AULO PERSIO FLACCO

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Aulo Persio Flacco

Come un gran numero di autori latini, anche le notizie su questo giovane scrittore sono poche e provengono quasi tutte da Marco Valerio Probo che, sempre in età neroniana, ci lasciò una sua biografia. Da tali notizie sappiamo che nacque nel 34 d.C. a Volterra da un’importante famiglia etrusca d’origine equestre e che a dodici anni si trasferì a Roma, dove fu seguito da importanti maestri, tra i quali troviamo quel famoso Anneo Cornuto, di cui divenne un fidato amico e che gli permise di conoscere Seneca e di diventare sodale con il più o meno coetaneo Lucano. L’immagine che si tramanda di lui è quella di un ragazzo ombroso, poco sociale, integerrimo nel seguire i precetti stoici che l’amico Cornuto gli trasmetteva. Ma ci dice anche di una sua precocissima capacità intellettiva, grazie anche alla sua grande biblioteca, che gli permise di scrivere una praetexta, un libro di viaggi, una biografia di una donna che seguiva il marito nella scelta del suicidio per la libertà, ma soprattutto delle Satire. Come il suo amico Lucano anch’egli non fece in tempo a godere del successo, ma fu questa volta la natura ad opporsi al suo affermarsi quand’era in vita: lo stroncò una malattia di stomaco ad appena 28 anni. Lasciò la sua ricca biblioteca a Cornuto e nessun testo pubblicato. A scegliere, pertanto, ciò che poteva esser letto del lavoro di Persio fu l’amico Cesio Basso e Cornuto stesso, che non fecero pubblicare nulla che apparisse troppo acerbo o che potesse diventare pericoloso per i parenti del poeta. Lasciò solo che venissero rese pubbliche le satire, dopo avervi apportato “necessarie” modifiche. Il successo del libro, una volta che fu in circolazione, fu enorme ed il nome di Persio s’impose come grande poeta.

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Vecchissima edizione delle Satire pubblicata ad Amsterdam nel 1650

Satire 

Il libro delle Satire è composto da sei componenti in esametri (verso ormai canonico per tale genere) a cui si aggiunge, all’inizio o alla fine, a seconda del manoscritto pervenutoci, un breve componimento in coliambi (verso dell’invettiva) in cui rivendica il suo essere semipaganus (rustico) e di lasciare l’alta poesia ai sommi poeti o a chi s’illude di saperli imitare.

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Joos de Momper: Minerva visita le Muse nel Monte di Elicona

COLIAMBO

Nec fonte labra prolui caballino
nec in bicipiti somniasse Parnaso
memini, ut repente sic poëta prodirem.
Heliconidasque pallidam Pirenem
illis remitto, quorum imagines lambunt
hederae sequaces: ipse semipaganus
ad sacra vatum carmen adfero nostrum.
Quis expedivit psittaco suum chaere
picamque docuit verba nostra conari?
Magister artis ingenique largitor
Venter, negatas artifex sequi voces.
Quod si dolosi spes refulserit nummi,
corvos poëtas et poëtridas picas
cantare credas Pegaseium nectar.

Non ho bagnato le labbra sulla fonte del cavallino / né ricordo di aver sognato sulla duplice cima del Parnaso, / per diventare così immediatamente un poeta. / Le Muse abitatrici dell’Elicona e la pallida Pirene / lascio a quelli le cui immagini ricoprono / l’edere rampicanti: io stesso semirustico / porto il nostro canto ai sacri riti dei vati. / Chi ha suggerito al pappagallo il suo “Salve!” / e ha insegnato alla gazza a ripetere le nostre parole? / Maestro delle arti e donatore d’ingegno, / il ventre, artefice nell’imitare le voci negate (dalla natura). / Ma se risplenderà la speranza dell’ingannatore denaro, / tu crederai che i corvi poeti / e le gazze poetesse cantino il nettare di Pegaso.

Per la natura di questi versi, ci piace immaginare che questi 14 coliambi fossero più introduttivi che finali. Infatti qui il poeta si scaglia contro la poesia dei suoi tempi, ritenuta ampollosa e vuota e afferma con forza il fatto di non essersi imbevuto nelle fonti care alle Muse. Ma cominciamo, attraverso lo stile, a capire come egli intenda attaccare i “vizi” dei suoi contemporanei, con acrimonia, piuttosto che “simpatica ironia” com’era in Orazio. Si veda a tal proposito l’insistenza con cui paragona gli animali il cui suono risulta o ripetitivo o estremamente rauco (pappagalli, gazze, corvi). Capiamo già da questa piccola introduzione, come in Persio non ci sia condivisione e sorriso tra amici, ma la voce arcigna e un po’ pedante di un maestro che, infarcito di sapienza stoica, riprende e irride ai poeti suoi contemporanei.

Quindi inizia il vero e proprio testo con la prima satira, in cui si scaglia contro la mediocrità della poesia contemporanea che non sa mordere, fustigare, come dovrebbe, i vizi della gente di Roma.

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Maschera di un satiro

LA SATIRA NON VA DI MODA
(I, vv. 1-12)

O curas hominum! O quantum est in rebus inane!
“Quis leget haec?” min tu istud ais? Nemo hercule.
Vel duo vel nemo. “Turpe et miserabile!” quare?
Ne mihi Polydamas et Troiades Labeonem
praetulerint? Nugae! Non, si quid turbida Roma
elevet, accedas examenve inprobum in illa
castiges trutina nec te quaesiveris extra.
Nam Romae quis non – a, si fas dicere – sed fas
tum cum ad canitiem et nostrum istud vivere triste
aspexi ac nucibus facimus quaecumque relictis,
cum sapimus patruos, tunc tunc ignoscite… nolo…
quid faciam? Sed sum petulanti splene: cachinno.

O cure degli uomini! O quanto vuoto c’è nelle cose! / “Chi leggerà queste cose?” Tu dici questo a me? Nessuno, per Ercole. / O due o nessuno. “Vergognoso e miserabile” Perché? / Che le Polidemanti e le Troiane preferiscano a me Labeone? / Sciocchezze! Non, se la torbida Roma (ti) screditi / qualcosa, non avvicinarti né correggi lo storto ago / in quella bilancia né cerca te fuori (di te). / Infatti a Roma chi non – ah, se fosse lecito parlare – ma è lecito… / Allora quando ho rivolto lo sguardo alla canizie / e a quel nostro vivere triste e, lasciato il gioco con le noci / facciamo qualcosa, quando abbiamo l’aria di zii, / allora allora vogliatemi scusare… non voglio… / che farò? Ma sono con la milza indolente: rido smoderatamente.

L’inizio della I satira si struttura con un dialogo tra il poeta e un personaggio fittizio, a cui il nostro rivendica la sua libertà di poter ridere, appunto smoderatamente, contro le storture della società. Ed è qui che, tuttavia si segna la differenza con quelli che, sempre nella stessa satira, definisce i suoi maestri:

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Gli strumenti per scrivere nell’antichità

I MODELLI: LUCILIO ED ORAZIO
(I, vv. 114-123)

(…) Secuit Lucilius urbem,
te Lupe, te Muci, et genuinum fregit in illis;
omne vafer vitium ridenti Flaccus amico
tangit et admissus circum praecordia ludit
callidus excusso populum suspendere naso;
me muttire nefas? nec clam? nec cum scrobe? nusquam?
hic tamen infodiam. Vidi, vidi ipse, libelle:
auriculas asini quis non habet? (…)

(…) Lucilio fustigò a sangue la città, / colpì te, o Lupo, te o Mucio, fino a ficcare in loro un dente; / Flacco punge scaltro ogni vizio all’amico, facendolo ridere / e ammesso nel suo cuore, gioca / furbo e appende il popolo sul (suo) naso pulito. / Ed io è necessario che zittisca? Neppure di nascosto? Neanche in una buca? Sempre? / Allora lo sotterrerò. Lo visto, io stesso lo visto, il mio libretto: / chi non ha le orecchie d’asino?

E’ palese qui il richiamo verso i suoi predecessori: l’inventore del genere, Lucilio, e colui che portò lo stesso all’apogeo, facendolo diventare un classico, Orazio Flacco. Infatti qui appaiono i veri temi dei due verso cui egli si rivolge: la mordacità di Lucilio e alcuni modelli strutturali e stilistici di Orazio. Ma, bisogna pur notare come egli, molto più dei suoi predecessori, sia infarcito di filosofia stoica che lo porta verso un rigorismo moralistico che appartiene solo a lui. Attenzione all’ultimo verso: sembra che il testo “originale” di Persio recitasse auriculas asini Mida rex non habet? Ma l’illusione troppo diretta a Nerone nella figura di re Mida sconsigliò l’editore a pubblicarla e fu così emendata.

Nella II satira, scritta sotto forma di epistola, il nostro attacca coloro che pregano gli dei in modo interessato. Infatti non viene ascoltato chi prega davanti a una culla affinché il fanciullo diventi ricco e potente, al contrario di chi si pone di fronte al dio in modo puro e sincero. Si veda, in questi pochi versi, come prenda in giro la richiesta a gran voce della salute e preghi disgrazie per averne vantaggi:

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Mosaico pompeiano raffigurante la Morte

PREGHIERA
(II, 8-14)

“Mens bona, fama, fides”, haec clare et ut adiat hospes;
illa sibi introrsum et sub lingua murmurat: “O si
ebulliat patruus, praeclarum funus!” et “O si
sub rastro crepet argenti mihi seria dextro
Hercule; pupillumve utinam, quem proximus heres
inpello, expungam: nam et est scabiosus et acri
bile timet; Nerio iam tertia conditur uxor”.

“Mente sana, fama, credito”: ben chiaro e che si senta; / ma dentro di sé e tra i denti mormora: “ Oh, se morisse lo zio, che splendido funerale!” e “Oh, se / sotto la zappa risuonasse un forziere d’argento, con il favore / di Ercole; o potessi cancellare il mio pupillo, che incalzo / come prossimo erede: infatti è pieno di scabbia ed è gonfio / di bile nera; a Nerio è già morta la terza moglie”.

Famosa la terza satira perché sembra abbia ispirato l’attacco di Parini al “giovin signore”: infatti anche qui si prende di mira un indolente che conduce vita dissipata per indurlo a intraprendere il cammino della retta via, attraverso la virtù stoica.

CONSIGLI STOICI
(III, 66-72)

Discite, o miseri, causas cognoscite rerum:
quid sumus et quidnam victuri gignimur, ordo
quis datus, aut metae qua mollis flexus et unde,
quis modus argento, quid fas optare, quid asper
utile nummus habet, patriae carisque propinquis
quantum elargiri deceat, quem te deus esse
iussit et humana qua parte locatus es in re.

Imparate, o dissennati, a conoscere le ragioni delle cose; / ciò che siamo, per quale vita nasciamo, il luogo / assegnato, come e da dove aggirare lievemente la méta, / la misura delle ricchezze, ciò cui è lecito aspirare, l’utilità / della ruvida moneta serbata, quanto convenga donare / alla patria e ai cari congiunti, chi volle dio che tu fossi, / e quale il ruolo a te assegnato nella condizione umana.

E’ questa la dimostrazione di come qui il giovane Persio stia lontano dal sorriso indulgente oraziano e, perché no?, dal suo modo di proporsi, che fa dire allo stesso d’esser parte del gregge epicureo, contro la virtus stoica che qui si erge ad insegnare il modus vivendi del saggio. Possiamo anche notare come, pur con tutte le notazioni senecane e, quindi, del suo amico Cornuto, egli non riesca a condividerle, a sorridere insegnando, ma ad impartire una lezione morale verso chi, ingiustamente, si gode la vita.

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Nosce te ipsum in greco

Nella IV satira egli sottolinea l’importanza del “nosce te ipsum” conosci te stesso, per chi voglia interessarsi di politica e impartire, così, direttive etiche per gli altri (direttive molto simili a quelle poste al “giovin signore”).

Altro tenore hanno le ultime due Satire: la V rivolta a Cornuto, svolge il tema della libertà stoica, contrapponendola ai vizi umani; la VI, invece, dedicata a Cesio Basso, deplora il vizio dell’avarizia mostrando l’uso giusto dei beni posseduti.

Già in questi ultimi esempi possiamo dire come, all’interno della Satira di Persio, si segni una leggera evoluzione. Partito con un forte spirito polemico, che lo avvicina più alla diatriba che allo stoicismo senecano, egli pare guidato dall’ira, dall’incapacità di credere che ci fosse qualcuno incapace di rispettare la virtus, come se ciò fosse naturale e quindi per lui incomprensibile, in quanto “proprio” contro natura. Ma è proprio nelle ultime satire che invece non si pone più come colui che, raggiunta la saggezza può porsi al di sopra degli altri ma, posto allo stesso livello dei suoi maestri/amici Cornuto e Cesio Basso, possa egli stesso mettersi alla ricerca della libertà stoica.

Stile

E’ evidente che tale carica critica e moralista ad un tempo, così come s’allontana dal sorriso oraziano, s’allontana dallo stile del maestro di Venosa: Orazio, infatti, critica in Lucilio proprio lo stile “fangoso”, per così dire non fluido, spezzettato, e ricerca invece l’eleganza, l’armonia, avvenga pur essa con la mirabile mescolanza tra sermo cotidianus e sermo elegans. Egli utilizza infatti la callida iunctura, cioè l’ardito accostamento delle parole, dando ad esse un nuovo significato, lasciando, così, sorpreso il lettore. Persio, invece, insegue la acris iunctura, cioè il difficile ed aspro accostamento di parole, affinché il lettore non sia più soltanto sorpreso, ma, anche e soprattutto sferzato da esse e costretto, pertanto, a trarne un insegnamento morale. Per questo il suo stile riesce spesso “difficile”; è d’altra parte volontaristico il fatto che Persio oggettivizzi il suo moralismo nello stile: ad una realtà caotica, che ha perduto i valori e non sa seguire la virtus, segue uno stile altrettanto “irato” che, per questo, non può essere certo ironico.

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