GIUSEPPE UNGARETTI

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Giuseppe Ungaretti

Con la personalità del poeta Ungaretti, ci muoviamo ancora una volta con la figura di un intellettuale la cui formazione avviene ai margini, fuori dai centri culturali italiani che sembravano essere punti crocevia per il passaggio di idee e di nuova cultura, come Roma, Milano o Firenze (capitali allora di un vivace dibattito all’interno delle riviste come La Voce o Lacerba).

Giuseppe Ungaretti nasce, infatti, ad Alessandria d’Egitto da genitori di origine lucchese: il padre, operaio per lo scavo di Suez, muore giovane, lasciando il bimbo Giuseppe, di soli due anni, alle cure del fratello maggiore, Costantino, e della madre, donna energica e dalla forte religiosità, che deve gestire un forno alla periferia della città, per mantenere i figli.

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Alessandria d’Egitto in una rara foto di fine ‘800

Con il lavoro, la signora Ungaretti riesce a mandare Giuseppe nella prestigiosa École Suisse Jacot, una delle più prestigiose all’interno della città africana, dove, oltre a fare delle amicizie importantissime, tra le quali quella di Moammed Sceab, il giovane Ungaretti respira un clima multiculturale, fatto di fuoriusciti e intellettuali arabi ed europei (soprattutto francofoni). Innamoratosi della letteratura, s’immerse, in questi anni di formazione, in letture poetiche che spaziavano da Dante e Leopardi a Baudelaire e Mallarmé.

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Ungaretti ad Alessandria

Uscito dalla scuola cominciò a frequentare circoli letterari in bar della città, dove entrò in contatto con il poeta greco Konstantinos Kavafis e l’italiano Enrico Rea, che lo avvicina agli ideali anarchici e socialisti.

Quando la madre cede il forno, lascia una parte del ricavato a Giuseppe, al quale, però, non frutta alcun bene, a causa d’investimenti sbagliati. Scoraggiato da questa esperienza e desideroso di conoscere la capitale della cultura europea si sposta, nel 1912, con Moammed a Parigi; qui incontra fra gli altri Marinetti e Palazzeschi, grazie ai quali comincerà a collaborare, con scritti poetici, alle riviste italiane. L’anno successivo il suo amico si suicida: tale è il dispiacere per il poeta che gli dedica una delle sue poesie più toccanti.

Nel 1914 si trasferisce quindi a Milano e l’anno successivo aderisce al partito degli interventisti. Allo scoppio della guerra si arruola volontario e viene mandato nel Carso. Qui scrive le poesie de Il porto sepolto, pubblicate da un ufficiale suo amico, Ettore Serra in soli ottanta esemplari (confluiranno, in seguito, nella maggiore raccolta, Allegria dei naufragi).

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Ettore Serra

Finito il conflitto torna a Parigi, da qui collabora, come corrispondente dall’estero, al Popolo d’Italia. Conosce Jeanne Dupoix, che sposerà nel 1920 e dal cui matrimonio nascerà Ninon e Antonietto. Tornato in Italia, dopo aver aderito al Fascismo, lasciando la sua attività di giornalista, accetterà un modesto impiego nel ministero degli Affari Esteri.

Del 1926 sono una serie di conferenze che lo porteranno in giro per L’Europa, ma è a Roma che Ungaretti troverà maggiori spunti intellettuali e da cui nascerà l’esperienza di Sentimento del tempo. Comincia a maturare in lui una spiritualità intensa che la città barocca eccita e lo sprona ad una nuova riflessione sulla vita.

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La città di São Paulo intorno agli ’30

Nel 1936, in America latina, accetta l’incarico d’insegnare Letteratura italiana all’Università di San Paolo, dove si trasferirà, con l’intera famiglia, fino al 1942. Tale periodo fu funestato, però, dalla morte di Costantino, fratello maggiore, ma soprattutto da quella del figlio Antonietto (1939).

Nel 1942 viene nominato Accademico d’Italia e riceve l’incarico di docente di Letteratura italiana all’Università di Roma (incarico che terrà per circa un decennio). Ed è proprio da quest’anno che comincerà a raccogliere l’intero corpus poetico nel volume Vita d’un uomo e a scrivere nuove raccolte poetiche come Il dolore (1947) e La terra promessa (1950), accompagnate da opere di traduzione. Ed è sempre nella città eterna che perderà la cara moglie in un’assolata giornata romana (1958).

Intorno agli anni ’60 Ungaretti è ormai considerato come uno dei più grandi intellettuali del Novecento: riceve varie lauree honoris causa, interviene spesso con letture in televisione.

Nel 1970 trascorre l’ottantaduesimo compleanno in compagnia di pochi amici (gli intellettuali più in voga in quegli anni, come il pittore Renato Guttuso e lo scrittore Goffredo Parise). Parte quindi per gli Stati Uniti, per ricevere un premio internazionale, ma al ritorno, sfibrato dalla stanchezza, muore a Milano dello stesso anno.

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Tomba di Ungaretti e della moglie

L’itinerario poetico di Ungaretti possiamo distinguerlo in tre momenti:

  • Il primo periodo coincide con l’avvento della guerra e comprende le raccolte delle poesie Il porto sepolto (1916) e Allegria dei naufragi (1919);
  • Il secondo periodo ha inizio con il trasferimento a Roma (1921) e corrisponde all’itinerario poetico di Sentimento del tempo (1933);
  • Il terzo periodo è situato nel dopoguerra ed è compreso tra Il dolore (1947), La terra promessa (1950) e Taccuino del vecchio (1960).

Primo periodo

Ungaretti si avvicina alla poesia da un luogo appartato, sebbene stimolante e dopo la temperie futurista. Sembra che con lui si sia chiusa definitivamente l’esperienza poetica che lo ha preceduto: infatti se dovessimo analizzare le ultime esperienze diremmo forse che sia gli stessi marinettiani quanto i crepuscolari scrivono programmaticamente poesie “contro”, non ancora poesie “per” disegnare, attraversandola come farà Montale o utilizzandola in modo personale, come farà Ungaretti la poesia precedente.

Giuseppe Ungaretti, infatti, con le prime esperienze poetiche, supera di colpo tutti quegli elementi dannunziani che ancora erano presenti in poeti come Gozzano e se ciò è dovuto alla lateralità della sua formazione, ripetiamo Alessandria d’Egitto e Parigi che gli ha permesso un perfetto bilinguismo, spiega ulteriormente come sia pronto con voce nuova ed autentica a raccontarci la grande emozione di dolore e di amore insieme che la guerra gli aveva permesso..

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Una delle prime edizioni de Il porto sepolto

L’allegria
Sembra che Ungaretti non si contentasse mai dei versi scritti e li rimaneggiasse in un continui lavorio di sottrazione verbale estenuante alla ricerca della purezza della lirica e della parola in essa contenuta. Un esempio è quello di Porto sepolto del ’16, composto da 32 liriche; scrive poi nel ’19 Allegria dei naufragi, in cui confluiscono le poesie scritte per la rivista Lacerba e quelle scritte in francese, dopo essere state completamente rimaneggiate. I due libretti, sempre dopo un attento lavorio, saranno raccolte nell’edizione del ’31 con il titolo definitivo de L’allegria:

IN MEMORIA

Locvizza il 30 settembre 1916.
 
Si chiamava
Moammed Sceab
 
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
 
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
 
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
 
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
 
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre in una giornata
di una
decomposta fiera
 
E forse io solo
so ancora
che visse

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Le sordide catapecchie di Rue de Carmes, dove Ungaretti condivideva la stanza con Moammed Sceab

La prima cosa che appare nel testo, prima che esso diventi poesia, è la precisazione che indica il luogo e la data in cui la scrisse. E’ una poesia in memoria, mentre sta in guerra, dove più forte è la sensazione di sradicamento e quindi ancora è intensa l’esigenza di ricercare, in un luogo di dolore, il proprio io fatte di esperienze, amicizia e amore. Ma ci dice anche come per Ungaretti la poesia sia un diario in cui segnare, nel momento in cui nascono, le impressioni che l’io poetico sente o riceve dall’esterno.

Si situa, cioè in questo testo, quel rapporto vita/poesia che è fondamentale per Ungaretti: la poesia non può nascere svincolata dal sentimento dell’esistere che ognuno prova, non può essere esercizio intellettuale, privo di riferimento al reale, ma deve partire dall’interiorità, la sola che può esprimere con verità, e per questo nuda nell’essenza verbale, la purezza della parola.

Si osservi come egli isoli, all’interno del testo, le parole forti, in maggioranza, svincolate da rapporti sintattici, poste in modo che l’occhio si fermi su di esse, nella loro solitudine. Ancora l’uso attento dei tempi verbali. Passato ed imperfetto ad indicare un’azione richiamata alla memoria, ma morta (si chiamava, amò, fu…).

In Moammed lo sradicamento, lo stesso di Giuseppe, è senza soluzione. Può cambiare nome, ma al deserto rassicurante africano, con la nenia del Corano e l’odore di caffè, non si sostituisce il deserto fatto d’aridità si sentimenti umani della città. Ma l’amico arabo di Ungaretti si è suicidato perché non aveva più Patria e soprattutto perché, come invece avviene a Giuseppe non riesce a cogliere il momento di catarsi che la poesia può offrirgli (E non sapeva / sciogliere / il canto / del suo abbandono).

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Autografo del testo

IL PORTO SEPOLTO

Mariano il 29 giugno 1916

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
 
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto

Verso i sedici, diciassette anni, forse più tardi, ho conosciuto due giovani ingegneri francesi, i fratelli Thuile, Jean e Henri Thuile. (…) Mi parlavano d’un porto, d’un porto sommerso, che doveva precedere l’epoca tolemaica, provando che Alessandria era un porto già prima d’Alessandro, che già prima d’Alessandro era una città. (…) Non se ne sa nulla, non ne rimane altro segno che quel porto custodito in fondo al mare, unico documento tramandatoci d’ogni era d’Alessandria. Il titolo del mio primo libro deriva da quel porto, il Porto sepolto.”

Così ci racconta lo stesso Ungaretti in Vita d’un uomo. Il porto sepolto diventa quindi, per il poeta, simbolo della sua ricerca, della meta della sua poesia; dice Carlo Ossola (critico letterario e professore all’università di Parigi): “il porto sepolto è il luogo delle profondità affioranti e perdute, segno e abisso, ricettacolo incontaminato di ricordi d’infanzia e civiltà favolose, approdo dopo tappe e rasure di deserto, un coagulo mitico che contiene in nuce i simboli e le matrici figurali dell’intero percorso ungarettiano”. Egli è il poeta che laggiù disceso, nei recessi più inesplorati di esso, riemerge per rivelare a tutti il mistero (del vivere) e porgerlo a tutti.

Ma la grande poesia ungarettiana de Il porto sepolto è soprattutto nella straordinaria sezione dedicata alla guerra, dove sono contenute, forse le sue liriche più famose:

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Pagina di Julian Peters

VEGLIA

Cima Quattro il 23 dicembre 1915

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
 
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
 

Dalla data posta all’inizio della poesia, veniamo a sapere che Ungaretti è appena arrivato al fronte e l’immagine che fa quasi da introduzione alle poesie dedicate alla guerra si apre, sin da subito, con un’immagine raccapricciante: un soldato morto, disegnato in una lunga strofe, senza soluzione di continuità e con un linguaggio quasi espressionistico, dove il suono aspro è denotato non solo dal martellare dei participi passati, ma anche capace di allontanare ogni illusione consolatoria (massacrato, digrignata, penetrata). Ed è proprio a fianco all’estremità del ribrezzo della morte, che lui si trova nella condizione di sentire verso l’esistenza l’amore pieno, estremo.

La pausa non è casuale: è lo stacco necessario in cui il poeta, come respirasse profondamente a dire la “verità” che la morte di un compagno gli suggerisce. Non è egoismo, ma è la piena consapevolezza che soltanto conoscendo la morte si arriva ad amare la vita.
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Soldati nel dolore

FRATELLI

Mariano il 15 luglio 1916
 
Di che reggimento siete
fratelli?
 
Parola tremante
nella notte
 
Foglia appena nata 
 
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
 
Fratelli

L’inizio della poesia è realistico: due drappelli di soldati s’incontrano durante la notte: non possono che essere dello stesso esercito, essendo la situazione colta durante una pausa, probabilmente vicino ad una trincea. Una domanda ed una conferma: l’insistere della vocale labiale f (fratelli, foglia, fragilità) quasi a sottolineare il sussurro con cui la parola viene pronunciata.

Il sentire la parola richiama fortemente nell’animo del poeta il concetto di solidarietà, determinata questa dalla fragilità dell’uomo stesso: i tre termini non sono riportati perché allitterati sembrano evocare un parlar piano perché nel climax ascendente sembra posarsi il pensiero poetico; il termine fratelli evoca l’uguaglianza nel pericolo e nel dolore, il termine foglia richiama appunta la sua fragilità, tanto più nuda in quanto esposta alla morte.

Ed è per questo che il soldato Ungaretti vorrebbe abbracciarli e lo fa costruendo il testo in modo circolare: l’ultima strofa composta dal trisillabo fratelli richiama la prima, in cui tale parola interrogativa cercava una risposta, che trova nella condivisione di un uguale destino.

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Ungaretti in trincea

SONO UNA CREATURA

Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916
 
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
 
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
 
La morte
si sconta
vivendo

La poesia è costruita su una comparazione, in cui il poeta anticipa il secondo termine di paragone, in cui viene descritta l’aridità del paesaggio.

Si trova nel Carso, dove le rocce hanno interiorizzato l’acqua, che è penetrata in loro, rendendole prosciugate, refrattarie, dunque ostili, appunto disaminate senza anima. Il suo pianto è come queste pietre (si ristabilisce così la similitudine), ma, ancora più drammaticamente, ci dice che l’abitudine al dolore è talmente interiorizzata che non riesce più ad esprimersi.

Non c’è in tale testo il contrappasso della vita, anch’essa si è inaridita in un dolore continuo che l’ha resa fredda e dura. La disperazione di un pianto che non vuole uscire sembra riflettersi in una sordità che non trova parole altre a cercare la vita: da qui l’allitterazione che troviamo quasi disperante nella ripetizione di quel così…

Ma il vero significato è nel titolo: sono una creatura. E’ un titolo (non sono mai casuali i titoli in Ungaretti e fanno sempre parte della lirica) che dichiara al mondo la sua più estrema protesta: sono una creatura, ed ho come tale il diritto di piangere.

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San Martino nel 1916

SAN MARTINO DEL CARSO

Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916
 
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
 
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
 
Ma nel cuore
nessuna croce manca
 
È il mio cuore
il paese più straziato

Anche qui una poesia desolata, dove l’immagine iniziale rimanda ad un qualcosa di scarno, lacerato: tale impressione è determinata dall’applicare la parola brandello a una casa. Se pensiamo che a tale vocabolo associamo qualcosa di strappato, come la stoffa o, per essere più violenti, la carne, ecco che rivolgerlo ad un muro rimanda all’idea di una lacerazione che oltre ad essere reale, visiva è anche psicologica.

Tale risvolto lo troviamo nella seconda strofa, della stessa lunghezza della prima. Alla distruzione delle case risponde il deserto della vita: ciò è reso, a livello fonico dalla ripresa dello stesso sintagma composto da una preposizione nella prima e da un avverbio nella seconda più la parola tanti; di tanti ad indicare abbondanza, neppure tanto ad indicare assenza.

Il ma oppositivo, oltre ad una constatazione, la ribellione della vita, nel ricordo, contro la cancellazione definitiva. Per questo il cuore del poeta non è un luogo dove le rovine denotano il paesaggio, ma è un paese straziato dal dolore perché le persone che ha amato non ci sono più.

Supera, se così si può dire, la contingenza bellica, seppure da essa trae origine una delle più importanti dell’intero percorso ungarettiano:
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 L’Isonzo a valle di Caporetto

  
I FIUMI
 
Cotici il 16 agosto 1916
 
Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna
 
Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposato
 
L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso
 
Ho tirato su
le mie quattro ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull’acqua
 
Mi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere
il sole
 
Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo
 
Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia

Ma quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara
Felicità
 
Ho ripassato
le epoche
della mia vita
 
Questi sono
i miei fiumi
 
Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre.
 
Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle distese pianure
 
Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto
 
Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo
 
Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre.

Qui il poeta, in un momento di pausa dall’azione bellica (che non viene censurata e la spia ce la offre il participio mutilato), si sdraia in una dolina (cavità del terreno) a sentire il languore (una sensazione malinconica, d’abbandono), come quando termina uno spettacolo circense (metafora della vita). Tale situazione, con l’ultima immagine fortemente evocativa, fa percepire al poeta il senso dell’universalità dell’esistere.

Il poeta si bagna nell’Isonzo: è circondato dall’acqua, lavato e purificato. Tale sensazione che il poeta prova è determinata da una ricerca non casuale di termini che rimandano al sacro: urna d’acqua (acqua come liquido amniotico, ma anche mezzo battesimale), reliquia ad indicare qualcosa di sacrale che si offre al Dio creatore della vita. Non è un caso che tali immagini richiamanti la religiosità di Cristo (Dio fatto uomo), contrastino con la presenza bellica della morte.

L’Isonzo è il fiume delle azioni belliche. Il poeta vi si immerge ed è come pietra, un minerale: ma il sasso è posto nel fondo è viene purificato dallo scorrere dell’acqua, che diventa metafora della discesa verso le fonti della vita.

Dopo la purificazione la resurrezione: il poeta tira su le sue quattro ossa (minerale, come la pietra) e cammina sull’acqua, tenendosi in bilico, come un acrobata di un circo. E’ evidente che ci troviamo di fronte a due metafore: la instabilità della vita e la religiosa. Novello Cristo Ungaretti sente su di sé il peso della difficoltà del vivere, soprattutto in una situazione bellica.

Quindi spogliatosi “dai sudici panni di guerra”, si china, come a raccogliere se stesso nel lontano tempo africano, come un nomade in preghiera a ricevere il Sole.

Da lui che è vita rifluiscono tutti gli attimi che lo hanno condotto fino a questo estremo limite difficile da superare (ritorna il binomio vita / morte, laddove qui il primo viene rafforzato dal concetto di ricordo).

Si parte dal presente, dal riconoscersi uomo: tale presa di consapevolezza fa percepire al poeta il suo essere parte di un tutto, e il dramma nasce quando questa piccola particella che è il suo io non si trova in armonia, appunto con il tutto da cui è circondato.

Ma non ora in cui l’acqua, personificata in mani che lo imbevono della loro stessa essenza lo fanno in pace con te stesso e gli permettono di far fluire in lui tutta la sua vita, ad iniziare da quella passata: si inizia dal Serchio, vicino Lucca da cui hanno origine i suoi genitori di tradizione contadina, e poi il Nilo che lo fatto nascere, lo ha visto crescere e gli ha offerto, durante l’adolescenza e la giovinezza di formarsi, d’acquisire la consapevolezza dell’esistere e di trovare se stesso, ma regalandogli anche quel senso d’illimitata libertà, metaforizzata nell’immensità del deserto. Quindi Parigi dove è diventato uomo, nella torbidezza del percepire il prendere coscienza, in una grande città dove la vita si presenta nel legame indissolubile d’amore e dolore (ricordiamo, qui, l’esperienza intellettuale, ma anche umana, con la perdita del suo migliore amico).

Tutti questi fiumi si contano ora in questo, l’Isonzo, dove il poeta, sdraiato nella notte, si lascia andare nella fluidità dell’esistere, la racchiude tra una corolla di petali che sta per aprirsi, e la offre alla notte, la dove si cela il suo mistero.

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Maurizio Frisinghelli: M’illumino d’immenso (mosaico e ceramica)

MATTINA

Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917
 
M’illumino
d’immenso
 

Dall’ampiezza del ricordo che ritrova, nel fluire del pensiero, il suo essere parte di un tutto, alla estrema brevità in cui tale concetto trova l’assolutezza dell’espressione. Due parole precedute da due monosillabi apostrofati, affinchè l’emissione di voce non si spezzi indicano il momento estremo in cui la comunione con il tutto non viene descritta, ma illuminata.

Lo fa attraverso l’integrazione del titolo all’interno dei due versi; il parallelismo dei due ternari in sequenza (il primo è sdrucciolo), e il richiamo fonico con l’allitterazione consonantica tra m e n e vocalica tra i e o.

Sentimento del tempo

La seconda stagione della poesia ungarettiana è rappresentata dalla raccolta Sentimento del tempo in cui vengono inserite tutte le liriche del poeta scritte dal 1919 al 1933.

Se nella struttura vuole richiamare la precedente opera Allegria, anch’essa divisa in sette sezioni, a livello tematico e strutturali notiamo delle importanti differenze:

  • A dominare il testo poetico è il concetto del tempo, quasi a sottolineare, nel nuovo canto, la differenza tra ciò che è eterno e ciò che è morituro;
  • La scoperta della Roma barocca, letta tuttavia nel pieno del periodo estivo: grazie anche a traduzioni della grande lirica spagnola del ’600, Ungaretti legge il barocco come un’esplosione, i cui frammenti dispersi, nel momento in cui si ritrovano, danno vita a qualcosa d’estremamente nuovo, forse più autentico;
  • La necessità di ritornare a un canto più regolare, anche nel tessuto sintattico: la parola s’accompagna in modo più disteso ad un dettato maggiormente articolato;
  • L’uso più insistito dell’analogia rispetto alla similitudine, che fanno di queste liriche, a volte, dei veri e propri testi dalla difficile interpretazione (aprirà forse alla stagione dell’Ermetismo);
  • La riscoperta del verso classico

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Un’immagine di Ungaretti con la pipa

ISOLA

A una proda ove sera era perenne
di anziane selve assorte, scese,
e s’inoltrò
e lo richiamò rumore di penne
ch’erasi sciolto dallo stridulo
batticuore dell’acqua torrida,
e una larva (languiva
e rifioriva) vide;
ritornato a salire vide
ch’era una ninfa e dormiva
ritta abbracciata a un olmo.
 
In sé da simulacro a fiamma vera
errando, giunse a un prato ove
l’ombra negli occhi s’addensava
delle vergini come
sera appiè degli ulivi;
distillavano i rami
una pioggia pigra di dardi,
qua pecore s’erano appisolate
sotto il liscio tepore,
altre brucavano
la coltre luminosa;
le mani del pastore erano un vetro
levigato da fioca febbre.

Questa poesia è stata composta nel 1925. In essa, come appare evidente, il poeta abbandona lo stile franto ed essenziale che aveva caratterizzato l’Allegria per dar vita ad una forma classica e barocca il cui significato rimane, ai più, di difficile interpretazione.

L’incipit crea un atmosfera misteriosa, lo spazio in cui si muove il protagonista, che non è definito, è senza nome, è  indefinito. Il tempo verbale dominante è il passato remoto, attraverso cui il poeta crea un effetto di sospensione mitica.

Il testo, d’altra parte, nella prima parte ci dice poco: un uomo approda sull’isola e si inoltra nel buio della vegetazione; è angosciato dal rumore di un uccello che spicca il volo; subito dopo si imbatte in una ninfa che dorme abbracciata ad un albero. La visione sembra poi chiarirsi: il protagonista giunge in un prato che ospita fanciulle addormentate, delle pecore e un enigmatico pastore.

Lo stile e analogico e le immagine polisemiche sembrano susseguirsi senza nesso logico: la ripresa sembra sia quella del locus amoenus (ninfe, uccelli, pastore) ma tutto rivissuto attraverso la lezione simbolista dei francesi, Mallarmé e Valery soprattutto.

E’ lo stesso Ungaretti che ci spiega il perché del ritorno a forme tradizionale (la ripresa dei verso endecasillabo e del novenario, in questo testo): Le mie preoccupazioni in quei primi anni del dopoguerra […] erano tutte tese a ritrovare un ordine e ciò non è distante dalla esigenza espressa dalla rivista La Ronda che proprio in quegli anni auspicava un ritorno all’ordine (e quindi alla chiarezza classica).

Tuttavia qualche linea di continuità c’è dietro l’apparenyte differenza tra i due tempi ungarettiani: la ricerca di una poesia pura e assoluta, basata sull’enfatizzazione delle pause e sul peso della parola isolata tipici de “L’Allegria” (come ci dice il critico Mengaldo).

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Gabriella Scarciglia: Di luglio (pittura ispirata alla poesia di Ungaretti)

DI LUGLIO

Quando su ci si butta lei,
si fa d’un triste colore di rosa
il bel fogliame.
 
Strugge forre, beve fiumi,
macina scogli, splende,
è furia che s’ostina, è l’implacabile,
sparge spazio, acceca mete,
è l’estate e nei secoli
con i suoi occhi calcinanti
va della terra spogliando lo scheletro.

1931: Ungaretti è a Roma, d’estate, nella canicola di un giorno di luglio. Lei, l’estate diventa furia distruttrice. Ed è lei col suo calore (con l’ellissi del soggetto, nella seconda strofa) distrugge, dissecca, arde impietosamente, aumenta la sensazione dello spazio, non fa vedere, non mostra il fine ultimo. L’estate creando crepe nel terreno, lo rende nudo, come uno scheletro.

Vi è nel testo come una forma d’ambivalenza, che va oltre la dicotomia morte / vita, amore /desolazione, presenti ne L’Allegria.

Ungaretti sembra dirci che attraverso l’esplosione della massimo vitalismo estivo, si crea il massimo dell’aridità, come il Barocco, che distrugge per ricostruire.

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LA MADRE

E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra,
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti all’Eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
 
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
 

La lirica propone il tema del rapporto fra la vita terrena e l’aldilà, sottolineato dalla certezza del poeta di ricongiungersi alla madre nella vita ultraterrena. Il sentimento dominante è il rimpianto per la perduta felicità dell’infanzia, che Ungaretti spera di recuperare quando tornerà a incontrare sua madre. In questo altro mondo la madre conserva gli atteggiamenti abituali che aveva in vita, la sua figura rievoca immagini che appartengono alla memoria e diventa un ponte tra la vita e la morte.
Il ricordo del passato torna ripetutamente (come una volta, come già ti vedevo, come quando spirasti) e crea un legame di continuità nella dimensione dell’eterno (il futuro incontro con la madre). La morte non ha più i toni tragici dell’Allegria, ma è solo un muro da valicare per ottenere il premio della gloria eterna.
Il testo presenta una struttura simmetrica: ogni strofa coincide con un periodo e con un gesto compiuto dalla madre, che danno al componimento una intonazione a tratti solenne. Il recupero delle forme poetiche tradizionali è evidenziato nella punteggiatura, nella subordinazione, che caratterizza la costruzione dei periodi in modo lineare, nelle similitudini che introducono le immagini del passato, nelle inversioni dell’ordine delle parti del discorso, che danno maggiore rilievo a una rispetto a un’altra (quando d’un ultimo battito / avrà fatto cadere il muro d’ombra; Come una volta mi darai la mano) e nella sinestesia finale degli occhi della madre, che “sospirano” di amore e di sollievo.

Il dolore

Le liriche de Il dolore vengono pubblicate nel dopoguerra, più esattamente nel 1947, e comprendono i testi composti dal 1934.
E’ indubbiamente la raccolta più personale di Ungaretti, quella in cui il poeta sperimenta il dolore, appunto, della perdita, in modo diretto, personale. Ci dice infatti in Vita d’un uomo: So che cosa significhi la morte, lo sapevo anche prima; ma allora, quando mi è stata strappata la parte migliore di me, la esperimento in me, da quel momento, la morte. Il dolore è il libro che più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi sembrerebbe di essere impudico. Quel dolore non finirà di straziarmi.
L’opera infatti può essere strutturata in tre parti tematiche:

  • nella prima troviamo le poesie dedicate alla morte del fratello Constantino, avenuta nel ’37;
  • la seconda, la più straziante, per quella del figlio, nel ’39;
  • la terza per la seconda guerra mondiale.

Già nella poesia dedicata alla madre, abbiamo visto come l’approdo ad una fede religiosa, rappresentasse una forma non dico di pacificazione ma di idealizzazione delle persone scomparse; i segni che essi lasciano permettono, infatti che il dialogo continui. Tali segni possono essere ritratti nel volto, nelle mani, nell’ombra che, pur scomparsi, s’intrattengono col poeta.

La prima poesia che apre la raccolta è dedicata al fratello:
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Ottone Rosai: Ritratto di Ungaretti

TUTTO HO PERDUTO

Tutto ho perduto dell’infanzia
e non potrò mai più
smemorarmi in un grido.
 
L’infanzia ho sotterrato
nel fondo delle notti
e ora, spada invisibile,
mi separa da tutto.
 
Di me rammento che esultavo amandoti,
ed eccomi perduto
in infinito delle notti.
 
Disperazione che incessante aumenta
la vita non mi è più,
arrestata in fondo alla gola,
che una roccia di gridi.

E’ una poesia sulla morte di Constantino e con lui sulla morte dell’infanzia. Ciò ci dice nel primo verso dove il Tutto assolutizza la sensazione della perdita tale da non poter più dimenticare se stesso in un grido di libertà. Ora l’infanzia è sotterrata, tagliata dal presente, irripetibile proprio perché viene a mancare la persona che la evocava. Il ricordo, personale si focalizza sull’amore infantile che ora non è più, trasformandosi in aridità rocciosa.

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NON GRIDATE PIU’

Cessate d’uccidere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
 
Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo
 

La poesia de Il dolore, dall’esprimere dapprima uno strazio (per usare il termine di Ungaretti) per la morte del fratello e del figlio (i versi riguardanti Antonietto si strutturano in un poemetto, dove si susseguono varie sensazioni determinate dalla perdita) si apre qui ad un dolore universale, quello creato dalla guerra.

Essa e composta da due strofe: nella prima troviamo due imperativi (cessate, gridate) che non hanno valenza di comando, ma come di preghiera, invito a terminare di profanare i loro corpi assenti. Essi hanno ancora qualcosa da insegnarci, un impercettibile sussurro che li lega a noi. Sono datori di vita, come l’erba, che cresce sopra loro. Ma l’ultimo verso, di per sé inquietante, sottolinea l’impossibilità dell’incontro: essi parlano laddove non esiste l’uomo, che calpesta e uccide la vita quand’essa nasce dal profondo della terra.

Le ultime due raccolte sono La terra promessa e Taccuino del vecchio, che possono essere considerate legate dalla stessa concezione poetica. Le parti più interessanti sono certamente quelle dedicate alla ripresa classicista del mito di Enea e Didone, tale mito permetteva al poeta di proiettare in esso tutti i temi portanti (il viaggio, l’approdo, l’abbandono, la morte) presenti nel suo itinerario poetico. Tale progetto non vide la definizione e rimase incompiuto e venne ripreso in parte nell’ultima raccolta, dove tuttavia il punto di vista veniva capovolto, ed era l’io lirico il cui approdo diventava appunto la cessazione della vita. Si ricorda, per inciso, che l’intenzione del poeta era quella di dar vita ad un vero melodramma: infatti il musicista Luigi Nono prese i frammenti (alcuni anche piuttosto lunghi) e li inserì in un tappeto musicale.

 

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