PETRONIO ARBITRO

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Incisione con ritratto idealizzato di Petronio

Notizie biografiche

Di questo autore della letteratura latina non si sa quasi nulla. Testimonianze sulla vita di un certo Petronio, vissuto in età neroniana, ne abbiamo in Tacito, Plinio il Vecchio e Plutarco. Ma è soprattutto il primo a darci un ritratto che la maggior parte dei critici ritiene attendibile, infatti ci parla di un certo Petronio che “passava il giorno a dormire e di notte si dedicava ai propri impegni ed ai piaceri; e se altri erano stati elevati alla fama grazie alla propria laboriosità, costui vi era giunto grazie all’indolenza e non era considerato né un crapulone né un dissipatore”; quindi lo definisce un “raffinato gaudente”. Ci informa inoltre che, nonostante queste sue caratteristiche fu un bravo proconsole in Bitinia e, invece proprio per il suo essere un dandy ante litteram, fu accolto nella corte di Nerone. La sua disgrazia fu l’invidia di Tigellino che lo mise in cattiva luce tanto che l’imperatore lo imprigionò. Quindi ancora Tacito ci ricorda come fu costretto alla morte: “Tuttavia non si precipitò a suicidarsi, ma, dopo essersi tagliato le vene, come decise, fasciatele le apriva di nuovo e parlava con gli amici non di argomenti seri o tali da cercarvi gloria di stoico. E li ascoltava mentre parlavano non dell’immortalità e delle decisioni dei saggi, ma di poesie non impegnate e versi divertenti. Ad alcuni servi consegnò delle somme di denaro, altri li fece frustare. Andò a pranzo, si abbandonò al sonno, perché quella morte – che pure era obbligata – risultasse simile ad una accidentale. Nemmeno nelle postille testamentarie – cosa abituale per la maggior parte di coloro che cadono in disgrazia – volle adulare Nerone, Tigellino o qualche altro potente, anzi descrisse, nascondendole sotto i nomi di amasi e prostitute, le malefatte dell’imperatore, le violenze da lui inventate e, dopo aver apposto il suo sigillo, consegnò le sue carte a Nerone. Poi spezzò l’anello, perché non servisse in futuro a creare pericoli”.

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Guardia pretoriana a cui appartenne Tigellino

Che questo Petronio possa corrispondere all’autore dell’opera giunta a noi mutila, sembra attendibile; tale attendibilità nasce soprattutto dal fatto che i pochi codici a noi pervenuti recano come autore un Petronius Arbiter (elegantiae arbiter, lo definisce Tacito); ma anche lo stile della sua vita, nonché la modalità della sua morte appaiono così in linea con la sua opera che, in mancanza di ogni altra fonte più attendibile, non sembra inopportuno identificare il “personaggio” tacitiano con l’autore del Satyricon.

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Edizione del Satyricon del 1863

Datazione dell’opera

Che d’altra parte l’opera vada inserita nell’età neroniana, e quindi in linea con quanto afferma lo storico, ce lo dicono:

  1. I riferimenti precisi a nomi di personaggi, come gladiatori, liberti ed altri, vissuti nel tempo di Nerone;
  2. I riferimenti precisi ad opere coeve il Satyricon, come l’Apokolokintosis di Seneca ed il Bellum civile di Lucano;
  3. Le discussioni letterarie (Agamennone contro la decadenza dell’oratoria, Eumolpo contro la decadenza dell’eloquenza) che erano topoi di quell’età;
  4. L’ambientazione sembra riflettere quella di una città tipica del I° sec. d.C.

A questa datazione si contrappongono coloro che la ritengono più tarda perché:

  1. Alcuni termini “bassi” presenti nell’opera appaiono in testi databili II° o addirittura III° secolo d.C.
  2. Tacito, parlando del suo “personaggio” Petronio, non fa alcun riferimento all’opera da lui scritta.

D’altra parte si può rispondere a costoro che in Tacito vi è la stessa descrizione della morte di Seneca, ma anche di quest’autore non cita alcuna opera; i termini “bassi”, usati nel Satyricon corrispondono ad una vera e propria scelta stilistica dell’autore, che vuole rappresentare non il sermo cotidanius, usato da Orazio (cioè quel sermo usato dalle persone colte nella quotidianità), ma il sermo plebeius, parlato appunto dagli ignoranti e/o arricchiti.

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Pompei: una graeca urbs

Satyricon

Possiamo dividere il Satyricon in cinque blocchi narrativi:

  1. Le avventure di Encolpio, Ascilto e Gitone in una Graeca urbs (molto probabilmente Cuma o Pozzuoli);
  2. La cena di Trimalcione;
  3. Ritorno nella Graeca urbs dove Encolpio conosce Eumolpo ed Ascilto sparisce di scena;
  4. Sulla nave di Lica e Trifena;
  5. L’arrivo a Crotone.

Dai dati interni possiamo immaginare, o supporre, quali fossero gli antefatti: per meglio dire, forse, l’antecedente perduto aveva come argomento:

Encolpio, narratore della vicenda, studente squattrinato, durante la sua permanenza a Marsiglia, subisce la persecuzione del dio Priapo (dio della fecondità e del sesso), perché ha profanato i suoi templi e rivelato un culto misterico. Fuggito giunge in Italia e, dopo aver rapinato un tempio, viene condannato ad bestias (all’arena gladiatoria). Si salva per un terremoto o per il crollo dell’anfiteatro; quindi conosce Gitone, bellissimo fanciullo, ne fa il suo amasio, e scappano insieme verso sud. Vivono probabilmente un’avventura erotica con Trifena, cortigiana insaziabile, e Lica, mercante di schiavi. Di nuovo soli, fanno la conoscenza di Ascilto, un avventuriero che si rivela da subito un rivale in amore perché insidia il compiacente Gitone. I tre, insieme, arrecano disturbo alle cerimonie del dio Priapo, compiute dalla sacerdotessa Quartilla.

Inizia invece qui la narrazione pervenutaci, corrispondente, secondo la critica al XIV, XV e XVI capitolo:

Primo blocco:

Encolpio, Ascilto e Gitone si trovano in una città. Il primo frequenta Agamennone, un retore, con il quale ha una disputa sulla decadenza dell’oratoria.

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L’eloquenza a Roma

LA CORRUZIONE DELL’ELOQUENZA
(1, 1-9)

Num alio genere Furiarum declamatores inquietantur, qui clamant: “Haec vulnera pro libertate publica excepi; hunc oculum pro vobis impendi: date mihi ducem, qui me ducat ad liberos meos, nam succisi poplites membra non sustinent”? Haec ipsa tolerabilia essent, si ad eloquentiam ituris viam facerent. Nunc et rerum tumore et sententiarum vanissimo strepitu hoc tantum proficiunt ut, cum in forum venerint, putent se in alium orbem terrarum delatos. Et ideo ego adulescentulos existimo in scholis stultissimos fieri, quia nihil ex his, quae in usu habemus, aut audiunt aut vident, sed piratas cum catenis in litore stantes, sed tyrannos edicta scribentes quibus imperent filiis ut patrum suorum capita praecidant, sed responsa in pestilentiam data, ut virgines tres aut plures immolentur, sed mellitos verborum globulos, et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo sparsa. Qui inter haec nutriuntur, non magis sapere possunt quam bene olere qui in culina habitant. Pace vestra liceat dixisse, primi omnium eloquentiam perdidistis. Levibus enim atque inanibus sonis ludibria quaedam excitando, effecistis ut corpus orationis enervaretur et caderet. Nondum iuvenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui. Nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt. Et ne poetas quidem ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse video. Grandis et, ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit. Nuper ventosa istaec et enormis loquacitas Athenas ex Asia commigravit animosque iuvenum ad magna surgentes veluti pestilenti quodam sidere adflavit, semelque corrupta regula eloquentia stetit et obmutuit. Ad summam, quis postea Thucydidis, quis Hyperidis ad famam processit? Ac ne carmen quidem sani coloris enituit, sed omnia quasi eodem cibo pasta non potuerunt usque ad senectutem canescere. Pictura quoque non alium exitum fecit, postquam Aegyptiorum audacia tam magnae artis compendiariam invenit.

E’ forse un altro tipo di Furie quello che tormenta i declamatori, quiando gridano i loro proclami: «Queste ferite le ho assunte per la libertà dello Stato, quest’occhio per voi lo sacrificato; datemi una guida che mi conduca dai figli miei, perché i popliti, recisi, non reggono le membra?» Questi bei discorsi sarebbero in sé tollerabili, se almeno riuscissero a spianare agli allievi la via che porta all’eloquenza. Ora come ora, invece, tanto con l’enfasi dei temi che col baccano fraseologico assolutamente privo di significato, l’unico progresso che i ragazzi fanno è ch, al loro ingresso in tribunale, si credono trasferiti di peso su un altro pianeta. E perciò io penso che questi poveri ragazzi nelle scuole diventino altrettanti scemi patentati, perchè non si fa loro ascoltare o vedere niente che abbia rapporto con la realtà che ci è familiare: ma solo pirati in agguato sulla spiaggia con le catene in mano, solo tiranni nell’atto di vergare editti coi quali intimano ai figli di moxxare il capo del proprio padre, solo oracoli, emessi per far cessare una pestilenza, che prescrivono il sacrificio di tre vergini o anche più, solo parole come confetti dolciastri di miele e tutto, espressioni e contenuti, quasi asperso da una polvere di papavero e di sesamo. Chi vien pasciuto a forza di roba simile, non può avere buon gusto; non più di quanto può esalare un profumo gradevole chi sta in casa in cucina. Sia detto con vostra buona pace, siete stati voi la rovina prima dell’eloquenza. Volendo infatti dar corpo a qualche vostro capriccio fasntastico, con involucri verbali fatti d’aria e privi di contenuto, avete fatto del discorso una carcassa sfiancata e floscia. I giovani non erano ancora irretiti dalle declamazioni, quando un Sofocle o un Euripide  fondarono il modello di lingua con cui esprimersi, il maestro delle ombre non aveva ancora fatto strage di talenti, quando Pindaro e i nove lirici si peritarono a cantare in versi omerici. E, per non limitarmi alla testimonianza dei poeti, mi consta che di certo né Platone né Demostene si siano accostati a questo tipo di esercitazioni. La grande e, vorrei dire, virginale oratoria non ha chiazze di trucco né ampollosità posticce, ma si erge in alto mostrando un volto naturalmente bello. Non è molto che codesta garrulità albagiosa e senza misura si è traferita dall’Asia per prendere stanza ad Atene e, come con la forza di una cometa malefica, ha alitato sugli animi dei giovani che con slancio si preparavano a grandi traguardi: una volta corrotisi i principi, l’eloquenza romase inerte e senza voce. Insomma, dopo questa migrazione, chi è riuscito ad uguagliare la fama di un Tucidide, di un Iperide? e neppure nella poesia risplendette il colore della buona salute, ma tutte le produzioni poetiche, come sottoposte ad un medesimo regime alimentare, non arrivarono a metter su i capelli bianchi della vecchiaia. Anche la pittura non ebbe destino diverso, dopo che l’impudenza degli egittizzanti escogitò una scorciatoia stilistica per un’arte tanto grande.
(trad. A. Aragosti)

Ci troviamo nella scuola di retorica del maestro Agamennone. Encolpio discetta sulle cause della decadenza della poesia e della retorica, individuandole nella pratica scolastica di “declamare” cose fuori dalla realtà, formando così “scemi patentati”. Petronio gioca con il suo personaggio: infatti applica il doppio registro sia sull’oggetto della critica (in questo caso l’eloquenza) sia sul personaggio che la pronuncia (Encolpio). Quest’ultimo infatti, deprecando l’uso scolastico, lo fa mettendo in luce la stessa sua “preparazione” scolastica:  stile ampolloso e ridondante, stilemi forti, con i quali egli stesso critica chi fa “oratoria” utizzando tali mezzi. Ma come se non bastasse egli criticando lo stile, critica a sua volta i contenuti: ma, nel proseguo della lettura del romanzo, egli cadrà in situazioni altrettanto paradossali. E’ quindi duplice, e assai scaltra, l’ironia petroniana, verso un personaggio che si lamenta della scarsa moralità degli oratori e della scuola, quando lui stesso, in quanto a moralità, lascia molto a desiderare.

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Una locanda romana conservatoci a Pompei

Il primo blocco prosegue poi con la separazione tra Encolpio ed Ascilto, perché rivali in amore. Ritrovatisi, dopo varie dispute, il cui oggetto è sempre Gitone, si recano ad un mercato per vendere un mantello rubato, recuperano una tunica piena di monete d’oro, che avevano precedentemente perduto. Tornano felici alla locanda, dove incontrano la sacerdotessa Quartilla che li costringe ad una kermesse sessuale per tre lunghi giorni. bordello-visitare-roma-trovamercatini.jpg

Prostitute nell’antica Roma

Secondo blocco:

Sfuggiti dalla sacerdotessa, i tre si recano ad una cena, nella casa del liberto Trimalcione. Quest’ultimo fa il suo ingresso in portantina. All’episodio fa da sottofondo un continuo vocio, canti, suoni, chiacchiericcio di servi e di commensali, fra i quali i nostri tre eroi. Quindi Trimalcione attira su di sé l’attenzione: filosofeggia, recita versi, storie raccapriccianti; racconta il suo passato di schiavo e le enormi ricchezze accumulate; quindi fa le prove generali del suo funerale, e schianta vinto dal vino. Accorrono i pompieri perché per il trambusto hanno pensato ad un incendio. I tre riescono ad allontanarsi.

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 Affresco di un uomo grasso tratta da Pompei

PRESENTAZIONE DI TRIMALCIONE
(32, 1-4)

In his eramus lautitiis, cum ipse Trimalchio ad symphoniam allatus est positusque inter cervicalia munitissima expressit imprudentibus risum. Pallio enim coccineo adrasum excluserat caput circaque oneratas veste cervices laticlaviam immiserat mappam fimbriis hinc atque illinc pendentibus. Habebat etiam in minimo digito sinistrae manus anulum grandem subauratum, extremo vero articulo digiti sequentis minorem, ut mihi videbatur, totum aureum, sed plane ferreis veluti stellis ferruminatum. Et ne has tantum ostenderet divitias, dextrum nudavit lacertum armilla aurea cultum et eboreo circulo lamina splendente conexo.

Eravamo tra queste leccornie, quand’ecco lui, Trimalcione, portato a suon di musica. Come fu deposto tra cuscini tipo mignon, fece sbruffare e ridere chi non se l’aspettava. Infatti da un manto scarlatto faceva sporgere la testa rapata, e intorno al collo infagottato dall’abito si era avvolto un tovagliolo listato di porpora, a frange, penzoloni qua e là. al dito mignolo della mani sinistra aveva un anellone dorato, nell’ultima falange del dito seguente, invece un anello più piccolo, d’oro massiccio mi pareva, con stelle di ferro saldate sopra. E per non sgargiare solo di queste ricchezze, denudò il bicipide destro adorno di un bracciale d’oro e di un cerchio d’avorio chiuso intorno da una lamina lucente.

Non diversa dal marito è la presentazione della moglie, Fortunata:
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Norman Lindsay: Ritratto di Fortunata 

PRESENTAZIONE DI FORTUNATA
(37)

Non potui amplius quicquam gustare, sed conversus ad eum, ut quam plurima exciperem, longe accersere fabulas coepi sciscitarique, quae esset mulier illa quae huc atque illuc discurreret. Uxor, inquit, Trimalchionis, Fortunata appellatur, quae nummos modio metitur. Et modo, modo quid fuit? Ignoscet mihi genius tuus, noluisses de manu illius panem accipere. Nunc, nec quid nec quare, in caelum abiit et Trimalchionis topanta est. Ad summam, mero meridie si dixerit illi tenebras esse, credet. Ipse nescit quid habeat, adeo saplutus est; sed haec lupatria providet omnia, et ubi non putes. Est sicca, sobria, bonorum consiliorum: tantum auri vides. Est tamen malae linguae, pica pulvinaris. Quem amat, amat; quem non amat, non amat. Ipse Trimalchio fundos habet, quantum milvi volant, nummorum nummos. Argentum in ostiarii illius cella plus iacet, quam quisquam in fortunis habet. Familia vero babae babae! – non mehercules puto decumam partem esse quae dominum suum noverit. Ad summam, quemvis ex istis babaecalis in rutae folium coniciet.

Non riuscii più a gustarmi niente, ma rivolto verso di lui, per raccogliere più notizie che potevo, incominciai a prendere il discorso alla lontana e a chiedere chi fosse la donna che correva qua e la. E’ la moglie di Trimalcione – rispose – si chiama Fortunata, una che il denaro lo misura con lo staio. Eppure prima, prima cos’è stata? Che il tuo genio mi perdoni, dalla sua mano non avresti voluto ricevere neanche un tozzo di pane. Ora, ne perché ne percome, è salita alle stelle ed è il tuttofare di Trimalcione. Insomma, se, in pieno mezzogiorno, lei dicesse a lui che ci sono le tenebre, le crederebbe. Lui non sa neanche quanto ha, tanto è straricco; ma questa puttana vede tutto prima, anche dove non crederesti. E’ assennata, economa, di buon senso; tutto oro quel che vedi. Però è una malalingua, una gazza da letto. Chi ama, ama; chi non ama, non ama. Lui, Trimalcione, ha poderi quanto ci volano i nibbi, e soldi a palate. Nello stanzino del suo portinaio c’è più argenteria di quanta nessun altro ne abbia nel suo patrimonio. La servitù poi – accidentaccio! – io credo, per Ercole, che non c’è la decima parte che abbia visto il padrone. Insomma, uno qualsiasi di questi parassiti lui potrebbe cacciarlo in una foglia di ruta.

Appena giunti nella casa di Trimalcione Encolpio ride sulla cafoneria del protagonista; infatti, prima che egli giunga a tavola, lo vede giocare a palla con eunuchi dall’aspetto, per Encolpio, estremamente gradevole, poi farsi portare da uno di loro un orinale si cui, coram populo caga, e s’asciuga le mani sulla barba di uno di questi due. Quindi entra in casa e l’aspetto dell’antipasto è “grandiosamente” pacchiano, ma già la certezza di Encolpio comincia a vacillare, in quanto tale “cafonaggine” è frutto di una spaventosa ricchezza; per poi infine rimanere “prigioniero” di tale “meccanismo scenografico”. Is vult, si potrebbe dire, ma è ben guardare chi è la “regista”? Certamente Fortunata, la moglie che gli fa credere qualunque cosa lui voglia. E’ pieno ed è vuoto; pieno di forma, vuoto nell’anima, ma sembra proprio accorgersene, quando gli appare l’ombra della propria morte:

TRIMALCIONE E LA RIFLESSIONE SULLA MORTE
34, 6-10

Statim allatae sunt amphorae vitreae diligenter gypsatae, quarum in cervicibus pittacia erant affixa cum hoc titulo: FALERNUM OPIMIANUM ANNORUM CENTUM. Dum titulos perlegimus, complosit Trimalchio manus, et: «Eheu – inquit – ergo diutius vivit vinum quam homuncio! Quare tangomenas faciamus. Vita vinum est. Verum Opimianum praesto. Heri non tam bonum posui, et multo honestiores cenabant». Potantibus ergo nobis et accuratissime lautitias mirantibus larvam argenteam attulit servus sic aptatam, ut articuli eius vertebraeque laxatae in omnem partem flecterentur. Hanc cum super mensam semel iterumque abiecisset, et catenatio mobilis aliquot figuras exprimeret, Trimalchio adiecit:

“Eheu nos miseros! Quam totus homuncio nil est!
Sic erimus cuncti, postquam nos auferet Orcus.
Ergo vivamus, dum licet esse bene”.
Subito dopo vennero portate anfore di vetro diligentemente sigillate, sul collo delle quali erano affisse etichette con questa iscrizione: FALERNO OPIMIANO DI CENT’ANNI. Mentre leggiamo attentamente le iscrizioni, Trimalcione batté le mani e disse: «Ahimé, vive più a lungo il vino di un omicciatolo! Perciò facciamo le spugne. Il vino è vita. Qui è l’autentico Opimiano. Ieri non (lo) ho offerto così buono, e cenavano (ospiti) molto più ragguardevoli». Mentre bevevamo e guardavamo attentamente il lusso un servo portò uno scheletro d’argento così costruito, che le sue giunture e le sue vertebre allentate si flettevano in ogni parte. Avendolo gettato sopra il tavolo una ed un’altra volta e esprimendo altrettante figure grazie ai legamenti liberi, Trimalcione aggiunse:
“Ahimé, poveri noi, quanto niente è l’omicciatolo tutto!
Così saremo tutti, dopo che l’Orco ci prenderà.
Dunque viviamo, mentre si può star bene”.

Infatti l’idea di morte non manca nel lungo episodio della cena di Trimalcione, come un lugubre presagio che marca un’epoca sì ostentata, ma nel contempo vuota di valori, morta in sé. Il protagonista, infatti, ama giocare con essa, quasi ad esorcizzarla, facendo sì che venisse presentato, addirittura durante il pasto, il suo funerale (o meglio, le grandi prove dello svolgersi di esso). In questo passo, quello che invece notiamo è una riflessione che, per come viene illustrata, non stona col personaggio, ma reca in sé echi più profondi, ed è il discorso della fragilità e un epicureo come Trimalcione sembra concluderlo con una specie (parodia?) di carpe diem oraziano.

Terzo blocco:

Encolpio e Ascilto si affrontano a causa di Gitone. Richiesto a quest’ultimo chi dei due volesse come amante, il ragazzo indica Ascilto, lasciando Encolpio affranto di dolore.

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Affresco di amore omoerotico nella cultura classica

MELODRAMMA D’AMORE
(80, 1-7)

Iocari putabam discedentem. At ille gladium parricidali manu strinxit et: «Non frueris», inquit, «hac praeda super quam solus incumbis. Partem meam necesse est vel hoc gladio contemptus abscindam». Idem ego ex altera parte feci, et intorto circa brachium pallio, composui ad proeliandum gradum. Inter hanc miserorum dementiam infelicissimus puer tangebat utriusque genua cum fletu, petebatque suppliciter ne Thebanum par humilis taberna spectaret, neve sanguine mutuo pollueremus familiaritatis clarissimae sacra. «Quod si utique, proclamabat, facinore opus est, nudo ecce iugulum, convertite huc manus, imprimite mucrones. Ego mori debeo, qui amicitiae sacramentum delevi». Inhibuimus ferrum post has preces, et prior Ascyltos: «Ego», inquit, finem discordiae imponam. Puer ipse, quem vult, sequatur, ut sit illi saltem in eligendo fratre salva libertas». Ego qui vetustissimam consuetudinem putabam in sanguinis pignus transisse, nihil timui, immo condicionem praecipiti festinatione rapui, commisique iudici litem. Qui ne deliberavit quidem, ut videretur cunctatus, verum statim ab extrema parte verbi consurrexit fratrem Ascylton elegit. Fulminatus hac pronuntiatione, sic ut eram, sine gladio in lectulum decidi, et attulissem mihi damnatus manus, si non inimici victoriae invidissem. Egreditur superbus cum praemio Ascyltos, et paulo ante carissimum sibi commilitonem fortunaeque etiam similitudine parem in loco peregrino destituit abiectum.

Io pensavo volesse congedarsi con una battuta di spirito. Ma lui sguaina la spada con mano fratricida e si mette a gridare: «Non te lo godrai questo tesoro, su cui vorresti buttarti da solo. Bisogna proprio che ci esca la mia parte, a costo di tagliarmela con questa spada, visto il disprezzo in cui mi tieni!». Dall’altra parte io faccio lo stesso, mi avvolgo il braccio col mantello e mi metto in guardia in attesa dello scontro. Nel pieno di questo accesso di follia a due, quel poveraccio di Gitone ci abbracciava in lacrime le ginocchia, implorandoci di non trasformare quella locanda in una seconda Tebe e di non macchiare col nostro sangue il sacro vincolo di un’amicizia tanto bella. «Ma se il morto ci deve scappare comunque» urlava, «eccovi la mia gola: rivolgete qui le vostre mani, infilateci dentro le spade fino all’elsa. Chi deve morire sono io, perché ho distrutto il sacro vincolo dell’amicizia». Di fronte a quelle suppliche rimettiamo a posto le spade, e il primo a parlare è Ascilto: «Io voglio mettere fine alla lite: il ragazzo vada pure con chi gli pare, perché sia libero di optare per chi vuole almeno nella scelta del “fratellino”». Pensando che l’amicizia di lunga data tra me e Gitone si fosse ormai trasformata in un legame di sangue, non ho nulla da temere, anzi aderisco subito alla proposta con uno slancio rabbioso, lasciando che a giudicare della lite sia il solo Gitone. Che non ci pensa su nemmeno un attimo, tanto per far vedere di essere un po’ indeciso, e mentre io sono ancora là che devo finire l’ultima parola, lui si alza di scatto e si sceglie Ascilto come fratellino. Fulminato da quella decisione, così com’ero, senza nemmeno più la spada, cado sul letto, e mi sarei ammazzato con le mie mani, non fosse stato per il trionfo del nemico. E così Ascilto se ne va tutto ringalluzzito da quella preda, piantando lì su due piedi e in un posto sconosciuto l’uomo che fino a poco prima era stato il suo migliore amico nella buona e nella cattiva sorte.

Vediamo qui un “classico” triangolo amoroso, tipico, in questo periodo nei romanzi d’importazione greca, in cui una scena così apparteneva a quelle che oggi vengono definite “scene madri”. L’antefatto è dato dal ritorno dalla casa di Trimalchione, in cui i tre, (Encolpo Ascilto e Gitone) ubriachi, si ritirano nella locanda. I due amanti, chiaramente, passano una gioiosa notte d’amore, ma quando Encolpio si sveglia, si trova solo. Infatti Ascilto, mentre lui dormiva, prende Gitone con sé e se lo porta a letto. Encolpio, alzatosi si scaglia contro l’amico, chiede di dividere le cose che hanno in comune e d’andarsene. Ascilto accetta e chiede a sua volta che sia diviso anche il ragazzo. Ecco qui quindi la lotta per il possesso dell’oggetto amato, che viene confrontato con l’episodio di Eteocle e Polinice in lotta per il possesso di Tebe e Gitone, novella Giocasta, in mezzo a loro due offre la gola. E’ evidente che vi sia qui il capovolgimento parodico: la tragedia della moglie e della madre di Edipo, viene qui rivissuta da un omosessuale ubriaco, un suo amico ben dotato che vuol farsi (e si fa) il ragazzo, e quest’ultimo, “checca” melodrammatica, che al momento giusto, sceglie, tuttavia, quello che offre “maggiori mezzi”

Quindi, si dirige ad una pinacoteca dove incontra un vecchio poeta, Eumolpo, con cui discute sulla decadenza della poesia. Per consolare Encolpio, il poeta gli racconta una novella. Quindi, di fronte ad una pittura comincia a recitare un poemetto sulla presa di Troia. Viene preso a sassate dai presenti. Fuggono. Encolpio incontra Gitone, ma geloso di Ascilto, decide di lasciare la città insieme ad Eumolpo.

Quarto blocco:

I tre si ritrovano sulla nave di Lica e Trifone (Encolpio e Gitone si sono mascherati per non farsi riconoscere). Ma, con un sogno premonitore, la donna li smaschera e promette loro terribili punizioni. La contesa si fa aspra, finché il pilota della nave propone una tregua. Eumolpo riesce a placare gli animi e ad imporre un vero e proprio trattato di pace, che si festeggia con un allegro banchetto in cui il vecchio poeta narra la vicenda della matrona di Efeso:

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Norman Lindsay: La matrona di Efeso

LA MATRONA DI EFESO
(111, 1–4)

Matrona quaedam Ephesi tam notae erat pudicitiae, ut vicinarum quoque gentium feminas ad spectaculum sui evocaret. Haec ergo cum virum extulisset, non contenta vulgari more funus passis prosequi crinibus aut nudatum pectus in conspectu frequentiae plangere, in conditorium etiam prosecuta est defunctum, positumque in hypogaeo Graeco more corpus custodire ac flere totis noctibus diebusque coepit. Sic adflictantem se ac mortem inedia persequentem non parentes potuerunt abducere, non propinqui; magistratus ultimo repulsi abierunt, complorataque singularis exempli femina ab omnibus quintum iam diem sine alimento trahebat. Adsidebat aegrae fidissima ancilla, simulque et lacrimas commodabat lugenti, et quotienscunque defecerat positum in monumento lumen renovabat.

C’era una certa matrona ad Efeso di così rinomata virtù da spingere persino le donne dei popoli confinanti a farle attenzione. Costei, dunque, dopo aver perso il marito, non contenta di seguire, secondo il costume popolare, il corteo funebre con i capelli sciolti o di percuotersi il petto nudo di fronte alla gente, seguì il marito anche quando venne messo nella bara, e quando venne deposto, secondo l’usanza greca, nella tomba, prese a vegliare il corpo ed a piangere notte e giorno. Né i genitori, né i parenti riuscirono a distoglierla dall’affliggersi in quel modo e dall’andare incontro alla morte per fame. Da ultimo i magistrati se ne andarono respinti; e la donna di eccezionale esempio compianta da tutti non toccava cibo da quattro giorni. Assisteva la disperata un’ancella fedelissima, e quando piangeva la accompagnava nel pianto, ed allo stesso tempo provvedeva a sostituire il lume posto sulla lapide ogni volta che si consumava.

IL SOLDATO E LA MATRONA DI EFESO
(112, 1–3)

Ceterum scitis quid plerumque soleat temptare humanam satietatem. Quibus blanditiis impetraverat miles ut matrona vellet vivere, isdem etiam pudicitiam eius aggressus est. Nec deformis aut infacundus iuvenis castae videbatur, conciliante gratiam ancilla ac subinde dicente:
“Placitone etiam pugnabis amori?
Nec venit in mentem quorum consederis arvis?”
Quid diutius moror? Ne hanc quidem partem corporis mulier abstinuit, victorque miles utrumque persuasit. Iacuerunt ergo una non tantum illa nocte, qua nuptias fecerunt, sed postero etiam ac tertio die, praeclusis videlicet conditorii foribus, ut quisquis ex notis ignorisque ad monumentum venisset, putasset expirasse super corpus viri pudicissimam uxorem.

Voi sapete cos’altro è solito tentare un essere umano quando è sazio. Il soldato, con le medesime lusinghe grazie alle quali aveva fatto tornare a vivere la matrona, tentò anche la sua castità. E alla casta matrona egli non pareva né brutto né stupido, anche perché l’ancella lo metteva in buona luce e diceva: “vuoi dunque tu combattere un amore che ti aggrada? Non ti ricordi in che territorio ti trovi?”. Perché farla tanto lunga? La matrona non seppe tenere a digiuno neppure quella parte del suo corpo, ed il soldato vincitore riuscì nella sua impresa di persuasione entrambe le volte. Dormirono dunque insieme non solo quella notte, in cui venne consumato il loro amore, ma anche il secondo ed il terzo giorno, dopo aver sbarrato, come è logico, le porte del sepolcro, perché chiunque fosse capitato, noto o sconosciuto, presso la tomba pensasse che la castissima moglie fosse spirata sopra il cadavere del marito.

Abbiamo qui riportato due soli episodi della “fabula milesia” meglio conosciuta con il nome de La matrona di Efeso, la cui trama è riportata, in forma più semplicistica e in versi, da Fedro. Essa ci offre l’opportunità di fare alcune considerazioni, di carattere generale sia sul contenuto dell’intera storia che sul modo attraverso cui la racconta:

  • possiamo notare che essa potrebbe essere considerata come un esempio di una certa misoginia dell’autore e. in questo caso, del narratore Eumolpo; tuttavia la leggerezza della donna nasconde altro: come Fortunata, di fronte a uomini imbelli, sono loro a imporre i modi con cui affrontare un evento (Fortunata è colei che gestisce il patrimonio di Trimalchione, la matrona di Efeso salva il soldato da sicura impiccagione);
  • il lessico di Petronio è sempre ricco e articolato, molto giocato (nei due brani proposti) sull’amplificatio riguardo il personaggio della donna (da tam pudica del primo brano al suo superlativo nel secondo) ad accentuare, invece il suo essere “leggera” e arrendevole”; ma soprattutto è ricco di riferimenti ai termini usati per descrivere l’amore di Didone (e questa volta ci riferiamo all’intero brano) nel VI canto di Virgilio, o a termini militari, creando così una vera mescolanza cui l’effetto è certamente, nel complesso, ironico.

L’episodio prosegue con il sopraggiunge di una violenta tempesta: Lica muore e i tre riescono a fuggire.

Quinto blocco:

Un contadino da un’altura mostra loro una città, Crotone e li informa sugli strani costumi dei suoi abitanti: infatti la popolazione si divide in due, i cacciatori di eredità e uomini ricchissimi che non hanno eredi. Eumolpo decide di farsi passare per un possidente, mentre Encolpio e Gitone fingeranno di essere suoi schiavi. Sulla strada il vecchio poeta offre una lezione sul poema epico, cui fa seguire un brano poetico sulla guerra fra Cesare e Pompeo (parodia del Pharsalia di Lucano). Intanto Encolpio, colpito dalla maledizione di Priapo non riesce a soddisfare le voglie di una matrona, di nome Circe, che, inviperita ordina ai servi di frustarlo. Il nostro declama una vera e propria invettiva contro il suo membro, ma giunge in suo aiuto Mercurio che gli ridà la virilità. Intanto Eumolpo, che teme d’essere scoperto, detta le sue condizioni affinché i cacciatori d’eredità possano ottenerla: dovranno mangiare il suo cadavere. Il romanzo si chiude con un crotonese che accetta la proposta.

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La città di Crotone: resti della città greco-romana

Modelli

La difficoltà nel descrivere cosa sia il Satyricon risulta dal fatto che oggi usiamo un termine assolutamente improprio per definirlo, cioè “romanzo”. Invece il Satyricon utilizza al suo interno vari generi letterari che possiamo così schematizzare:

  1. Satira Menippea (da Menippo di Gadara, III sec. a.C.): componimento misto di prosa e poesia (prosimetrum), utilizzato già da Seneca nell’Apokolokintosis. In Petronio esso non risulta essere un “espediente formale”, ma un vero e proprio strumento attraverso cui costruisce il racconto;
  2. Fabula Milesia (da Aristide di Mileto, II sec. a.C.): narrazione comica d’argomento erotico con il tema dominante del desiderio sessuale e del denaro, in cui i valori morali vengono sovvertiti e ridicolizzati. Tipico riferimento di fabula milesia nell’opera petroniana è l’inserto narrativo de La matrona di Efeso;
  3. Il romanzo greco: caratterizzato da una narrazione in terza persona, con argomento amoroso a schema fisso e riferimento a un contesto di valori idealizzati. La loro finalità era edonistica per far sì che il lettore s’identificasse con la vicenda narrata. Qui Petronio opera un vero e proprio stravolgimento: la narrazione è in prima persona, i protagonisti sono omosessuali, e la realtà è rappresentata in modo realistico e grottescamente critico, tale da allontanare il lettore dai personaggi;
  4. Poema epico: Omero, Virgilio e Lucano. I primi due Petronio li utilizza soprattutto per il tema del “viaggio” che determina le peripezie dell’“eroe”; del poema del terzo opera una parodia in stile virgiliano;
  5. Satira: Lucilio e Orazio, di cui riprende la descrizione disincantata della realtà romana del suo tempo, senza alcun commento moralistico.
  6. Mimo e Atellana: proto forme teatrali italiche, con la rappresentazione farsesca di situazioni triviali.

I temi dominanti

In un’opera che, pur così frammentaria è così ricca di spunti, possiamo trovare dei temi dominanti che costituiscono un vero e proprio filo rosso che sottende tutti gli episodi a noi pervenuti e che sono la rappresentazione realistica della Roma neroniana, il riso e l’eros. Petronio infatti ci descrive una Roma inconsapevolmente rivolta verso un periodo di crisi politica e valoriale. Protagonisti infatti sono un piccolo gruppo di fannulloni, non cattivi, ma la cui vita sembra non avere alcuno scopo (è da sottolineare che sono loro, tuttavia, a possedere un briciolo di cultura), a cui si contrappone un mondo di latifondisti e arrampicatori sociali incolti, beceri, arroganti nel mostrare il loro potere economico. Trimalcione ne costituisce l’esempio più eclatante, essendo un liberto arricchito come ne pullulavano parecchi durante la dinastia giulio-claudia. Tutto ciò ci viene tuttavia presentato con ironia dissacrante che non può non suscitare il riso nel lettore: infatti il ricorrere dei personaggi a atti maliziosi, dissoluti, disonesti e il liberarsi di essi attraverso una fragorosa risata è il segno di una consapevolezza disillusa di Petronio che solamente ne può ridere e far ridere il fruitore dell’opera. Questo riso coinvolge anche l’eros, che pur dissacrante, non appare mai descritto in modo morboso, ma semplicemente colto nei suoi eccessi.

Questi temi non nascondono tuttavia una meditazione più “profonda” dell’autore: l’opera è percorsa infatti da un senso di disfacimento che trova la sua espressione attraverso il tema della morte, del teatro e del labirinto. La morte non viene solo descritta all’interno della narrazione (il marito morto ne La matrona di Efeso, il naufragio di Efeso, il cannibalismo a Crotone) ma anche metaforizzata: durante la cena di Trimalcione, infatti viene presentato uno scheletro che fa pronunciare all’anfitrione: “Ahimé, poveri noi, quanto niente è l’omicciatolo tutto! Così saremo tutti, dopo che l’Orco ci prenderà. Dunque viviamo, mentre si può star bene”. Anche la teatralizz-zione – ancora nell’episodio della Cena Trimalchionis – rappresenta l’inautenticità del vivere che, d’altra parte si esprime in una realtà labirintica ed incomprensibile che ci fa intuire l’amarezza profonda dell’autore.

Per quanto riguarda la lingua è necessario sottolineare che Petronio usa uno stile mimetico a seconda dei personaggi rappresentati, per cui il linguaggio dell’io narrante, Encolpio, è quello di un uomo non privo di cultura, mentre quello di Eumolpo – essendo un poeta – è letterariamente alto. Viceversa quello di Trimalcione e dei suoi commensali è basso, volgare, tipico dei personaggi incolti.

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Encolpio e Adilto nel Fellini-Satirycon

Federico Fellini, il più visionario tra i nostri registi italiani, decise, nel 1969, di girare un film sull’opera di Petronio, che egli volle intitolare Fellini Satyricon, quasi a sottolineare che la sua non era una trattazione filmica (cosa peraltro impossibile visto la frammentarietà del testo) ma una riduzione libera, legata alla sua idea del mondo, tanto che il titolo rimanda a una vera e propria riscrittura. Infatti il testo petroniano è utilizzato come pretesto sui cui s’innestano altri ricordi classici (come il petomane Varricchio, personaggio inesistente nel romanzo il cui gesto ricorda più un diavolo dantesco e la presenza di un Minotauro da circo che combatte contro Encolpio) o vere e proprie invenzioni sui personaggi petroniani (come la non morte di Ascilto). Ma l’intento dell’autore non era certo rendere con belle immagini le pagine latine, quanto trattarle in modo onirico, come un sogno fatto sulla romanità, facendo della sua opera un’operazione metafilmica in cui se il cinema è sogno egli lo rappresenta cinematograficamente. Ci dice Fellini: “Il racconto ci è giunto a frammenti, e il racconto sarà solo a frammenti, con l’alogicità dei sogni, colmo di vuoti improvvisi. Qualcosa come un mosaico dissepolto. La realtà presentata non sarà storica, ma onirica”. Esso infatti si presenta trattando i personaggi come volti riscoperti da un pittura pompeiana, mentre la scenografia sembra uscire da un sogno di fantascienza fatto da un antico Romano (si pensi alla scenografia dell’incipit).

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Immagine tratta da una sequenza  del film di Fellini

Cosa ci lascia oggi il film? In primo luogo non dobbiamo dimenticare l’anno in cui fu presentato: siamo nell’indomani del ’68 e la pellicola sembra proprio voler sottolineare il concetto di una fine, di un mondo in decadenza in cui la Roma neroniana con i suoi arricchiti liberti sembrava preannunciare nel suo vuoto barocchismo un senso di fine, di morte valoriale a cui si oppongono i due protagonisti, Encolpio e Ascilto, che, nella loro “libertà” sembrano richiamare, a loro volta, il mondo hippy che proprio in quella età prendeva forma; dall’altro la riflessione su una Roma caotica e disordinata che sembra città indistruttibile nella sua vacuità. Fellini ce lo aveva detto già nella Dolce vita, ma lo sottolineerà in una memorabile scena di un’opera successiva Roma, in cui nel momento in cui si scoprirà un affresco romano, l’aria penetrante nel luogo liberato lo polverizzerà.

 

AULO PERSIO FLACCO

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Aulo Persio Flacco

Come un gran numero di autori latini, anche le notizie su questo giovane scrittore sono poche e provengono quasi tutte da Marco Valerio Probo che, sempre in età neroniana, ci lasciò una sua biografia. Da tali notizie sappiamo che nacque nel 34 d.C. a Volterra da un’importante famiglia etrusca d’origine equestre e che a dodici anni si trasferì a Roma, dove fu seguito da importanti maestri, tra i quali troviamo quel famoso Anneo Cornuto, di cui divenne un fidato amico e che gli permise di conoscere Seneca e di diventare sodale con il più o meno coetaneo Lucano. L’immagine che si tramanda di lui è quella di un ragazzo ombroso, poco sociale, integerrimo nel seguire i precetti stoici che l’amico Cornuto gli trasmetteva. Ma ci dice anche di una sua precocissima capacità intellettiva, grazie anche alla sua grande biblioteca, che gli permise di scrivere una praetexta, un libro di viaggi, una biografia di una donna che seguiva il marito nella scelta del suicidio per la libertà, ma soprattutto delle Satire. Come il suo amico Lucano anch’egli non fece in tempo a godere del successo, ma fu questa volta la natura ad opporsi al suo affermarsi quand’era in vita: lo stroncò una malattia di stomaco ad appena 28 anni. Lasciò la sua ricca biblioteca a Cornuto e nessun testo pubblicato. A scegliere, pertanto, ciò che poteva esser letto del lavoro di Persio fu l’amico Cesio Basso e Cornuto stesso, che non fecero pubblicare nulla che apparisse troppo acerbo o che potesse diventare pericoloso per i parenti del poeta. Lasciò solo che venissero rese pubbliche le satire, dopo avervi apportato “necessarie” modifiche. Il successo del libro, una volta che fu in circolazione, fu enorme ed il nome di Persio s’impose come grande poeta.

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Vecchissima edizione delle Satire pubblicata ad Amsterdam nel 1650

Satire 

Il libro delle Satire è composto da sei componenti in esametri (verso ormai canonico per tale genere) a cui si aggiunge, all’inizio o alla fine, a seconda del manoscritto pervenutoci, un breve componimento in coliambi (verso dell’invettiva) in cui rivendica il suo essere semipaganus (rustico) e di lasciare l’alta poesia ai sommi poeti o a chi s’illude di saperli imitare.

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Joos de Momper: Minerva visita le Muse nel Monte di Elicona

COLIAMBO

Nec fonte labra prolui caballino
nec in bicipiti somniasse Parnaso
memini, ut repente sic poëta prodirem.
Heliconidasque pallidam Pirenem
illis remitto, quorum imagines lambunt
hederae sequaces: ipse semipaganus
ad sacra vatum carmen adfero nostrum.
Quis expedivit psittaco suum chaere
picamque docuit verba nostra conari?
Magister artis ingenique largitor
Venter, negatas artifex sequi voces.
Quod si dolosi spes refulserit nummi,
corvos poëtas et poëtridas picas
cantare credas Pegaseium nectar.

Non ho bagnato le labbra sulla fonte del cavallino / né ricordo di aver sognato sulla duplice cima del Parnaso, / per diventare così immediatamente un poeta. / Le Muse abitatrici dell’Elicona e la pallida Pirene / lascio a quelli le cui immagini ricoprono / l’edere rampicanti: io stesso semirustico / porto il nostro canto ai sacri riti dei vati. / Chi ha suggerito al pappagallo il suo “Salve!” / e ha insegnato alla gazza a ripetere le nostre parole? / Maestro delle arti e donatore d’ingegno, / il ventre, artefice nell’imitare le voci negate (dalla natura). / Ma se risplenderà la speranza dell’ingannatore denaro, / tu crederai che i corvi poeti / e le gazze poetesse cantino il nettare di Pegaso.

Per la natura di questi versi, ci piace immaginare che questi 14 coliambi fossero più introduttivi che finali. Infatti qui il poeta si scaglia contro la poesia dei suoi tempi, ritenuta ampollosa e vuota e afferma con forza il fatto di non essersi imbevuto nelle fonti care alle Muse. Ma cominciamo, attraverso lo stile, a capire come egli intenda attaccare i “vizi” dei suoi contemporanei, con acrimonia, piuttosto che “simpatica ironia” com’era in Orazio. Si veda a tal proposito l’insistenza con cui paragona gli animali il cui suono risulta o ripetitivo o estremamente rauco (pappagalli, gazze, corvi). Capiamo già da questa piccola introduzione, come in Persio non ci sia condivisione e sorriso tra amici, ma la voce arcigna e un po’ pedante di un maestro che, infarcito di sapienza stoica, riprende e irride ai poeti suoi contemporanei.

Quindi inizia il vero e proprio testo con la prima satira, in cui si scaglia contro la mediocrità della poesia contemporanea che non sa mordere, fustigare, come dovrebbe, i vizi della gente di Roma.

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Maschera di un satiro

LA SATIRA NON VA DI MODA
(I, vv. 1-12)

O curas hominum! O quantum est in rebus inane!
“Quis leget haec?” min tu istud ais? Nemo hercule.
Vel duo vel nemo. “Turpe et miserabile!” quare?
Ne mihi Polydamas et Troiades Labeonem
praetulerint? Nugae! Non, si quid turbida Roma
elevet, accedas examenve inprobum in illa
castiges trutina nec te quaesiveris extra.
Nam Romae quis non – a, si fas dicere – sed fas
tum cum ad canitiem et nostrum istud vivere triste
aspexi ac nucibus facimus quaecumque relictis,
cum sapimus patruos, tunc tunc ignoscite… nolo…
quid faciam? Sed sum petulanti splene: cachinno.

O cure degli uomini! O quanto vuoto c’è nelle cose! / “Chi leggerà queste cose?” Tu dici questo a me? Nessuno, per Ercole. / O due o nessuno. “Vergognoso e miserabile” Perché? / Che le Polidemanti e le Troiane preferiscano a me Labeone? / Sciocchezze! Non, se la torbida Roma (ti) screditi / qualcosa, non avvicinarti né correggi lo storto ago / in quella bilancia né cerca te fuori (di te). / Infatti a Roma chi non – ah, se fosse lecito parlare – ma è lecito… / Allora quando ho rivolto lo sguardo alla canizie / e a quel nostro vivere triste e, lasciato il gioco con le noci / facciamo qualcosa, quando abbiamo l’aria di zii, / allora allora vogliatemi scusare… non voglio… / che farò? Ma sono con la milza indolente: rido smoderatamente.

L’inizio della I satira si struttura con un dialogo tra il poeta e un personaggio fittizio, a cui il nostro rivendica la sua libertà di poter ridere, appunto smoderatamente, contro le storture della società. Ed è qui che, tuttavia si segna la differenza con quelli che, sempre nella stessa satira, definisce i suoi maestri:

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Gli strumenti per scrivere nell’antichità

I MODELLI: LUCILIO ED ORAZIO
(I, vv. 114-123)

(…) Secuit Lucilius urbem,
te Lupe, te Muci, et genuinum fregit in illis;
omne vafer vitium ridenti Flaccus amico
tangit et admissus circum praecordia ludit
callidus excusso populum suspendere naso;
me muttire nefas? nec clam? nec cum scrobe? nusquam?
hic tamen infodiam. Vidi, vidi ipse, libelle:
auriculas asini quis non habet? (…)

(…) Lucilio fustigò a sangue la città, / colpì te, o Lupo, te o Mucio, fino a ficcare in loro un dente; / Flacco punge scaltro ogni vizio all’amico, facendolo ridere / e ammesso nel suo cuore, gioca / furbo e appende il popolo sul (suo) naso pulito. / Ed io è necessario che zittisca? Neppure di nascosto? Neanche in una buca? Sempre? / Allora lo sotterrerò. Lo visto, io stesso lo visto, il mio libretto: / chi non ha le orecchie d’asino?

E’ palese qui il richiamo verso i suoi predecessori: l’inventore del genere, Lucilio, e colui che portò lo stesso all’apogeo, facendolo diventare un classico, Orazio Flacco. Infatti qui appaiono i veri temi dei due verso cui egli si rivolge: la mordacità di Lucilio e alcuni modelli strutturali e stilistici di Orazio. Ma, bisogna pur notare come egli, molto più dei suoi predecessori, sia infarcito di filosofia stoica che lo porta verso un rigorismo moralistico che appartiene solo a lui. Attenzione all’ultimo verso: sembra che il testo “originale” di Persio recitasse auriculas asini Mida rex non habet? Ma l’illusione troppo diretta a Nerone nella figura di re Mida sconsigliò l’editore a pubblicarla e fu così emendata.

Nella II satira, scritta sotto forma di epistola, il nostro attacca coloro che pregano gli dei in modo interessato. Infatti non viene ascoltato chi prega davanti a una culla affinché il fanciullo diventi ricco e potente, al contrario di chi si pone di fronte al dio in modo puro e sincero. Si veda, in questi pochi versi, come prenda in giro la richiesta a gran voce della salute e preghi disgrazie per averne vantaggi:

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Mosaico pompeiano raffigurante la Morte

PREGHIERA
(II, 8-14)

“Mens bona, fama, fides”, haec clare et ut adiat hospes;
illa sibi introrsum et sub lingua murmurat: “O si
ebulliat patruus, praeclarum funus!” et “O si
sub rastro crepet argenti mihi seria dextro
Hercule; pupillumve utinam, quem proximus heres
inpello, expungam: nam et est scabiosus et acri
bile timet; Nerio iam tertia conditur uxor”.

“Mente sana, fama, credito”: ben chiaro e che si senta; / ma dentro di sé e tra i denti mormora: “ Oh, se morisse lo zio, che splendido funerale!” e “Oh, se / sotto la zappa risuonasse un forziere d’argento, con il favore / di Ercole; o potessi cancellare il mio pupillo, che incalzo / come prossimo erede: infatti è pieno di scabbia ed è gonfio / di bile nera; a Nerio è già morta la terza moglie”.

Famosa la terza satira perché sembra abbia ispirato l’attacco di Parini al “giovin signore”: infatti anche qui si prende di mira un indolente che conduce vita dissipata per indurlo a intraprendere il cammino della retta via, attraverso la virtù stoica.

CONSIGLI STOICI
(III, 66-72)

Discite, o miseri, causas cognoscite rerum:
quid sumus et quidnam victuri gignimur, ordo
quis datus, aut metae qua mollis flexus et unde,
quis modus argento, quid fas optare, quid asper
utile nummus habet, patriae carisque propinquis
quantum elargiri deceat, quem te deus esse
iussit et humana qua parte locatus es in re.

Imparate, o dissennati, a conoscere le ragioni delle cose; / ciò che siamo, per quale vita nasciamo, il luogo / assegnato, come e da dove aggirare lievemente la méta, / la misura delle ricchezze, ciò cui è lecito aspirare, l’utilità / della ruvida moneta serbata, quanto convenga donare / alla patria e ai cari congiunti, chi volle dio che tu fossi, / e quale il ruolo a te assegnato nella condizione umana.

E’ questa la dimostrazione di come qui il giovane Persio stia lontano dal sorriso indulgente oraziano e, perché no?, dal suo modo di proporsi, che fa dire allo stesso d’esser parte del gregge epicureo, contro la virtus stoica che qui si erge ad insegnare il modus vivendi del saggio. Possiamo anche notare come, pur con tutte le notazioni senecane e, quindi, del suo amico Cornuto, egli non riesca a condividerle, a sorridere insegnando, ma ad impartire una lezione morale verso chi, ingiustamente, si gode la vita.

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Nosce te ipsum in greco

Nella IV satira egli sottolinea l’importanza del “nosce te ipsum” conosci te stesso, per chi voglia interessarsi di politica e impartire, così, direttive etiche per gli altri (direttive molto simili a quelle poste al “giovin signore”).

Altro tenore hanno le ultime due Satire: la V rivolta a Cornuto, svolge il tema della libertà stoica, contrapponendola ai vizi umani; la VI, invece, dedicata a Cesio Basso, deplora il vizio dell’avarizia mostrando l’uso giusto dei beni posseduti.

Già in questi ultimi esempi possiamo dire come, all’interno della Satira di Persio, si segni una leggera evoluzione. Partito con un forte spirito polemico, che lo avvicina più alla diatriba che allo stoicismo senecano, egli pare guidato dall’ira, dall’incapacità di credere che ci fosse qualcuno incapace di rispettare la virtus, come se ciò fosse naturale e quindi per lui incomprensibile, in quanto “proprio” contro natura. Ma è proprio nelle ultime satire che invece non si pone più come colui che, raggiunta la saggezza può porsi al di sopra degli altri ma, posto allo stesso livello dei suoi maestri/amici Cornuto e Cesio Basso, possa egli stesso mettersi alla ricerca della libertà stoica.

Stile

E’ evidente che tale carica critica e moralista ad un tempo, così come s’allontana dal sorriso oraziano, s’allontana dallo stile del maestro di Venosa: Orazio, infatti, critica in Lucilio proprio lo stile “fangoso”, per così dire non fluido, spezzettato, e ricerca invece l’eleganza, l’armonia, avvenga pur essa con la mirabile mescolanza tra sermo cotidianus e sermo elegans. Egli utilizza infatti la callida iunctura, cioè l’ardito accostamento delle parole, dando ad esse un nuovo significato, lasciando, così, sorpreso il lettore. Persio, invece, insegue la acris iunctura, cioè il difficile ed aspro accostamento di parole, affinché il lettore non sia più soltanto sorpreso, ma, anche e soprattutto sferzato da esse e costretto, pertanto, a trarne un insegnamento morale. Per questo il suo stile riesce spesso “difficile”; è d’altra parte volontaristico il fatto che Persio oggettivizzi il suo moralismo nello stile: ad una realtà caotica, che ha perduto i valori e non sa seguire la virtus, segue uno stile altrettanto “irato” che, per questo, non può essere certo ironico.

MARCO ANNEO LUCANO

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Busto Di Marco Anneo Seneca

Lucano appartiene alla famiglia degli Annei. Infatti è nipote di Seneca, figlio di Anneo Mela, fratello minore del filosofo.

Nasce come lo zio a Cordova, in Spagna, nel 39 d.C. In giovane età è condotto a Roma, dove studia presso il famoso filosofo Anneo Cornuto, che pur non parente, apparteneva alla stessa gens. Nella sua scuola Lucano conosce il poeta Persio, con il quale stringe un’importante amicizia. Mostra subito una brillante intelligenza che spinge Nerone ad inserirlo tra i suoi più stretti amici (cohors amicorum): ci viene raccontato che durante i Neronia (festività istituita dallo stesso imperatore) egli recitasse lodi a lui rivolte. Fu così apprezzato da ottenere la questura prima dell’età necessaria per iniziare il cursus honorum. E’ in questo periodo che alcuni vogliono far cominciare la stesura del suo poema, pensando che egli abbia composto i primi tre libri. All’improvviso, avviene la rottura con Nerone: i motivi, sulla base degli storici successivi, possono essere tre: l’invidia dell’imperatore per la straordinaria capacità del giovane, capace di oscurare le sue doti; la rottura dello zio Seneca con Nerone e quindi anche del giovane nipote; il troppo palese atteggiamento filo repubblicano, che mette in discussione l’assetto assolutistico che Nerone vuole dare a Roma. Fatto sta che Lucano si trova al di fuori della corte, cosa che può averlo portato ad aderire alla congiura dei Pisoni. Accusato, per scagionarsi incolpa la madre Anicia (in rotta con lui ed il padre), ma senza successo. Gli viene ordinato di uccidersi e morirà, a soli ventisei anni, senza aver terminato il suo poema.

Opere

Di lui si dice che avesse scritto, grazie anche un ingegno precocissimo, alcune opere, tra cui una tragedia, Medea, ad imitazione dello zio, ed una raccolta di poesie; inoltre si esercitò anche su una Iliacòn (carme sull’incendio di Troia) che sembra fosse stata scritta anche da Nerone stesso. Ma l’unica opera da noi conservata è il poema Bellum civile o Pharsalia, interrotto al decimo libro. Esso è l’unico poema di tipo storico che possediamo nella quasi interezza.

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Frontespizio di un’edizione del 1665, pubblicata ad Amsterdam

Bellum civile

E’ un poema, d’argomento storico, il cui tema è la guerra civile, da qui il titolo (Bellum civile) tra Cesare e Pompeo, detto anche Pharsalia da un verso dello stesso Lucano:

Pharsalia nostra vivet

La nostra Farsalia vivrà

Di questo poema possediamo dieci libri, di cui l’ultimo risulta essere più breve degli altri: se ne deduce che l’opera non sia conclusa per la morte del poeta. La sua non conclusione ci porta, tuttavia, verso un problema critico riguardo la effettiva lunghezza che Lucano voleva dare alla suo poema e il modo in cui aveva intenzione di terminarlo. Più ipotesi ci spingono a pensare che egli volesse arrivare a dodici libri:

  • Per emulare/contrapporsi con l’ormai “classico” poema virgiliano;
  • Perché inserisce a metà dell’opera un episodio che si può definire uguale/opposto all’Eneide, per cui dal valore centrale;
  • Perché se ipotizzassimo dodici libri potremmo al contempo ipotizzare la trattazione in una triade dei protagonisti: quattro libri per Cesare, altrettanti per Pompeo e i rimanenti che dovevano essere dedicati a Catone.

Il progetto di avere un poema epico su Roma, sembra fosse nelle intenzioni di Nerone; che sembra abbia visto nel giovane e brillante amico un probabile autore; ma il fatto che egli, pur nell’iniziale elogio verso l’imperatore, avesse scelto come argomento la guerra fra Cesare e Pompeo, ci indica come in Lucano fosse presente sin dall’inizio, un’ideologia filo repubblicana (che poi nel proseguo della composizione si sia approfondita, fino alla rottura, appare certo). Eppure l’opera ebbe una difficile accettazione, perché apparve ai più un ibrido che mescolasse la storia e la poesia: difficile dirlo, per noi, perché ci mancano le sue fonti “storiche” principali: Livio e le opere di Seneca il Vecchio, autore di un’opera storica che partiva proprio dalle guerre civili. La perdita delle fonti e non ci permette di conoscere come le abbia “reinventate”.

Cosa ci spinge, oggi, a leggere Lucano, come un autore che ha voluto scardinare e rifondare in modo del tutto nuovo la poesia epica? Il confronto che non noi, ma Lucano stesso, come già accennato, fa con la Vergilii Aeneis: l’opera dell’autore mantovano, infatti, si presenta come un monumentum che canta, con fatica e lutti, la pax romana. Lucano, invece, sin dall’inizio canta la reipublicae dissolutio:

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La battaglia di Farsalo in una miniatura del Foquet

PROEMIO
(I, 1-14)

Bella per Emathios plus quam civilia campos,
iusque datum sceleri canimus, populumque potentem
in sua victrici conversum viscera dextra,
cognatasque acies, et rupto foedere regni
certatum totis concussi viribus orbis
in commune nefas, infestisque obvia signis
signa, pares aquilas et pila minantia pilis.
Quis furor, o cives, quae tanta licentia ferri
gentibus invisis Latium praebere cruorem?
Cumque superba foret Babylon spolianda tropaeis
Ausoniis umbraque erraret Crassus inulta
bella geri placuit nullos habitura triumphos?
Heu, quantum terrae potuit pelagique parari
hoc quem civiles hauserunt sanguine dextrae!

Cantiamo le guerre più che civili per i campi Emazi, e la legge assegnata al delitto e il popolo potente rivolto con la mano vittoriosa contro le sue stesse viscere, e le battaglie fraterne, e, dopo aver infranto il patto del regno, la lotta con tutte le forze del mondo sconvolto nel comune misfatto, e le insegne esposte contro le insegne ostili, e le due aquile una contro l’altra e i giavellotti che minacciano altri giavellotti. Quale follia, o cittadini, quale ampia facoltà delle armi offre il sangue latino alle popolazioni nemiche? E quando la superba Babilonia doveva essere spogliata dai trofei Ausoni e Crasso con l’ombra invendicata vagava, piacque fare guerre per non ottenere nessun trofeo? Oh, quante terre e quanti mari potevano essere conquistati con questo sangue che mani civili hanno versato!

Per Lucano la pax augustea era fondata su una grande mistificazione, che voleva nascondere, con un apparato scenografico, fatto di dei ed eroi, così com’era raccontato nell’Eneide virgiliana, il declino di Roma verso la tirannide. D’altra parte c’è nella Pharsalia un episodio che può essere considerato esemplare da questo punto di vista: come nel VI libro dell’Eneide si assisteva all’episodio della catabasi, in cui Anchise mostrava ad Enea disceso negli Inferi la futura gloria di Roma, nel VI libro dell’opera di Lucano si assiste alla negromanzia, dove il soldato morto richiamato dalla maga afferma di aver visto negli Inferi una grande confusione con i Catilinari (nemici della repubblica) fare grandi feste per la rovina della città.

Allora come si spiega l’elogio iniziale verso Nerone?

ELOGIO DI NERONE
(I, 33-38)

Quod si non aliam venturo fata Neroni
invenere viam magnoque aeterna parantur
regna deis caelumque suo servire Tonanti
non nisi saevorum potuit post bella gigantum,
iam nihil, o superi, querimur; scelera ipsa nefasque
hac mercede placent.

Ma se i fati non hanno trovato un’altra via all’avvento di Nerone e a grande prezzo si preparano i regni eterni agli dei e il cielo poté servire Giove Tonante se non dopo la guerra dei crudeli giganti; ormai di nulla lamentiamoci; questi delitti e il sacrilegio ci piacciono come ricompensa.

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Karl Theodor von Piloty: Nerone e il grande incendio di Roma

E’difficile dare una giusta interpretazione a questi versi: una parte della critica vedrebbe nell’accostamento che Lucano pone tra l’elogio di Augusto presente nell’Eneide di Virgilio, e questo di Nerone, un’esagerazione “troppo marcata” verso quest’ultimo che potrebbe risultare “ironica”, considerando anche il forzato “inserimento” di esso nell’ideologia del poema; altri, invece, protendono per una sincera ispirazione di tale elogio e, se esagerazione vi è, va considerata all’interno degli elogia, “naturali” nelle opere letterarie di questo periodo. Se infatti considerassimo i primi tre libri del poema scritti prima dell’allontanamento della corte essi segnerebbero, come già nel De clementia senecano, l’atteggiamento degli intellettuali, che vedevano Nerone, all’inizio del suo potere, come colui che sarebbe riuscito a mettere insieme impero e libertà. Ciò tuttavia non comporterebbe un cambiamento troppo brusco tra la prima e la seconda parte del poema, ma una maturazione che piano piano tende sempre più verso un’ideologia anti imperiale.

La Pharsalia non ha un eroe: il testo ruota intorno a Cesare e Pompeo; nell’ultima parte di esso, appare, inoltre la figura di Catone. A dominare è Cesare: irruento, temerario, impaziente, sembra quasi incarnare il furor impossibile da dominare, rivolto contro le forze sane della repubblica:

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Immagine di Cesare dux con la X legione tratta dal videogioco Rome 2- Total war

RITRATTO DI CESARE
(I, 183-203)

Iam gelidas Caesar cursu superaverat Alpes
ingentesque animo motus bellumque futurum
ceperat. Ut ventum est parvi Rubiconis ad undas
ingens visa duci patriae trepidantis imago
clara per obscuram voltu maestissima noctem
turrigero canos effundens vertice crines
caesarie lacera nudisque adstare lacertis
et gemitu permixta loqui: “Quo tenditis ultra?
Quo fertis mea signa, viri? Si iure venitis,
si cives, huc usque licet”. Tum perculit horror
membra ducis, riguere comae gressumque coercens
languor in extrema tenuit vestigia ripa.
Mox ait “O magnae qui moenia prospicis urbis
Tarpeia de rupe Tonans Phrygiique penates
gentis Iuleae et rapti secreta Quirini
et residens celsa Latiaris Iuppiter Alba
Vestalesque foci summique o numinis instar
Roma, fave  oeptis. Non te furialibus armis
persequor: en, adsum victor terraque marique
Caesar, ubique tuus (liceat modo, nunc quoque) miles.
Ille erit, ille nocens, qui me tibi fecerit hostem”.

Cesare aveva superato nella sua corsa le fredde Alpi e aveva concepito nell’animo grandi piani e la guerra futura. Appena giunse alle rive del piccolo Rubicone, apparve al comandante la grande e trepidante immagine della patria, luminosa nell’oscura notte con volto tristissimo, spargendo i capelli bianchi dalla testa turrita, con la chioma strappata e le braccia nude si ergeva e mista ai gemiti parlava: “Dove volete proseguire ancora? Dove portate le mie insegne, uomini? Se venite legalmente, se siete cittadini, fino a qui è lecito arrivare”. Allora l’orrore percorse le membra del condottiero, gli si rizzarono i capelli, e attanagliandolo un grosso languore si fermò nell’estremità della riva. Subito disse: “O Giove Tonante, che dalla rupe Tarpea guardi le mura delle città e i Frigi Penati della stirpe Iulia e i misteri di Romolo rapito in cielo, e il Giove Laziare che risiede nell’alta Alba e i fuochi delle Vestali e tu, o Roma, simile al grande dio, favorite le mie iniziative. Non ti assalgo con le armi delle Furie: ecco, il presente Cesare vincitore per terra e per mare, e dovunque tuo sodato (il solo che sia lecito, anche adesso). Quello sarà, quello il malefico, che mi avrà reso tuo nemico.

In questo passo, il nostro riprendendo la tecnica della prosopopea presente nella Catilinaria di Cicerone, ci presenta la patria come un fantasma che appare nella notte e che prega Cesare di desistere dall’attaccarla: scapigliata, priva di forze, vecchia, chiede al comandante di non profanarla. E’ qui che Lucano vuole sottolineare la temerarietà dell’uomo che compie un nefas, chiedendo l’aiuto degli dei. E’ il furor che lo spinge, che non riesce ad insegnargli il limite invalicabile che trasforma un civis in un hostis della patria.

Se Cesare è un personaggio “psicologicamente” statico, la cui determinazione è ben sviluppata sin dall’inizio del poema, quello di Pompeo, visto nella sua neghittosità, in questa incapacità d’agire, sembra piano piano maturare nel corso del poema verso una maggiore consapevolezza: lo si veda dapprima in questo ritratto, dove viene “negativamente” descritto insieme alla mala temeritas cesariana: 

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Pompeo e Cesare ritratti in un affresco di Taddeo di Bartolo (1414)

POMPEO E CESARE
(I, 129-157)

Nec coiere pares. Alter vergentibus annis
in senium longoque togae tranquillior usu
dedidicit iam pace ducem, famaeque petitor
multa dare in volgus, totus popularibus auris
inpelli plausuque sui gaudere theatri
nec reparare novas vires, multumque priori
credere fortunae. Stat magni nominis umbra,
qualis frugifero quercus sublimis in agro
exuvias veteris populi sacrataque gestans
dona ducum nec iam validis radicibus haeret
pondere fixa suo est, nudosque per aera ramos
effundens trunco, non frondibus, efficit umbram,
et quamvis primo nutet casura sub Euro,
tot circum silvae firmo se robore tollant,
sola tamen colitur. Sed non in Caesare tantum
nomen erat nec fama ducis, sed nescia virtus
stare loco, solusque pudor non vincere bello.
Acer et indomitus, quo spes quoque ira vocasset,
ferre manum et numquam temerando parcere ferro,
successus urguere suos, instare favori
numinis, inpellens quidquid sibi summa petenti
obstaret gaudensque viam fecisse ruina.
Qualiter expressum ventis per nubila fulmen
aetheris inpulsi sonitu mundique fragore
emicuit rupitque diem populosque paventes
terruit obliqua praestringens lumina flamma:
in sua templa furit, nullaque exire vetante
materia magnamque cadens magnamque revertens
dat stragem late sparsosque recolligit ignes.

Né si scontrarono alla pari. L’uno al declinare degli anni in vecchiaia, meno impetuoso per il lungo uso della toga ha già disappreso nella pace la parte del condottiero, e assetato di gloria molto concedeva al volgo, si lasciava spingere interamente dal favore popolare e si compiaceva degli applausi del suo teatro, non preparava nuove forze e si affidava molto alla fortuna passata. Si erge, ombra di un grande nome, quale una quercia maestosa in un fertile terreno, adorna delle spoglie di un popolo antico e delle sacre offerte dei capi, non si abbarbica più con forti radici, ristà sul suo peso effondendo per l’aria i nudi rami, ombreggia solamente con il tronco, non con le fronde; ma, sebbene oscilli sul punto di cadere al primo soffio dell’Euro, e si levino intorno tanti solidi alberi, tuttavia essa soltanto è venerata. In Cesare non era solo un nome, una gloria di capo, ma un valore instancabile, ed unica vergogna vincere senza combattere; forte e indomito, dovunque lo chiamava la speranza o l’ira, portava la mano e mai risparmiava il ferro nell’offesa, incalzava la vittoria, sforzava il favore divino, avventandosi su qualunque cosa ostacolasse la sua brama di do-minio e compiacendosi di essersi aperto la via seminando rovine. Così il fulmine sprigionato dai venti attraverso le nubi balena con lo strepitio dell’etere percosso e il fragore del-l’universo, e squarcia il giorno e atterrisce i popoli tremanti, accecandoli con la fiamma guizzante; infuria negli spazi celesti, e poiché nessuna materia si oppone al suo scatenarsi, piombando e impennandosi infligge una grande, vasta strage e riunisce i fuochi sparsi.

Il passo presenta una tecnica descrittiva basata sulla “similitudine”: ma tale similitudine avviene per contrasto, assumendo connotati fortemente negativi:

  • Pompeo/quercia: alla stabilità della pianta fa riscontro la sua inamovibilità, una “potenza” che riflette se stessa ed i cui rami non danno ombra. Per meglio dire la forte quercia non è più stabile se messa a dura prova con il vento;
  • Cesare/lampo: alla velocità dell’effetto atmosferico corrisponde la distruzione di ogni cosa, quindi il lampo Cesare, s’accompagna con il tuono, con tutto il suo potere di annientamento verso qualsiasi forma di libertà.

Ma vediamo come si prospetta la “maturazione” di Pompeo, nelle sue ultime parole:
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Anonimo: La morte di Pompeo

MORTE DI POMPEO
(VIII, 622-635)

“Saecula Romanos numquam tacitura labores
attendunt, aevumque sequens speculatur ab omni
orbe ratem Phariamque fidem: nunc consule famae.
Fata tibi longae fluxerunt prospera vitae:
ignorant populi, si non in morte probaris,
an scieris adversa pati. Ne cede pudori
auctoremque dole fati: quacumque feriris,
crede manum soceri. Spargant lacerentque licebit,
sum tamen, o superi, felix, nullique potestas
hoc auferre deo. Mutantur prospera vita,
non fit morte miser. Videt hanc Cornelia caedem
Pompeiusque meus: tanto patientius, oro,
claude, dolor, gemitus: gnatus coniunxque peremptum,
si mirantur, amant.”

I secoli che mai taceranno i travagli romani mi osservano, il futuro contempla da tutte le parti del mondo la lealtà e la nave di Faro: ora pensa alla gloria. Hai trascorso una lunga vita tra prosperi eventi; i popoli non sanno, a meno che non lo provi nel morire, che sai sopportare le avversità. Non cedere all’onta, non dolerti dell’esecutore del fato: qualunque mano ti colpisce, è la mano del suocero. Mi lacerino le membra, le disperdano; tuttavia sono fortunato o Celesti, e nessuno di voi potrà privarmi di questo. Muta la prosperità nella vita; non si diviene sventurati con la morte. Cornelia e il mio Pompeo assistono all’assassinio. Con tanta più forza, dolore, ti prego, soffoca i gemiti; se il figlio e la sposa mi ammirano in morte, mi amano.

Quanta dignità dà Lucano all’eroe “negativo” che egli ha cantato, anche criticandolo. Le sue parole finali, infatti, lo fanno riscattare verso una morte giusta, quasi stoicamente vissuta, lottando non solo contro Cesare, ma contro l’avverso destino della repubblica e quindi della libertà.

Ma a essere cantato alla luce della virtus stoica e quindi della piena consapevolezza della libertas che laddove manca politicamente, non è possibile esercitare pubblicamente, è certamente Catone:Guillaume_Guillon_Lethière_-_Death_of_Cato_of_Utica_-_WGA12907.jpg

Guillame Guillon: La morte di Catone l’Uticense (1795)

CATONE
(II, 380-391)

Hi mores, haec duri inmota Catonis
secta fuit, servare modum finemque tenere
naturamque sequi patriaeque inpendere vitam
nec sibi sed toti genitum se credere mundo.
Huic epulae vicisse famem, magnique penates
summovisse hiemem tecto, pretiosaque vestis
hirtam membra super Romani more Quiritis
induxisse togam, Venerisque hic us usus,
progenies: urbi pater est urbique maritus,
iustitiae cultor, rigidi servator honesti,
in commune bonus; nullosque Catonis in actus
subrepsit partemque tulit sibi nata voluptas.

Questi i costumi e l’immota disciplina dell’austero Catone, serbare la misura, tenersi nei limiti, seguire la natura, sacrificare la vita alla patria, non credersi nato per sé ma per tutti gli uomini. Un banchetto per lui, aver vinto per lui; sontuosi Penati, un tetto che lo riparasse dalla tempesta; una veste preziosa, la ruvida toga gettata sulle spalle al modo di antico Quirite; fine supremo dei rapporti di Venere; la prole; padre e marito di Roma, cultore della giustizia; custode della rigorosa onestà, virtuoso nel comune interesse; mai, in nessun atto di Catone, s’insinuò ed ebbe qualche parte un piacere egoista.

La figura di Catone sembra, infatti, conservare la piena consapevolezza stoica che possiamo così riassumere, anche grazie a quello stoicismo così tratteggiato dallo zio filosofo:

  • autarkeia: allontanamento dalle passioni (serbare la misura, attenersi ai limiti);
  • trovarsi in accordo con la natura, seguendone la ratio ossia il flusso di vita dettata a lei dalla ratio che la presiede;
  • impegno per tutti gli uomini (cosmopolitismo stoico).

LUCIO ANNEO SENECA

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Lucio Anneo Seneca

Notizie biografiche

Seneca è un intellettuale spagnolo, nato nella Spagna Betica, più precisamente a Cordova, forse nel 4 a. C. da una ricchissima familia d’antica nobiltà provinciale. Il padre, conosciuto come Seneca il retore, autore di una raccolta di declamationes, attraverso le quali voleva avviare i figli alle carriera politica, si formò a Roma, mentre la madre Elvia, si dedicò all’educazione dei tre figli maschi, uno dei quali, è il padre del poeta Lucano.Spagna romana - Wikipedia

La Spagna Romana

Lucio Anneo Seneca, giunto insieme ad una zia in giovane età a Roma per intraprendere l’attività politica, frequenta insegnanti di formazione neopitagorica e stoica, all’interno della cosiddetta scuola dei Sestii, che gli insegnarono a vivere in modo assolutamente austero. E’ ancora discusso se il suo viaggio in Egitto a seguito di una zia, il cui marito era lì come governatore, sia stato determinato da esclusivi problemi medici (aveva un’affezione cronica polmonare) o “opportunistici” (Tiberio aveva chiuso le scuole filosofiche, tra cui quella in cui si era formato). Al suo rientro inizia l’attività oratoria e politica, ricoprendo il ruolo di questore. E’ da subito considerato così bravo da essere salvato da un’amante di Caligola da morte certa per gelosia dell’imperatore (più probabile che abbia tenuto un discorso “troppo libertario”). Subisce tuttavia l’esilio (dal 41 al 48 d. C.) da parte di Claudio: sembra infatti che sua moglie, Messalina, lo avesse accusato di avere rapporti sessuali con Giulia Lavilla (sorella di Caligola).

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L’imperatore Claudio

Quando Claudio sposa Agrippina, cade l’accusa e il filosofo spagnolo può tornare nella capitale. Infatti la nuova moglie di Claudio lo vuole a fianco a sé nell’educare il giovane figlio Nerone.

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Nerone

Sembra infatti che alla morte “procurata” dell’imperatore, la donna abbia partecipato attivamente e, una volta messo sul trono il diciassettenne figlio, abbia messo in atto, insieme al filosofo e al prefetto del pretorio Afranio Burro, una vera e propria triade di potere. Inizia quello che la storiografia definisce quinquennium Neronis (51 – 58 d. C.) nella quale il governo neroniano viene seguito e guidato dal filosofo, che sembra anche “intellettualmente giustificare” l’uccisione di Britannico (figlio di Claudio e Messalina) motivandola secondo la regione di stato: d’altronde parte dei beni del figlio dell’imperatore vengono incamerati dal filosofo che inizia a possedere un ingente bottino.

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Agrippina

Tutto cambia nel 59: Nerone decide di far fuori la madre che s’oppone al suo matrimonio con Poppea; l’illusione di fare del giovane imperatore un sovrano illuminato cade. Nonostante tutto cerca di rimanergli a fianco ma, morto Burro e salito al potere Tigellino, per lui non c’è più niente da fare. Chiede e gli viene concesso di ritirarsi dalla vita politica: si allontana in un suo possedimento con sua moglie Paolina e si dà ad una profonda speculazione filosofica che troverà spazio in alcune opere fondamentali. Pur lontano da ogni attività pubblica viene accusato da Nerone, se non di far parte, d’aver saputo e non aver ostacolo il tentativo di colpo di stato del nobile Gaio Calpurnio Pisone (d’altra parte suo nipote Lucano sembra ne facesse parte attiva). Il 19 aprile del 65 gli viene ordinato d’uccidersi: senza porre alcun indugio, come pure lo stoicismo gli insegnava, si toglie la vita tagliandosi le vene. La moglie avrebbe voluto seguirlo, ma Nerone non vuole, sarebbe apparso agli occhi dell’opinione pubblica “troppo dispotico”.

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Manuel Domínguez Sánchez, Il suicidio di Seneca, 1871

Opere

La produzione senecana è piuttosto corposa e sembra comprendere vari ed importanti generi della letteratura latina:

  1. La prosa filosofica (in cui fa parte anche l’Epistolario), che aveva, come grande ed unico precedente Cicerone;
  2. La satira menippea, con l’Apokolokyntosis o Ludus de morte Claudii;
  3. Il teatro drammatico con le cothurnatae (le uniche pervenuteci della letteratura latina);
  4. La poesia lirica con gli Epigrammi (ancora dibattuta la loro attribuzione).

Ciò che invece suscita un vero e proprio problema critico è la loro datazione. Di fronte a tale difficoltà lo studio di tale opere pertanto si svolge o per generi o per temi. Cercheremo per quanto possibile di seguirli entrambi.

Opere filosofiche

Le opere filosofiche sono costituite da 10 Dialoghi in dodici libri; 3 trattati (di cui uno “scientifico”) e, la più importante di tutti le Epistulae ad Lucilium.

Dialoghi 

Il termine con cui ci sono pervenute un gruppo di opere monografiche, ad eccezione del De ira in tre libri, trae il suo titolo da coloro che volevano apparentarle al genere filosofico-morale d’origine greca. Tuttavia, pur non trattandosi di veri e propri dialoghi, l’utente, cui l’opera è rivolta, è ben presente in espressioni come “tu dirai”, “qualcuno potrà pensare” dove tale formulazioni servono a puntellare il monologo dell’autore. Pur avendo, non senza oscillazioni, una panoramica che ce ne indica la datazione le dividiamo al loro interno in Consolationes e in piccole trattazioni che pur non essendo prettamente dialogate, nascondono un “tu generico”.

Le Consolationes erano un genere assai praticato in Grecia il cui scopo era quello di “consolare”, sulla base di riflessioni morali, sorrette dalla filosofia, chi avesse subito un qualche evento negativo; nella letteratura latina tale genere era stato già svolto da Cicerone nel De consolatione per la morte della figlia Tullia. Nel corpus dei Dialogi ne troviamo tre:

Consolatio ad Marciam: probabilmente la prima opera senecana, scritta sotto il periodo di Caligola. Marcia, infatti, era la figlia di Cremuzio Cordo, storico la cui colpa fu quella di esaltare gli uccisori di Cesare, senza far menzione di Augusto. Messo a morte e bruciata la sua opera, sembra che sotto il regno del giovane imperatore fosse stata permessa la ripubblicazione dell’opera da qualche esemplare rimasto. Ciò ci offre la possibilità di considerare il fatto che Seneca non avrebbe certamente scritto in un inno alla libertà senza che il potere lo accettasse. Il tema fondamentale di questa consolatio è, appunto, consolare la giovane donna per la morte del figlio, suicidatosi giovanissimo. L’argomentazione è fondamentalmente stoica. La morte non è né bene né male, ma se concepita con ragione essa costituisce un perfetto accordo con il corso della natura, verso cui tutti dobbiamo attenerci.

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Morte di un bimbo

LA MORTE NON E’ MALE
19, 4-5

Quid igitur te, Marcia, movet? utrum quod filius tuus decessit an quod diu non vixit? Si quod decessit, semper debuisti dolere; semper enim scisti moriturum. Cogita nullis defunctum malis adfici, illa quae nobis inferos faciunt terribiles, fabulas esse, nullas imminere mortuis tenebras nec carcerem nec flumina igne flagrantia nec Oblivionem amnem nec tribunalia et reos et in illa libertate tam laxa ullos iterum tyrannos: luserunt ista poetae et vanis nos agitavere terroribus. Mors dolorum omnium exsolutio est et finis ultra quem mala nostra non exeunt, quae nos in illam tranquillitatem in qua antequam nasceremur iacuimus reponit. Si mortuorum aliquis miseretur, et non natorum misereatur. Mors nec bonum nec malum est: id enim potest aut bonum aut malum esse quod aliquid est; quod vero ipsum nihil est et omnia in nihilum redigit, nulli nos fortunae tradit. Mala enim bonaque circa aliquam versantur materiam: non potest id fortuna tenere quod natura dimisit, nec potest miser esse qui nullus est.

Cosa, dunque, ti sconvolge, o Marcia? che tuo figlio sia morto o che non visse a lungo? Se (è) per il fatto che è morto, sempre avresti dovuto soffrire; sempre, infatti, hai saputo (che lui) era destinato a morire. Pensa che il defunto non è toccato da alcun male, che quelle cose che a noi rendono terribili gli inferi, sono favole, che sui morti non incombe nessuna tenebra, né carcere, né fiumi ribollenti di fuoco, né il Lete né tribunali, né colpevoli e in quella libertà tanto ampia di nuovo alcun tiranno: i poeti inventarono per gioco queste cose e ci terrorizzarono con vani terrori. La morte è lo scioglimento di tutti i dolori ed (è) il confine oltre il quale i nostri mali non procedono, che ci ripone in quella tranquillità nella quale ci trovammo prima di nascere. Se qualcuno prova pietà per i morti, abbia pietà anche per i non nati. La morte non è né bene né male infatti può essere bene o male ciò che è qualcosa; ciò che in verità è esso stesso nulla e riconduce ogni cosa al nulla, non ci consegna ad alcun destino. I mali e i beni, infatti, si volgono intorno a qualche materia: non può il destino tenere ciò che la natura ha mandato via, né può esser misero colui che è nulla.

L’importanza di questo primo testo senecano sta nell’affrontare in modo deciso il concetto di morte, che all’inizio sembra, invece, legarsi al concetto epicureo dell’allontanamento delle passioni. In un altro paragrafo, invece, è bene messa in luce l’indifferenza della morte, in quanto essa non è, non potendo mutare/essere mutata. Ciò che non può accordarsi con ciò che è (la natura) non esiste come bene o male, ma come assente da qualsiasi giudizio, quindi da non temere.

Consolatio ad Helviam matrem: è forse un’opera scritta nei primi anni dell’esilio in Corsica ed è rivolta a “consolare” la madre Elvia per la mancanza del figlio. Viene considerata dalla critica la più partecipata e, sebbene ripeta alcuni precetti tipici della filosofia stoica, in essa troviamo un sincero invito alla genitrice affinché non soffra. Infatti in questa piccola monografia la ricerca della virtù non possiede luogo, ma soltanto l’anima di chi vuole arrivare a possederla. Pertanto pur così lontano egli non cesserà di studiare e consiglia alla madre, appunto, di vincere la tristezza migliorando la conoscenza che sola può avvicinarla alla virtù.

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Immagine di due fratelli, liberti arricchiti, in un ritratto del Museo del Cairo

Consolatio ad Polybium: venne scritta durante la permanenza in esilio in Corsica, per volere dell’imperatore. Polibio era un potente liberto di Claudio al quale era morto un giovane fratello. Se il tema che sottintende il concetto di morte è lo stesso di quello rivolto a Marcia, ben diverso è l’atteggiamento di smaccata adulazione verso l’imperatore, dal quale sperava di poter essere richiamato:

ELOGIO DI CLAUDIO
12, 3

Non desinam totiens tibi offerre Caesarem: illo moderante terras et ostendente quanto melius beneficiis imperium custodiatur quam armis, illo rebus humanis praesidente non est periculum, ne quid perdidisse te sentias; in hoc uno tibi satis praesidi, solaci est. Attolle te et, quotiens lacrimae suboriuntur oculis tuis, totiens illos in Caesarem derige: siccabuntur maximi et clarissimi conspectu numinis; fulgor eius illos, ut nihil aliud possint aspicere, praestringet et in se haerentes detinebit.

lo non cesserò ogni volta di ricordarti Cesare. Finché egli continuerà a governare il mondo ed a dimostrare quanto i benefici contribuiscano più delle armi a mantenere uno Stato, finché egli continuerà a presiedere alle attività degli uomini, non c’è il pericolo che tu t’accorga di aver perduto qualche cosa. In lui solo, troverai la sufficiente difesa, il sufficiente conforto. Risollevati, ed ogni volta che ti sentirai salire le lacrime agli occhi, volgili a Cesare. Si asciugheranno alla vista di quel sommo e potentissimo nume; il suo splendore li abbacinerà talmente che non potranno vedere altro e li terrà avvinti a se stesso.

Il passo qui riportato ci serve soprattutto per mostrarci l’atteggiamento ambiguo di Seneca nei confronti del potere. Per ottenere il ritorno dalla Corsica il nostro non pone limiti ad una smaccata adulazione, per poi capovolgerla totalmente in un’altrettanto smaccata denigrazione dell’imperatore nell’Apokolokyntosis.

Possiamo raggruppare altre tre piccole monografie per la dedica ad Anneo Sereno, alto funzionario della corte imperiale. Di datazione incerta, esse tuttavia possono delineare un percorso ideale verso la saggezza. Esse sono:

De constantia sapientis: di difficile collocazione, mira a delineare la figura del saggio capace di sopportare le altrui offese, emulo della sapienza divina; tale capacità deve svolgersi nei rapporti con gli altri, in cui il saggio mostra tutta la pazienza e magnanimità.

De tranquillitate animi: è scritta probabilmente nell’immediatezza che segue il quinquennio neroniano per il tema che propone. Egli infatti conforta l’amico Sereno in un momento difficile che l’amico sta vivendo. Infatti anche egli condivide questa difficoltà, dettata da insicurezza per il futuro. Si tratta appunto di “disegnare”, nell’impellenza dei tempi, un piano per trascorrere con serenità il resto della vita. Si tratta cioè di coltivare la tranquillitas, che si deve esplicare nel giovamento degli altri fintantoché la politica lo permetta e quando, appunto, sarà preso dai negotia, dagli obblighi che deve allo stato; nello studio e nell’abbandono dei falsi piaceri, nel momento in cui questo impegno finirà. Ma i due momenti non devono essere separati: possono convivere in modo armonioso, raggiungendo quella tranquillitas che permette al saggio di vivere (o cercare di vivere) in accordo con la sua ratio.

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Immagine efficace per illustrare il libro di Seneca

INSTABILITA’ UMANA
(II, 6-7)

Innumerabiles deinceps proprietates sunt, sed unus effectus vitii, sibi displicere. Hoc oritur ab intemperie animi et cupiditatibus timidis aut parum prosperis, ubi aut non audent quantum concupiscunt, aut non consequuntur et in spem toti prominent; semper instabiles mobilesque sunt, quod necesse est accidere pendentibus. Ad vota sua omni via tendunt et inhonesta se ac difficilia docent coguntque, et ubi sine praemio labor est, torquet illos inritum dedecus, nec dolent prava se (sed) frustra voluisse. Tunc illos et paenitentia coepti tenet et incipienti timor subrepitque illa animi iactatio non invenientis exitum, quia nec imperare cupiditatibus suis nec obsequi possunt, et cunctatio vitae parum se explicantis et inter destituta vota torpentis animi situs.

Innumerevoli infine sono i casi, ma uno è l’effetto dell’errore, la scontentezza di sé. Questa nasce dalla mancanza d’equilibrio e da desideri troppo deboli oppure non appagati, quando gli uomini non osano fare ciò che desiderano oppure non lo conseguono, e si protendono interamente verso la speranza. Sono sempre instabili e mutevoli, come inevitabilmente accade a chi è in sospeso. Cercano con ogni mezzo di realizzare le loro aspirazioni, insegnano e impongono a se stessi azioni disoneste e difficili, e quando la fatica resta senza ricompensa, li tormenta l’essersi disonorati senza frutto, e soffrono non per aver voluto il male, ma per averlo voluto invano. Allora li prende il pentimento di ciò che hanno iniziato e la paura di ricominciare, e s’insinua in loro l’agitazione propria di chi non trova una via d’uscita perché non è in grado né di comandare né di obbedire ai propri desideri, e l’incertezza di una vita che non trova la sua strada e il torpore di un animo che s’infiacchisce tra ambizioni frustrate.

Il passo oltre a mostrarci l’instabilità umana che non permetterà mai il raggiungimento della tranquillitas, sembra alludere proprio all’impossibilità dello stesso di realizzarsi all’interno di un sistema in chi la “saggezza” stava per essere completamente bandita. Ma qui, quello cui dà prova e costituirà l’enorme sua fortuna per tanti secoli è la perfetta conoscenza dell’uomo e delle sue contraddizioni. 

De otio: siamo già probabilmente nel ritiro senecano dovuto all’allontanamento della corte. Di questa monografia non possediamo né la parte iniziale, né la finale. Prima d’addentrarci nel vero e proprio discorso del filosofo latino, sembra più opportuno ricordare che per la nobilitas romana l’otium è tutto ciò che accade al di fuori dell’attività per lo stato. Ora se in età tardo repubblicana l’ozio sallustiano e ciceroniano era servito ad entrambi per produrre opere utili alla società, per Seneca esso risponde invece all’allontanamento da qualsiasi interesse esterno, per indirizzarsi, attraverso una vita contemplativa, verso la saggezza interiore con cui poter giovare “individualmente” agli altri.

Altre due li dedica al fratello maggiore Novato (che, adottato aveva preso il nome del protettore Gallione), che sono:

De vita beata: si può considerare una monografica d’argomento teorico in cui Seneca confuta alcuni principi dell’epicureismo. La parte di maggior spicco riguarda la difesa che egli fa riguardo il suo stile di vita, criticata aspramente dai cinici (corrente filosofica dalla vita randagia e poverissima con cui cercavano di allontanarsi da qualsiasi bisogno):

LA CATTIVERIA DEI CRITICI
(XVIII, 2)

Nec malignitas me ista multo veneno tincta deterrebit ab optimis; ne virus quidem istud quo alios spargitis, quo vos necatis, me inpediet quo minus perseverem laudare vitam non quam ago sed quam agendam scio, quo minus virtutem adorem et ex intervallo ingenti reptabundus sequar.

Non mi allontanerà dalle ottime cose questa malignità, ricoperta con molto veleno; neppure questo virus con cui infettate gli altri, con cui vi uccidete, mi impedirà quanto meno di continuare ad amare la vita non quella che faccio, ma quella che so di dover fare, quanto meno di adorare la virtù e di seguirla da lontano strisciando.

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Forse non erano proprio di Sallustio: ma questo è quello che rimane degli Horti Sallustiani

De ira libri III: La composizione dell’opera è sicuramente posteriore alla morte di Caligola, se qui viene descritto come personaggio nefasto, preda di questo sentimento che ne ha ottenebrato la ragione. E’ un vero e proprio discorso stoico sui sentimenti e più precisamente su quello che più si allontana dalla vita armonica che il saggio deve perseguire.

Una fra le più importanti sembra l’abbia dedicata al suocero Paolino:
De brevitate vitae in cui il nostro affronta uno dei temi centrali dell’intera sua opera, quello del tempo. Infatti al padre della moglie, andato in riposo, insegna a “non sprecare” il tempo, ma ad investirlo in occupazioni proficue.
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 De brevitate vitae: immagine di copertina 

E’ DAVVERO BREVE IL TEMPO DELLA VITA?
Capitolo 1

Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aevi gignimur, quod haec tam velociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrant, adeo ut exceptis admodum paucis ceteros in ipso vitae apparatu vita destituat. Nec huic publico, ut opinantur, malo turba tantum et imprudens vulgus ingemuit: clarorum quoque virorum hic adfectus querellas evocavit. Inde illa maximi medicorum exclamatio est, “vitam brevem esse, longam artem”; inde Aristotelis cum rerum natura exigentis minime conveniens sapienti viro lis est: “aetatis illam animalibus tantum indulsisse ut quina aut dena saecula educerent, homini in tam multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare”. Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus. Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota bene conlocaretur; sed ubi per luxum ac negligentiam diffluit, ubi nulli bonae rei inpenditur, ultima demum necessitate cogente quam ire non intelleximus transisse sentimus. Ita est: non accipimus brevem vitam sed fecimus nec inopes eius sed prodigi sumus. Sicut amplae et regiae opes, ubi ad malum dominum pervenerunt, momento dissipantur, at quamvis modicae, si bono custodi traditae sunt, usu crescunt, ita aetas nostra bene disponenti multum patet.

Paolino, la maggior parte dei mortali si lamenta della ingenerosità della natura, perché siamo generati per un tempo breve, perché questi spazi di tempo concessoci scorrono tanto velocemente e tanto rapidamente, sicché, a parte molto pochi, la vita abbandona altri nella stessa preparazione della vita. Né soltanto la folla e il volgo ignorante si sono lamentati, come credo, per questo male comune, questo stato d’animo provoca lamentele anche di uomini famosi. Da qui nasce l’affermazione del più grande dei medici che “la vita è breve, lunga l’arte”; da qui la disputa di Aristotele, sconveniente ad un uomo saggio, che disputa con la natura: “quella ha offerto una così lunga età agli animali da condurla cinque o dieci generazioni l’una, all’uomo generato per molte e grandi imprese il termine sta molto al di qua”. Non abbiamo un tempo esiguo, ma molto lo consumiamo. La vita è lunga abbastanza e ci è stata affidata largamente per il compimento di grandi imprese, se fosse impiegata bene; ma quando si perde per il lusso e la trascuratezza, quando si spende per nessuna cosa buona, ed infine quando giunge l’ultimo momento, percepiamo che è trascorsa e non abbiamo capito che lei stava andando via. E’ così: non riceviamo una breve vita, ma la rendiamo breve, né siamo poveri di essa, ma ricchi. Come ricchezze ampie e regali, quando sono giunte ad un padrone maldestro, si disperdono in un momento, ma, sebbene modeste, sono affidate ad un buon custode, crescono con l’uso, così il nostro tempo è molto esteso per chi è ben disposto.

Quello qui proposto è un tema ossessivo, tanto da essere sviluppato, più volte nel capolavoro delle Epistulae. E’ chiaro l’atteggiamento contro chi ha una concezione “oggettiva” del tempo, per cui il tempo è “fuori di noi”; per il filosofo romano il tempo è soggettivo e diventa breve o lungo secondo l’utilizzo che noi ne facciamo: se lo sprechiamo è breve in quanto non dedicandoci alle cose fondamentali esse ci sfuggono, ma se ci dedicassimo con costanza e saggezza ad esse il tempo sarebbe certamente abbastanza.

Mentre una delle ultime la dedica all’amico Lucilio, destinatario del suo epistolario:

De providentia: viene in quest’operetta trattato il tema fondamentale dell’unità razionale del cosmo, che tende verso un fine naturale e quindi divino. Affronta quindi il tema del “male” e anch’esso rientra in questo piano, per rafforzarci e renderci degni di tale disegno.

Trattati

Di Seneca ci sono giunti tre trattati, uno scritto quando ancora era “maestro” di Nerone, il De clementia; un altro, di difficile collocazione cronologica è il De beneficiis di forte impostazione stoica e l’ultimo, scritto in ritiro, che è un vero e proprio trattato scientifico, Naturales questiones.

 
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Edoardo Barròn. Seneca e Nerone (1904)

Il più politico, e certamente il più importante dei tre è il De clementia, in tre libri, di cui ci sono pervenuti il primo e l’inizio del secondo:

CLEMENZA DI AUGUSTO
(I, 10)

Ignovit abavus tuus victis; nam si non ignovisset, quibus imperasset? Sallustium et Cocceios et Deillios et totam cohortem primae admissionis ex adversariorum castris conscripsit; iam Domitios, Messalas, Asinios, Cicerones, quidquid floris erat in civitate, clementiae suae debebat. Ipsum Lepidum quam diu mori passus est! Per multos annos tulit ornamenta principis retinentem et pontificatum maximum non nisi mortuo illo transferri in se passus est; maluit enim illum honorem vocari quam spolium. Haec eum clementia ad salutem securitatemque perduxit; haec gratum ac favorabilem reddidit, quamvis nondum subactis populi Romani cervicibus manum imposuisset; haec hodieque praestat illi famam, quae vix vivis principatibus servit.

Il tuo antenato perdonò ai vinti; infatti se non avesse perdonato, a chi avrebbe comandato? Arruolò Sallustio, i Coccei e i Delii e tutto il seguito di prima qualità (prendendoli) dagli avversari; anche i Domizi, i Messala, gli Asini, i Ciceroni, qualunque fiore fosse in città, lo doveva alla sua clemenza. Quanto a lungo aspettò la morte di Lepido! Per molti anni tollerò che lui mantenesse le insegne di principe e sopportò che il pontificato massimo non gli fosse trasferito se non dopo la sua morte; preferì infatti che quello fosse chiamato onore piuttosto che mancanza di esso. Questa clemenza gli garantì la salute e la sicurezza, gli diede la gratitudine e il favore popolare, nonostante avesse imposto la mano sul collo dei Romani non ancora sottomesso; questa clemenza oggi solleva la (sua) fama rispetto sugli altri, che appena serve agli attuali principati.

Come si vede in questo passo, certamente scritto per Nerone, egli in quest’opera riflette, da un punto di vista “politico”, ciò che deve guidare un monarca. Nessuna libertà rimpianta, nessuna repubblica da restaurare, ma l’accettazione incondizionata del principato come unica forma di governo attuale. Allora si tratta di buon governo: l’esempio augusteo è illuminante. Nulla dev’essere più dovuto, tutto quello che si può dev’essere elargito; aspettare con pazienza, farsi amici i nemici solo così – come dice nel passo – si può governare. Augusto c’è riuscito con un popolo non subiectus; se Nerone, visti anche i predecessori, lo sapesse imitare, non solo lo eguaglierebbe, ma lo supererebbe in virtù. D’altra la parte un monarca illuminato che guida con ragione il popolo è lo specchio del logos che guida l’universo.

Il De beneficiis risale al suo ozio forzato in sette libri. Si tratta appunto di analizzare la casistica attraverso la quale mettere in atto atteggiamenti e gesti legati alla filantropia; i tempi giusti in cui essa va esplicitata, il concetto di dono e di scambio. Rivolgendosi alle classi alte egli sembra voler dire loro di adoperarsi socialmente proprio sotto il segno del beneficio e della solidarietà, ma sarebbe un errore non leggere in questo testo un chiaro riferimento a Nerone che nei suoi confronti non ha mostrato alcuna gratitudine dopo tutti i benefici che lo stesso filosofo gli ha donato.

Le Naturales quaestiones, dedicate a Lucilio, è un’opera dossografica (raccolta di argomenti eruditi) il cui contenuto è scientifico, un unicum nel corpus delle opere senecane. é composta da otto libri indipendenti tra loro in quanto ognuno tratta di un singolare fenomeno naturale. Il suo fine è pedagogico e vuole insegnare a non temere più i fenomeni atmosferici e a liberarli dalla superstizione da cui sono circondati per colpa dell’ignoranza. Essi fanno parte, infatti, di quell’unico principio regolatore che attraverso la ratio governa l’unicità della natura.

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             Manoscritto delle Naturales questiones per la corona catalano aragonese

SCIENZA E PROGRESSO
(VII, 3-5)

Quid ergo miramur cometas, tam rarum mundi spectaculum, nondum teneri legibus certis nec initia illorum finesque notecere, quorum ex ingentibus intervallis recursus est? Nondum sunt anni mille quingenti ex quo Graecia stellis numeros et nomina fecit, multaeque hodie sunt gentes quae facie tantum noverunt caelum, quae nondum sciunt cur luna deficiat, quare obumbretur. Haec apud nos quoque nuper ratio ad certum perduxit. Veniet tempus quo ista quae nunc latent in lucem dies extrahat et longioris aevi diligentia. Ad inquisitionem tantorum aetas una non sufficit, ut tota caelo vacet; quid quod tam paucos annos inter studia ac vitia non aequa portione dividimus? Itaque per successiones ista longas explicabuntur. Veniet tempus quo posteri nostri tam aperta nos nescisse mirentur. Harum quinque stellarum, quae se ingerunt nobis, quae alio atque alio occurrentes loco curiosos nos esse cogunt, qui matutini vespertinique ortus sint, quae stationes, quando in rectum ferantur, quare agantur retro, modo coepimus scire; utrum mergeretur Iupiter an occideret an retrogradus esset, – nam hoc illi nomen imposuere cedenti, – ante paucos annos didicimus. 

Perché, dunque, ci meravigliamo che le comete, spettacolo che il mondo ci offre così raramente, non siano ancora ricondotte a leggi fisse e che non ci sia ancora noto il corso di questi fenomeni che si ripresentano a distanza di moltissimo tempo? Non sono ancora passati millecinquecento anni da quando la Grecia contò e diede un nome alle stelle, e ancor oggi esistono molti popoli che conoscono il cielo soltanto nel suo aspetto, che non sanno ancora perché la luna si eclissi, perché si oscuri: anche presso di noi solo recentemente la scienza ha raggiunto delle certezze su questi argomenti. Verrà il giorno in cui il tempo e lo studio attento da parte di molte generazioni porteranno alla luce queste conoscenze che per ora rimangono nascoste; una sola vita, anche se consacrata interamente allo studio del cielo, non sarebbe sufficiente per completare una ricerca così sterminata: che dire del fatto che noi dividiamo in parti ineguali fra lo studio e il vizio quei pochi anni che abbiamo? Pertanto, questi fenomeni verranno spiegati attraverso lunghe successioni di studiosi. Verrà il giorno in cui i nostri discendenti si meraviglieranno che noi abbiamo ignorato cose tanto evidenti. Per quanto concerne questi cinque pianeti che attirano il nostro interesse, che stimolano la nostra curiosità apparendo ora in un punto ora in un altro, abbiamo da poco cominciato a sapere come sorgono al mattino e alla sera, dove si fermano, quando si muovono in avanti, perché ritornano indietro; se Giove si immerga o tramonti o sia retrogrado (questo è, infatti, il nome che gli è stato assegnato quando si ritira), l’abbiamo appreso pochissimi anni fa.

Interessante è il discorso, in questo VII libro sulle comete, che Seneca fa riguardo la “limitatezza” della conoscenza; il non sapere ora con certezza la verità su di esse, non deve intaccare la validità del sapere scientifico; la nostra vita non basta, ci vorranno molte generazioni affinché si giunga ad una verità: insomma il sapere scientifico, oggi come ieri, è sempre in continuo divenire.

Epistulae ad Lucilium

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Codice delle Epistulae ad Lucilium

Le Epistulae ad Lucilium o più esattamente le Epistulae morales ad Lucilium costituiscono il capolavoro letterario di Seneca. Scritte nell’ultima parte della sua vita esse sono 124, suddivise in venti libri, ma sappiamo, per una testimonianza indiretta di Aulo Gellio, scritta quindi dopo un secolo, che lui aveva citato una lettera tratta dal XXII libro; da ciò si arguisce che l’opera fosse più ampia. Il destinatario delle sue opere è Lucilio, giovane equestre, all’epoca procuratore imperiale in Sicilia, a cui il nostro aveva già dedicato il dialogo De providentia ed il trattato Naturales quaestiones. Si tratta di lettere realmente scritte e ricevute, ma, sebbene il lettore fosse ben individualizzato nella figura del giovane amico, sembrano siano destinate ad una più ampia cerchia di lettori, se lo stesso Seneca afferma che il suo lavoro è finalizzato ai posteri. Si può notare, a livello di struttura, come l’opera, insieme al suo lettore, cresca: nei primi tre libri egli “impara” dal maestro; in seguito il rapporto fra i due diventa sempre più paritario. Per ciò che riguarda i temi, essi non si discostano da quelli già da trattati:

  • in due lettere si ritrova il genere delle consolationes (la morte di un amico di Lucilio e la morte di un comune amico);
  • il tema della morte e dell’uguaglianza di tutti di fronte ad essa;
  • la concezione del tempo;
  • la centralità dell’anima;
  • il rapporto tra l’anima e la ratio;
  • la virtù e la contemplazione del divino;
  • la frugalità antica.

Come si può notare non vi è una diversa riflessione tra quanto già elaborato e le lettere; ciò che le rende caratteristiche sono proprio il modo in cui egli affronta i vari argomenti: la forza persuasiva infatti, la ottiene maggiormente sia attraverso la quotidianità, sia attraverso gli exempla tratti da i personaggi famosi. Ma il tema che sottende tutta l’opera è il modo in cui egli la scrive: lo stile costituisce un continuo pensiero, tanto da fargli affermare, nella lettera 115 oratio cultus animi est, “lo stile è espressione dell’anima”. Eppure lo stile senecano non è affatto semplice, ricco com’è, per semplificare, di anafore, parallelismi, nonché di “frasi ad effetto”. Ma se solo pensassimo a qual era la tendenza dell’oratoria del tempo, così ben raffigurata nel Satyricon di Petronio, potremo ben definire, lo stile senecano, fluido ed elegante.

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Schiavi romani

COME TRATTARE GLI SCHIAVI
Epistola n. 47 (par. 1-3)

Libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cum servis tuis vivere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. “Servi sunt”. Immo homines. “Servi sunt”. Immo contubernales. “Servi sunt”. Immo humiles amici. “Servi sunt”. Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae. Itaque rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare: quare, nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium servorum turbam circumdedit? Est ille plus quam capit, et ingenti aviditate onerat distentum ventrem ac desuetum iam ventris officio, ut maiore opera omnia egerat quam ingessit. At infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem, ut loquantur, licet; virga murmur omne conpescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla voce interpellatum silentium luitur; nocte tota ieiuni mutique perstant. Sic fit ut isti de domino loquantur, quibus coram domino loqui non licet. At illi, quibus non tantum coram dominis sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere cervicem, periculum inminens in caput suum avertere; in conviviis loquebantur, sed in tormentis tacebant.

Felicemente ho appreso da coloro che giungevano da te che tu vivi con familiarità con i tuoi servi. Ciò è conveniente alla tua prudenza e alla tua cultura. “Sono servi”, ma anche uomini”. “Sono servi”, ma anche compagni di casa. “Sono servi”, ma anche umili amici. “Sono servi”, ma anche compagni di schiavitù, se penserai che lo stesso modo alla fortuna è concesso per entrambi. E perciò rido di quelli che reputano vergognoso cenare con i propri servi, per qual motivo, se non perché la superbissima consuetudine fa mettere attorno al padrone che cena una folla di servi che stanno in piedi? Quello mangia più di quanto può contenere e con grande avidità riempie il ventre disteso e disabituato ormai al compito di ventre tanto da gettar fuori con più fatica di quanta l’ha ingerita. Ma agli infelici schiavi non è permesso muovere le labbra neppure in questo, per parlare; ogni mormorio è punito con la frusta e neppure (i mormorii) fortuiti, tosse, starnuti, singulti, sono esclusi dalle frustate; il silenzio interrotto da qualche voce è punito in malo modo; rimangono durante tutta la notte muti ed in piedi. Così accade che quelli che non possono parlare di fronte al padrone, la cui bocca era cucita, parlino del padrone (di nascosto). Ma quelli che parlavano non solo di fronte ai padroni ma anche con loro stessi, la cui bocca non era cucita, erano pronti ad offrire il collo per il padrone, rivolgendo verso loro stessi i pericoli imminenti; parlavano nei conviti, tacevano nelle torture.

La sottolineatura che Seneca qui fa dell’“umanità” dello schiavo, se è stata da noi introiettata grazie anche all’insegnamento cristiano, non così naturale doveva apparire al mondo romano. Si insiste qui nel concetto “stoico” di fortuna come provvidenza razionale del mondo: la schiavitù, infatti, è una condizione toccataci. Egli infatti sottolinea, con il termine conservi, come tale condizione sia da addebitare all’eventualità storica: oggi liberi, domani servi, se il paese in cui vivi sarà conquistato. Tuttavia Seneca non arriva all’abolizione della schiavitù: avrebbe significato mettere in discussione tutto il sistema economico del mondo romano. Egli invece tende a sottolineare il modo con cui comportarsi e ad additare le storture e le prepotenze con cui uomini arroganti esercitavano il loro potere su di loro.

DIO ABITA DENTRO DI NOI

Facis rem optimam et tibi salutarem si, ut scribis, perseveras ire ad bonam mentem, quam stultum est optare cum possis a te impetrare. Non sunt ad caelum elevandae manus nec exorandus aedituus ut nos ad aurem simulacri, quasi magis exaudiri possimus, admittat: prope est a te deus, tecum est, intus est. Ita dico, Lucili: sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorumque nostrorum observator et custos; hic prout a nobis tractatus est, ita nos ipse tractat. Bonus vero vir sine deo nemo est: an potest aliquis supra fortunam nisi ab illo adiutus exsurgere? Ille dat consilia magnifica et erecta. In unoquoque virorum bonorum

(quis deus incertum est) habitat deus

Tu fai una cosa assai saggia e per te salutare se, come mi scrivi, persisti nell’indirizzarti verso la saggezza ed è cosa sciocca implorare la saggezza dal momento che potresti ottenerla da te stesso. Non si devono levare le mani al cielo né invocare i custodi dei templi per poterci meglio accostare alle orecchie delle statue, quasi potessimo essere ascoltati meglio: dio è preso di te, è con te, è dentro di te. È così come ti dico, Lucilio in noi c’è uno spirito divino che osserva e controlla il male ed il bene delle nostre azioni; egli ci tratta così come è stato trattato da noi. In verità un uomo buono non è nessuno senza dio: forse che alcuno potrebbe assurgere al di sopra della sorte se non fosse aiutato da lui? Quello ci da consigli splendidi ed eroici. In ciascuno degli uomini buoni abita un dio:
quale dio è incerto ma c’è

Questa lettera, apparentemente, è quella che sembra più avvicinarsi a quella visione cristiana che alimenterà, nel corso del medioevo, la leggenda dell’incontro tra Seneca e San Paolo. Eppure leggendola con attenzione avvertiamo la differenza che intercorre tra la visione stoica profondamente pagana di Seneca e quella prettamente “metafisica” di tipo cristiano. Il filosofo infatti invita Lucilio a cercare il dio che è dentro di lui che si esplica nella capacità razionale dello stesso di andare in comunione con la natura. E’ infatti un cerchio che potremo definire perfetto: dalla natura all’uomo e al suo ritorno, concependo pertanto il discorso senecano come profondamente “immanente” e non “trascendente”.

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Carteggio apocrifo tra San Paolo e Seneca

Apokolokýntosis o Ludus de morte Claudii

E’ questa un’opera che si distacca completamente dal percorso filosofico senecano. E’ stata composta e declamata nel 54 in occasione della morte dell’imperatore e reca in sé tutto il sarcasmo e la cattiveria di chi, per sua volontà, era stato costretto all’esilio. Ma tale operetta sembra anche racchiudere, per volere della corte, una forte linea di discontinuità con il passato regime. Essa è importante perché è l’unica satira menippea romana giuntaci pressoché integrale.

Per satira menippea s’intende infatti un genere in cui fossero fusi tra loro parti in prosa e parti in poesia (prosimetro). Essa era stata introdotta a Roma da Varrone Reatino che utilizzò tale genere per descrivere elementi diatribici. Il titolo dell’opera senecana, visto il significato dei termini greci di cui è composto, sembrerebbe alludere alla “deificazione di una zucca”, ma non essendoci alcuna zucca nell’opera è più probabile che il filosofo intendesse dire “deificazione di uno zuccone”, Claudio, appunto. Eccone la trama:

Mercurio, visto l’anniversario con cui è salita al cielo Drusilla, amante e moglie di Caligola, chiede alle Parche di affrettare la morte di Claudio, perché avvenga lo stesso giorno. Il dio viene esaudito e mentre a Roma si fa gran festa per la notizia, l’imperatore arriva in cielo zoppicando, scuotendo la testa e pronunciando parole incomprensibili. Ercole, un po’ tonto, dopo averlo visto, pensa sia un mostro e si appresta a compiere la sua tredicesima fatica. (Lacuna nel testo). Gli dei sono a concilio per decidere della sorte di Claudio; ma si alza irato Augusto e ricorda a tutti le malefatte dell’uomo. Pertanto viene trascinato da Mercurio negli inferi e durante il tragitto vede il suo funerale, capendo infine che è morto. All’inferno ritrova moltissimi liberti e schiavi (da lui fatti ingiustamente uccidere). Quindi subisce un nuovo processo da Eaco (uomo profondamente giusto) che di fronte ad un uomo iniquo si comporterà di conseguenza: lo condannerà a giocare a dadi in un con un bossolo bucato.

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Pietro Francesco Guala: L’imperatore Claudio

L’ARRIVO DI CLAUDIO IN CIELO

Nuntiatur Iovi venisse quendam bonae staturae, bene canum; nescio quid illum minari, assidue enim caput movere; pedem dextrum trahere. Quaesisse se, cuius nationis esset: respondisse nescio quid perturbato sono et voce confusa; non intellegere se linguam eius, nec Graecum esse nec Romanum nec ullius gentis notae. Tum Iuppiter Herculem, qui totum orbem terrarum pererraverat et nosse videbatur omnes nationes, iubet ire et explorare, quorum hominum esset. Tum Hercules primo aspectu sane perturbatus est, ut qui etiam non omnia monstra timuerit. Ut vidit novi generis faciem, insolitum incessum, vocem nullius terrestris animalis sed qualis esse marinis beluis solet, raucam et implicatam, putavit sii tertium decimum laborem venisse. Diligentius intuenti visus est quasi homo.

Viene annunciato a Giove che è arrivato un tale, alto di statura, assai canuto, minaccia non so che, muove infatti continuamente la testa, trascina il piede destro. Gli era stato chiesto di che gente fosse: aveva risposto non so che cosa con suono confuso e voce perturbata; non si era capito di che lingua fosse, né se fosse greco o romano né di altra popolazione nota. A questo punto Giove comanda ad Ercole, che aveva percorso in lungo e in largo tutto il mondo e pareva che conoscesse tutte le genti, di andare ad esplorare che uomo fosse. Ercole a prima vista rimase veramente sconcertato, come uno che non tutte le mostruosità abbia ancora provato. Come vide quella figura di nuovo genere, l’andatura insolita, la voce di nessun animale terrestre, ma quale di solito hanno gli animali del mare, roca e ingarbugliata, credette che fosse arrivata la sua tredicesima fatica. Guardando poi con più attenzione gli parve in certo senso un uomo.

Il passo è posto sotto il segno del grottesco. Claudio è talmente dinoccolato e claudicante, che neppure Giove riesce a riconoscerlo, tanto da affidare tale compito a Ercole. Ma anche costui non appare al meglio delle sue facoltà mentali, se soltanto alla fine riesce a vederlo quasi come un uomo. Ad essere satireggiati quindi appare da una parte l’ex imperatore, di cui si vendica per il mancato rientro dell’esilio, facendone un ritratto impetuoso (ma la vendetta non è un sentimento antistoico?) e contraddicendo tutto ciò che di lui aveva scritto nella Consolatio ad Polybium (illo moderante terras et ostendente quanto melius beneficiis imperium custodiatur quam armis: con lui che governa il mondo e che mostra quanto sia meglio il beneficio delle le armi per custodirlo); ma anche il mondo divino di cui fa quasi un divertito circo. Il mondo per Seneca è presieduto da una ratio, come si è detto. La pletora degli dei sono fabulae inventate dai poeti per terrorizzarci, come ci ricorda nella Consolatio ad Marciam.

Tragedie

Le tragedie senecane sono dieci di cui una, l’Hercules Oetus, di dubbia attribuzione ed un’altra l’Octavia (l’unica praetexta) sicuramente posteriore. Le altre sono tutte d’argomento greco (cothurnatae) e riprendono la tragedia classica del V secolo di Eschilo, Sofocle ed Euripide e sono:

  1. Agamemnon (Agamennone): Agamennone torna da Troia con Cassandra; quest’ultima predirà la sua morte e quella del re. La moglie Clitemnestra, con l’amante Egisto ucciderà entrambi, mentre riuscirà a scappare Oreste, il figlio del re.

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Pierre Narcisse Guerin: Egisto  e Clitemnestra si preparano ad uccidere Agamennone

  1. Hercules furens (Ercole furioso): Mentre Ercole è lontano, Lico ne usurpa il trono, assediando le virtù della moglie Megara. Tornato con Teseo, Ercole uccide il rivale. Ma Giunone, per questo delitto, lo farà impazzire e proprio in preda alla follia ucciderà la moglie e i figli. Risvegliatosi dal sonno profondo in cui era caduto, per il gesto compiuto vuole suicidarsi, ma sarà impedito da Teseo e dal padre.

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Antonio Canova: Ercole furente che getta il bambino Lica

  1. Medea (Medea): Innamorata di Giàsone, Medea lo aiuta a prendre il “vello d’oro”, tradendo il padre e i suoi familiari. Ma Giàsone la tradisce e si reca a Corinto dal re Creonte per sposare Crusa. Quindi Medea prepara l’atroce vendetta: provoca con un falso mantello la morte della sposa e di suo padre. Quindi per vendicarsi del fedifrago Giàsone uccide i figli avuti con lui e fugge su un carro alato verso il sole.

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Giasone e Medea

  1. Oedipus (Edipo): La peste miete vittime a Tebe. Affinché possa cessare l’oracolo di Apollo afferma che la città si deve liberare dalla presenza di un parricida. Appare l’ombra di Laio, evocato dall’indovino che indica in suo figlio Edipo chi lo ha ucciso e ha sposato sua madre. Saputo ciò, Edipo per la disperazione, si acceca, mentre Giocasta, la madre, si uccide.

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Franco Citti: Edipo cieco (dal film “Edipo re” di Pier Paolo Pasolini)

  1. Phaedra (Fedra): Teseo è agli inferi per rapire Persefone. Fedra, sua moglie, è perdutamente innamorata di suo figliastro, Ippolito. Dopo essersi rivelata e ripudiata dal giovane, per vendetta, al ritorno del marito, lo accusa di tentata violenza. Teseo allora maledice il figlio e invoca Poseidone affinché lo uccida. Fedra, per i sensi di colpa, si suicida. 

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La morte di Ippolito

  1. Phoenissae (Le Fenicie): e’ una tragedia incompleta (una serie di scene scollegate fra loro). La vicenda segue quella già raccontata nell’Oedipus. Edipo, dopo essersi accecato, s’allontana da Tebe con la figlia Antigone che lo convince a non suicidarsi. In seguito Giocasta e Antigone riescono a scongiurare la guerra, ma non ad ottenere la pace tra i fratelli Eteocle e Polonice, anch’essi figli di Edipo.

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Carle van Loo: Edipo di fronte ai cadaveri della moglie e dei figli

  1. Thyestes (Tieste): Tantalo, trascinato da una Furia, si rivolge a suo nipote Atreo per vendicasi del fratello Tieste che gli ha sottratto il trono e la moglie. Fingendo una riconciliazione lo invita quindi nella sua dimora insieme con i nipoti. Ma li uccide ne bandisce le carni e le offre in pasto a Tieste. Ne segue la maledizione di quest’ultimo verso Atreo.

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Tieste: disegno animato di Silje Aure

  1. Troades (Troiane): I Greci per poter partire da Troia, da cui non riescono a partite, decidono di sacrificare Polissena, figlia di Priamo e Astianatte, figlio di Ettore. Mentre Ecuba, l’anziana moglie di Priamo, piange la morte della figlia sulla tomba di Achille, Astianatte viene scagliato in mare da una rupe.

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Astianatte gettato giù da una rupe

  1. Hercules Oetaeus (Ercole sul monte Eta): Ercole, dopo aver conquistato Ecalia, invia alla moglie Deianira come schiava Iole, figlia del re sconfitto. Gelosa, per riconquistarlo, invia al marito una tunica che le aveva regalato il centauro Nesso in cui credeva ci fosse un filtro d’amore, ma in realtà è intrisa di un potente veleno. Quando Ercole indossa il mantello, brucia tra incredibili tormenti e, dopo aver ordinato al figlio di sposare Iole, sale sul monte Eta e viene assunto in cielo.
  1. Octavia (Ottavia): l’unica d’ambientazione romana. Nerone ha ripudiato Ottavia per sposare Poppea. Ma il popolo, affezionato alla moglie dell’imperatore, invita Seneca a dissuaderlo, ma le nuove nozze sono già decise. Appare sulla scena quindi l’ombra di Agrippina che predice la morte violenta di Nerone. Intanto Ottavia viene relegata in un’isola e qui uccisa.

Cominciamo con il dire il perché le ultime due non sono considerate autentiche. Per la prima a destare perplessità è la lunghezza inusitata, mostra uno stile troppo prolisso, rispetto a quello senecano, e termina in modo “positivo” (l’assunzione di Ercole fra gli dei). La seconda, invece, è sicuramente di un seguace senecano ed è da datare a seguito della morte sia di Seneca che dell’imperatore: infatti pare piuttosto strano che Seneca citi se stesso come personaggio e che lo stesso possa averne intuito la morte, descritta troppo precisamente.

Come per l’Apokolokyntosis anche le tragedie senecane sono di un’importanza straordinaria per la letteratura latina perché sono le uniche pervenuteci. Il primo problema che esse offrono riguarda la datazione: nessun elemento interno ci fa capire se esse possono essere state elaborate nel quinquennio felice o in seguito all’allontanamento della corte e questo influisce sulla finalità delle stesse: infatti, se le avesse scritte prima, avrebbe avuto un fine didattico, mostrando al giovane imperatore l’emergere del furor per chi non fosse andato alla ricerca della virtus. Se viceversa appartengono al secondo periodo senecano esse mostrerebbero tutta la profonda delusione del consigliere inascoltato e delle pieghe, dopo l’uccisione di Agrippina, che stava prendendo l’impero di Nerone. Infatti quello che qui colpisce è il capovolgimento, quasi metodico, di ogni virtù descritta nelle sue opere morali. L’indugiare ossessivo, in ognuna di esse, dei peggiori vizi sono tutti legati alla mancanza della capacità dell’uomo di andare in accordo colla provvidenza razionale della natura: sono tutti “in-naturali”: omicidio, parricidio, uxoricidio, uccisione dei figli, cannibalismo, incesto. Tutto ciò che appartiene al nefas, al sacrilego dunque, viene analizzato con un innegabile gusto del “macabro” da parte dell’autore. Eppure vediamo che in tali descrizioni presenti nelle tragedie non vi è compiacimento, ma un vero e proprio approfondimento sulla psiche dei personaggi. Egli infatti, prendendo dal modello greco i miti, che tutti parevano offrirgli esempi probanti, toglie loro il deus ex machina che in qualche maniera risolveva il caso inquadrandolo in un disegno più generale. Qui nulla di tutto questo: è come se quella piccola luce che possiede l’animo umano si rivolgesse all’improvviso, all’interno del personaggio, verso il più profondo male e catastrofico destino.

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Medea prima dell’uccisione dei figli

IL FOLLE MONOLOGO DI MEDEA
(926-957)

Cor pepulit horror, membra torpescunt gelu
pectusque tremuit. Ira discessit loco
materque tota coniuge expulsa redit.
Egone ut meorum liberum ac prolis meae
fundam cruorem?
Melius, a, demens furor!
Incognitum istud facinus ac dirum nefas
a me quoque absit; quod scelus miseri luent?
scelus est Iason genitor et maius scelus
Medea mater
occidant, non sunt mei;
pereant, mei sunt. crimine et culpa carent,
sunt innocentes, fateor: et frater fuit.
Q
uid, anime, titubas? Ora quid lacrimae rigant
v
ariamque nunc huc ira, nunc illuc amor
diducit? Anceps aestus incertam rapit;
ut saeva rapidi bella cum venti gerunt,
utrimque fluctus maria discordes agunt
dubiumque fervet pelagus, haut aliter meum
cor fluctuatur: ira pietatem fugat
iramque pietas – cede pietati, dolor.
Huc, cara proles, unicum afflictae domus
solamen, huc vos ferte et infusos mihi
coniungite artus. Habeat incolumes pater,
dum et mater habeat – urguet exilium ac fuga:
iam iam meo rapientur avulsi e sinu,
flentes, gementes: osculis pereant patris,
periere matris. rursus increscit dolor
et fervet odium, repetit invitam manum
antiqua Erinys – ira, qua ducis, sequor.
Utinam superbae turba Tantalidos meo
exisset utero bisque septenos parens
natos tulissem! sterilis in poenas fui –
fratri patrique quod sat est, peperi duos.

L’orrore si insinua nel mio petto, un gelido torpore mi paralizza le membra, ed il mio cuore trema. L’ira mi ha abbandonato. La madre, scacciata la sposa, non è più che madre. Versare io il sangue dei miei figli? Il sangue del mio sangue? O pazzo furore! Via da me questo delitto, via quest’infamia, anche il pensiero, via! Per quale delitto pagheranno, loro? Il delitto è Giasone, il padre, e delitto peggiore è Medea, la madre. Muoiano, non sono miei. Muoiano, sono miei. Non hanno colpa, loro, lo confesso. Sono innocenti. Anche mio fratello era innocente. Perché esiti, anima mia? Queste lacrime, perché mi bagnano il volto? Di qua l’odio, di là l’amore, mi strappano, mi dividono, perché? Opposte correnti mi rapiscono, nella mia incertezza. Rabbiosi venti si fanno guerra spietata, flutto contro flutto si scatena, il mare ribolle e non ha sbocco: è così, proprio così, che il mio cuore è sconvolto. L’ira dà il bando alla pietà, la pietà all’ira. Rancore, cedi alla pietà. Venite qui, cari bambini miei, sola dolcezza della mia famiglia distrutta, venite qui e stringetevi a me, forte forte. Siate di vostro padre, sani e salvi, purché siate anche della madre. M’incalza l’esilio, la fuga. In un attimo, tra lacrime e grida, li strapperanno dal mio seno di proscritta… Muoiano dunque per il padre, poiché per la madre sono morti. Ecco, il rancore si fa grande, l’odio si accende. Tu la rivuoi, questa mia mano che si ribella, antica Erinni. Ti seguo, ira, dove mi conduci. La tua prole, superba Niobe, ah perché non è uscita dal mio grembo? Perché non li ho generati io due volte sette figli? Fui sterile, io, per la mia vendetta. Due soltanto ne ho partorito. Bastano per mio padre e mio fratello.

Il monologo di Medea, di cui è riportata la prima parte, avviene quando già ella ha ucciso Creonte e sua figlia Criseide. Si tratta ora di decidere se porre fine alla vita dei suoi figli. Ella, costretta all’esilio dal re, ora, più che mai, dopo il delitto, costretta alla fuga non vuole e non può lasciare i figli all’odiato e traditore amante. Si tratta di un vero e proprio urlo interiore che oscilla tra l’amore di madre e l’odio verso il marito di cui misura la felicità attraverso l’esistenza dei figli. Seneca, attraverso un discorso prevalente paratattico, ma nel contempo fitto di antitesi, riesce a darci in modo mirabile la concitazione del pensiero di Medea.

Epigrammi

La tradizione assegna a Seneca anche una serie di testi lirici sulla cui attribuzione ancora non si è giunti ad una certezza. Siano autentici o no, tale opera non aggiunge nulla, né a livello formale, né contenutistico a quanto, a livello poetico, si era già sino a quel momento, prodotto.

LA DINASTIA GIULIO-CLAUDIA

Se dovessimo dare una cronologia, diremo subito che il periodo di tale dinastia va dal 14 al 68 d.C., anni in cui avvengono le morti, rispettivamente, di Augusto e di Nerone. Ma, al contempo, se dovessimo leggerlo sotto forma politica, dovremmo sottolineare come l’ambivalenza tra il (falso) rispetto della Repubblica, la cosiddetta restitutio reipublicae dell’operato di Augusto e l’autocrazia imperiale del suo essere Princeps, verranno ben esplicitate dalle spinte ambivalenti che caratterizzano i quattro imperatori della dinastia giulio-claudia, prima della nuova catastrofe dell’annus horribilis del 69. D’altra parte non possiamo dimenticare che, prima d’addentrarci in una qualsiasi valutazione di carattere storiografico, dobbiamo tener presente della tendenziosità che sui successori augustei operarono storiografi filo-senatoriali quali Svetonio e Tacito che, con capacità diverse, ci lasciarono di quest’età una visione torbida e cupa. Nostro compito, pertanto, sarà quello di avvicinarci, per quanto possibile, alla verità storica sull’operato e più precisamente sulla politica culturale di Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone.

La successione

La figura inaugurata da Augusto, quella del princeps, non aveva avuto precedenti nella storia repubblicana e pertanto risultava assolutamente difficile, per lui, trovare un successore in grado di rivestirne il ruolo e l’autorità che tutto il popolo Romano, dalla nobilitas alla plebs, gli aveva attribuito, grazie anche alla pacificazione ottenuta dopo le sanguinose guerre civili. Morto in tarda età, venutigli meno dapprima il genero Agrippa, poi i nipoti Gaio e Lucio, da lui nati e dalla figlia Giulia, designò Tiberio, figlio della sua seconda moglie Livia con Tiberio Claudio Nerone. Ciò determinò la denominazione di dinastia Giulia (gens Iulia a cui apparteneva Augusto) e gens Claudia (gens d’origine di Tiberio).

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Tiberio (14-37)

Su Tiberio pesa il giudizio di Tacito sugli Annales, eppure egli non fu un “pessimo” imperatore, così come la storiografia successiva volle indicarci. Divenne Caesar in tarda età, a 56 anni, dopo aver mostrato grandissime capacità militari sia in Pannonia che in Germania, insieme al figlio e al fratello, rispettivamente Drudo minore e maggiore, e al nipote Germanico. Quest’ultimo, dopo aver ottenuto vittorie brillanti morì e secondo le illazioni popolari fu lo stesso Tiberio ad averlo ucciso per gelosia in Oriente, tramite il nobile Pisone, (la cosa non fu mai accertata). Quando divenne imperatore seppe proseguire, tuttavia con meno auctoritas di quella di Augusto, soprattutto per una certa ritrosia personale che lo rendeva schivo agli occhi della plebs, la politica di suo padre adottivo, riuscendo a mantenere buoni rapporti con il senato. Tutto ciò durò finché, per motivi oscuri, decise di abbandonare Roma e di ritirarsi in una splendida villa su Capri. Lasciò quindi nella capitale il suo prefetto del pretorio, Seiano, un ricco d’origine equestre, che, venuto in attrito con la nobilitas, cominciò a dare vita ad una serie di processi di lesa maestà, non nascondendo le sue mire per essere investito dallo stesso Tiberio come suo successore. Ma la volontà di non inimicarsi le vecchie famiglie aristocratiche fece accettare all’imperatore l’accusa del tradimento del suo prefetto e lo condannò a morte. Ciò non provocò alcun miglioramento: vecchio, sospettoso, lasciò in eredità un’immagine di sé assolutamente sgradevole, morendo fuori dalla città eterna nel 37 d.C.

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Caligola (37-41)

Sembra che sia stato Macrobio, dopo aver sostituto Seiano nel ruolo di prefetto del pretorio, ad imporre Caligola al senato che, in quanto figlio di Germanico, era ben visto sia dagli ambienti militari, dai senatori e soprattutto dalla plebe che aveva, verso suo padre, un vero e proprio culto. Furono infatti i soldati a soprannominarlo Caligola dalla “caliga” tipica calzatura usata dalle truppe che seguivano Germanico in Germania. Alla morte del padre tornò a Roma, e ad appena 25 anni fu nominato imperatore. Pochissime le fonti sul suo breve operato politico (non abbiamo la testimonianza di Tacito, ma solo di Svetonio), ma sembra che tutte si riferiscano alla sua “pazzia” (si dice che abbia nominato senatore il suo cavallo Incitatus): egli infatti virò verso una politica assolutistica che prevedeva l’orientalizzazione e quindi la sua “divinizzazione” e “sottomissione” di ogni altra componente statale. Ciò gli procurò molti nemici, (ad eccezione della plebe, che lo amava), tanto che solo dopo quattro anni fu ucciso.

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Claudio (41-54)

Per evitare disordini sociali i pretoriani acclamarono subito come suo successore suo zio, Claudio, saltando qualsiasi deliberazione del Senato (precedente questo che testimonia l’importanza che il ceto militare aveva assunto nell’Impero). Anche per lui le notizie e le testimonianze tramandateci furono impietose: ciò che si tendeva a mettere in rilievo erano le deformazioni fisiche (sembra le tremasse la testa e che fosse claudicante) e foniche (balbettava). Tuttavia la storiografia più recente lo assolve dalla gran parte delle critiche: era un intellettuale, dedito a studi storiografici, e grande lacuna ha rappresentato la perdita degli studi sugli Etruschi da lui svolti. Ma ancora più importanti furono i suoi successi politici: riassestò il bilancio disastrato dalle spese folli di Caligola e, in politica estera, sistemò le questioni aperte dal suo predecessore in Oriente e portò avanti la conquista della Britannia che, sotto di lui, divenne provincia. Grande importanza ebbe la riorganizzazione dello Stato, integrando ad esso molti notabili delle province. Inoltre lasciò le incombenze amministrative nelle mani di liberti che, in tal modo, assumevano maggiori responsabilità dei senatori stessi (fu infatti polemicamente ricordato come l’“imperatore dei liberti”). Tuttavia il suo regno fu pieno d’intrighi, causati soprattutto dalle donne: aveva sposato in terze nozze Messalina, che gli aveva dato il figlio Britannico. Oltremodo dissoluta, fu accusata di tramare contro il marito e messa a morte. Sposò allora Agrippina che riuscì a fargli adottare un figlio avuto da un precedente matrimonio. Quindi nel ’54 lo avvelenò per assicurare al figlio la successione al trono.

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Nerone (54-68)

Il periodo neroniano risulta essere il più favorevole per la formazione di grandi personalità letterarie, caratterizzanti proprio questa dinastia. Ciò fu probabilmente promosso dallo stesso imperatore, cultore della cultura greca, egli stesso poeta e, con scandalo di tutti, istrione. Queste qualità, d’altra parte, ci offrono anche la visione di un imperatore protagonista, che, come tale, non poteva certo essere accondiscendente verso le istituzioni ma, come il suo predecessore, assolutista. Il suo impero può essere diviso in due parti: il primo, definito quinquennio felice in cui divise le responsabilità di governo con il filosofo Seneca e il prefetto del pretorio Afranio Burro; il secondo in cui prevalse il suo aspetto dispotico che lo condusse alla fine. Infatti egli, dominato dalla madre Agrippina, salì al potere a soli diciassette anni. La stessa genitrice convinse Claudio a richiamare dal confine Seneca, mandato lì per gli intrighi della prima moglie Messalina; inoltre gli diede in moglie Ottavia, figlia di Claudio. Dopo aver ucciso quest’ultimo e portato il figlio al trono, nonostante la presenza del filosofo e del militare, lo convinse a uccidere il fratellastro Britannio, ma fu allo stesso modo uccisa per essersi opposta al divorzio con Ottavia per sposare in seconde nozze Poppea. Anno importante fu il ’64, in cui Roma venne distrutta da un rovinoso incendio. Sull’operato gli storici si dividono: il modo attraverso cui l’imperatore si adoperò in questo frangente è stato visto da una parte in modo positivo per l’abnegazione che egli dimostrò verso la plebe e la capacità di ricostruire Roma, dall’altro in modo negativo per come egli accontentò la plebe additando come capro espiatorio il cristianesimo e approfittò di tale frangente per costruirsi sul Palatino una splendida e immensa dimora, la Domus aurea. Certo è che per questo evento Nerone si ritrovò con le casse imperiali vuote e in estrema difficoltà nel dover seguitare una politica accondiscendente verso i desideri della plebe romana. Ciò comportò un forte aumento nell’imposizione fiscale delle provincie che causarono la ribellione delle popolazioni sotto la direzione di Roma. Inoltre la stessa nobilitas, costretta fino allora ad una cieca obbedienza, tentò di ribellarsi attraverso quella che storicamente viene definita la “congiura dei Pisoni”. Vennero messi a morte molti senatori ed intellettuali come lo stesso Seneca, Petronio e Lucano. Infine si sollevarono le milizie di stanza in Spagna, in Galilea e in Gallia con i loro generali; Nerone, resosi conto di esser rimasto solo, infine decise di togliersi la vita nel ’68, chiudendo così un’epoca ed una età.

La cultura

Nessuno degli imperatori appartenenti a questa dinastia non si può definire un non intellettuale: Tiberio, Caligola, Claudio, ma il vero e proprio rifiorire culturale avvenne soprattutto con Nerone, sia per la promozione culturale che egli stesso incoraggiò, sia per il fatto stesso che l’imperatore in persona non si negò il piacere di essere (e forse realmente fu) un ottimo poeta, anche se di lui non ci è pervenuto nulla.

Per chiarezza riassumeremo qui i principali “generi” attraverso cui la cultura “letteraria” si esercitò:

  • Già in età augustea l’epica mitico-storica, in un periodo non più fondativo/giustificativo del potere, non poteva trovar luogo: a mostrarlo fu l’opera di Manilio Astronomica, dove l’epica si sposa alla filosofia stoica di una realtà assolutamente trascendente e astorica. Lucano, invece con il suo Bellum civile cancella qualsiasi elemento mitico, ma non ultimo dei motivi, non lo concluse perché costretto a uccidersi da Nerone;
  • La storiografia del periodo o si struttura in semplici sintesi come quella di Valleio Patercolo oppure non ci è pervenuta soprattutto perché le opere furono vergate da senatori e quindi antimperialisti: Cremuzio Cordo ce ne offre l’esempio: la sua opera fu messa al macero e lui costretto a uccidersi;
  • La satira trovò nuova forma e struttura sul modello di quella menippea che era caratterizzata dal prosimetro: fu utilizzata sotto il periodo neroniano da Seneca con l’Apokolokýntosis di Seneca ed il Satyricon di Petronio;
  • L’oratoria perde il profondo significato che aveva alla fine della Repubblica; la non libertà politica ne fa un puro esercizio in cui si vuole mostrare il proprio essere peritus dicendi, soprattutto pubblicamente attraverso le declamationes;
  • Se non può svilupparsi una vera e propria “critica” al potere in forma diretta, come accadrà sotto Domiziano e, più in là, Adriano, la metafora sugli umili trova spazio nell’unico genere che la letteratura latina non aveva ancora sviluppato da quella greca, la fiaba: fu Fedro a farlo.