tutti furono in piedi, tutti in fondo alla chiesa.
Paulo intanto era già rientrato nella sagrestia, con Antioco che riportava il libro degli Evangeli.
Tremava: tremava di freddo e di gioia; aveva veramente l’impressione di uno scampato da un naufragio, e sentiva il bisogno di muoversi, per scaldarsi, per convincersi che tutto era stato un sogno.
Un rumore confuso di voci, dapprima lieve, poi sempre più forte, saliva dalla chiesetta, Antioco sporse la testa dall’uscio e vide tutta la gente laggiù ferma in fondo, come se la porta fosse ostruita; ma già un vecchio saliva gli scalini dell’altare facendo dei cenni misteriosi.
«La madre si sente male.»
Paulo fu giù di volo, ancora rivestito del càmice, e s’inginocchiò, stretto dalla folla, per guardare meglio la madre distesa sul pavimento con la testa sul grembo di una donna.
«Madre, madre?»
Il viso era fermo e duro, gli occhi socchiusi, i denti ancora stretti nello sforzo di non gridare.
Egli intese subito ch’ella era morta della stessa pena, dello stesso terrore che egli aveva potuto superare.
E anche lui strinse i denti per non gridare, quando sollevò gli occhi e nella nuvola confusa della folla che gli si accumulava attorno incontrò gli occhi di Agnese.

“Nella serie dei colloqui tra madre e figlio la tensione narrativa acquista sempre più luce: ma non si risolve. Né l’angoscia dei cuori smarriti trova sbocco quando finalmente vediamo il prete Paulo di fronte alla donna di cui è innamorato e che ora è deciso a lasciare. Il dramma dell’esistenza non può aver compimento verbale. Solo affermandosi nell’azione l’individuo determina il suo destino: è la forma suprema di agire e quella che rinnega l’agire stesso, rovesciandosi nella rinuncia, nel sacrificio, infine nella morte. Tale è il paradosso mistico che sorregge la solennità tormentosa dell’ultimo episodio, la messa celebrata da Paulo in presenza dell’amante Agnese e della madre Maria. Nessuno scambio di parole: nel silenzio, il prete vittorioso sulla sua carne si ritrova in comunione d’amore spirituale con la donna abbandonata; smettendo i propositi di vendetta, costei recupera il senso del dovere morale e sociale; la madre infine, che salvando il figlio ha dato più intera testimonianza di sé, silenziosamente muore, addossata al muro della chiesa.” (Vittorio Spinazzola).

In questo breve romanzo emerge una scaltrezza compositiva che lo rende meno enfatico e quindi più asciutto rispetto ad altre prove: gli elementi simbolici non vengono palesati dalla narratrice, ma appaiono rivissuti tra i protagonisti; si pensi al vento che sferza nel paese, come afflato diabolico che spinge al peccato, si pensi alla redenzione di Paulo, vissuta con quell’apparizione del sole durante la messa, pennellate descrittive che tuttavia rendono il racconto carico di un atmosfera non definita, evanescente.

L’attività letteraria di Grazia Deledda è ricca, ancora capace di offrire sia romanzi, la cui ambientazione esuli da quella sarda come Annalisa Bilsini (1927) od opere dall’ambiente vago, ma capaci d’interpretare le più importanti innovazioni letterarie di allora come Il paese del vento (1931) o affrontando la malattia che già la minava La chiesa della solitudine (1936) ultimo romanzo pubblicato in vita – morirà lo stesso anno.

Grande è stata, inoltre, la sua produzione novellistica, iniziata già nel 1894 con Racconti sardi e proseguita con Il nonno (1906), Il fanciullo nascosto (1915) e Il flauto nel bosco (1923), giusto per citare alcune tra le più famose raccolte.

Nel 1926 l’Accademia di Svezia gli assegna il premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione “Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale, e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”.

La data in cui le venne conferito il premio non può esimerci da una piccola riflessione sui rapporti tra la Deledda ed il fascismo. Ci racconta Maria Elvira Ciusa nella bella biografia a lei dedicata:

Dopo qualche giorno fu invitata a Palazzo Venezia. Nella Sala del Mappamondo la Deledda donava Mussolini una sua immagine e riceveva in cambio un ritratto fotografico del Duce con dedica autografa. Quando le fu chiesto cosa il regime potesse fare per lei, rispose: «Niente. Si poteva far ritornare dal confino un uomo buono e giusto.» Elia Sanna, che aveva acquistato la casa Natale della Deledda, ritornò a Nuoro senza sapere che avesse interceduto per lui. Ad un alto funzionario che l’accompagnava insieme al marito all’uscita da Palazzo Venezia e chiedeva alla scrittrice: «Ora lei scriverà per il regime», rispondeva in modo lapidario: «L’arte non ha politica». Dopo questo fatto i librai ricevettero l’ordine di non pubblicizzare le sue opere e i proventi sulle percentuali delle vendite dei suoi romanzi diminuirono, come rilevò in seguito l’editore Treves alla stessa Deledda.

Qualcuno reputa il suo libro più intenso, quello pubblicato postumo, nel 1937 con dapprima il titolo Cosima quasi Grazia, e poi solo Cosima

COSIMA

La casa era semplice, ma comoda: due camere per piano, grandi, un po’ basse, coi pianciti e i soffitti di legno; imbiancate con la calce; l’ingresso diviso in mezzo da una parete: a destra la scala, la prima rampata di scalini di granito, il resto di ardesia; a sinistra alcuni gradini che scendevano nella cantina. Il portoncino solido, fermato con un grosso gancio di ferro, aveva un battente che picchiava come un martello, e un catenaccio e una serratura con la chiave grande come quella di un castello. La stanza a sinistra dell’ingresso era adibita a molti usi, con un letto alto e duro, uno scrittoio, un armadio ampio, di noce, sedie quasi rustiche, impagliate, verniciate allegramente di azzurro: quella a destra era la sala da pranzo, con un tavolo di castagno, sedie come le altre, un camino col pavimento battuto. Null’altro. Un uscio solido pur esso e fermato da ganci e catenacci, metteva nella cucina. E la cucina era, come in tutte le case ancora patriarcali, l’ambiente più abitato, più tiepido di vita e d’intimità.
C’era il camino, ma anche un focolare centrale, segnato da quattro liste di pietra: e sopra, ad altezza d’uomo, attaccato con quattro corde di pelo, alle grosse travi del soffitto di canne annerite dal fumo, un graticcio di un metro quadrato circa, sul quale stavano quasi sempre, esposte al fumo che le induriva, piccole forme di cacio pecorino delle quali l’odore si spandeva tutto intorno. E attaccata a sua volta a uno spigolo del graticcio, pendeva una lucerna primitiva, di ferro nero, a quattro becchi; una specie di padellina quadrata, nel cui olio allo scoperto nuotava il lucignolo che si affacciava a uno dei becchi. Del resto tutto era semplice e antico nella cucina abbastanza grande, alta, bene illuminata da una finestra che dava sull’orto e da uno sportello mobile dell’uscio sul cortile. Nell’angolo vicino alla finestra sorgeva il forno monumentale, col tubo in muratura e tre fornelli sull’orlo: in un braciere accanto a questi si conservava, giorno e notte accesa e coperta di cenere, un po’ di brage, e sotto l’acquaio di pietra, presso la finestra, non mancava mai, in una piccola conca di sughero, un po’ di carbone; ma per lo più le vivande si cucinavano con la fiamma del camino o del focolare, su grossi treppiedi di ferro che potevano servire da sedili. Tutto era grande e solido, nelle masserizie della cucina; la padella di rame accuratamente stagnate, le sedie basse intorno al camino, le panche, la scansia per le stoviglie, il mortaio di marmo per pestare il sale, la tavola e la mensola sulla quale, oltre alle pentole, stava un recipiente di legno sempre pieno di formaggio grattato, e un canestro di asfodelo col pane d’orzo e il companatico per i servi.

Disegno per Cosima

Gli oggetti più caratteristici stavano sulla scansia; ecco una fila di lumi di ottone, e accanto l’oliera per riempirli, col lungo becco e simile a un arnese di alchimista: e il piccolo orcio di terra con l’olio buono, e un armamento di caffettiere, e le antiche tazze rosse e gialle, e i piatti di stagno che parevano anch’essi venuti da qualche scavo delle età preistoriche: e infine il tagliere pastorale, cioè un vassoio di legno, con l’incavo, in un angolo, per il sale.
Altri oggetti paesani davano all’ambiente un colore inconfondibile: ecco una sella attaccata alla parete accanto alla porta, e accanto un lungo sacco di tessuto grezzo di lana, che serviva da mantello e da coperta al servo: e la bisaccia anch’essa di lana, sulla quale alla notte dormiva, quando era in paese, lo stesso servo, pastore o contadino che fosse.
(…)
A questo portone, una mattina di maggio, si affaccia una bambina bruna, seria, con gli occhi castanei, limpidi e grandi, le mani e i piedi minuscoli, vestita di un grembiale grigiastro con le tasche, con le calze di grosso cotone grezzo e le scarpe rustiche a lacci, più paesana che borghese, e aspetta, dondolandosi, che passi qualcuno o qualcuno si affacci a una finestra di fronte, per comunicare una notizia importante. Ma la strada, stretta e sterrata, in quell’ora fresca del mattino è ancora deserta come un sentiero di campagna, e nella vecchia casa di contro, anch’essa con l’alto muro di un cortile a fianco e un portone rossastro, non si vede nessuno.
(…)
Odori di campagna vengono dal fondo della strada; il silenzio è profondo, e solo il rintocco delle ore e dei quarti suonati dall’orologio della cattedrale, lo interrompono. Passano le rondini a volo, sul cielo azzurro denso, un po’ basso come nei paesaggi dei pittori spagnoli, ma anche le rondini sono silenziose. Finalmente una finestra si apre nella casa di fronte, e un viso bruno, coi grandi occhi velati dei miopi, si sporge a guardare qua e là negli sfondi della strada. È la signorina Peppina, la nipote del canonico. La bambina si solleva tutta, afferrandosi allo spigolo del portone per allungarsi meglio, e grida la notizia per lei importantissima: «Signora Peppina, abbiamo un bambino nuovo: un Sebastianino». Risultò poi che era una femmina: ma la bambina desiderava un fratellino; e se lo era inventato, col nome e tutto.

I ricordi di bambina che riafforano nella sua casa romana, forse quando lei era già consapevole della malattia, si caricano di valenze che vanno al di là di una pura e semplice descrizione d’oggetti: la classica cucina sarda, il suo mobilio, le presenze evocate umane, il silenzio di una città piccola, provincia fra le più lontane d’Italia, riescono in lei ad assumere quel carattere atemporale che sembra trascolorare in forma mitica.

Non c’è qui alcun sentimentalismo, ma una incredibile capacità di rendere e renderci uno spaccato che va al di là del puro verismo.

Pietro Novellini: Riratto di Grazia Deledda

La critica si è spesso divisa sulla figura e sul valore  letterario dell’opera di Grazia Deledda, nonostante il successo internazionale ed il premio Nobel. Posta tra la fine dell’esperienza verista, la sua posizione periferica sembra averla relegata come una tarda descrittrice di una realtà così lontana e quasi esotica come quella sarda; ma le sue storie, così cariche di impulsi repressi, credenze ancestrali e quindi atemporali, elementi simbolici tra paesaggi fortemente evocativi e stati d’animo problematici sembrano avvicinarla a nuove esperienze decadenti.

Certo non si può dire che la scrittrice sarda sia aliena da influenze culturali, ma a caratterizzare la sua scrittura sta sia la sua auto formazione, fatte di letture le più disparate, sia l’impulso “quasi naturale” del narrare. Infatti la sua vocazione appare sin da subito più parte integrante della sua personalità e tale vocazione trova forma soprattutto nella lettura biblica, che le offre sia la semplicità del dettato e la sua esemplarità su ciò che è colpa e peccato. Vi è in lei quasi l’intuizione di come questa colpa, in una realtà così chiusa ed ancestrale come quella nuorese, vada a riferirsi sempre in un impulso represso dell’eros, coercizzandolo come se fosse l’unico modo attraverso cui l’uomo possa essere “salvato” dal peccato originale. Ed è qui che sta la sua peculiarità, non per niente apprezzata da David Herbert Lawrence autore del celeberrimo L’amante di Lady Chatterley.

 

 

 

 

 

GAIO LUCILIO

 Busto di Lucilio

Con questo autore ci muoviamo su un  genere, la satira appunto, che i Romani rivendicano come proprio. Infatti non esiste nessun genere simile nella letteratura greca e il grande oratore Quintiliano, vissuto nel I secolo dopo Cristo, poteva affermare orgogliosamente che la Satura quidem tota nostra est (la satira certamente è tutta nostra) è dà la palma di tale “invenzione” a Gaio Lucilio.

Se sarà proprio Lucilio a definire la satira come genere, discussa è viceversa la sua origine, e quindi la parola che la definisce (da cui deriva il nostro termine di “satira” e “satirico”, che può derivare da:

  • da Satyris, perché in questo genere di poesia sono contenute parole buffe e scurrili quali potevano essere pronunciate dai Satiri. Ma questi ultimi appartengono alla mitologia greca, pertanto come ipotesi ci sembra lontana dalla verità;
  • dalla lanx satura, piatto in cui venivano mescolate insieme varie primizie, offerto agli dei durante una cerimonia religiosa;
  • dalla satura specie di “polpettone” formato da vari ingredienti;
  • lex per saturam (legge per satura) proposta di legge che comprendeva diversi argomenti.

Il primo a utilizzare questo genere fu Ennio, che ne compose 4 libri di vario argomento, di cui ci rimangono pochi frammenti, ma come già detto, Quintiliano, vissuto nell’età dei Flavi, la fa derivare da Lucilio, cui seguiranno in età augustea Orazio, quindi Persio e Giovenale.

Tale genere, in ultimo si potrebbe come un’opera poetica, di natura composita, che, col tempo, verrà composta in esametri, il cui scopo è colpire e criticare i vizi altrui; tale genere potrebbe definirsi, quindi, come un genere morale.

Notizie biografiche

Poco sappiamo della sua vita. Alcuni riferiscono che Gaio Lucilio sia nato a Suessa Aurunca (posta nel confine tra Lazio e Campania) nel 148 a.C. Altri preferirebbero anticipare tale data per almeno una ventina d’anni, quindi datare la sua nascita tra il 180 e 167 a. C.  Sappiamo invece con certezza che morì nel 102.  Se dovessimo accettare tale datazione potremo indicarlo come contemporaneo di Terenzio, ed infatti fu, come il commediografo latino, intimo della casa degli Scipioni, ma con un’enorme differenza: nei pochi anni intercorsi tra la sua frequentazione e quella del commediografo con gli Scipioni, l’importanza della famiflia degli Scipioni era enormemente accresciuta. Inoltre non bisogna dimenticare che Lucilio frequentava la loro casa da pari a pari, a dimostrazione che la sua estrazione era certamente aristocratica, se possedeva secondo le fonti, latifondi in Sicilia, Sardegna, Lazio e Campania. 

 

Moneta risalente al 280, 260 a.C ritrovata a Sessa Aurunca

Satura

Lucilio fu un uomo di vastissima cultura che non solo conosceva la cultura che lo precedeva (Ennio, come visto, aveva di certo scritto satire, ma di cui possediamo pochissimi versi) ma la contemporanea e, soprattutto quella greca. Questa conoscenza le permise di essere un reale innovatore in quanto:

  • Per la prima volta un poeta poté esprimere in maniera diretta il suo mondo e il modo con cui si rapporta con la realtà;
  • La schiettezza e la volontà parodica o “violenta” con cui attaccava i nemici e li derideva;
  • Ad essere protagonista vi era un “io”, i cui versi – come scrive lui stesso – nascono ex praecordis, cioé nell’intimo del suo animo, che sceglie di essere poëta, rinunciando ai negotia politici ed economici;

La sua opera era composta da 30 libri e certamente l’ordine con cui l’opera ci è stata trasmessa non corrisponde alla scrittura: i primi libri sono presumibilmente gli ultimi scritti. Ciò lo possiamo affermare dalla metrica: certamente infatti le ultime satire vennero scritte in esametro, che è il verso che andava sempre più affermandosi nella letteratura latina, mentre i primi, che i grammatici posero per ultimi, presentano versi vari, alcuni ripresi dalla commedia. I temi che egli affronta sono molto vari: ad esempio dobbiamo citare il tema del viaggio, d’amore, del banchetto, temi che saranno tutti ripresi, poi, dai poeti posteriori. Ma, come detto precedentemente, forte è il tema moralistico, anch’esso ripreso da Orazio che farà di questo genere un vero e proprio “classico”.

Pochi sono i frammenti che possediamo di quest’opera. Ci piace ricordare questi versi: 

IL VALORE DELL’UOMO

Virtus, Albine, est pretium persolvere verum
quis in versamur, quis vivimus rebus, potesse,
virtus est homini scire id quod quaeque habeat res,
virtus scire homini rectum, utile quid sit, honestum,
quae bona, quae mala item quid inutile, turpe, inhonestum,
virtus quaerendae finem re scire modumque,
virtus divitiis pretium persolvere posse,
virtus id dare quod re ipsa debetur honori,
hostem esse atque inimicum hominum morumque malorum
contra defensorem hominum morumque bonorum,
hos magni facere, his bene velle, his vivere amicum,
commoda praeterea patriai prima putare,
deinde parentum, tertia iam postremaque nostra

Virtù, Albino, è poter assegnare il giusto prezzo alle cose fra cui ci troviamo e fra cui viviamo, virtù è sapere che cosa per l’uomo è retto, utile, onesto, e poi quali cose sono buone, quali cattive, che cos’è inutile, turpe, disonesto; virtù è saper mettere un termine, un limite al guadagno, virtù poter assegnare il suo vero valore alla ricchezza, virtù dare agli onori quel che veramente gli si deve: esser nemico e avversario degli uomini e dei costumi buoni, questi stimare, a questi voler bene, a questi vivere amico; mettere inoltre al primo posto il bene della patria, poi quello dei genitori, il terzo e ultimo il nostro.

E’ questo il frammento più lungo e più celebre di Lucilio, figlio della filosofia stoica che si seguiva nel circolo degli Scipioni. Ma ci dà inoltre un vivido esempio di come dovesse essere il comportamento e quale invece esso era, sottolineando un forte moralismo e una rigidezza di costumi che, ben diversa da quella di Catone, cercava di stigmatizzare il vizio delle classi al potere.

 

GIACOMO LEOPARDI

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Biografia

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Monaldo Leopardi e Adelaide Antici

Giacomo Leopardi, nasce a Recanati, piccolo centro all’interno dello Stato Pontificio, il 29 giugno del 1798, dal conte Monaldo e da Adelaide Antici. L’ambiente sociale e il periodo storico nel quale Giacomo si forma è quello della Restaurazione reso ancora più pesante dal vivere in un luogo considerato periferia di uno Stato che si faceva forza nel combattere qualsiasi forma di modernità e nel contrastare ferocemente le idee della Rivoluzione Francese.

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Casa Leopardi a Recanati nella seconda dell’800

La famiglia Leopardi, nel piccolo borgo, per nome e nobiltà è abbastanza prestigiosa, ma non altrettanto ricca. Gran parte del denaro era stato infatti speso dal conte Monaldo nell’arricchimento di una cospicua biblioteca, che non solo raccoglieva classici greci e latini, ma anche opere più antiche come quelle in ebraico e più moderne, in lingua francese, appartenenti, addirittura al pensiero illuminato. Il giovane Giacomo trascorre la sua infanzia insieme ai fratelli a lui più vicini, Carlo e Paolina, con cui condivide momenti e giochi. Comincia, tuttavia, a mostrare i segni della sindrome di Pott, che ne influenza la crescita: tutto ciò verrà accentuato dagli anni in cui, con determinazione, deciderà di acquisire quanta più conoscenza possibile, passando dagli 11 ai 18 anni, che lui stesso definirà  “sette anni di studio matto e disperatissimo”, nella biblioteca paterna di oltre ventimila volumi, ed uscendone con una perfetta conoscenza del greco e del latino, nonché dell’ebraico, ma fortemente minato nel fisico.

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La biblioteca a casa Leopardi (oggi con il busto del poeta)

Ma perché lo fece?

Spiegarlo come meccanismo psicologico in risposta alla solitudine che lo attanagliava, può sembrare semplicistico. Ma dobbiamo tener presente l’aridità di affetti da cui si sentiva circondato. Il grido d’amore che egli espresse gli fece infatti rappresentare in casa, in età ancora infantile, due tragedie e scrivere a quindici anni opere d’estrema erudizione, come Storia dell’astronomia e a diciassette il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Infatti, come ci dice nello Zibaldone (una sorta di diario di riflessioni che tenne tra il 1817 e il 1832) il padre, che pur lo amava immensamente, s’aspettava da lui onore e successo, la madre, bigotta oltre ogni limite, per cui era meglio un figlio morto piccolo affinché non cadesse nel peccato, gli diede una fame d’amore che poteva ottenere solo mostrandosi genialmente eccezionale. Tutto ciò, per la sua estrema sensibilità e capacità, poteva accadere solo con la cultura.

Le traduzioni di allora, soprattutto quella del II libro dell’Eneide, della Batracomiomachia pseudomerica e degli Idilli di Mosco (poeta greco di cui ci sono pervenute liriche, ma di cui non si sa nulla) e la non comune preparazione filologica lo misero in contatto epistolare con l’intellettuale Pietro Giordani (di idee liberali) che lo posero contro il reazionario Monaldo, ma soprattutto gli diedero la misura dell’arretratezza culturale e dell’isolamento del luogo in cui viveva. E’ di questi anni il passaggio “dall’erudizione al bello” come lui stesso, nello Zibaldone lo definirà e in un passo più tardi della “conversione letteraria” che maturò a partire dal 1816. Dopo il possesso degli strumenti tecnici, Leopardi, infatti, approfondisce i temi o, per meglio dire, la bellezza della poesia omerica, virgiliana e oraziana, e comincia anch’egli a comporre canzoni come All’Italia e Sopra il monumento di Dante, che testimoniano l’allontanamento dal conservatorismo e bigottismo della sua famiglia.

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Pietro Giordani

L’amicizia con Giordani, conosciuto personalmente a Recanati nel 1818, non solo aiutarono la sua maturazione, ma lo misero in contatto con gli intellettuali più in vista della penisola italiana. Ed è proprio l’affacciarsi al dibattito culturale che avveniva allora in Italia, alimentato dall’articolo della De Staël, che gli permise di porsi in modo attivo nella discussione di allora, per rispondere in modo del tutto originale rispetto alle teorie allora correnti, con la Lettera ai compilatori italiani della Biblioteca italiana (1816), rimasta inedita, confluita poi nel più argomentato Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, anch’essa non pubblicata. La mancanta diffusione accentuano in qualche modo l’isolamento non solo geografico, ma anche intellettuale del giovane recanatese.

Siamo nel 1819 quanto tenta “la fuga” da Recanati, purtroppo fallita: la frustrazione per l’atto mancato, una forma di esaurimento psicofisico, che si materializzò soprattutto nell’organo della vista, non permette a lui di leggere; l’isolamento del pensiero lo conduce a quello che potremo definire “dal bello al vero” o, modellandolo a quello precedente, alla “conversione filosofica”, portandolo ad un assoluto ateismo. Ciò non provoca in lui l’abbandono della poesia, ma darà vita a sei idilli scritti tra il 1819 e il 1821 e nel ’20 alla terza canzone civile: Ad Angelo Mai a cui ne seguiranno altre sei in cui esplicherà tutto il suo pessimismo.

Ottenuto, finalmente, il permesso di lasciare Recanati, nel 1822 si recò a Roma, dove rimase fino al 1823: grandi furono le aspettative, altrettanto grande la delusione: il vuoto culturale accompagnato dallo sfarzo gli procurano più fastidi che piacere. Si vide quasi costretto quindi a tornare “nel natio borgo selvaggio” e nel 1824 fece pubblicare a Bologna le Canzoni fino ad allora elaborate. L’acquisizione della verità filosofica ebbe influenza anche sulla successiva produzione letteraria: in pochi anni scrive venti prose di carattere filosofico, sulla stregua dei Dialoghi di Luciano di Samosata (intellettuale siriaco, di lingua greca, vissuto nel periodo degli Antonini) che prendono il titolo di Operette morali.

Riesce, intanto, ad allontanarsi da Recanati per recarsi a Milano su invito dell’editore Stella come commentatore di scrittori classici: il clima della città lombarda, tuttavia, non si confaceva alla salute del nostro; si trasferisce quindi prima a Firenze e quindi a Pisa. Sia la bellezza della città, sia il rinascere della sua ispirazione poetica lo riportano a comporre versi. Dopo un breve soggiorno fiorentino, Leopardi deve, per ristrettezze economiche, tornare a Recanati, ma in questa prigione scriverà forse alcune tra le poesie più belle. Si trovò a chiedere a Viesseux (intellettuale ed editore) un impiego qualsiasi, pur di rifuggire dallo Stato di Chiesa. Otterrà un assegno vitalizio da generosi amici fiorentini, dove trovò inizio una certa vita sociale, grazie anche all’amicizia con il giovane napoletano Antonio Ranieri.

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Ritratto di Antonio Ranieri in età matura  

La vita esuberante di quest’ultimo, sempre a caccia di qualche gonnella, mise Leopardi a maggior contatto con realtà, specie di quella amorosa, fino ad allora solo idealizzata, e se s’innamora, forse realmente per la prima volta, di Fanny Targioni Tozzetti, è altrettanto forte la delusione da fargli cambiare registro poetico nel cosiddetto Ciclo d’Aspasia. Per un consiglio del medico, grazie anche ad un piccolo appannaggio che riesce ad ottenere dalla famiglia, riesce a non rientrare a Recanati ma a trasferirsi a Napoli, città dell’amico Ranieri, ma anche località consigliata da un medico per, parafrasando Parini, la “salubrità dell’aria”. Va a vivere in una villa, presso la sorella dell’amico Antonio, posta alle pendici del Vesuvio, che gli darà l’ispirazione per le sue ultime due liriche, una delle quali fra le più belle della maturità La ginestra. Muore in questa città il 14 giugno del 1837 a soli 39 anni.

Zibaldone

Prima di qualsiasi approccio verso la produzione letteraria/filosofica di Leopardi è necessario soffermarci su questa raccolta di pensieri, appunti, riflessioni che il nostro elabora dal 1817 al 1832, e che sistema, intorno al ’27, scrivendo un indice analitico degli stessi, quasi a voler codificare un percorso di autobiografia intellettuale a cui lui stesso dà il nome Zibaldone. Ma cosa vuol dire Zibaldone? La parola era già attestata come titolo di alcune raccolte disordinate di pensieri e testi e sembra fare riferimento allo zabaione, dunque a un amalgama montato con ingredienti diversi tra loro. Nello Zibaldone leopardiano, il titolo ha una valenza sia formale che contenutistica: allude alla varietà disordinata dei temi e al carattere provvisorio e frammentario della scrittura.

Possiamo dividirlo, per comodità didattica, a grandi linee, in:

  • teoria del piacere e pessimismo;
  • poetica del vago e indefinito.

tenendo ben presente che le tematiche su esposte si intersecano necessariamente tra loro.

TEORIA DEL PIACERE

Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perchè nessun piacere è eterno, 2. nè la sua estensione, perchè nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perchè, come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch’è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente l’infinità, perchè ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perchè non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell’anima, perchè quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perchè la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno. (…)  Quindi potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre, del che ci facciamo tanta maraviglia, come se ciò venisse da una sua natura particolare, quando il dolore la noia ec. non hanno questa qualità. Il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perchè non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perchè l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato. Veniamo alla inclinazione dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2. che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte non potendo spogliar l’uomo e nessun essere vivente, dell’amor del piacere che è una conseguenza immediata e quasi tutt’uno coll’amor proprio e della propria conservazione necessario alla sussistenza delle cose, dall’altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha voluto supplire 1. colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima, e bisogna considerarle come cose arbitrarie in natura, la quale poteva ben farcene senza, 2. coll’immensa varietà acciocchè l’uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all’altro, o anche disingannato di tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran varietà delle cose, ed anche non potesse così facilmente stancarsi di un piacere, non avendo troppo tempo di fermarcisi, e di lasciarlo logorare, e dall’altro canto non avesse troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti i piaceri a soddisfarlo. Quindi deducete le solite conseguenze della superiorità degli antichi sopra i moderni in ordine alla felicità. 1. L’immaginazione come ho detto è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli. Ma questa non può regnare senza l’ignoranza, almeno una certa ignoranza come quella degli antichi. La cognizione del vero cioè dei limiti e definizioni delle cose, circoscrive l’immaginazione. E osservate che la facoltà immaginativa essendo spesse volte più grande negl’istruiti che negl’ignoranti, non lo è in atto come in potenza, e perciò operando molto più negl’ignoranti, li fa più felici di quelli che da natura avrebbero sortito una fonte più copiosa di piaceri. (…) Del resto il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione (non solamente nell’uomo ma in ogni vivente), la pena dell’uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l’uomo non molto profondo gli scorge solamente da presso. Quindi è manifesto 1. perchè tutti i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e l’ignoto sia più bello del noto; effetto della immaginazione determinato dalla inclinazione della natura al piacere, effetto delle illusioni voluto dalla natura. 2. perchè l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. Stante la considerazione qui sopra detta, l’anima deve naturalmente preferire agli altri quel piacere ch’ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli veramente Omerici in questo,  gl’ignoranti ec. in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne. La malinconia, il sentimentale moderno ec. perciò appunto sono così dolci, perchè immergono l’anima in un abbisso di pensieri indeterminati de’ quali non sa vedere il fondo nè i contorni. (…) Del rimanente alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perchè allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perchè il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia, come chiamano. Al contrario la vastità e moltiplicità delle sensazioni diletta moltissimo l’anima. Ne deducono ch’ella è nata per il grande ec. Non è questa la ragione. Ma proviene da ciò, che la moltiplicità delle sensazioni, confonde l’anima, gl’impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie l’esaurimento subitaneo del piacere, la fa errare d’un piacere in un altro senza poterne approfondare nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo a un piacere infinito.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è giacomo-leopardi-zibaldone-di-pensieri-1961-mondadori-2.jpgEdizione dello Zibaldone del 1961

Queste rilessioni “sul piacere” di Leopardi, scritte nel tra il 12 e il 23 luglio del 1820, rappresentano uno dei nuclei fondamentali della sua speculazione filosofica. In primo luogo bisogna sottolineare come l’autore recanatese parti da considerazioni “sensistiche”, figlie dell’illuminismo: il piacere, come sensazione, è innato nell’uomo, senza di esso non esisterebbe la vita umana. Essendo questo parte integrante dell’uomo diventa “naturale aspirazione”, a cui, tuttavia la realtà non può corrispondere in modo completo e ciò perché la vita dell’uomo, rispetto al tempo e allo spazio, è limitata (e quindi può dare a lui piaceri limitati) mentre lo stesso essere umano tende a qualcosa di illimitato e quindi irraggiungibile. Per questo l’ottenimento di un piacere “reale” porta con sé, inevitabilmente, la consapevolezza della sua limitatezza, dando luogo al dolore. Ora l’uomo un tempo, secondo Leopardi, era più felice proprio perché aveva la possibilità di raggiungere l’illimitatezza del piacere attraverso la facoltà immaginativa: quest’ultima è certamente illimitata in quanto non può essere circoscritta ed era maggiore un tempo perché non ancora limitata dal progresso che, svelando la realtà, uccide l’immaginazione. Rimane oggi tale facoltà solo quando vi è un qualcosa che, privando o frapponendosi tra la vista o l’udito, ci offre la possibilità d’immaginare cosa vi è “oltre esso”. E’ tale concetto che sta alla base del “pessimismo storico”, intendendo con esso quella felicità che la natura ci offre (quindi natura a noi benigna) di contro al progresso della storia che la cancella.

Tale riflessione trova la sua esplicitazione nelle canzoni elaborate intorno al ’20, nate a seguito delle sollecitazioni culturali del Giordani e che vedono il nostro Leopardi, oltre a prendere posizione riguardo la situazione politica dell’Italia, staccarsi, in modo definitivo, dall’ideologia bigotta e retriva a cui la famiglia lo aveva indirizzato, tra queste ricordiamo : All’Italia (1918): in cui il giovane poeta mostra di aver assimilato la lezione di Petrarca e lo spirito libertario di Alfieri e Foscolo; Ad Angelo Mai (1920): dedicata al cardinale che ritrovò il De Republica di Cicerone; Bruto minore (1821): l’dea del suicidio come risposta al tramonto di ogni di ogni magnanima illusione; Ultimo canto di Saffo (1922): la canzone nasce con l’intenzione di “rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane” (Annotazioni alle 10 canzoni stampate a Bologna nel 1824), e nei cosiddetti “Piccoli idilli“.

Paolina Leopardi

La radicalizzazione del “pessimismo” leopardiano, avviene durante il lungo silenzio, dal 1824 al 1828, e che sfocerà  nella pubblicazione delle Operette morali: generalmente in esse troviamo la risoluzione del conflitto uomo natura attraverso qualsiasi negazione della sua benevolenza verso l’uomo, in ogni attimo della storia dell’uomo e della sua singolare vita. Non c’è mai alcuna felicità se, come è nella realtà, egli nasce per morire e diventa parte di un meccanismo che trascende ogni sua volontà.

LA REA NATURA

La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente a’ loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio piú alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi ec. ec.

La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente, regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti. Ciò, essendo necessaria conseguenza dell’ordine attuale delle cose, non dà una grande idea dell’intelletto di chi è o fu autore di tale ordine.

Sono questi “pensieri”, ambedue vergati nel 1829, a darci l’evoluzione del pesiero leopardiano dal pessimismo storico al pessimismo cosmico. Infatti “Leopardi tiene a precisare che la sua filosofia è apparentemente misantropica, in quanto si prefigge lo scopo di convertire l’odio che l’uomo prova verso i suoi simili nella consapevolezza che la vera causa dell’infelicità umana è appunto la natura. Il suo invito a reagire alla malignità della natura nasce, prima che da un atteggiamento filosofico, dalla sofferenza e dall’esperienza personale della propria e dell’altrui infelicità”.

Ale ’98: Leopardi e la Natura

LA POETICA 

Il passato, a ricordarsene, è più bello del presente, come il futuro a immaginarlo. Perché? Perché il solo presente ha la sua vera forma nella concezione umana; è la sola immagine del vero, e tutto il vero è brutto.

Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli oggetti veduti per metà o con certi impedimenti ec. ci destino idee indefinite, si spiega perché piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogo, oggetto ec. dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov’ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori e in una loggia parimente ec.; quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell’ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il riflesso che produce, per esempio, un vetro colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro; tutti quegli oggetti insomma che per diversi materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell’ordinario ec. Per lo contrario la vista del sole o della luna in una campagna vasta ed aprica e in un cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della sensazione. Ed è pur piacevole, per la ragione assegnata di sopra, la vista di un cielo diversamente sparso di nuvoletti, dove la luce del sole o della luna produca effetti variati e indistinti e non ordinari ec. È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada a poco a poco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso ec. ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non veder tutto e il potersi perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo a ciò che non si vede. Similmente dico dei simili effetti, che producono gli alberi, i filari, i colli, i pergolati, i casolarii pagliai, le ineguaglianze del suolo ec. nelle campagne. Per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura, dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima, per l’idea indefinita in estensione, che deriva da tal veduta. Cosí un cielo senza nuvolo. Nel qual proposito osservo che il piacere della varietà e dell’incertezza prevale a quello dell’apparente infinità e dell’immensa uniformità. E quindi un cielo variamente sparso di nuvoletti è forse piú piacevole di un cielo affatto puro; e la vista del cielo è forse meno piacevole di quella della terra e delle campagne ec., perché meno varia (ed anche meno simile a noi, meno propria di noi, meno appartenente alle cose nostre ec.). Infatti ponetevi supino in modo che voi non vediate se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete una sensazione molto meno piacevole che considerando una campagna o considerando il cielo nella sua corrispondenza e relazione colla terra ed unitamente ad essa in un medesimo punto di vista. È piacevolissima ancora, per le sopraddette cagioni, la vista di una moltitudine innumerabile, come delle stelle o di persone ec., un moto moltiplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago ec., che l’animo non possa determinare né concepire definitamente e distintamente ec., come quello di una folla o di un gran numero di formiche o del mare agitato ec. Similmente una moltitudine di suoni irregolarmente mescolati e non distinguibili l’uno dall’altro ec. ec. ec.

Le parole lontanoantico e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste e indefinite e non determinabili e confuse.

Le parole notte notturno ec., le descrizioni della notte ec., sono poeticissime, perché, la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sí di essa che [di] quanto ella contiene. Cosí oscurità, profondo ec. ec.

Le rimembranze che cagionano la bellezza di moltissime immagini ec. nella poesia ec. non solo spettano agli oggetti reali, ma derivano bene spesso anche da altre poesie, vale a dire che molte volte un’immagine ec. riesce piacevole in una poesia, per la copia delle ricordanze della stessa o simile immagine veduta in altre poesie.

Quello che altrove ho detto sugli effetti della luce o degli oggetti visibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il piú spregevole) udito da lungi o che paia lontano senza esserlo o che si vada a poco a poco allontanando e divenendo insensibile o anche viceversa (ma meno) o che sia cosí lontano, in apparenza o in verità, che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità degli spazi; un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec., dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s’ode suonare per le valli, senza però vederli, e cosí il muggito degli armenti ec. Stando in casa, e udendo tali canti o suoni per la strada, massime di notte, si è piú disposti a questi effetti, perché né l’udito né gli altri sensi non arrivano a determinare né circoscrivere la sensazione e le sue concomitanze. È piacevole qualunque suono, anche vilissimo, che largamente e vastamente si diffonda, come in taluno dei detti casi, massime se non si vede l’oggetto da cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e dà, quando non sia vinto dalla paura, il fragore del tuono, massime quand’é piú sordo, quando è udito in aperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme confusamente in una foresta o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è udito da lungi, o dentro una città trovandosi per le strade ec. Perocché oltre la vastità e l’incertezza e confusione del suono non si vede l’oggetto che lo produce, giacché il tuono e il vento non si vedono. È piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il calpestio de’ piedi o la voce ec. Perocché l’eco non si vede ec. E tanto piú quanto il luogo e l’eco è piú vasto, quanto piú l’eco vien da lontano, quanto piú si diffonde; e molto piú ancora se vi si aggiunge l’oscurità del luogo che non lasci determinare la vastità del suono né i punti da cui esso parte ec. ec. E tutte queste immagini in poesia ec. sono sempre bellissime, e tanto piú quanto piú negligentemente son messe e toccando il soggetto, senza mostrar l’intenzione per cui ciò si fa, anzi mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son per produrre e di non toccarli se non per ispontanea e necessaria congiuntura e indole dell’argomento ec. Vedi in questo proposito Virg. Eneide, VII, v.8, seqq.* La notte o l’immagine della notte è la piú propria ad aiutare, o anche a cagionare, i detti effetti del suono. Virgilio da maestro l’ha adoperata .

*aspirant aurae in noctem nec candida cursus // luna negat, splendet tremulo sub lumine pontus
Spirano le brezze sulla notte né la candida luna nega // il percorso, il mare splende sotto tremula luce

 

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è manoscritto_carducci.pngPagina autografa dello Zibaldone

Una voce o un suono lontano, o decrescente e allontanantesi a poco a poco, o echeggiante con un’apparenza di vastità ec. ec., è piacevole per il vago dell’idea ec. Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito in piena campagna, in una gran valle ec., il canto degli agricoltori, degli uccelli, il muggito de’ buoi ec. nelle medesime circostanze.

All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. 

Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. 

I primi passi sono del 1821, corrispondenti al periodo dei primi idilli; gli ultimi tre del 1827/1828, quando a Pisa sente rinascere in sé la volontà di scrivere poesia (periodo dei “grandi idilli”), a dimostrazione di come il pensiero leopardiano, come appunto troviamo all’interno dello Zibaldone, si accompagni al fare poetico.

Per la prima parte infatti notiamo come la sua poetica si collega in modo indissolubile alla teoria del piacere: all’impossibilità di recuperare l’immaginazione, si risponde con la poesia sentimentale, e questa non può che essere intessuta di parole vaghe, indefinite, capaci di porci al di là delle limitazioni spazio/temporali. Gli ultimi tre pensieri fondono alla poetica “del vago e indefinito” quella delle “rimembranze” e della “doppia visione”: anche questi aspetti, rimandano a qualcosa che si perde nel tempo o si costituiscono come indefinite e amplificano la capacità del poeta di allargare lo spazio a sensazioni personali che si perdono nel tempo o riescono a contrapporre al “presente” la facoltà del pensiero immaginativo.

Opere in prosa giovanili

L’impegno nello studio definito nello Zibaldone “matto e disperatissimo” dal 1809 al 1816 si può dire si concretizzi in due opere che potremmo definire divulgative: la Storia dell’astronomia (1813) e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815). Non possono certo dirsi opere originali e non ci sentiamo, come alcuni critici poi hanno detto, di dire che l’interesse per l’astronomia o per il sapere primitivo siano prodromi di uno svolgersi poetico successivo. Più corretto ci sembra il fatto è che egli voglia “divulgare” nel sonnacchioso paese le acquisizioni scientifiche galileiane, un po’ come fece l’Algarotti nel ‘700 nel Newtonismo per le dame. Se qualche interesse tale opere suscitano è per l’evoluzione tra uno scritto e l’altro della prosa leopardiana.

Più interessante è la Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana del 1816, che sarà poi ripresa nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, di due anni più tarda, in cui il nostro prende posizione sul dibattito culturale suscitato dall’articolo della De Staël Sull’utilità delle traduzioni, apparso appunto sulla Biblioteca Italiana, anche se, è importante dirlo, nessuna influenza avrà su tale dibattito, non essendo stata pubblicata.

L’IMITAZIONE DEGLI ANTICHI

Ora da tutto questo e dalle altre cose che si son dette, agevolmente si comprende che la poesia dovette essere agli antichi oltremisura più facile e spontanea che non può essere presentemente a nessuno, e che a’ tempi nostri per imitare poetando la natura vergine e primitiva, e parlare il linguaggio della natura (lo dirò con dolore della condizione nostra, con disprezzo delle risa dei romantici) è pressoché necessario lo studio lungo e profondo de’ poeti antichi. Imperocché non basta ora al poeta che sappia imitar la natura; bisogna che la sappia trovare, non solamente aguzzando gli occhi per iscorgere quello che mentre abbiamo tuttora presente, non sogliamo vedere, impediti dall’uso, la quale è stata sempre necessarissima opera del poeta, ma rimovendo gli oggetti che la occultano, e scoprendola, e diseppellendo e spastando e nettando dalla mota dell’incivilimento e della corruzione umana quei celesti esemplari che si assume di ritrarre. A noi l’immaginazione è liberata dalla tirannia dell’intelletto, sgombrata dalle idee nemiche alle naturali, rimessa nello stato primitivo o in tale che non sia molto discosto dal primitivo, rifatta capace dei diletti soprumani della natura, dal poeta; al poeta da chi sarà? o da che cosa? Dalla natura? Certamente, in grosso, ma non a parte a parte, né da principio; vale a dire appena mi si lascia credere che in questi tempi altri possa cogliere il linguaggio della natura, e diventare vero poeta senza il sussidio di coloro che vedendo tutto il dì la natura scopertamente e udendola parlare, non ebbero per esser poeti, bisogno di sussidio. Ma noi cogli orecchi così pieni d’altre favelle, adombrate inviluppate nascoste oppresse soffocate tante parti della natura, spettatori e partecipi di costumi lontanissimi o contrari ai naturali, in mezzo a tanta snaturatezza e così radicata non solamente in altri ma in noi medesimi, vedendo sentendo parlando operando tutto giorno cose non naturali, come, se non mediante l’uso e la familiarità degli antichi, ripiglieremo per rispetto alla poesia la maniera naturale di favellare, rivedremo quelle parti della natura che a noi sono nascoste, agli antichi non furono, ci svezzeremo di tante consuetudini, ci scorderemo di tante cose, ne impareremo o ci ricorderemo o ci riavvezzeremo a tante altre, e in somma nel mondo incivilito vedremo e abiteremo e conosceremo intimamente il mondo primitivo, e nel mondo snaturato la natura? E in tanta offuscazione delle cose naturali, quale sarà se non saranno gli antichi, specialmente alle parti minute della poesia, la pietra paragone che approvi quello ch’è secondo la natura, e accusi quello che non è? La stessa natura? Ma come? quando dubiteremo appunto di questo, se avremo saputo vederla e intenderla bene? L’indole e l’ingegno? Non nego che ci possano essere un’indole e un ingegno tanto espressamente fatti per le arti belle, tanto felici tanto singolari tanto divini, che volgendosi spontaneamente alla natura come l’ago alla stella, non sieno impediti di scoprirla dove e come ch’ella si trovi, e di vederla e sentirla e goderla e seguitarla e considerarla e conoscerla, né da incivilimento né da corruttela né da forza né da ostacolo di nessuna sorta; e sappiano per se medesimi distinguere e sceverare accuratamente le qualità e gli effetti veri della natura da tante altre qualità ed effetti che al presente o sono collegati e misti con quelli in guisa che a mala pena se ne discernono, o per altre cagioni paiono quasi e senza quasi naturali; e in somma arrivino senza l’aiuto degli antichi a imitar la natura come gli antichi facevano. Non nego che questo sia possibile, nego che sia provabile, dico che l’aiuto degli antichi è tanto grande tanto utile tanto quasi necessario, che appena ci sarà chi ne possa far senza, nessuno dovrà presumere di potere. Non mancherà mai l’amore degli uomini alla natura, non il desiderio delle cose primitive, non cuori e fantasie pronte a secondare gl’impulsi del vero poeta, ma la facoltà d’imitar la natura, e scuotere e concitare negli uomini questo amore, e pascere questo desiderio, e muovere ne’ cuori e nelle fantasie diletti sostanziosi e celesti, languirà ne’ poeti, come già langue da molto tempo. E qui non voglio compiangere l’età nostra, né dire come sia vantaggioso, quello che tuttavia, così per la ragione che ho mentovata, come per altre molte, è, almeno generalmente parlando, necessarissimo, né pronosticare dei tempi che verranno quello che l’esperienza dei passati e del presente dimostra pur troppo chiaro, che qualunque sarà poeta eccellente somiglierà Virgilio e il Tasso, non dico in ispecie ma in genere; un Omero un Anacreonte un Pindaro un Dante un Petrarca un Ariosto appena è credibile che rinasca.

24541118623_0e85e0c876_b.jpgDiscorso di un italiano sopra la poesia romantica (autografo)

Il ragionamento critico leopardiano si muove su due direttive precise:

  • se il diletto della poesia sta nell’imitazione della natura, risulta naturale che laddove tale imitazione sia risultata preponderante in quanto la stessa natura era osservata “naturalmente” (diremo senza sovrastrutture culturali) la poesia ha raggiunto i suoi vertici, e questa è l’età antica;
  • oggi proprio a causa della capacità razionale, che si è tradotta in un aumento culturale, tale approccio con la natura è impossibile e quindi sarebbe quasi impossibile la poesia; sbagliano pertanto i Romantici quando criticano l’atteggiamento che vede nell’imitazione degli antichi un freno per la poesia, perché a far da freno alla poesia è la “modernità”;
  • ma, andando al di là del passo su riportato, non è “emulando” il loro stile che s’otterrà la poesia (e qui si mostra contrario ad un erudito neoclassicismo), ma cercando d’imitare l’atteggiamento degli antichi, togliendo le scorie dall’oggetto poetico e porsi “naturalmente”, diremo quasi istintivamente di fronte alla natura (ottenendo, se così si può dire, un esito romantico, lontano tuttavia dal Romanticismo preponderante di stampo manzoniano).

Il Discorso può riflettere il primo momento della meditazione filosofico-letteraria di Leopardi. Esso si muove sotto l’influsso delle teorie di Rousseau, secondo cui la civiltà aveva prodotto, nonostante un miglioramento della condizione di vita, uno stato di infelicità. Ciò era dovuto ad un allontanamento progressivo dell’uomo dalla natura, privandolo appunto dallo stato di felicità “naturale”. Tale atteggiamento culturale è detto, scolasticamente, “pessimismo storico”. Con questo termine s’intende, appunto, il rapporto tra felicità e uomo che si può illustrare con l’antinomia natura/civiltà o natura/ragione, dove il primo è positivo ed il secondo negativo.

Pertanto risulta evidente che, se la felicità è figlia di un rapporto esclusivo con la natura, tale rapporto è oggi negato e pertanto è negata la possibilità di far poesia, soprattutto se, per i Romantici, si tratta di imitare i contemporanei d’oltralpe. Tuttavia Leopardi è consapevole che se la capacità poetica “descrittiva” dell’evento naturale è conclusa, lo stesso non si può dire per la poesia sentimentale, cioè per una poesia che non sia più rappresentativa, ma che sia capace di far esprimere l’io lirico sulla natura.

Produzione letteraria e concezioni filosofiche dal 1817 al 1822

Il Discorso nasce a seguito dell’amicizia con Pietro Giordani, anch’egli posizionato contro le teorie dei cosiddetti romantici italiani, il cui esponente principale è Giovanni Berchet. Il classicismo di Giordani, infatti, parte da un punto di vista differente, oserei dire, politico (il classico rappresenta una lunga tradizione della nostra cultura: abdicare da esso vuol dire venir meno a ciò che potrebbe stare alla base di una cultura patriottica). E’ da questa posizione che il Leopardi all’inizio si cimenterà con la canzone All’Italia e Sopra il monumento di Dante, ambedue dedicate a Vincenzo Monti, la cui forma e il cui stile rispecchiano ancora un’estetica tradizionale.

ALL’ITALIA

O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l’erme
torri degli avi nostri,
ma la gloria non vedo,
non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
i nostri padri antichi. Or fatta inerme,
nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè! quante ferite,
che lividor, che sangue! oh, qual ti veggio,
formosissima donna! Io chiedo al cielo
e al mondo: «Dite, dite;
chi la ridusse a tale?» E questo è peggio,
che di catene ha carche ambe le braccia;
sí che sparte le chiome e senza velo
siede in terra negletta e sconsolata,
nascondendo la faccia
tra le ginocchia, e piange.
Piangi, ché ben hai donde, Italia mia,
le genti a vincer nata
e nella fausta sorte e nella ria

  Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
mai non potrebbe il pianto
adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
ché fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
che, rimembrando il tuo passato vanto,
non dica: «Giá fu grande, or non è quella?»
Perché, perché? Dov’è la forza antica?
dove l’armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
chi ti tradí? Qual arte o qual fatica
o qual tanta possanza
valse a spogliarti il manto e l’auree bende?
Come cadesti o quando
da tanta altezza in cosí basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
agl’italici petti il sangue mio.

Dove sono i tuoi figli? Odo suon d’armi
e di carri e di voci e di timballi:
in estranie contrade
pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi. Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
un fluttuar di fanti e di cavalli,
e fumo e polve, e luccicar di spade
come tra nebbia lampi.
Né ti conforti? e i tremebondi lumi
piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
l’itala gioventude? O numi, o numi!
pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
non per li patrii lidi e per la pia
consorte e i figli cari,
ma da nemici altrui,

per altra gente, e non può dir morendo:
«Alma terra natia,
la vita che mi desti ecco ti rendo.» 

Oh venturose e care e benedette
l’antiche etá, che a morte
per la patria correan le genti a squadre,
e voi sempre onorate e gloriose,
o tessaliche strette,
dove la Persia e il fato assai men forte
fu di poch’alme franche e generose!
Io credo che le piante e i sassi e l’onda
e le montagne vostre al passeggere
con indistinta voce
narrin siccome tutta quella sponda
coprîr le invitte schiere
de’ corpi ch’alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l’Ellesponto si fuggia,
fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
e sul colle d’Antela, ove morendo
si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salía,
guardando l’etra e la marina e il suolo.

E di lacrime sparso ambe le guance,
e il petto ansante, e vacillante il piede,
toglieasi in man la lira:
«Beatissimi voi,
ch’offriste il petto alle nemiche lance
per amor di costei ch’al sol vi diede;
voi, che la Grecia cole e il mondo ammira.
Nell’armi e ne’ perigli
qual tanto amor le giovanette menti,
90qual nell’acerbo fato amor vi trasse?
Come sí lieta, o figli,

l’ora estrema vi parve, onde ridenti
correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch’a danza e non a morte andasse
ciascun de’ vostri, o a splendido convito:
ma v’attendea lo scuro
Tartaro, e l’onda morta;
né le spose vi fôro o i figli accanto,
quando su l’aspro lito
senza baci moriste e senza pianto.

Ma non senza de’ Persi orrida pena
ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
or salta a quello in tergo e sí gli scava
con le zanne la schiena,
or questo fianco addenta or quella coscia;
tal fra le perse torme infuriava
l’ira de’ greci petti e la virtute.
Ve’ cavalli supini e cavalieri;
vedi intralciare ai vinti
la fuga i carri e le tende cadute,
e correr fra’ primieri
pallido e scapigliato esso tiranno;
ve’ come infusi e tinti
del barbarico sangue i greci eroi,
cagione ai Persi d’infinito affanno,
a poco a poco vinti dalle piaghe,
l’un sopra l’altro cade. Oh viva! oh viva!
beatissimi voi
mentre nel mondo si favelli o scriva.

Prima divelte, in mar precipitando,
spente nell’imo strideran le stelle,
che la memoria e il vostro
amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un’ara; e qua mostrando
verran le madri ai parvoli le belle
orme del vostro sangue. Ecco, io mi prostro,
o benedetti, al suolo,
e bacio questi sassi e queste zolle,
che fien lodate e chiare eternamente
dall’uno all’altro polo.
Deh! foss’io pur con voi qui sotto, e molle
fosse del sangue mio quest’alma terra.
Ché, se il fato è diverso, e non consente
ch’io per la Grecia i moribondi lumi
chiuda prostrato in guerra,
cosí la vereconda
fama del vostro vate appo i futuri
possa, volendo i numi,
tanto durar quanto la vostra duri.


Alessandro Puttinati: Italia turrita (1850)

Italia mia, vedo le mura di Roma, gli archi di trionfo, le colonne, le statue e le solitarie torri dei nostri avi, ma non vedo la gloria, la grandezza militare ottenuti con le armi, dei quali erano carichi i nistri antenati. Ora indifesa, mostri la fronte ed il petto nudo. Ora quante ferite, quanti lividi, quanto sangue! In che stato ti vedo, bellissima donna! Chiedo al cielo e al mondo: raccontate, dite; chi l’ha ridotta in tale stato? E quel che è peggio è che ha le braccia cariche di catene, in questo stato con i capelli sciolti e senza velo, siede per terra trascurata e afflitta, nascondendo la faccia tra le ginocchia, e piange. Piangi, ché ne hai tutte le ragioni, Italia mia, che eri nata per essere superiore agli altri popoli nella buona così come nella cattiva sorte. // Anche se i tuoi occhi fossero due fonti perenni, il tuo pianto non sarebbe adeguato alla tua rovina e alla vergogna che ne segue; poiché fosti regina, e ora sei un’umile serva. Chi parla o scrive di te senza dire, ricordando la tua gloria passata, non dica: «un tempo fu grande, adesso non è più quella che fu? Perché? Perché Dov’è l’antica forza militare, dove sono le armi, dove il valore, dove la costanza? Chi ti ha tolto la spada? Chi ti ha tradito? Quale inganno  quale fatica o quale potenza fu capace di strapparti il manto e le bende d’oro? In che modo o quando sei precipitata da una così grande altezza in basso loco? Nessuno combatte per te? Nessuno dei tuoi figli ti difende? Le armi, datemi le armi: io solo combatterò, morirò io solo. Concedimi o cielo che il mio sangue diventi fuoco nel cuore degli italiani. // Dove sono i tuoi figli? Sento suoni di armi, di carri, di voci e di tamburi in paesi stranieri, combattono i tuoi figli. Ascolta, Italia, fa’ attenzione. Io vedo, mi sembra, un ondeggiare di fanti e di cavalli, fumo e polvere, un luccicare di armi, come lampi nella nebbia. E ciò non ti conforta? e non sopporti di rivolgere gli occhi spaventati a quel fatto dall’esito incerto? Per quale scopo la gioventù italiana combatte? O numi, o numi: combattono per un’altra terra le armi italiane. Oh disgraziato colui che è ucciso in guerra, non per la terra dei suoi padri e l’onesta moglie e i cari figli, ma da nemici di altri e combattendo per un altro popolo, e non può dire morendo: mia terra nutrice (mia patria), ecco, ti restituisco la vita che mi hai dato. // Oh fortunate e amate e benedette le epoche antiche, quando i popoli, uniti in eserciti, correvano per la patria incontro alla morte, e tu, sempre onorato e glorioso, passo della Tessaglia, dove la Persia e il fato furono sconfitti da pochi soldati arditi e magnanimi! Io credo che la vegetazione, le rocce e il mare, le montagne, in coro raccontino a chi visita quei luoghi come le schiere non vinte ricoprirono tutta quella costa coi loro corpi di guerrieri consacrati alla patria greca. Allora il re persiano Serse, tanto vigliacco quanto feroce, fuggiva per l’Ellesponto, divenuto oggetto di scherno per tutti i discendenti; e sulla collina d’Antela, dove, morendo, il sacro esercito spartano divenne immortale, saliva Simonide, guardando il cielo e la spiaggia e la terra. // E con le guance bagnate di lacrime, il petto affannato e il piede incerto, prendeva in mano la sua cetra: «Beatissimi voi, che offriste i vostri petti alle lance dei nemici (sacrificaste la vostra vita) per amore di costei che vi diede alla luce (la patria); voi che la Grecia venera, e il mondo ammira. Quale amore così grande spinse i vostri giovani animi alle armi e ai pericoli, quale amore vi condusse al crudele destino della morte? O figli, come è possibile che la vostra ultima ora (di vita) vi sia sembrata così gloriosa, per cui correste felici al passo doloroso e terribile? Sembrava che ciascuno di voi andasse a un ballo o a un ricco banchetto, e non a morire: ma vi attendeva il Tartaro oscuro e l’onda della morte; e non vi furono vicini le spose o i figli quando moriste sul terreno scosceso, senza baci e senza lacrime. // Ma (la vostra morte) non avvenne senza il dolore tremendo e la sofferenza immensa dei Persiani. Come il leone in mezzo a una mandria di tori ora si slancia sulla groppa di uno e gli lacera la schiena con i denti, ora gli azzanna un fianco o una coscia, allo stesso modo la rabbia e la virtù dei cuori greci si scatenavano in mezzo alla massa dei Persiani. Vedi cavalli e cavalieri abbattuti; vedi i carri e le tende a terra impedire la fuga ai vinti, e il tiranno stesso (Serse) correre tra i primi, pallido e con i capelli scarmigliati; vedi come, intrisi e macchiati del sangue dei barbari, gli eroi greci, loro che inflissero immenso dolore ai Persiani, cadono l’uno sull’altro, uccisi a poco a poco dalle ferite. Viva, viva: beatissimi voi, finché al mondo si parli o si scriva (perché si parlerà e si scriverà delle vostre gesta eroiche). // Strideranno le stelle strappate via dal cielo in mare, precipitando, spente nei suoi fondali, prima che passino o si riducano il ricordo di voi e l’amore per voi. La vostra tomba è un altare; e qua verranno le madri per mostrare ai figli le tracce gloriose del sangue da voi versato. Ecco, io mi prostro al suolo, o benedetti, e bacio questi sassi e questa terra, che saranno lodate e conosciute in eterno da un capo all’altro del mondo. Oh, se fossi anch’io con voi qui sotto e se questa terra materna fosse bagnata del mio sangue. Ma se il mio destino è un altro, e non permette che io chiuda gli occhi moribondi ucciso in guerra, almeno la fama modesta del vostro cantore possa durare presso i posteri finché duri la vostra.

Questa canzone, scritta nel 1818, è figlia delle conversazioni che il poeta ha avuto con Giordani e segna un distacco netto sia dal conservatorismo paterno, sia dal dibattito culturale nato dall’invito di Madame De Stael e al quale il nostro aveva già risposto con la lettera alla Biblioteca italiana. Egli infatti, partendo dalla poesia petrarchesca (ma si sentono anche echi foscoliani) vuole sottolineare la superiorità della poesia antica su quella moderna, evidenziando nel testo il valore del passato contro la mediocrità del presente. Certo il tema può sembrare abusato, così come il linguaggio che sembra ricalcare più che un’estetica neoclassica, i cui riferimenti sono solo di valore estetico, un significato patriottico e quindi politico, proprio come l’amico Giordani gli aveva insegnato. Eppure, come dice il critico letterario Luperini “si delinea, accanto al tema civile, una tematica esistenziale: il poeta fa corrispondere alla crisi storica dell’Italia una propria crisi personale, proponendosi gesti eroico riscatto indivinduale”.

Il giovane favoloso di Mario Martone - Un Leopardi contraddittorio e affamato di vita

Leopardi e Giordani nel film di Martone

Contemporanea a quella delle Canzoni civili e quella degli idilli, definiti dalla critica letteraria come “piccoli idilli” per differenziarli dalla produzione successiva, che conterrà testi composti tra il 1827 ed il 1828. Tra i più importanti di essi ricordiamo La sera del dì di festa, L’infinito, Alla luna.

LA SERA DEL DI’ DI FESTA

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, che t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai nè pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno. A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate! Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dì festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov’è il suono
di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
de’ nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.

maxresdefault.jpgElio Giordano nei panni di Leopardi illuminato dalla luna nel film Il giovane favoloso

Dolce e luminosa è la notte senza vento e placida sopra i tetti riposa  e in mezzo agli orti riposa la luna e rivela da lontano nitida ogni montagna. O, donna mia, ormai tace ogni sentiero e attraverso i balconi trapela fioca la luce delle lampade accese: tu dormi, che un facile sonno ti prese nelle stanze silenziose e non ti angustia alcun affanno e di certo non sai né pensi quale grande ferita d’amore mi hai inferto nel cuore. Tu dormi: ed io mi affaccio a salutare questo cielo, che sembra così benevolo alla vista e l’antica natura onnipotente che mi ha generato per la sofferenza. Mi disse: a te nego anche la speranza e tuoi occhi non luccichino se non per le lacrime. Questo è stato un giorno festivo: ora tu (riferito alla donna) riposati dopo gli svaghi; e forse ti torna alla memoria durante il sonno a quanti sei piaciuta, e quanti ti piacquero: non io ti ritorno al pensiero e nemmeno lo spero. Nel frattempo io chiedo quanto mi resti da vivere e mi getto a terra, e piango e sono percorso da fremiti. Ah orrendi giorni in una così giovane età! Ahimè, per la via sento non lontano il canto dell’artigiano, che torna a notte tarda, dopo i divertimenti, alla sua povera casa; e mi si stringe dolorosamente il cuore nel pensare a come tutto nel mondo passa, e quasi non lascia traccia. Ecco è terminato il giorno festivo, e al giorno di festa segue quello volgare ed il tempo porta via con sé ogni cosa umana. Ora dov’è il rumore di quei popoli antichi? ora dov’è la fama dei nostri antenati famosi ed il grande impero di Roma, tanto celebre e il clamore dei suoi eserciti che da lei si sparse per terra e per mare? Tutto è tranquillo e silenzioso, tutto il mondo riposa e  di loro non si parla più. nella mia fanciullezza, quando si aspetta con desiderio il giorno di festa, dopo quando era finito, io con dolore, giacevo nel letto sveglio e nella notte fonda un canto che si udiva allontanarsi e morire piano piano, già in modo simile mi stringeva il cuore.

Il testo lirico, tutto in endecasillabi senza interruzioni strofiche, presenta una varietà stilistico tematica che pur intrecciandosi in modo non sempre armonico all’interno dei versi, ne dà tuttavia un’immagine unitaria. Inizia con la descrizione notturna, placando il verso con il polisintedo, che ci prepara all’epifania lunare. Quindi la presenza femminile, posta in rilievo oppositivo: la seconda persona con cui la indica sottolinea da una parte lo struggimento, dall’altra l’esclusione di contro alla di lei indifferrenza fatta di nessun affanno, inconsapevole del dolore provocatogli. Si affianca a lei la natura, «l’antica natura onnipossente che mi fece all’affanno». L’ultima parte è introdotta dalla sensazione uditiva del canto dell’artigiano e che lo porta al pensiero dell’età antica e  alla considerazione topica dell’omnia fert aetas che investe l’intera storia, immagine del canto dell’artigiano che si allontana ripetuta nell’ultimo verso: la sensazione che tutto trascorri e passi senza lasciare traccia permane come acquisizione conoscitiva per il giovane poeta. 

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Pagina autografa

L’INFINITO

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Sempre caro mi è stato questo colle solitario e questa siepe che sottrae allo sguardo tanta parte dell’estremo orizzonte. Stando fermo e guardando fisso io immagino nel pensiero spazi infiniti al di là di quella siepe e silenzi che un uomo non può percepire e quiete profonde, per cui per poco il cuore non si smarrisce. E quando sento stormire le foglie a causa del vento io paragono quell’infinito silenzio a questa voce e mi viene in mente l’eternità, le stagioni passate, la presente e viva ed il suo suono. Tra questa immensità si smarrisce il mio pensiero ed il lasciarsi andare in questo mare mi è gradito.

L’idillio, in quindici endecasillabi sciolti, ci vuole presentare un’esperienza reale/psichica nella quale il nostro trova, nell’indeterminatezza della natura la voce della poesia, che la civiltà ha in parte distrutto. Esso si situa in una duplice direzione:

  • Definisce quello che nella Lettera di un italiano intorno alla romantica ritiene essere l’imitatio verso gli antichi: riprodurre il sentimento verso la natura, la sola che dà diletto. Ma se la natura, oggi, si svuota della capacità immaginativa in quanto “incrostata” di sapienza razionale, essa può ridare gioia in ciò che tale “incrostazione” non vi è;
  • Chiarisce ciò che nello Zibaldone aveva definito come lessico poetico: e tale lessico richiede parole assolutamende vaghe e indefinite.

L’idillio è costruito sapientemente attraverso un’opposizione che pone elementi reali contro elementi immaginativi. Dapprima il poeta è limitato dalla siepe che non gli permette di vedere lo spazio. Tale spazio, razionalmente, è finito, perché per Leopardi, la terra e l’universo sono realtà finite, ma in quanto inconcepibili nella loro interminatezza dalla ragione umana, esse danno vita ad una funzione immaginativa e quindi poetica. In questa prima parte inserisce anche l’infinito silenzio che richiama alla seconda parte dell’idillio, dove tale sensazione è prodotta dallo stormire delle foglie. A dire il vero la seconda sensazione è più vasta, maggiormente richiamata: l’infinito silenzio, il tempo remoto, il presente e quello limitato in cui il poeta è (sedendo e mirando, come fosse posto in terra, in un angolo un po’ sopraelevato del suo giardino). Tale capacità è resa mirabilmente dall’uso sapientissimo degli enjambement, che dal quarto verso mettono in rilievo parole indefinite o aggettivi dimostrativi a denotare la distanza dell’io poeta da ciò che immagina (questo, quello).

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Se nell’intenzione del poeta vi era quasi la volontà di realizzare una poesia classicamente atteggiata, non è un caso che essa risulti fortemente romantica: è infatti un testo metafisico, che si basa sull’immaginazione e quindi sul “non definito”. Ma tale indeterminatezza non nasce come un allontanamento totale dalla realtà, come un puro sogno. Egli parte da un dato reale per immaginare, non cede al fascino della teoria dell’onirico, dell’impalpabile, dell’etereo: è infatti una siepe o il fruscio a determinare l’immaginazione. E che tale immaginazione crei diletto lo sottolinea nello splendido ultimo verso, dove al centro di esso pone il lemma “dolce”, con la o tonica a fermare la voce del lettore.

Un altro importante aspetto della meditazione leopardiana di questo periodo riguarda la teoria del piacere. Il Leopardi deriva tale teoria dalla filosofia sensistica settecentesca, ma la determina e l’approfondisce con meditazioni culturali e personali. Il piacere è una condizione indefinita dell’uomo, in quanto irrealizzabile nella sua totalità: ciò che l’uomo prova è una serie di piaceri caratterizzati da limitatezza temporale, che interrompono una naturale condizione di insoddisfazione che cessa solo con la morte. Il compito della natura, in questa fase, è tuttavia quello di dispensarci di tali momenti di felicità, fornendoci le “illusioni” e attimi di “godimento”. Essa infatti attenua e lenisce il senso di finitezza e precarietà della vita umana. Allora come mai anche gli antichi, nella loro produzione poetica, spesso parlano dell’infelicità dell’uomo? In questa fase Leopardi non incolpa la ragione, ma il destino o gli dei (definizioni che rimandano ad unico concetto). Ma vedremo che tale spiegazione, che presumibilmente apparirà anche a lui insufficiente, sarà presto superata.

Tale posizione è illustrata mirabilmente in una delle più famose canzoni leopardiane, ancora appartenenti al primo periodo:

L’ULTIMO CANTO DI SAFFO

Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna; e tu che spunti
fra la tacita selva in su la rupe,
nunzio del giorno; oh dilettose e care
mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
sembianze agli occhi miei; già non arride
spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva
quando per l’etra liquido si volve
e per li campi trepidanti il flutto
polveroso de’ Noti, e quando il carro,
grave carro di Giove a noi sul capo,
tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
fiume alla dubbia sponda
il suono e la vittrice ira dell’onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
vile, o natura, e grave ospite addetta,
e dispregiata amante, alle vezzose
tue forme il core e le pupille invano
supplichevole intendo. A me non ride
l’aprico margo, e dall’eterea porta
il mattutino albor; me non il canto
de’ colorati augelli, e non de’ faggi
il murmure saluta: e dove all’ombra
degl’inchinati salici dispiega
candido rivo il puro seno, al mio
lubrico piè le flessuose linfe
disdegnando sottragge,
e preme in fuga l’odorate spiagge.

 Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
di misfatto è la vita, onde poi scemo
di giovanezza, e disfiorato, al fuso
dell’indomita Parca si volvesse
il ferrigno mio stame? Incaute voci
spande il tuo labbro: i destinati eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta prole
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
de’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,
alle amene sembianze eterno regno
diè nelle genti; e per virili imprese,
per dotta lira o canto,
virtù non luce in disadorno ammanto.

 Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
e il crudo fallo emenderà del cieco
dispensator de’ casi. E tu cui lungo
amore indarno, e lunga fede, e vano
d’implacato desio furor mi strinse,
vivi felice, se felice in terra
visse nato mortal. Me non asperse
del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perìr gl’inganni e il sogno
della mia fanciullezza. Ogni più lieto
giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
della gelida morte. Ecco di tante
sperate palme e dilettosi errori,
il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
han la tenaria Diva,
e l’atra notte, e la silente riva.

Placida notte e pudico raggio della luna tramontante luna e tu stella che spunti tra il silente bosco della scoscesa rupe annunciando il mattino; piacevoli e gradite immagini al mio sguardo, quando ancora sconosciute erano la passione e il destino d’amore; oramai un dolce spettacolo non giova a chi è disperato. A noi vivifica un’inconsueta felicità quando il soffio del vento turbina per la piovigginosa aria e per i campi agitati, quando l’imponente carro di Giove scaglia fulmini sul nostro capo, squarciando il cielo. A noi giova annegare per i dirupi e le profonde valli, per noi la disordinata fuga delle greggi o il suono e la vincitrice forza dell’onda di un profondo fiume sulla non sicura sponda. // Bella la tua copertura, o cielo divino, e bella sei tu, terra ricoperta di rugiada: ah di questa infinita bellezza niente hanno fatto gli dei ed il triste destino alla povera Saffo. Ai tuoi superbi regni, o natura, data come misera e non gradita ospite e disprezzata amante, invano supplichevole sollevo il cuore e lo sguardo. A me non giova un campo soleggiato, o l’alba che spunta dalla porta del cielo; non giovano il canto di variopinti uccelli e non il mormorio delle foglie dei faggi: e dove all’ombra dei salici pendenti un limpido ruscello dispiega le sue acque trasparenti, quello stesso ruscello disprezzandomi sottrae al mio incerto piede le sue acque sinuose e fuggendomi urta contro le sue rive profumate. // Quale colpa, quale così vergognosa enormità mi ha macchiato prima di nascere, per cui così ostile il cielo e la fortuna mi fossero? In cosa peccai bambina, quando la vita ignorava il male, quando ormai privata del fiore della giovinezza, il filo della mia spenta vita si riavvolgeva nel fuso della irremovibile Parca? (Rivolgendosi a se stessa) La tua bocca pronuncia incauti parole: i futuri avvenimenti sono voluti da una misteriosa volontà. Tutto è mistero, al di fuori del nostro dolore. Figli non desiderati nascemmo per piangere, e il motivo sta nel grembo degli dei. Oh preoccupazioni o vane aspirazioni della mia gioventù. Giove ha dato alla gente dominio eterno alla beltà; non risplende in un corpo brutto la virtù per imprese gloriose, suono sapiente o capacità letteraria. // Moriremo. Con il brutto corpo sparso sulla terra, l’animo nudo fuggirà verso la morte e correggerà il crudele errore del destino. E tu (Faone) a cui mi strinse un inutile lungo amore ed una lunga fedeltà ed una illusoria implacabile passione, vivi felice, se felicemente possa vivere sulla terra un mortale. Giove non asperse su di me il soave liquore della felicità dal vaso cui raccoglieva raramente. Ogni giorno più felice della nostra vita vola via. Subentrano le malattie, la vecchiaia, e la minaccia della fredda morte: ecco, di tante sperate glorie e piacevoli svaghi, la morte mi avanza, il mio tenace ingegno lo possiede la regina dell’Infero (Proserpina), l’oscura notte e il silenzioso rivo.

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Antoine-Jean Gros Sappho a Leucode (1801)

Questo testo, tra le canzoni di Leopardi, nella pubblicazione dei Canti da lui voluti, precede gli idilli, che invece verranno scritti prima. E’ un testo infatti del 1822, in cui si può misurare il classicismo leopardiano, ma come questo, al contrario di Foscolo, sia intessuto di elementi soggettivi e non più civili. Questa canzone è composta da quattro strofe di 18 versi sciolti, solo gli ultimi due che hanno rima baciata; i versi sono prevalentemente endecasillabi ad eccezione del penultimo che è settenario. Tale struttura risponde, secondo la retorica classica, ad un tema “gravissimo”, sia per la superiorità degli endecasillabi che per la quasi mancanza di rime.

Il tema, come ci dice egli stesso, è quello di “rappresentare l’infelicità di un animo delicato, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane”. Ciò ci conduce, direi quasi semplicisticamente, ad identificare la situazione del poeta recanatese con quella di Saffo. Ma se si accettasse una totale identificazione si perderebbe il senso ultimo di questo scritto. Troviamo infatti la concezione secondo la quale è il destino a serbarci un triste svolgersi della nostra esistenza, ma troviamo altresì un inizio di un ripensamento/approfondimento del ruolo della natura nella vita dell’uomo, come verrà poi sviluppato nelle Operette morali.

Operette morali: la morte della voce poetica: 1823 – 1826

Il giovane Leopardi, a seguito della corrispondenza col Giordani, aveva fortemente sentito la necessità di un allontanamento da Recanati e nel ’19 ci tentò, provando a fuggire. Scoperto dal padre, che temeva per la salute del giovane nonché, e forse ancor di più, delle meditazioni filosofiche politiche che nel figlio andavano maturando, lo fece desistere dal tentativo. Frustrato, senza poter più leggere, il nostro si lascerà andare a una più radicale meditazione che lo porta a riflettere sul senso della vita. Alla fine, col consenso del padre, ma siamo già nel ’22, riuscirà a partire e a raggiungere la grande città, Roma, ospite di uno zio, fratello della madre. Non sarà affatto entusiasta: laddove cercava un confronto vitale per l’affermazione della sua cultura, trova soltanto conformismo e grettezza; laddove cerca nelle vie la storia, non sa trovarla, perché si sente solo, non la conosce e non vuole sempre chiedere d’essere accompagnato. Vive in casa dello zio, circondato dall’affetto, ma non lo stesso che gli davano i fratelli a Recanati. Vi torna nel ’23 e sente che la poesia per lui non ha più voce. Accentua il sarcasmo sulla sua condizione ed inevitabilmente sulla condizione dell’uomo e medita di scrivere una serie di prose sul modello di Luciano di Samosata, scrittore irreverente del II secolo dopo Cristo. Nel 1824 scrive il corpus maggiore di esse (20) a cui se ne aggiungeranno 3 nel ’27 e due nel ’32. Nell’edizione definitiva, dettata da Leopardi a Ranieri ed uscita postuma, Leopardi ne eliminerà una, Dialogo di un lettore di umanità e Sallustio.

DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO

FOLLETTO: Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio*? Dove si va?
GNOMO: Mio padre m’ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno. Dubita che non gli apparecchino qualche gran cosa contro, se però non fosse tornato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro e argento; o se i popoli civili non si contentassero di polizzine per moneta come hanno fatto più volte, o di paternostri di vetro, come fanno i barbari; o se pure non fossero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare il meno credibile.
FOLLETTO: “Voi gli aspettate invan: son tutti morti”, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.
GNOMO: Che vuoi tu inferire?
FOLLETTO: Voglio inferire che gli uomini son tutti morti, e la razza è perduta.
GNOMO: Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s’è veduto che ne ragionino.
FOLLETTO: Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?

GNOMO: Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?
FOLLETTO: Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo.
GNOMO: Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari.
FOLLETTO: Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.
GNOMO: E i giorni della settimana non avranno più nome.
FOLLETTO: Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano? o forse ti pensi, poiché sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?
GNOMO: E non si potrà tenere il conto degli anni.
FOLLETTO: Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo; e non misurando l’età passata, ce ne daremo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo aspettando la morte di giorno in giorno.
GNOMO: Ma come sono andati a mancare quei monelli?
FOLLETTO: Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.
GNOMO: A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di pianta, come tu dici.
FOLLETTO: Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.
GNOMO: Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli.
FOLLETTO: E non volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per li folletti.
GNOMO: Tu folleggi veramente, se parli sul sodo.
FOLLETTO: Perché? io parlo bene sul sodo.
GNOMO: Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo è fatto per gli gnomi?
FOLLETTO: Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra? Oh questa è la più bella che si possa udire. Che fanno agli gnomi il sole, la luna, l’aria, il mare, le campagne?
GNOMO: Che fanno ai folletti le cave d’oro e d’argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle?
FOLLETTO: Ben bene, o che facciano o che non facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie. E però ciascuno si rimanga col suo parere, che niuno glielo caverebbe di capo: e per parte mia ti dico solamente questo, che se non fossi nato folletto, io mi dispererei.
GNOMO: Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato gnomo. Ora io saprei volentieri quel che direbbero gli uomini della loro presunzione, per la quale, tra l’altre cose che facevano a questo e a quello, s’inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genere umano, e che la natura gliel’aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori.
FOLLETTO: Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagatella. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo e le storie delle loro genti, storie del mondo: benché si potevano numerare, anche dentro ai termini nella terra, forse tante altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d’uomini vivi: i quali animali, che erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però mai che il mondo si rivoltasse.
GNOMO: Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?
FOLLETTO: Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come essi dicevano.
GNOMO: In verità che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci.
FOLLETTO: Ma i porci, secondo Crisippo erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale.
GNOMO: Io credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece dell’anima, non avrebbe immaginato uno sproposito simile.
FOLLETTO: E anche quest’altra è piacevole; che infinite specie di animali non sono state mai viste né conosciute dagli uomini loro padroni; o perché elle vivono in luoghi dove coloro non misero mai piede, o per essere tanto minute che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire. E di moltissime altre specie non se ne accorsero prima degli ultimi tempi. Il simile si può dire circa al genere delle piante, e a mille altri. Parimenti di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d’anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende.
GNOMO: Sicché, in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giù per l’aria, avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio degli uomini.
FOLLETTO: Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.
GNOMO: E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.
FOLLETTO: E il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo.

* gli gnomi erano spiriti che vivevano sottoterra, figli di Sabazio, divinità dei Traci corrispondente al Dioniso dei Greci. I folletti, al contrario erano natura dell’aria.

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Illustrazione per l’operetta leopardiana

L’operetta, come la maggior parte di quelle della prima edizione, è del 1824 e viene considerata fra le più riuscite per il ritmo serrato del dialogo, che fa sì che in essa si riveli una “levità musicale” come dice il critico Fubini, e per la forte ironia che riesce a togliere il senso tragico al tema che fa da sottofondo alla riflessione leopardiana. E’ evidente che qui venga criticata l’arroganza di chi crede che la terra sia a servizio dell’uomo e ci viene mostrato, attraverso un efficace paradosso che alla scomparsa dell’uomo, non corrisponderebbe affatto un’altrettanta scomparsa della terra. Ma l’importanza dell’operetta è che essa sembra situarsi ancora in un momento d’incertezza leopardiana, la stessa che si era già mostrata nell’ultimo canto di Saffo: non è un caso che in un passo citi le colpe dell’uomo per la loro autodistruzione e non dia colpa alcuna colpa alla natura che prende solamente “atto” della loro assenza.

Bisognerà attendere il capolavoro delle Operette in cui tale “empasse” verrà finalmente risolto:

DIALOGO DI UN ISLANDESE E DELLA NATURA

Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l’interiore dell’Affrica, e passando sotto la linea equinoziale in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque. Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse: 
NATURA: Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?
ISLANDESE: Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa. 
NATURA: Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
ISLANDESE: La Natura?
NATURA: Non altri.
ISLANDESE: Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere.
NATURA: Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi?
ISLANDESE: Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza e dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli e vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell’isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’immagine di piacere, io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l’intensità del freddo, e l’ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degl’incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, che d’esser quieta; riescono di non poco momento, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell’animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine d’impedire che l’esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le altre cose non m’inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te di nessun’ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori dell’aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l’abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m’inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all’uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando che tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l’uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l’uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l’animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l’ordinario); tu non hai dato all’uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne’ paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole e dall’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l’uomo non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto all’una o all’altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi che ne seguono.
NATURA: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
ISLANDESE: Ponghiamo caso che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de’ tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.
NATURA: Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
ISLANDESE: Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?
Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa. 

Tale “operetta” ci conduce ad un punto di svolta in cui la meditazione leopardiana sul rapporto natura/uomo era giunta.

Convergono in essa alcuni punti interessanti:

  • identificazione islandese/ Leopardi: ambedue viventi ai confini del mondo. Il primo in un’isola poco frequentata nel nord Europa; il secondo in un piccolo centro dello Stato della Chiesa, chiuso ad ogni contatto culturale “moderno”;
  • La trasformazione del “viaggio” di settecentesca memoria, rivolto alla conoscenza e acquisizione di usi e costumi di realtà diverse; qui, invece, la conoscenza è di origine filosofica e si ammanta di sapere classico (epicureo e quindi lucreziano, nonché dell’apporto stoico di Seneca).

Proprio a partire dal primo punto notiamo che l’Islandese/Leopardi è un protagonista lontano dalla civiltà e quindi “naturalmente” portato a vivere in contatto con la natura. Il fatto che egli la fugga, lo pone in antitesi proprio al viaggio settecentesco: si pensi, per la letteratura italiana, ai passi di Alfieri sul mar Baltico e come l’imponenza dei ghiacci portava l’uomo a quella sublimità che potremo certamente definire “preromatica”.

Qui vi è non il viaggio, ma la fuga, illusoria: la natura non si può fuggire in quanto sta dentro di noi; per Leopardi noi stessi siamo natura e pertanto è illusorio cercare di fuggirla. L’uomo vi ha tentato anche con razionalità, vincendo lo stupido antropocentrismo e cercando un luogo in cui l’uomo potesse stare senza adattamento, come gli orsi nel gelo o i leoni nella savana. Ma tale luogo la natura non lo ha predisposto. Allora, attraverso un incalzante interrogativo Leopardi le chiede perché la Natura stessa ha creato l’uomo per poi disinteressarsi completamente di lui. Riprende la teoria illuminista, già vista in Foscolo, secondo cui, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, quindi quella teoria che vede la natura come un processo meccanico. Tale è la risposta della stessa Natura, che non può generare, a sua volta, che l’interrogativo sul motivo del vivere se poi tale vita è inutile per l’uomo, ma utile solo alla stessa natura. Non c’è risposta e la chiusura è grottesca, amara. I due leoni, rappresentanti essi stessi la natura, sbranandolo, campano un giorno in più, o ancora, diventato mummia, si riduce ad essere oggetto di sguardi curiosi (di chi?).

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Attilio Del Giudice: Dialogo della natura e di un islandese

Concludendo potremo solo dire che, quello già intuito ne L’ultimo canto di Saffo, approfondito nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo, negato quello che precedentemente aveva rappresentato l’idillio L’infinito, ci troviamo di fronte al passaggio per cui l’antinomia natura/ragione viene a cadere, determinando l’ineluttabile infelicità umana. Tale fase del pensiero leopardiano prende il nome di “pessimismo cosmico”.

Produzione letteraria nel periodo pisano-recanatese 1828 -1830

Questo è lo stesso atteggiamento che Leopardi avrà nella stagione dei cosiddetti “Grandi Idilli”, scritti nel periodo pisano-recanatese, in cui, dopo l’esperienza prosastica delle Operette, sente rinascere la voglia della poesia, come dice, in una lettera, alla sorella Paolina: Dopo due anni ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta.

Nascono infatti Il risorgimento e la celeberrima A Silvia, composta a Pisa nel ’28:

A SILVIA

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi? 

 Sonavan le quiete stanze,
e le vie d’intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.

 Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi? 

 Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.

Anche perìa fra poco

la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? Questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.

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Silvia, ricordi ancora quel tempo della tua vita, quando la bellezza risplendeva nei tiuoi occhi felici e pudichi e tu, lieta e pensosa, ti preparavi ad affrontare l’età che immette alla giovinezza? // La casa e le vie intorno risuonavano del tuo interrotto canto, quando occupata in lavori femminili sedevi abbastanza contenta di quell’incerto futuro che sognavi. Era il mese del profumato Maggio e tu trascorrevi così le tue giornate. // Io, a volte interrompendo i graditi studi e le fatiche letterarie tra le quali trascorrevo la mia giovinezza e la parte migliore di me, dai balconi della casa paterna ascoltavo il suono della tua voce ed il telaio che velocemente facevi scorrere con la mano. Contemplavo il cielo sereno, le strade illuminate dal sole, i giardini e da una parte il mare in lontananza e dall’altra i monti. Nessuno può dire ciò che provavo dentro di me. // Che dolci pensieri, che speranze, o Silvia mia! Come ci sembrava allora la vita umana e il destino! Quado mi viene in mente quanto grandi fossero le nostre speranze mi sento opprimere da un senso di angoscia crudele e inconsolabile e ricomincio a sentire tutto il dolore per la mia vita sventurata. O natura, natura, perché non mantieni le promesse che fai in gioventù? Perché così tanto inganni i tuoi figli? // Tu prima che l’inverno facesse seccare l’erba, morivi, dopo essere stata combattuta e vinta da un male incurabile, o tenera ragazza. E non vedevi la giovinezza, non ti rallegrava il cuore ascoltare le dolci lodi rivolte ora alla tua bellezza dei tuoi neri capelli, ora ai tuoi occhi innamorati e sfuggenti, né con te le compagne, nei giorni di festa, parlavano d’amore. // Poco dopo venivano meno anche i miei dolci sogni; il destino ha negato anche a me la giovinezza. Ahi come sei irrevocabilmente svanita, cara compagna della mia giovinezza, mia compianta speranza. Questo è quel mondo tanto desiderato? Questi i piaceri, l’amore, il lavoro gli accadimenti di cui parlammo tanto insieme? Questa è la sorte degli uomini? Appena la vita è apparsa per quello che è veramente tu infelice cadesti: e con la mano mostravi di lontano la fredda morte e la tomba disadorna.

Questa canzone è considerata, al pari dell’Infinito, come uno dei punti più alti della poesia leopardiana. Essa è composta da sei strofe di lunghezza ineguale in versi endecasillabi e settenari liberamente rimati.

Non vi è in essa un racconto, ma le immagini di un ricordo (non è un caso che, nello stesso periodo egli componga Le Ricordanze) e, come ricordo, appare al poeta degno di essere cantato perché essendo esso indefinito e di contorni sfumati, non può che nascere dall’immaginazione della mente (che richiama in sé episodi), e pertanto risulta essere fortemente poetico.

Tale discorso ci è confermato proprio dalla figura di Silvia, appena tratteggiata (occhi scuri e fuggitivi, mani veloci che tessono). Ella è altrettanto vaga da essere richiamata dal senso uditivo più che visivo, ricreando quell’opposizione siepe/infinito, fruscio/silenzio e qui limite della finestra, sguardi fuggenti, lavoro e canto.

Il loro, come ci viene suggerito, è un non rapporto, è un non incontro tra una giovane popolana ed giovane intellettuale, ambedue fermi sul limitare della giovinezza. Ed è proprio in questo limitare che si ferma il pensiero leopardiano: Oh natura, natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? Domanda retorica, certamente, la cui risposta non può che essere quella già formulata nel Dialogo di un islandese e della natura: essa è indifferente al destino dell’uomo. Ma qui, come nel venditore d’almanacchi (non per niente più o meno della stessa fase) vi è in più condivisione di un identico destino, quella che latinamente potremo definire compassione, che non ha nulla di religioso, ma come soffro con te, quindi soffriamo insieme (cum patior) per un identico destino.

Tale compassione deriva dalla constatazione di una duplice morte; la prima fisica: l’orrenda tisi porta via una giovane donna, uccidendo in lei ogni illusione di vita futura, ma di pienezza di vita, dell’esplodere della giovinezza e della sessualità; la seconda è una morte intellettuale: accortosi dell’“aridità del vero” la vita perde senso, coincidendo, quindi, con la non vita.

Anche qui, sapientemente disseminati operano richiami filosofici e letterari: Virgilio e il canto di Circe Solis filia lucos / adsiduo resonat cantu … arguto tenues percurrens pectine telas (dove la figlia del Sole fa risuonare gli inaccessibili boschi del suo continuo canto …, percorrendo le tele sottili col pettine sonoro); concetto di morte come nulla, di matrice stoica.

La gioia ritrovata nel mite ambiente pisano non può durare a lungo. Le gravi difficoltà economiche, determinate dall’interrompersi del rapporto con l’editore Stella che gli aveva proposto un commento dei classici, il peggiorare delle sue condizioni fisiche, che non gli consentono né di leggere, né di scrivere (ha bisogno di qualcuno che lo faccia per lui) lo riportano nel natìo borgo selvaggio.

Ma questo non gli uccide la vena poetica, anzi sembra prosegua grazie al ricordo e all’affetto ritrovato (soprattutto per la sorella Paolina).

Tuttavia le sue condizioni peggiorano; ad esse si aggiunge la notizia della morte del fratello Luigi, morto per tisi a soli 24 anni. Prostrato da una parte dal dolore, dall’altra da difficoltà fisiche ed economiche, si sposta per l’estate a Firenze, ma le sue condizioni peggiorano. Quindi ad autunno inoltrato torna a Recanati, in compagnia di Vincenzo Gioberti, giovane prete conosciuto a Firenze. In casa le condizioni non sono delle migliori: gli viene anche a mancare il diletto fratello Carlo, che è scappato per sposarsi contro la volontà dei genitori. Cade in una incredibile malinconia, che lo estraniano ancora di più, anche dalle figure familiari. Ma, nonostante tale “infelicità”, non si attenua la vena poetica, che gli permette di riprendere a scrivere delle pagine poetiche di altissima intensità. La prima di esse è Le ricordanze, composta in Recanati nel ’29:

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Recanati al tramonto

LE RICORDANZE

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo,
e delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
creommi nel pensier l’aspetto vostro
e delle luci a voi compagne! Allora
che, tacito, seduto in verde zolla,
delle sere io solea passar gran parte
mirando il cielo, ed ascoltando il canto
della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
e in su l’aiuole, susurrando al vento
i viali odorati, ed i cipressi
là nella selva; e sotto al patrio tetto
sonavan voci alterne, e le tranquille
opre de’ servi. E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
questa mia vita dolorosa e nuda
volentier con la morte avrei cangiato.

Nè mi diceva il cor che l’età verde
sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una gente
zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo,
son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
per invidia non già, che non mi tiene
maggior di se, ma perchè tale estima
ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
a persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
tra lo stuol de’ malevoli divengo:
qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
e sprezzator degli uomini mi rendo,
per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola
il caro tempo giovanil; più caro
che la fama e l’allor, più che la pura
luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
senza un diletto, inutilmente, in questo
soggiorno disumano, intra gli affanni,
o dell’arida vita unico fiore.

Viene il vento recando il suon dell’ora
dalla torre del borgo. Era conforto
questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
quando fanciullo, nella buia stanza,
per assidui terrori io vigilava,
sospirando il mattin. Qui non è cosa
ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per se; ma con dolor sottentra
il pensier del presente, un van desio
del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
raggi del dì; queste dipinte mura,
quei figurati armenti, e il Sol che nasce
su romita campagna, agli ozi miei
porser mille diletti allor che al fianco
m’era, parlando, il mio possente errore
sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,
al chiaror delle nevi, intorno a queste
ampie finestre sibilando il vento,
rimbombaro i sollazzi e le festose
mie voci al tempo che l’acerbo, indegno
mistero delle cose a noi si mostra
pien di dolcezza; indelibata, intera
il garzoncel, come inesperto amante,
la sua vita ingannevole vagheggia,
e celeste beltà fingendo ammira.

O speranze, speranze; ameni inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; che per andar di tempo,
per variar d’affetti e di pensieri,
obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
son la gloria e l’onor; diletti e beni
mero desio; non ha la vita un frutto,
inutile miseria. E sebben vóti
son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
il mio stato mortal, poco mi toglie
la fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo il viver mio sì vile
e sì dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m’avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
sarammi allato, e sarà giunto il fine
della sventura mia; quando la terra
mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
fuggirà l’avvenir; di voi per certo
risovverrammi; e quell’imago ancora
sospirar mi farà, farammi acerbo
l’esser vissuto indarno, e la dolcezza
del dì fatal tempererà d’affanno.

E già nel primo giovanil tumulto
di contenti, d’angosce e di desio,
morte chiamai più volte, e lungamente
mi sedetti colà su la fontana
pensoso di cessar dentro quell’acque
la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
malor, condotto della vita in forse,
piansi la bella giovanezza, e il fiore
de’ miei poveri dì, che sì per tempo
cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso
sul conscio letto, dolorosamente
alla fioca lucerna poetando,
lamentai co’ silenzi e con la notte
il fuggitivo spirto, ed a me stesso
in sul languir cantai funereo canto.

Chi rimembrar vi può senza sospiri,
o primo entrar di giovinezza, o giorni
vezzosi, inenarrabili, allor quando
al rapito mortal primieramente
sorridon le donzelle; a gara intorno
ogni cosa sorride; invidia tace,
non desta ancora ovver benigna; e quasi
(inusitata maraviglia!) il mondo
la destra soccorrevole gli porge,
scusa gli errori suoi, festeggia il novo
suo venir nella vita, ed inchinando
mostra che per signor l’accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo
son dileguati. E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
questa Terra natal: quella finestra,
ond’eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. Ove sei, che più non odo
la tua voce sonar, siccome un giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
il passar per la terra oggi è sortito,
e l’abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
la gioia ti splendea, splendea negli occhi
quel confidente immaginar, quel lume
di gioventù, quando spegneali il fato,
e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
l’antico amor. Se a feste anco talvolta,
se a radunanze io movo, infra me stesso
dico: o Nerina, a radunanze, a feste
tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
van gli amanti recando alle fanciulle,
dico: Nerina mia, per te non torna
primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
dico: Nerina or più non gode; i campi,
l’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
sospiro mio: passasti: e fia compagna
d’ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cor, la rimembranza acerba.

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Le Ricordanze: pagina autografa

Belle stelle dell’Orsa, non avrei mai creduto di tornare a contemplarvi ancora dopo così tanto tempo come facevo una volta mentre brillate nel giardino della casa di mio padre e parlare con voi dalle finestre della casa che fu mia quando ero un adolescente e dove conobbi la fine delle gioie della mia vita. Quante immagini e quante fantasie un tempo mi creavo nei pensieri vedendo voi e le altre stelle vicine nel cielo! Quando seduto sul prato, silenzioso, trascorrevo le mie serata scrutando il cielo e ascoltando il canto della rana lontana nei campi. E la lucciola volava sulle siepi e sulle aiuole mentre i viali profumati e i cipressi lontani nella selva sussurravano al vento; e nella casa paterna risuonavano le voci e il lavoro dei servi. E quali pensieri immensi e dolci sogni mi ispirò guardare il mare lontano, e i monti azzurri che scopro dalla casa e che un giorno sognavo di varcare, credendo di trovare al di là dei mondi misteriosi e immaginando per la mia vita una felicità sconosciuta. Ignaro del mio destino e di quante volte in seguito avrei scambiato questa vita con la morte senza alcun rimpianto dolorosa e priva di gioie. // Nemmeno il cuore mi ha fatto cenno del fatto che sarei stato condannato a consumare la mia giovinezza in questo verde borgo selvaggio in cui sono nato, fra gente ignobile e incivile; per questa gente, la cui voglia di conoscere e di cultura sono parole strane e spesso oggetto di scherno; questa gente che mi odia e mi sfugge non per invidia, poiché non mi ritiene migliore di sé, ma perché pensa che migliore mi ritenga io rispetto a loro, sebbene io non abbia mai dato segno di ciò. Qui passo i miei anni, nascosto e abbandonato, senza vita e senza amore, e tra le persone malevoli divento come non sono mai stato, aspro e scortese: qui mi spoglio di pietà e virtù e disprezzo le persone meschine tra cui vivo; e intanto se ne va il tempo caro della gioventù, più caro della gloria e della fama, più caro della luce pura del giorno e dello stesso vivere: ti perdo senza aver avuto un attimo di gioia, inutilmente, in questo inumano soggiorno, con solo gli affanni come unico fiore nella vita arida. // Viene il vento facendo suonare le campane della torre del borgo. E ricordo che questo suono era per me un conforto quando ero un ragazzino e durante le notti passate nella camera buia vegliavo a causa di incubi e inquietudini incessanti, sospirando perché arrivassero presto il mattino e la luce del giorno. Non c’è nulla qui che, vedendolo o sentendolo,  non faccia riaffiorare alla mia memoria un’immagine dalla quale prende vita un ricordare dolce. Dolce di per sé; però poi con dolore arriva il pensiero del presente e un desiderio vano del passato che mi porta a dire: ho esaurito la mia esistenza. Quella loggia volta ad ovest queste pareti affrescate e i dipinti che raffigurano greggi, e il sole che sorge sulla campagna solitaria mi procurano mille diletti nei momenti di riposo dagli studi quando, dovunque mi trovassi, si trovava vicino a me quella mia capacità di credere nei sogni. In quelle antiche sale, al riflesso della neve, mentre il vento sibilava forte tutt’attorno a queste ampie finestre, risuonarono i giochi e le mie grida felici nel tempo in cui si mostra il duro pieno di dolcezza, l’indegno mistero della vita e della realtà non ancora sperimentata e intatta; e chi è il ragazzo che ancora sogna, come un innamorato inesperto una vita che sarà piena di inganni e che ammira una bellezza celeste vista con gli occhi dell’immaginazione. //  O speranze, speranze, dolci inganni della mia adolescenza! Sempre, parlando, io torno a voi; poiché non so dimenticarvi per quanto trascorra il tempo, per quanto anche gli affetti e i pensieri cambino. Fantasmi, io lo so, sono gloria e onore, il bene e i diletti solo un puro desiderio. E sebbene i miei anni siano vuoti, sebbene oscura e solitaria sia la mia vita mortale, so bene che la fortuna ha ben poco da prendersi da me. Ma, ahimè, ogni volta che vi ripenso, o mie speranze antiche, e che penso al mio fantasticare sul futuro e lo confronto con questa mia vita così inutile e priva di scopo e così dolorosa, che solo la morte mi resta dopo aver sognato grandi speranze sento stringermi il cuore e sento che non mi riesco a rassegnare del tutto al mio destino. E anche quando questa morte che invoco mi raggiungerà e sarà arrivata la fine delle mie sventure; quando per me la terra sarà una valle straniera e dal mio sguardo il futuro fuggirà; mi ricorderò sicuramente di voi, mie speranze, quell’immagine mi farà ancora sospirare, e renderà amaro il mio aver vissuto invano; e l’amarezza del ricordo andrà a guastare perfino il giorno in cui avrò la gioia di cessare di vivere. // E già in adolescenza, in quel primo tumulto di felicità di angosce di desideri, più volte ho invocato la morte e a lungo stetti seduto là, su quella fontana pensando di fermare dentro di me l’acqua di quelle speranze, il dolore di questa mia vita. Poi, ridotto in pericolo di vita da una malattia, rimpiansi la mia bella giovinezza il fiore dei miei giorni così poveri di gioie che così precocemente appassiva; e spesso, la sera tardi, seduto sul letto che, testimone delle mie sofferenze, scrivendo dolorosamente poesie alla luce fioca, piansi col silenzio e la notte come unici compagni, l’energia della vita che mi abbandonava. E proprio nel momento in cui la vita mancava, cantai un canto funebre. //  Chi può mai ricordarvi senza sospiri, o primi momenti della mia giovinezza, giorni pieni di lusinghe indescrivibili, e allorquando al giovane estasiato sorridono le fanciulle; tutto intorno ogni cosa sorride a gara, l’invidia tace e non eccita ancora oppure è innocua; e quasi il mondo porge la mano destra in aiuto, come volesse scusarsi dei suoi errori, festeggiando il nuovo entrare della vita e facendogli omaggio mostra di accettarlo come suo signore e lo chiami? Ma quei giorni sono fugaci e si sono dileguati come un lampo. E quale uomo può dire di non aver conosciuto sventura se ormai è trascorsa la bellezza di quell’età se il suo bel tempo, la sua giovinezza, ahi la giovinezza è oramai finita e spenta? //  O, Nerina! E non sento forse questi luoghi che parlano di te? Sei forse caduta dal mio pensiero? Dove sei fuggita, che qui di te trovo solo le ricordanze, o dolcezza mia? Questa terra mia natale oramai non ti vede più: quella finestra, dalla quale avevi l’abitudine di parlarmi, e dove si riflette mesta la luce delle stelle, è ora deserta. Dove sei, ora che non sento la tua voce che risuona, quando ogni parola che mi arrivava dalle tue labbra da lontano mi faceva impallidire? Altro tempo. Furono i tuoi giorni, amore mio dolce. Passasti. Il passaggio su questo mondo ad altri ora è dato in sorte, l’abitare questi odorati colli. Ma troppo rapida sei passata e la tua vita è stata breve quasi come un sogno. Danzavi, tu, nel cammino della vita. La gioia risplendeva intorno a te, e quel fiducioso immaginare intorno all’avvenire e la luce della giovinezza splendevano nei tuoi occhi, quando il destino li ha poi spenti facendoti morire. Ahi Nerina. Nel mio cuore ancora regno l’amore antico. Quando, a volte, vado a feste o a raduni dico tra me e me: o Nerina, a feste e raduni tu non vai più, e più non ti prepari. Se maggio torna, e gli amanti vanno donando canti e ramoscelli alle fanciulle, dico: per te, Nerina mia, la primavera non tornerà mai più, né tornerà l’amore. Ogni bella giornata, ogni valle in fiore che io guardo, ogni piacere che io sento, mi dico: Nerina ora non ne gode più; i campi e l’aria lei non guarda più. Ahi, tu sei passata, eterno sospiro mio: passasti e il tuo ricordo acerbo sarà mio compagno in ogni dolce immaginare, di tutti i miei teneri sentimenti, di tutti i miei cari e tristi moti del cuore.

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Parco letterario a Recanati

La poesia che sboccia a Pisa, continua a modulare la sua voce nel “natio borgo selvaggio”, come definisce Recanati nel terzo verso della seconda strofa. E’ tra le mura di una casa e di un paese ostile, più forte si fa sentire il sentimento del ricordo, di come quei luoghi li ha vissuti e come ora gli si presentano. E lo fa in un testo che viene definito “della rimembranza”, concetto già definito da lui intrinsecamente poetico.

Il testo è composto da sette strofe di endecasillabi e settenari variamente rimati.

  1. L’incipit con l’evocazione alle stelle rimanda alla poesia del “vago” e dell'”indefinito”, già presente nei piccoli idilli e in A Silvia. A questi viene aggiunto il concetto della “rimembranza” di quegli stessi luoghi vissuti nella fanciullezza, dove il poeta ora è tornato “a contemplarvi  sul paterno giardino”. In questa strofa l’uso verbale tra imperfetto e passato remoto sottolinea questo rapporto tra passato vissuto ed immaginato e il presente, ma viene anche ripetuta l’opposizione tra dentro e fuori, interno esterno, realtà immaginazione già vista sin dall’Infinito: il poeta all’interno della casa osserva il cielo dalle finestre per ragionar con le stelle dell’Orsa. A tutto questo si contrappone la consapevolezza filosofica del vero: da una felicità solo pensata e fantasticata emerge la realtà che era solamente finzione per questa vita dolorosa e nuda che avrebbe cambiato volentieri con la morte;
  2. Contrasto fra poeta e il paese reale, pieno di gente “zotica, vil”. Ora, qui (avverbio posto ad inizio verso, a rimarcare il luogo in cui si sente incarcerato), in questo luogo “abbandonato e occulto” (segregato in casa e isolato) il poeta non può che esacerbare il suo astio, diventando “sprezzator degli uomini”. Ed è proprio qui che ha perduto la sua giovinezza, unico fiore di una vita arida.
  3. Torna il ricordo, dal suonare dell’orologio della torre agli armenti dipinti sulle pareti. L’acerbità del presente e dei luoghi in cui vive, può solo essere attenuata dai ricordi che questi stessi luoghi possono suscitare; ed ecco riaffiorare nella mente del poeta la neve che appare dalle chiuse finestre o il sibilare del vento tra le mura, visioni e rumori accompagnati dalle grida festose di loro bambini (è evidente il riferimento ai giochi infantili tra Giacomo, Carlo e Paolina). La dolcezza infinità di un mondo in cui è possibile fingere una vita “pien di dolcezza” per il “mistero delle cose”.
  4. Almeno la giovinezza si alimenta di speranze, che soltanto la maturità può definirle “ameni (dolci) inganni”. Il rapporto tra il passato e presente qui si fa più intenso e la felicità del ricordo di ciò che è stato non placa il desiderio di una morte che annulli ogni dolore. Anche in quel momento in cui viene spento ogni futuro, nell’attimo stesso dell’abbandono della vita, il poeta sarà travolto dal pensiero della disillusione per l’uomo, dall’infelicità della condizione umana.
  5. La strofa si più cupa, ma sempre letterariamente controllata (si noti il richiamo petrarchesco dal sonetto proemiale – in sul mio primo giovanil errore: nel primo giovanil tumulto). In essa  il poeta ricorda che già allora riemergeva l’idea del suicidio.
  6. Qui, in questa stanza, le immagini si fanno più chiare, leggere: l’idea di una giovinezza accompagnata dal sorriso di fanciulle, da una vita solare che perdona gli errori giovanili, dal nascere. Ma queste immagini non possono che portare alla consapevolezza dell’infelicità della vita, in quanto, diventati adulti,  tali illusioni non sono che vaghi sogni.
  7. Nell’ultima strofa appare Nerina, compagna ideale di Silvia, per alcuni critici, la stessa persona. Qui tuttavia, al contrario della poesia scritta a Pisa, Nerina è cantata in assenza. Il paese vive la sua assenza, non la vede alla finestra, non la sente cantare: lei è la vita che si spegne di cui è rimasto solo il ricordo. 

IL SABATO DEL VILLAGGIO

La donzelletta vien dalla campagna
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e viole,
onde, siccome suole, ornare ella si appresta
dimani, al dí di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dí della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch’ebbe compagni nell’età piú bella.
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giú da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore;
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo riposo. 

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi al chiarir dell’alba.

 Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.

 Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave. 

La fanciulla ritorna dalla campagna al tramonto del giorno, portando un fascio d’erba (per gli animali) e tiene in mano un mazzolino di rose e di viole, delle quali, come è solita,. Si prepara ad ornare l’indomani, giorno di festa, il petto ed i capelli. Intanto sulle scale siede a filare con le vicine una vecchietta, rivolta là dove tramonta il sole, e racconta la sua giovinezza, quando anch’ella si prepara la domenica e ancora giovane e bella era solita andare a ballare con coloro che erano giovani come lei. Ormai inizia a scurire, il cielo torna azzurro e al biancheggiare della luna appena sorta ritornano le ombre giù dai colli e dalle case. Ora la campana dà il segno della festa che sta arrivando; e a quel suono si direbbe che il cuore si consola. I ragazzini, cantando in gruppo sulla piazzola, e saltando di qua e di là fanno un rumore allegro, e intanto il contadino torna alla sua povera casa, fischiettando e tra sé e sé pensa al giorno del riposo. // Poi quando intorno tutti i lumi sono spenti e tutto è silenzio, senti il martello picchiare, senti la sega del falegname che, sveglio nella sua bottega chiusa, alla luce di una lucerna si affretta a finire un lavoro prima della luce dell’alba. // Questo è il giorno più gradito della settimana, pieno di speranza e di gioia: domani le ore porteranno tristezza e noia, e ognuno tornerà al pensiero delle fatiche di tutti i giorni. // Ragazzino scanzonato, questa giovinezza è come un giorno luminoso sereno, che precede la maturità. Godi, ragazzo, della giovinezza; questa è una condizione beata, un’età gioiosa. Non ti pesi che la maturità tardi ancora a venire.

La canzone, composta da 4 strofe di endecasillabi e settenari, variamente rimati, fu composta nel ’29. Il tema centrale in essa è il piacere, riprendendolo da ciò che aveva elaborato in gioventù. Infatti nel ’21 Leopardi, nello Zibaldone, scriveva: Il piacere umano (…) sui può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere. Tale concetto viene qui vivificato in un quadretto recanatese, il giorno di sabato, in cui, appunto, nell’attesa della domenica, si vive nell’aspettativa del riposo; ma la domenica si riempie a sua volta dalla preoccupazione del lavoro del lunedì. Tale concetto si riaffaccia con plasticità nella figura della donzelletta e della vecchierella: esse diventano a loro volta simbolo dell’attesa del futuro e del ricordo, due attimi che negano il presente, per cui la felicità non si dà. L’immagine finale vuole infatti sottolineare il concetto di giovinezza come momento d’aspettativa di maturità, dell’illusione di felicità: ma non può nascondere, verso i giovani vocianti nella piazza quel sentimenti di compassione che umanizza la tragicità della condizione umana.

La condizione tragica della vita di un uomo riappare in uno dei canti più alti di Leopardi: anche qui, come l’Islandese, un isolato dal mondo:

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Antonio Berté: Quadro ispirato dalla canzone leopardiana

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colá dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir della terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
A che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Cosí meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre lá donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrá fors’altri; a me la vita è male.

 O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente; ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so giá dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

 Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.

Che fai nel cielo, luna? Dimmi che fai silenziosa luna? Sorgi di sera e vai sopra i deserti, poi tramonti. Non sei ancora stanca di far lo stesso tragitto in eterno? Ancora non sei stufa, ancora sei desiderosa di contemplare queste valli? La tua vita somiglia a quella di un pastore: si sveglia all’alba, porta il gregge sempre avanti nei campi e vede pecore, sorgenti e prati; poi, stanco, si riposa la sera e non spera nient’altro. Dimmi, luna, quale vantaggio trae il pastore da questa vita e a voi, corpi celesti, la vostra vita? Dimmi, qual è il fine di questa mia breve vita e della tua, invece, eterna? // Un vecchio dai capelli bianchi, infermo, mal vestito e scalzo, porta sulle spalle un carico pesantissimo lungo un percorso di sassi aguzzi, sabie dove si sprofonda, macchie piene di spine, al vento, nella tempesta, nel caldo afoso, nel gelo e corre desideroso, supera torrenti e stagni, cade, si rialza e si affretta sempre più, senza quiete né ristoro, lacero e insanguinato, finché non arriva là dove questo faticoso tragitto lo conduce: un abisso orrendo, immenso, dove egli, precipitando, dimentica tutto. Vergine luna, questa e la tua vita mortale. // L’uomo nasce nel dolore del parto, e la nascita è un momento in cui rischiamo la vita. Dolore e tormento sono per il nato le prime sensazioni e nel momento stesso in cui nasce, il padre e la madre cominciano a consolarlo per il fatto di essere nato; poi, man mano che cresce, padre e madre gli danno aiuto e in continuazione con gesti e parole si preoccupano di fargli coraggio e di consolarlo della situazione che vive da essere umano: non c’è nessun altro compito più prezioso che svolgano i genitori per il proprio figlio. Ma per quale motivo si dà vita, perché si continua a sostenere qualcuno se poi bisogna consolarlo di questa stessa vita? Se la vita è una sventura, perché mai dovremmo continuare a sopportarla e a vivere? Intatta luna, questo è lo stato dell’essere umano. Ma tu non sei mortale, e forse non t’importa nulla di quello che ti dico. // Eppure, tu che te ne stai sola e viaggi in eterno, e sei così pensierosa, tu forse capisci che cosa sono questo nostro vivere terreno, le nostre sofferenze, i nostri sospiri; questo morire, questo pallore del viso nel momento in cui moriamo e spariamo dalla terra, mancando alla consueta, compagnia di uomini che ci hanno voluto bene. E tu forse comprendi il senso profondo di queste cose, del ciclo del tempo e delle leggi dell’universo. Tu sai certamente per amore di che cosa giunga la primavera, sorridente, a chi sia di vantaggio l’estate e a chi l’inverno con il suo gelo. Conosci mille cose e mille ne scopri, mentre queste sono nascoste al semplice pastore. Spesso quando ti contemplo, mentre tu sei muta su questa pianura deserta, che è tanto estesa che all’orizzonte confina con il cielo; o quando ti vedo che mi segui mentre conduco il gregge; e quando vedo in cielo brillare le stelle, dico pensando fra me e me: qual è il senso di tutte queste luci? Che scopo ha l’aria infinita, e quel profondo infinito sereno? E che cosa significa questa immensa solitudine? E io chi sono? Così penso fra me e me: e così allo stesso modo non so indovinare quale utilità e valore vi sia della immensa stanza [dell’universo] e dello sterminato numero di esseri viventi; e poi nemmeno di questo darsi da fare, di questi movimenti di ogni cosa celeste e terrestre, che girano senza posa per tornare sempre là da dove sono partite. Ma tu, giovane immortale, sicuramente conosci il tutto. Io conosco e sento questo, che dei giri eterni [dei corpi celesti], che della mia fragilità, qualche bene o soddisfazione l’avrà forse qualche altro; per me la vita è sofferenza. // O gregge mio che ti riposi, oh te beata, che forse non conosci la tua miseria! Quanto ti invidio! Non solo perché vivi quasi libero da ogni sofferenza; perché ogni fatica, ogni dolore, ogni paura anche mortale dimentichi subito; ma soprattutto perché non conosci la noia. Quando tu giaci all’ombra [degli alberi], sull’erba, tu sei sereno e contento; e la maggior parte dell’anno conduci senza noia in quello stato. Anch’io siedo sopra l’erba, all’ombra [degli alberi] eppure una pena mi occupa la mente, e quasi mi dà fastidio come fosse un assillo, a tal punto che pur seduto sono più lontano che mai dal trovar pace o dal trovar un luogo tranquillo. Eppure non desidero nulla, e non ho finora nessuna ragione di dolore. Non so dire la qualità e la quantità del tuo godimento; ma sei fortunata. E anch’io come te godo poco, o mio gregge, ma non mi lamento solo di questo. Se tu sapessi parlare ti chiederei: dimmi, perché ogni animale è appagato quando giace in piena comodità e nell’ozio; mentre se io mi riposo il tedio mi assale? // Forse se avessi le ali e potessi volare tra le nuvole come un uccello, e potessi contare le stelle ad una ad una, o se fossi come il tuono che può passare da cima a cima, sarei più felice, mio dolce gregge, sarei più felice, mia candida luna. O forse il mio pensiero, osservando il destino degli altri esseri viventi, si allontana dalla verità: forse il giorno della nascita è dannoso a chi viene alla vita in qualsiasi forma e in qualsiasi stato esso sia, dentro una tana o dentro una culla.

E’ questa l’ultima canzone del periodo pisano-recanatese, terminata nel ’30. La suggestione per il tema gliel’aveva data un articolo sul Journal des savants (Giornale dei sapienti) del ’26 in cui si recensiva un libro di viaggi. L’autore descriveva la vita dei pastori kirghisi e riportava il fatto che essi, durante il lavoro della pastorizia, seduti soli in terra, cantassero canzoni tristi e malinconiche. Leopardi prende le mosse da tale suggestione e immagina un dialogo con la luna (ormai divenuto topico del suo linguaggio poetico), in cui ripropone il suo interrogativo sul destino della vita dell’uomo.

Tale canto è stato, strofe per strofe, ben riassunto dal critico letterario Contini:

  1. Domande alla luna (…) circa il significato della sua vita, ciclica come la vita vana del pastore;
  2. Metafora negativa, esalata senza pause, sulla vita dell’uomo;
  3. Tristezza della nascita per l’uomo;
  4. Domande alla luna circa il senso della vita, che per il pastore è male;
  5. Invidia il gregge, sprovvisto del taedium vitae;
  6. Sospetto che il volo darebbe la felicità al pastore; ma il sospetto che il male di vivere sia universale.

In questo canto il poeta sembra riprenda elementi tipici della sua produzione precedente: si pensi a come il pastore/Leopardi si trovi qui avvolto in un infinito spaziale estremamente indefinito e vago. Se questo, tuttavia, può creare ancora una volta la parola poetica, non può più illuderlo sulla possibile felicità. A testimoniarlo è un altro richiamo identificativo natura/luna, che nel suo silenzio può forse solo sottolineare l’indifferenza per la vita del pastore.

La dolcezza del dettato, ottenuta soprattutto attraverso la cantabilità del testo (si pensi alla terminazione in –ale di ogni strofa) non nasconde l’allargamento di riflessione leopardiana che descrive il corso della vita umana dalla nascita alla morte, corso nel quale, come già detto altrove, non vi è felicità. Ma qui sembra maggiormente sottolinearlo perché nega a se stesso e quindi anche all’uomo la ricordanza e quindi la compassione verso i suoi simili ed inoltre abbraccia la totalità del creato, in un senza senso senza Dio, che apre a nuove prospettive poetiche che prenderanno forma in un diverso e strabiliante poetare.

Periodo fiorentino 1830 – 1833

Grazie all’interessamento di Pietro Colletta (intellettuale napoletano, in quel periodo, per motivi politici a Firenze, dove collabora all’Antologia) Leopardi lascia definitivamente Recanati e si sposta nella città toscana dove, per la prima volta, si può dire, conducesse un intenso e felice rapporto con la vita. A tale cambiamento corrisposero due fattori fondamentali: l’amicizia con Antonio Ranieri (giovane ed esuberante intellettuale napoletano che seppe donargli un affetto fraterno e un appoggio pratico nei momenti di difficoltà) e l’amore per Fanny Fargioni Tozzetti, signora fiorentina usa a frequentare salotti letterari.

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Fanny Targioni Tozzetti

In questo clima Leopardi s’inserisce in un dibattito culturale più ampio: pensa di pubblicare, insieme all’amico napoletano con l’intervento del finanziatore Freppa una rivista Lo spettatore fiorentino (che non vedrà mai la luce, per l’intervento della censura), pubblica l’edizione dei Canti, contenenti le liriche scritte fine al ’31. Aggiunge con Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e con il Dialogo di Tristano ed un amico altre due prose alle Operette morali.

DIALOGO DI UN VENDITORE D’ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE

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Almanacco del 1832

VENDITORE: Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
PASSEGGERE: Almanacchi per l’anno nuovo?
VENDITORE:Si signore.
PASSEGGERE: Credete che sarà felice quest’anno nuovo? 
VENDITORE: Oh illustrissimo si, certo.
PASSEGGERE: Come quest’anno passato?
VENDITORE: Più più assai.
PASSEGGERE: Come quello di là?
VENDITORE: Più più, illustrissimo.
PASSEGGERE: Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
VENDITORE: Signor no, non mi piacerebbe.
PASSEGGERE: Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?
VENDITORE: Saranno vent’anni, illustrissimo.
PASSEGGERE: A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?
VENDITORE: Io? non saprei.
PASSEGGERE: Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
VENDITORE: No in verità, illustrissimo.
PASSEGGERE: E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
VENDITORE: Cotesto si sa.
PASSEGGERE: Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste? 
VENDITORE: Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
PASSEGGERE: Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
VENDITORE: Cotesto non vorrei.
PASSEGGERE: Oh che altra vita vorreste rifare? La vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
VENDITORE: Lo credo cotesto.
PASSEGGERE: Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
VENDITORE: Signor no davvero, non tornerei.
PASSEGGERE: Oh che vita vorreste voi dunque?
VENDITORE: Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
PASSEGGERE: Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
VENDITORE: Appunto.
PASSEGGERE: Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
VENDITORE: Speriamo.
PASSEGGERE: Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.
VENDITORE: Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
PASSEGGERE: Ecco trenta soldi.
VENDITORE: Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

Questa breve operetta ha un andamento circolare, per meglio dire inizia nello stesso modo con cui finisce, quasi a sottolineare la circolarità e non il “progresso” di cui si vanta il liberalismo cattolico. Di fronte alla materia, che, pur non prendendo di petto la natura in modo diretto, non ne rifiuta la sostanza (la vita è dolore) è tuttavia mostrata in un rapporto in cui i due interlocutori, in cui si potrebbe leggere da una parte Leopardi stesso, (il passeggere), dall’altra un persona umile, non sono differenti l’uni all’altro ma si corrispondono nella “verità” del loro destino.

DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO

AMICO: Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
TRISTANO: Sì, al mio solito.
AMICO: Malinconico, sconsolato, disperato: si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.
TRISTANO: Che v’ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
AMICO: Infelice sì forse. Ma pure alla fine…
TRISTANO: No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n’era tanto persuaso, che tutt’altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch’io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d’ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell’utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero è tutt’altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l’una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d’animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l’arme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d’ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo. Io per me, come l’Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino. Parlo sempre degl’inganni non dell’immaginazione, ma dell’intelletto. Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano. Io diceva queste cose fra me, quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d’invenzione mia; vedendola così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare. E anche mi ricordai che da quei tempi insino a ieri o all’altr’ieri, tutti i poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi e piccoli, in un modo o in un altro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine. Sicché tornai di nuovo a maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo sdegno e il riso passai molto tempo: finché studiando più profondamente questa materia, conobbi che l’infelicità dell’uomo era uno degli errori inveterati dell’intelletto, e che la falsità di questa opinione, e la felicità della vita, era una delle grandi scoperte del secolo decimonono. Allora m’acquetai, e confesso ch’io aveva il torto a credere quello ch’io credeva.
AMICO: E avete cambiata opinione?
TRISTANO: Sicuro. Volete voi ch’io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono?
AMICO: E credete voi tutto quello che crede il secolo?
TRISTANO: Certamente. Oh che maraviglia?
AMICO: Credete dunque alla perfettibilità indefinita dell’uomo?
TRISTANO: Senza dubbio.
AMICO: Credete che in fatti la specie umana vada ogni giorno migliorando?
TRISTANO: Sì certo. È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l’uomo; perché (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui. E però anticamente la debolezza del corpo fu ignominiosa, anche nei secoli più civili. Ma tra noi già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito. E dato che si potesse rimediare in ciò all’educazione, non si potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L’effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini, e che gli antichi a confronto nostro si può dire più che mai che furono uomini. Parlo così degl’individui paragonati agl’individui, come delle masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna) paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono incomparabilmente più virili di noi anche ne’ sistemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo costantemente che la specie umana vada sempre acquistando.
AMICO: Credete ancora, già s’intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente.
TRISTANO: Certissimo. Sebbene vedo che quanto cresce la volontà d’imparare, tanto scema quella di studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri dotti, che vivevano contemporaneamente cencinquant’anni addietro, e anche più tardi, e vedere quanto fosse smisuratamente maggiore di quello dell’età presente. Né mi dicano che i dotti sono pochi perché in generale le cognizioni non sono più accumulate in alcuni individui, ma divise fra molti; e che la copia di questi compensa la rarità di quelli. Le cognizioni non sono come le ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti sanno poco, e’ si sa poco; perché la scienza va dietro alla scienza, e non si sparpaglia. L’istruzione superficiale può essere, non propriamente divisa fra molti, ma comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se non a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e fornito esso individualmente di un immenso capitale di cognizioni, è atto ad accrescere solidamente e condurre innanzi il sapere umano. Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi uomini dottissimi divenga ogni giorno meno possibile? Io fo queste riflessioni così per discorrere, e per filosofare un poco, o forse sofisticare; non ch’io non sia persuaso di ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi il mondo tutto pieno d’ignoranti impostori da un lato, e d’ignoranti presuntuosi dall’altro, nondimeno crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano di continuo.
AMICO: In conseguenza, credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati.
TRISTANO: Sicuro. Così hanno creduto di sé tutti i secoli, anche i più barbari; e così crede il mio secolo, ed io con lui. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò che appartiene al corpo o in ciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose dette dianzi.
AMICO: In somma, per ridurre il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di politica) quello che ne pensano i giornali?
TRISTANO: Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de’ giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell’età presente. Non è vero?
AMICO: Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete diventato de’ nostri.
TRISTANO: Sì certamente, de’ vostri.
AMICO: Oh dunque, che farete del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei sentimenti così contrari alle opinioni che ora avete?
TRISTANO: Ai posteri? Io rido, perché voi scherzate; e se fosse possibile che non ischerzaste, più riderei. Non dirò a riguardo mio, ma a riguardo d’individui o di cose individuali del secolo decimonono, intendete bene che non v’è timore di posteri, i quali ne sapranno tanto, quanto ne seppero gli antenati. Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d’individui, desidero e spero che me lo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. Ma per tornare al proposito del libro e de’ posteri, i libri specialmente, che ora per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli, vedete bene che, siccome costano quel che vagliono, così durano a proporzione di quel che costano. Io per me credo che il secolo venturo farà un bellissimo frego sopra l’immensa bibliografia del secolo decimonono; ovvero dirà: io ho biblioteche intere di libri che sono costati quali venti, quali trenta anni di fatiche, e quali meno, ma tutti grandissimo lavoro. Leggiamo questi prima, perché la verisimiglianza è che da loro si cavi maggior costrutto; e quando di questa sorta non avrò più che leggere, allora metterò mano ai libri improvvisati. Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto senza altre fatiche preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l’indole del tempo presente e futuro, assolvano essi e loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo di maneggi e di faccende, che anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che consista in parte la differenza ch’è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in questo la nullità. Onde è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali, nell’immensa moltitudine de’ concorrenti, non è più possibile di aprirsi una via. E così, mentre tutti gl’infimi si credono illustri, l’oscurità e la nullità dell’esito diviene il fato comune e degl’infimi e de’ sommi. Ma viva la statistica! vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri sessantasei anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni.
AMICO: Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all’ultimo ricordarvi che questo è un secolo di transizione.
TRISTANO: Oh che conchiudete voi da cotesto? Tutti i secoli, più o meno, sono stati e saranno di transizione, perché la società umana non istà mai ferma, né mai verrà secolo nel quale ella abbia stato che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o non iscusa punto il secolo decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare, andando la società per la via che oggi si tiene, a che si debba riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al peggio. Forse volete dirmi che la presente è transizione per eccellenza, cioè un passaggio rapido da uno stato della civiltà ad un altro diversissimo dal precedente. In tal caso chiedo licenza di ridere di cotesto passaggio rapido, e rispondo che tutte le transizioni conviene che sieno fatte adagio; perché se si fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo si torna indietro, per poi rifarle a grado a grado. Così è accaduto sempre. La ragione è, che la natura non va a salti, e che forzando la natura, non si fanno effetti che durino, Ovvero, per dir meglio, quelle tali transizioni precipitose sono transizioni apparenti, ma non reali.
AMICO: Vi prego, non fate di cotesti discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete molti nemici.
TRISTANO: Poco importa. Oramai né nimici né amici mi faranno gran male.
AMICO: O più probabilmente sarete disprezzato, come poco intendente della filosofia moderna, e poco curante del progresso della civiltà e dei lumi. Tristano: Mi dispiace molto, ma che s’ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.
TRISTANO: Mi dispiace molto, ma che s’ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.
AMICO: Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che s’ha egli a fare di questo libro?
TRISTANO: Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario.
AMICO: Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare.
TRISTANO: Verissimo. E di più vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismentirà le mie parole; perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l’ora ch’io dico non sia lontana. Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere, così morto come sono spiritualmente, così conchiusa in me da ogni parte la favola della vita, durare ancora quaranta o cinquant’anni, quanti mi sono minacciati dalla natura. Al solo pensiero di questa cosa io rabbrividisco. Ma come ci avviene di tutti quei mali che vincono, per così dire, la forza immaginativa, così questo mi pare un sogno e un’illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se qualcuno mi parla di un avvenire lontano come di cosa che mi appartenga, non posso tenermi dal sorridere fra me stesso: tanta confidenza ho che la via che mi resta a compiere non sia lunga. E questo, posso dire, è il solo pensiero che mi sostiene. Libri e studi, che spesso mi maraviglio d’aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di gloria e d’immortalità, sono cose delle quali è anche passato il tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di questo secolo non rido: desidero loro con tutta l’anima ogni miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente il buon volere: ma non invidio però i posteri, né quelli che hanno ancora a vivere lungamente. In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d’esser vissuto invano, mi turbano più, come solevano. Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo. Questo è il solo benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall’altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.

L’operetta, scritta nel ’32 e che appare anche l’ultima nell’edizione definitiva dell’opera, è una risposta all’accoglienza che le Operette morali del ’27 avevano ricevuto e che reputavano la meditazione filosofica leopardiana come frutto della sua deformità fisica. Ciò determina una reazione il Leopardi che si risolve in sarcasmo e riso e quindi in un atteggiamento maggiormente distaccato. Si veda l’esempio con cui descrive il rifiuto della società contemporanea alla sua speculazione: mariti cornuti che fingono di non esserlo per non sentirsi tali (esempio irridente e popolaresco).

Egli rovescia il discorso: vile è colui che crede che il progresso o la religione possano risolvere il problema dell’infelicità umana, coraggioso è colui che, senza finzioni consolatorie riesce a guardare in faccia la realtà. Non è un problema di dolore personale, quindi, ma dell’intera umanità. Egli non scrive pertanto spinto da un sentimento individuale e prova ne è la cultura stessa: anche la Bibbia descrive l’infelicità dell’uomo, così come la cultura classica greca o latina.

Possiamo sintetizzare il testo attraverso  5 questioni questioni/domande:

  1. La vita umana è infelice?
  2. L’umanità è sempre più perfetta
  3. Il sapere e la cultura progrediscono
  4. Quest’epoca è superiore a quelle passate
  5. Che cosa si fa delle “operette morali”, opera negatrice il progresso dell’umanità

a cui Tristano/Leopardi, fingendo di ritrattare risponde:

  1. Il sapere contemporaneo non accetta l’infelicità dell’uomo che tuttavia non è espressa da Leopardi ma da moltissima letteratura classica e teologica. Lo strano si è che se si riporta l’ideologia di Teognide o di Lucrezio, o addirittura passi biblici non si ha nulla da dire; se lo si pubblica in un libro contemporaneo lo si reputa “non vero” e controproducente il progresso storico “inevitabile”;
  2. L’umanità si dice che oggi sia più perfetta, ma si è abbandonata la cultura che faceva tutt’uno tra cultura del corpo e cultura della mente. Molto probabilmente l’educazione classica, rafforzando il corpo, perché è da un corpo sano che nascono le sensazioni, era certamente migliore rispetto alla moderna, in cui si predilige lo “spirito”;
  3. Alla diffusione culturale non corrisponde una elevatezza culturale. Al contrario affinché più gente conosca più la cultura si abbassa, deprimendo così e riducendo il grado d’intellettualità dei pochi, che si ottiene selezionando il processo conoscitivo;
  4. Tutte le epoche si sono credute superiori a quelle che le avevano precedute; non esiste epoca superiore all’altra; ma se proprio dovessimo riferirci a quella del secolo decimonono, essa non lo è affatto in quanto delega il sapere nei giornali, creando una falsa cultura di massa, nuova parola con cui s’intende un’unione di individui quindi, per Leopardi contraddizione (massa/ individuo)
  5. Riguardo le “Operette morali” possono essere anche bruciate, ma ciò non permetterà all’autore di cambiare opinione

La posizione con cui l’amico tenta di “giustificare” il suo secolo viene smontata in modo reciso da Leopardi: immaginare la felicità futura e non possederla perché la si sta costruendo, quindi il secolo attuale sarebbe quasi un ponte, è ridicola. Tutti i tempi sono stati aspettative di tempi futuri, non esiste età definitiva. Anzi questo secolo è forse il peggiore, perché creando illusioni nega la verità della naturale infelicità.

Ai tempi del pessimismo storico, Leopardi aveva creduto che l’infelicità fosse conseguenza della consapevolezza razionale del vero; ma ora sa che è una condizione ontologica dell’intero universo. Dunque, neppure gli sciocchi possono sottrarvisi. Per questo motivo, nei confronti dei propri simili prova un sentimento di profonda e dolente pietà.

Ciclo d’Aspasia (1833 – 1835)

L’amore per la nobildonna Fanny Targioni Tozzetti è fortemente sentito dall’inesperto Leopardi; è talmente vivo in lui da dettargli altre parole per la sua poesia. Consalvo, la prima, con il nome del protagonista di un poema epico cavalleresco del ‘600, in cui dichiara che sarebbe andato fino all’inferno, pur di ricevere un suo bacio; Il pensiero dominante, in cui si sente pienamente investito da questo nuovo dio; Amore e morte, in cui riprendendo il mito greco di Eros e Thanatos, il poeta agognerebbe la morte, pur di non soffrire. Ma il capolavoro di questo ciclo avviene quando si rende conto che il sentimento provato per Fanny è pura illusione: la rabbia provata per questa estrema delusione si traduce in un piccolo canto in cui versifica con nuovissimi accenti:

A SE STESSO

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, nè di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.

Ora, o mio cuore stanco, riposerai per sempre. E’ finita l’ultima illusione che avevo creduto eterna. E’ svanita. Sento profondamente che in noi non solo la speranza ma anche il desiderio delle gradite illusioni è spento. Riposa per sempre. Troppo hai sofferto. Non c’è nessuna cosa che valga i tuoi palpiti, né il mondo è degno dei (tuoi) sospiri. La vita non è altro che amarezza e noia; e spregevole è il mondo. Calmati ormai. Rinuncia definitivamente ad ogni speranza. Agli uomini il destino donò solo la morte. Ormai (o mio cuore) disprezza te stesso, la natura, il potere perverso che domina occultamente a danno di tutto e l’infinita vanità dell’universo.

Leopardi c’aveva creduto: l’amore poteva superare il nichilismo con cui aveva definito l’esistenza: null’altro, solo lui. La caduta dell’illusione non può che provocare un verso rabbioso, franto, “antidillico”, dove la cruda parola viene spezzata in continui enjambement, ma dove, pur sapientemente occultandola, continua ad esercitare un incredibile controllo tecnico: tre strofe uguali, un settenario, due endecasillabi, un settenario ed un endecasillabo, a cui si aggiunge il verso finale (endecasillabo).

Chiude la raccolta la lirica Aspasia, con il nome della concubina di Pericle, in cui il poeta, rifugiandosi nel ricordo di Fanny, cerca di sbollire “la rabbia” ed ammette la sua sconfitta.

A Napoli (1833-1837)

Nel 1833 Leopardi, insieme all’amico Antonio Ranieri, si trasferisce a Napoli. Qui, sempre più ammalato, elabora alcune opere, quali I Paralipòmeni della Batracomiomachia (riprendendo un testo omerico già tradotto in gioventù) in cui satireggia la situazione politica italiana (disegna gli italiani come topi, gli austriaci come granchi i Borboni come rane) e la Palinodia a Gino Capponi con il quale polemizza sul liberalismo. Contiene, inoltre, due lunghi canti, Il tramonto della luna, ma soprattutto l’ultimo, che costituisce la summa del pensiero leopardiano e, se così possiamo dire, il suo testamento letterario:

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Pierre Henri de Valenciennes, Eruzione del Vesuvio sotto i tempi di Tito (1813)

LA GINESTRA

Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον
τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre
che la luce.
Giovanni, III, 19.

Qui su l’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante
e d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell’impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s’annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fûr liete ville e cólti,
e biondeggiâr di spiche, e risonâro
di muggito d’armenti;
fûr giardini e palagi,
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fûr cittá famose,
che coi torrenti suoi l’altèro monte
dall’ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
ove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrá dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
«Le magnifiche sorti e progressive».

Qui mira e qui ti specchia,

secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e vòlti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch’a ludibrio talora
t’abbian fra sé. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto;
bench’io sappia che obblio
preme chi troppo all’etá propria increbbe.
Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertá vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltá, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Cosí ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci die’. Per queste il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe’ palese; e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell’alma generoso ed alto,
non chiama sé né stima
ricco d’òr né gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma sé di forza e di tesor mendíco
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
non credo io giá, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice: “A goder son fatto,”
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nòve
felicitá, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest’orbe, promettendo in terra
a popoli che un’onda
di mar commosso, un fiato
d’aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sí, ch’avanza
a gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
ch’a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor piú gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dá la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccom’è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell’uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede cosí, qual fôra in campo
cinto d’oste contraria, in sul piú vivo
incalzar degli assalti,
gl’inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
Cosí fatti pensieri
quando fien, come fûr, palesi al volgo;
e quell’orror che primo
contra l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper; l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probitá del volgo
cosí star suole in piede
quale star può quel c’ha in error la sede.

 Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa,
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch’a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo, ove l’uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor piú senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o cosí paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiú, di cui fa segno
il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto; e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente; e che, i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente etá, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietá prevale.

 Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
cui lá nel tardo autunno
maturitá senz’altra forza atterra,
d’un popol di formiche i dolci alberghi
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l’opre,
e le ricchezze ch’adunate a prova
con lungo affaticar l’assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; cosí d’alto piombando,
dall’utero tonante
scagliata al ciel profondo,
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli,
o pel montano fianco
furiosa tra l’erba
di liquefatti massi
e di metalli e d’infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar lá su l’estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e cittá nove
sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
dell’uom piú stima o cura
ch’alla formica: e se piú rara in quello
che nell’altra è la strage,
non avvien ciò d’altronde
fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

 Ben mille ed ottocento
anni varcâr poi che sparîro, oppressi
dall’ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta piú mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
dell’ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando piú volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall’inesausto grembo
sull’arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l’acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontan l’usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente,
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
dopo l’antica obblivion, l’estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietá rende all’aperto;
e dal deserto fòro
diritto infra le file
de’ mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per vòti palagi atra s’aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l’ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Cosí, dell’uomo ignara e dell’etadi
ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sí lungo cammino
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l’uom d’eternitá s’arroga il vanto.

 E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
giá noto, stenderá l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver’ le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma piú saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.

JPG.jpegUn acquerello del XIX secolo con Villa Ferrigni presso Torre del Greco, dove Giacomo Leopardi compose La Ginestra.

Qui sulle aride pendici del terribile vulcano distruttore, il Vesuvio, che non sono rallegrate da nessun albero né fiore, tu spargi i tuoi rami solitari, o profumata ginestra, felice di trovarti nei deserti. Ti ho già vista abbellire con i tuoi steli le campagne disabitate che circondano la città (Roma) che un tempo fu dominatrice degli esseri umani, e sembra che questi luoghi col loro aspetto cupo e silenzioso testimonino e ricordino a chi passa il grande impero perduto. Ti rivedo ora su questo suolo, tu che sei amante di luoghi tristi e abbandonati dal mondo, e sempre compagna di grandezze decadute. Questi terreni, cosparsi di ceneri sterili, e ricoperti dalla lava solidificata, che risuona sotto i passi del viandante; dove si annida e si contorce sotto al sole il serpente, e dove il coniglio torna all’abituale tana tra le caverne; furono città ricche e campi coltivati, biondeggiarono di campi di grano, e risuonarono di muggiti delle mandrie; furono giardini e ville sontuose, un gradito rifugio per l’ozio dei potenti; e furono città famose che il vulcano indomabile, eruttando dalla bocca di fuoco torrenti di lava distrusse insieme con i loro abitanti. Ora qui intorno la rovina avvolge tutto, là dove tu hai radici, o fiore gentile e, quasi compiangendo le miserie altrui, verso il cielo emani un profumo assai dolce, che allieta il paesaggio desertico. A questi luoghi deserti si rechi chi è solito esaltare ed elogiare la nostra umana condizione, e veda quanto la natura benigna si preoccupa dell’uomo. E in maniera opportuna potrà anche valutare la potenza del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se l’aspetta, con una scossa impercettibile distrugge in parte in un solo momento, è può con moti poco meno lievi all’improvviso annientare del tutto. // Qui guardati e ammira la tua immagine riflessa, secolo superbo e stolto, che hai abbandonato la strada segnata sin qui dal pensiero rinascimentale, e tornato sui tuoi passi, ti vanti del tuo procedere all’indietro, e lo chiami addirittura progresso. Tutti gli ingegni, di cui una sorte malvagia ti ha reso padre, sono intenti ad adulare il tuo atteggiamento infantile, benché a volte, tra di loro, si facciano beffe di te. Io non verrò sotterrato macchiandomi di una simile vergogna; ma piuttosto avrò mostrato chiaramente il disprezzo nei tuoi confronti che è rinchiuso nel mio cuore: benché io sappia che all’oblio è destinato chi troppo ha biasimato il proprio tempo. Di questo male, che sarà in comune tra me e te, finora ne rido molto. Vai sognando la libertà, e nel frattempo vuoi che il pensiero sia di nuovo servo, (quel pensiero) in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie, e per cui solo si può crescere in civilizzazione, che da sola guida i destini dei popoli verso il meglio. Perciò ti ha infastidito la verità sulla sorte amara e sul mondo infelice che la natura ci ha assegnato. Per questo motivo, vigliaccamente hai voltato le spalle al pensiero che ci ha mostrato queste cose: e, mentre fuggi, chiami vile chi segue quella via, e definisci magnanimo solo chi, astuto o stolto, illudendo sé stesso o gli altri, esalta fin sopra le stelle la condizione umana. // Un uomo di umile condizione e salute cagionevole, che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti, non definisce né reputa se stesso ricco di beni o di vigore fisico, e non ostenta ridicolmente tra la gente la sua vita lussuosa o il suo bell’aspetto; ma senza vergogna si mostra privo di forza fisica e di beni materiali, e chiama apertamente le cose col loro nome, e stima le sue cose in modo aderente alla verità. Non penso che sia un essere magnanimo, ma sciocco chi, nato per morire, nutrito di sofferenze, afferma: “Sono stato creato per essere felice”, e di nauseante orgoglio riempie i suoi scritti, promettendo in terra, a quei popoli che un’onda di un mare tempesta, una pestilenza, un terremoto possono distruggere in modo che ne sopravviva a stento il ricordo, un destino esaltante e straordinarie felicità, che il cielo stesso ignora. Nobile spirito è quello che ha il coraggio di sollevare i propri occhi mortali contro il destino comune, e che con parole oneste, senza nulla togliere alla verità, confessa il male che ci è stato assegnato, e la nostra insignificante e fragile condizione; quello che si mostra coraggioso e forte nella sofferenza, e che non aggiunge alle sue sciagure né gli odi né le ire fraterne, più gravi ancora di ogni altro danno, dando la responsabilità all’uomo del suo dolore, ma dà la colpa a colei che è davvero responsabile (la natura), che per gli uomini è madre perché li ha generati e matrigna per come li tratta. Chiama nemica costei (la natura); e pensando di essere, com’è vero, unita e schierata contro di lei, la società umana ritiene che tutti gli uomini siano alleati tra loro e tutti li stringe in un abbraccio con vera partecipazione, offrendo ed aspettando un valido e rapido aiuto nelle alterne difficoltà e nelle sofferenze della comune lotta. E crede che sia cosa stolta armarsi e porre insidie per contrastare un proprio simile, così come sarebbe stupido, in un campo di battaglia circondato dai nemici, nel momento più feroce dell’assalto, dimenticando i nemici, aprire aspre ostilità contro i propri compagni e disseminare la fuga o tirare colpi di spada tra i propri guerrieri. Quando considerazioni di questo tipo saranno, come lo sono state in passato, evidenti al popolo; e quel terrore che per primo unì gli uomini contro la natura malvagia in una catena di solidarietà, sarà ricondotto in parte a una vera sapienza, allora l’onestà e la rettitudine degli esseri umani e la giustizia e la pietà, avranno un’altra radice che non l’ottusa fiducia, sulle cui fondamenta la mentalità del popolo è solita star in equilibrio come può stare chi ha il proprio fondamento nell’errore. // Spesso siedo nottetempo su questi luoghi, che, deserti, la lava solidificata, e sembra muoversi ancora, ricopre di un colore marrone scuro; e sul triste paesaggio, sotto un cielo terso e pulitissimo vedo risplendere le stelle nel cielo, alle quali il mare, da lontano, fa da specchio, e tutto il mondo brilla di scintille per l’universo sereno. E fissando con gli occhi quelle luci, che a loro paiono solo dei puntini, e invece sono talmente grandi, che in realtà terra e mare sono solo un punto al loro cospetto; alle quali non solo l’uomo, ma questa stessa Terra dove l’uomo vale nulla, è del tutto sconosciuto; e quando ammiro quelle lontane e infinite costellazioni di stelle, che ci sembrano come una nebbia, alle quali non l’uomo, non la terra soltanto, ma tutte insieme le nostre stelle, infinite per numero e per mole, insieme col sole dorato o sono sconosciute o appaiono come loro sembrano alla Terra, e cioè un punto di luce fioca; allora come appari al mio pensiero, o stirpe umana? E ricordando il tuo stato sulla terra, di cui è testimonianza il suolo vulcanico che io calpesto; e d’altra parte (ricordando) che ti reputi padrona e fine ultimo dell’universo; e (ricordando) quante volte ti è piaciuto fantasticare su come i creatori (gli dei) del mondo siano scesi su questo oscuro granello di sabbia, che ha nome Terra, per causa tua, e su come spesso abbiano conversato piacevolmente con i tuoi simili; e (ricordando) che perfino la presente età, che per conoscenza e costume civile sembra essere così superiore alle età precedenti, insulta i saggi, raccontando di nuovo sogni già derisi in passato; che sentimento o che pensiero, o umanità infelice, assale alla fine il mio cuore nei tuoi confronti? Non so se prevale il riso o la pietà. // Come un piccolo frutto cadendo dall’albero, che nell’autunno inoltrato la maturazione fa precipitare a terra senza altra forza, schiaccia, annienta e sommerge in un attimo gli accoglienti nidi di un popolo di formiche, scavati nel terreno molle con gran lavoro, e le gallerie e le riserve di cibo che con lunga fatica le infaticabili formiche in gara tra loro hanno raccolto con previdenza nella stagione estiva; così, piombando dall’alto, dalle viscere rumorose del vulcano scagliate in alto verso il cielo, le tenebre fatte di cenere, pomice e sasso, mescolate ai bollenti ruscelli, oppure un’immensa piena di massi liquefatti di metalli e di sabbia infuocata, che scende furiosa tra l’erba, lungo il fianco del monte sconvolse, distrusse e ricoprì in pochi attimi le città che il mare bagnava sulla costa: così ora su quelle città pascola la capra, e nuove città sorgono all’esterno della colata, a cui fanno da sgabello le città sepolte, e l’alto monte quasi calpesta col suo piede le mura crollate. La natura non nutre per il genere umano maggiore stima o cura che per la formica: e se la strage avviene più raramente tra quelli (gli uomini) che tra queste (le formiche), ciò avviene d’altra solo perché la stirpe degli uomini è meno feconda. // Sono passati ben mille e ottocento anni da quando scomparirono, sepolti dalla forza della lava infuocata, le affollate città e il contadino intento a lavorare nei vigneti, che la terra arida e bruciata, nutre a fatica in questi campi, alza tuttora lo sguardo sospettoso verso la cima del vulcano portatore di morte, che per nulla resa più mite, ancora lo sovrasta tremenda, ancora minaccia una strage a lui (il contadino), ai suoi figli e ai loro miseri averi. E spesso il poverello sul tetto della sua rustica casa, trascorrendo insonne tutta la notte all’aperto, e sobbalzando più volte (per la paura), osserva ansioso il procedere del temuto ribollire, che cola dalle inesauribili viscere sul pendio sabbioso, al cui bagliore risplende la marina di Capri e il porto di Napoli e il quartiere Mergellina. E se lo vede avvicinarsi, o se sente per caso gorgogliare in fermento nel profondo del pozzo di casa, sveglia i figli, sveglia la moglie in fretta, e subito va via, con quanto delle loro cose possono prendere e, fuggendo, vede da lontano la quotidiana abitazione, e il modesto campo, che costituì per lui l’unica difesa alla fame, preda della colata incandescente che avanza con mille crepitii, e inesorabile si stende per sempre sopra quelli (campo e casa). Alla luce del sole torna, dopo un oblio secolare, l’estinta Pompei, come uno scheletro sepolto, che dalla terra viene all’aperto per desiderio di ricchezza o pietà; e dal foro deserto dritto in mezzo alle fila dei colonnati diroccati il pellegrino contempla da lontano la doppia cima (il Vesuvio e il monte Somma) e il pennacchio di fumo, che ancora minaccia le rovine sparse (di Pompei). E nell’orrore della notte oscura per i teatri abbandonati, per i templi crollati e le case devastate, dove il pipistrello nasconde i propri figli, come una fiaccola misteriosa che si aggiri lugubre tra i palazzi vuoti, corre il bagliore della lava assassina, che da lontano in mezzo all’ombra rosseggia e colora i luoghi tutt’intorno. Così, del tutto indifferente all’uomo e alle ere che egli chiama antiche, e del susseguirsi delle generazioni umane, la natura rimane sempre giovane e vigorosa, ed anzi procede per un cammino così lungo che ella pare immobile. Nel frattempo, crollano i governi, passano le genti e le culture: ella non se ne accorge: e l’uomo pretende il diritto all’eternità. // E tu, flessibile ginestra, che con i tuoi cespugli odorosi adorni queste campagne desertificate, anche tu presto soccomberai alla potenza crudele della lava in eruzione, che ritornando ai luoghi già colpiti, stenderà sui tuoi molli rami il suo mantello avido di morte. E piegherai sotto la colata mortale senza opporre resistenza il tuo capo innocente: ma senza averlo piegato fino a quel momento, con suppliche inutili e codarde al futuro oppressore; e senza averlo alzato con forsennato orgoglio contro le stelle, né sul deserto, dove tu sei nata e hai dimora non per scelta ma per gioco del caso; ma più saggia, e tanto meno debole ed insensata dell’uomo, poiché non hai mai creduto che la tua specie fosse stata resa immortale o dal destino o da te stessa.

La Ginestra, come già detto, rappresenta la summa del pensiero leopardiano, ma forse è meglio dire, l’approdo ultimo del suo tragitto speculativo, che ci permette di definire il poeta recanatese, come dice il Timpanaro “un progressivo”.

Già tale definizione sembra contraddire la visione “politica” di Leopardi, e questa poesia sembra ne sia la dimostrazione: l’attacco contro il liberismo cattolico allora rivolto alla lotta per la liberazione della patria è teso, reso forte dal sarcasmo con cui il poeta sembra invitare, sulla falde del Vesuvio, colui che disegna per l’uomo Le magnifiche sorti e progressive. Ma egli va oltre, stringendo in un forte crescendo logico la loro inattualità.

Potremo partire dall’opposizione che vi è, sin da principio, tra il luogo, definito con l’avverbio qui, a disegnare l’intera desolazione de l’arida schiena e l’odorosa ginestra: l’antinomia è presente sin nei primi quattro versi: il primo a simboleggiare la natura, la seconda l’io poetico. E ancora nella stessa strofa il richiamo al glorioso passato che, nella sua distruzione ci indica l’inesorabilità della natura. Di fronte a tale “inesorabilità” l’illusione di un futuro migliore è pura illusione.

Nella seconda strofa l’accusa si fa diretta: il secolo romantico, richiamandosi al sentimento religioso, ha voltato le spalle a quella cultura che dal Rinascimento fino all’Illuminismo aveva tentato di liberare l’uomo dalla schiavitù del pensiero. Il dire a questa intellettualità che la loro modernità è frutto di un recupero “vergognoso” dell’ideologia liberale, non può che procuragli quella damnatio memoriae di cui sa già d’essere condannato.

Nella terza strofe l’io poeta s’identifica con l’uomo di povero stato e l’identificazione va oltre il dato metaforico per raggiungere quello reale (effettivamente Leopardi era povero e malato). Egli non cesserà di incolpare la natura per la condizione disperata dell’uomo: ma facendo in modo che questa verità (basata sulla ragione) venga diffusa ai più e togliendo loro l’illusione di un premio ultraterreno che svilirebbe il loro impegno, riuscirà a creare quella solidarietà che va oltre la compassione per abbracciare una forte volontà di lotta contro colei che madre è di parto e di voler matrigna (si noti il significativo chiasmo)

La quarta strofe sembra richiamare L’infinito: il poeta che si siede e osserva il cielo ed il mare. Ed anche qui la presenza del luogo sembra rimandarlo, per assenza, all’universo intero. Ma l’atto si capovolge e il poeta immagina che da quel vuoto si possa osservare il nostro mondo; l’equazione è semplice: se a noi le stelle del cielo immenso sembrano delle piccole luci sarà altrettanto vero che da loro questo mondo apparirà come un piccolo mondo; zoomando ancora all’interno di questo piccolo mondo, agli occhi delle stelle l’uomo sarà nulla. E’ evidente che il pensiero, per cui un ipotetico Dio possa aver fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, appaia ridicolo e pietoso (Non so se il riso o la pietà prevale).

La quinta strofe sembra esemplificare, con la descrizione del destino delle formiche la condizione dell’uomo ed il fatto che a metaforizzarla scelga proprio l’insetto non è senza significato. Conclude, quasi irridendo gli avversari, che se a questi piccoli animali capitano più stragi rispetto all’umanità è per la loro numerosità.

La sesta strofe sottolinea la caducità dell’uomo rifacendosi alle recenti scoperte archeologiche di Ercolano e di Pompei: la loro grandezza inconsapevole un tempo, la loro cancellazione improvvisa, sono la dimostrazione di come la natura possa, in un solo attimo, distruggere senza alcuna pietà. Ne consegue, logicamente, che la natura sta, l’uomo trascorre: il dramma è che l’uomo arroga lo stare a se stesso.

L’ultima chiude la canzone in modo circolare. La ginestra, fiore forse povero e non bello, che riesce a “vivere” nonostante l’aridità del terreno, è la dimostrazione della capacità che l’uomo avrebbe se ardisse a riconoscere la sua fragilità: anche la ginestra, forse un giorno verrà seppellita dalla lava espulsa dal Vesuvio; anche il poeta un giorno verrà cancellato dalla malattia che lo perseguita, ma sia l’una che l’altro, non cercheranno favole consolatorie, ma sceglieranno con dignità il loro destino.

Opere private

Lettere

L’epistolario leopardiano è molto nutrito: in esso compaiono circa mille lettere, scritte tra il 1815 ed il 1837. Molte di esse sono rivolte ad intellettuali, ma molte sono anche quelle scritte ai familiari, soprattutto ai fratelli Carlo e Paolina. Esse costituiscono una preziosa testimonianza non solo sulla biografia, ma anche sul suo percorso concettuale, poetico, psicologico, politico e culturale. Leopardi non ha mai pensato ad una sua pubblicazione, ma esse conservano una vivacità espressiva dettata dalla sincerità di quanto viene espresso.

Zibaldone

Con questo termine Leopardi intese una raccolta, su appositi quaderni, di appunti e pensieri di più svariata natura, che egli riportò dal 1817 al 1832. In quindici anni si accumulò, in quei quaderni un’incredibile quantità di materiale che vanno a costituire la bellezza di 4526 pagine. Decidendo di farne un indice Leopardi lo divise per argomenti e questo permette di seguire il suo lavoro “passo passo”, quasi fosse un libro “parallelo” alle grandi opere che andava componendo.

 

SERGIO ATZENI

Accadde oggi. 6 settembre 1995: muore Sergio Atzeni | Cagliari - Vistanet

Sergio Atzeni

Sergio Atzeni nasce a Capoterra nel 1952 e vive la sua infanzia nella città di Cagliari. Si trasferisce a Orgosolo, dove frequenta le scuole medie per far ritorno a Cagliari dove studia nel liceo Siotto e dove s’iscrive nella facoltà di filosofia, senza mai riuscire a laurearsi.

Le lotte politiche dei primi anni Settanta lo vedono protagonista sia da un punto di vista di partecipazione agli eventi che anche nell’isola hanno caratterizzato quegli anni, sia come base su cui iniziare un discorso intellettuale che si concretizza con Violenza e canto per il Cile (mix di recitazione e canto) e Quel maggio 1906. Ballata per una rivolta cagliaritana messo in scena nel 1976 e quindi pubblicato in volume.

Quel maggio 1906 - Libri Sardi

Sono questi ancora testi ingenui, in cui l’intento dimostrativo prevale su quello propriamente letterario, ma sono altresì testi in cui comincia la maturazione anche stilistica di Atzeni, quel suo frantumare la frase, l’articolare il discorso in quadri scenici che saranno ancora caratteristici nell’Atzeni maggiore.

Sempre nel 1976 comincia a collaborare a L’Unità nella sua redazione di Cagliari, a Rinascita sarda e a La Nuova Sardegna. Quel lavoro giornalistico gli serve per immergersi nei problemi della città, per coglierne gli aspetti evoluzionistici e per mettere in risalto le classi più disagiate della città.

Tuttavia l’instabilità del lavoro giornalistico, l’esigenza di dare uno sbocco professionale alla sua vita lo fanno piegare verso forme professionali che, se pur non gradite sono “sicure”. Vince un concorso all’ENEL e lì lavorerà per dieci anni, fino al 1986.Palazzo Enel, Gigi Gho, Cagliari, Sardinia, designed 1947, completed 1961.

Palazzo dell’Enel a Cagliari, costruito nel 1948

La scrittura dunque sarà per lui uno sfogo necessario, ma nel contempo inseguita con metodo, con rigore, sapendo che essa non è risposta immediata dell’io, ma ricerca anche della parola, capace di rendere lo spirito di un’intera storia e dell’insieme del popolo che la fa e la vive.

Nel 1978, in collaborazione con la moglie Rossana Copez, dà vita alla raccolta Fiabe sarde, e nel 1981 manda, quasi per gioco, un racconto giallo al “Mystfest” Gli amori, le avventure e la morte di un elefante bianco, pubblicato poi tra i gialli della Mondadori.

E’ del 1984 Araj dimoniu (ripubblicato da Sellerio nel 1996 nel volume Bellas mariposas col titolo Il demonio è cane bianco) prova nella quale, per la prima volta, Atzeni usa la “sua lingua” disadorna, mescolata tra tradizione letteraria, sardo, spagnolo, in un “pastiche” tipico della sua capacità di mescolare registri stilistici diversi.

La scoperta di Atzeni autore avviene, tuttavia, nel 1986, col balzo dalle piccole case editrici sarde ad una nazionale, la Sellerio di Palermo. Il grosso della critica e del pubblico sembrano per un momento non accorgersi del romanzo Apologo del giudice bandito, ma egli intanto si costruisce la sua vocazione di scrittore di “nicchia”, di cui lo stesso Atzeni è consapevole, in quanto autore “difficile” che si segnala per la struttura compositiva e per l’ardimento stilistico della sua prosa.

La motivazione del suo primo romanzo importante ce la offre egli stesso:

Raccontare Cagliari è stato uno dei motivi che mi ha spinto a cercare di scrivere racconti. Avevo notato che nei giornali, in televisione, quando si prendevano descrizioni di Cagliari, o di alcune zone di provincia, si finiva sempre per citare autori non sardi, come se non ci fosse una descrizione di Cagliari o del Campidano nella nostra letteratura. C’è molto di più sulla Barbagia, mentre nel Sud c’è pochissimo. Ad un certo punto mi è sembrato che non ci fossero descrizioni di Cagliari fatte da scrittori locali. Mi ha fatto pensare a scrivere un racconto dove ci fosse qualche riga che descrivesse la città non dal punto di vista esterno, di chi viene in visita, ma dal punto di vista interno, di chi ci abita.

Nel contempo Atzeni ha voluto in qualche modo sottolineare il dato fantastico che egli dà alla sua storia: l’Apologo del giudice bandito infatti, pur partendo da un dato storico (il processo alle cavallette tenuto a Cagliari nel 1492) mescola poi questo dato con la fantasia, dando vita quindi ad un racconto in cui si spezzano, si riallacciano, si scompongono dati fino a dar vita a un nuovo possibile intreccio.Amazon.it: Apologo del giudice bandito - Atzeni, Sergio - Libri

Il romanzo è ambientato nella Sardegna del 1492 devastata dall’ennesima invasione delle cavallette e dall’oppressione spagnola, mentre i sardi sono ridotti a schiavi o nascosti nelle montagne. E’ il potere, costituito in questo caso dal vicerè Don Ximene e l’arcivescovo Gabriel Cardano,  che istituisce un delirante processo contro le cavallette al fine di placare l’ira e la paura popolare. Durante il processo e l’assurda condanna si intrecciano le vicende di vari personaggi, grassi e stupidi baroni spagnoli, la schiava Juanita indomita ed in fuga per difendere la sua virtù e quel poco di libertà, bambini irriverenti che fanno dispetti a gesuiti avidi e condannati a condannare delle bestie, sardi saggi e conoscitori del futuro ed il giudice, catturato, gettato nel pozzo ma anche da là in grado di fare qualcosa. I personaggi più che il processo o meglio, l’auto da fé, sono i veri protagonisti e motori delle vicenda: la maggior parte di essi sono sempre in moto, un moto continuo, accelerato che si fa via via sempre più frenetico e che li porta a non andare da nessuna parte. Ma se la follia si muove vorticosamente nel tentativo di risolvere l’irrisolvibile, Itzoccor, il giudice bandito del titolo, prigioniero sul fondo del pozzo del palazzo, è immobile, nutrendosi di topi e giocando a shah (i moderni scacchi): è lui a porre un punto alla vicenda a condurla verso la sua inevitabile conclusione.
 

L’AUTO DA FE’ 

Un fascio di luce cala dal lucernaio su uno scrittoio nero. Padre Gabriel Cordano leva il bicchiere ai raggi del sole, che suscitano bagliori «Ave color vini clari…» sussurra e beve lento, sorso a sorso, gli occhi marrone vanno dal vino dorato nel vetro verde scuro ai codici custoditi nelle teche di argille perché l’umidità della città non li faccia ammuffire.
Sullo scrittoio uno scrigno giallo e azul e del maestro Manuele di Antiochia. Sulla ribalta e dipinta una natività, la chioma della vergine è una cometa. Padre Gabriel estrae un foglio bianco. Una delle copie di lettere del viceré perdute da chissà chi davanti alla porta della cella. La prima lettera, erano passati 30 giorni dall’arrivo a Caglié quando l’ha trovata. Trenta giorni. Il tempo di capire che “Gabrielito carissimo” non avrebbe usato il tribunale come arma vicereale, com’era stato in precedenza. Gabriel legge con gli occhi “beffardo e incostante, contrario per indole qualunque tema sia in questione, portato per natura alla loquela di false opinioni, dedito a consorterie clandestine, licenzioso”.
Il Monaco conserva il foglio nello scrigno. “Manca soltanto regicida” pensa “i malvagi usano le parole per confondere il vero, ma le parole bene usate stringeranno i colpevoli in gabbie più ferree delle vergini chiodate…”
Davanti a una croce alla sardesca, nera e rozza, senza corpo del Cristo né chiodi né spine, nient’altro che legno nero, Gabriel prega: «Fac me cruce custodiri, morte Cristi premuniri, confoveri gratia, quando corpo morietur fac un animae donetur paradisi gloria».
Con la mano si segna. Esce dalla cella. Il corridoio è buio.
Scende, poi sale, per gradini per gradini alti e stretti, scivolosi.
Svolta una, due e tre volte.
Cammina veloce come conoscesse il tragitto a memoria e l’avesse già percorso molte volte come oggi, senza torcia, come vedesse al buio.
Entra nell’aula da una porticina nera.
Ai lumi delle candele la sua ombra si allunga sulle pareti. Le gambe paiono quelle di un gigante. Spariscono poi riappaiono più lunghe, mostruose.
Avanza fino allo scranno del giudice. Guarda le croci rosse dei sambenitos fra le fiamme. China il capo. Allunga le mani sui fianchi.
«In piedi!» intima la voce profonda di un consultor. Sotto le arcate che già il comando, seguito dallo strascichio di piedi degli uomini che si sollevano dagli scranni. Le fiamme delle candele vacillano anche se la porta e le finestre sono tutte chiuse.
Don Ximene guarda il crocifisso castigliano che sovrasta il giudice: Cristo e d’argento, grande come un uomo vero, gli occhi sono zaffiri, dalle ferite colano scie di rubini, la croce è di pece nere come la notte, scintillante alle fiamme, affissa al muro su un letto di seta rossa. Le candele vacillando animano l’ombra, l’uomo d’argento si muove come tentasse di strapparsi alla croce. Nell’anima di Don Ximenes si insinua un brivido di paura. Ha la bocca secca.

«Noi, Santissimo Tribunale, giudichiamo la locusta che ha portato fame e pestilenza regno, miseria e penuria ai rifugi dell’uomo e alle casse dell’ordine, malvagità insensatezza al cuore degli umili e dei potenti». La voce di padre Gabriel è neutra né rabbiosa né festante, severa, voce di giudice. Eppure Don Ximene pensa: “Ne hai architettato una delle tue, Cordanino…”.

«Sia introdotto l’accusato!» Tuona la voce profonda di un consultor. Don Ximene sobbalza sul seggiolone. «La locusta qui? Come? Qui? Sei pazzo, Cardano!»

I cursores spalancano la porta, il sole irrompe nell’aula del giudizio, cancella ombre e candele. Il bianco della porta acceca.  Al centro appaiono quattro figure scure che avanzano, entrano nell’aula, portano sulle spalle due pertiche parallele che sorreggono una cesta di giunchiglia in forma di cassa da morto. I portatori sono avvolti in quattro sambenitos. Si fermano e depongono la cesta a un metro dalle narici viceregie. Don Ximene guarda. Migliaia di locuste, nere, marce, in una poltiglia agitata da piccole onde provocate dal trasporto sulle spalle dei portatori.
Emana tanfo di morte.
Auditores, vara, cursores, qualificatores, dimentichi della disciplina virtuale, stingono il naso con dita robuste.
«Allora sarà chiamato soltanto Salomone» recita senza voce l’arcivescovo «allorché avrà consegnato il Regno a Dio Padre gli avrà spogliato ogni principato e potestà. Bisogna ch’egli regni finché ponga nemici sotto i suoi piedi e distrugga l’ultimo nemico la morte» ma la puzza raggiunge anche don Antogno. Si interrompe, perde il filo, tace. Le mani corrono al naso, lo chiudono e tentano di nascondere la danza selvaggia della guancia, l’occhio immobile da assassino.
Padre Gabriel ha le mani ferme lungo i fianchi, non si è mosso. Piccoli cilindri di farina impastata con acqua di rose son volate da una piega del sambenito e ci sono infilati nelle radici per difenderle a dovere, mentre tutti guardavano la porta aprirsi.
Don Ximene non ha visto il trucco né lo immagina. Ma per non essere da meno di Cordano tiene le mani ferme sul ventre debordante. Resiste alla tentazione crescente di sollevarle verso il naso.
Il viso viceregio da roseo si fa gessoso. Gli occhi sbiancano denunciando un imminente maldiventre.
Un gesto del giudice allontana il il mefitico imputato, capace di superare farina e acqua di rose ed evita per un pelo i conati dell’eccellentissimo viceré.
I cursores spalancano le finestre. L’aria esterna disperde il tanfo annidato nell’aula del giudizio, ma non del tutto.
Il colorito di Don Ximene da bianco terreo si fa rose e subito rosso fuoco d’ira. “E’ tuo, il nodo che annodi, Cordanino” pensa “ti scuoierò vivo, prima di bruciarti”.
I portatori della cessa di locusta putrefatta escono nel chiostro.
I baroni sventolano fazzoletti profumati.
Donna Antonietta Zepita annusa un sacchetto di lino pieno di foglioline di menta fresca e fiori secchi di lavanda: schiacciando con le dita i profumi si mescolano.
Al primo passaggio nel chiostro “di tutta quella innominabile schifezza”, così l’ha battezzata, la nobildonna è svenuta a causa del fetore.
Per fortuna Donna Sibilla Cruz porta con sé decine di sacchetti di foglie fiori profumati perché detesta gli odori della città in cui vive. Ha soccorso Donna Antonietta con comprensione affettuosa.
Don Rodrigo Curraz chiede a voce alta: «Hanno raccolto le colonie di tutto il Campidano? E perché?»
Don Jaume Zitrelles gli affibbia un calcio nel deretano, fintamente scherzoso, in realtà sono robusto e dato per far male  e commenta: «Non cercate Rodrigo Curraz, per buona educazione, pure se figlio di vicerè…»
Rodrigo accena sì s’ con la testa, sorride, come fosse contento dei fatti e delle parole.
A Don Flaviano Medina , sottointendente fiscale, il gioco è piaciuto e decide di dare anche lui un calcio nel didietro all’erede di una gloriosa famiglia di conquistadores, i grandi Curraz, i potenti Curraz. Colpisce.
L’erede di tanta gloria si volta, vede chi è stato, ride nuovamente ma si direbbe meno contento.
Donna Antonietta si chiede se non sia il caso di svenire di fronte a tanta volgarità maschile e decide di non farlo perché sono passati pochi istanti dallo svenimento precedente.
Donna Sibilla Cruz guarda Jaume con una sforza con una smorfia di disprezzo: “Un tempo mi faceva pena” pensa “ora fa schifo, soltanto schifo… Cosa significa figlio? Sibilla Cruz non ha figli, uno che ebbe si è trasformato in bestia crescendo di statura…”.
IS ARRIORESUS: LE ISTITUZIONI SPAGNOLE IN SARDEGNA: L'INQUISIZIONE E GLI STAMENTI

Is arrioresus (tribunale spagnolo dell’Inquisizione)

Si può parlare a proposito di questo brano di un quadro, il centrale, quello intorno al quale si snoda la vicenda.  Infatti il primo importante romanzo di Atzeni porta già in luce la caratteristica della sua tecnica narrativa che qualcuno ha definito con il termine di frammentarietà. Si potrebbe forse dire, più giustamente, che tale spezzettatura sia dovuta alla presentazione “contemporanea” di tutti i livelli sociali della Cagliari (Caglié) del tempo, tempo in cui navi spagnole conquistavano le Americhe, lasciando in stati vassalli personaggi che Atzeni presenta in modo caricaturale, anche se tale caricatura sembra essere più vera di una descrizione naturalista. Infatti, accanto a questo episodio, ne troviamo altri, quale quello di bambini irriverenti che riescono a mettere una corda sul membro di un religioso o di un giovane che, per i bei seni di una ragazza, ingurgita non so quanta zucca fritta, o di un povero leccapotenti smerdato in testa da un cavallo.

Ma il romanzo apre le vie per uno sperimentalismo letterario che avrà grandi frutti nella narrativa sarda e non solo:

ITZOCCOR E DON XIMENE

«Itzoccor Gunale. Benvenuto a Caglié» saluta Don Ximene in tono un po’ isterico mentre muove nell’aria le dita ossute, rami di mandorlo invernali, stridenti coll’enorme corpo viceregio, disegnando piccole forche e nodi scorsoi per intimorire il prigioniero.
«La volpe…» dice Don Ximene intorno irridente. «Pure sei caduto nella rete…»
Il viceré è gioioso, ha catturato il bandito più temuto del viceregno. L’osserva e pensa: “L’hanno chiamato giudice e volpe… I baroni di Caglié lo temono come fosse Satana in persona… gran cagoni… El rey mi premierà… Oro…».
Itzoccor Gunale odia gli l’istrangiu, lo straniero, con lo stesso odio intenso e freddo di suo padre di tutti i Gunale prima di loro; odio e balentia dei Gunale molte volte raccontati, sui monti.
Il prigioniero è piccolo di statura, scuro di pelle, ha barba nera e riccia, occhi chiari come tuorlo d’uovo, duri come pietre.
Don Ximene sorride. «Dimmi, merdoso, perché ti facevi chiamare giudice? Non appari come monaco, hai piuttosto fama da assassino… Perché giudice? In memoria dei vecchi tempi? Tu saresti il Giudice? Il grande capo: guarda un po’: uno dei tuoi ti ha venduto. Uno dei tuoi. Ti hanno venduto per tre vacche e dodici starelli di grano… Se sei giudice, giudica: è il giusto? Non li condanni?»
«Giudice altri l’hanno detto, non io. Tu, invece, sei detto cane, e sei creatore di giuda, biscia velenosa…»
Lo staffile apre sulla guancia del prigioniero una ferita larga un dito dal lobo destro al mento, di carne viva, il sangue cola dai ricci neri al pavimento di chiaro legno libanese della gran sala vicereale delle udienze dove il viceré ha voluto incontrare per la prima volta il prigioniero appena catturato, per impressionarlo con la visione della propria potenza e ricchezza.
Il prigioniero si piega. E’ più basso di Don Ximene di una testa intera, come possanza è secco un quarto di viceré. Ha le braccia inchiodate dietro la schiena da una gabbia di ferro. Gabbia uguale gli inchioda le caviglie. Guarda gli occhi grigi, sfuggenti dell’istrangiu. Disprezza.
«Colpisci» ordina Don Ximene.
Terencio, fermo, preso nei ricordi di Luis, il miglior amico, e di Azù, forse più di Luis… colpisce con la mazza ferrata sulla schiena del prigioniero che cade faccia a terra.
Il viceré si avvicina finché l’unico oggetto nella visuale del caduto sono gli stivali lucidi di grasso.
«Omine, bàa» sussurra il prigioniero e sputa. Una chiazza gialla vola sulla scarpa. La frusta di Don Ximene sferza come pioggia di marzo la schiena e le braccia, e cattura la caviglia di Itzoccor con un laccio, la solleva, scaraventa il prigioniero addosso uno scranno di legno massiccio che cadendo al suolo rintrona in tutto il palazzo vicereale.
Don Ximene si abbatte su una sedia, affanna, sbianca in viso, cerchi neri appaiono attorno agli occhi.
“I colori della morte” pensa Terencio, accorre.
Il padrone lo ferma con un cenno della mano: «Raccogli il merdoso» mormora rauco «gettala nel pozzo non voglio più vederlo».
Terencio trascina fuori il prigioniero.
Il vicerè, solo, prima sorride, la testa si annebbia, poi chiude gli occhi, rantola.

Leonardo Alagon: nobile spagnolo in Sardegna

Afferma il critico letterario, Giuseppe Marci: “Atzeni in un italiano scabro e disseccato introduce elementi lessicali tratti dalla lingua spagnola che banalmente potremmo dire coerenti rispetto alla situazione storica cui fa riferimento L’apologo del giudice bandito, o, forse meglio, possiamo vedere come appartenenti all’universo linguistico sardo, retaggio di una dominazione certo dolente sotto il profilo politico, e tuttavia feconda (…) sotto quello della cultura. E introduce la lingua sarda. Un sardo che farebbe inorridire i puristi, come comanda il loro destino condannati a cercare in eterno una improbabile patente di nobiltà del linguaggio. E’ la scrittura che rende nobile una lingua, la più pura spuria e plebea, lingua dei bassifondi e delle strade del porto, lingua dell’abiezione della rissa, delle supreme passioni, dei traffici leciti e dei commerci di contrabbando, di una città levantina che a nessuno ha mai chiesto la genealogia della casata ma tutti ha accolto, navigatori e mercanti, santi e avanzi di galera”.

La pubblicazione dell’Apologo ha dei profondi risvolti sul piano biografico: abbandona il lavoro stabile e comincia a viaggiare in Germania, Lussemburgo e Italia. Trova quindi ospitalità in una comunità religiosa dove affluiscono giovani con svariati problemi. Nessuno gli chiede perché è lì e cosa ha intenzione di fare. Offre le sue braccia per lavorare ed intanto ascolta con trasporto le gesta dei missionari. Quell’esperienza lo farà cristiano: “Una cosa è certa: dovunque vada, sarò cristiano”.

Nel 1988 si avvicina al mondo editoriale. A Torino diventa dapprima correttore di bozze, poi mano mano traduttore dal francese per le più importanti case editrici

Nel 1991 pubblica, sempre per la Sellerio, Il figlio di Bakunìn, romanzo breve che si svolge seguendo il ritmo dell’inchiesta giornalistica o dell’indagine tendente a ricostruire la vita e le gesta di un inafferrabile personaggio anarchico e comunista, eroe o truffatore, animo sensibile e raffinato o volgare profittatore.

Il figlio di Bakunìn - Atzeni, Sergio - Ebook - EPUB con DRM | IBS

Il libro è composto da una serie di interviste che propongono, nell’alternanza dei punti di vista, la supposta verità sul personaggio di cui si parla.

Da qui una prosa frazionata, fatta sia di  brevi proposizioni che stilisticamente ricalcano il livello culturale degli intervistati, che di “racconti” più articolati, costruiti sia per costruire un mito, sia per affossare un delinquente.

UNA TESTA CALDA

Negli anni del fascismo ero impiegato a Montevecchio. Ricordo bene quell’uomo. Era un parolaio, un arruffapopoli, uno dei peggiori. Una testa calda. A chi diceva che lui e quel Serra, altro bell’elemento, fossero gli armatori migliori, rispondevo allora, e oggi posso ripeterlo tale e quale, che se avessero avuto figli da mantenere non sarebbero stati così lenti. E resto dell’idea che certe rifiniture ad armatura sono più vizi che pregi, non servono a nulla. La disgrazia, se è destino, capita ugualmente. Nel ’44 ho cambiato lavoro e paese.

LA MEDAGLIA D’ARGENTO

Ho visto coi miei occhi la medaglia d’argento e la pergamena arrotolata. L’ha aperta davanti a me, era scritta in inglese. La firma era di un generale che a quel tempo era famoso… Ora mi sfugge il nome… Ce l’ho sulla punta della lingua… Alexander. Forse sbaglio. Con gli anni la memoria è peggiorata. Direi Alexander, ma non ci giurerei. Ho un amico che a casa ha una storia della seconda guerra mondiale, posso controllare.
Il nome della pergamena era proprio Tullio Saba. Io degli Americani penso questo, che a volte regalano sigarette o dollari, ma una medaglia non la regalano a nessuno, neppure a un Americano, figuriamoci a un Italiano. Te la devi conquistare. A quel tempo più di oggi. Peccato che quando ho letto la pergamena non conoscessi l’inglese.

L’autore così spiega: “Ho pensato prima ad una coralità di voci, poi a che cosa dovessero raccontare. Allora mi sono rivolto ad un’area della memoria collettiva. Mi interessava creare, per esempio, una donna che parlasse in modo tale da essere definibile: anche se un lettore non sa chi è, dopo che lei ha parlato per mezza pagina, sa già che è una donna sarda di una certa età, non tanto per ciò che dice quanto per come lo dice”.

Ricordando Sergio Atzeni. Due giorni tra cinema e letteratura, a Cagliari - Bookciakmagazine

Una scena da “Il figlio di Bakunin

Quel che è certo è che dietro le parole (dietro un uomo che racconta) c’è una storia. E qui la storia che racconta un suo compagno minatore, Ulisse Ardau, è la storia, per la Sardegna, di miniere, di soprusi e di illusioni.

VIVA STALIN

I primi giorni a Montevecchio era tutto un “signorino” di qua, “signorino” di là, per sfottere, per scherzo, un po’ tutti glielo dicevamo, “hai finito di sfoggiare scarpe nuove!”, o “un vero gagà scende in miniera, quando mai!”, battute senza malevolenza, nessuno di noi minatori avrebbe augurato a nessun uomo di finire in miniera, se non al peggior nemico. Era una novità, Tullio Saba con gli scarponi marci come i nostri, che saliva per la stessa strada verso i pozzi assieme a tutti noi.
A quel tempo, la mattina presto si andava a lavorare con qualcosa sulla testa, per proteggersi dall’umido, chi aveva cicia, chi bonette. Lui, dal primo giorno, basco alla francese. Sembrava lo facesse apposta per continuare a distinguersi dal gregge. Poi si è visto che ai sorveglianti e agli impiegati di Montevecchio quel basco dava fastidio, chissà perchè, gli sembrava un’arroganza? Lo guardavano male. Ma cosa potevano dire? Il duce mica aveva proibito ai minatori di portare basco alla francese. In capo a quindici giorni tutti quelli che non ci accontentavamo, che avremmo voluto un mondo o almeno un lavoro diverso, avevamo copricapo uguale al suo.

Lui abitava in centro, io in periferia. La mattina aspettavo al caldo, in cucina, vicino al camino, guardando la strada dalla finestra. Lo vedevo sbucare dall’angolo di Angelino Marrocu, laggiù, vedi? Un tempo lì non c’era quella palazzina, ma una casa bassa, di fango. Angelino Marrocu era fabbro. Così quando Tullio appariva sembrava uscisse dalle scintille della bottega di Angelino. Camminava a passetti svelti per riscaldarsi col movimento. Allora uscivo anch’io, qui davanti ci incontravamo e cominciavamo a salire assieme. «Ciao, Tullio». «Ciao, Ulisse». E poi fianco a fianco, silenziosi, ognuno nei pensieri suoi. I minatori pensano molto, tutti quelli che hanno un brutto destino sul gobbo pensano molto. Sognano a occhi aperti di cambiare vita. Pensano a come liberare i propri figli.
Ogni tanto, dopo che già da un po’ di mesi facevamo la strada assieme, abbiamo cominciato a scambiarci frasi a bassa voce. A Carbonia Tullio aveva conosciuto minatori ch’erano stati in Belgio e in Francia. E sapeva molte cose che non erano scritte sui giornali, e che la radio non diceva, sulla guerra di Spagna, sul comunismo russo. Sapeva, e parlava, raccontava.
In capo a quattro, cinque mesi, si è aggiunto anche Giacomo Serra. Era più vecchio di noi di almeno dieci anni, cioè ne aveva una trentina, ma sembrava molto più vecchio di quel che era, dopo quindici anni di miniera. Magro come canna, la schiena piegata, la testa avanti sul petto come quella di un gobbo, come se la spina dorsale fosse così debole da non poter tenere la testa eretta come quelle degli altri. Forse era diventato così a furia di stare piegato in galleria a costruire armature. Conosceva le viscere di Montevecchio meglio di qualunque ingegnere o direttore. Se nel tuo cammino in galleria trovavi un tratto di armatura costruita a regola d’arte, quella era opera di Giacomo Serra. Aveva leggi sue. A quel tempo c’era il sistema dei cottimi, non contava la qualità del lavoro ma la quantità. Lui ci perdeva denaro e settimane, e si faceva nemici i sorveglianti, ma nessuna armatura sua ha mai sepolto nessun minatore. A volte l’armatura ben fatta non basta, la miniera vuole uccidere e spacca anche il ferro. Ma con Giacomo Serra era come se una mano santa proteggesse il suo lavoro. L’unico armatore la cui opera durava negli anni senza una crepa. Era diventato una leggenda. I minatori lo amavano. E’ bello sapere che c’è qualcuno che pensa a non farti crollare pietra, acqua e morte sulla testa. Pochi armatori lo imitavano, pur ammirandolo. Avevano famiglia, molte bocche da sfamare, poco tempo da perdere.
Giacomo tossiva tutto l’anno, compresi luglio e agosto, tosse da fumatore incallito e da silicosi. Aveva l’indice e il medio della destra neri di nicotina.
E’ riuscito a prenderci in squadra con lui. Un giorno ci mandano alla settima, la galleria più in fondo, nelle viscere della terra, a trecentocinquanta metri. In altri pozzi si arriva a cinquecento metri, c’è la decima. L’ultima ha sempre un nome di donna, Margherita, Cristina, Elena, forse perché le gallerie così in fondo sono pericolose, infedeli, ambigue e figlie di puttana proprio come le donne. C’era stato un guasto al pompaggio, un tratto di galleria era crollato. Di notte, per fortuna. Un punto di forti infiltrazioni d’acqua. L’armatura, mal fatta, aveva resistito poco. Era un tratto breve, forse dieci metri. A ricostruirlo abbiamo impiegato sette giornate. Alla fine del lavoro il minatore che passava in galleria e guardava in alto leggeva una scritta in lettere grandi quanto un uomo: VIVA STALIN. 

Chi era Stalin per noi allora? Parlo degli anni ultimi che portano alla guerra. Chi era? Era il capo del paese dove non c’erano padroni, dove i minatori guadagnavano più degli ingegneri, perché facevano un lavoro più faticoso e pericoloso, dove le armature di Giacomo Serra sarebbero state citate ad esempio e imitate, dove c’era il libero amore, dove i minatori andavano ai concerti e a teatro, in abito da sera. Tullio raccontava queste cose, perché non crederci? Faceva piacere immaginare che in un luogo del grande mondo la prima preoccupazione del governo era che i minatori non lasciassero la pelle nei pozzi. E che non dovessero lavorare con le cosce nell’acqua e con le scarpe squagliate. Tutte queste notizie erano date per certe. Dopo la guerra la canzone è cambiata. Abbiamo cominciato a sentire dei processi del ’37, dei compagni uccisi… Al principio pensavamo che i processati fossero traditori, poi lentamente abbiamo capito la verità. Ma negli anni del fascismo Stalin era il padre buono, Benito il patrigno cattivo. Ora tutto è cambiato, la nostra fede di allora sembra ridicola, anche il partito dice che Stalin era un criminale.
Sai cosa ti dico? Darei tutto quello che ho per tornare a provare l’emozione di quel giorno, quando abbiamo visto l’armatura finita e quella scritta lucente là in alto, VIVA STALIN.

Nei mesi successivi pensavamo spesso a quella scritta che avevamo tracciato con tanta pazienza nelle viscere della terra. Il direttore e l’ingegnere non scendevano mai alla settima, si sentivano oppressi, laggiù. Pensavamo che però un giorno o l’altro gli sarebbe arrivata la voce che sulla volta della settima c’era la scritta, e sarebbero dovuti scendere per vedere coi loro occhi, e noi avremmo passato i nostri guai. Invece nessuno gliel’ha detto, mai.

Giacomo Serra ricordava i tempi prima del fascismo. Anche suo padre era stato minatore, e diceva che anche ai vecchi tempi la vita del minatore era una schifezza, ma allora almeno qualcuno parlava a nome dei minatori, e si poteva scioperare, e c’era un sindacato che difendeva i lavoratori, e lo spaccio vendeva scarpe e spaghetti migliori.
Parlavamo del passato, di gente lontana e sconosciuta. Sognavamo.
Un giorno nasce una discussione: se facciamo come in Russia e prendiamo il potere, chi mettiamo al muro? Tullio dice che lui l’ingegnere e il direttore non li avrebbe fucilati, avrebbe goduto molto di più a vederli spingere il carrello o preparare le mine.
Giacomo ogni tanto diceva che un giorno o l’altro Lussu sarebbe sbarcato a Bosa, chissà poi perché a Bosa e non a Porto Torres, e avrebbe dato il segnale della rivoluzione. Per quanto mi riguardava, un segnale sarebbe bastato, se fossi stato certo che la rivoluzione era cominciata. Avrei preso le armi e avrei sparato.
Chiacchiere, sogni, ci aiutavano a sopravvivere.
Un giorno Tullio porta un mazzo di foglietti di carta rossa. Ognuno conteneva un lungo discorso stampato con inchiostro nero che sbavava dalle dita. Diceva che stava per cominciare una grande guerra internazionale e che noi lavoratori avremmo dovuto trasformarla in rivoluzione generale. Che noi minatori fornivamo la materia prima dell’industria della guerra, e dovevamo sabotare la produzione in nome del comunismo. L’abbiamo distribuito a tutti quelli che per certo non ci avrebbero tradito e denunciato.
Nonostante il manifestino, ancora nel ’39 la guerra mondiale mi sembrava impossibile, mio padre era stato sul Carso, ne era tornato zoppo. Mi aveva parlato della Grande Guerra, mi sembrava impossibile che gli uomini potessero essere così stupidi da voler rifare una scemenza simile. Poi ho visto con i miei occhi ch’era possibile.
Nel ’40, per guadagnare quel che guadagnavi nel ’39, dovevi lavorare il doppio. Solo la nostra squadra per un po’ ha mantenuto la lentezza di prima della guerra.

Perdo il filo, mi devi scusare, sono passati tanti anni… Dicevo del manifestino che abbiamo distribuito, ecco, e un giorno il direttore ha fatto chiamare Giacomo. Gli dice che se non si dà una regolata nel rispetto del cottimo, lui e tutta la squadra, licenziamento. Accenna a certi manifestini sovversivi, come se avesse saputo qualcosa, avesse sospetti, ma non certezze. La sera scendendo in paese dico «Facciamo le armature come vuole lui, che crollino. Anche i crolli ritardano la produzione. E’ sabotaggio. Per Stalin». E Giacomo Serra risponde «Far crollare una galleria in testa a un padre di famiglia che si guadagna il pane in fondo a un pozzo? Manco se Stalin viene qui a chiedermelo di persona. Non può essere così coglione». Non ne voleva sentire. E per tutta la guerra ci siamo tirati il collo per fare le armature solide come prima ma più in fretta.

Il figlio di Bakunìn"di Sergio Atzeni al Teatro Studio Uno

Il figlio di Bakunìn a teatro

Il figlio di Bakunìn propone, come gioco, quello di inseguire le interpretazioni e le modalità espressive di molteplici narratori chiamati a riferire su un unico tema: la definizione di una personalità umana. Cioè un gioco della verità che si conclude con la negazione della verità, oppure l’unica verità possibile, quella di ognuno di noi, in questo brano quella dei narratori, creando non credo inconsapevolmente, un testo “pirandelliano”: la differenza è che nell’autore siciliano sono il narratore o gli stessi protagonisti ad essere costrette o a svelare le varie forme che assumono negli occhi degli altri; qui Atzeni crea il personaggio attraverso le forme che gli altri gli danno, ma lo fanno attraverso la memoria; allora la forma cessa di essere “reale” per diventare mito.

Qui finisce quel che resta di Tullio Saba nella memoria di chi lo ha conosciuto. Tutto quel che hanno detto ho registrato col mio Aiwa, tutto quel che ho registrato ho trascritto, senza aggiungere né togliere parola. Non so quale sia la verità, se c’è verità. Forse qualcuno dei narratori ha mentito sapendo di mentire. O forse tutti hanno detto ciò che credono vero. Oppure magari hanno inventato particolari, qui e là, per un gusto nativo di abbellire le storie. O, ipotesi più probabile, sui fatti si deposita il velo della memoria, che lentamente distorce, trasforma, infavola, il narrare dei protagonisti non meno che i resoconti degli storici. 

Nel gennaio del 1995, pubblica per i tipi della Mondadori Il quinto passo è l’addio. Anche questo è un romanzo di memoria, svolto su un non-luogo, la nave dove un certo Ruggero Gunale (alter ego dell’autore) ripercorre in lunghi flash back la sua esperienza fino a lì vissuta.

Amazon.it: Il quinto passo è l'addio - Atzeni, Sergio - Libri

Anche questo romanzo presenta un andamento non lineare, frantumato: i ricordi non hanno scansione temporale ma affiorano dalle sollecitazioni che la nave stessa gli procura: l’allontanamento dal porto, le persone che incontra, i suoi stati d’animo o l’effetto di una “canna”.

Ma tra i ricordi anche una Cagliari presumibilmente fine anni ’70, quella dei suoi anni giovanili, figlia di un rampinismo “politico” che, come in questa parte del romanzo, raccontata e vissuta certamente dall’autore stesso, ci dice come la forza di dar vita ad un’ideale o ad una prospettiva, foss’anche attraverso la costruzione non “realistica” di un mito come quello di Tullio Saba, s’infranga in una disillusione, presentandoci una Cagliari che è stata (e forse lo è ancora) città dove i potenti di ieri, sono i potenti di oggi, una città, cioè incapace di trasformarsi:

CREDO CHE IL TUO MESTIERE NON SIA IL GIORNALISTA

Ruggero Gunale e Antonio Curraz si incontrano. Si fermano. Abbozzano un sorriso.
«Buongiorno» dice Ruggero.
«Ciao» risponde Antonio, e aggiunge «Tempi duri per il Cagliari…».
«Ogni morte prepara una rinascita…» risponde Ruggero. «Ha qualche notizia sul concorso?»
«Hai fatto lo scritto migliore».
«Davvero?»
«E io ti ho dato il voto più basso, anche se sufficiente. Non era un articolo, ma il sunto di un futuro saggio sociologico. Ben scritto, non discuto, tutti i congiuntivi giusti, ma nulla che vedere col mestiere. Agli altri è piaciuto, ora sei primo in graduatoria».
«Ho qualche speranza di vincere?»
Il volto paffuto e gli occhi grigi di Antonio Curraz sono espressivi quanto quelli del fratello Augusto a poker: zero.
«Voglio dirti in tutta onestà la mia posizione. Agli orali ti darò insufficiente anche se citerai Orazio in latino a memoria “Persico odi puer apparatus…”. Saresti in grado di farlo?»
«No».
«Meglio così, mi togli un peso dallo stomaco».
«Perché?»
«Non ho nulla contro di te. Credo sinceramente che alla Rai proveresti danni, sei una testa calda… Credo che il tuo mestiere non sia il giornalista… Però non me la sentirei di bocciarti, se la tua cultura classica… Il fatto è, caro Gunale, che partecipa il figlio di un amico degli amici, e a me non piace accettare pressioni, ma stavolta c’è in ballo qualcosa come un debito di riconoscenza, il ragazzo è disoccupato e padre di famiglia, tu hai un lavoro ben pagato e sei solo, altri pesi in meno sullo stomaco».
Antonio Curraz è più grasso che magro, più basso che alto, in grisaglia di buon taglio. “Abituato da generazioni” pensa Ruggero “a spiegare ai contadini del feudo perché non debbano mai presentarsi alla Casa di città se non previo appuntamento col soprastante”. E dice: «Ti ringrazio della franchezza. Non mi farò illusioni».
Otto e cinque. “Ci sta un caffè” pensa Ruggero. “E a questo punto ha senso che mi presenta agli orali? A meno che… non sia l’obiettivo primo di tanta franchezza di Curraz… scoraggiarmi, spingermi a desistere per lasciare campo libero al suo protetto…”.
Corridoio buio del liceo Mamiani, nella capitale oltremare. Ruggero ha paura di perdersi.
“Non si vede una sega” pensa “Mi hanno fatto quattro domandine facili facili e via… Potevo rispondere meglio? Che l’ho studiata a fare la Costituzione a memoria?”
Una mano gli artigli al braccio. Riccardo si volta con un sobbalzo, riconoscere nella penombra il volto di uno dei commissari, capelli crespi, barba. «Ti voglio parlare, un attimino», e dice sono Giorgio Piluria. Conosco Pippo Ibba, mi ha parlato di te, dice che sei dei nostri… Debbo spiegarti perché non vincerai, è sgradevole ma dovuto e voglio anche rassicurarti, non tutto è perduto la situazione è complicata».
Ruggero guarda perplesso la mano ancorata al bicipite. Il commissario fa un sorriso di scuse e la stacca.
«Abbiamo fatto un accordo» dice «abbiamo dovuto farlo. Loro tenevano molto a quel posto tu gli hai rotto le scatole costringendoli a scoprirsi, il vincitore è figlio d’arte e noi teniamo un a un veneziano coraggioso disoccupato da cinque anni. Un uomo che ha dato tanto. Cederemo, ma avremo qualcosa in cambio. E non ti abbandoneremo. Arriverai secondo. In caso di assunzioni nei prossimi due anni, pescheremo da qui, garantito, impegno formale del sindacato giornalisti. Sei il primo della lista. Ci andresti a Pescara?»
«Pescara ? Come hai detto che ti chiami?»
«Ora devo andare. Interroghiamo. A presto. Saluta Pippo Ibba…»

(…)

«Tempi grami per il Cagliari…»
«Sì»
«Non ti vedo più in tribuna stampa…»
«Non lavoro più per nessuno, ho seguito il tuo consiglio, studio, cerco un altro mestiere. Allo stadio vado in curva, mi diverto come un matto… Una squadra come il Cagliari deve avere i tifosi di particolari, capaci di scompisciarsi nelle fasi calanti, ci vuole il gusto pazzo di irridere il Niccolai della situazione e lanciargli battute di settimana in settimana più cattive…»
«Ergo sei disinteressato al concorso…»
«Qualcosa di nuovo?»
«Per farci perdonare siamo disposti a deliberare sulla nuova assunzione dalla lista del concorso. Saresti tu.»
«Bene. Ma perché il condizionale?»
«Abbiamo anche provato a far passare la delibera. Non c’è stato verso. La fermano».
«Chi?»
«I tuoi. Il senatore Tonino Portas»
«Perché?»
«Dice che avete un altro candidato».
«Chi sarebbe?»
«Giulio Ibba, il fratello del tuo capo».
«Da anni non è più il mio capo…»
«Dice che presto tornerai all’ovile, visto che stare al freddo non ti giova».

Ruggero aspetta da un’ora nell’ufficio Stampa e Cultura, una saletta due metri per quaranta con dentro un armadio zeppo di materiale elettorale e due sedie con schienali LArossi. Saletta chiamata dalle segretarie Purgatorio (“Lucio vuol sapere dove hai mandato quel barabba… in Purgatorio? E’ chiusa la porta?”), perché là ci mandano anime mediocri e poco importanti per lunghe attese.
La porta infine si apre del tanto che basta a far entrare la testa a pera, la bocca stretta, il naso a punta e gli occhiali neronotte di Lucio Frais detto Sogliola per motivi politici. Addetto al settore Stampe e Cultura. Protetto del senatore Portas.
«Tu non hai idea, caro Gunali,» dice Sogliola tenendo in Purgatorio soltanto la testa e guardando Ruggero con un sorriso di plastica – non hai idea di cosa conta veramente nel mondo: il prezzo della barbabietola negli Stati Uniti può provocare un cataclisma altro che l’olocausto… scusami… era una riunione importante indetta all’ultimo minuto, tu non hai telefono non sapevo come fare per avvisarti… Questa storia del telefono in verità andrebbe approfondita, un atteggiamento snob, ammetterai, ti isoli dal mondo? A un quarto dal Duemila? Nella torre d’Avorio? Scendi dalle stelle, Gunali. Mi piacerebbe parlare un po’ con te, fatti vedere. In autunno, però, prima fra elezioni e congressi non ho un attimo, ora devo fuggire, l’aereo mi aspetta, ho una riunione a Roma domani mattina alle sette, parto stasera, dormo là, evito il rischio di un ritardo del volo delle sei e cinquanta di domani mattina. Avessi saputo che si metteva così non ti avrei dato appuntamento per oggi, ma non importa, sono al corrente della questione, mi spiace dover correre via, mi piacerebbe raccontarti la discussione punto per punto ma c’eravamo noi del settore Cultura più Ibba e Tonino Portas, ho appena letto il suo ultimo romanzo Altopiani di Cenere, bellissimo, se non l’hai letto leggilo, devo proprio fuggire. In tuo favore è intervenuto Peppino Zuddas, il birraio di Sant’Elia, ottimo militante, ha speso una buona parola, era con noi per caso, naturalmente, ma è autorevole della sua dignità di militante onesto. La decisione finale è stata: se vi saranno assunzioni, sarà assunto Gonali».
«Gonale».
«Eh? Ciao a presto, fatti vedere, entra maggiormente nella vita del partito, abbandona gli atteggiamenti snob da primo della classe, ciao, devo proprio partire».
Ruggero guarda dal finestrino oblungo del Purgatorio il terreno incolto intorno alla palazzina del partito. “Ci potrebbero mettere qualcosa” pensa “un fiore o almeno qualche ciuffo d’erba, di basilico. se vi saranno assunzioni… Mi hanno dato un calcio in culo…” 

“Coloro che, nel precedente romanzo, formavano la comunità, gli aderenti allo stesso partito, il partito della speranza, del rinnovamento totale della fede nell’uomo. La situazione è evidentemente cambiata, dell’uomo non importa a nessuno e la comunità/partito non esiste più. O meglio, si è frantumata e persegue altre logiche, estranea alle originarie ragioni, legate ora a interessi non del tutto confessabili, a convenienze individuali. Si è conclusa l’esperienza che, per comodità, abbiamo definito del comunismo guspinese e un’altra si è affermata e si esprime nel colloquio Gunale e l’addetto al settore di Stampe e Cultura, vero esponente della burocrazia partitica che potrebbe trovar posto nell’opprimente società della DDR descritta da Cristof Hein. (Giuseppe Marci)Il quinto passo è l'addio" di Sergio Atzeni: un futuro lontano dalla Sardegna -

 

Ma sarà la stessa burocrazia “partitica” che, non interessandosi  dei bisogni degli ultimi, li relega in quartieri ghetto, dove vivono di tossico dipendenza o di giochi illeciti, come la lotta fra cani:

LA LOTTA TRA CANI

L’alano, e pasciuto, lavato. E’ forte. Molto forte. Nell’ultimo mese ha vinto tutti i duelli, si chiama Signor Nobile per motivi sconosciuti, è stato rubato da Tore Laconi. Colpo preparato con astuzia. Alano individuato da mesi. Fatto incontrare con lupa in calore. Sottratta lupa con alano arrapato. Giorni di sfregamento camicia di Tore su lupa in calore. Passaggio indifferente la sera, nell’unico tratto dove lasciavano il cane libero di correre, la salita dell’anfiteatro. L’alano ha seguito l’uomo che sapeva di lupa, l’ha seguito guardandolo torvo. L’uomo che sapeva di lupa ha corso più e meglio dell’alano. Lupa pronta a centro metri. Dopo il coito lupa sottratta. Non gliel’hanno più fatta vedere. Rubato da tre mesi, per due mesi addestrato, al sessantaquattresimo giorno mandato a combattere, è infogato di suo, non ha bisogno di lezioni. Sul dorso a destra un tratto di pelo rasato alla pelle, al centro la cicatrice di un morso.

Tore Laconi ha occhialini alla Lennon, tondi e d’oro, giacca di lino grigio, camicia nera abbottonata al collo, pantaloni di lino grigio appena più chiaro della giacca, scarpe rosse a punta. E’ ladro di cani, organizzatore di equivoche feste danzanti domenicali in club privati da nomi esotici, Bengala e Kabul, proprietario di una vecchia Lancia Fulvia secondo leggenda dotata di motore Porche, comunque veloce come un razzo e con balestre nuovissime. A cento nei vicoli di Quartu, con dietro pantera e sirena, l’abitacolo della Fulvia resta un magnifico gioiello da borghesia e operai d’Ottocento, un salotto silenzioso e ordinato, fatto con rispetto e amore per chi viaggia. Siccome volendo Tore potrebbe anche fare meccanico, carrozziere e gommista di professione, la Fulvia su qualunque tracciato vince, ha una tenuta di strada miracolosa e la leggenda dice che può fare i trecento. Ormai vive nascosta in un garage luogo di culto, essere ammessi a ammirare il mostro è privilegio di pochi. Esce ogni tanto di notte per farsi inseguire. Non è sbagliato dire che per il commissario Iannaccone, capo dei pulotti del palazzotto grigio a tre piani dalle serrande abbassate estate inverno, notte e giorno, proprio al centro del quartiere, chiamato dalla voce pubblica e dai giornali Forte Apache, per Iannaccone la preda più ambita non è Tore Laconi ma la Fulvia, darebbe dieci anni di vita per riuscire a sequestrarla e guidarla.

Tore è il miglior amico di Ruggero. Ruggero non condivide a nessuna delle passioni illegali di Tore.

Il mastino è orbo da un occhio. Testone che ciondola, mascella immobile. Il dorso è coperto di ferite. Si chiama Giustino e il nome ha una ragione. E’ imbattuto da tre mesi, due duelli a settimana. Un record assoluto al capolinea del 46. E’ nato nel quartiere, da due mastini rubati. Lui non è rubato, è nato libero, è libero, se vuole può andarsene, non lo farà, il padrone è padre e fratello, lo fa combattere perché fin da cucciolo Giustino ha mostrato il carattere del combattente. Crescendo ha acquistato tutta l’astuzia del padrone, Angelo, che lo vede come vede se stesso, lui e Giustino sono una cosa sola, il Signore li ha creati uno per l’altro, Angelo è convinto che Giustino sia invincibile, soltanto il cielo può rubarlo, una zingara ha predetto che la morte prenderà Giustino in un luogo d’erba sotto la pioggia, quando piove Giustino è tenuto in un sotterraneo enorme di cemento: un intero garage, trecento automobili, Giustino è custode e guardiano, riconosce tutti i padroni; i ladri sanno chi è, non si presentano, preferiscono andare in centro, fra le vetrine scintillanti, dove il denaro è nelle tasche come rugiada sull’erba al mattino: tanto e indifeso. Giustino è addestrato a fuggire la pioggia, sa che in caso di pioggia bisogna trovare subito riparo altrimenti Angelo sbava di rabbia, è l’unico motivo nella vita per cui sbava di rabbia, Giustino odia la pioggia, la sente nell’aria con giorni di anticipo e avvisa con ugiolii.

Angelo non ha gambe. Prima dell’incidente era alto uno e settanta. L’incidente non è stata colpa sua, attraversava in via Roma alle quattro del mattino uno e un ubriaco in Giulietta a centottanta l’ha falciato. Senza gambe, che potrebbe fare? Alleva cani da battaglia, ottimi antifurti per i cortili del quartiere. Quando ha un campione sotto mano ci scommette sopra. Prima dell’incidente aveva il sogno di fare il giustino in Calabria (e Giustino è il nome del campione). Ha cicatrici su tutto il torace, non lo copre neppure d’inverno, un po’ perché in città il freddo non sappiamo cos’è, un po’ per vanagloria. I pantaloni, lunghi e bianchi, in parte imbottiti di stracci, nascondono il vero punto del taglio. Angelo siede su una sedia a rotelle e ha un servo depravato che gli tiene la minca per pisciare, gliela scrolla e gli fa le folaghe mentre lui parla coi cani. Parla coi cani dall’alba al tramonto e di notte, eccetto le poche ore che dorme. Si sveglia parlando coi cani. Sogna di parlare coi cani. Con parole tedesche (imparate in un’altra vita da emigrato) e con le mani. Se entri nel suo cortile e sei indesiderato, lui fa un cenno, ti trovi spalle a terra inchiodato da sei molossi. Un altro cenno e ti squarciano la gola. Mai ha avuto bisogno di fare il primo cenno, tranne in addestramento. Chi vuoi che vada a disturbarlo? Iannaccone preceduto da quattro Rambo armati da sbarco in Vietnam. Per Angelo il carcere è più duro che per gli altri, c’è stato finora sette volte per un totale di dodici anni su quaranta di vita.

Tolgono i guinzaglio ai cani. Sale al cielo l’urlo di duecento uomini e donne discinti, tutti hanno bevuto molto, è il terzo incontro della serata, il pubblico si è scaldato, ora vuole il sangue vero, l’uccisione, il sacrificio. Tutti hanno scommesso, come al solito. Esistono due partiti: quello di chi pensa “questa è la volta buona Giustino muore” e quello di tutti gli altri “Giustino è invincibile”.

L' alano e il massino si guardano. 
Signor Nobile muove una zampa, Giustino non si muove. Lo guarda. Digrigna. 
Una donna di fronte a Tore e Ruggero ha una vestaglia nera lunga allacciata alta in vita con una sciarpa azzurra, una vestaglia leggera, estiva, senza bottoni, c’è scirocco che soffia caldo aprendo la vestaglia sotto la sciarpa, a mostrare il pelo del ventre, una foresta nera, lei di continuo si ricopre, la vestaglia di continuo si apre, il marito a fianco in canottiera e mutande se ne fotte. Lei è Gina, 50 anni, la cagna capace a letto di far cantare i morti. Lui è Muzio, padrone di quattro cagne, Gina è la migliore, per questo l’ha sposata e ha dato il nome ai sette figli. L’ultimo, Massimo, è diverso da tutti gli altri. Piccolo, minuto, non gioca a pallone, non scende ai duelli dei cani, non va in giro ogni notte in città a rubare o attaccar briga, studia come un demonio, ha undici anni e ne sa più di Giuliotto, il commercialista di via Is Maglias che partendo da una famiglia di ladri e diventato miliardario onestamente. 
Sull’onestamente c'è dibattito, nel quartiere. Massimo vuol diventare avvocato. 

Le fauci. 
La bava. 

L’alano si avventa, Giustino ruota su se stesso gli strappa le intragnas con un morso.

L’ululato del morente sale al cielo in un boato di trionfo. Muzio, padrone di cagne, ha puntato quattrocentomila su Giustino. Angelo due milioni e il grande Sandro Manca di Assemini ha puntato 10 milioni sull’alano. Tore ha vinto un milione. Sa che un giorno l’altro ruberà e porterà al capolinea del 46 l’uccisore di Giustino, ma a quel punto a furia di raddoppiare ogni giorno puntata il grande Sandro Manca di Assemini si sarà rovinato. Tore punta sempre sul vecchio campione. “Perdo una volta sola” pensa “tutte le altre vinco”.

 Il business (illegale) della lotta tra cani

Lotte tra cani

E’ la Cagliari dei quartieri popolari, quella violenta e senz’anima. Non c’è salvezza. Non è il proletariato pasoliniano, pieno di un vitalismo antiborghese, ancora non omologato, quello degli anni Cinquanta: qui vi è solo un bruciare la vita, gettare soldi, vedere l’essenza della violenza per provare l’emozione della morte, l’impudicizia non come natura, ma come perdita. C’è speranza? Massimo, lui figlio “strano” perché non si rotola nel fango, come quello  Giuliotto. Chissà se vero. La prosa è nervosa, ipotattica, nominale: quasi a rappresentare il respiro affannato sia dei cani che degli astanti, l’ululato del morente, il boato del pubblico.

E’, in conclusione, Cagliari la vera protagonista di questo romanzo, quella di Castello e di Is Mirrionis, del Lido e di Buoncammino, una Cagliari da Atzeni amata visceralmente, ma che lo ha respinto; e i suoi ricordi ci portano verso una città fatta di persone, da lui descritta magistralmente: il sottoproletariato che nottetempo si appassiona alla lotta dei cani, il mondo giovanile con le sue inquietudini e le confuse aspirazioni artistiche, la scuola che consente la frequentazione di compagni provenienti da ceti più elevati, l’ambiente giornalistico e quello politico, ipocriti e cinici, l’universo quasi sommerso dei piccoli locali di ritrovo dove si accendono e si spengono sogni e speranze.

Una città viva da cui il protagonista esce sconfitto, schiacciato, come tanti giovani cresciuti nella speranza di un mondo migliore che ha visto seppellire i suoi sogni di speranza e di rigenerazione e ne esce col gusto amaro della sconfitta.

La Cagliari che non c’è più: anni Settanta, bambini giocano in strada a Is Mirrionis

Bambini a Is Mirrionis negli anni ’70

Proprio perché quasi “espulso” dalla sua terra, quindi, sul ponte della nave, dopo aver visto allontanarsi le umbertine case di via Roma col cubo di cemento e vetro, fino a dissolversi, lasciando spazio alla memoria; solo dopo quando tra Sergio e la sua patria si pone il mare, la lontananza, solo allora può vederla con occhi diversi, di chi vuole ricostruirla, riscrivendone la storia sotto il segno del mito. E lo fa attraverso il romanzo, uscito postumo nel 1996, con Passavamo sulla terra leggeri:

AVEVO OTTO ANNI 

Avevo otto anni, non sapevo nulla della vita, avevo ascoltato la storia, non l’avevo capita, anche ora che la dico non so che senso abbia. Non conoscevo il significato delle parole eterno e increato (forse lo intuivo con vaghezza) rubate a conversazioni famigliari, mi gloriavo di essere ateo. Nell’isola era sinonimo di bandito, a otto anni ero abituato a essere guardato con sospetto, con diffidenza, con paura – molto tempo dopo, scoprendo di essere di stirpe ebrea marrana, oltre che sarda e genovese con sfumature arabe e catalane, ho immaginato che il sangue degli antichi erranti perseguitati vivesse in me facendomi apparire la diversità dagli altri come abituale e perciò non spaventandomi della solitudine che ne veniva, di rado mitigata da amici sempre esclusi dalla comunità perché diversi: scemi, figli di donne non sposate e di bagassa, istrangios e eversori.

Quasi volesse isolarsi da quel “sardismo” incontaminato che così tanto aveva sottolineato la purezza dell’etnia, Atzeni, rivendica il suo essere figlio di tante etnie, scoprendo che essere sardo non vuol dire esclusione ma inclusione di tutte le culture che hanno contaminato e arricchito l’isola. Tuttavia questa contaminazione, ha crato una nuova etnia, capace ora di sapersi raccontare,. Infatti, secondo Atzeni, manca un cantore che sappia “tramettere” attraverso la parola la storia del popolo, è costui è il personaggio di Antonio Setzu. Attraverso il suo racconto si evince che l’essere oggi è cercare di capire il passato, ma il passato è memoria non realtà: Antonio Setzu diventa il bardo mitico che racconta una Sardegna precoloniale, e la racconta come una necessità di una nuova identità.Passavamo sulla terra leggeri - Sergio Atzeni - Narrativa Italiana - Narrativa - Libreria - dimanoinmano.it

PASSAVAMO SULLA TERRA LEGGERI

Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.

A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti.

E’ la suggestione ricevuta del grande romanzo sudamericano: infatti Manuel Scorza, Vargas Llosa, Garcia Marquez erano riusciti a raccontare quasi “magicamente” la realtà coloniale dei loro popoli. Anche Atzeni prova a tessere un racconto in cui ancora una volta è protagonista la memoria, una memoria però storica, non individuale, dove la voce fuori del tempo racconta la storia mitica di una terra da prima dell’uomo fino alla civiltà. La storia perde i suoi connotati e diventa racconto mitico della Sardegna visto attraverso la dialettica di montagna e mare, di popoli diversi e di scontri di culture.Bellas Mariposas - Film (2012) - MYmovies.it

Ancora un racconto, anch’esso uscito postumo nel 1996, a testimoniare la capacità di Sergio Atzeni di innovarsi, come mostrano queste poche righe di Bellas mariposas:

IL GIORNO DELL’AMMAZZAMENTO DI GIGI

Era molto tempo che Tonio lo minacciava ma credevo che scherzava

che lo odia lo so si vede da come lo guarda quando lo incontra e perché cerca sempre occasione di arropparlo di mala manera

ma credevo che scherzava dicendo Un giorno quello lo uccido

e invece il 3 di agosto è stato il giorno dell’ammazzamento di Gigi del quinto piano l’innamorato mio

non si è mai permesso di allungare le mani se provava gliele tagliavo

se ti fai toccare l’albicocca da bambina finisci come mia sorella Mandarina pringia a tredici anni adesso ne ha venti e ha tre figli batte in casa privata non è lo schifo della strada ma sempre ti devi ciucciare minca purescia di qualche pezzemmerda

non mi interessa voglio diventare rockstar dopo che sarò rockstar sceglierò l’uomo

per ora meglio vergine e ogni tanto mi pensavo che l’uomo per dopo che sarò rockstar magari sarà proprio Gigi del quinto piano perché sono sicura che mai mi mette le mani addosso quando dico no se non vuole che lo getto dalla finestra del quinto piano magari sposata e rockstar abiteremo al ventesimo voglio un uomo che se rompe lo butto giù dal balcone e non torna a chiedermi conti

nessuno deve chiedermi conti cosa vuole questa gente?

Mio padre pezzemmerda che conti chiede? Dice Hai dodici anni Caterina devi guadagnarti il pane

Io ti ho chiesto di farmi nascere in questa casa proprio sotto signora Sias in questo cazzo di palazzo in questo cazzo di quartiere? Io ti ho chiesto di farmi nascere?

Tu mi hai chiamato e neppure sapevi che mi stavi chiamando e per dodici anni mi hai fatto stare in questa casa con te tua moglie e tutti i miei fratelli e sorelle sotto signora Sias che caga ogni giorno alle tre del mattino

uno pensa vabbé la rottura quando tira l’acqua però meglio che con le finestre in piazza e i motorini che impennano sui marciapiedi da mezzanotte alle sei e se ti affacci a protestare ti sparano in fronte con le Colt Magnum

se mi affaccio io nessuno spara ma lanciano petali di rose

a me i motorini piacciono e anzi la prima cosa da fare appena compio quattordici anni è cuccarmi un Fantic 313 e andare da mezzanotte alle sei a impennare sui marciapiedi tutto attorno alla piazza rombando tenendovi svegli che tanto per voi è come stare addormentati non vi accorgete della differenza

chi dice che signora Sias è soltanto la rottura quando tira l’acqua non ha mai vissuto a casa mia

la cagata di signora Sias è il cominciamento del giorno e ieri 3 di agosto

dell’ammazzamento di Gigi del quinto piano l’innamorato mio

Il racconto è di Caterina, giovanissima ragazza che illustra ad un anonimo ascoltatore le sue avventure con l’amica coetanea Luna nel giorno 3 agosto in cui avviene l’omicidio di Gigi. Pertanto il linguaggio con cui descrive le sue avventure cagliaritane è quello di una ragazzina dei quartieri popolari (in questo caso una immaginaria Santa Lamanera, che potrebbe nascondere o i palazzoni di Sant’Elia o il quartiere degradato di San Michele), frantumato in rapide espressioni (come spesso in Atzeni narratore) fatto di slang giovanile e di un cagliaritano volgare e plebeo. La breve narrazione proprio in quanto auto diegetica ci lascia intendere lo sguardo di chi vive il mezzo alla violenza ma proprio perché vivendola l’appiattisce in un quotidiano vissuto, dove anche i desideri “femminili” appaiono desiderati, ma visti ancora con una certa forma di paura.

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Le due protagoniste del film di Mereu tratto dal racconto di Atzeni

Non c’è azione e non c’è finale: il risveglio, gli uomini nullafacenti, donne impudiche irretite da giovani vogliosi, pedofili e padri violenti: tutto descritto come fosse normale, così come normale viene descritto il momento lirico del mare o il momento magico dell’arrivo della “coga” e dei “suoi gatti” (la strega sarda): negli occhi fanciulleschi di una ragazzina di tredici anni tutto è visto attraverso una cultura popolare rimasticata e rivista a proprio uso e consumo nei quartieri popolari dove il melting-pop linguistico e culturale diventa l’assoluto ed unico mezzo di comunicazione e sapere.

Il tutto viene raccontato ad uno che sa ascoltare (Sergio Atzeni stesso)

e tu ora mi guardi allo stesso modo lo so cosa vuoi e cosa pensi ma non io mi sei simpatico questa storia la racconto a te che hai buona memoria e dicono che sei buono a raccontare e scrivere manka sias unu barabba de Santu Mikeli ma altro da me non prendi non guardarmi più con quegli occhi hai capito? Non io cercati qualcun’altra io prima divento rockstar poi cerco marito non mi interessano i giochi porchi

forse lo stesso che con un Aiwa, l’orecchio forato, andava tra le case di Guspini a raccogliere testimonianze di Tullio Saba.

Vogliamo concludere con quanto dice di lui Marci (docente di letteratura italiana contemporanea dell’Università di Cagliari): “Lo rimpiangiamo profondamente, perché era riuscito a capire il suo mondo e cercava di descriverlo in una lingua intellegibile al pubblico ampio dei lettori”.

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA

Caratteri generali

Caratteri generali

La prima guerra mondiale costituisce una vera e propria frattura nella storia che si può così sintetizzare:

  • Fine dell’eurocentrismo economico e politico e l’affacciarsi nella storia di due superpotenze, ideologicamente contrapposte: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica;
  • L’affacciarsi delle masse come soggetti politici;
  • I totalitarismi (fascismo in Italia e nazismo in Germania).

Tutta l’Europa, all’indomani della guerra, si leccava le ferite causate da un ingente sforzo economico per farvi fronte, dai milioni di morti, mutilati e reduci, da un impossibile ritorno alla “normalità”, se per normalità s’intende la situazione prebellica che aveva caratterizzato la “belle epoque”.

A pagare le maggiori conseguenze dell’esito della guerra fu la Germania, alla quale, soprattutto per volontà francese, venne attribuita l’intera responsabilità del conflitto. Così i trattati di pace, più che avviarsi verso un equilibrato sistema di rapporti tra i paesi europei, determinarono sentimenti di rivincita. Se la situazione parve lentamente migliorare tra il ’24 e il ’28, per una buona congiuntura economica, foriera di un rasserenamento politico fra le nazioni, il crack delle banche americane del ’29, fece di nuovo precipitare la situazione, creando così le premesse, intorno agli anni Trenta, alla nascita del nazismo che condurrà l’Europa alle seconda guerra mondiale.

Altro fattore destabilizzante fu la Rivoluzione bolscevica. L’incapacità del governo zarista di offrire un sia pur minimo miglioramento alla masse contadine che vivevano ancora in un’economia semifeudale, diede forza agli esponenti più radicali che si posero alla testa di una rivoluzione che costrinse la Russia ad uscire dal conflitto con enormi conseguenze sul piano territoriale ed economico. L’esempio russo ebbe un impatto emotivo e politico che incise fortemente all’interno degli stati nazionali europei. Pur consapevoli della difficile esportazione della dittatura del proletariato, quest’ultima agì profondamente: da un lato (anche per l’indeterminatezza con cui filtravano le notizie) come modello, se non come mito, a cui masse di operai, nonché di intellettuali, guardavano con fiducia; dall’altro, per reazione, il “pericolo rosso” coagulò intorno a sé un fronte, seppur non omogeneo, che andava dal piccolo-borghese, minacciato dal basso, alle gerarchie ecclesiastiche, fino ai grandi proprietari terrieri e agli industriali.

Se gli Stati Uniti avevano promosso con la loro entrata in guerra l’idea di una Europa che si articolasse al suo interno in una prospettiva liberal-democratica, promuovendo, sin dal ’18 la nascita della Società delle Nazioni, la miopia parlamentare americana, diede luogo ad una nuova forma di isolazionismo.

Situazione in Italia

L’Italia uscì dalla prima guerra mondiale profondamente cambiata. L’assetto sociale, ormai, aveva assunto caratteri massificati che convogliavano in una compatta sindacalizzazione, in una forte affermazione del Partito Socialista (che d’altra parte visse, nel ’21 una drammatica scissione tra riformisti e massimalisti guidati rispettivamente da Turati e da Gramsci) e nella nascita del Partito Popolare da parte di Sturzo, approvato ed appoggiato dalle gerarchie ecclesiastiche.

Ma il ceto che più di ogni altro cambierà le sorti dell’Italia e che la condurrà, con cieca fiducia, alla dittatura, sarà la piccola borghesia. Quest’ultima visse, negli ultimi anni, una drammatica ambiguità, un senso di smarrimento, determinato dall’accettazione passiva del sistema capitalistico degenerato in un affarismo senza scrupoli e da un’invidia e paura profonda verso il proletariato organizzato. Per meglio dire, il piccolo borghese si sentiva schiacciato da una parte dai “pescecani” arricchitisi con loschi affari durante la guerra, dall’altra dalla massa dei lavoratori che, avanzando delle richieste di miglioramento salariale o, addirittura, prospettando, sul modello dell’URSS, la “dittatura del proletariato”, gli rubava quello che per l’“eroismo di guerra”, gli spettava di diritto. Portavoce del suo malcontento divenne Benito Mussolini, già socialista, che nel 1919 fondò a Milano i “Fasci Italiani di Combattimento”.

Il Patto di Londra aveva assegnato la costa dalmata all’Italia e la città di Fiume alla Croazia. Al termine della guerra la città istriana votava per l’annessione all’Italia, mentre la costituenda Jugoslavia reclamava per sé la costa dalmata. Sul tavolo di pace a Parigi la delegazione italiana rivendicava ambedue i territori: uno per il principio di autodeterminazione dei popoli (rati-ficato alla fine del conflitto), l’altro per il rispetto del Patto di Londra. Il presidente americano, non avendo sottoscritto l’accordo italo-inglese, invitava il popolo italiano a rinunciare alla Dalmazia. Il presidente del consiglio italiano, irritato da ciò, andò a Roma e chiese la fiducia del governo, ottenuta a grandissima maggioranza. L’allontanamento dal tavolo delle trattative risultò, tuttavia, esiziale per l’Italia: dalla spartizione degli ex possedimenti tedeschi in terra d’Africa venne totalmente esclusa. Ciò determinò una recrudescenza di sentimenti sciovinistici, animati dal mito della “vittoria mutilata” che portò a grandi dimostrazioni di piazza sotto il segno del “nazionalismo”. A tali dimostrazioni si aggiunsero e, spesso, confluirono, quelle operaie e contadine, determinate dalle difficilissime condizioni economiche in cui l’Italia si trovò all’indomani della guerra.

Queste ultime assunsero, in alcune regioni, vere e proprie forme miranti a preparare una rivoluzione ed ebbero particolare vigore nel biennio 1919-1920 (“biennio rosso”) in cui si procedette all’esproprio di terre, occupazioni di fabbriche e saccheggi di negozi e forni.

La difficile situazione italiana veniva anche alimentata dalle azioni di D’Annunzio che, con un gesto clamoroso, occupò Fiume (precedentemente eletta a città libera) nel 1919, da cui venne ricacciato l’anno successivo dal governo italiano per non incrinare i rapporti internazionali precedentemente raggiunti.

E’ evidente come tutto ciò determinasse il tramonto del liberalismo politico di tipo ottocentesco e l’affacciarsi di un conflitto sociale completamente nuovo i cui protagonisti saranno i partiti di massa socialisti e popolari e il nascente, ma non ancora forte, movimento fascista, guidato da Benito Mussolini.

Il vecchio Giolitti venne richiamato per la quinta volta per salvare le sorti del liberalismo: ma al di là dei risultati positivi da lui raggiunti sul terreno diplomatico, non riuscì a realizzare il suo disegno.

L’opera di mediazione da lui condotta nei precedenti governi fra le diverse classi sociali, questa volta fallì: il padronato industriale e la FIOM (Federazione Italiana Operai Metallurgici), infatti, non riuscirono a portare a termine un accordo per il rinnovo del contratto. Gli operai, allora, passarono decisamente all’attacco, occupando le fabbriche: lasciati soli dal Partito Socialista, non poterono che dichiarare il loro fallimento. E fu allora il padronato a mettere in atto la sua controffensiva: gli industriali e i capitalisti agrari armarono la mano allo squadrismo fascista che, con estrema violenza, cercò di liquidare le organizzazioni operaie e contadine. I socialisti, abbandonati dalle istituzioni, si mostrarono incapaci a offrire una forte risposta e consumarono la loro scissione nel Congresso di Livorno in Partito Socialista (riformisti) e Partito Comunista (massimalisti) nel 1921.

Giolitti, stanco e amareggiato, si ritirò e i governi a lui succedutisi (Bonomi e Facta) si mostrarono incapaci di affrontare la situazione.

Al tentativo di “sciopero legalitario” proposto dai partiti della sinistra per accusare i metodi illegali dei rappresentanti del partito di Mussolini, il PFN (Partito Nazionale Fascista, fondato nel 1921) rispose con un’offensiva a tutto campo, con violenza inaudita, sia nelle piazze che su un piano istituzionale.

I capi del partito, infatti, riunitisi a Napoli, marciavano verso Roma per conquistare il potere; Facta ottenne dal re la promulgazione dello stato d’assedio che Vittorio Emanuele III, il giorno seguente, non ratifica. Di fronte a tale gesto al residente del Consiglio non rimase che dimettersi. Il nostro monarca accettò le dimissioni e quindi offrì l’incarico di formare un nuovo governo a Benito Mussolini.

Una volta al potere, Mussolini dichiarò di voler reprimere l’illegalità, sotto qualsiasi forma essa si fosse presentata. La “normalizzazione” che egli tuttavia perseguiva, non toccava lo squadrismo che continuava indisturbato la sua azione violenta contro le associazioni di sinistra, ma soprattutto riguardava il sovvertimento delle istituzioni liberali e l’erezione progressiva del fascismo in un regime che, per poter essere accettato, doveva pagare lo scotto a quelle classi che fino ad allora lo avevano sostenuto. Le prime scelte politiche, infatti, riguardavano una serie di provvedimenti favorevoli ai capitalisti e la continua pressione verso i sindacati che dovevano, per amore o per forza, accettare l’abbassamento dei salari.

Certo tale politica, aumentando la produttività a scapito delle classi più deboli, riuscì a determinare un incremento industriale notevole che, nell’immediato, serviva a rafforzare il fascismo stesso.

D’altra pare Mussolini, per consolidare ulteriormente il suo potere, aveva bisogno di conquistare il consenso dei cattolici che ancora si riconoscevano nel Partito Popolare. Bastava rompere il patto di solidarietà fra la Chiesa ed il partito, cosa che Mussolini fece, alleandosi con la destra cattolica che spinse lo stesso fondatore del Partito Popolare, don Luigi Sturzo, ad abbandonare l’agone politico.

Allargatasi quindi la base su cui poggiava il suo potere, Mussolini indisse nuove elezioni, che si svolsero in un clima d’intimidazione e violenza. Otte-nuta la maggioranza nel paese, il capo del fascismo vide tuttavia vacillare il suo potere quando il deputato socialista, Matteotti, che aveva denunciato alla Camera i metodi illegali con i quali si erano svolte le consultazioni elettorali, venne ucciso dagli squadristi. L’emozione nel paese fu grande ed i partiti d’opposizione fecero quadrato abbandonando l’aula parlamentare, sperando che in questo modo il re intervenisse per revocare il potere a Mussolini.

Ciò non avvenne, anzi il fascismo passò ad una violenta controffensiva di piazza: Mussolini, spinto dagli eventi e assenti gli aventiniani, dichiarò alla Camera la cessazione di ogni garanzia liberale.

Il fascismo si trasforma quindi in un regime dittatoriale (1925).

Gli atti di tale regime furono:

  • soppressione della libertà di stampa;
  • sostituzione dei sindaci e dei consigli comunali con podestà e consulte di nomina governativa;
  • proibizione del diritto di sciopero;
  • istituzione delle “corporazioni” che, rappresentando le categorie econo-miche nella loro totalità, privavano i lavoratori dei sindacati;
  • istituzione del confino di polizia e del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato;
  • reintroduzione della pena di morte.

L’opposizione fu costretta a vivere nella clandestinità o a emigrare: il nucleo più consistente di essa, che si riconosceva nei partiti socialisti, comunisti e liberali, dirigeva la sua lotta da Parigi.

Un punto a favore del regime Mussolini lo conseguì con i Patti Lateranensi (1929), con i quali riuscì a legare a sé l’intera gerarchia cattolica.

Una serie di problemi il duce dovette affrontarli con la svalutazione della lira verificatasi intorno al 1925. Se la politica economica aveva registrato, dal ’22 al ’25, buoni risultati, permettendo un incremento delle esportazioni, il deprezzamento della lira fece sì che, tuttavia, le materie importate costassero di più. Bisognava, quindi, “salvare la lira” e per fare ciò la cosa più semplice che il duce attuò fu la riduzione dei salari (dal 12% al 15%) e la creazione di grandi trust monopolistici che, se aiutarono il grande capitale, grazie anche all’autarchia, risultò lesiva per le piccole e medie imprese.

Fondamentale risultò anche la “battaglia del grano” che, se da una parte riuscì ad evitare l’importazione di questo fondamentale alimento, ne aumen-tò considerevolmente il prezzo. Nel 1928 iniziò il progetto di bonifica delle zone paludose, non sempre portato a buon fine, in quanto lasciato in mano ai privati che, una volta ottenuti i sovvenzionamenti statali, procedettero con scarsa produttività. Diverso fu il caso dell’agro pontino che, fra l’altro, riuscì ad alleviare la disoccupazione allora imperante per la crisi sopra descritta.

L’altra arma usata dal regime per affrontare il problema della disoccupazione fu lo sviluppo delle opere pubbliche, con lavori di tipo strutturale che sarebbero in seguito serviti a sviluppare l’economia del paese, ma soprattutto a porre le premesse per il futuro riarmo dell’Italia. Infatti l’autarchia economica non poteva che spingere il governo verso una politica estera di tipo imperialistico. Essa venne infatti inaugurata con l’impresa africana, per poi proseguire con la conquista dell’Albania ed il tentativo d’occupazione della Grecia.

Risulta evidente che tale politica mal si accordava con le difficoltà economiche che lo stato fascista cercava di nascondere.

Per quanto riguarda l’aspetto culturale è evidente che, nel momento in cui il fascismo si ergeva a vero e proprio regime, non poteva mancare un attento controllo che si focalizzava su quelle forme che maggiormente potevano avere influenza sulle masse, in primo luogo la stampa, in seguito radio e cinema, nonché la formazione del consenso attraverso il GUF (Gruppi Universitari Fascisti).

Intanto nel ’25 sul Popolo d’Italia, il filosofo Giovanni Gentile elaborava un manifesto nel quale cercava di indirizzare e motivare gli intellettuali a farsi “propagatori” del verbo fascista (tra i firmatari alcuni nomi eccellenti come Luigi Pirandello e Giuseppe Ungaretti).

MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI FASCISTI

Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di significato e interesse per tutte le altre.

Le Origini

Le sue origini prossime risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e risoluti a combattere energicamente la politica demosocialista allora imperante. La quale della grande guerra, da cui il popolo italiano era uscito vittorioso ma spossato, vedeva soltanto le immediate conseguenze materiali e lasciava disperdere se non lo negava apertamente il valore morale rappresentandola agli italiani da un punto di vista grettamente individualistico e utilitaristico come somma di sacrifici, di cui ognuno per parte sua doveva essere compensato in proporzione del danno sofferto, donde una presuntuosa e minacciosa contrapposizione dei privati allo Stato, un disconoscimento della sua autorità, un abbassamento del prestigio del Re e dell'Esercito, simboli della Nazione soprastanti agli individui e alle categorie particolari dei cittadini e un disfrenarsi delle passioni e degl'istinti inferiori, fomento di disgregazione sociale, di degenerazione morale, di egoistico e incosciente spirito di rivolta a ogni legge e disciplina. 
L'individuo contro lo Stato; espressione tipica dell'aspetto politico della corruttela degli anni insofferenti di ogni superiore norma di vita umana che vigorosamente regga e contenga i sentimenti e i pensieri dei singoli. Il Fascismo pertanto alle sue origini fu un movimento politico e morale. La politica sentì e propugnò come palestra di abnegazione e sacrificio dell'individuo a un'idea in cui l'individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà e ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tradizione perciò e missione.

Il Fascismo e lo Stato

Di qui il carattere religioso del Fascismo. Questo carattere religioso e perciò intransigente, spiega il metodo di lotta seguito dal Fascismo nei quattro anni dal ’19 al ’22. I fascisti erano minoranza, nel Paese e in Parlamento, dove entrarono, piccolo nucleo, con le elezioni del 1921. Lo Stato costituzionale era perciò, e doveva essere, antifascista, poiché era lo Stato della maggioranza, e il fascismo aveva contro di sé appunto questo Stato che si diceva liberale; ed era liberale, ma del liberalismo agnostico e abdicatorio, che non conosce se non la libertà esteriore. Lo Stato che è liberale perché si ritiene estraneo alla coscienza del libero cittadino, quasi meccanico sistema di fronte all’attività dei singoli. Non era perciò, evidentemente, lo Stato vagheggiato dai socialisti, quantunque i rappresentanti dell’ibrido socialismo democratizzante e parlamentaristico, si fossero, anche in Italia, venuti adattando a codesta concezione individualistica della concezione politica. Ma non era neanche lo Stato, la cui idea aveva potentemente operato nel periodo eroico italiano del nostro Risorgimento, quando lo Stato era sorto dall’opera di ristrette minoranze, forti della forza di una idea alla quale gl’individui si erano in diversi modi piegati e si era fondato col grande programma di fare gli italiani, dopo aver dato loro l’indipendenza e l’unità.

Gioventù e squadrismo

Contro tale Stato il Fascismo si accampò anch’esso con la forza della sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un numero rapidamente crescente di giovani e fu il partito dei giovani (come dopo i moti del ’31 da analogo bisogno politico e morale era sorta la “Giovane Italia” di Giuseppe Mazzini). Questo partito ebbe anche il suo inno della giovinezza che venne cantato dai fascisti con gioia di cuore esultante! E cominciò a essere, come la “Giovane Italia” mazziniana, la fede di tutti gli Italiani sdegnosi del passato e bramosi del rinnovamento. Fede, come ogni fede che urti contro una realtà costituita da infrangere e fondere nel crogiolo delle nuove energie e riplasmare in conformità del nuovo ideale ardente e intransigente. Era la fede stessa maturatasi nelle trincee e nel ripensamento intenso del sacrificio consumatosi nei campi di battaglia pel solo fine che potesse giustificarlo: la vita e la grandezza della Patria. Fede energica, violenta, non disposta a nulla rispettare che opponesse alla vita, alla grandezza della Patria. Sorse così lo squadrismo. Giovani risoluti, armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente, si misero contro la legge per instaurare una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare il nuovo Stato. Lo squadrismo agì contro le forze disgregatrici antinazionali, la cui attività culminò nello sciopero generale del luglio 1922 e finalmente osò l’insurrezione del 28 ottobre 1922, quando colonne armate di fascisti, dopo avere occupato gli edifici pubblici delle province, marciarono su Roma. La Marcia su Roma, nei giorni in cui fu compiuta e prima, ebbe i suoi morti, soprattutto nella Valle Padana. Essa, come in tutti i fatti audaci di alto contenuto morale, si compì dapprima fra la meraviglia e poi l’ammirazione e infine il plauso universale. Onde parve che a un tratto il popolo italiano avesse ritrovato la sua unanimità entusiastica della vigilia della guerra, ma più vibrante per la coscienza della vittoria già riportata e della nuova onda di fede ristoratrice venuta a rianimare la Nazione vittoriosa sulla nuova via faticosa della urgente restaurazione delle sue forze finanziarie e morali.

Il governo fascista

Lo squadrismo e l’illegalismo cessavano e si delineavano gli elementi del regime voluto dal Fascismo. Tra il 29 e il 30 ottobre ripartirono da Roma nel massimo ordine le cinquantamila camicie nere che dalle provincie avevano marciato sulla Capitale, partirono, dopo aver sfilato innanzi a S. M. il Re, partirono ad un cenno del loro Duce, divenuto Capo del Governo e anima della nuova Italia auspicata dal Fascismo.

(…)

Ma gli stranieri, che sono venuti in Italia, sorpassando quella cerchia di fuoco creata intorno all’Italia fascista dai tiri di interdizione con cui una feroce propaganda cartacea e verbale, interna ed esterna, di italiani e non italiani, ha cercato di isolare l’Italia fascista, calunniandola come un paese caduto in mano all’arbitrio più violento e più cinico, negatore di ogni civile libertà legale e garanzia di giustizia; gli stranieri che hanno potuto vedere coi propri occhi questa Italia, e udire coi propri orecchi i nuovi italiani e vivere la loro vita materiale e morale, hanno cominciato dall’invidiare l’ordine pubblico oggi regnante in Italia, poi si sono interessati allo spirito che si sforza ogni giorno più d’impossessarsi di questa macchina così bene ordinata e han cominciato a sentire che qui batte un cuore pieno di umanità, quantunque scosso da un’esasperante passione patriottica; giacché la Patria del Fascista è pure la Patria che vive e vibra nel petto di ogni uomo civile, quella Patria cui il sentimento dappertutto si è riscosso nella tragedia della guerra e vigila, in ogni paese, e deve vigilare a guardia di interessi sacri, anche dopo la guerra; anzi per effetto della guerra, che nessuno più crede l’ultima.Codesta Patria è pure riconsacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà, nel flusso e nella perennità delle tradizioni. Ed è scuola di subordinazione di ciò che è particolare ed inferiore a ciò che è universale ed immortale, è rispetto della legge e disciplina, è libertà ma libertà da conquistare attraverso la legge, che si instaura con la rinuncia a tutto ciò che è piccolo arbitrio e velleità irragionevole e dissipatrice. È concezione austera della vita, è serietà religiosa, che non distingue la teoria dalla pratica, il dire dal fare, e non dipinge ideali magnifici per relegarli fuori di questo mondo, dove intanto si possa continuare a vivere vilmente e miseramente, ma è duro sforzo di idealizzare la vita ed esprimere i propri convincimenti nella stessa azione o con parole che siano esse stesse azioni, impegnando chi le pronuncia e impegnando con lui il mondo stesso di cui egli è parte viva e responsabile in ogni istante del tempo, in ogni segreto respiro della coscienza. (…)

Il Manifesto di Gentile assegna una missione che potremo definire “religiosa” al fascismo; egli infatti, mutuando il concetto di Stato dal pensiero hegeliano, e dando ad esso il significato di stato etico, subordina l’interesse e la libertà individuale a quella dello stato. Dirà Gentile: «Il fascismo non vede altro individuo soggetto di libertà che quello che sente pulsare nel proprio cuore l’interesse superiore della comunità e la volontà sovrana dello Stato». Interessante inoltre, ci sembra il richiamo che il filosofo vuole sottolineare tra il Risorgimento ed il fascismo, mettendo in relazione il movimento mazziniano della “Giovane Italia” con le Avanguardie fasciste in camicia nera, insistendo sulla loro poca numerosità, ma capaci di portare il “Verbo” alle masse.

La risposta a tale manifesto fu quella di Croce, importantissimo filosofo napoletano, che, usando come strumento anche l’ironia, rintuzza con efficacia alle affermazioni un po’ “verbose” come lui stesso afferma, del suo collega Giolitti. Il suo manifesto venne pubblicato lo stesso anno sulle riviste “Il Mondo” e “Il Popolo” (tra i firmatari Luigi Einaudi, Aldo Palazzeschi e Eugenio Montale) 

MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI ANTIFASCISTI

Gl’intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto agl’intellettuali di tutte le nazioni per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista. Nell’accingersi a tanta impresa quei volenterosi signori non debbono essersi rammentati di un consimile famoso manifesto, che, agli inizî della guerra europea, fu bandito al mondo dagli intellettuali tedeschi: un manifesto che raccolse, allora, la riprovazione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore. E, veramente, gl’intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell’arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l’ascriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l’opera dell’indagine e della critica, e con le creazioni dell’arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale, affinché, con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie. Varcare questi limiti dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza, è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi neppure un errore generoso. E non è nemmeno, quello degl’intellettuali fascisti, un atto che risplenda di molto delicato sentire verso la Patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni. Nella sostanza, quella scrittura, è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocinî: come dove si prende in iscambio l’atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo democratico del secolo decimonono, cioè l’antistorico e astratto e matematico democraticismo, con la concezione sommamente storica della libera gara e dell’avvicendarsi dei partiti al potere, onde, mercé l’opposizione, si attua, quasi graduandolo, il progresso; o come dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degl’individui al Tutto, quasi che sia in questione ciò, e non invece la capacità delle forme autoritarie a garantire il più efficace elevamento morale […]. Ma il maltrattamento della dottrina e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell’abuso che vi si fa della parola «religione»; perché, a senso dei signori intellettuali fascistici, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte, la quale le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; e ne recano a prova l’odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani. Chiamare contrasto di religione l’odio e il rancore che si accendono contro un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere d’italiani e li ingiuria stranieri e in quest’atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono proprî di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l’animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto perfino ai giovani dell’Università l’antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro gli altri in sembianti ostili: è cosa che suona, a dir vero, come un’assai lugubre facezia. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto;  e d’altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all’autorità e di demagogismo, di professata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamento alla Chiesa cattolica, di aborrimento della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo. E, se anche taluni plausibili provvedimenti sono stati attuati o avviati dal governo presente, non è in essi nulla che possa vantare un’originale impronta, tale da dare inizio di un nuovo sistema politico, che si denomini dal fascismo. Per questa caotica e inafferrabile «religione» non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, dell’Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l’educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l’Italia operarono, patirono e morirono; e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri italiani avversarî, e gravi e ammonitori a noi perché teniamo salda in pugno la loro bandiera. La nostra fede non è un’escogitazione artificiosa e astratta o un invasamento di cervello, cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale e morale. Ripetono gl’intellettuali fascisti, nel loro manifesto, la trista frase che il Risorgimento d’Italia fu l’opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale; e anzi par quasi che si compiacciano della odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d’Italia di fronte ai contrasti tra il fascismo e i suoi oppositori. I liberali di tal cosa non si compiacquero mai, e si studiarono a tutto potere di venire chiamando sempre maggior numero d’italiani alla vita pubblica; e in questo fu la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atti, come la largizione del suffragio universale. Perfino il favore, col quale venne accolto da molti liberali, nei primi tempi, il movimento fascista, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercè di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica, forze di  rinnovamento e (perché no) anche forze conservatrici. Ma non fu mai nei loro pensieri di mantenere nell’inerzia e nell’indifferenza il grosso della nazione, appagandone taluni bisogni materiali, perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito le ragioni del Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei governatori assolutistici e quietistici. Anche oggi, né quell’asserita indifferenza e inerzia, né gli impedimenti che si frappongono alla libertà, c’inducono a disperare o a rassegnarci. Quel che importa, è che si sappia ciò che si vuole e che si voglia cosa d’intrinseca bontà. La presente lotta politica in Italia varrà, per ragione di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amara con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l’Italia doveva percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile.

Se in un primo momento Benedetto Croce aveva ritenuto il fascismo un argine contro la minaccia comunista, si riteneva certo che poi lo stesso sarebbe rientrato nell’alveo del liberalismo e quindi, in parte, neutralizzato. Capito il fallimento di tale prospettiva, si era ritirato e dedicato agli studi. D’altra parte si racconta che il cavaliere Mussolini, chiese ai suoi: “Quante copie tira ‘La Critica’?. “Millecinquecento”  gli risposero. “Allora lasciatelo perdere!”. Noi sappiamo e ci piace immaginare che la sua statura internazionale sconsigliasse a Mussolini stesso di perseguitarlo.

Per quanto riguarda il Manifesto degli intellettuali antifascisti, da lui redatto, egli affermava il diritto della cultura a indagare e criticare le opere di creazione artistica, affinché tutti potessero elevarsi alla più alta sfera spirituale. Allo stesso modo comparare l’ideologia fascista a una religione e legittimare lo squadrismo, cioè l’arbitrio e la violenza politica, riteneva fossero di per sé intollerabili perché privavano la dialettica politica, la sola in grado di comporre una migliore società civile; d’altra parte piegare anche la creazione artistica è come privare l’artista della necessaria libertà: per Croce arte e politica sono necessariamente separate, perché laddove venisse meno la libertà di pensiero ne consegue l’impossibilità di fare arte. In lui si sente il concetto di “arte pura” di cui la rivista “La Ronda” si fece portatrice.

Per quanto riguarda la letteratura, il fascismo trova un po’ di difficoltà a trovare un indirizzo che meglio lo possa rappresentare, e se mai uno ce n’è si tratta certamente di paraletteratura:

Liala, scrittrice di enorme successo commerciale (fino agli anni Settanta), che descrive, nei primi romanzi storie d’amore appassionate con bei ufficiali, rappresentanti l’uomo volitivo e forte, dell’aeronautica e della marina e Pitigrilli, autore del famoso romanzo Cocaina, con cui rendeva popolare la tipologia dei protagonisti dei romanzi dannunziani.

Se invece si parla di letteratura alta, il fascismo dovette convivere con esperienze diverse e in qualche modo opposte, ma tutte “internazionalmente” importanti, perlopiù con autori che avevano aderito al manifesto gentiliano: da il ricercato D’Annunzio, al futurista Marinetti, sino al premio Nobel Pirandello.

Esperienze importanti tuttavia furono:

Strapaese

L’idea di definire Strapaese un progetto culturale fu di Mino Maccari e lo concretizzò intorno alla rivista Il Selvaggio. Scopo era quello di raccontare un’Italia provinciale, con tipi umani spontanei e genuini, un po’ maneschi e plebei, bestemmiatori toscani: in una parola i protagonisti di coloro che “menavano le mani” contro i comunisti o i giornalisti antifascisti. Portavoce letterario di tale rivista fu Curzio Malaparte, che vi pubblicò vari testi in versi (canzoni), che vennero in seguito pubblicati nel libro l’Arcitaliano del 1928.

CANTATA DELL’ARCIMUSSOLINI

O italiani ammazzacattivi
il bel tempo torna già:
tutti i giorni son festivi
se vendetta si farà.
Son finiti i tempi cattivi
Chi ha tradito pagherà.
Pace ai morti e botte ai vivi:
cosa fatta capo ha.
Spunta il sole e canta il gallo
Mussolini monta a cavallo.

Dacci pane pei nostri denti
fantasie e cazzottature
ogni sorta d’ardimenti
di mattane e d’avventure.
Sono acerbi gli argomenti
ma le sorbe son mature:
siam tutti pronti e attenti
pugni sodi e teste dure.
Spunta il sole e canta il gallo
o Mussolini monta a cavallo.

(…)

O Mussolini facciadura
quando smetti di far buriana?
Aspetti vento d’avventura
Greco libeccio o tramontana?
La stagione è già matura
il brutto tempo s’allontana:
per montagna e per paura
combatteremo all’italiana.
Spunta il sole e canta il gallo
o Mussolini monta a cavallo.

Combatteremo alla vecchia maniera
guai a voi se prendiamo l’aire:
vi bucheremo la panciera
a lama fredda vogliam ferire.
La morte è buona cavaliera
piglia in sella chi vuol fuggire:
o traditori addio bandiera
Mussolini è duro a morire.
Spunta il sole e canta il gallo
o Mussolini monta a cavallo.

E’ chiaramente una canzone il cui senso apparente è quello di elogiare Mussolini (e d’altra parte lo fa). Tuttavia l’operazione di Malaparte è più sottile: la semplicità dei versi dal ritmo cantilenante non nascondono la mescolanza di parole auliche con quelle vernacolari (tipiche del dialetto senese), l’influenza letteraria di Berni, e, come un tappetto sottostante, la profonda ironia del testo. Ma fare un testo ironico sul duce poteva dar vita ad interpretazioni non proprio univoche.

D’altra parte al di là delle poesie di Malaparte e delle vignette satiriche di Maccari, ne Il Selvaggio poco di rimane di racconti in cui venga esaltato il vigore dell’italiano contadino; ci sembra infatti un’operazione totalmente intellettuale, che non abbia saputo realizzare il progetto cui ambiva.

Stracittà

A polemizzare con il progetto culturale di Maccari fu Massimo Bontempelli la cui aspirazione fu uscire dall’autarchismo letterario de Il Selvaggio e dare vita ad un vero e proprio inserimento della letteratura italiana nel contesto europeo. A tale scopo fondò la rivista 900 e, in opposizione allo Strapaese, definì il suo progetto Stracittà.

A fondamento della sua ricerca letteraria di questo periodo, che s’invera nei romanzi La scacchiera di fronte allo specchio (1922), Il figlio di due madri (1929), Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1930) Gente nel tempo (1937) è la ricerca di un’arte “che rifiuta così la realtà per la realtà, come la fantasia per la fantasia e vive nel senso magico scoperto nella vita quotidiana  degli uomini e delle cose”. Tale arte dovrà avere “precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la nostra vita si proietta” Questi sono i canoni  con cui Bontempelli definisce il suo “realismo magico”.

Ad esempio della sua prosa prendiamo un brano da “La scacchiera di fronte lo specchio

LA VITA RIFLESSA NEGLI SCACCHI

Capitolo secondo
Spiegazione del titolo

Avvenne dunque un giorno, prima della guerra europea – e precisamente quando avevo otto anni – avvenne che per punizione fu chiuso, solo, virgola in una stanza.
E’ inutile raccontare perché mi avessero chiuso in quella stanza, tanto più che non lo ricordo. Sono incidenti che possono accadere a tutti quelli che hanno otto anni. Qualche volta accadono anche in età molto maggiore, e allora il fatto è più grave. Quella volta il fatto non era grave, tant’è vero che non ricordo perché mi avessero condannato a quella reclusione; la quale, diciamolo súbito, non durò che un’ora o due. Chiudendo me in quella stanza mi dissero:
«E non uscirai di qui finché non veniamo ad aprirti.» (Io pensai: «E’ naturale: se non vengono ad aprirmi come faccio a uscire da qui?»
Mi dissero ancora: «Sta attento a quello specchio, che non è da rompere. Nella stanza c’era un grande specchio, appeso a una parete appoggiato con la cornice inferiore sopra il piano di un caminetto. (Anche questa seconda raccomandazione mi parve superflua, perché tutti, anche a otto anni, sanno che gli specchi non sono fatti per romperli.)
Ci fu una terza e ultima ingiunzione, e fu la seguente. «E non toccare quella scacchiera.» Infatti sul piano dei già ricordato caminetto c’era una scacchiera con su tutti i suoi pezzi, bianchi e neri, disposti nelle relative caselle: trentadue pezzi, perché, chi non lo sapesse, i pezzi degli scacchi sono trentadue, come i denti dell’uomo.
Essendo posata sul piano del caminetto, la detta scacchiera veniva a trovarsi davanti allo specchio. Ed ecco spiegata già fin dal secondo capitolo, la ragione del titolo di questo racconto.

(…)

Capitolo quarto
Prima stramberia

Eccoci dunque in tre, come ho detto:
io,
lo specchio, la scacchiera.
Io guardavo lo specchio, lo specchio rifletteva la scacchiera.
Ho già detto che lo specchio era vecchio leggermente verdognolo. Io osservai súbito che i pezzi della scacchiera riflessi nello specchio erano, tanto i bianchi quanto i neri, più pallidi di quelli veri, e con i contorni meno nitidi, quasi sfumati: anzi, fissandoli un po’ a lungo, là dentro, mi pareva che avessero una leggera vibrazione come le erbe e i sassi che si vedono dentro l’acqua di un laghetto.
Non ho ancora avvertito una cosa importante: cioè che lo specchio, appoggiato sul marmo del caminetto, era leggermente inclinato in avanti, perciò la scacchiera e i trentadue pezzi che vi si vedevano stavano sullo stesso piano dei trentadue pezzi veri, ma sembrava che si arrampicassero sopra un leggero declivio.
Di là, i pezzi specchiati guardavano i pezzi veri; ognuno il suo compagno: il Re Bianco guardava al Re Bianco, la Regina Nera alla Regina Nera, e così via; e quelli di là, stando così in alto un po’ di sbieco, pareva che guardassero questi di qua con sprezzatura. Questi di qua si lasciavano guardare impassibili, e pareva che con questa indifferenza si vantassero forse da essere più coloriti, più nitidi, e ben posati sopra un piano perfettamente orizzontale.
Mi alzai una volta ancora in punta di piedi, per vedere se riuscivo a scorgere almeno un poco della mia persona nello specchio. Ma era inutile. Ho detto che non ricordavo se vi fosse nella stanza una sedia: penso ora che certamente non v’era, altrimenti sarei salito in piedi su quella.
Ma così stirandomi in su, feci la seguente riflessione:
«In quello specchio c’è tutto quello che c’è in questa stanza, la parete azzurra, la scacchiera, i pezzi: dunque se non mi vedo, ci devo essere anch’io.»
Allora accadde una cosa buffissima.
Accadde che il Re Bianco – non quello vero, che era di qua; quello riflesso e un po’ più pallido, che era di là – il Re Bianco cessò di fissare, traverso la superficie dello specchio, il suo compagno, e guardò invece verso di me, si scosse un poco e parlò.
Parlò proprio a me, e come se avesse letto nel mio pensiero, mi disse:
«Certo che ci sei. Sei qui sotto. Vieni anche tu di qua, e ti vedrai.»
Tutte le volte che ho ripensato a quel momento, e anche ora, il fatto mi è parso, e mi pare strambissimo e quasi incredibile.
Invece allora non ci troverei nulla di strano. Risposi tranquillamente:
«Verrei volentieri, ma prima di tutto non so come fare; in secondo luogo Ella deve sapere che mi hanno ordinato di non muovermi di qui fin che non vengono ad aprirmi.» Il Re Bianco di là dello specchio mi fece un obiezione:
«Quando dico che sei qui, intendo che qui c’è un altro come te: la tua immagine, via; siete due, come io e quel Re Bianco che sta costì dalla tua parte. Dunque se tu vieni di qua può anche darsi che la tua immagine passi di là, e così ci sarà sempre qualcuno per qualunque evenienza.
«Allora» obiettai «non è vero che incontrerò me stesso di là.
«Hai ragione. Ma sarà sempre una gita interessante.
«Lo credo» gli risposi. «Ma rimane sempre la prima difficoltà: non so come fare a venirci. Se Ella volesse insegnarmi…»
Il Re Bianco mi ammonì severamente:
«Con la volontà si riesce a tutto.»

E’ un libro pubblicato nella collana “Biblioteca dei ragazzi” della Bemporad. Racconta un episodio minimale: un bambino di otto anni viene messo in castigo in una stanza dove vi è uno specchio che riflette una scacchiera. La realtà riflessa appare al bambino più vera della realtà e ne nasce un vero e proprio dialogo tra ciò che lo specchio rimanda (in questo caso il Re Bianco) e il protagonista. Il fatto che il racconto sia omodiegetico, fa assumere allo stile il carattere veritiero che un bambino può vedere, mescolando appunto realtà e fantasia. D’altra parte il suo mondo è così scevro da ogni elemento dei doveri dell’adultità, facendogli reclamare la sua non confinabile libertà. Il modo di scrivere, come fosse quello di un bambino, fa sì che la tonalità infantile ed il fantastico si armonizzino tra loro, dando vita, così, al suo “realismo magico”.

La Ronda

La rivista La Ronda (1919 – 1923), anche in ottemperanza del suo nome che si richiama alla  vigilanza e al controllo, affinché si riacquistasse il senso dell’ordine, si pone in netta antitesi contro le esperienze sia dannunziane che pascoliane, quanto dall’intemperanze futuriste. Per i redattori di tale rivista vi è la necessità di un ritorno alla classicità del dettato, ad una prosa “elegante” e alla purezza dello stile. Innamoratosi della prosa leopardiana (dedicarono ben tre numeri allo Zibaldone) non furono nemmeno contrari al frammentarismo. Tenendo ben distanti la politica con l’arte, essi promossero sia la poesia con Vincenzo Cardarelli che la prosa con Emilio Cecchi, ambedue fondatori della rivista.

Vincenzo Cardarelli (1887 – 1959), partecipò attivamente alla vita culturale romana, prendendo parte alla redazione e fondazione di alcune tra le riviste più importanti del primo Novecento. La sua poesia parla dello scorrere del tempo, della dolorosa memoria e adotta forme metriche libere di ascendenza leopardiana, che servono ad alleggerire la tensione emotiva.

Tra la sua produzione scegliamo un testo del ’31:   

AUTUNNO

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.

Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

E’ un testo dove a prevalere è il tema del trascorrere del tempo, percepito da un “noi” indefinito. I primi sette versi sottolineano il passaggio cadenzato dapprima dal vento d’agosto, poi le piogge di settembre, per concludersi con il sole smarrito, che ha perduto la sua forza e il suo calore estivo. Questi diventano metafora del passare degli anni nella vita di un uomo che “incedono” cioè passano lentamente, portandolo alla maturità che cancella “il miglior tempo” (citazione leopardiana).

ADOLESCENTE

Su te, vergine adolescente,
sta come un’ombra sacra.
Nulla è più misterioso
e adorabile e proprio
della tua carne spogliata.
Ma ti recludi nell’attenta veste
e abiti lontano
con la tua grazia
dove non sai chi ti raggiungerà.
Certo non io. Se ti veggo passare
a tanta regale distanza,
con la chioma sciolta
e tutta la persona astata,
la vertigine mi si porta via.
Sei l’imporosa e liscia creatura
cui preme nel suo respiro
l’oscuro gaudio della carne che appena
sopporta la sua pienezza.
Nel sangue, che ha diffusioni
di fiamma sulla tua faccia,
il cosmo fa le sue risa
come nell’occhio nero della rondine.
La tua pupilla è bruciata
dal sole che dentro vi sta.
La tua bocca è serrata.
Non sanno le mani tue bianche
il sudore umiliante dei contatti.
E penso come il tuo corpo
difficoltoso e vago
fa disperare l’amore
nel cuor dell’uomo!

Pure qualcuno ti disfiorerà,

bocca di sorgiva.
Qualcuno che non lo saprà,
un pescatore di spugne,
avrà questa perla rara.
Gli sarà grazia e fortuna
il non averti cercata
e non sapere chi sei
e non poterti godere
con la sottile coscienza
che offende il geloso Iddio.
Oh sì, l’animale sarà
abbastanza ignaro
per non morire prima di toccarti.
E tutto è così.
Tu anche non sai chi sei.
E prendere ti lascerai,
ma per vedere come il gioco è fatto,

per ridere un poco insieme.

Come fiamma si perde nella luce,
al tocco della realtà
i misteri che tu prometti
si disciolgono in nulla.
Inconsumata passerà
tanta gioia!
Tu ti darai, tu ti perderai,
per il capriccio che non indovina
mai, col primo che ti piacerà.
Ama il tempo lo scherzo
che lo seconda,
non il cauto volere che indugia.
Così la fanciullezza
fa ruzzolare il mondo
e il saggio non è che un fanciullo
che si duole di essere cresciuto.

E’ un testo che, come il precedente, parla del tempo, qui mettendolo al centro già dal titolo “Adolescenza”, il passare della giovinezza. La donna adolescente vive con leggerezza forse consapevole di quando sboccerà per diventare donna. Per ora ella non sa, non conosce, ma arriverà il momento in cui qualcuno si interesserà a lei e sarà la stessa che si perderà ed il tempo, che ama l’attimo in cui la gioia è ancora intorno a lei, e non il tempo che aspetta.

Il testo ci ricorda la canzone A Silvia, anche lì il poeta consapevole vede la giovinezza della dolce fanciulla dal di fuori, “d’in su i veroni del paterno ostello”; anche Cardarelli la guarda da lontano, ma se alla prima la Natura le ha negato di diventar donna, l’adolescente cardarelliana lo sarà, perdendo forse l’innocenza. Leopardiana è la scelta metrica endecasillabi e settenari, ma anche dannunziana con l’utilizzo di versi diversi. Il linguaggio è piano, ma sostenuto “recludi”, “veggo” “astata”, “gaudio” ed altre ancora, che tuttavia non inficia la scorrevolezza del testo che riesce ad essere armonicamente disposto.

Emilio Cecchi (1884 – 1966), fu un intellettuale e un finissimo critico letterario che interpretò con capacità più di mezzo secolo di letteratura italiana. S’interessò anche della letteratura inglese (Scrittori inglesi e americani, del 1935). Per lui l’arte è quello strumento che permette di restituire, elementi anche minimi di realtà, le ragioni affettive e morali dell’autore: l’ansia di una ricerca che tenta di aderire alle pieghe nascoste della vita e della psicologia dello scrittore studiato, attraverso una controllatissima immedesimazione. Tali qualità si apprezzano anche nel prosatore, che vuole programmaticamente delimitare la sua opera nell’ambito delle impressioni di viaggio, della nota, del bozzetto e dell’immagine. Come si può vedere in questo breve frammento:

IL CANGURO ZOPPICANTE

Il canguro zoppicava come un artritico. S’arrestò; e dondolandosi sulla vita, si dette la mossa e si trovò ritto sulle zampe posteriori. Aveva puntato in terra il poderoso bastone della coda e pareva un cavalletto a tre gambe.
Per un poco si tenne in tasca i suoi moncherini, fissandomi, con la bocca leprina accomodata all’atto di fischiettare. Ma poi cominciò ad accompagnarsi e sfoderati gli unghioni neri della orribile mano tra d’uomo e d’avvoltoio, si grattava la pancia, come se invece d’una pancia fosse una chitarra. In realtà era una pancia, sordida e intimpanita; e io non avrei saputo dire che cosa m’imbarazzasse più, se l’ostinazione di quei grossi occhi vitrei d’uccello col loro sguardo antidiluviano, o l’oscenità della ventraia che pareva insaccata di stoppa e spelata sulle ricuciture, come la pelle di una mummia tignosa.
Lo vedevo contro il sole, contro il sole più civico, più domestico: apparizione ributtante nella cui forma era un segno diabolicamente sovvertito della mia forma, confuso agli avanzi e alle rovine d’epoche condannate. E non capivo la necessità di rievocare, nel cerchio delle case e degli orti, cotesti spettacoli tenebrosi e irrimediabili, e non potevo capacitarmi per quale avvelenata curiosità e libidine di distruzione mi fossi fermato e fossi entrato.
Allora tra i ferri da un’altra gabbia scivolo qualcosa di flessuoso e formidabile, come un floscio serpe azzurrastro. Si mise a tastare nell’erba e nel fango avendo trovato quel che cercava si risollevò in spirali verso una lurida fessura triangolare che sormontava un gozzo appuntito, con pochi peli di barba.
Era un mostro calvo, a forma di montagna, che schizzava rosso dall’occhio suino e sventolava le orecchie smerlate come larghe foglie acquatiche, scrollandosi sulle colonne delle zampe avvinte di catene e schiacciate sotto il peso della mole rugosa che si sarebbe potuta credere coperta di minutissimi segni egiziani. Mi dissero che si dondolava così da almeno duecent’anni. Era nato al secolo che gli uomini andavano in parrucca e la moda prescriveva alle nostre avole i pennuti turbanti all’uso di Persia. Gli erano rotolati sul dorso i terremoti e gli sfaceli, le rivoluzioni, gl’interregni e i galoppi delle cavallerie di Napoleone. E aspettava tuttavia, dicendo di no dalla punta della proboscide al codino arroncigliato.
Io ho conosciuto gli elefanti storici. Quelli di Ramsete e quelli di Psammetico, quelli di Kipling, di Pirro, e il pulcino di piazza della Minerva. Ma cotesta massa senza tempo pareva lì a negare il Tempo, col suo scrollo inutile e colossale; e addirittura a stritolare e sperdere anche il piccolo, lo straziante, piccolo tempo che m’è toccato, che rodono e consumano dentro di me tanti altri avversari. La cupola della sua groppa montava violenta come una nuvola nera. Una nuvola di pietra che volesse otturare il cielo.

In questa breve rassegna di autori rondisti non può mancare Riccardo Bacchelli (1891 – 1985), autore poliedrico toccò varie tipologie sia artistiche che critiche. Per le prime dà cita ad una serie di romanzi che vanno dal registro ironico a quello psicologico (Una passione coniugale) o a quello storico (Il diavolo al Pontelungo), ma la sua penna si esercitò anche nella critica letteraria, con saggi su Fogazzaro,  Leopardi e Manzoni. Si occupò anche di critica musicale. Il suo capolavoro è un poderoso romanzo storico, in tre volumi, Il mulino del Po.

IL SALVATAGGIO DI CECILIA

Era dunque la piena lunga del ’39, e a bordo del San Michele appiardato provvisoriamente a ridosso della punta, i quattro uomini si alternavano alla guardia della corrente. Tre sfaccendavano sotto la loggia e attorno ai palmenti, o dormicchiavano pigri e svogliati, perché il vento, continuo già da due mesi da ostro e da scirocco, or più greve e fastidioso or più spiegato e rabbioso, sempre afoso, gravava il cervello e ammolliva le gambe, e, rendeva stanchi e sudaticci per la minima fatica. Quello che stava alla guardia sull’andialetto, addossato alla parete, con un arpione di lungo manico a portata di mano, ravvolto nel ferraiuolo, prendeva la pioggia e guardava annoiato ciò che veniva giù per il fiume, ma specialmente se la secca il pennello della Guarda teneva duro contro il rodio del fiume paziente furioso. Codesta secca e quel pannello di gabbioni, infatti formavano la punta di cui era protetto il mulino.
Dalla lanca, dove l’acqua a momenti ridondava e girava a ritroso in tondo su se stessa, di modo che l’ulà si fermava, quasi stanca; dal mulino, si scorgeva la corrente, l’immane flusso della piena, fremere ribollire infuriando sulla punta, scrosciare e rimbalzare, fuggire con una fila di gorghi e di risucchi avidi e astiosi, che segnavano il margine fra le acque vive grosse del filone, e le semimorte della lanca.
Affioravano e affondavano, veloci, i più diversi oggetti; e qualcuno veniva spinto dalla corrente dell’acqua pigra, aggirato a lungo, respinto e ripreso. Potevan diventare pericolosi, se un mutamento del letto venisse a buttare contro il mulino tutta o parte della corrente; erano tronchi d’albero, barche perdute, e masserizie e carri colonici anche, o caduti dagli argini su cui la gente spaurita s’accalcava con le sue robe, o rapinati dal fiume nelle golene o nei campi invasi; eran carogne di animali domestici e di stalla, sordide e sconce, ben tristi, coinvolte e travolte.
A Lazzaro, quella furia paziente degli elementi ricordava, guardando il fiume, una cosa lontana nella memoria, e che non sapeva ritrovare. La ritrovò, quando le giornate marcie di quel novembre sciroccale si fecero così brevi e buie sotto la cupa nuvolaglia, che il giorno pareva sorgesse soltanto per annotare. Tali giornate gli rammentarono le Russie. Il torbido scirocco, che gonfiava e ostacolava il fluire della disperata vena del fiume, che assiepava le acque adriatiche contro le foci del Po, lavorando così alla perdita del paese, era nemico degli uomini, come i geli spietati di quell’atroce inverno della ritirata da Mosca. Il Po insidioso riportava lui al Vop micidiale, e a quel giorno disastroso della sua giovinezza avventurosa.
Ed ecco un grosso natante, ben più grosso dei soliti, veniva giù giù col fiume. Era un mulino. Scansò, come volle fortuna, la punta, contro la quale ci sarebbe sfasciato, e tra il ribollio della ribattuta e l’onda della corrente libera, per un istante rullò col sandoncello e beccheggiò col sandon grande, fra due acque, simile a un cavallo riottoso e bramoso, tenuto a freno, che si tramuta fremendo d’una zampa sull’altra, e su tutte scalpita e balza. Così lo videro, trabalzato e conteso dalle due acque sulla punta che dirompeva il fiume; e subito che fu ripreso dalla corrente e rientrò nel filo, strapoggiò, si mise in traverso, diede di banda, sicché sembrò dovesse ribaltarsi, camminando per fianco travagliosamente. Poco andò, che ridrizzato dal fiume, mise le prore sulla via d’andare a investire la proda opposta alla svolta, il che sarebbe avvenuto senza scampo, se l’abbrivo impressogli dalla corrente non l’avesse sviato d’improvviso nelle acque torbide della lanca.
Schiavetto era saltato sul sandalo con un’ ancorotto, e raggiungeva il relitto, e l’ancorava. Poi tutti e quattro, a forza di remi, colla barca lo rimorchiarono al sicuro. Ma sbandava dalla parte del sandon grande, mezzo pieno d’acqua e aggravato dalle macine; del resto, pur essendo di antica costruzione, appariva robusto e ben conservato. Perché non andasse a fondo, era urgente arenarlo; la qual cosa fu fatta. Vi salirono poi Giuseppe e Schiavetto. Scacerni, con Malvasone, aspettava sul sandalo. Sentì un’esclamazione di meraviglia, e vide comparire Schiavetto con una giovinetta fra le braccia, fuori dai sensi.
Ecco quattro uomini impacciati. Era tutta bagnata indosso, e doveva essere sfinita dal freddo e dallo stento. Il viso emaciato ed esangue faceva gran pietà.
«Che sia morta?» disse Schiavetto nel calarla fra le braccia di Scacerni.
«Chi può mai dirlo?» fece Malvasoni «Le donne sono come i gatti.»
«Qui,» disse Scacerni «ci vuole aiuto di donne: la porto da Venusta Chiccoli. Schiavetto, sellami il cavallo.»
Sbarcarono, e Schiavetto corse a sellare il cavallo del padrone legato a un alberello sulla riva. Poco dopo, Scacerni trottava, colla svenuta in braccio, verso la Guarda.
Messa a letto fra panni di lana e bottiglie d’acqua calde, Venusta la soccorse, la ravvivò, la rianimò con l’aceto dei sette ladri. Si riscosse finalmente la poverina con un profondo sospiro, e tornò a svenire due volte, ma, riaprendo gli occhi per la seconda, già cercava e distingueva a quelli affettuosi e seri della Venusta, che le porgeva un cordiale. Sorrise un poco, e colla poca voce che poté avere trasognata:
«Dove sono?» domandò.
«Fra amici, non vi affannate,» le diceva Venusta.
Era visibile in quegli occhi uno stupore così grande e strano, che Venusta ebbe un’inquietudine e disse a  Scacerni:
«Vive, ma che sia diventata matta, poverina? Ohi, ohi, che cosa succede adesso?»
Lo stupore della ragazza s’era cangiato in spavento, ed ella voleva levarsi, chiamava disperatamente, benché fievole e fiocca, il babbo. Poi sbarrò gli occhi, e rimase come tramortita.
Colla vita e la coscienza, tornava dolore che lei non aveva ancor la forza di dire né di concepire intiero, ma le si vedeva negli occhi pauroso.
«Ve l’andiamo a cercare,» le diceva Venusta «ve lo mandiamo a chiamare il babbo: diteci di dove venite, dov’era la piarda del vostro mulino. Poverina, le sta venendo un febbrone, e non vorrei che il cervello non reggesse,» soggiunse rivolta a Scacerni, che assisteva impietosito. «Non mi piacciono questi occhi invetrati: sarebbe meglio che piangesse si disperasse. Diteci dunque, poverina: chi era, come si chiamava vostro padre?»
Quasi che ridestandola al dolore la richiamasse alla ragione, ruppe in un pianto disperato.
«Meglio questo,» diceva la Venusta lasciandola sfogare, «è molto meglio così. Poverina, poverina … Dunque» soggiunse quando i singhiozzi cominciarono a placare un poco, «che cosa possiamo fare?» Fece di no con la testa e disse sconsolata:
«Nulla. Vi ringrazio. L’ho visto morire.»
«Dove? Quando?»
«Nel fiume.»
Più tardi raccontò. Si chiamava Cecilia, unica nata di un Rei, mugnaio, che viveva solo, con lei sola, vedovo della madre morta nel partorirla, sul vecchio mulino appiardato in un tratto solitario di un fiume, contro una proda di golena larga, imperdia e selvosa. Codesto misantropo Rei scendeva a terra soltanto per necessità e rarissime volte, e la figlia non l’aveva lasciata sbarcare nemmeno una volta, fosse gelosia dell’indole, o stravaganza del cervello, o altra ragione che nessuno avrebbe mai più saputo. Certo le aveva voluto un gran bene dell’anima, e giudicando col senso comune, un bene pazzo. Da bambina e da ragazzina, Cecilia era cresciuta senza conoscere altro di umano fuor che codesta passione paterna, che s’adombrava di qualunque parola le fosse rivolta dai contadini che venivano a far macinare, o dalla gente che passando in barca la scorgeva di lontano e la salutava. E tanto bastava per rannuvolare il Rei, che le raccomandava di non rispondere, di non guardare, di non farsi vedere, di rientrar subito nella casa del sandoncello. La passione aveva infatti dato anche più nello strano col crescere della figliuola, e col crescer bella d’adusta e vigorosa bellezza bruna; tanto più quanto lei mostrò di saperlo, perché non conoscesse l’uso degli specchi. A che serviva, le diceva il padre, esser bella? Brutta, le avrebbe voluto anche più bene, e sarebbero stati più tranquilli. “Perché, chiedeva lei perché di sì, rispondeva lui.

Il brano ci offre la possibilità di analizzare l’opera di Bacchelli da due punti di vista:

  1. Tematico: la scelta del romanzo storico il cui vero protagonista dell’intero romanzo è il Po. Grazie ad esso si svolge la vita di ben tre generazioni e qui, in questo breve estratto, ne abbiamo chiarissima dimostrazione: s’inizia con il salvataggio di un mulino, grazie ad esso si trova semiassiderato il corpo di una giovane donna, la quale, perso il padre, travolto dal fiume, troverà nuova vita accolta dai due vecchi;
  2. Stilistico: Bacchelli mescola sapientemente terminologia tecnica con parole auliche, prese dalla forma classica. Anche il periodare è ampio, denotando il gusto per un argomentazione ariosa. Non mancano inoltre varie figure retoriche come la dittologia, l’allitterazione e metafore.

Solaria

Esaurita l’esperienza rondesca, le sue istanze furono proseguite da Solaria (1926 – 1936): se La Ronda aveva puntato il suo interesse sulla ripresa classica della tradizione (basti l’esempio di Bacchelli), questa rivista intendeva allargare lo sguardo verso le grandi forme letterarie europee nate tra l’Ottocento e il Novecento. Essi infatti guardarono con interesse alla narrativa russa di Dostoevskij, alla francese di Proust, alla tedesca di Mann e, d’estremo interesse per il nostro discorso (si ricordi che siamo all’interno del fascismo) quella ebraica di Kafka. Se la rivista poté – pur guardata con sospetto dalle gerarchie del regime – passare indenne dieci anni, fu il suo chiudersi all’interno della letteratura, censurando ogni forma d’interesse verso l’esterno.

Come esempio osserveremo l’opera di Giovanni Comisso (1895 – 1969). Affascinato dalle esperienze più diverse (fu commerciante, mercante d’arte, libraio, avvocato) e soprattutto dalla libera vita di mare, espresse le sue qualità poetiche in racconti, libri di ricordi e nelle corrispondenze giornalistiche. La sua produzione narrativa va da Il porto dell’amore ristampato nel 1928 col titolo Al vento dell’Adriatico, Gente di mare del ’28 e vari racconti. Scrisse anche saggi, tra cui il più famoso è Il mio sodalizio con De Pisis. Fu scrittore d’istinto che consegnò alla pagina l’esperienza di una vita trascorsa come meravigliosa, felice avventura.

Il maggiore esempio della sua capacità di rappresentare reale con acuta sensibilità visiva è Giorni di guerra pubblicato nel 1930, dove egli trascrive con efficacia le impressioni più elementari dell’esistenza che scorre nelle ore di sole di vento, nella fatica e nel riposo.

LA RITIRATA DOPO CAPORETTO

Il paesetto dove avevamo pernottato si chiamava Fagagna. L’alba era umida, la strada fangosa, ma non pioveva. Il nostro passo si risvegliò sulla strada con un’ energia che non ci doveva mancare. Si andava verso Bonzicco per passare il Tagliamento. La strada era deserta, da prima dava piacere perché si poteva camminare spediti, poi finì per impressionare. Nessun soldato, nessun carro per la strada diritta fiancheggiata da acacie, tutta arata dalle ruote dei carriaggi. Nella notte mentre noi si dormiva, tutti se ne erano andati. Si pensava di avere troppo ritardato, così da essere proprio gli ultimi di tutto l’esercito in ritirata. Non avevamo armi, eravamo in pochi e all’apparire dietro di noi dalle prime pattuglie nemiche non potevamo che arrenderci. Ognuno doveva essere dominato da questo stesso pensiero, ma nessuno osava comunicarlo, il passo dei miei soldati sul fango lamentoso si era fatto agitato, per dare la calma scesi dal mulo e merciai con loro. Indispettito contro quel fango più non sentivo l’acqua entrarmi per le suole consumate. Se volgevo lo sguardo verso i miei soldati, era anche per guardare in fondo alla strada deserta se apparisse qualcuno e al mio insistere, anche qualche altro si voltava a guardare. La luce bieca e la terra disfatta dall’autunno non potevano essere più favorevoli a un episodio di arresa o di sterminio, ma al prossimo paese le donne che portavano il latte dalle stalle a una fabbrica di burro, ci tolsero ogni ansia.
Si seppe che il ponte di Bonzicco era crollato nella notte trascinato dalla piena: per questo nessuno percorreva quella strada. Ci rimaneva allora solo da puntare verso Codroipo per passare il Tagliamento sul Ponte della Delizia. Presa una piccola strada, si camminò a lungo nel livido della giornata senza sole, lasciandoci abbandonare a un passo dolce. La distanza non era grande, ma assecondati dalla buona strada si percorse di certo una deviazione immensa, perché solo verso sera si arrivò in vista del Tagliamento e ancora distanti una decina di chilometri dal ponte.
Trovammo da poterci riposare in una casa assieme a un gruppo di allievi ufficiali, giovanissimi e distinti. Se ne andavano beati all’avventura. I contadini ci fecero la polenta, avevo il burro comperato al paese attraversato nella mattina e i miei soldati si arrangiarono con i polli rubati. Dormimmo nella stalla e alla mattina, dal mio giaciglio, scorsi gli allievi ufficiali reclinate le teste leggiere nel respiro dell’ultimo sonno. L’alba illuminava, tra la camicia aperta, il loro petto bianchissimo. Le voci allarmate dei miei soldati, dal cortile, li destarono. Si diceva che gli austriaci fossero arrivati con gli auto cannoni a Bonzicco. Verso le montagne il cannone sparava lento, pesante e tetro. Il Ponte della Delizia non distava molto e ci mettemmo in cammino sicuri che al di là del Tagliamento si sarebbe finalmente terminato il marciare.
Un rumore continuo di motori, di carri, di voci  e di passi si sentiva avvicinandoci al ponte. La strada era ingombra. Un cannone, sfasciata una ruota, ostruiva il passaggio. Molti, stanchi di attendere, abbandonavano gli autocarri e proseguivano a piedi: signore con poca roba assieme ai soldati, una fila di soldati ammanettati, con paia di scarpe nuove da borghese appesa al collo, qualche ufficiale superiore solo con una valigetta, prigionieri austriaci che se ne andavano liberi. Tutti venivano svelti per passare il ponte. Si temeva di non riuscire e il terreno sul ponte era così consumato che già apparivano le travi. Il ponte vibrava il passaggio. Sotto l’acqua tumultuava nella piena. Un aeroplano cadde tra sfracellandosi su di un ghiaione. Una carretta davanti a noi con una ruota sterzata e immobilizzata proseguiva ancora scavando il fango. Il ponte vacillava. Non si credeva resistesse. Un cavallo, stramazzato a terra, più non si rialzava e venne buttato nel torrente. La ruota sterzata resisteva. Ancora pochi metri e si sarebbe arrivati all’altra riva dove si riteneva di trovarci del tutto al sicuro. Il terreno più non vibrava sotto i nostri piedi. Il ponte era finito.
Come un’altra aria era di là. Qualcuno fermo ci guardava arrivare e sorrideva. I campi vicini erano invasi da soldati che accendevano fuochi. Uno si era messo a radere barbe all’aperto. Altri tiravano su da un fosso un cavallo morto e già preparavano le baionette per dividerselo. Ritrovammo il nostro carrozzino e subito ci rifornimmo. Gli altri soldati, vedendo la nostra abbondanza, venivano a domandarmi di aggregarsi alla mia compagnia.
Si cercò una casa dove passare la notte e, poco lontano dal fiume, trovammo in fondo a una stradetta una grande casa di contadini. Il cortile era pieno di soldati, altri apparivano nella cucina, alle finestre, nella stalla, al di là della siepe nei campi. Alcune donne molto calme pensavano a procurarci qualunque cosa si chiedesse. Per nulla si preoccupavano alle innumerevoli richieste. Parevano abituate a servire molta gente. Volevamo una grande pentola per cucinarvi galline, conigli, carne delle scatolette e anche un piccolo maiale. Alcuni già si erano disposti a spennacchiare, a spelare, a scuoiare e a tagliare a pezzi. Altri presero un grande carro piatto per usare come tavola e vi portarono le stoviglie e il vino. Il fuoco fu acceso sotto la pentola. Molti venivano a guardare più che curiosi e allora parve necessario farci tutti vicini alla pentola pronti a difenderla. Specialmente alcuni soldati napoletani insistevano ad annusare l’odore dell’intingolo, ma dai napoletani del mio plotone e specialmente da un sergente che aveva una voce dolcemente modulata vennero consigliati di girare al largo. Al cominciare della sera si attaccò a cenare, qualcuno disse che non si vedeva, allora si chiese alle donne un paio di candele si ebbe anche queste.
Dai campi vicini veniva il grande brusio degli accampati, sovente si accendevano risse e scoppiavano bombe lanciate per spaventare i contadini e potere rubare galline, se ancora ve ne erano.
Dopo cena andammo a dormire in un grande fienile vicino alla casa quasi con il pensiero che non ci si sarebbe mossi per un bel pezzo. Altri soldati dormivano affondati nel fieno e bisognava stare attenti a non pestarli, qualcuno accendeva un cerino e subito si gridava di non dare fuoco. Altri continuavano ad arrivare, molti a coppia, di armi diverse, neanche compaesani, compagni di viaggio di ventura incontratisi sulla stessa strada, decisi di arrangiarsi assieme, presi da inattesa simpatia. Il sergente napoletano era venuto a dormire vicino a me quasi nella stessa buca e mi sarebbe piaciuto andare con lui, così come quelli che sopraggiungevano, preso dall’incanto della sua voce sommersa come in un vago rancore e parlante di più nell’eco che suscitava attorno ai suoi occhi.
All’alba, mentre gli altri si rialzavano per partire, dal cortile gridarono di sloggiare presto, perché si stava per far saltare il ponte. Si diceva che gli austriaci fossero arrivati sulla riva opposta e avessero iniziato scariche di mitragliatrice. Tutti si precipitarono sulla strada, una colonna di artiglieria stava ferma senza poter proseguire. Pareva tutti avessero riposato molto bene, gli ufficiali a cavallo andavano su e giù presi dal piacere del sole che li avvolgeva sull’alto delle loro selle. Uno gridò a un soldato: «Torna all’ albergo che vi ò dimenticato il fustino della mia camera».
A stento si riuscì a passare ed eravamo già avanti sulla strada quando dietro a noi s’intese il fragore delle mine che rompevano il ponte. Si arrivò a Pordenone, qualche bandiera smorta pendeva dalle finestre chiuse delle prime case del paese. Come fosse mercato le strade erano affollate di donne che avevano ritrovato tra i soldati i loro mariti o parenti e di soldati che insistevano nei caffè e nelle botteghe a ricercare qualcosa da mangiare. Davanti a un negozio di pizzicagnolo, dove non vi era più niente, un soldato, rotto con il calcio del fucile un vetro che copriva un breve strato di pasta messo per mostra, raspava con le mani nere e mangiava quella roba cruda e insecchita dal sole. Altri cercavano in grandi vasi di peperoni, ma nulla riuscivano a pescare nella brodaglia, che poi qualcuno osò bere. Un gruppo di carabinieri armati e furibondi, si fece largo tra la folla, trainando un carretto pieno di sacchi di pane. Avevano prelevato questo pane per loro dai magazzini della stazione. Si tenevano pronti alla difesa e mai erano apparsi minacciosi a tale punto. Minacciavano come uomini e come carabinieri. E se la folla li lasciava passare, poi però li inseguiva con urla: «Voi sì, camorristi, avete avuto il pane». «Venduti, sempre ingrassati». Anche le donne gridavano e mostravano i pugni, fiere di avere trovato i loro uomini, che presto si portavano a casa per vestirli subito da borghesi. Un soldato della mia compagnia che ci aveva preceduti ed era di quel paese, lo ritrovai vestito così. Era padrone di un caffè e nella retrobottega ci offerse, a bicchieri da vino, un dolcissimo liquore ricostituente. Tutti ne riempimmo le borracce. Mi assicurava che appena messa a posto la famiglia, ripresa la divisa, ci avrebbe subito raggiunti e mi regalò una bella bottiglia di liquore che infilai nella tasca del cappotto. Per le strade era l’inferno, e si continuò a marciare.

“Il ritmo narrativo, serrato e senza indugiare ad un facile descrittivismo, scandisce il racconto in brevi e concentrate unità sintattiche. La paratassi è lo strumento della rappresentazione comissiana, che allinea sapientemente le immagini l’una dietro l’altra, e le accumula senza gremire e opprimere la pagina, lasciando ad ognuna una funzione autonoma. La semplicità della tecnica narrativa contribuisce ad incidere un quadro di drammatica forza, in cui gli eventi si succedono angosciosamente, per una sorta di logica conseguenza e tuttavia non appaiono mai scontati o prevedibili, ma si rivelano con l’evidenza di una naturalezza assoluta”. (Scrivano)

Ermetismo

Con il termine “Ermetismo” s’intende un movimento poetico, nato a Firenze ed operante intorno agli anni ’30, che, riunitosi intorno alla rivista “Campo di Marte” dà vita ad un tipo di poesia che, sulla scia del simbolismo di Valery, ne accentua il valore, arrivando ad un dettato che a volte, grazie all’analogia, può apparire oscuro.

Il termine venne dato dal critico Francesco Flora che in un saggio del ’36, inserì in tale movimento gran parte dei giovani poeti, da Ungaretti a Montale. Egli utilizzò tale definizione in modo negativo, ma fu Carlo Bo, in quello che potremo definire come il manifesto di tale poetica, “Letteratura come vita”, ad appropriarsene: d’altra parte fu proprio il leggendario Ermete Trismegisto a scrivere “testi ermetici”, con un fondo di religiosità ed orfismo, di derivazione neoplatonica.

Essi furono alla ricerca di una “poesia pura”, fornita di un linguaggio essenziale, spoglia di qualsiasi abbellimento estetico. Il suo fine è quello di superare i limiti della finitezza mondana e trascendere verso l’assoluto: da qui il senso mitico/religioso dell’esperienza poetica.

Di qui l’importanza data alla “parola”: solo essa è in grado di evocare affinché possa giungere all’essenzialità di un significato, (grazie al suo portato polisemico) da condividere con il lettore.

Non importa cioè cogliere il significato, ma la condivisione dell’esperienza tra il poeta e colui che usufruisce del testo poetico: tendere insieme verso l’assoluto.

Per riassumere potremo definire i principali aspetti della poesia ermetica:

  1. L’azzardo del nulla, la tensione verso ciò che non si può dire, il silenzio e l’assenza;
  2. Ricerca di purezza e assolutezza del linguaggio;
  3. Valore salvifico ed evocativo della poesia, fino ad esiti religiosi
  4. “Rendere nuda” la parola, togliendo l’articolo e scegliendo termini vaghi e indeterminati;
  5. L’uso insistito dell’analogia e della sinestesia;
  6. Lessico raro e colto;
  7. L’utilizzo di metri tradizionali e forme chiuse come il sonetto.

Qualcuno ha definito l’Ermetismo come una forma attraverso cui alcuni intellettuali si opponevano al regime. Certo la mancanza di magniloquenza e di retoricità, la ricerca di un’arte che valesse per se stessa e non avesse valore civile, può certamente apparire come forma antifascista. Ma è pur vero che l’essenzialità ungarettiana (accademico d’Italia, iscritto al Partito fascista) ed i versi montaliani (così espressamente antifascisti, per non parlare della sua firma nel Manifesto crociano) non esularono loro dal prendere posizione; il loro Aventino, come in parte i rondisti, non esaltò ma neanche disturbò la politica del duce.

Tra i maggiori ermetici ci piace ricordare Salvatore Quasimodo (1901 – 1968), poeta siciliano. Fra le sue più importanti raccolte poetiche ricordiamo Acque e terre (1930) e Oboe sommerso (1932). Nel 1942 la terza raccolta poetica, Ed è subito sera. Dopo la guerra la sua poesia si apre a temi maggiormente civili, come nella raccolta Giorno dopo giorno. Alcuni ritengono che il suo capolavoro sia la traduzione dei Lirici greci, del ’40. Nel 1956 viene insignito del premio Nobel per la letteratura.

VENTO A TINDARI

Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima

A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.

Vento a Tindari è una poesia sull’assenza, sulla lontananza determinata dall’esilio del poeta, guardiamo le stanze, una per una:

  1. il ricordo di Tindari e del suo clima mite invade il cuore del poeta;
  2. mentre sta con amici sull’alto di un monte, il richiamo del paese natio lo invade, con i suoi suoni ed amore, mentre ora c’è ombra e morte nel cuore;
  3. Tindari non sa dov’è che il poeta scriva i suoi versi;
  4. L’esilio è aspro, di contro all’armonia che il suo paese gli offriva;
  5. Un amico gli indica il precipizio, il poeta finge di aver timore per nascondere l’emozione del ricordo.

Il testo ha come parola chiave, già dal titolo il “vento” (v. 7 “vento dei pini”; “vento che m’ha cercato”). Già dal primo caso questo vento esula da un aspetto puramente atmosferico, per acquistare un valore analogico, (vento che attraversa gli alberi, ma che inoltre lo conduce lontano, verso il recupero di un mondo lontano, dove ha lasciato i suoi affetti). La ricerca delle parole e della loro disposizione nel testo è ricercatissima, l’analogia presente nel testo si ottiene attraverso spostamenti lessicali (iperbato) accostamenti di percezioni lontane (sinestesie), metafore. Inoltre la scelta delle stesse rimandano ad un senso di profonda vaghezza sentimentale.

I richiami alla classicità sono presenti: la mitizzazione dell’isola, ad esempio. Ma più ancora è il riferimento dantesco nella terza strofe.

OBOE SOMMERSO

Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.

Un oboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;

In me si fa sera:
l’acqua tramonta
sulle mie mani erbose.

Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,

e i giorni una maceria.

Forse uno dei tentativi più estremi dell’analogia, tanto che il critico De Robertis parlò di un vero e proprio non-sense.  Eppure a leggere bene potremo intuire un momento d’attesa, il suono di un oboe sommerso, parole poetiche lontane, di felicità, dette da un altro. Per lui tale gioia non c’è; il cuore vola lontano dal luogo in cui era felice, è la realtà odierna è solo “maceria”.

ED E’ SUBITO SERA

Ognuno sta solo nel cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

Julian Peters: Poeti italiani

“Il componimento si basa su una fulminea immagine di solitudine esistenziale dell’uomo, siglata dal fatale e rapido sopraggiungere della morte. Quasimodo riesce a condensare in tre versi tutta la tragedia della condizione umana:

  1. la vita è breve
  2. ma la luce è accecante ed intensa
  3. e subito arriva la sera, cioè la morte

Soprattutto il poeta insiste sulla solitudine (“Ognuno sta solo”), sconsolata e senza scampo, che non è soltanto dell’uomo ma di ogni creatura. L’uomo viene così escluso da un mondo di sentimenti e di valori cui è vanamente proteso nell’illusione di ritrovare frammenti di se stesso (“sul cuor della terra”). Nel secondo verso si assiste a un capovolgimento del termine sole che perde l’accezione positiva e vivificatrice e si trasforma in strumento di dolore e di inesorabilità (“trafitto”). Attraverso l’uso della congiunzione copulativa (“ed è”) la luce del sole del secondo verso denuncia la sua inconsistenza: si genera un rapporto di continuità con il termine sera, assunto a metafora della morte. In tal modo sia il sole sia la sera diventano allegorie della perdita e della sconfitta esistenziale”. (Corrado Bologna)

Mario Luzi

L’altro grande poeta la cui produzione iniziale si può iscrivere all’ermetismo è Mario Luzi (1914 – 2005). Sin da giovane egli è mosso da una profonda spiritualità cattolica che lo fa avvicinare ai grandi poeti trecenteschi Dante e Petrarca. Luzi traduce da queste matrici culturali la tensione della ricerca di tensione verso la pienezza di uomo e spirito. Tale tensione, tuttavia, non sempre viene esaurita: ed ecco allora che la sua poesia diventa registrazione di tale lotta: storia contro assoluto, tempo contro eternità, decisione contro indecisione.

La raccolta poetica con la quale esordisce è La barca, pubblicata nel 1935:

ALLA VITA

 Amici ci aspetta una barca e dondola
nella luce ove il cielo s’inarca
e tocca il mare, volano creature pazze ad amare
il viso d’Iddio caldo di speranza
in alto in basso cercando
affetto in ogni occulta distanza
e piangono: noi siamo in terra
ma ci potremo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
come rose dai muri nelle strade odorose
sul bimbo che le chiede senza voce.

Amici dalla barca si vede il mondo
e in lui una verità che precede
intrepida, un sospiro profondo
dalle foci alle sorgenti;
la Madonna dagli occhi trasparenti
scende adagio incontro ai morenti,
raccoglie il cumulo della vita, i dolori
le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita.
Le ragazze alla finestra annerita
con lo sguardo verso i monti
non sanno finire d’aspettare l’avvenire.

Nelle stanze la voce materna
senza origine, senza profondità s’alterna
col silenzio della terra, è bella
e tutto par nato da quella.

La poesia inizia con un invito dantesco, quel famoso “Guido, i’vorrei che tu Lapo ed io”, diventa un “Amici, ci aspetta una barca”, quindi il richiamo verso loro di cercare con affetto Dio, ma tale affetto è insufficiente. Nella seconda strofa l’invito è nel guardare il mondo ed il tempo del mondo che fluisce. Ma scende la Madonna a raccogliere i desideri e i dolori degli uomini: la styanza si chiude con ragazze alla finestra che aspettano l’avvenire. Infine una voce senza origine, materna che ci parla alternandosi con quella della terra: sono loro ad averci donato la vita.

 

 

TRA DONNE E BAMBINI: LA LETTERATURA “MINORE” NELL’ITALIA POST-UNITARIA

MIlano.jpgMilano a fine ‘800

La letteratura in Italia nella seconda metà dell’Ottocento oltre a vedere il disagio circoscritto, nello spazio e nel tempo, della Scapigliatura, la poesia ore rotundo di Giosue Carducci e la grande stagione verista dei siciliani Capuana, Verga e De Roberto, vede anche una forma di letteratura che rispondeva alle varie esigenze dello stato appena nato:

  • Rispondere ad una nascente industria culturale che vedeva via via allargato il pubblico dei lettori (grazie anche alla legge Casati e poi Coppino che istituiva l’obbligo d’istruzione elementare – due e poi tre anni)
  • Rispondere al bisogno d’evasione soprattutto femminile, cui era principalmente destinato, ma non esente da inserimenti fortemente “moralistici”, ad imitazione di quanto era successo in Francia con il feuilleton e che da noi prese il nome di “romanzo d’appendice”. Non mancano in questo ambito opere che per la loro fattura vanno ben oltre la pura evasione, presentando temi attenti alla condizione della donna, con le scrittrici Neera o la Marchesa Colombi.
  • Rispondere all’appello giobertiano di “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, attraverso una letteratura pedagogica, rivolta ai ragazzi che come abbiamo visto avevano ormai l’obbligo (sebbene spesso disatteso) dell’istruzione elementare. A tale scopo risposero gli scrittori Edmondo De Amicis con Cuore e Carlo Collodi con Pinocchio.

Giuseppe_Pomba_1895L’editore Pomba

Per quanto riguarda il primo punto, è necessario notare da una parte il rafforzamento dall’altra la nascita di case editrici che si occupavano sia della pubblicazione di riviste propriamente dette che di libri, ognuna con delle proprie specificità. Basti qui ricordare Zanichelli, ex libraio, cui si deve la prima pubblicazione in lingua italiana del saggio di Darwin Sull’origine della specie, Pomba, tipografo che sapeva bene che “le classi facoltose non pensano ai libri, mentre le altre non hanno né il tempo né il gusto per dilettarsi coi libri” e quindi virò la sua attività sugli scolastici, opere di giurisprudenza o opere relative all’agricoltura. Dall’estero vennero il francese Le Monnier, lo svizzero Hoepli o il tedesco Olschki che portarono la loro esperienza in Italia. Il più importante fu certamente il milanese Treves, che pubblicò le opere dei più grandi scrittori italiani (e a cui aspiravano coloro che volevano annoverarsi fra i “grandi”). Sempre a Milano ebbe successo la Sonzogno che forte del possesso della rivista “Il Secolo”, il più letto allora nell’Italia del Nord, poté annoverare tra le maggiori vendite i cosiddetti libri romantici per signorine e la Ricordi, che si specializzò nella pubblicazione di spartiti musicali. Ai ragazzi si dedicò Bemporad, al cui successo contribuirono i romanzi di Emilio Salgari.

13a_g4-1.jpgL’editore Treves

La letteratura femminile presenta caratteri interessanti sia dal punto di vista sociologico che culturale: per il primo si deve sottolineare come la donna, nella seconda metà dell’Ottocento, trovò una via “lavoratrice” che la rendeva famosa e protagonista nella società di allora, quindi la nascita di una letteratura che avesse come punto di vista proprio quello femminile, toccando a volte corde che potremo definire proto-femministe.

neera_ritratto.jpgNeera

Tra le più importanti ricordiamo Neera, pseudonimo di Anna Zuccari (1846 – 1918), nata a Milano, città che più di ogni altra le poteva offrire stimoli culturali; in contatto con Capuana e Verga, aderì ella stessa alla corrente del verismo attraverso la quale  affrontò il tema dominante della condizione femminile – senza mettere in discussione il ruolo socialmente subordinato – limitandosi a rivendicare le ragioni del cuore e della sensibilità femminile a fronte della mediocrità della realtà quotidiana nella quale le protagoniste dei suoi romanzi finiscono per ripiegare.

Né è un esempio un brano tratto da un suo romanzo, tra i suoi numerosi, dal titolo Teresa del 1886, che fa parte di una trilogia che ha protagoniste giovani donne Teresa appunto, Lydia e L’indomani.

Teresa, tra l’adolescenza e l’età adulta, vive la sua passione per Egidio, ostacolata dalla grettezza del padre che, per meschine valutazioni economiche, le impedisce di sposarlo. Il peso delle convenzioni sociali e l’obbedienza familiare condizionano anche il comportamento di Teresa, obbligandola a rinunciare alla felicità e soltanto, nel tempo, ella maturerà la consapevolezza e la forza di reagire alle imposizioni. Una malinconica vicenda che però offre una visione completa sul vero senso dell’esistenza.

TERESA

Quell’anno si chiuse con due avvenimenti importanti. Luminelli minore chiese la mano di una delle gemelle, accontentandosi di prenderla senza dote; e Carlino, laureato in legge, partì per una cittaduzza della bassa Italia. Lo avevano consigliato a percorrere la carriera giudiziaria, la più pronta, la più sicura, quella che gli avrebbe permesso di aiutare subito la famiglia. Il signor Caccia si appoggiava molto sul figlio, per il quale egli e tutti di casa avevano fatto grandissimi sacrifici. Carlino non era riuscito quell’uomo eminente che il padre aveva vagheggiato nelle ore raccolte del suo studiolo, quando il piccolo ginnasiale era alle prese con Cornelio Nipote; tuttavia, avendo superato l’esame e addottoratosi come tutti gli altri, gli faceva un certo qual onore, di cui andava tronfio sollevando le sopracciglia ad altezze insolite. «Bada» gli aveva detto al momento della partenza «di non dimenticare mai i buoni esempi avuti in famiglia. E poiché la signora Soave lagrimava in silenzio, seduta sul divano, coi piedi sullo sgabelletto — fatta così debole oramai da non potersi più reggere — il signor Caccia le diede un’occhiata dall’alto in basso, crollando le spalle poderose. “È una miseria l’essere donna” pensava tra sé — e tornò a salutare il figlio, rigido, impassibile, dando prova di una grande superiorità. Teresina si meravigliò, e quasi ne fece a se stessa un rimprovero, di non commuoversi abbastanza a questa partenza. Amava meno suo fratello? No, certo: ma era così assorta nell’amore di Orlandi che ogni altra affezione sembrava pallida al confronto. E poi aveva già molto sofferto. Il suo cuore non provava più lo slancio subitaneo della prima giovinezza; incominciava ad essere stanco, e a misurare il dolore. Aveva riflettuto qualche volta — non senza esitazione, temendo di essere una cattiva sorella — se, non essendovi Carlino da mantenere agli studi, il ricevitore le avrebbe assegnata una piccola dote. Come tutto in questo caso sarebbe semplificato! Capiva le ragioni del padre: aveva troppo vissuto in quell’ambiente e in quello solo, per non essere persuasa che la sua condizione di donna le imponeva anzitutto la rassegnazione al suo destino — un destino ch’ella non era libera di dirigere — che doveva accettare così come le giungeva, mozzato dalle esigenze della famiglia, sottoposto ai bisogni e ai desideri degli altri. Sì, di tutto ciò era convinta; ma anche un cieco è convinto che non può pretendere di vedere, e tuttavia chiede al mondo dei veggenti, perché egli solo debba essere la vittima. Quando Carlino partì, accompagnato dai voti e dalle speranze d’ognuno, Teresina mormorò tristemente:  «Ecco, egli va a formarsi il suo avvenire come vuole, dove vuole!» E una quantità di riflessioni dolorose vennero ad assalirla, così che trovossi paralizzata nel momento dell’addio. Parve fredda, indifferente. Appena scomparso, fu presa dai rimorsi; si rimproverava sempre, da se stessa, ad ogni movimento di ribellione. Sotto il velo delle lagrime, le si disegnò sul volto uno sgomento di persona colpevole, e insieme un terrore timido, uno sconforto, qualche cosa di indefinibile. Somigliava tanto alla sua mamma, allora, con quell’aria di rassegnazione stanca, che il signor Caccia le ravvolse entrambe nel medesimo sguardo olimpico, sdegnoso, riportandolo poi, con una lieve dilatazione di compiacenza, sull’Ida bella e robusta: festevole, anche nella dimostrazione del suo rammarico. Ida, in famiglia, produceva l’effetto di un raggio di sole, era l’idolo, il beniamino di tutti, aveva avuto, nascendo, il dono di piacere; ognuno era indulgente con lei. Studiava per fare la maestra e la consideravano già come un prodigio. Dopo l’Ida, il posto più in vista, lo occupavano le gemelle; era impossibile non accorgersi di loro, grosse, grasse, rubiconde, indivisibili, somiglianti al padre nella truculenza sgarbata, nelle larghe spalle e nel vivo colorito. Si atteggiavano a padronanza, forti della loro duplicità e di una volontà sola, alla quale ubbidivano due voci, quattro occhi, quattro mani. Insediate nella gran camera di Carlino, erano esse che alla mattina si ponevano alla finestra per guardare i passanti, fresche e ardite nei loro vent’anni. Teresina pativa ora il freddo, e alla mattina, appena levata, era troppo pallida per farsi vedere alla finestra. Le gemelle avevano stretta relazione coi nuovi inquilini della casa della Calliope — i Ridolfi — , che avevano due belle ragazze; e da una casa all’altra si telegrafava continuamente con occhiatine, con piccoli segni, con sorrisi e cenni di convenzione. Teresina restava esclusa da questi maneggi, e li comprendeva poco, perché, avendo trascorsa la giovinezza nel fare da mamma alle sorelle, non le era rimasto il tempo di cercarsi un’amica della sua età.
(…)
Ella pensava che anche lontano Egidio dovesse conservare l’ardore del desiderio, come lo conservava lei, e che nessuna donna potesse interessarlo, come a lei non interessava uomo. Eppure questa fede ingenua veniva scossa qualche volta. Vedeva, guardandosi attorno, riflettendo, confrontando e capiva che tutto nella vita di un giovane si svolge in modo opposto a quello di una ragazza; per conseguenza l’amore dell’uno non può essere uguale all’amore dell’altra. S’accorgeva anche di una crescente compassione per lei, nelle persone buone; compassione che i maligni rivestivano di una ironia piccante. Frequenti allusioni alle fanciulle che invecchiano in casa, prive d’amore, la ferivano acutamente. Forse ch’ella non amava? Forse che non era amata? Ma che cos’era dunque quel mistero che le sfuggiva continuamente, sul quale sembrava concentrarsi l’attenzione di tutti? Quale catena, quale segreto accordo legava insieme uomini e donne, per cui si intendevano con un monosillabo, con un’occhiata? L’amore? Ma ella amava. Si poteva amar di più? Arrestandosi a questa riflessione, un rossore tardivo le saliva alle guancie. Non era più il rossore invadente dei quindici anni; era un riflesso che dava appena un po’ di tepore alla pelle, per cui tornava subito pallida come prima. E pensava: “No, non è possibile. Qualunque cosa ci possa essere, non potrebbe farmi più felice di quanto lo fui, stretta nelle sue braccia, in quel mattino… Egli era allora tutto mio”. Tentava qualche volta di prendere una rivincita su quelle arie di protezione sprezzante; e rispondeva con alterigia, o non rispondeva affatto. Una volta la pretora le disse: «Non fare così; diranno che inacidisci come una zitellona». A tali parole Teresina, colpita, andò a chiudersi in camera, e pianse come non aveva mai pianto da che era al mondo. Pianse le lagrime disperate della giovinezza che muore. Pianse su se stessa, per il suo volto emaciato, per i suoi begli occhi che si spegnevano nell’atonia; per il suo povero corpo che, dopo aver vissuto come una pianta, stava per fossilizzarsi come un sasso. Ebbe un accesso di vera disperazione, durante il quale sentì agitarsi nel fondo delle viscere un torrente d’odio, di passioni malvagie, di invidie non mai provate. Si torceva sul letto, mordendo le coperte con una voglia pazza di fare del male a qualcuno, col desiderio mostruoso di veder scorrere del sangue insieme alle sue lagrime. La trovarono sfinita, livida in volto, coi denti serrati. Il dottor Tavecchia, chiamato per tranquillizzare lo spavento della madre, accennò a un isterismo nervoso e prescrisse dei calmanti.

page1-369px-Neera_-_Teresa.djvu.jpgVecchia  edizione del romanzo di Neera

Nel passo su riportato Neera sottolinea con forza le convenzioni sociali che costituivano l’essenza di una famiglia borghese, come la preminenza della figura maschile (padre che prende le decisioni, fratello cui va tutto l’interesse familiare), la sottomissione della madre, prona alle volontà di un marito burbero. Ma la capacità della scrittrice sta nell’analisi con cui osserva la psicologia femminile: alla fragilità malinconica di Teresa, si contrappone la forza di Ida e la vitalità un po’ grezza delle sorelle gemelle. Quello che rende questo romanzo “minore” rispetto alla grande prosa verghiana è la continua aggettivazione che fa sì che il narratore onnisciente guidi con mano sicura il lettore verso l’identificazione di chi ha torto e di chi ha ragione (si prenda a paragone come la Mena dei Malavoglia rinunci all’amore di compare Alfio per misurare la distanza tra la pur brava scrittrice milanese e Verga).

Maria_Antonietta_Torriani_-1600x900.jpgMaria Antonietta Torriani

La Marchesa Colombi, pseudonimo della piemontese Maria Antonietta Torriani (1840 – 1920). Maestra elementare, sin da giovane pubblicò racconti Nel giornale delle donne. Spostatasi a Milano, entrò in contatto con Anna Maria Mozzoni, protofemminista lombarda, si sposò con Eugenio Torelli Vieller, redattore della Rivista illustrata, in seguito primo direttore del Corriere della sera, dal quale si separò. E’ in questo periodo che la Torriani prese il soprannome di Marchesa Colombi, tratto dalla commedia La satira e Parini di Paolo Ferrari, in cui i marchesi Colombi sono personaggi futili e frivoli.

Prendiamo un passo da uno dei suoi romanzi brevi, Un matrimonio di provincia del 1885:

La quindicenne Denza (Gaudenzia) Dellera vive con il padre Pietro, vedovo, la sorella maggiore Caterina, detta Titina, e la zia. La famiglia è povera, e le ragazze non possono concedersi svaghi. Il padre, appassionato di letteratura, le educa in casa raccontando le vicende dei più celebri poemi greci, latini e italiani. Dopo qualche tempo Pietro si risposa con Marianna che impone una severa disciplina, abituando le figliastre ai lavori di casa e a una vita di stenti e rinunce. La famiglia ha rapporti con i cugini Bonelli: una sera i Dellera vengono invitati da loro a teatro; dopo la rappresentazione Maria comunica a Denza che ha suscitato l’attenzione di un uomo, Onorato Mazzucchetti, rampollo di una famiglia agiata. Denza, che sentiva già prepotente il bisogno di essere amata, ne è entusiasta e commossa, e comincia a fantasticare in ogni momento sul suo innamorato, attendendo con pazienza gli sviluppi della vicenda. Un giorno Denza e Onorato si incrocianoe lui le palesa a voce i suoi sentimenti. Denza è felice, ma il tempo passa e non arriva alcuna domanda di matrimonio. Anzi, Mazzucchetti va a trascorrere un periodo di formazione in Francia. La giovane è sicura, nel suo cuore, che sia solo questione di tempo, ma negli anni si sposano la sorella e le due cugine, e lei è ancora sola. Un giorno, Denza apprende delle imminenti nozze tra Mazzucchetti e un’altra donna. Si spezza così il suo sogno e, avendo superato i 25 anni, è inoltre conscia dell’età avanzata, in ottica matrimoniale. Quando si fa avanti Scalchi, un benestante notaio quarantenne, Denza, pur non rimanendone particolarmente affascinata, accetta la sua mano, per sfuggire a un futuro da zitella e arrivare al tanto agognato matrimonio, ormai però sprovvisto dell’aura poetica di cui lo aveva rivestito.

              UN MATRIMONIO IN PROVINCIA

Da quel momento non ebbi più tempo di pensare alle mie aspirazioni passate, e quasi neppure al mio sposo. Il matrimonio, colle sue formalità preventive, m’assorbiva tutta, ed assorbiva anche il resto della famiglia. Mia sorella aveva affidato il figliolo alla suocera, ed era venuta a Novara per aiutarci. Tutto il giorno eravamo in giro a far compere, o visite di partecipazione. E la sera, io e mia sorella, facevamo delle copie, colla nostra scrittura più accurata, d’un epitalamio che il babbo aveva preparato per le mie nozze. A misura che una copia era finita, lui la correggeva, — c’era sempre da correggere nelle nostre copie, — poi la rotolava, la legava con un nastrino rosso, e ci scriveva sopra il nome dei destinatari, con una precisione notarile: «Signor Bonelli ingegnere Agapito, e genero e figlia, coniugi Crespi». «Signor Martino Bellotti, dottore in medicina, chirurgia ed ostetricia, e consorte». Intanto la matrigna combinava la colazione e gli inviti, e tratto tratto interrompeva il nostro lavoro, per consultarci e fare delle lunghe discussioni. A mia ricordanza non s’era mai fatto un invito a pranzo in casa nostra. Avevamo l’abitudine di desinare in cucina, al tocco, e quando capitava lo zio Remigio, o qualcuno degli Ambrosoli, o qualche altro parente di fuori, gli si offriva il nostro desinare di famiglia, senza nessuna aggiunta, su quella tavola di cucina, tra i fornelli ed il paravento della zia. Ora il paravento non c’era piú; ma ad ogni modo non era possibile servire una colazione nuziale in cucina. Bisognava apparecchiare in salotto. Quella novità ci mise in grande orgasmo. Si dovettero portar via i sacchi di granturco, le patate, le castagne e tutto; si dovettero scoprire i mobili, ed appendere le cortine, e togliere le tavole rotonde per sostituirvi quella grande della cucina. Poi non era lunga a sufficienza, e ci si aggiunsero 44 ancora ai due capi le tavole rotonde un po’ piú bassine, che facevano un effetto curioso e poco bello. Nessuna delle nostre tovaglie aveva le dimensioni di quella mensa cosí allungata. E le due tavole rotonde ebbero anche una tovaglia a parte, di modo che facevano come casa da sé, un gradino piú in giú della tavola centrale. Il babbo suggerí di nascondere il gradino sotto uno strato di fiori; ma rinunciò a mettersi, come s’era combinato prima, a capo tavola, perché, dovendo sedere piú basso, non avrebbe dominato tutta la mensa leggendo l’epitalamio. Scelse il posto nel centro, e la matrigna l’altro in faccia a lui, sebbene quella nuova moda francese non fosse di loro gusto. Anche la mia abbigliatura da sposa era stata argomento di molte discussioni. La solennità che si voleva dare alla cerimonia, non arrivava però al lusso dell’abito bianco. Un abito di seta colorata a strascico, sul quale avevo fatto assegnamento e di cui andavo superba, la Maria lo trovò disadatto alla circostanza e provinciale. Allora la matrigna fece la pensata di vestirmi da viaggio, e per quanto le si facesse osservare che non facevamo nessun viaggio, non si lasciò rimovere, ed il vestito da viaggio fu accettato. Finalmente venne quella mattina aspettata e temuta. Quando fui tutta vestita come una touriste che si disponesse a fare il giro del mondo, cominciai a piangere abbracciando tutti prima d’andare in chiesa, come se non dovessimo mai piú rivederci in questo mondo. Poi, durante la cerimonia piansi tanto che fu un miracolo se udirono il sí, che tentai di pronunziare fra due singhiozzi. Poi tornai a piangere zitta zitta durante tutta la colazione, rispondendo con un piccolo singhiozzo ogni volta che mi facevano un complimento, tanto che smessero di farne, e mangiarono tutti quieti, parlando di cose serie, dei raccolti, che quell’anno erano buoni, dei nostri vini dell’alto Novarese che non hanno nulla da invidiare a quelli del Piemonte, e del secondo vino, «il cosí detto vinello che è eccellente, e tanto conveniente per uso di famiglia». Poi, alle frutta, quando il babbo spiegò uno dei tanti fogli che avevo scritto io stessa, e cominciò a leggere ad alta voce: In questo dí, sacro ad Imene, io prego La Vergine ed i Santi a voi propizi, quei versi, che sapevo a mente, mi commossero al punto che scoppiai in un pianto dirottissimo, e dovettero condurmi via. Cosí, dopo tutti quegli anni d’amore, di poesia, di sogni sentimentali, fu concluso il mio matrimonio. Ora ho tre figlioli. Il babbo, che quel giorno dell’incontro con Scalchi aveva accesa lui la lampada che mi consigliava, dice che la Madonna mi diede una buona inspirazione. E la matrigna pretende che io abbia ripresa la mia aria beata e minchiona dei primi anni. Il fatto è che ingrasso.

IPA_ALMJ4GHH1-728x1024Ritratto di Maria Antonietta Torriani

“E non mi sarebbe venuta l’idea di leggere Un matrimonio in provincia se non me ne avesse parlato con singolare entusiasmo Natalia Ginzburg. Mentre spesso nelle ricognizioni tra i minori dell’Ottocento italiano, le soddisfazioni di lettura devo pagarle con uno sforzo, una resistenza da vincere, qui dalle prime pagine si riconosce la voce di una scrittrice che sa farsi ascoltare qualsiasi cosa racconti, perché è il suo modo di raccontare che prende, il suo piglio dimesso ma sempre concreto e corposo, con un sottile filo d’ironia: di quell’ironia su stessi che è l’essenza dello humour. A contestare il mito della donna romantica con l’evidenza prosaica della fatalità piccolo-borghese, la narrativa tardo ottocentesca italiana – dalla Serao a Neera – non mette avanti eroine alla Madame Bovary (anche il «bovarismo», in Italia, sembra privilegio maschile): più che alla provincia di Flaubert che la nostra sia vicina a quella di Čechov: drammi silenziosi nelle esistenze senza avvenimenti di donne di casa frustrate nell’autonomia dei sentimenti. La Marchesa Colombi appartiene a questo filone ma è anche qualcosa di molto diverso: perché quando rappresenta la ristrettezza la noia lo squallore lo fa con una spietatezza di sguardo, una nettezza di segno, una deformazione grottesca da dare l’effetto del massimo di tristezza col massimo d’allegria poetica” (Italo Calvino)

Carolina Invernizio, dissepolta e vivaCarolina Invernizio

Tuttavia la scrittrice di maggior successo fu  Carolina Invernizio. Nasce a Voghera nel 1858, da una famiglia borghese, il padre, infatti, era funzionario di Governo. A quattordici anni si trasferisce a Firenze, dove frequenta le scuole Magistrali. Comincia a scrivere a ventisei anni e nell’arco di una vita produce circa centotrenta romanzi, nonostante sia diventata moglie del tenente Quinterno e madre di una bambina. È una donna borghese che riceve e tiene salotto, frequenta teatri, sartorie, esce spesso e volentieri. L’ambiente fiorentino nel periodo in cui la scrittrice muove i suoi primi passi ben conosce la letteratura cosiddetta d’appendice: Lorenzini (il futuro Collodi di Pinocchio), ad imitazione dei Misteri di Parigi di Eugene Sue, dà alle stampe i Misteri di Firenze, nella città esistono editori di tali romanzi, scrittori a cottimo (non bisogna dimenticare che nel porto di Livorno, oltre a visitatori inglesi, salpavano anche i romanzi gotici). Con il ritorno del marito nel 1896 dalla guerra d’Abissinia , la scrittrice si trasferì prima a Torino e poi, nel 1914 , a Cuneo, dove Carolina aprì il suo salotto di via Barbaroux a intellettuali e a personaggi della cultura, come recita la targa commemorativa posta sulla sua casa e dove muore nel 1916.

Non amata dai critici, ma profondamente apprezzata dal pubblico, Antonio Gramsci la definì “onesta gallina della letteratura popolare”. Venne anche indicata come “La Carolina di servizio” e secondo Enrico Deaglio si deve a lei l’epiteto ancor oggi in voga de “La casalinga di Voghera”.

Ne Il bacio di una morta, il romanzo più importante dell’Invernizio, scritto nel 1886, appaiono tutti questi temi: cominciamo con l’ultimo, quello del fratello disperso, che giunge  a casa temendo la morte della sorella:

 IL BACIO DI UNA MORTA

La luna era salita a poco a poco sull’orizzonte, ma i suoi raggi erano ancora troppo deboli per rischiarare la cupa ombra dei cipressi e mandava soltanto una luce pallida, velata, misteriosa sulle tombe di pietra e di marmo, alcune abbandonate, altre coperte di ghirlande e di fiori…
Se qualcuna delle mie lettrici ha visitato un cimitero di notte, sa quale triste e funebre impressione se ne riceve. Il solenne silenzio che regna in quel luogo, sacro al riposo dei morti, i grandi cipressi, le croci mortuarie… tutto è propizio alle più folli e deliranti visioni…
Là…è la morte: davanti, di dietro, al nostro fianco, sotto i nostri passi, sotto l’erba che calpestiamo; è impossibile sottrarsi al suo pensiero. Anche l’uomo il più forte, il più scettico trema, si sente il cuore stretto da una gelida pressione. I monumenti assumono ai nostri occhi un aspetto strano, fantastico, bizzarro; ombre vaghe, sfumate, impalpabili, sembrano librarsi dinanzi a noi, fra le tombe, nell’aria; un sudor freddo scorre per tutto il corpo, le labbra diventano mute…
Tale impressione non mancò di provare Ines, mentre stretta al braccio del compagno, seguiva il custode sotto i loggiati del cimitero. Ella soffriva molto la giovane donna, ma i suoi occhi erano privi di lacrime, il suo volto si manteneva calmo…
Alfonso si rivolgeva intorno sguardi inquieti, smarriti; sulle sue guance erano due macchie di un rosso ardente, le labbra aveva livide.
Ines sentiva di quando in quando scuotersi convulsemente il braccio del suo compagno, come se alcuni brividi l’avessero investito. Ella lo guardava atterrita, ed egli, come se avesse compreso quello sguardo supplichevole, pietoso, tentava un sorriso; ma quel sorriso era così straziante, così amaro, che strappava le lacrime.
Il custode solo si mostrava indifferente. Egli camminava senza riguardo in mezzo alle tombe, agitando un mazzo di chiavi che aveva appese sulla cintola. Fatto il giro del loggiato, volse a destra e dopo pochi passi si fermò dinanzi a una porta di legno scuro, che aveva nel mezzo dipinta una gran croce bianca.
Era la porta della cappellina, dove era stata posta provvisoriamente in deposito la cassa, che conteneva le spoglie della contessa Rambaldi.
Ines si sentiva il cuore serrato come in una morsa. Alfonso trasse un fazzoletto per asciugarsi il viso, irrigato da grosse gocce di sudore.
Il custode aveva aperta la porta…ed era entrato per il primo. I due giovani lo seguirono.
La cappella era debolmente illuminata da una lampada ad olio appesa al muro; ed a quel chiarore vacillante potevasi appena discernere una specie di tavola quadrata, su cui era posata una cassa di legno nero con maniglie e borchie dorate.
«E’ quella»  disse a bassa voce il custode.
Alfonso fece un balzo come se avesse subìta una scossa elettrica e strinse la mano di Ines con una tal forza, che ci volle tutto il coraggio della giovine donna per non mandare un grido di dolore.
Il custode era ritornato sulla porta.
Ines guardò Alfonso temendo che egli soccombesse alle commozioni che l’agitavano…ma il giovane teneva gli occhi fissi, spalancati sulla cassa.
«Ella… è là…là…vicino a me» balbettò «ma quel coperchio mi toglie la vista del suo viso…Clara…io io voglio vederti…»
Ines si era avvicinata al custode e traendo dalla valigetta, che aveva portato con sé, una borsa piena d’oro.
«Questo per voi» disse a bassa voce «se acconsentite al desiderio di mio marito; fategli vedere sua sorella»
«Ma io non posso…non posso».
«Oh! non siate così crudele…voi siete padre…se la morte…vi rapisse un figlio…diletto…non desiderereste vederlo più e più volte, prima che la terra ricoprisse per sempre le sue spoglie?»
Il custode s’inteneriva.
Ines se ne accorse e facendogli scorrere destramente la borsa in mano
«Suvvia, siate buono» esclamò «Dio vi ricompenserà più di quello che io posso fare»
Due grosse lacrime caddero sulle rozze gote del custode.
Egli si avvicinò, senza far parola, alla cassa…e cercando dolcemente di allontanarne Alfonso:
«Aspetti» disse «che io l’apra, così potrà rivedere la sua povera sorella».
Oh! quanta passione, quanta ineffabile tenerezza apparve sul viso pocanzi impietrito del giovane, a quelle parole del custode! Sulle guance livide gli ritornò il sangue…gli occhi ardenti, asciutti gli s’inondarono di pianto.
«La rivedrò…la rivedrò…» disse a voce sommessa, ardente, quasi credesse di sognare. Il custode aveva con lentezza fatte girare le viti e senza alcun sforzo, ne sollevò il coperchio.
Un gran velo bianco copriva il cadavere. Il custode l’alzò con una delicatezza ed un rispetto, strani in un uomo del suo mestiere, e tosto scoperse la pallida e bella figura della contessa.
Alfonso ed Ines giunsero le mani, e per qualche minuto il loro dolore parve tacere, avanti la serenità di quella figura, che dormiva del sonno tranquillo, solenne della morte.
La contessa era vestita tutta di bianco: i suoi capelli sparivano sotto una cuffietta di trina, che le scendeva fino sulla fronte: al collo aveva una croce di brillanti attaccata ad un nastro celeste.
Ella era bella di una celeste purezza, e sotto quelle trine candide, con quel vestito bianco, pareva una vergine assopita nei pensieri del cielo.
Il viso era pallido, smagrito, ma non aveva quella lividezza spaventosa, propria dei cadaveri. Nessuna vedendola avrebbe creduto alle sofferenze che servirono di preludio alla di lei morte. Uno sguardo sembrava scivolar fuori dalle semichiuse pupille; dalle labbra aperte ad un principio di sorriso, sembrava uscire ancora una parola di amore…di addio, per i suoi cari.
«Com’era bella!» mormorò Ines portandosi il fazzoletto agli occhi.
«Bella e buona» disse Alfonso con un brivido.
E scuotendosi dall’estasi che l’aveva per un istante dominato, si gettò piangendo su quell’adorato cadavere.
«Clara…mia Clara…» diceva singhiozzando «eccomi a te di ritorno… ma tu non mi vedi… non odi il tuo povero fratello… che ti è vicino; tu sei morta… pensando ch’io t’avessi dimenticato… morta scrivendo… e pronunciando il mio nome… Clara… o mia Clara…»
Grosse lacrime gli scendevano in copia sulle guance…
«Sei pur bella!…» continuò «ma Dio solo vede ora i tuoi dolci sorrisi… oh! mia Clara… dimmi chi ti ha resa infelice sulla terra… chi ti ha fatto morire… così giovane? Parlami… parlami… sono tuo fratello, che amavi tanto…»
S’interruppe con un palpito angoscioso, e le braccia indebolite gli cascarono pendenti lungo il corpo.
Ines cercò di sorreggerlo, di trascinarlo lontano.
Ma egli si svincolò da lei… Pareva non potersi saziare di guardare quel cadavere, egli s’ostinava a credere che colei che aveva tanto amato non poteva essere morta… e che forse stava per risvegliarsi…
Era sì bella ancora quella morta!… Eravi ancora tanto fascino in quelle purissime forme… nella delicata posa! Possibile che l’anima di lei, fosse svanita intieramente nello spazio… non rimanesse ancora in quel corpo immobile un po’ di divina essenza… un soffio…
Le pupille di Clara non avevano il color vitreo, appannato, oscuro, che sogliono prendere gli occhi degli estinti…
Alfonso la guardava e gli pareva che esse ricambiassero i suoi sguardi. Eppure quelle pupille erano immobili… come la fronte di Clara era ghiacciata.
«Ah! se Dio volesse… se Dio volesse» mormorava come in un delirio «Clara… Clara… guardami ancora… dammi un bacio… un bacio solo… per mostrarmi che mi hai perdonato…»
Ed appoggiò le labbra ardenti sulle labbra della povera morta…
Ma allora gettò un grido, che risuonò lungamente in tutta la cappella e si alzò barcollando come un ubriaco, coi capelli scomposti, gli occhi sbarrati.
«Le sue labbra si sono mosse» esclamò. «Ella mi ha baciato… ella vive… vive!»
Ines e il custode credettero che Alfonso divenisse pazzo… e si avvicinarono.
Ma appena ebbero gettato uno sguardo sul cadavere, essi pure divennero pallidi.
Le labbra della morte si erano aperte ed avevano acquistato un leggerissimo color di rosa; la luce che scivolava dalle ciglie socchiuse di lei, si era fatta più brillante.
«Che sia viva davvero?» pensò il custode sbalordito in strana guisa «oh! sarei in un bell’imbroglio»
«Sì… ella vive… ella vive» rispose Alfonso.
E con atto subitaneo aprì l’abito della morta e le pose una mano sul cuore. Il cuore non batteva. Egli appoggiò allora la testa sul petto di lei… e li parve di sentire come una impercettibile pulsazione.
Appoggiò di nuovo le sue labbra alla bocca di Clara e quelle labbra ebbero un leggero brivido.
«Bisogna levarla subito da qui» esclamò Alfonso cercando dominare la sua estrema agitazione «ella non è morta… vi ripeto, mi ha baciato ancora!»
Un brivido di ghiaccio percorse le vene del custode.
«Ma se v’ingannaste!?» balbettò «se qualcuno venisse a scoprire…»
«Nessuno saprà nulla…»
«Ma io non posso trasportare la morta in casa mia» disse il custode esitante «ho moglie e figli, ed una sola camera».
Alfonso aveva ripreso il suo sangue freddo.
«Ascoltatemi» esclamò brevemente «non ha detto vostro nipote che abita qui vicino, in una casetta isolata?»
«Sissignore… abita una casetta da solo con la madre – ma non tanto vicino; è di là dal ponte di Ema».
«Bene, questo non importerebbe; la sua carrozza ci trasporterà».
«Ma questa cassa, che domani debbo mettere nella fossa…»
«E vorreste seppellire una donna viva?!»
Il custode chinò confuso il viso.
«Verrà qui il conte Rambaldi?» chiese Alfonso vivacemente.
«Nossignore, ha dato a me l’incarico di tutto, pagandomi anticipatamente».
Alfonso mandò un’esclamazione di gioia, mentre ricambiava un rapido sguardo con Ines.
«Tutto va per il meglio adunque… nessuno saprà quanto qui succede… voi terrete il segreto con tutti – ve lo pagherò a prezzo d’oro; metterete nella tomba la cassa vuota».
«Ma non vedete che la signora contessa non si muove… che è propria morta… che siete stato vittima di un’allucinazione?!»
Le parole del custode erano state ferme, ma la voce tremava.
«No… non è morta… non è morta, vi ripeto» esclamò Alfonso prendendo una gelida mano di Clara e inondandola di lacrime.
«E vorreste seppellirla con questo dubbio?» disse a sua volta Ines con un singhiozzo che straziava il cuore…
Il custode commosso dalla terribile insistenza di quel dolore… e forse, in fondo temendo… della verità di quelle supposizioni.
«Ebbene, ammettiamo che non sia morta?… dove vorreste condurla?»
«A casa di vostro nipote, ve l’ho detto… egli è un bravo giovine… manterrà il segreto con tutti.»
Il custode era in una terribile alternativa.
«Oh! non mi dite di no» aggiunse il giovane supplichevole «voi non correte alcun pericolo, ve lo giuro, e poi se avete timore, io vi darò tant’oro da assicurare il vostro avvenire, e quello della vostra famiglia…»
«Basta… basta, signore… non è già l’interesse che mi spinge a giovarvi: ma si è perché mi assale il dubbio che la povera signora non sia infatti morta… Farò quanto vorrete… ma segretezza.»
«Sul mio onore, nessuno saprà quanto è successo» disse Alfonso portandosi una mano sul cuore…
«Ma se fosse morta davvero?»
«Sul mio onore vi giuro che vi riporterei… collo stesso mistero, il cadavere.»
Il custode era vinto.
«Aspettatemi qui un momento» disse «vado ad avvisare mio nipote.»
Ed uscì in fretta dalla cappella.
«E’ Dio che mi ha ispirato… Dio» esclamò Alfonso sollevando il corpo di Clara fra le sue braccia… stringendolo come un forsennato al seno.
Ines, abbrividiva.
«Io temo, povero Alfonso, che tu d’illuda: le sue mani sono di ghiaccio.»
«Ma ella non è morta!»
«La sua fronte è di marmo.»
«Ma ella vive, ti ripeto… lo sento… lo sento… e mi pare che ella m’intenda, mi pare che il cuore suo palpiti sul mio.»
Mentre così parlava, il custode ritornò in compagnia del fiaccheraio.
Questi era pallido in volto come un lenzuolo ed aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Mio zio mi ha detto tutto… è vero… signore… è vero: la povera morta vive?»
«Sì…  lo spero… lo spero, perché Dio è buono… ma affrettiamoci… ella potrebbe rinvenire e sarebbe orribile che si trovasse qui»
Con molta cura, la povera contessa che continuava a rimanere immobile, rigida come un cadavere, fu trasportata nella vettura.
A quell’ora la strada era affatto deserta, e certo nessuno avrebbe immaginato la scena compiuta nel cimitero.
Quando la carrozza fu partita, portando seco la giovane coppia e la povera morta, il custode riprese la via della cappella col capo chino… e le mani incrociate sulle reni. Egli chiedeva a se stesso se non aveva sognato.
«Che la morta sia viva davvero…» mormorava «oh! la sarebbe strana… ma sarebbe anche più orribile il pensare che senza quel signore, quel suo fratello, la povera contessa domani sarebbe stata sepolta viva. Brr… mi vengono i sudori freddi nel pensarci. Del resto nessuno saprà mai questo segreto… Al conte poco importa di sua moglie, tanto è vero che ha lasciato a me la cura di tutto… quel conte mi sembra un poco di buono e mi ha fatto una brutta impressione la prima volta che lo vidi… Gridò, perché la tomba non era stata ancora preparata: che volesse proprio seppellir viva la moglie?… uhm! uhm! non sarebbe difficile… ed io sarei stato il complice di un assassinio? Ah! il fratello della signora contessa, quello mi ha un viso di galantuomo… si può fidarsi…  di lui… Ma cosa sono tutte quelle ombre che vedo questa notte?… Non so perché mi tremano le gambe ed ho degli scrupoli. Che qualche volta senza volerlo, io abbia seppellite delle persone vive?»
Egli diceva tuttociò fra sé, mentre si guardava attorno rabbrividendo. Tonino era sempre stato un uomo forte e positivo, non aveva mai creduto agli spettri né punto, né poco, ma in quella notte si sentiva agitato da brividi strani. Gli pareva di veder proiettarsi delle ombre sulle bianche pietre, gli pareva veder aprirsi delle tombe ed uscirne dei fantasmi avvolti nel funebre lenzuolo e che tendevano verso di lui le braccia, dicendo con una voce che non aveva nulla di umano:
«Anche noi ci seppellisti vivi.

71IwaCyQIbL._SL1081_.jpgLocandina del film tratto dal romanzo dell’Invernizio

I romanzi dell’Invernizio, non nascono dal nulla: a lei, e agli scrittori “popolari” che pullulavano a Firenze in quel periodo, erano ben conosciuti l’intrigo delle avventure, l’oscenità delle situazioni, il grottesco dei personaggi, il nero dei bassifondi del feuilleton europeo. L’Invernizio deve il suo successo nel saper amalgamare tutti questi ingredienti e i luoghi comuni di mezzo secolo di letteratura popolare, per adattarli alle signorine della buona società dell’Italia di fine ‘800, cui spesso si rivolge direttamente. Infatti il pubblico della scrittrice è femminile, come femminile è il mondo tematico che l’autrice sceglie: le sue protagoniste sono fidanzate, mogli, figlie e madri, e le antagoniste di esse sono altrettanto donne, maliarde, seduttrici, sataniche. E gli uomini? Deboli, incapaci, inaffidabili, pronti a correre dietro alla prima gonnella; oppure, lacerati da antichi e non scordati tradimenti, si rinchiudono come orsi, meditando tremende vendette; o ancora, dispersi nel mondo, e fanno appena in tempo a sopraggiungere quando la morte di una parente si fa prossima.

Più interessante certamente la letteratura per ragazzi, i cui massimi rappresentanti furono Edmondo De Amicis, Carlo Collodi.

Edmondo_De_Amicis_2Edmondo De Amicis

Edmondo De Amicis nasce a Oneglia nel 1846. Intraprende ancora giovanissimo la carriera militare, partecipando alla campagna del 1866, e l’abbandona per l’attività giornalistica. Nel 1991 aderisce al socialismo, facendosi portavoce del filantropismo laico di fine Ottocento. Scrive La vita militare nel 1868 e resoconti di viaggi (Spagna del 1873 e Ricordi di Parigi del 1879). Ottiene un incredibile successo con il romanzo Cuore (1886). Esso rappresentò per più generazioni una sorta di “codice della morale laica” post-risorgimentale. Intervenne anche sulla questione della lingua con L’idioma gentile, seguendo l’esempio manzoniano. Muore a Bordighera nel 1908.

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Il romanzo, tradotto in moltissime lingue, che gli ha dato celebrità è certamente Cuore.

Il romanzo è il diario immaginario di un alunno di terza elementare, Enrico Bottini, che narra gli episodi, lieti e tristi, e le curiosità di un intero anno scolastico, annotando via via su un quaderno, che poi insieme al padre correggerà e risistemerà qualche anno dopo per la stampa. La vicenda è periodizzata in dieci mesi, da ottobre a luglio, nove racconti mensili, dettati dal maestro; in essi l’autore pone al centro dell’azione dei ragazzi-eroi, figure esemplari e simboliche di una realtà volutamente alterata perché drammatizzata e stilizzata. Una galleria di personaggi popola il diario di scuola, figure simboliche, nelle quali è tuttavia possibile cogliere momenti di notevole efficacia rappresentativa, soprattutto nelle rapide e incisive descrizioni degli ambienti in cui vivono e agiscono.

LA MADRE DI FRANTI

28, sabato

Ma Votini è incorreggibile. Ieri, alla lezione di religione, in presenza del Direttore, il maestro domandò a Derossi se sapeva a mente quelle due strofette del libro di lettura: dovunque il guardo io giro, Immenso Iddio ti vedo. – Derossi rispose di no, e Votini subito: «Io le so!» con un sorriso come per fare una picca a Derossi. Ma fu piccato lui, invece, che non poté recitare la poesia, perché entrò tutt’a un tratto nella scuola la madre di Franti, affannata, coi capelli grigi arruffati, tutta fradicia di neve, spingendo avanti il figliuolo che è stato sospeso dalla scuola per otto giorni. Che triste scena ci toccò di vedere! La povera donna si gettò quasi in ginocchio davanti al Direttore giungendo le mani, e supplicando: «Oh signor Direttore, mi faccia la grazia, riammetta il ragazzo alla scuola! Son tre giorni che è a casa, l’ho tenuto nascosto, ma Dio ne guardi se suo padre scopre la cosa, lo ammazza; abbia pietà, che non so più come fare! mi raccomando con tutta l’anima mia!» Il Direttore cercò di condurla fuori; ma essa resistette, sempre pregando e piangendo. «Oh! se sapesse le pene che m’ha dato questo figliuolo avrebbe compassione! Mi faccia la grazia! Io spero che cambierà. Io già non vivrò più un pezzo, signor Direttore, ho la morte qui, ma vorrei vederlo cambiato prima di morire perché…» e diede in uno scoppio di pianto, «è il mio figliuolo, gli voglio bene, morirei disperata; me lo riprenda ancora una volta, signor Direttore, perché non segua una disgrazia in famiglia, lo faccia per pietà d’una povera donna!». E si coperse il viso con le mani singhiozzando. Franti teneva il viso basso, impassibile. Il Direttore lo guardò, stette un po’ pensando, poi disse: «Franti, va al tuo posto.» Allora la donna levò le mani dal viso, tutta racconsolata, e cominciò a dir grazie, grazie, senza lasciar parlare il Direttore, e s’avviò verso l’uscio, asciugandosi gli occhi, e dicendo affollatamente: «Figliuol mio, mi raccomando. Abbiano pazienza tutti. Grazie, signor Direttore, che ha fatto un’opera di carità. Buono, sai, figliuolo. Buon giorno, ragazzi. Grazie, a rivederlo, signor maestro. E scusino tanto, una povera mamma. E data ancora di sull’uscio un’occhiata supplichevole a suo figlio, se n’andò, raccogliendo lo scialle che strascicava, pallida, incurvata, con la testa tremante, e la sentimmo ancor tossire giù per le scale. Il Direttore guardò fisso Franti, in mezzo al silenzio della classe, e gli disse con un accento da far tremare: «Franti, tu uccidi tua madre!» Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise.

 

LA MADRE DI GARRONE

29, sabato 

Tornato alla scuola, subito una triste notizia. Da vari giorni Garrone non veniva più perché sua madre era malata grave. Sabato sera è morta. Ieri mattina, appena entrato nella scuola, il maestro ci disse: «Al povero Garrone è toccata la più grande disgrazia che possa colpire un fanciullo. Gli è morta la madre. Domani egli ritornerà in classe. Vi prego fin d’ora, ragazzi: rispettate il terribile dolore che gli strazia l’anima. Quando entrerà, salutatelo con affetto, e seri: nessuno scherzi, nessuno rida con lui, mi raccomando.» E questa mattina, un po’ più tardi degli altri, entrò il povero Garrone. Mi sentii un colpo al cuore a vederlo. Era smorto in viso, aveva gli occhi rossi, e si reggeva male sulle gambe: pareva che fosse stato un mese malato: quasi non si riconosceva più: era vestito tutto di nero: faceva compassione. Nessuno fiatò; tutti lo guardarono. Appena entrato, al primo riveder quella scuola, dove sua madre era venuta a prenderlo quasi ogni giorno, quel banco sul quale s’era tante volte chinata i giorni d’esame a fargli l’ultima raccomandazione, e dove egli aveva tante volte pensato a lei, impaziente d’uscire per correrle incontro, diede in uno scoppio di pianto disperato. Il maestro lo tirò vicino a sé, se lo strinse al petto e gli disse: «Piangi, piangi pure, povero ragazzo; ma fatti coraggio. Tua madre non è più qua, ma ti vede, t’ama ancora, vive ancora accanto a te, e un giorno tu la rivedrai, perché sei un’anima buona e onesta come lei. Fatti coraggio». Detto questo, l’accompagnò al banco, vicino a me. Io non osavo di guardarlo. Egli tirò fuori i suoi quaderni e i suoi libri che non aveva aperti da molti giorni; e aprendo il libro di lettura dove c’è una vignetta che rappresenta una madre col figliuolo per mano, scoppiò in pianto un’altra volta, e chinò la testa sul banco. Il maestro ci fece segno di lasciarlo stare così, e cominciò la lezione. Io avrei voluto dirgli qualche cosa, ma non sapevo. Gli misi una mano sul braccio e gli dissi all’orecchio: «Non piangere, Garrone.» Egli non rispose, e senz’alzar la testa dal banco, mise la sua mano nella mia e ve la tenne un pezzo. All’uscita nessuno gli parlò tutti gli girarono intorno, con rispetto, e in silenzio. Io vidi mia madre che m’aspettava e corsi ad abbracciarla, ma essa mi respinse, e guardava Garrone. Subito non capii perché, ma poi m’accorsi che Garrone, solo in disparte, guardava me; e mi guardava con uno sguardo d’inesprimibile tristezza, che voleva dire: «Tu abbracci tua madre, e io non l’abbraccerò più! Tu hai ancora tua madre, e la mia è morta!» E allora capii perché mia madre m’aveva respinto e uscii senza darle la mano. 

Abbiamo volutamente messo a confronto i due passi per sottolineare come il De Amicis usi sottolineare l’aspetto patetico che permette al lettore, sin dalle prime parole, di esprimere un giudizio morale nel primo caso negativo, nel secondo positivo.

Cuore-TV-carlo-calenda.jpgEnrico Bottini nel Cuore di Comencini (1982)

Nel primo racconto si esprime quasi con un  coup de théâtre: interrompendo la lezione la madre di Franti irrompe sulla “scena” (parola che lo stesso autore in questo caso usa), con atteggiamenti teatrali, scompigliata, piangente, genuflessa davanti al Direttore, le mani al petto ad indicare la malattia. E si conclude con la condanna senza appello del giovane Franti, sottolineato dall’aggettivo infame e dal sorride, ad indicare l’irrecuperabilità di colui che calpesta anche il più celebrato rispetto che si deve alla figura materna (quindi alle istituzioni come la scuole e più su sino alla patria).

Cuore5.jpgCuore film del 1948

Nel secondo ci viene presentato invece il “buono” Garrone: anche qui l’autore presenta una scena, gli occhi rossi, l’abito nero, il pianto, l’abbraccio del maestro. De Amicis spinge la sua scrittura in un tono volutamente patetico, spingendo il lettore ad una “forzata commozione”. Quello che più ci colpisce è indubbiamente l’insistere su quel verbo, presente nei due brani e così carico di significato: l’irridere di Franti è presentato come atteggiamento antisociale; per questo per Garrone la raccomandazione del maestro è quella di “non ridere”.

Presentiamo ora un racconto mensile:

IL PICCOLO SCRIVANO FIORENTINO

Faceva la quarta elementare. Era un grazioso fiorentino di dodici anni, nero di capelli e bianco di viso, figliuolo maggiore d’un impiegato delle strade ferrate, il quale, avendo molta famiglia e poco stipendio, viveva nelle strettezze. Suo padre lo amava ed era assai buono e indulgente con lui: indulgente in tutto fuorché in quello che toccava la scuola: in questo pretendeva molto e si mostrava severo perché il figliuolo doveva mettersi in grado di ottener presto un impiego per aiutar la famiglia; e per valer presto qualche cosa gli bisognava faticar molto in poco tempo. E benché il ragazzo studiasse, il padre lo esortava sempre a studiare. Era già avanzato negli anni, il padre, e il troppo lavoro l’aveva anche invecchiato prima del tempo. Non di meno, per provvedere ai bisogni della famiglia, oltre al molto lavoro che gl’imponeva il suo impiego, pigliava ancora qua e là dei lavori straordinari di copista, e passava una buona parte della notte a tavolino. Da ultimo aveva preso da una Casa editrice, che pubblicava giornali e libri a dispense, l’incarico di scriver sulle fasce il nome e l’indirizzo degli abbonati e guadagnava tre lire per ogni cinquecento di quelle strisciole di carta, scritte in caratteri grandi e regolari. Ma questo lavoro lo stancava, ed egli se ne lagnava spesso con la famiglia, a desinare. «I miei occhi se ne vanno,» diceva, «questo lavoro di notte mi finisce.» Il figliuolo gli disse un giorno: «Babbo, fammi lavorare in vece tua; tu sai che scrivo come te, tale e quale.» Ma il padre gli rispose: «No figliuolo; tu devi studiare; la tua scuola è una cosa molto più importante delle mie fasce; avrei rimorsi di rubarti un’ora; ti ringrazio, ma non voglio, e non parlarmene più.»  
Il figliuolo sapeva che con suo padre, in quelle cose, era inutile insistere, e non insistette. Ma ecco che cosa fece. Egli sapeva che a mezzanotte in punto suo padre smetteva di scrivere, e usciva dal suo stanzino da lavoro per andare nella camera da letto. Qualche volta l’aveva sentito: scoccati i dodici colpi al pendolo, aveva sentito immediatamente il rumore della seggiola smossa e il passo lento di suo padre. Una notte aspettò ch’egli fosse a letto, si vestì piano piano, andò a tentoni nello stanzino, riaccese il lume a petrolio, sedette alla scrivania, dov’era un mucchio di fasce bianche e l’elenco degli indirizzi, e cominciò a scrivere, rifacendo appuntino la scrittura di suo padre. E scriveva di buona voglia, contento, con un po’ di paura, e le fasce s’ammontavano, e tratto tratto egli smetteva la penna per fregarsi le mani, e poi ricominciava con più alacrità, tendendo l’orecchio, e sorrideva. Centosessanta ne scrisse: una lira! Allora si fermò, rimise la penna dove l’aveva presa, spense il lume, e tornò a letto, in punta di piedi. 
Quel giorno, a mezzodì, il padre sedette a tavola di buon umore. Non s’era accorto di nulla. Faceva quel lavoro meccanicamente, misurandolo a ore e pensando ad altro, e non contava le fasce scritte che il giorno dopo. Sedette a tavola di buonumore, e battendo una mano sulla spalla al figliuolo: «Eh, Giulio,» disse, «è ancora un buon lavoratore tuo padre, che tu credessi! In due ore ho fatto un buon terzo di lavoro più del solito, ieri sera. La mano è ancora lesta, e gli occhi fanno ancora il loro dovere.» E Giulio, contento, muto, diceva tra sé: “Povero babbo, oltre al guadagno, io gli dò ancora questa soddisfazione, di credersi ringiovanito. Ebbene, coraggio”.
Incoraggiato dalla buona riuscita, la notte appresso, battute le dodici, su un’altra volta, e al lavoro. E così fece per varie notti. E suo padre non s’accorgeva di nulla. Solo una volta, a cena, uscì in quest’esclamazione: «È strano, quanto petrolio va in questa casa da un po’ di tempo! Giulio ebbe una scossa; ma il discorso si fermò lì. E il lavoro notturno andò innanzi.»  

Senonché, a rompersi così il sonno ogni notte, Giulio non riposava abbastanza, la mattina si levava stanco, e la sera, facendo il lavoro di scuola, stentava a tener gli occhi aperti. Una sera, – per la prima volta in vita sua, – s’addormentò sul quaderno. «Animo! animo!» gli gridò suo padre, battendo le mani, «al lavoro!» Egli si riscosse e si rimise al lavoro. Ma la sera dopo, e i giorni seguenti, fu la cosa medesima, e peggio: sonnecchiava sui libri, si levava più tardi del solito, studiava la lezione alla stracca, pareva svogliato dello studio. Suo padre cominciò a osservarlo, poi a impensierirsi, e in fine a fargli dei rimproveri. Non glie ne aveva mai dovuto fare! «Giulio,» gli disse una mattina, «tu mi ciurli nel manico, tu non sei più quel d’una volta. Non mi va questo. Bada, tutte le speranze della famiglia riposano su di te. Io son malcontento, capisci!» A questo rimprovero, il primo veramente severo ch’ei ricevesse, il ragazzo si turbò. “E sì,” disse tra sé, “è vero; così non si può continuare; bisogna che l’inganno finisca”. Ma la sera di quello stesso giorno, a desinare, suo padre uscì a dire con molta allegrezza: «Sapete che in questo mese ho guadagnato trentadue lire di più che nel mese scorso, a far fasce!» e dicendo questo, tirò di sotto alla tavola un cartoccio di dolci, che aveva comprati per festeggiare coi suoi figliuoli il guadagno straordinario, e che tutti accolsero battendo le mani. E allora Giulio riprese animo, e disse in cuor suo: “No, povero babbo, io non cesserò d’ingannarti; io farò degli sforzi più grandi per studiar lungo il giorno; ma continuerò a lavorare di notte per te e per tutti gli altri”. E il padre soggiunse: «Trentadue lire di più! Son contento… Ma è quello là,» e indicò Giulio, «che mi dà dei dispiaceri.» E Giulio ricevé il rimprovero in silenzio, ricacciando dentro due lagrime che volevano uscire; ma sentendo ad un tempo nel cuore una grande dolcezza. 
E seguitò a lavorare di forza. Ma la fatica accumulandosi alla fatica, gli riusciva sempre più difficile di resistervi. La cosa durava da due mesi. Il padre continuava a rimbrottare il figliuolo e a guardarlo con occhio sempre più corrucciato. Un giorno andò a chiedere informazioni al maestro, e il maestro gli chiese: «Sì, fa, fa, perché ha intelligenza. Ma non ha più la voglia di prima. Sonnecchia, sbadiglia, è distratto. Fa delle composizioni corte, buttate giù in fretta, in cattivo carattere. Oh! potrebbe far molto, ma molto di più.» Quella sera il padre prese il ragazzo in disparte e gli disse parole più gravi di quante ei ne avesse mai intese. «Giulio, tu vedi ch’io lavoro, ch’io mi logoro la vita per la famiglia. Tu non mi assecondi. Tu non hai cuore per me, né per i tuoi fratelli, né per tua madre!» «Ah no! non lo dire, babbo!» gridò il figliuolo scoppiando in pianto, e aprì la bocca per confessare ogni cosa. Ma suo padre l’interruppe, dicendo: «Tu conosci le condizioni della famiglia; sai se c’è bisogno di buon volere e di sacrifici da parte di tutti. Io stesso, vedi, dovrei raddoppiare il mio lavoro. Io contavo questo mese sopra una gratificazione di cento lire alle strade ferrate, e ho saputo stamani che non avrò nulla!» A quella notizia, Giulio ricacciò dentro subito la confessione che gli stava per fuggire dall’anima, e ripeté risolutamente a sé stesso: “No, babbo, io non ti dirò nulla; io custodirò il segreto per poter lavorare per te; del dolore di cui ti son cagione, ti compenso altrimenti; per la scuola studierò sempre abbastanza da esser promosso; quello che importa è di aiutarti a guadagnar la vita, e di alleggerirti la fatica che t’uccide”. E tirò avanti, e furono altri due mesi di lavoro di notte e di spossatezza di giorno, di sforzi disperati del figliuolo e di rimproveri amari del padre. Ma il peggio era che questi s’andava via via raffreddando col ragazzo, non gli parlava più che di rado, come se fosse un figliuolo intristito, da cui non restasse più nulla a sperare, e sfuggiva quasi d’incontrare il suo sguardo. E Giulio se n’avvedeva, e ne soffriva, e quando suo padre voltava le spalle, gli mandava un bacio furtivamente, sporgendo il viso, con un sentimento di tenerezza pietosa e triste; e tra per il dolore e per la fatica, dimagrava e scoloriva, e sempre più era costretto a trasandare i suoi studi. E capiva bene che avrebbe dovuto finirla un giorno, e ogni sera si diceva:  “Questa notte non mi leverò più;” ma allo scoccare delle dodici, nel momento in cui avrebbe dovuto riaffermare vigorosamente il suo proposito, provava un rimorso, gli pareva, rimanendo a letto, di mancare a un dovere, di rubare una lira a suo padre e alla sua famiglia. E si levava, pensando che una qualche notte suo padre si sarebbe svegliato e l’avrebbe sorpreso, o che pure si sarebbe accorto dell’inganno per caso, contando le fasce due volte; e allora tutto sarebbe finito naturalmente, senza un atto della sua volontà, ch’egli non si sentiva il coraggio di compiere. E così continuava. 
Ma una sera, a desinare, il padre pronunciò una parola che fu decisiva per lui. Sua madre lo guardò, e parendole di vederlo più malandato e più smorto del solito, gli disse: «Giulio, tu sei malato.» E poi, voltandosi al padre, ansiosamente: «Giulio è malato. Guarda com’è pallido! Giulio mio, cosa ti senti?» Il padre gli diede uno sguardo di sfuggita, e disse: «È la cattiva coscienza che fa la cattiva salute. Egli non era così quando era uno scolaro studioso e un figliuolo di cuore.» «Ma egli sta male!» esclamò la mamma. «Non me ne importa più!» rispose il padre. 
Quella parola fu una coltellata al cuore per il povero ragazzo. Ah! non glie ne importava più. Suo padre che tremava, una volta, solamente a sentirlo tossire! Non l’amava più dunque, non c’era più dubbio ora, egli era morto nel cuore di suo padre… “Ah! no, padre mio,” disse tra sé il ragazzo, col cuore stretto dall’angoscia, “ora è finita davvero, io senza il tuo affetto non posso vivere, lo rivoglio intero, ti dirò tutto, non t’ingannerò più, studierò come prima; nasca quel che nasca, purché tu torni a volermi bene, povero padre mio! Oh questa volta son ben sicuro della mia risoluzione!”
Ciò non di meno, quella notte si levò ancora, per forza d’abitudine, più che per altro; e quando fu levato, volle andare a salutare, a riveder per qualche minuto, nella quiete della notte, per l’ultima volta, quello stanzino dove aveva tanto lavorato segretamente, col cuore pieno di soddisfazione e di tenerezza. E quando si ritrovò al tavolino, col lume acceso, e vide quelle fasce bianche, su cui non avrebbe scritto mai più quei nomi di città e di persone che oramai sapeva a memoria, fu preso da una grande tristezza, e con un atto impetuoso ripigliò la penna, per ricominciare il lavoro consueto. Ma nello stender la mano urtò un libro, e il libro cadde. Il sangue gli diede un tuffo. Se suo padre si svegliava! Certo non l’avrebbe sorpreso a commettere una cattiva azione, egli stesso aveva ben deciso di dirgli tutto; eppure… il sentir quel passo avvicinarsi, nell’oscurità; – l’esser sorpreso a quell’ora, in quel silenzio; – sua madre che si sarebbe svegliata e spaventata, – e il pensar per la prima volta che suo padre avrebbe forse provato un’umiliazione in faccia sua, scoprendo ogni cosa… tutto questo lo atterriva, quasi. – Egli tese l’orecchio, col respiro sospeso… Non sentì rumore. Origliò alla serratura dell’uscio che aveva alle spalle: nulla. Tutta la casa dormiva. Suo padre non aveva inteso. Si tranquillò. E ricominciò a scrivere. E le fasce s’ammontavano sulle fasce. Egli sentì il passo cadenzato delle guardie civiche giù nella strada deserta; poi un rumore di carrozza che cessò tutt’a un tratto; poi, dopo un pezzo, lo strepito d’una fila di carri che passavano lentamente; poi un silenzio profondo, rotto a quando a quando dal latrato lontano d’un cane. E scriveva, scriveva. E intanto suo padre era dietro di lui: egli s’era levato udendo cadere il libro, ed era rimasto aspettando il buon punto; lo strepito dei carri aveva coperto il fruscio dei suoi passi e il cigolio leggiero delle imposte dell’uscio; ed era là, – con la sua testa bianca sopra la testina nera di Giulio, – e aveva visto correr la penna sulle fasce, – e in un momento aveva tutto indovinato, tutto ricordato, tutto compreso, e un pentimento disperato, una tenerezza immensa, gli aveva invaso l’anima, e lo teneva inchiodato, soffocato là, dietro al suo bimbo. All’improvviso, Giulio diè un grido acuto, – due braccia convulse gli avevan serrata la testa. «O babbo! babbo, perdonami! Perdonami!»- gridò, riconoscendo suo padre al pianto. «Tu, perdonami!» rispose il padre, singhiozzando e coprendogli la fronte di baci, «ho capito tutto, so tutto, son io, son io che ti domando perdono, santa creatura mia, vieni, vieni con me!» E lo sospinse, o piuttosto se lo portò al letto di sua madre, svegliata, e glielo gettò tra le braccia e le disse: «Bacia quest’angiolo di figliuolo che da tre mesi non dorme e lavora per me, e io gli contristo il cuore, a lui che ci guadagna il pane!» La madre se lo strinse e se lo tenne sul petto, senza poter raccoglier la voce; poi disse: «A dormire, subito, bambino mio, va’ a dormire, a riposare! Portalo a letto!» Il padre lo pigliò fra le braccia, lo portò nella sua camera, lo mise a letto, sempre ansando e carezzandolo, e gli accomodò i cuscini e le coperte. «Grazie, babbo,» andava ripetendo il figliuolo, «grazie; ma va’ a letto tu ora; io sono contento; va’ a letto, babbo.» – Ma suo padre voleva vederlo addormentato, sedette accanto al letto, gli prese la mano e gli disse:  «Dormi, dormi figliuol mio!» E Giulio, spossato, s’addormentò finalmente, e dormì molte ore, godendo per la prima volta, dopo vari mesi, d’un sonno tranquillo, rallegrato da sogni ridenti; e quando aprì gli occhi, che splendeva già il sole da un pezzo, sentì prima, e poi si vide accosto al petto, appoggiata sulla sponda del letticciolo, la testa bianca del padre, che aveva passata la notte così, e dormiva ancora, con la fronte contro il suo cuore.

2016-07-12-19-39-34Illustrazione per Il piccolo scrivano fiorentino

E’ evidente in questo racconto come il nostro spinga la tonalità verso il versante sentimentale e lo fa attraverso una struttura ripetitiva che accentua la suspense da parte del lettore che, pur sapendo come il racconto va a finire, vuole sapere il modo attraverso cui questa chiusura avverrà. Per far questo, all’interno di una struttura composta da solo tre personaggi, di cui solo due fortemente caratterizzati, padre e figlio, (la madre è una narratologicamente parlando, comparsa), l’autore “onnisciente” fa sì che il lettore sappia lo sforzo del giovane per aiutare il padre, sforzo che, che colpendo la capacità di concentrazione va a ledere la sua capacità scolastica, suscita l’ira paterna. Tale struttura si ripete per tutto il racconto, spezzata dai pensieri del giovane che per vari motivi si trova  nell’impossibilità di confessare il suo lavoro notturno, pur pagandolo con il disinteresse paterno per i suoi insuccessi da scolaro. La soluzione, un po’ meccanica, non può essere che fortuita, un rumore prodotto, il padre che si accorge del lavoro del figlio, ed il perdono che si chiude con un’immagine decisamente “emotiva”: la fronte contro il suo cuore; ecco che De Amicis in poche pagine riassume l’intento pedagogico: abnegazione del lavoro fino al sacrificio per salvaguardare l’unità e l’amore familiare; tale capacità “pedagogica” altre volte verrà piegata a sottolineare l’amor di patria e l’amore per il re, l’interclassismo e il rispetto verso i più poveri, il filantropismo.

Più interessante è certamente Pinocchio, di Carlo Collodi:

Carlo_Collodi_1.jpgCarlo Collodi

Collodi (Carlo Lorenzini) nasce a Firenze nel 1826 da genitori di modesta condizione economica, primogenito di ben 19 figli. La mamma Angiolina era la figlia del fattore dei marchesi Ginori che possedevano un podere a Collodi, paese toscano che ispirò lo scrittore per il suo pseudonimo. Giovane studiò, entrando in seminario: non diventò prete, ma ricevette una buona istruzione. Interruppe gli studi superiori nel 1844, ma aveva già cominciato a lavorare come commesso nella libreria Piatti di Firenze probabilmente fin dal 1843. Nel 1847 collaborò all’Italia Musicale, giornale milanese di cui divenne ben presto una delle firme di maggior richiamo. Arruolatosi volontario partecipò sia alla prima che alla seconda guerra d’indipendenza. Dopo l’unità, contemporaneamente alla partecipazione di giornali comici e satirici, cominciò ad interessarsi alla letteratura per l’infanzia che culmineranno nel 1875 con I racconti delle fate, cui seguiranno Giannettino e Minuzzolo. Nel 1881 uscì su Il giornale dei bambini la prima puntata de Le avventure di Pinocchio con il titolo Storia di un burattino, che vide la luce in volume nel 1883. All’apice del successo, nel 1890, colpito da un aneurisma muore a 64 anni. Viene sepolto nel Cimitero delle Porte Sante a Firenze.

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Il falegname Geppetto con un pezzo di legno «che piangeva e rideva come un bambino» costruisce il burattino Pinocchio, il quale parla, cammina e si muove come un vero bambino e si rivela subito un autentico discolo. Dopo aver schiacciato il Grillo parlante, di cui non gradiva i saggi consigli, vende l’abbecedario, che Geppetto gli ha comprato sacrificando la sua casacca, per andare al teatro dei burattini; ivi il burattinaio Mangiafuoco, prima lo minaccia poi gli regala cinque monete d’oro. Ma Pinocchio, invece di portarle a Geppetto, si lascia abbindolare e derubare da il Gatto e la Volpe, che lo impiccano; lo salva la Fata dai capelli turchini. Dopo essersi fatto di nuovo derubare dal Gatto e dalla Volpe e aver subito altre disavventure (fra l’altro viene imprigionato e rimane preso nella tagliola di un contadino che lo obbliga a far da cane da guardia) ritrova la Fata e sembra voler mettere giudizio. Ma le complicazioni non sono finite: Pinocchio prima corre il rischio di finire nuovamente in prigione e poi di venir fritto in padella da un pescatore; parte in seguito col suo amico Lucignolo per il Paese dei Balocchi; qui, passati cinque mesi di continua baldoria, si trasforma in asino. Viene allora comprato dal direttore di una compagnia di pagliacci; azzoppatosi durante uno spettacolo, è venduto ad un uomo che vorrebbe fare della sua pelle un tamburo; tenta perciò di annegarlo, ma i pesci divorano l’involucro asinino e Pinocchio, tornato burattino, fugge a nuoto. In mare viene inghiottito dal pescecane, nel cui ventre incontra Geppetto, il quale, messosi in viaggio per cercarlo, aveva fatto naufragio ed era stato a sua volta inghiottito. I due fuggono dalla bocca spaventata del pescecane e si mettono in salvo. Ammaestrato dalle sue esperienze, Pinocchio mette giudizio, comincia a lavorare per mantenere Geppetto e si mette anche a studiare: ormai è diventato buono, e la conclusione è che una bella mattina si sveglia trasformato in un ragazzo.

C’ERA UNA VOLTA

I.
Come andò che maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino.

C’era una volta…
«Un re!» diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce: «Questo legno è capitato a tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino». Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo, ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentì una vocina sottile, che disse raccomandandosi: «Non mi picchiar tanto forte!»
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!
Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco, e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; apri l’uscio di bottega per dare un’occhiata anche sulla strada, e nessuno! O dunque?…
«Ho capito;» disse allora ridendo e grattandosi la parrucca, «si vede che quella vocina me la sono figurata io. Rimettiamoci a lavorare». E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solennissimo colpo sul pezzo di legno.
«Ohi! tu m’hai fatto male!» gridò rammaricandosi la solita vocina.
Questa volta maestro Ciliegia restò di stucco, cogli occhi fuori del capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua giù ciondoloni fino al mento, come un mascherone da fontana.
Appena riebbe l’uso della parola, cominciò a dire tremando e balbettando dallo spavento: «Ma di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?… Eppure qui non c’è anima viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Io non lo posso credere. Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto, come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di fagioli… O dunque? Che ci sia nascosto dentro qualcuno? Se c’è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l’accomodo io! E così dicendo, agguantò con tutt’e due le mani quel povero pezzo di legno e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della stanza. Poi si messe in ascolto, per sentire se c’era qualche vocina che si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla!
«Ho capito,» disse allora sforzandosi di ridere e arruffandosi la parrucca, «si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la sono figurata io! Rimettiamoci a lavorare».
E perché gli era entrata addosso una gran paura, si provò a canterellare per farsi un po’ di coraggio.
Intanto, posata da una parte l’ascia, prese in mano la pialla, per piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava in su e in giù, senti la solita vocina che gli disse ridendo: «Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo! Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato. Quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra. Il suo viso pareva trasfigurato, e perfino la punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.»

L’incipit delle favole è rovesciato, al c’era una volta un re… si sostituisce il c’era una volta un pezzo di legno. Per il resto da questo rovesciamento deriva la capacità di Collodi di tenersi in un perfetto equilibrio tra il “realismo” dell’ambientazione (la piccola bottega di un falegname) la “maschera” del teatro dell’arte (maestro Ciligia, caratterizzato dal naso paonazzo e la parrucca) e il fantastico con il legno parlante.

maxresdefault.jpgMastro Ciliegia e Geppetto nel Pinocchio di Comencini

Stilisticamente l’opera si basa sulla paratassi, nel registro di un fiorentino parlato, con l’intenzione assolutamente mimetica, affinché vi fosse, sin dall’inizio, capacità di adesione totale tra la “favola” raccontata ed i suoi piccoli (non solo) lettori.

III
Geppetto, tornato a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino e gli mette il nome di Pinocchio. Prime monellerie del burattino.

La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero. Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino. «Che nome gli metterò?» disse fra sé e sé. «Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.» Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a lavorare a buono, e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi. Fatti gli occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accorse che gli occhi si muovevano e che lo guardavano fisso fisso. Geppetto, vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n’ebbe quasi per male, e disse con accento risentito: «Occhiacci di legno, perché mi guardate?» Nessuno rispose. Allora, dopo gli occhi, gli fece il naso; ma il naso, appena fatto, cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai. Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo. Dopo il naso, gli fece la bocca. La bocca non era ancora finita di fare, che cominciò subito a ridere e a canzonarlo. «Smetti di ridere!» disse Geppetto impermalito; ma fu come dire al muro. «Smetti di ridere, ti ripeto!» urlò con voce minacciosa. Allora la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori tutta la lingua. Geppetto, per non guastare i fatti suoi, finse di non avvedersene, e continuò a lavorare. Dopo la bocca, gli fece il mento, poi il collo, le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani. Appena finite le mani, Geppetto senti portarsi via la parrucca dal capo. Si voltò in su, e che cosa vide? Vide la sua parrucca gialla in mano del burattino.  «Pinocchio!… rendimi subito la mia parrucca!» E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la messe in capo per sé, rimanendovi sotto mezzo affogato. A quel garbo insolente e derisorio, Geppetto si fece triste e melanconico, come non era stato mai in vita sua, e voltandosi verso Pinocchio, gli disse: «Birba d’un figliuolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male! E si rasciugò una lacrima.» Restavano sempre da fare le gambe e i piedi. Quando Geppetto ebbe finito di fargli i piedi, sentì arrivarsi un calcio sulla punta del naso. «Me lo merito!» disse allora fra sé. «Dovevo pensarci prima! Ormai è tardi!» Poi prese il burattino sotto le braccia e lo posò in terra, sul pavimento della stanza, per farlo camminare. Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un passo dietro l’altro. Quando le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare. E il povero Geppetto a corrergli dietro senza poterlo raggiungere, perché quel birichino di Pinocchio andava a salti come una lepre, e battendo i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un fracasso, come venti paia di zoccoli da contadini. «Piglialo! piglialo!» urlava Geppetto; ma la gente che era per la via, vedendo questo burattino di legno, che correva come un barbero, si fermava incantata a guardarlo, e rideva, rideva e rideva, da non poterselo figurare. Alla fine, e per buona fortuna, capitò un carabiniere, il quale, sentendo tutto quello schiamazzo e credendo si trattasse di un puledro che avesse levata la mano al padrone, si piantò coraggiosamente a gambe larghe in mezzo alla strada, coll’animo risoluto di fermarlo e di impedire il caso di maggiori disgrazie. Ma Pinocchio, quando si avvide da lontano del carabiniere che barricava tutta la strada, s’ingegnò di passargli, per sorpresa, frammezzo alle gambe, e invece fece fiasco. Il carabiniere, senza punto smoversi, lo acciuffò pulitamente per il naso (era un nasone spropositato, che pareva fatto apposta per essere acchiappato dai carabinieri), e lo riconsegnò nelle proprie mani di Geppetto; il quale, a titolo di correzione, voleva dargli subito una buona tiratina d’orecchi. Ma figuratevi come rimase quando, nel cercargli gli orecchi, non gli riuscì di poterli trovare: e sapete perché? Perché, nella furia di scolpirlo, si era dimenticato di farglieli. Allora lo prese per la collottola, e, mentre lo riconduceva indietro, gli disse tentennando minacciosamente il capo:  «Andiamo a casa. Quando saremo a casa, non dubitare che faremo i nostri conti!» Pinocchio, a questa antifona, si buttò per terra, e non volle più camminare. Intanto i curiosi e i bighelloni principiavano a fermarsi lì dintorno e a far capannello. Chi ne diceva una, chi un’altra. «Povero burattino!» dicevano alcuni, «ha ragione a non voler tornare a casa! Chi lo sa come lo picchierebbe quell’omaccio di Geppetto!…» E gli altri soggiungevano malignamente: «Quel Geppetto pare un galantuomo! ma è un vero tiranno coi ragazzi! Se gli lasciano quel povero burattino fra le mani, è capacissimo di farlo a pezzi!… Insomma, tanto dissero e tanto fecero, che il carabiniere rimise in libertà Pinocchio e condusse in prigione quel pover’uomo di Geppetto. Il quale, non avendo parole lì per lì per difendersi, piangeva come un vitellino, e nell’avviarsi verso il carcere, balbettava singhiozzando: «Sciagurato figliuolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!…» Quello che accadde dopo, è una storia da non potersi credere, e ve la racconterò in quest’altri capitoli.

Untitled-5-2Pinocchio nel film di Garrone

Anche con questo breve capitoletto Collodi ci induce ad individuare sin dalle prime descrizioni, con un dialogo fortemente caratterizzato a rendere più efficace la struttura teatrale, il carattere dei personaggi: il rassegnato Geppetto, la cui bonarietà lo porterà a pagare una colpa non sua, ed il discolo burattino Pinocchio. Il fatto che sia discolo, permetterà all’autore di farlo imbattere in diverse disavventure che, in una struttura quale quella del romanzo d’appendice, potranno ampliarsi durante la pubblicazione a puntate sul giornale; ma anche di prospettare una “rieducazione” che permetterà al romanzo di perseguire l’intento pedagogico, fondamentale nella letteratura per ragazzi.

XXXV
Pinocchio ritrova in corpo al Pesce-cane… Chi ritrova? Leggete questo capitolo e lo saprete.

Pinocchio, appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel buio, e cominciò a camminare a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, avviandosi un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano.
E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto che gli pareva di essere a mezza quaresima. E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato… che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.
A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:
«Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!»
«Dunque gli occhi mi dicono il vero?» replicò il vecchietto stropicciandosi gli occhi,  «Dunque tu sé proprio il mi’ caro Pinocchio?»
«Sì, sì, sono io, proprio io! E voi mi avete digià perdonato, non è vero? Oh! babbino mio, come siete buono!… e pensare che io, invece… Oh! ma se sapeste quante disgrazie mi son piovute sul capo e quante cose mi son andate per traverso! Figuratevi che il giorno che voi, povero babbino, col vendere la vostra casacca mi compraste l’Abbecedario per andare a scuola, io scappai a vedere i burattini, e il burattinaio mi voleva mettere sul fuoco perché gli cocessi il montone arrosto, che fu quello poi che mi dette cinque monete d’oro, perché le portassi a voi, ma io trovai la Volpe e il Gatto, che mi condussero all’osteria del Gambero Rosso dove mangiarono come lupi, e partito solo di notte incontrai gli assassini che si messero a corrermi dietro, e io via, e loro dietro, e io via e loro sempre dietro, e io via, finché m’impiccarono a un ramo della Quercia grande, dovecché la bella Bambina dai capelli turchini mi mandò a prendere con una carrozzina, e i medici, quando m’ebbero visitato, dissero subito: “Se non è morto, è segno che è sempre vivo”, e allora mi scappò detto una bugia, e il naso cominciò a crescermi e non mi passava più dalla porta di camera, motivo per cui andai con la Volpe e col Gatto a sotterrare le quattro monete d’oro, che una l’avevo spesa all’osteria, e il pappagallo si messe a ridere, e viceversa di duemila monete non trovai più nulla, la quale il giudice quando seppe che ero stato derubato, mi fece subito mettere in prigione, per dare una soddisfazione ai ladri, di dove, col venir via, vidi un bel grappolo d’uva in un campo, che rimasi preso alla tagliola e il contadino di santa ragione mi messe il collare da cane perché facessi la guardia al pollaio, che riconobbe la mia innocenza e mi lasciò andare, e il Serpente, colla coda che gli fumava, cominciò a ridere e gli si strappò una vena sul petto e così ritornai alla Casa della bella Bambina, che era morta, e il Colombo vedendo che piangevo mi disse: “Ho visto il tu’ babbo che si fabbricava una barchettina per venirti a cercare”, e io gli dissi: “Oh! se avessi l’ali anch’io”, e lui mi disse: “Vuoi venire dal tuo babbo?”, e io gli dissi: “Magari! ma chi mi ci porta”, e lui mi disse: “Ti ci porto io”, e io gli dissi: “Come?”, e lui mi disse: “Montami sulla groppa”, e così abbiamo volato tutta la notte, e poi la mattina tutti i pescatori che guardavano verso il mare mi dissero: “C’è un pover’uomo in una barchetta che sta per affogare”, e io da lontano vi riconobbi subito, perché me lo diceva il core, e vi feci cenno di tornare alla spiaggia…
«Ti riconobbi anch’io,» disse Geppetto, «e sarei volentieri tornato alla spiaggia: ma come fare? Il mare era grosso e un cavallone m’arrovesciò la barchetta. Allora un orribile Pesce-cane che era lì vicino, appena m’ebbe visto nell’acqua corse subito verso di me, e tirata fuori la lingua, mi prese pari pari, e m’inghiottì come un tortellino di Bologna.»
«E quant’è che siete chiuso qui dentro?» domandò Pinocchio.
«Da quel giorno in poi, saranno oramai due anni: due anni, Pinocchio mio, che mi son parsi due secoli!»
«E come avete fatto a campare? E dove avete trovata la candela? E i fiammiferi per accenderla, chi ve li ha dati?»
«Ora ti racconterò tutto. Devi dunque sapere che quella medesima burrasca, che rovesciò la mia barchetta, fece anche affondare un bastimento mercantile. I marinai si salvarono tutti, ma il bastimento colò a fondo e il solito Pesce-cane, che quel giorno aveva un appetito eccellente, dopo aver inghiottito me, inghiottì anche il bastimento…» «Come? Lo inghiottì tutto in un boccone?…» domandò Pinocchio maravigliato.
«Tutto in un boccone: e risputò solamente l’albero maestro, perché gli era rimasto fra i denti come una lisca. Per mia gran fortuna, quel bastimento era carico di carne conservata in cassette di stagno, di biscotto, ossia di pane abbrostolito, di bottiglie di vino, d’uva secca, di cacio, di caffè, di zucchero, di candele steariche e di scatole di fiammiferi di cera. Con tutta questa grazia di Dio ho potuto campare due anni: ma oggi sono agli ultimi sgoccioli: oggi nella dispensa non c’è più nulla, e questa candela, che vedi accesa, è l’ultima candela che mi sia rimasta…»
«E dopo?…»
«E dopo, caro mio, rimarremo tutt’e due al buio.»
«Allora, babbino mio», disse Pinocchio, «non c’è tempo da perdere. Bisogna pensar subito a fuggire…»
«A fuggire?… e come?»
«Scappando dalla bocca del Pesce-cane e gettandosi a nuoto in mare.»
«Tu parli bene: ma io, caro Pinocchio, non so nuotare.»
«E che importa?… Voi mi monterete a cavalluccio sulle spalle e io, che sono un buon nuotatore, vi porterò sano e salvo fino alla spiaggia.»
«Illusioni, ragazzo mio!» replicò Geppetto, scotendo il capo e sorridendo malinconicamente.
«Ti par egli possibile che un burattino, alto appena un metro, come sei tu, possa aver tanta forza da portarmi a nuoto sulle spalle?»
«Provatevi e vedrete! A ogni modo, se sarà scritto in cielo che dobbiamo morire, avremo almeno la gran consolazione di morire abbracciati insieme.»
E senza dir altro, Pinocchio prese in mano la candela, e andando avanti per far lume, disse al suo babbo: «Venite dietro a me, e non abbiate paura. E così camminarono un bel pezzo, e traversarono tutto il corpo e tutto lo stomaco del Pesce-cane. Ma giunti che furono al punto dove cominciava la gran gola del mostro, pensarono bene di fermarsi per dare un’occhiata e cogliere il momento opportuno alla fuga.
Ora bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo molto vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormir a bocca aperta: per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.
«Questo è il vero momento di scappare,» bisbigliò allora voltandosi al suo babbo. «Il Pescecane dorme come un ghiro: il mare è tranquillo e ci si vede come di giorno. Venite dunque, babbino, dietro a me e fra poco saremo salvi. Detto fatto, salirono su per la gola del mostro marino, e arrivati in quell’immensa bocca cominciarono a camminare in punta di piedi sulla lingua; una lingua così larga e così lunga, che pareva il viottolone d’un giardino. E già stavano lì lì per fare il gran salto e per gettarsi a nuoto nel mare, quando, sul più bello, il Pesce-cane starnutì, e nello starnutire, dette uno scossone così violento, che Pinocchio e Geppetto si trovarono rimbalzati all’indietro e scaraventati novamente in fondo allo stomaco del mostro. Nel grand’urto della caduta la candela si spense, e padre e figliuolo rimasero al buio.
«E ora?…» domandò Pinocchio facendosi serio.
«Ora ragazzo mio, siamo bell’e perduti.»
«Perché perduti? Datemi la mano, babbino, e badate di non sdrucciolare!..».
«Dove mi conduci?»
«Dobbiamo ritentare la fuga. Venite con me e non abbiate paura.»
Ciò detto, Pinocchio prese il suo babbo per la mano: e camminando sempre in punta di piedi, risalirono insieme su per la gola del mostro: poi traversarono tutta la lingua e scavalcarono i tre filari di denti.
Prima però di fare il gran salto, il burattino disse al suo babbo: «Montatemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io. Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle del figliuolo, Pinocchio, sicurissimo del fatto suo, si gettò nell’acqua e cominciò a nuotare. Il mare era tranquillo come un olio: la luna splendeva in tutto il suo chiarore e il Pesce-cane seguitava a dormire di un sonno così profondo, che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata.

unnamed (2).jpgErnesto Favaretti: Pinocchio nella pancia della balena

“La descrizione dell’esperienza di Pinocchio nel ventre del pescecane è modellata sull’archetipo biblico di Giona nel ventre della balena, tante volte imitato in letteratura. Nella Bibbia, però, l’episodio è sapienziale: nella solitudine e nell’isolamento Giona medita sul significato dell’esistenza. Collodi trasforma, invece, il modello in chiave avventurosa: se è pur vero che si tratta del momento finale del cammino di ravvedimento del burattino, sono del tutto assenti l’indagine psicologica e la meditazione morale e filosofica, mentre si affacciano ingredienti che richiamano piuttosto i romanzi d’avventura. Ad esempio, la nave inghiottita dalla tempesta e fortunosamente a disposizione di Geppetto con le sue provviste proviene chiaramente dal Robinson Crusoe di Defoe. E avventuroso è il racconto della fuga dalla bocca del pescecane” (Barbéri Squarotti).

Non mancano in questo episodio inoltre elementi ironici e fiabeschi: il pescecane che soffre d’asma e la tavola apparecchiata di Geppetto. Quello che cambia rispetto al resto del romanzo è il ripercorrere le avventure di Pinocchio (tipico di chi pubblica a puntate a richiamare nella memoria del lettore quanto già letto precedentemente) e l’atteggiamento di “ravvedimento” di Pinocchio che sta per diventare un bero e proprio bambino.

1200px-Pinochio2_1940Il Pinocchio di Disney

Quello che rende questo racconto un vero e proprio capolavoro della letteratura italiana, apprezzato e diffuso in tutto il mondo è, per quanto ci riguarda, l’aver colmato una mancanza nelle nostre lettere che è quella del romanzo picaresco, cioè la storia di un ragazzo povero che attraverso disavventure prende consapevolezza di sé, maturando e diventando uomo (il più famoso è lo spagnolo Lazarillo de Tormes di autore ignoto del 1554). Ma Pinocchio è anche un romanzo di formazione, che rappresenta la presa di coscienza di un ragazzo che da discolo diventa rispettoso verso il padre e quindi le istituzioni (non diversamente da Cuore), ma ancora è un romanzo sociale: la pèovertà degli ambienti – quelli chiaramente realistici e non fantastici – ci offrono il quadro di una società rurale con tutte le loro difficoltà. Ma, obbedendo alla struttura della favola, ed non avendoci né tempo né spazio parla ai bambini di tutto il mondo come ha dimostrato Walt Disney ed il suo film di grande successo.

 

I CREPUSCOLARI

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I crepuscolari

Se, in modo banale, potremo dichiarare la paternità del futurismo a D’Annunzio (nei suoi aspetti vitalistici, nell’amore – non sempre lineare – per la macchina e l’aeroplano, per il suo concetto politico, imperialista ed interventista), potremo dire che la poesia, giocata in minore da Giovanni Pascoli, possa essere ritenuta l’antecedente più immediato per quella che Giuseppe Antonio Borgese definì “poesia crepuscolare”.

Certo, detto così sarebbe un po’ troppo semplice: d’altra parte non mancano momenti magniloquenti nella poesia pascoliana (si pensi alla lirica da poeta vate) e momenti intimistici in D’Annunzio (basti vedere il suo Poema paradisiaco, fonte primaria oserei dire per i Crepuscolari).

In verità se i due modelli s’imponevano quasi obbligatoriamente, la loro musa bisogna ricercarla nella poesia un po’ provinciale ed estenuata dei tardo simbolisti belgi, primo fra tutti Maeterlinck, che insegnò loro quel senso di decadenza fisica ed impotenza verso la vita che i maggiori esponenti di questa scuola tradussero in modo singolare.

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Maurice Maeterlinck

Se infatti possiamo definire scuola quella scapigliata, dovremo dire che i suoi componenti non si frequentarono in modo diretto, ma “decisero” quasi simultaneamente di superare il simbolismo non “intellettualmente”, quanto inconsciamente operato dal Pascoli e la poesia ore rotundo di D’Annunzio.

Le poesie di questi primi anni del Novecento si richiamano a temi più o meno condivisi da tutti e, come già il crepuscolare/futurista Palazzeschi, mettono in discussione il ruolo di poeta nella società che s’avventura verso la Prima guerra mondiale.

Essi cantano soprattutto la vita di provincia, il senso di malattia, le piccole aspettative della borghesia non altolocata, i suoni usurati: cioè tutte quelle cose che le buone donne del tempo solevano mettere nel solaio e che con una sola espressione potremo definire con termine gozzaniano “piccole cose di pessimo gusto”, così come dice in L’amica di nonna Speranza. E’ per questo che il Borgese l’ha chiamati crepuscolari: poesia al crepuscolo, nell’incipiente sera, tra stanchezza e malinconia.

Il primo, colui che si può definire come il caposcuola dei crepuscolari è Sergio Corazzini, non perché ne avesse coscienza, ma perché in una lirica tratta da Piccolo libro inutile (1906) detta la poetica dell’intera scuola:

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Sergio Corazzini interpretato da Giuseppe Di Mauro

SERGIO CORAZZINI
DESOLAZIONE DEL POVERO POETA SENTIMENTALE

I
Perché tu mi dici: poeta?

Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?

II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.

III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tremare d’amore e d’angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

V

Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.

VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.

VII
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.

VIII

Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per essere detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.

In Corazzini troviamo forse l’espressione più chiara (anche se forse un po’ troppo ingenua) di ciò che il crepuscolarismo intendeva per poesia in “minore”, contrapposta certamente a quella dannunziana. Ma il poeta pescarese non è cancellato del tutto: se il suo alter ego, Andrea Sperelli, per ordine del padre, vive la propria vita come fosse un’opera d’arte, risulta evidente che anche il giovanissimo Corazzini, malato di tisi, prossimo alla morte, facesse della propria vita un’opera, non si sa se d’arte, ma di poesia. Infatti il giovane poeta romano sin da giovanissimo ebbe una vita travagliata, determinata dalle speculazioni paterne che portarono la famiglia dal benessere alla povertà e dalla malattia che colpì lui ed il fratello, morti, appunto, giovanissimi (Sergio aveva appena 21 anni).

Anche lui, come D’Annunzio nella Pioggia nel pineto, parte da una prima persona rivolgendosi ad un tu (in D’Annunzio Ermione) immaginario. Ma il giovane poeta in primo luogo si rivolge a se stesso: tono sommesso, riferimenti religiosi lasciano trasparire dolore, malinconia e rimpianto. Sembra quasi che, abbandonato ogni tipo di spiritualismo di maniera, il poeta si lasci per così dire morire in comunione silenziosa e intima con Dio.

Perché il titolo? La Desolazione esprime condizione esistenziale del poeta stanco di vivere e la poesia è fatta di sentimenti comuni, come semplice (povero) è l’animo del poeta espresso con stile prosastico.

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Marino Moretti

Altra la vita di un altro esponente che iniziò la sua attività come poeta crepuscolare, Marino Moretti. Visse infatti a lungo, tanto da attraversare varie fasi letterarie (oltre che poeta fu romanziere e conobbe e fu a contatto con scrittori come Aldo Palazzeschi e Federigo Tozzi). La sua fase crepuscolare la ascriviamo a quattro raccolte poetiche: Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911), i Poemetti di Marino (1913) e Il giardino dei frutti (1916) da cui prendiamo quello che è considerato il suo capolavoro:

A CESENA

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.

Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia della casa senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì , sorella

che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella la tua vita; bella,

bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora o sposa,
io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;

so che quell’uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolento,
il babbo che ti vuole un po’ di bene.

“Mamma!” tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,
che le parli dei miei vïaggi, poi…

poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,

quando, come, perché; ripeti ancora
quando, come, perché; chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo, di nuora.

Parli di una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch’è quasi al tramonto
il nonno ricco del tuo Dino, e dici:
“Vedrai, vedrai se lo terrò di conto”;

parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d’amor proprio, d’amore.

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui,
tutta d’un uomo ch’io conosco appena,

tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me parla… così,
senza dolcezza, mentre piove o spiove:

“La mamma nostra t’avrà detto che…

E poi si vede, ora si vede, e come!
sì, sono incinta… Troppo presto, ahimè!

Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome…
Ho fortuna, è una buona gravidanza…”

Ancora parli, ancora parli, e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. È tardi.

E l’anno scorso eri così bambina!

Poesia emblematica del crepuscolarismo: il critico Bárberi Squarotti la definisce poesia a grado zero: mimesi del parlato, prosaicità dello stile, enjambement e cesure del verso cercano continuamente di nascondere il “poetico” dietro una prosaicità e un dialogato che si distanziano in modo abissale dalla magnificenza dannunziana.

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Cesena inizio ‘900

In Moretti, a livello di riferimento possiamo trovare più che lo stile pascoliano un riferimento biografico: la rottura del nido familiare, sua sorella come Ida, che tradisce il nucleo originario: si osservi il climax ascendente Oh bambina, o sorellina, o nuora o sposa ad indicare il passaggio da compagna di giochi ad estranea. E si osservi ancora la pioggia, topos crepuscolare, che al contrario di quella dannunziana, che monda rimanda al grigiore di una vita senza senso.

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Guido Gozzano

L’esponente più importante del crepuscolarismo è certamente Guido Gozzano. Nato a Torino, nel 1883, non ebbe una vita con grandi avvenimenti. Sin da giovane cercò di emulare una vita (non una poesia) votata all’estetismo, vivendo una travagliata e chiacchierata storia d’amore con una poetessa fra le più conosciute di allora, Amalia Guglielminetti. Ma quel che traspare, anche tra le lettere dei due poeti, è quasi una volontà alla solitudine, dettata dal poeta, quella che potremmo definire, per usare un suo titolo, la Via del rifugio, in cui così lo stesso poeta definisce: ma dunque esisto! O Strano! / vive tra il Tutto e il Niente / questa cosa vivente / detta guidogozzano!. Egli attraversa l’Estetismo, lo ribalta, lo ironizza e in tal modo, più degli altri, attraversandolo (stessa operazione che farà Montale, lettore e ammiratore attento di Gozzano) apre le porte alla poesia maggiore del nostro Novecento.

Tutto ciò è ben presente in Totò Merumeni, nome che vuole riprendere ironicamente il titolo terenziano di una commedia Heautontimorumenos, in cui viene disegnato un velleitario e fallimentare imitatore a cui sarebbe piaciuto essere un po’ D’Annunzio, e si ritrova ad essere solo se stesso, cioè, traducendo il titolo della commedia latina, il punitore di se stesso:

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TOTO’ MERUMENI

I

Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei
balconi secentisti guarniti di verzura,
la villa sembra tolta da certi versi miei,
sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura…

Pensa migliori giorni la villa triste, pensa
gaie brigate sotto gli alberi centenari,
banchetti illustri nella sala da pranzo immensa
e danze nel salone spoglio da gli antiquari.

Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo,
Casa Rattazzi, Casa d’Azeglio, Casa Oddone,
s’arresta un automobile fremendo e sobbalzando;
villosi forestieri picchiano la gorgòne.

S’ode un latrato e un passo, si schiude cautamente

la porta… In quel silenzio di chiostro e di caserma
vive Totò Merùmeni con una madre inferma,
una prozia canuta ed uno zio demente.

II

Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.

Non ricco, giunta l’ora di «vender parolette»
(il suo Petrarca!…) e farsi baratto o gazzettiere,
Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette
ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.

Non è cattivo. Manda soccorso di danaro
al povero, all’amico un cesto di primizie;
non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro
pel tema, l’emigrante per le commendatizie.

Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti,
non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche
«…in verità derido l’inetto che si dice
buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti…».

Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca
coi suoi dolci compagni sull’erba che l’invita;
i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,
un micio, una bertuccia che ha nome Makakita…

III

La Vita si ritolse tutte le sue promesse.
Egli sognò per anni l’Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.

Quando la casa dorme, la giovanetta scalza,
fresca come una prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza
su lui che la possiede, beato e resupino…

IV

Totò non può sentire. Un lento male indomo
inaridì le fonti prime del sentimento;
l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo
ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento.

Ma come le ruine che già seppero il fuoco
esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,
quell’anima riarsa esprime a poco a poco
una fiorita d’esili versi consolatori…

V

Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima.
Chiuso in sé stesso, medita, s’accresce, esplora, intende
la vita dello Spirito che non intese prima.

Perché la voce è poca, e l’arte prediletta
immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va.
Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.

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Il giovane Gozzano

Totò Merùmeni vive in una villa aristocratica, ormai abbandonata da illustri famiglie piemontesi e ora frequentata da forestieri dall’aspetto volgare, segno del mutamento dei tempi. La sua famiglia si caratterizza negativamente: con lui convivono una madre inferma, una prozia canuta, uno zio demente.
Anche Totò ha le caratteristiche di un eroe negativo: è gelido e indifferente, consapevole delle proprie debolezze, è inoffensivo, ma non sa amare. È cioè un inetto, il contrario del superuomo: per anni ha sognato l’amore di donne teatrali e principesche, ma oggi ha una prosaica relazione con una serva diciottenne. Il male morale di Totò sono le complicazioni intellettualistiche, che lo rendono insensibile, amorfo.
Come dalle rovine di un edificio sbocciano i giaggioli, così Totò produce una fioritura di pochi e tenui versi che arrecano consolazione alla sua anima. Egli vive quasi felice, alternando la poesia alla meditazione, consapevole che se la voce di un poeta ha durata breve, al contrario la poesia è eterna. Deluse le aspirazioni e crollati i sogni di una vita eccezionale, non gli resta che accettare il proprio destino e aspettare inerte la fine dell’esistenza.

Gozzano raffigura ironicamente se stesso come un antieroe, un inetto: pur essendo tentato dai miti nietzscheani e dannunziani di una vita eccezionale (come gran parte della generazione del suo tempo), egli è incapace di viverli in prima persona, quindi fa la scelta opposta e preferisce la condizione di isolamento e inattività.

Unico gesto deciso è il suo rifiuto di vendere parolette, ossia di diventare un mestierante che commercia parole, a sottolineare l’incompatibilità tra la poesia e il materialismo del mondo borghese.

Al tono colloquiale, al lessico quotidiano e all’andamento prosastico, scandito dall’adozione del verso lungo, si accompagnano scelte stilistiche auliche con frequenti citazioni letterarie (Petrarca, Ariosto, Nietzsche).

Più famosa, e più importante e la poesia seguente:

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Giovanni Boldini: Profilo di una giovane donna

LA SIGNORINA FELICITA
OVVERO LA FELICITÀ.

I

Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l’orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa….

Vill’Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.

Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Ercole furibondo ed il Centauro,
le gesta dell’eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d’Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia del Nume ghermitore….

Penso l’arredo – che malinconia! –

penso l’arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell’Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere…. Che malinconia!

Antica suppellettile forbita!

Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi pazïente…. Avita
semplicità che l’anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

II 

Quel tuo buon padre – in fama d’usuraio –
quasi bifolco, m’accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell’uve e del massaio,
mi confidava certo antico guaio
notarile, con somma deferenza.

«Senta, avvocato….» E mi traeva inqueto
nel salone, talvolta, con un atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l’ascoltavo docile, distratto
da quell’odor d’inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,

da quel salone buio e troppo vasto….
«…. la Marchesa fuggì…. Le spese cieche….»
da quel parato a ghirlandette, a greche….
«dell’ottocento e dieci, ma il catasto….»
da quel tic-tac dell’orologio guasto….
«….l’ipotecario è morto, e l’ipoteche….»

Capiva poi che non capivo niente
e sbigottiva: «Ma l’ipotecario
è morto, è morto!!…» – «E se l’ipotecario
è morto, allora….» Fortunatamente
tu comparivi tutta sorridente:
«Ecco il nostro malato immaginario!»

III

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga….

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia….

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un’amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l’ignoto villeggiante forestiero.

Talora – già la mensa era imbandita –
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita….

Per la partita, verso ventun’ore
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma – poichè trasognato giocatore –
quei signori m’avevano in dispregio….

M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina….

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell’acciottolio.

Sotto l’immensa cappa del camino
(in me rivive l’anima d’un cuoco
forse….) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d’un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio, e il mio destino….

Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.

IV 

Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò ch’è stato e non sarà più mai,
bianca bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:

«È quella che lasciò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno…. E noi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena…. L’han veduta alcuni
lasciare il quadro; in certi noviluni
s’ode il suo passo lungo i corridoi….»

Il nostro passo diffondeva l’eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l’un piede ignudo in mano,
si riposava all’ombra d’uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.

Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v’era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!

Tra i materassi logori e le ceste
v’erano stampe di persone egregie;
incoronato delle frondi regie
v’era Torquato nei giardini d’Este.
«Avvocato, perchè su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliegie?»

Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
tre ceste, un canterano dell’Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!

Allora, quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dall’abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.

Non vero (e bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.

Ecco – pensavo – questa è l’Amarena,
ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei «cosi
con due gambe» che fanno tanta pena….

L’Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere
vane, divisi e suddivisi a schiere
opposte, intesi all’odio e alle percosse:

così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere….

Schierati al sole o all’ombra della Croce,
tutti travolge il turbine dell’oro;
o Musa – oimè – che può giovare loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell’oro, dell’alloro….

L’alloro…. Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l’alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui….

«Avvocato, non parla: che cos’ha?»
«Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città….
Sarebbe dolce restar qui, con Lei!…»
«Qui, nel solaio?…» – «Per l’eternità!»
«Per sempre? accetterebbe?…» – «Accetterei!»

Tacqui. Scorgevo un atropo soletto

e prigioniero. Stavasi in riposo
alla parete: il segno spaventoso
chiuso tra l’ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
si librò con un ronzo lamentoso.

«Che ronzo triste!» – «È la Marchesa in pianto….

La Dannata sarà, che porta pena….»
Nulla s’udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino tu mi piaci tanto,
siccome piace al mar una sirena….

Un richiamo s’alzò, querulo e rôco:

«È Maddalena inqueta che si tardi:
scendiamo: è l’ora della cena!» – «Guardi,
guardi il tramonto, là…. Com’è di fuoco!…
Restiamo ancora un poco!» – «Andiamo, è tardi!»
«Signorina, restiamo ancora un poco!…»

Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pipistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s’annunciò la notte
sulla serenità canavesana….

«Una stella!…» – «Tre stelle!…» – «Quattro stelle!…»
«Cinque stelle!» – «Non sembra di sognare?…»
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessità crepuscolare:
«Scendiamo! È tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle….»

V 

Ozi beati a mezzo la giornata,
nel parco dei Marchesi, ove la traccia
restava appena dell’età passata!
Le Stagioni camuse e senza braccia,
fra mucchi di letame e di vinaccia,
dominavano i porri e l’insalata.

L’insalata, i legumi produttivi
deridevano il busso delle aiole;
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggitivi….
Io ti parlavo, piano, e tu cucivi
innebriata dalle mie parole.

«Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m’avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!

Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell’aurora che dicono: l’Amore….»

Tu mi fissavi…. Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
«Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?»

«Perchè mi fa tali discorsi vani?
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!…»
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia, come fa la scolaretta.

Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza:
«Non mi ten….ga mai più…. tali dis…. corsi!»

«Piange?» E tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l’orecchio, il collo snello….
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d’improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.

Donna: mistero senza fine bello!

VI 

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte….

Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi…. E non mediti Nietzsche
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda….

Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista….

Ed io non voglio più essere io!

VII

Il farmacista nella farmacia
m’elogïava un farmaco sagace:
«Vedrà che dorme le sue notti in pace:
un sonnifero d’oro, in fede mia!»
Narrava, intanto, certa gelosia
con non so che loquacità mordace.

«Ma c’è il notaio pazzo di quell’oca!
Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!
La Signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca….
E la dote…. la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse nemmeno….»

«Ma dunque?» – «C’è il notaio furibondo
con Lei, con me che volli presentarla
a Lei; non mi saluta, non mi parla….»
«È geloso?» – «Geloso! Un finimondo!…»
«Pettegolezzi!…» – «Ma non Le nascondo
che temo, temo qualche brutta ciarla….»

«Non tema! Parto.» – «Parte? E va lontana?»
«Molto lontano…. Vede, cade a mezzo
ogni motivo di pettegolezzo….»
«Davvero parte? Quando?» – «In settimana….»
Ed uscii dall’odor d’ipecacuana
nel plenilunio settembrino, al rezzo.

Andai vagando nel silenzio amico,

triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
su quel dolce paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva «un punto sopra gigante».

In molti mesti e pochi sogni lieti,
solo pellegrinai col mio rimpianto
fra le siepi, le vigne, i castagneti
quasi d’argento fatti nell’incanto;
e al cancello sostai del camposanto
come s’usa nei libri dei poeti.

Voi che posate già sull’altra riva,
immuni dalla gioia, dallo strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l’Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

A lungo meditai, senza ritrarre

la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
s’udiva il grido delle strigi alterno….
La Luna, prigioniera fra le sbarre,
imitava con sue luci bizzarre
gli amanti che si baciano in eterno.

Bacio lunare, fra le nubi chiare
come di moda settant’anni fa!
Ecco la Morte e la Felicità!
L’una m’incalza quando l’altra appare;
quella m’esilia in terra d’oltremare,
questa promette il bene che sarà….

VIII

Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.

«Vïaggio con le rondini stamane….»
«Dove andrà?» – «Dove andrò! Non so…. Vïaggio,
vïaggio per fuggire altro vïaggio….
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio….

Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarà d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?»
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda
trenta settembre novecentosette….
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.

Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti….
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole….

«Un altro stormo s’alza!…» – «Ecco s’avvia!»
«Sono partite….» – «E non le salutò!…»
«Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò….»

Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine….

M’apparisti così, come in un cantico
del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico….

Quello che fingo d’essere e non sono!

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Villa Amarena: luogo dell’incontro tra Gozzano e Felicita

Quello che colpisce in questo lungo poemetto formato da otto parti con stanze in versi endecasillabi è la sua compattezza narrativa, racchiusa in due strofe in cui il poeta ricorda l’episodio, il suo andare, come ospite, in una villa, sul Canavese (località posta a nord del Piemonte). Lo stesso ricordo si colora, sin dalle prime battute di cose semplici, quotidiane, tutte rivestite da questa giovane donna che già nel nome richiama un’aspirazione, la felicità. Quindi la descrizione della villa, non certo principesca, circondata da “misteri”, che la rendono popolare per il visitatore intellettuale, che la metaforizza come una dama secentesca. Gli ovali dipinti sopra le sovrapporte ci dicono della sua cultura, ma come essa venga utilizzata in modo kitsch, cioè inconsapevole, frammista da foto di ballerine alla moda.

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Un’altra immagine di Guido Gozzano

La seconda parte rimarca la distanza, direi abissale tra i due personaggi, è svolta con grande perizia e un sottile filo sia di cattiveria (quasi invidiata) che sottolinea da una parte il senso pratico del vivere e quello di “scollamento dal mondo”: il padrone della villa, in fama di usuraio, il padre di Felicita, tutto teso agli affari e la vaghezza dell’avvocato, intellettuale e letterato.

L’incipit della terza parte, forse uno dei più belli della poesia novecentesca, ci mostra una donna tipicamente antidannunziana, nobilitata, tuttavia alla fine della 1 strofe, da un richiamo alla pittura fiamminga. Quindi procede con un ritmo narrativo: gli invitati più in vista della località che si recano per una piacevole partita, la semplice cucina di Maddalena (la domestica di casa), gli odori quotidiani… tra questi la riflessioni sulla sua creatività fatta di tali cose e sulla sua vita, bugiarda, basata sull’allontanamento, a vederla, più che a viverla (i giocatori lo dispregiano, la solitudine “psichica”, il sorriso disarmante d’una impossibile, ma desiderabile, vita).

La quarta parte descrive ciò che il poeta e la giovane donna vivono nel solaio: da una cassapanca ecco emergere vecchi quadri, vecchio vasellame, trappole per topi ormai in disuso ed altro: E’ la morte delle cose e forse anche dell’io del poeta, per questo piacevoli a cantarsi. E’ la parte in cui l’allontanamento dal mondo reale si fa più forte, la distanza dalla vita quasi abissale, con quella similitudine fra l’io poeta e l’essere poeta, con quell’immagine di Tasso e la sua triste fine. Ma la capacità di Gozzano è nel sorriso, nell’ignoranza, sottolineata quasi con discrezione, della ragazza che confonde l’alloro poetico con un ramo di ciliegie. Ne segue un momento quasi idilliaco: i due dall’abbaino secentesco guardano il mondo: per lui un altro momento per isolarsi da esso, per vederlo dall’esterno, per lei solo un panorama romantico. Non è un caso che Gozzano di fronte ad essa pensi alla morte, all’inutilità della lotta politica, espressione che sembra riprendere, almeno per l’idea la Batracomiomachia di leopardiana memoria, ma che verrà ripresa, in modo simile da Montale, nella poesia La storia. Ancora dopo la meditazione della volgarizzazione della vita cittadina, la voglia di una vita semplice l’impossibilità di viverla.

Tale concetto si ripete nella quinta parte, ma qui viene messa maggiormente in evidenza la distanza tra le donne dannunziane (da lui realmente frequentate a Torino) e la semplicità di Felicita, la sua profonda ingenuità, e con un semplice tratto una delle più belle pagine sul mutevole animo di una fanciulla: un pianto, un sorriso, un attimo di vita (ma lui può solo descriverla)

La sesta parte rimarca il desiderio di una vita semplice e l’impossibilità di esso: una vita fatta di piccole cose e l’irrealizzabilità di essa determinata dall’essere intellettuale (Io mi vergogno d’essere poeta!, topos crepuscolare con il corazziniano Perché tu mi dici poeta? / Io non sono un poeta e il palazzeschiano Son forse un poeta? / No certo). Vi è che lui, per usare le sue parole non vuole essere più stesso, l’esteta gelido, il sofista: potremo dire quasi il dannunzianesimo che è rimasto dentro di lui. Egli è colui che pensa la vita e non può viverla, voler essere qualcun altro e il non poterlo essere.

La settima riprende la narrazione: l’amicizia dell’avvocato con la giovane Felicita ha dato vita a delle chiacchiere, a delle invidie, a giudizi poco lusinghieri. E’ quasi necessario che l’avvocato parta. E nel camminare in luoghi deserti, sempre lontano dalla vita, Gozzano riflette sulla malattia e sulla morte che gli preme nei polmoni, antitetica alla felicità: l’a prima lo spinge al viaggio in India (che realmente effettuerà a cercare refrigerio), l’altra è una promessa senza realtà.

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Gozzano in India

L’ottava e ultima parte: è il momento degli addii e delle promesse, delle bugie dette a lei, ma anche a se stesso: lei, quasi bambina innamorata, incide, novella Angelica, su un muro i loro nomi dentro una ghirlanda; lui non sorride, consapevole della distanza abissale che, quasi impietosamente, a chiusa del poemetto, Gozzano sembra sottolineare: una eroina d’un cantico del Prati, di una poesia dozzinale, di un romanticismo becero, consunto: lui ha giocato a fare il romantico: infatti ha finto d’essere ciò che nella realtà non è.

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Guido Gozzano con la madre