UGO FOSCOLO

foscolo-orig.jpegFrançois-Xavier Fabre: Ritratto di Ugo Foscolo (1807)

Biografia

Ugo Foscolo, battezzato con il nome Niccolò Ugo, nasce nell’isola greca di Zante nel 1778. Il padre, Andrea, è un medico veneziano, mentre la madre è greca, Diamantina Spathis. Ancora bambino, si reca a Spalato, insieme alla famiglia, nella quale riceve i primi rudimenti culturali nel seminario della città. Dopo la morte del padre, avvenuta quando lui aveva appena dieci anni, viene rimandato dai parenti ellenici, mentre la madre raggiunge Venezia. Si recherà, quasi non conoscendo l’italiano, dalla genitrice nel 1792 e nella città lagunare, pur nelle difficoltà economiche, approfondisce da solo gli studi classici e le letture di autori moderni, affacciandosi, pur ragazzo, negli ambienti intellettuali veneziani e dando prova di sé con quelli che potremo definire “abbozzi” letterari. Frequenta i salotti aristocratici in compagnia di altri scrittori, fra cui quello di Isabella Teotochi Albrizzi, che sarà la prima di una lunga serie di amori.

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La casa veneziana di Foscolo

Foscolo si getta a capofitto anche nella vita politica e civile, mostrando simpatia per le idee democratiche e rivoluzionarie che provenivano dalla Francia e, sul piano culturale, progetta un vero e proprio Piano di studi, da lui redatto nel 1796, all’interno del quale troviamo l’ideazione di  un romanzo Laura, lettere (il primo abbozzo di Jacopo Ortis). All’arrivo di Napoleone, trasformata l’Italia del nord in repubbliche, dapprima, sospetto al governo veneziano, si rifugia nei colli Euganei, ma al ritorno nella città lagunare fece rappresentare il Tieste (1797) tragedia di stile alferiano piena di accenti libertari. Il successo che le arrise mise ancor di più in sospetto Foscolo che, raggiunta Bologna si arruola nell’esercito della Repubblica Cisalpina; e in questa città che scrisse l’ode A Bonaparte liberatore. Nel frattempo anche Venezia viene conquistata dal generale corso: tornato nella sua città liberata, viene chiamato a svolgere l’incarico di segretario della municipalità, ma proprio durante il suo servizio si rende conto dell’ambiguità del generale francese.  
Nel 1797, con il trattato di Campoformio, Napoleone cedeva Venezia all’Austria in cambio di Milano. Deluso dal generale corso, esilia nella città lombarda, dove frequenta grandi autori, fra cui Parini e Monti. Collabora quindi alla redazione del Monitore italiano, giornale che promuove una visione patriottica e libertaria per l’Italia. Costretto il giornale alla chiusura, si rifugia nuovamente a Bologna. Comincia a pubblicare, senza portarlo a conclusione, il romanzo Le ultime lettere di Jacopo Ortis (edizione del 1798 o anche detta edizione Sassoli). Quando le truppe austro-russe scendono in Italia (a seguito della campagna d’Egitto di Napoleone) Foscolo si arruola con l’esercito francese, combattendo dapprima a Bologna e rimanendone ferito, quindi trasferendosi a Genova, per difendere la repubblica; qui nasce l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. Tra il 1801 ed il 1803, rimasto all’interno dell’esercito francese, compie vari incarichi: si ritrova dapprima a Firenze, dove vive una travolgente passione per Isabella Roncioni; torna a Milano dove nasce un nuovo amore per Antonietta Fagnani, ma è un periodo estremamente fecondo a livello culturale: corregge l’Ortis e pubblica un volume che raccoglie la sua produzione poetica che contiene alcuni suoi capolavori come la seconda ode All’amica risanata e i celeberrimi sonetti In morte del fratello Giovanni, A Zacinto, Alla sera.
Foscolo decide quindi di arruolarsi nell’esercito che avrebbe dovuto sbarcare in Inghilterra ed in terra francese si dedicherà a traduzioni, fra cui il Viaggio sentimentale di Sterne. E’ in questa occasione che Foscolo si ritroverà padre di Mary, che egli chiamerà col nome di Floriana. Tornato a Milano, nel Regno d’Italia, dà alle stampe il suo capolavoro I Sepolcri. Nominato professore presso l’università di Pavia, il Foscolo tiene la prolusione inaugurale Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, ma la cattedra verrà soppressa. Scrive l’Ajace, tragedia di stampo alfieriano, ma accusato dalla polizia di aver voluto rappresentare dietro le spoglie del tiranno greco, la figura di Napoleone, viene invitato ad allontanarsi dalla città.
Quindi Foscolo lascia di nuovo Milano e si rifugia a Firenze, dove sembra trovare una maggiore serenità, testimoniata dal progetto di lavoro su Le Grazie, elaborandone  il nucleo fondamentale.
Alla caduta di Napoleone, Foscolo si rifiuta di collaborare con il governo austriaco restaurato, si rifugia dapprima in Svizzera, ma ricercato dalla polizia, si rifugia in Inghilterra, tra le braccia della figlia Floriana. Si isola sempre più, circondato da debiti. Muore nel 1827 in un sobborgo di Londra. Dopo il raggiungimento dell’unità le sue ossa verranno trasferite a Firenze, a Santa Croce.

Personalità

La vita del Foscolo e la sua ideologia si può dire sia figlia di tre elementi, storici e letterari, che la forgiarono:

  1. il ’700, col suo illuminismo;
  2. la fine del secolo con la Rivoluzione Francese e l’avventura napoleonica, nonché con il neoclassicismo e le personalità di Parini e Alfieri;
  3. e il primo ’800, con la cultura nordica europea e sturmundraghiana.

Tuttavia egli riuscì, nonostante le diverse influenze a costruirsi una vera e propria individualità, assolutamente nuova nell’Italia di allora, che fece di lui una persona talmente eccezionale da costituire, sin da quando era in vita, un vero e proprio mito, fortemente operante per gli intellettuali immediatamente successivi.

Egli infatti, con il suo amore per la libertà e l’odio cocente per chi non la rispetta, le sue avventure sentimentali (molte le donne del Foscolo), il gioco, i debiti, ci offre il primo esempio di biografia romantica, sostanziata in quel “genio e sregolatezza” che è tipico dell’intellettuale europeo. Si direbbe che il corso dell’esperienza foscoliana abbia qualcosa di provvisorio, di non definito, che insomma, nonostante la sua formazione illuministica, egli ubbidisca maggiormente all’istinto più che alla ragione, ma forse questo non corrisponderebbe alla realtà. La sua capacità invece è nel dominio, attraverso la parola poetica, di tutte le sue pulsioni. Egli, infatti, riesce, a volte più a volte meno, a dominare quello “spirto guerrier ch’entro (gli) rugge” entro un’armonia, un equilibrio, un ordine intellettuale e morale tipico del nostro autore, che lo stessa retorica classica, nonché l’esperienza alfieriana, gli avevano insegnato. Ed è proprio in questo dominio delle passioni nella pagina scritta che il Foscolo incontra la cultura europea, di cui assimila gli aspetti più congeniali del suo tempo, senza rinnegare il neoclassicismo di cui il nostro autore fa parte. Insomma nel Foscolo c’è l’esigenza di riempire quel vuoto fra mondo reale (romanticismo) e mondo ideale (neoclassicismo), inserendo fra essi tutto il suo sentire e il suo modo di percepire il mondo circostante. Ma per far questo è necessario liberarsi dallo statuto dell’intellettuale asservito al potere, per questo Foscolo deve vivere del suo lavoro: scrive sui giornali, insegna, fa il critico letterario e via dicendo.

Il romanzo

Il genere “romanzo” cui attende Foscolo è quello epistolare. Esso ebbe, all’inizio dell’Ottocento, vasta eco grazie anche ai successi internazionali dell’opera di Rousseau, la Nouvelle Eloise (1761) nella quale, attraverso lettere di vari personaggi, si ripercorreva la storia di un amore sfortunato, e, soprattutto I dolori del giovane Werther di Goethe del 1776, in cui si racconta l’impossibilità  da parte di Werther d’amare Lotte, già promessa ad Albert e che si conclude con un suicidio.

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Le ultime lettere di Jacopo Ortis, modellata in gran parte su quella goethiana, è la prima opera tipicamente foscoliana: esce per la prima volta nel 1798 col titolo Vera storia di due amanti infelici, ma l’opera è solo in parte del Foscolo; costretto ad interromperla, viene proseguita, per volere dell’editore, da Angelo Sassoli. Nel 1802 esce il romanzo terminato dal Foscolo, che poi lo corregge nel 1816-1817.

Il romanzo è in forma epistolare: dopo che Venezia è stata ceduta da Napoleone all’Austria, Jacopo Ortis si rifugia, deluso, presso i colli Euganei, dove incontra Teresa e se ne innamora; ma il padre di lei l’ha già promessa al ricco Odoardo. Quindi il giovane amareggiato per l’infelice amore e braccato dalla polizia si spinge in diverse città d’Italia, dapprima a Firenze, dove visita i sepolcri di Santa Croce, a Milano, dove incontra il Parini e a Ravenna, dove s’inchina di fronte alla tomba di Dante; disperato torna nel Veneto: rivede Teresa ormai sposa, saluta la madre e si uccide.

Il romanzo si apre con un invito da parte dell’amico di Jacopo al lettore:

AL LETTORE

Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consecrare alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la sua sepoltura. E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell’eroismo di cui non sono eglino stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto.

Lorenzo Alderani

Già da questa premessa si può capire la struttura che sottende il romanzo: esso infatti contiene solo le lettere di Jacopo e non quelle di risposta dello stesso Lorenzo; ciò serve a disegnare una biografia eroica, modellata su quella di Alfieri, dalla quale soltanto coloro che possiedono lo stesso “alto sentire”, potranno trarre “esempio e conforto”.

LA DELUSIONE POLITICA

Dai Colli Euganei, 11 Ottobre 1797

Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo: quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur troppo, noi stessi Italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’Italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.

Il testo “nazionalizza” il romanzo epistolare in senso patriottico. In esso infatti il tema politico è presente sia sul piano personale (l’esilio) sia su quello più generale delle lotte fratricide. La lettera si apre con la delusione, provata dal protagonista (e quindi da Ugo) per il trattato di Campoformio, continua con il “tradimento” politico e si chiude con l’idea di morte. Si potrebbe quasi dire che alla “morte” della patria nell’incipit, corrisponda il vagheggiamento della morte dell’eroe, quasi a instaurare un rapporto tra Jacopo e patria. A questo tema si lega quella tomba “lagrimata”, che a sua volta è strettamente connesso con quello di patria: tema sviluppato, in seguito nella produzione poetica.

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Andrea Appiani: Ritratto di Ugo Foscolo da giovane (1802)

LA LETTERATURA

18 Ottobre 1797

Michele mi ha recato il Plutarco, e te ne ringrazio. Mi disse che con altra occasione m’invierai qualche altro libro; per ora basta. Col divino Plutarco potrò consolarmi de’ delitti e delle sciagure dell’umanità volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati dell’umano genere sovrastano a tanti secoli e a tante genti. Temo per altro che spogliandoli della magnificenza storica e della riverenza per l’antichità, non avrò assai da lodarmi né degli antichi, né de’ moderni, né di me stesso – umana razza!

Di fronte alla delusione politica, Jacopo cerca conforto nella letteratura e più espressamente nella lettura delle biografie plutarchiane, che tanto avevano affascinato anche Alfieri. Egli, come il suo predecessore ricerca in esse il lato eroico, ma sottolinea anche che, spogliandoli della loro magnificenza, resa loro dall’antichità, possa scoprirne le bassezze umane, approdando così verso un crudo pessimismo. D’altra parte tale posizione può essergli stata suggerita dallo stesso Napoleone, dapprima lodato per aver liberato la patria quindi odiato per averla ceduta all’Austria.

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Isabella Teotochi Albrizzi: Una delle tante donna amate da Foscolo

L’AMORE

26 Ottobre 1797

La ho veduta, o Lorenzo, la “divina fanciulla”; e te ne ringrazio. La trovai seduta miniando il proprio ritratto. Si rizzò salutandomi come s’ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore che andasse a cercar di suo padre. Egli non si sperava, mi diss’ella, che voi sareste venuto; sarà per la campagna; né starà molto a tornare. Una ragazzina le corse fra le ginocchia dicendole non so che all’orecchio. E’ un amico di Lorenzo, le rispose Teresa, è quello che il babbo andò a trovare l’altr’jeri. Tornò frattanto il signor T***: m’accoglieva famigliarmente, ringraziandomi che io mi fossi sovvenuto di lui. Teresa intanto, prendendo per mano la sua sorellina, partiva. Vedete, mi diss’egli, additandomi le sue figliuole che uscivano dalla stanza; eccoci tutti. Proferì, parmi, queste parole come se volesse farmi sentire che gli mancava sua moglie. Non la nominò. Si ciarlò lunga pezza. Mentr’io stava per congedarmi, tornò Teresa: Non siamo tanto lontani, mi disse; venite qualche sera a veglia con noi. Io tornava a casa col cuore in festa. – Che? lo spettacolo della bellezza basta forse ad addormentare in noi tristi mortali tutti i dolori? vedi per me una sorgente di vita: unica certo, e chi sa! fatale. Ma se io sono predestinato ad avere l’anima perpetuamente in tempesta, non è tutt’uno? 

Altra consolazione l’amore e la bellezza femminile. La lettera in cui ci viene presentata Teresa, si può suddividere in due parti: la prima presenta il ritratto della ragazza nel suo ambiente familiare, che sembra qui visto con nostalgia da parte dell’esule; l’altra la tempesta interiore che la “bellezza” può procurare in un animo romanticamente passionale come quello di Jacopo. E’ come se il Foscolo voglia già sottolineare il dualismo che gli rode l’anima: da una parte un ritratto dolce, scandito da gesti “leggiadri” (il disegno, la sorellina che le corre in grembo, il padre che le osserva con amore) dall’altra il fato (“fatale”, dice nell’ultima proposizione) quasi a prefigurare già un destino di morte.

In un’altra lettera, infatti, ci viene presentato Odoardo, il promesso sposo di Teresa, che, pur avendo le piccole qualità “borghesi”, amate dal sig. T***, manca proprio di quella passionalità che costituisce il fulcro del sentire ortisiano; quindi appare al protagonista come freddo, incapace di vero amore, dilettante nei giudizi letterari; insomma un vero e proprio alter-ego del protagonista.

Nella consapevolezza dell’impossibilità dell’amore per Teresa, Jacopo lascia i colli, e vaga in diverse città. Tra queste peregrinazioni importante è l’arrivo a Milano, dove incontra il vecchio Giuseppe Parini:

L’INCONTRO COL PARINI

Milano, 4 dicembre 1798

Ier sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli: egli si sosteneva da una parte sul mio braccio, dall’altra sul suo bastone: e talora guardava gli storpii suoi piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua infermità, e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava. S’assise sopra uno di que’ sedili ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch’io m’abbia mai conosciuto; e d’altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria: e fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite: tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione; non più la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l’amor figliale… e poi mi tesseva gli annali recenti e i delitti di tanti uomicciattoli ch’io degnerei di nominare se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d’animo non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque gli vedano presso il patibolo… – Ma ladroncelli, tremanti, saccenti… più onesto insomma è tacerne. – A quelle parole io m’infiammava di un sovrumano furore, e sorgeva gridando: ché non si tenta? morremo? ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore. – Egli mi guardò attonito: gli occhi miei in quel dubbio chiarore scintillavano spaventosi, e il mio dimesso e pallido aspetto si rialzò con un’aria minaccevole; io taceva, ma si sentiva ancora un fremito rumoreggiare cupamente dentro il mio petto. E ripresi: non avremo salute mai? ah se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte, servirebbero così vilmente? Il Parini non apria bocca, ma stringendomi il braccio mi guardava ogni ora più fisso. Poi mi trasse come accennandomi perch’io tornassi a sedermi: e pensi tu, proruppe, che s’io discernessi un barlume di libertà, mi perderei ad onta della mia inferma vecchiaia in questi vani lamenti? o giovine degno di un altro secolo, se non puoi spegnere quel tuo ardore fatale ché non lo volgi ad altre passioni? Allora io guardai nel passato… allora io mi volgeva avidamente al futuro, ma io errava sempre nel vano e le mie braccia tornavano deluse senza pur poter mai stringere nulla e conobbi tutta la disperazione del mio stato. Narrai a quel grande Italiano la storia delle mie passioni, e gli dipinsi Teresa come uno di que’ genii celesti i quali par che discendano ad illuminare la stanza tenebrosa di questa vita. E alle mie parole e al mio pianto, il vecchio pietoso più volte sospirò dal cuore profondo. No, io gli dissi, non veggo più che il sepolcro: ho una madre tenera e benefica; spesso mi sembrò di vederla calcare tremando le mie pedate e seguirmi fino a sommo il monte, donde io stava per diruparmi, e mentre era quasi con tutto il corpo abbandonato nell’aria … ella afferravami per la falda delle vesti, e mi ritraeva, ed io volgendomi non udiva più che il suo pianto. Pure… s’ella sapesse tutti i feroci miei mali implorerebbe ella stessa dal cielo il termine degli ansiosi miei giorni. Ma l’unica fiamma vitale che anima ancora questo travagliato mio corpo è la speranza di tentare la libertà della patria. – Egli sorrise mestamente, e poiché s’accorse che la mia voce infiochiva, e i miei sguardi si abbassavano immoti sul suolo, ricominciò: forse questo tuo furore di gloria potrebbe trarti a difficili imprese, ma… credimi, la fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia, due quarti alla sorte, e l’altro quarto a’ loro delitti. Ma se ti reputi bastevolmente fortunato e crudele per aspirare a questa gloria, pensi tu che i tempi te ne porgano i mezzi? i gemiti di tutte le età, e questo giogo della nostra patria non ti hanno per anco insegnato che non si dee aspettare libertà dallo straniero? chiunque s’intrica nelle faccende di un paese conquistato non ritrae che il pubblico danno, e la propria infamia. Quando e doveri e diritti stanno sulla punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù. E allora? avrai tu la fama e il valore di Annibale che profugo cercava nell’universo un nemico al popolo Romano? – Né ti sarà dato di essere giusto impunemente. Un giovine dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d’ingegno come sei tu, sarà sempre o l’ordigno del fazioso, o la vittima del potente. E dove tu nelle pubbliche cose possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, oh! tu sarai altamente laudato, ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia; la tua prigione sarà abbandonata da’ tuoi amici, e il tuo sepolcro degnato appena di un secreto sospiro. – Ma poniamo che tu superando e la prepotenza degli stranieri, e la malignità de’ tuoi concittadini, e la corruzione de’ tempi, potessi aspirare al tuo intento… di’? spargerai tutto il sangue col quale conviene nutrire una nascente repubblica? arderai le tue case con le faci della guerra civile? unirai col terrore i partiti? spegnerai con la morte le opinioni? adeguerai con le stragi le fortune? ma se tu cadi tra via, vediti esecrato dagli uni come demagogo, dagli altri come tiranno. Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti: giudica, più che dall’intento, dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l’onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi, conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre. E ciò sia. Potrai tu allora inorgoglito dalla sterminata fortuna reprimere in te la passione del supremo potere che ti sarà fomentata e dal sentimento della tua superiorità, e dalla conoscenza del comune avvilimento? I mortali sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni, naturalmente ciechi. Intento tu allora a puntellare il tuo trono, di filosofo saresti fatto tiranno, e per pochi anni di possanza e di tremore avresti perduta la tua pace, e confuso il tuo nome fra la immensa turba dei despoti. – Ti avanza ancora un seggio fra i capitani il quale si afferra per mezzo di un ardire feroce, di una avidità che rapisce per profondere, e spesso di una viltà, per cui si lambe la mano che t’aita a salire. Ma… – o figliuolo! l’umanità geme al nascere di un conquistatore e non ha per conforto se non la speme di sorridere su la sua bara. – Tacque; ed io dopo lunghissimo silenzio esclamai: O Cocceo Nerva! tu almeno sapevi morire incontaminato. – Il vecchio mi guardò… Se se tu né speri, né temi fuori di questo mondo… – e mi stringeva la mano – ma io…! – Alzò gli occhi al cielo, e quella severa sua fisonomia si raddolciva di un soave conforto, come s’ei lassù contemplasse tutte le sue speranze. – Intesi un calpestio che s’avanzava verso di noi; e poi travidi gente fra’ tigli; ci rizzammo, ed io l’accompagnai sino alle sue stanze.

Due sono i numi tutelari del letterato Foscolo: Parini e Alfieri. Il suo alter-ego Ortis non riuscirà ad incontrare l’astigiano, chiuso nella sua proverbiale misantropia, ma troverà il civile Parini, ormai vecchio, ritratto qui come il poeta stesso si era descritto ne La caduta, malfermo e claudicante. Foscolo apprezza così tanto questi due intellettuali, da trasformarli non in coloro che chiudono il secolo, ma in coloro che, interpreti della poesia civile e della libertà, s’incarnano nello stesso suo animo. E non importa se tale interpretazione non risponda alla “realtà” storica: il primo non avrebbe certamente fremuto per amor dell’Italia, il secondo non avrebbe condiviso il senso titanico di libertà con gente incapace di alto sentire (necessaria nella lotta per ottenere una libertà politica). Si è che l’autore veneziano li idealizza, incarnando il loro sentire (la poesia come compito civile ed il rigore morale per Parini, ripresa del lessico e dello stile di Alfieri) e rendendolo così foscoliano.

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LETTERA DA VENTIMIGLIA

Ventimiglia, 19 e 20 Febbraro 1799

I tuoi confini, o Italia, sono questi; ma sono tutto dì sormontati d’ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? – Ov’è l’antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ognor memorando la libertà, e la gloria degli avi le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse un giorno che uniti perdendo e le sostanze, e l’intelletto, e la voce sarem fatti simili agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati come i miseri negri, e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe e disseppellire, e disperdere al vento le ceneri di que’ Grandi per annientarne le ignude memorie, – poiché oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dell’antico letargo.
Così grido quando io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano e rivolgendomi intorno io cerco nè trovo più la mia patria. Ma poi dico: pare che gli uomini sieno i fabbri delle proprie sciagure, ma le sciagure derivano dall’ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente ai destini. Noi argomentiamo sugli eventi di pochi secoli: che sono eglino nell’immenso spazio del tempo? Pari alle stagioni della nostra vita mortale pajono talvolta gravi di straordinarie vicende, le quali pur sono comuni e necessarj effetti del tutto. L’universo si controbilancia. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell’altra. Io guardando da queste Alpi l’Italia piango e fremo, e invoco contro agl’invasori vendetta; ma la mia voce si perde tra il fremito di tanti popoli trapassati, quando i romani rapivano il mondo; cercavano oltre i mari e i deserti nuovi imperi da devastare, manomettevano gl’Iddìi de’ vinti, incatenavano principi e popoli liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i lor ferri li ritorceano contro le proprie viscere. Così gli Israeliti trucidavano i pacifici abitatori di Canaan, e i Babilonesi poi strascinarono nella schiavitù i sacerdoti, le madri, e i figliuoli del popolo di Giuda. Così Alessandro rovesciò l’Impero di Babilonia; e dopo avere arsa passando tutta la terra, si crucciava che non vi fosse un altro universo. Cosi gli Spartani tre volte smantellarono Messene e tre volte cacciarono dalla Grecia i Messeni che pur Greci erano e della stessa religione e nipoti de’ medesimi antenati. Così sbranavansi gli antichi Italiani finché furono ingojati dalla fortuna di Roma. Ma in pochissimi secoli la regina del mondo divenne preda de’ Cesari , de’ Neroni, de’ Costantini, de’ Vandali, e dei Papi. Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il cielo dell’America, o quanto sangue d’innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall’oceano portato a contaminare d’infamia le nostre spiagge! ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno lo loro età. Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dinanzi vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco. Il mondo è una foresta di belve. La fame, i diluvj , e la peste sono nella natura come la sterilità di un campo che prepara l’abbondanza per l’anno vegnente: e chi sa? Fors’anche le sciagure di questo globo apparecchiano la felicità di un altro.
Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve. I governi impongono giustizia: ma potrebbero eglino imporla se per regnare non l’avessero prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente alle forche chi per fame invola del pane. Onde quando la forza ha rotti tutti gli altrui diritti, per serbarli poscia a se stessa inganna i mortali con le apparenze del giusto, finché un’altra forza non la distrugga. Eccoti il mondo, e gli uomini. Sorgono frattanto d’ora in ora alcuni più arditi mortali; prima derisi come frenetici, e sovente come malfattori, decapitati: che se poi vengono patrocinati dalla fortuna ch’essi credono lor propria, ma che in somma non è che il moto prepotente delle cose, allora sono obbediti e temuti, e dopo morte deificati. Questa è la razza degli eroi, de’ capisette, e de’ fondatori delle nazioni i quali dal loro orgoglio e dalla stupidità de’ volghi si stimano saliti tant’alto per proprio valore; e sono cieche ruote dell’oriuolo. Quando una rivoluzione nel globo è matura, necessariamente vi sono gli uomini che la incominciano, e che fanno de’ loro teschj sgabello al trono di chi la compie. E perché l’umana schiatta non trova né felicità né giustizia sopra la terra, crea gli Dei protettori della debolezza e cerca premj futuri del pianto presente. Ma gli Dei si vestirono in tutti i secoli delle armi de’ conquistatori: e opprimono le genti con le passioni, i furori, e le astuzie di chi vuole regnare.
Lorenzo, sai tu dove vive ancora la vera virtù? in noi pochi deboli e sventurati; in noi, che dopo avere sperimentati tutti gli errori, e sentiti tutti i guai della vita, sappiamo compiangerli e soccorrerli. Tu o Compassione, sei la sola virtù! tutte le altre sono virtù usuraje.
Ma mentre io guardo dall’alto le follie e le fatali sciagure della umanità, non mi sento forse tutte le passioni e la debolezza ed il pianto, soli elementi dell’uomo? Non sospiro ogni dì la mia patria? Non dico a me lagrimando: Tu hai una madre e un amico – tu ami – te aspetta una turba di miseri, a cui se’ caro, e che forse sperano in te – dove fuggi? anche nelle terre straniere ti perseguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la morte: qui cadrai forse, e niuno avrà compassione di te; e tu senti pure nel tuo misero petto il piacere di essere compianto. Abbandonato da tutti, non chiedi tu ajuto dal Cielo? non t’ascolta; eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore torna involontario a lui – va, prostrati; ma all’are domestiche.
O natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati, e ci consideri come i vermi e gl’insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che vivano? Ma se tu ci hai dotati del funesto istinto della vita sì che il mortale non cada sotto la soma delle tue infermità ed ubbidisca irrepugnabilmente a tutte le tue leggi, perché poi darci questo dono ancor più funesto della ragione? Noi tocchiamo con mano tutte le nostre calamità ignorando sempre il modo di ristorarle.
Perché dunque io fuggo? e in quali lontane contrade io vado a perdermi? dove mai troverò gli uomini diversi dagli uomini? O non presento io forse i disastri, le infermità, e la indigenza che fuori della mia patria mi aspettano? – Ah no! Io tornerò a voi, o sacre terre, che prime udiste i miei vagiti, dove tante volte ho riposato queste mie membra affaticate, dove ho trovato nella oscurità e nella pace i miei pochi diletti, dove nel dolore ho confidato i miei pianti. Poiché tutto è vestito di tristezza per me, se null’altro posso ancora sperare che il sonno eterno della morte – voi sole, o mie selve, udirete il mio ultimo lamento, e voi sole coprirete con le vostre ombre pacifiche il mio freddo cadavere. Mi piangeranno quegli infelici che sono compagni delle mie disgrazie – e se le passioni vivono dopo il sepolcro, il mio spirito doloroso sarà confortato da’ sospiri di quella celeste fanciulla ch’io credeva nata per me, ma che gl’interessi degli uomini e il mio destino feroce mi hanno strappata dal petto.

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Ventimiglia

E’ questo uno dei passi più importanti dell’intero romanzo; all’inizio si coglie fortemente il tema patriottico, che se anche riprende una suggestione letteraria petrarchesca (Ben provide Natura al nostro stato, quando de l’Alpi schermo pose fra noi et la tedesca rabbia), la valorizza contrapponendo la pochezza degli italiani e la grandiosità della natura che protegge, naturalmente, il nostro territorio. Segue poi una riflessione sulla storia, anch’essa di origine vichiana, in cui sottolinea la ciclicità e la forza bruta che la sovrasta. Questa forza bruta è ritenuta virtù quando si raggiunge il potere, a cui si piegano le leggi e la religione, fatte solo per confermare il potere stesso (si noti il pessimismo storico foscoliano, di contro all’ottimismo illuminista); da ultimo la definizione di vera virtù, che è quella di chi non persegue il potere, ma di chi, con dolore, sa esprimersi con “nuda voce”, cioè con la poesia disarmata, portatrice di pace. Questa frattura fra “virtù falsa” e “virtù vera” non può che risolversi nell’esilio: non un esilio del corpo, ma un esilio dell’anima, che coincide con la morte nella propria patria.

Il romanzo foscoliano, come già detto, si pone subito a fianco della grande letteratura europea, ma pur riprendo le suggestioni, soprattutto goethiane, lo personalizza. Infatti se l’autore tedesco, scrivendo una storia simile, denuncia l’impossibilità dell’uomo di vivere secondo le regole della natura (tema fortemente illuminato) privando l’uomo dell’amore, il Foscolo personalizza e quindi nazionalizza subito la sua materia: infatti vi è una precisa rispondenza tra i dati biografici e politici dell’autore stesso e il protagonista del suo romanzo. Ciò comporta un soggettivismo narrativo che spesso si traduce, nella pagina foscoliana, in un tono lirico e/o oratorio più che in un vero e proprio tono narrativo. Ciò è dovuto, soprattutto, dalla mancanza del genere romanzo nella nostra letteratura, che farà sì che il nostro debba necessariamente “inventarsi” una lingua, che non può, in una formazione classica come quella dell’autore, fare a meno della tradizione poetica italiana. Come si è già detto al tema di amore/morte, presente nei romanzi europei, si aggiunge quello politico. Il romanzo, infatti, nasce da una doppia delusione: la cessione di Venezia all’Austria e il vano amore per Teresa: delusione quindi di un uomo che si era costruito un ideale politico e sentimentale, puntualmente contraddetto dalla realtà. All’interno di questa struttura tutti i temi della produzione foscoliana: il valore della tomba, il culto della patria, della poesia e della libertà, che saranno poi ripresi e sviluppati in maniera diversa e più matura dal Foscolo maggiore.

La produzione poetica

Ne Le Odi, che riprendono il genere che il Parini aveva utilizzato per la sua produzione poetica, vediamo l’affermarsi di due miti che costituiscono punti fermi nell’evoluzione poetica e psicologica del nostro:

  • l’esistenza della divinità femminile non negata all’uomo che mitiga la delusione sentimentale e politica
  • la bellezza nella quale l’uomo s’immerge alla ricerca di un conforto.

Nella prima di esse (A Luigia Pallavicini caduta da cavallo), scritta nel 1800, si racconta appunto di un incidente accaduto alla contessa, che, sbalzata dal cavallo, aveva riportato ferite nel volto; il poeta augura alla donna di poter ritornare alla bellezza che la renderà simile a una dea; nella seconda (All’amica risanata) tale bellezza risulterà immortalata dalla poesia, dove si determina il mito della poesia eternatrice.

ALL’AMICA RISANATA

Qual dagli antri marini
l’astro più caro a Venere
co’ rugiadosi crini
fra le fuggenti tenebre
appare, e il suo vïaggio
orna col lume dell’eterno raggio;

sorgon così tue dive
membra dall’egro talamo,
e in te beltà rivive,
l’aurea beltate ond’ebbero
ristoro unico a’ mali
le nate a vaneggiar menti mortali.

Fiorir sul caro viso
veggo la rosa, tornano
i grandi occhi al sorriso
insidïando; e vegliano
per te in novelli pianti
trepide madri, e sospettose amanti.

Le Ore che dianzi meste
ministre eran de’ farmachi,
oggi l’indica veste
e i monili cui gemmano
effigïati Dei
inclito studio di scalpelli achei,

e i candidi coturni
e gli amuleti recano,
onde a’ cori notturni
te, Dea, mirando obliano
i garzoni le danze,
te principio d’affanni e di speranze:

o quando l’arpa adorni
e co’ novelli numeri
e co’ molli contorni
delle forme che facile
bisso seconda, e intanto
fra il basso sospirar vola il tuo canto

più periglioso; o quando
balli disegni, e l’agile
corpo all’aure fidando,
ignoti vezzi sfuggono
dai manti, e dal negletto
velo scomposto sul sommosso petto.

All’agitarti, lente
cascan le trecce, nitide
per ambrosia recente,
mal fide all’aureo pettine
e alla rosea ghirlanda
che or con l’alma salute April ti manda.

Così ancelle d’Amore

a te d’intorno volano
invidïate l’Ore.
Meste le Grazie mirino
chi la beltà fugace
ti membra, e il giorno dell’eterna pace.

Mortale guidatrice
d’oceanine vergini,
la parrasia pendice
tenea la casta Artemide,
e fea terror di cervi
lungi fischiar d’arco cidonio i nervi.

Lei predicò la fama
Olimpia prole; pavido
Diva il mondo la chiama,
e le sacrò l’elisio
soglio, ed il certo telo,
e i monti, e il carro della luna in cielo.

Are così a Bellona,
un tempo invitta amazzone,
die’ il vocale Elicona;
ella il cimiero e l’egida
or contro l’Anglia avara
e le cavalle ed il furor prepara.

E quella a cui di sacro
mirto te veggo cingere
devota il simolacro,
che presiede marmoreo
agli arcani tuoi Lari
ove a me sol sacerdotessa appari,

Regina fu, Citera

e Cipro ove perpetua
odora primavera
regnò beata, e l’isole
che col selvoso dorso
rompono agli Euri e al grande Ionio il corso.

Ebbi in quel mar la culla,
ivi erra ignudo spirito
di Faon la fanciulla,
e se il notturno zeffiro
blando sui flutti spira,
suonano i liti un lamentar di lira:

ond’io, pien del nativo
Aër sacro, su l’itala
grave cetra derivo
per te le corde eolie,
e avrai divina i voti
fra gl’inni miei delle insubri nipoti.

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Antonietta Fagnani Arese

Come dalle profondità del mare, la stella più cara al pianeta di Venere appare (Lucifero) fra le tenebre che scompaiono con i suoi raggi, che sembrano capelli bagnati e abbellisce il suo cammino con i raggi dell’eterno sole, // così il tuo corpo divino si alza dal letto della malattia e in te la bellezza rivive, l’aura bellezza da cui soltanto ebbero conforto gli uomini, nati per fantasticare. // Vedo rifiorire nel tuo viso il colore roseo, torna il sorriso nei tuoi grandi occhi ammaliatori e nuovamente le madri timorose per i loro figli  e le innamorate gelose si preoccupano ricominciando a piangere. // Le Ore che fino a poco fa erano le tristi amministratrici di medicine, oggi invece portano la veste indiana (di seta) e le collane in cui risplendono Dei effigiati, illustre lavoro di scultori greci, // gli stivaletti bianchi e i portafortuna per cui i giovanotti guardando te, o Dea, causa di affanno e di speranza, dimenticano le danze: // o quando adorni l’ arpa e con nuove melodie e con le morbide curve del tuo corpo che il bisso asseconda con facilità e intanto il tuo canto fra il sommesso mormorio vola // più pericoloso oppure quando disegni figure di ballo e affidando all’ aria il tuo corpo agile, bellezze sconosciute sfuggono dai vestiti e dal velo trascurato, scoprendo il petto ondeggiante. // Mentre ti muovi cadono le morbide trecce, lucide per l’ ambrosia recente, malamente trattenute dal pettine d’oro e dalla ghirlanda di rose che aprile ti dona, insieme alla salute. // Così le Ore, serve dell’amore, volano intorno a te invidiata, ma le Grazie guardino male colui che ti ricorda che la bellezza fugge e chi ti ricorda il giorno della morte. // La casta Artemide (Diana), nella sua vita mortale, guidatrice di ninfe dell’Oceano, abitava il monte Parrasio e faceva fischiare da lontano, per terrore dei cervi, i nervi dell’ arco di Cidone (Creta). // La poesia l’ha proclamata figlia degli Dei, il mondo spaventato la chiamava Dea e le ha consacrato il trono dei campi elisi, la freccia che non sbaglia e il carro della luna in cielo. // Allo stesso modo la poesia ha consacrato altri altari, a Bellona, amazzone un tempo, adesso ella prepara l’elmo, le cavalle e l’ ira guerresca contro l’ Inghilterra. // E quella dea (Venere) la cui statua di marmo ti vedo cingere devotamente in una corona di mirto affinché protegga le tue stanze segrete dove appari solo a me come sacerdotessa, // fu regina che regnò felice su Cipro e Citera, che godono di un perenne clima mite e che con le loro montagne ricoperte di boschi frangono il corso dei venti del mar Ionio. // Io sono nato in quel mare; qui vagabonda nudo lo spirito della fanciulla di Faona, Saffo, e se il venticello notturno spira dolcemente sulle onde, le spiagge suonano lamenti di lira: // perciò io, pieno della nativa sacra ispirazione traduco in poesia italiana per cui anche tu divinizzata, grazie ai miei versi, avrai l’ammirazione devota delle nipoti.

L’Ode si può suddividere in quattro parti: nella prima Foscolo esalta la bellezza esteriore della donna nei suoi atti consueti o cerimoniosi, quindi, nella parte centrale crea il collegamento tra poesia e bellezza: la sua presenza suscita invidia nelle altre donne e le divinità dell’amore guardino male chi le ricorda che la sua bellezza fugge via; segue la terza parte, caratterizzata dalla descrizione di tre divinità, sottolineando il loro aspetto mortale; conclude dicendo che, grazie alla sua poesia, anche lei diventerà una divinità perché la sua bellezza non morirà mai.

E’ quest’ultimo il tema dominante dell’intera ode: se infatti nella prima aveva cantato la bellezza, capace di consolare, qui si esalta la poesia, capace d’eternarla. Tale concetto s’esprime in forme eleganti, dal forte sapore neoclassico, con richiami lessicali e formali alla tradizione poetica italiana: tuttavia in questo tessuto formale Foscolo v’inserisce il tema del vagheggiamento d’una bellezza eterna, il senso della poesia come portatrice universale di valori, che supera il concetto del “puro” neoclassicismo, che tendeva alla forma perfetta e immutabile in sé, come unico valore per la poesia (si prenda, ad esempio, l’ode Alla Musa di Parini).

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Foscolo nel 1799

I Sonetti sono 12, di cui 8 “minori” e 4 “maggiori”. Se  quelli cosiddetti minori rappresentano un po’ la versione poetica del romanzo, in cui l’autobiografismo non riesce a diventare valore universale, questo non succede ne Alla Musa, In morte del fratello Giovanni, A Zacinto, Alla sera che riescono a presentare in nota dolente la meditazione sulla sorte dell’uomo.

DI SE STESSO

Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto.

Perché dal dì ch’empia licenza e Marte
vestivan me del lor sanguineo manto,
cieca è la mente e guasto il core, ed arte
l’umana strage, arte è in me fatta, e vanto.

Che se pur sorge di morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di gloria, e carità di figlio.

Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.

Non so più colui che ero; gran parte di me è morta: / quel che mi resta è solo struggimento e pianto. / E il mirto (simbolo dell’amore) è secco, e le foglie d’alloro (simbolo di gloria poetica), primo incentivo alla mia poesia giovanile, sono avvizzite. // Perché dal giorno in cui un’empia licenza (l’anarchia rivoluzionaria) e Marte (la guerra) / mi rivestirono del loro manto di sangue, / la mia mente è diventata cieca, e guasto il cuore, e l’uccidere / altri uomini è diventato per me mestiere e vanto // Che se anche mi viene il pensiero di morte, / da questo proposito crudele mi distolgono, / l’ardente desiderio di gloria e l’affetto di figlio. / Così schiavo di me stesso, e d’altri, e del destino, / so qual è la cosa migliore di fare ma mi aggrappo a quella peggiore / e so invocare la morte ma non so darmela.

Questo sonetto, di cui non si conosce esattamente l’anno di composizione, fa parte comunque di quelli cosiddetti minori. A collocarlo tra il 1798 ed il 1800 non è soltanto l’insistita personalizzazione che rimanda all’autobiografismo ortisiano, ma anche la classica struttura del sonetto che presenta una perfetta rispondenza: ad ogni stanza corrisponde un periodo in sé concluso. In tale testo l’io emerge sin dal primo verso, mettendo in risalto un passato (presumibilmente felice) contro un presente, fatto di “languore e pianto”. Continua proprio nella prima stanza a parlare di disillusione e come nell’Ortis essa appare duplice: se qui è sentimentale e poetica, nel romanzo è sentimentale e politica. Nella seconda stanza appare invece il tema della guerra, a cui si aggiunge quello dell'”uccisione dei fratelli”, che inaugura in qualche modo, un tema caro agli uomini del nostro Risorgimento. Conclude quindi con il tema della morte, agognato ma non esplicitato, al contrario del suo personaggio (ci piace sottolineare l’identità tra conosco il meglio ed al peggior mi appiglio ed il verso petrarchesco et veggio il meglio, et al peggior m’appiglio).

Certo più universali ci appaiono i “sonetti” cosiddetti maggiori:

in Alla sera troviamo la corrispondenza tra paesaggio naturale e stato d’animo:

 ALLA SERA

Forse perché della fatal quïete
tu sei l’imago a me sì cara vieni
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquïete

tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

Forse perché tu assomigli (sei l’immagine) alla morte (la quiete voluta del fato), a me giungi così gradita, o Sera. Sia quando le nubi estive e le dolci brezze ti accompagnano festose, // sia quando porti sulla terra dal cielo pieno di neve le lunghe e paurose notti invernali, sempre giungi invocata, e penetri nelle più profonde vie del mio cuore in modo soave. // Mi fai immaginare con la mente le orme che giungono alla morte definitiva, e nel frattempo fugge questo tempo malvagio e s’accompagnano con lui la folla // delle preoccupazioni per le quali egli si consuma insieme a me; e mentre io osservo la tua tranquillità, si assopisce in me quello spirito combattivo che mi ruggisce dentro.

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Ippolito Caffi: Venezia al tramonto

In questo sonetto, posto da Foscolo all’inizio della sua raccolta, appare evidente il rapporto tra l’ora del crepuscolo e la morte. Il poeta, infatti, “universalizza” la materia con l’avverbio di tempo “sempre”: non si tratta di un momento, ma, viceversa dell’eterna poesia che sa “cantare/percepire” la natura. Se ciò porterebbe Foscolo all’interno di un raffinato neoclassicismo, egli lo supera in quanto la stessa natura non è che la proiezione di uno stato d’animo che riesce a intuire nell’oscurità la morte e nel crepuscolo la “serena attesa” di essa, nel momento in cui la realtà storica e personale si presenta a lui caotica, tale da suscitargli “rabbia” quasi incontrollabile. Tutto ciò è tessuto con una evidente novità ritmica che unisce, attraverso arditi enjambement le due quartine e le due terzine, senza dimenticare l’ormai classica allitterazione in “r” dell’ultimo verso. Infatti la poesia è ben distinta in due momenti: se infatti la descrizione dell’io del poeta di fronte alla natura è di estatica comunione, la seconda diventa dinamica e i pensieri dell’autore sembrano prevalere sulla contemplazione, facendo diventare la sera un mezzo che lo porta all’infinito nulla e quindi a quella pace interiore che combatte contro il suo ribollente spirito. 

In A Zacinto, l’universalità della poesia viene raggiunta dalla perfezione classica del sonetto e dai riferimenti verso miti rivissuti all’interno dell’animo del Foscolo.

A ZACINTO

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

Io non toccherò più le rive sacre (della mia patria), dove trascorsi la mia fanciullezza, Zante mia, che ti specchi nel mare del mare greco dal quale nacque la dea // Venere che rese, coll’atto della sua nascita, quelle isole (che la circondano) fertili, per cui non passò sotto silenzio il tuo clima e la tua vegetazione il famoso verso di Omero // che cantò il mare fatale e lo straordinario esilio di Ulisse, che reso bello per la fama e la sventura baciò, infine, la sua petrosa Itaca. // Tu non avrai altro che il canto di tuo figlio, o mia madre terra; il destino ci ha prescritto una sepoltura senza lacrime.

In questo sonetto si fa più chiara la matrice “classica” di Foscolo: l’isola greca, Venere, Omero e Ulisse sono i termini “forti” di cui egli ci parla. Ma vediamo più attentamente i fitti parallelismi che egli utilizza con questi termini:

  • L’isola greca e Venere appaiono ambedue come proiezioni “materne” e culturali: Venere, rendendo rigogliosa l’isola, ne ha permesso la lingua e la cultura;
  • Omero è il poeta che ha cantato, nell’Odissea, l’esilio di Ulisse; Foscolo è colui che canta il suo esilio;
  • Ulisse ha baciato la sua petrosa Itaca; Foscolo è colui che profetizza il suo seppellimento fuori dalla terra d’origine e quindi senza lacrime.

A livello ritmico la poesia è caratterizzata da due momenti; la prima occupa due terzi del componimento, dove prevale lì elemento descrittivo reso in forma classica. Si notino nelle tre stanze iniziali i tre monosillabi ad aprire il primo verso quasi a voler accentuare l’impossibilità; quindi il suo progredire attraverso una serie di enjambement che uniscono tra loro le stanze, rompendo strutturalmente la forma del sonetto. Ci piace ancora sottolineare una serie di rime nel 2°, 4°, 6° e 8°, tutte terminanti con -acque, a voler rimarcare l’orgogliosa provenienza del mare, mare a cui faranno riferimenti le figure d’Omero e Ulisse che proprio sul mare ambienta parte della sua Odissea. L’ultima strofa rappresenta l’amara riflessione del poeta sul proprio destino: il termine prescrive viene qui utilizzato come negazione, allo stesso modo di illacrimato (apax foscoliano) e cui ci rimandano entrambi al  né più mai dell’incipit del sonetto.

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Monumento a Ugo Foscolo nell’isola di Zante

In In morte del fratello Giovanni la morte del fratello viene rivissuta attraverso un classico della poesia latina, ma non vi è un semplice “rifacimento”  ma un “rivivere” il dolore, pertanto quest’ultimo è universale.

IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentil anni caduto.

 La madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e se da lunge i miei tetti saluto,

 sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quiete.

 Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l’ ossa mie rendete
allora al petto della madre mesta.

Un giorno, se io non sarò sempre costretto a fuggire tra popoli stranieri, mi vedrai seduto sulla tua tomba, o mio fratello, piangendo la tua morte precoce. // Mia madre, ora sola, trascinando la sua tarda età, parla di me con il tuo cenere muto; ma io, tendo verso voi le mie mani deluse (per l’esilio) e  se da lontano saluto la mia patria, percepisco un destino avverso e le profonde preoccupazioni che si presentarono al tuo vivere come una tempesta, e prego anch’io, nel tuo porto (morte) l’eterno riposo. // Soltanto questo, di tante speranze, oggi a me resta! Stranieri, restituite allora fra le braccia della triste madre le mie ossa.

E’ chiaro, in questo sonetto, il riferimento al carme 101 del Liber catulliano: infatti il primo verso riprende il Multa per gentes et multa per aequora vectus, così come si può notare il rovesciamento tra la mutam cinerem al femminile per Catullo (naturalmente cinis è maschile in latino) e il muto cenere foscoliano (naturalmente cenere è femminile in italiano). Certo i riferimenti puntuali non possono che sottolineare il mito della poesia eternatrice: il dolore catulliano si riflette nel dolore foscoliano che attraverso un diverso codice linguistico, ma con l’utilizzo di traduzioni lessicali può esprimere lo stesso concetto rendendolo eterno. E’ evidente tuttavia la personalizzazione e nel contempo l’allontanamento della materia:

  • Il fratello Giovanni si era realmente suicidato per debiti di gioco ed era seppellito a Venezia (personalizzazione);
  • Riuso di Catullo con intento diverso: riti funebri per il poeta latino, impossibilità di piangere il fratello per Foscolo (allontanamento).

Tornano in questo sonetto i temi della tomba illacrimata, della morte, della madre, della patria: tutto ciò a significare come l’intera opera poetica (Odi e Sonetti) sia mossa da un’identica ispirazione che, in Foscolo, si muove tra neoclassicismo e preromanticismo.

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Dei Sepolcri

Dopo queste prove il Foscolo tace per quattro anni, dedicandosi a studi e traduzioni. Ora si tratta di raccogliere tutti i temi precedentemente affrontati e dar loro forma in un’opera unitaria. Tale sarà il carme Dei Sepolcri, nato da un decreto napoleonico che vietava il seppellimento entro le mura cittadine. Per comodità divideremo il carme di 295 versi in più parti per capirne appieno il significato.

Prologo (vv 1-15):

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove più il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d’erbe famiglia e d’animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l’ore future,
né da te, dolce amico, udrò più il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né più nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell’amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?

E’ forse la morte meno crudele se (posta) all’ombra dei cipressi e dentro le tombe confortate dal pianto? Quando il Sole non alimenterà più per me tutto il mondo vegetale e animale, e quando prive di illusioni davanti a me non ci saranno più ore, né ascolterò più il verso e la triste armonia che lo governa da te, dolce amico Pindemonte, né mi parlerà più l’ispirazione poetica e l’amore, unico ristoro a questa vita raminga, quale sarebbe il ristoro di una tomba che distingua le mie ossa dalle infinite che la morte distribuisce in terra e in mare?

Vi sono qui due domande retoriche nelle quali fortemente si sente l’influsso dell’ideologia illuminista foscoliana. Tuttavia basta ben guardare come la risposta negativa sia intessuta nel suo dettato da termini che non rimandano, soprattutto nell’aggettivazione a qualcosa che non risulti inanimato e freddo come la morte, ma viceversa riguardi la vita.

Sopravvivenza della morte grazie al ricordo (vv. 16-40):

Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
tutte cose l’obblio nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l’illusion che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto,
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.

Purtroppo è vero, Pindemonte! Anche la speranza, ultima dea (ultima a lasciare gli dei e l’uomo), abbandona i sepolcri, e la dimenticanza nella sua oscurità avvolge tutto; e la forza instancabile della natura le fiacca con il suo eterno movimento; e il tempo trasforma l’uomo e le sue tombe, l’ultimo atteggiamento e le cose restanti del cielo e della terra. Ma perché prima del tempo l’uomo mortale si priverà dell’illusione che, pur morto, lo trattiene sulla soglia della morte? Egli non vive anche sottoterra, quando non vedrà più la luce del giorno, se può risvegliarla attraverso il culto nella mente dei suoi cari? Divina è questa corrispondenza di sentimenti amorosi, è una dote divina negli uomini; e spesso grazie a lei noi viviamo con l’amico morto e lui vive con noi, a patto che la terra che lo fece nascere e crescere, offrendo l’approdo (della morte) nella sua terra, renda inviolabili le spoglie dalle intemperie atmosferiche e dal sacrilegio degli uomini e conservi una tomba il nome ed un albero amico, odoroso di fiori, consoli con dolci ombre le ceneri del mondo.

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Ippolito Pindemonte, a cui Foscolo dedica il carme “Dei Sepolcri”

Riprendendo la “concezione naturalistica della natura” di Lavoisier (“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”) Foscolo offre una risposta negativa alle sue domande precedenti da un punto di fisico. Tuttavia, proprio attraverso la particella avversativa “ma” del verso 23, il nostro ci offre una diversa prospettiva, tutta sentimentale, in cui ribadisce, come nel romanzo e nei sonetti, l’importanza della tomba da un punto di vista laico.

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L’importanza dell’amore per il ricordo (vv. 41-50): 

Sol chi non lascia eredità d’affetti
poca gioja ha dell’urna; e se pur mira
dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
fra ’l compianto de’ templi acherantei
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d’Iddio; ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.

Soltanto a chi non lascia eredità di sentimenti non importa nulla della tomba; e se pure crede dopo la morte, vedrà la sua anima vagare fra i lamenti dei templi d’Acheronte o cercare rifugio sotto le grandi ali del perdono divino; ma lascerà le sue ceneri alle ortiche di una terra deserta, dove non vi sarà nessuna donna che preghi né un viandante solitario che possa udire il richiamo che la Natura ci manda dalla tomba.

Vengono qui riproposte l’importanza di una vita sotto il segno di un “significato sentimentale” che ancora non raggiunge l’eroismo e l’ateismo, “non cinico, ma certamente critico”, di chi nega la possibilità di una speranza di una sopravvivenza in terra a chi si affida solamente sul piano del peccato/redenzione e non su un piano civile.

Elogio dell’insepolto Parini (vv. 51-90):

Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
contende. E senza tomba giace il tuo
sacerdote, o Talia, che a te cantando
nel suo povero tetto educò un lauro
con lungo amore, e t’appendea corone;
e tu gli ornavi del tuo riso i canti
che il lombardo pungean Sardanapalo
cui solo è dolce il muggito de’ buoi
che dagli antri abduani e dal Ticino
lo fan d’ozj beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
spirar l’ambrosia, indizio del tuo Nume,
fra queste piante ov’io siedo e sospiro
il mio tetto materno. E tu venivi
e sorridevi a lui sotto quel tiglio
ch’or con dimesse frondi va fremendo
perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio
cui già di calma era cortese e d’ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
vagolando. ove dorma il sacro capo
del tuo Parini? A lui non ombre pose
tra le sue mura la città, lasciva
d’evirati cantori allettatrice,
non pietra, non parola; e forse l’ossa
col mozzo capo g’’insanguina il ladro
che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
la derelitta cagna ramingando
su le fosse, e famelica ululando;
e uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,
l’ùpupa, e svolazzar su per le croci
sparse per la funerea campagna,
e l’immonda accusar col luttuoso
singulto i rai di che son pie le stelle
alle obbliate sepolture. Indarno
sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
non sorge fiore, ove non sia d’umane
lodi onorato e d’amoroso pianto.

Eppure la nuova legge dell’editto di Saint-Cloud per il volere napoleonico (che vieta il seppellimento all’interno delle mura cittadine e nega il nome sulle tombe dei morti secondo il concetto illuministico dell’uguaglianza degli uomini nella nascita e nella morte) fa sì che le tombe siano poste fuori dagli sguardi che provano pietà per i morti e sottrae loro il nome sulle tombe. Ed è morto senza tomba il tuo sacerdote, o Talia, musa della commedia e della satira, che offrendo a te il suo canto, nella sua povera casa, ti offrì con lunga dedizione l’alloro e ti donò corone; e tu gli fornivi il riso con cui intesseva i versi con cui satireggiava il nobile milanese (Sardanapalo, mitico re assiro, simbolo della dissolutezza e corruzione)  a cui piace il muggito dei buoi che stanno nelle stalle dell’Adda e del Ticino che gli permettono di vivere di rendita. O bella Musa, dove sei? Non percepisco il profumo dell’ambrosia, indizio della tua presenza fra questi alberi (nel giardino Orientale di Milano, dove pure nell’Ortis incontrerà il vecchio Parini), dove sto e ripenso con nostalgia alla mia patria. E tu, o dea Talia, giungevi e gli sorridevi sotto quel tiglio che adesso, con i rami abbassati, è sdegnato e turbato perché non ricopre le urne del vecchio poeta al quale era stata gentile per il ristoro e la frescura. Forse tu osservi, vagando, fra le tombe popolari, dove riposi il sacro capo del tuo Parini? A lui la città, così dissoluta da attrarre poeti effeminati, non diede un luogo riposato, una tomba, un epitaffio; e forse un ladro, colla testa mozzata per scontare i suoi delitti, gli sporca le ossa con il suo sangue. Senti una cagna che vaga sulle fosse, ululando affamata, ed vedi svolazzare un ùpupa, uscita da un teschio, dove si era rifugiata per fuggire la luce della luna, per la terra lugubre, e l’immondo animale (che si ciba dei resti umani) accusare con il suo funebre singhiozzo i raggi delle pietose stelle sulle tombe dimenticate. Inutilmente chiedi rugiada alla triste notte per il tuo poeta. Ahimè! Sui morti non sorge alcun fiore che non sia onorato con lodi umane ed un pianto d’amore.

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Lapide pariniana nella Biblioteca di Brera

Questo passo, a livello ideologico, si richiama apertamente alla profonda stima che il Foscolo provò per il poeta milanese, già manifestata in una celeberrima pagina dell’Ortis; ciò che lega le due figure può essere sintetizzato soprattutto in due punti:

  • Il senso civile della poesia, una poesia che interviene sul reale per trasformarlo (concetto illuministico);
  • Il culto per la poesia ed il bello stile che garantisce al dettato poetico la sua “bellezza” ed eternità (concetto neoclassico).

Tuttavia questi elementi vengono espressi attraverso la cultura preromantica, più espressamente il gusto del lugubre, presente nella poesia ossianica di Macpherson, presente in Italia grazie alla traduzione di Cesarotti, di cui Foscolo fu un lettore attento. Bisogna notare che per l’uccello nominato dal poeta, lo stesso incorse nell’errore di considerarlo notturno e feroce, mentre nella realtà è un dolcissimo uccellino diurno, tanto che Montale poté così ironizzare: Upupa, ilare uccello calunniato dai poeti.

La tomba inizio di civiltà e patriottismo (vv. 91-150):

 Dal dì che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi
all’etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
ed are a’ figli; e uscian quindi i responsi
de’ domestici Lari, e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
religion che con diversi riti
le virtù patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d’anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
fean pavimento; né agl’incensi avvolto
de’ cadaveri il lezzo i supplicanti
contaminò; né le città fur meste
d’effigiati scheletri: le madri
balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
nude le braccia su l’amato capo
del lor caro lattante onde nol desti
il gemer lungo di persona morta
chiedente la venal prece agli eredi
dal santuario. Ma cipressi e cedri
di puri effluvj i zefiri impregnando
perenne verde protendean su l’urne
per memoria perenne, e preziosi
vasi accogliean le lacrime votive.
Rapian gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte,
perché gli occhi dell’uom cercan morendo
il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
amaranti educavano e viole
su la funebre zolla; e chi sedea
a libar latte e a raccontar sue pene
ai cari estinti, una fragranza intorno
sentia qual d’aura de’ beati Elisi.
Pietosa insania, che fa cari gli orti
de’ suburbani avelli alle britanne
vergini dove le conduce amore
della perduta madre, ove elementi
pregaro i Genj del ritorno al prode
che tronca fe’ la trionfata nave
del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d’inclite geste
e sien ministri al vivere civile
l’opulenza e il tremore, inutil pompa,
e inaugurate immagini dell’Orco
sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno,
nelle adulate reggie ha sepoltura
già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
morte apparecchi riposato albergo,
ove una volta la fortuna cessi
dalle vendette, e l’amistà raccolga
non di tesori eredità, ma caldi
sensi e di liberal carme l’esempio.

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Processione verso la cattedrale di Saint Paul per il funerale di Nelson

Dal giorno che sono stati istituiti il matrimonio, la giustizia ed il culto per la tomba, (questi) fecero sì che uomini selvaggi provassero pietà per se stessi e per gli altri, si allontanavano i morti, che la Natura destina ad altra vita, alle intemperie e agli animali selvaggi. Le tombe erano testimonianza di gloria ed altari per i figli, ed uscivano da qui le predizioni degli dei domestici e si temeva il giuramento fatto sulla cenere dei morti: tradizione che, con riti diversi, tramandò le virtù della patria ed il sentimento d’amore. Non sempre le pietre tombali costituivano il pavimento delle Chiese, né l’odore acre dei cadaveri, mescolato con gli incensi, contaminò i fedeli; né le città furono rattristate da scheletri dipinti sui muri: le madri si alzano spaventate dal sonno e rivolgono le braccia nude sul capo amato del loro caro bambino affinché non lo svegli il lungo lamento di una persona morta che dalla tomba chiede una preghiera prezzolata agli eredi. Ma cipressi e cedri, mescolando il vento con i loro puri profumi, procuravano alla vegetazione un eterno verde ad imperitura memoria e preziosi vasi (dove si conservava l’unguento e i profumi) raccoglievano le lacrime di chi pregava. Gli amici rubavano una scintilla al Sole (le lampade per i defunti) per illuminare il buio, perché gli occhi dell’uomo cercano, morendo, la luce del Sole e tutti esalano l’ultimo respiro rivolti a Lui. Le fontane versando acque pure facevano crescere amaranti dai fiori rossi e viole sulle tombe terrene; e chi sedeva su di esse a bere latte o a raccontare i suoi tormenti ai cari estinti, sentiva intorno a sé un’aria pura come quella dei beati Elisi. Pietosa pazzia, che rende cari i giardini cimiteriali periferici alle giovani inglesi dove sono condotte dall’amore per la madre, e dove, clementi, pregano gli dei protettori della patria per il ritorno dell’eroe Nelson che fece tagliare l’albero maestro della sconfitta nave napoleonica e ci fece la bara. Ma dove non esiste la passione di gesta gloriose e siano ministri alla vita pubblica la ricchezza e la vigliaccheria, sorgono statue e templi marmorei e inutili opere sfarzose, nefaste immagini dell’Inferno. Ormai gli intellettuali, i possidenti ed i nobili, che costituiscono il decoro del bel regno italico, possiede le sue sepolture già nella reggia, e unica loro lode lo stemma di famiglia. Per me la morte prepari un luogo isolato, dove una volta per tutte il destino cessi le sue vendette, e gli amici raccolgano una non ricca eredità ma l’esempio di una travolgente passione e di una poesia civile.

Questo passo si può dividere in più sequenze:

  • La concezione della morte, dell’amore e della giustizia ha fatto nascere la civiltà, sancendo per ciascuno di essi l’istituzione della tomba, del matrimonio e della giustizia;
  • Il culto dei morti nella civiltà romana, come esempio del rispetto dei vivi per i morti;
  • Il culto della morte nella civiltà medievale, esempio negativo del terrore, mostrato attraverso la “forzata” protezione di una madre per il figlio;
  • Il culto della morte nella civiltà inglese, nei giardini sepolcrali posti fuori città, dove le vergini piangono le loro madri. Viene ripreso il concetto dei morti dell’antichità: le civiltà incorrotte e civili, mantengono vivo il culto dei morti;
  • Accenno sulle virtù civili della morte: Nelson si costruisce la tomba con l’albero maestro della nave conquistata (atto eroico)
  • Di nuovo inadeguatezza del culto funereo per le civiltà illiberali: qui è presa di mira Milano, capitale del Regno d’Italia napoleonico;
  • Esempio solitario del suo valore per la tomba e del suo compito: poeta povero, ma dal forte sentimento civile.

Si può notare nelle microsequenze qui presentate come il Foscolo lavori per opposizioni e trapassi arditi, coll’intento di forzare la mente del lettore ad un ragionamento poetico, ma che la cui poeticità sta anche nella ragione delle sue affermazioni.

I grandi uomini a Santa Croce e il culto della poesia (vv. 151-212):

A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
E santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta. lo quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande,
che temprando lo scettro a’ regnatori,
gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;
e l’arca di colui che, nuovo Olimpo
alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide
sotto l’etereo padiglion rotarsi
più mondi, e il Sole irradiarli immoto,
onde all’Anglo che tanta ala vi stese
sgombrò primo le vie del firmarnento;
te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe’ lavacri
che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell’äer tuo veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d’oliveti
mille di fiori al ciel mandano incensi:
e tu prima, Firenze, udivi il carme
che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
e tu i cari parenti e l’idioma
desti a quel dolce di Calliope labbro
che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
d’un velo candidissimo adornando,
rendea nel grembo a Venere Celeste.
Ma più beata ché in un tempio accolte
serbi l’itale glorie, uniche forse
da che le mal vietate Alpi e l’alterna
onnipotenza delle umane sorti
armi e sostanze t’invadeano ed are
e patria e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
intelletti rifulga ed all’Italia,
quindi trarrem gli auspicj. E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a’ patrii Numi, errava muto
ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
desioso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l’austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno, e l’ossa
fremono amor di patria. Ah sì! da quella
religiosa pace un Nume parla:
e nutria contro a’ Persi in Maratona
ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
la virtù greca e l’ira. Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l’Eubèa,
vedea per l’ampia oscurità scintille
balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche

d’armi ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
silenzj si spandea lungo ne’ campi
di falangi un tumulto e un suon di tube,
e un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

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Santa Croce: La tomba di Galilei

Le urne dei coraggiosi suscitano l’animo forte a compiere azioni egregie, o Pindemonte, e rendono bella e sacra il luogo che le accoglie per il pellegrino. Io quando vidi la tomba di quel grande (Machiavelli) che, temprando lo scettro dei regnanti mostra gli orpelli e alla gente svela quanto il suo potere grondi di lacrime e di sangue; e (quando vidi) la tomba di colui (Michelangelo) che  edificò e pitturò la Cappella Sistina a Roma, e la tomba di colui (Galilei) che capì che nel cielo ruotavano più cieli ed il sole mandava loro i suoi raggi rimanendo immoto, intuizione da cui l’inglese Newton costruì le proprie teorie liberando così le vie dell’universo. Te beata Firenze, gridai, per la tua aria piena di vita e per i fiumi che l’Appennino dalle sue cime versa su di te! Felice per il tuo clima la Luna riveste con la sua luce limpidissima i tuoi colli, in festa per la vendemmia, e le valli popolate di case e di oliveti esalano in cielo profumi di mille fiori: e tu per prima, o Firenze, hai ascoltato la poesia che alleviò la rabbia dell’esiliato ghibellino Dante e tu i cari genitori e la lingua hai dato a quel dolce poeta della poesia lirica (la musa Calliope) che, ricoprendo con un velo bianchissimo l’amore sensuale nella poesia greca e romana, lo ha restituito al grembo candido dell’amore divino; ma sei ancora più beata perché conservi nella chiesa di Santa Croce le glorie intellettuali italiane, forse le uniche (che ci sono rimaste) dal momento che le mal difese Alpi e il potere che ineluttabilmente è passato ad altre forze per la sua ciclicità ti hanno invaso e ti hanno preso le armi, le ricchezze, gli altari e, tranne la memoria, tutto. Perché laddove rispenda una speranza di gloria alle menti coraggiose e all’Italia, proprio da questi ultimi trarremo il presagio del riscatto. E a questi altari venne spesso Vittorio Alfieri ad ispirarsi. Arrabbiato contro gli dei della patria, vagava silenzioso dove il fiume Arno è più deserto, osservando desideroso il terreno ed il cielo; e dopo, quando nessun vivente poteva alleviargli le sue preoccupazioni qui si fermava, austero, avendo nello sguardo il pallore della morte e della speranza.  Con questi spiriti magnanimi abita ora eternamente e le sue ossa ancora vibrano per amor di patria. Ah, sì! Dal silenzio religioso della tomba parla un dio, che nutrì i Greci contro i Persiani nella battaglia di Maratona la virtù greca e la rabbia, dove poi la civile Atene consacrò tombe ai suoi eroi. Il marinaio che è passato sul mare sotto l’isola Eubea ha visto lampeggiare sotto l’ampia oscurità il brillare delle luci sugli elmi e delle spade che cozzavano fra loro, i roghi fumare per il fumo del legno, sagome guerriere con le armi rilucenti cercare la battaglia, e al terrore dei notturni silenzi si spandeva lungo la campagna il rumore caotico delle falangi e il suono di trombe, l’incalzare dei cavalli in corsa che scalpitavano sopra gli elmi dei moribondi ed il pianto, e gli inni di vittoria e infine il canto della morte.

E’ fortemente evidente in questo passo da una parte il senso della poesia civile foscoliana, dall’altro la tradizione poetica entro la quale il suo magistero si struttura. Egli infatti è convinto che la “patria” italiana non possa che generarsi dagli intellettuali che in questa lingua hanno scritto e su cui l’Europa stessa ha fatto affidamento (si veda l’episodio tra da Galilei e Newton sottolineato con un complemento figurato di moto da luogo ad indicare il punto di partenza (Italia) e quello d’arrivo (Inghilterra). Ma questo costituisce il vero problema ed il classicismo di fondo foscoliano, che tuttavia non può, che con orrore, vedere la patria inglese superare di gran lunga la propria. Ecco allora che la tomba serve a rinfocolare coraggio, ad offrire un forte sentimento patriottico e liberale, quale lui può offrire, come appunto sottolinea nell’ultima parte della sequenza.      

Dalla tomba alla poesia, dalla poesia all’eternità (vv. 213-295):

Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna
oltre l’isole egèe, d’antichi fatti
certo udisti suonar dell’Ellesponto
i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode retèe l’armi d’Achille
Sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi
giusta di glorie dispensiera è morte;
né senno astuto, né favor di regi
all’Itaco le spoglie ardue serbava,
ché alla poppa raminga le ritolse
l’onda incitata dagl’inferni Dei.

E me che i tempi ed il desio d’onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplée fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Tròade inseminata
eterno splende a’ peregrini un loco
eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio
onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
talami e il regno della Giulia gente.
Però che quando Elettra udì la Parca
che lei dalle vitali aure del giorno
chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
mandò il voto supremo: E se, diceva,
a te fur care le mie chiome e il viso
e le dolci vigilie, e non mi assente
premio miglior la volontà de’ fati,
la morta amica almen guarda dal cielo
onde d’Elettra tua resti la fama.
Così orando moriva. E ne gemea
L’Olimpio; e l’immortal capo accennando
piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
cenere d’Ilo; ivi l’iliache donne
sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
da’ lor mariti l’imminente fato;
ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le fea parlar di Troja il dì mortale,
venne, e all’ombre cantò carme amoroso,
e guidava i nepoti, e l’amoroso
apprendeva lamento ai giovinetti.
E dicea sospirando: Oh, se mai d’Argo,
ove al Tidide e di Laerte al figlio
pascerete i cavalli, a voi permetta
ritorno il cielo, invan la patria vostra
cercherete! Le mura opra di Febo
sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di Troja avranno stanza
in queste tombe; chè de’ Numi è dono
servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi che le nuore
piantan di Priamo, e crescerete ahi presto!
Di vedovili lagrime innaffiati,
proteggete i miei padri: e chi la scure
asterrà pio dalle devote frondi
men si dorrà di consanguinei lutti
e santamente toccherà l’altare.
Proteggete i miei padri. Un dì vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far più bello l’ultimo trofeo
ai fatati Pelidi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.
 

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Statua raffigurante Omero

Felice tu, o Ippolito, che nella gioventù hai percorso il vasto mare sotto la guida dei venti! E se il pilota t’indirizzò oltre le isole egee, hai certamente udito dalle rive dell’Ellesponto gli episodi antichi ed il rumore cupo del mare che portava verso le rive del promontorio Reteo (vicino Troia) le armi di Achille sopra la tomba di Aiace: per gli eroi la morte è una giusta dispensatrice di gloria: né il senno astuto di Ulisse (a cui era stato ingiustamente attribuito lo scudo di Achille)  né l’accondiscendenza dei re greci gli conservarono le difficili armi, perché alla nave errante le ritolse il mare eccitato dagli dei degl’Inferi. E le Muse, che animano il pensiero umano, chiamino me ad evocare gli eroi del tempo passato, me che il tempo ed il desiderio d’onore fanno fuggire in esilio. Le Muse, abitatrici del monte Pimpla, siedono custodi dei sepolcri e, sebbene il tempo li spazzi via con le sue ali distruttrici, rendono felici con la loro poesia i deserti e così la poesia vince il silenzio di mille secoli. Ed oggi nella Troade (dove sorgeva Troia) deserta, rispende per i viaggiatori un luogo eterno, eterno per la ninfa Elettra, moglie di Zeus, a cui diede figlio Dardano da cui nacque la città di Troia e Assaraco padre di Priamo che ebbe cinquanta figli da cui derivò a sua volta la stirpe di Roma. Perciò quando Elettra venne chiamata dalle Parche (la morte) per raggiungere l’armonia dell’Eliso, elevò la sua suprema preghiera a Giove e diceva: «Se mai ti furono graditi i miei capelli, il mio volto e i dolci atti d’amore, e se il destino non mi negherà il divenire dea, proteggi dal cielo la tua amica morta tanto che alla tua Elettra resti perlomeno la fama». Così pregando moriva. E se ne dispiaceva l’intero Olimpo, e il capo immortale di Giove, muovendolo, faceva cadere dai capelli l’ambrosia, rendendo sacro il corpo della Ninfa e la sua tomba. Su di essa venne sepolto Erittonio, suo nipote, e le ceneri del giusto Ilo, padre d’Anchise; qui le donne troiane scioglievano i loro capelli, inutilmente, purtroppo, cercando d’allontanare dai loro destini il destino futuro; qui venne la profetessa Cassandra, quando Apollo nel suo petto le faceva predire il destino mortale di Troia e cantò ai defunti un canto profetico e portava con sé i discendenti affinché apprendessero il suo amoroso canto e, con sospiri, diceva: «Oh, se mai il cielo vi permetta di ritornare da Argo dove avrete pascolato i cavalli dei greci Diomede (Titide) ed Ulisse (figlio di Laerte), inutilmente ricercherete la vostra patria! Le mura, opera di Apollo, saranno completamente incenerite. Ma gli dei troiani risiederanno in queste tombe, perché è un dono del loro spirito divino conservare un grande nome nelle miserie. E voi palme e cipressi che le nuore di Priamo ora piantano, crescete presto! Innaffiati dalle lacrime delle vedove, proteggete i miei cari morti: e colui il quale si asterrà di colpire con la scure queste piante meno dovrà dolersi dei  morti familiari e potrà toccare sacramente gli altari degli dei. Proteggete i miei padri. Un giorno vedrete un povero cieco, Omero, vagare intorno alle antichissime ombre e brancolando addentrarsi nelle tombe, abbracciare le urne ed interrogarli. Risuoneranno le cavità segrete, e racconterà di come Troia sia stata abbattuta due volte e due volte sia risorta (così si racconta nel mito) più splendida sulle sue rovine per rendere più bella l’ultima vittoria ai Greci vincitori per volere degli dei. Il sacro poeta, rasserenando quelle anime addolorate con il suo canto, renderà eterni i nomi dei principi greci per tutte le ere che abbraccia il padre Oceano. E tu, troiano Ettore, avrai l’onore dei pianti dove sarà considerato sacro e compianto il sangue versato per la patria, finché il sole risplenderà sulle sciagure degli uomini».

L’innalzamento del linguaggio costituisce la vera e propria caratteristica di questa sequenza, e tale innalzamento non può che nascere dalla classicità attraverso un  ragionamento che sia dimostrativo dell’assunto dell’intero carme, quanto di tutto il percorso poetico del poeta veneziano:

  • Le tombe suscitano il ricordo (Pindemonte viaggiatore in Grecia);
  • Nelle tombe di Maratona giacciono eroi (Aiace, Achille e Ettore);
  • Le vite eroiche danno vita alla poesia (le Muse abitatrici in Grecia);
  • La Grecia, attraverso Enea, sta alla base della civiltà Romana e quindi di quella nazionale;
  • Cassandra (il cui destino era quello di predire la verità a cui nessuno credeva) vede il disastro della guerra iliaca;
  • La guerra produce morti e tombe interrogate da Omero;
  • Le tombe, in quanto materia, scompaiono;
  • La poesia omerica, il cui portato linguistico, poetico e valoriale, vivrà per sempre;
  • La poesia in quanto “raccontatrice” di vite e morti eroiche, vincerà, infine, la morte “naturale” dell’uomo.

Il carme or ora letto rappresenta, a detta di molti critici, il capolavoro foscoliano. Ci sembra tuttavia corretto, ora, definirlo retoricamente: si definisce carme (dal latino carmen) un canto poetico di carattere religioso, il cui stile, nel corso del tempo, tende sempre a rimanere elevato e latineggiante e che, nel suo contenuto, si rifà al genere lirico in quanto riguarda la contemporaneità e al genere epico in quanto presenta episodi del passato. Il metro è di endecasillabi sciolti anch’esso legato all’epica e alla lirica (è il verso in cui Monti, un letterato contemporaneo di Foscolo, traduce l’Iliade e scrive i Pensieri d’amore). Inoltre non dobbiamo dimenticare che lo stesso carme è concepito in forma epistolare, come risposta a Ippolito Pindemonte che di fronte all’editto di Saint Claud napoleonico andava componendo I cimiteri d’ispirazione cattolica.

L’importanza dell’opera va ricercata soprattutto in due punti:

  • Il suo inserimento, come in parte era già avvenuto nel romanzo, nella letteratura sepolcrale europea (si pensi al già citato Macpherson e Thomas Gray, in Inghilterra);
  • Nell’aver riassunto e in qualche modo rivendicato il ruolo fondamentale della memoria in un processo civile e libertario.

Infatti I Sepolcri costituiscono una sorta di vademecum per chi dovrà lottare patriotticamente per la patria, ma tale lotta può avvenire soltanto attraverso il recupero memoriale dei grandi personaggi italiani, che in quanto grandi si sono formati attraverso l’acquisizione e la consapevolezza della cultura classica, per cui il compito del poeta veneziano sarà quello di emularli attraverso un linguaggio altrettanto classico e alto. Per questo polemizza con l’abate francese Guillond che reputa l’opera poco sentimentale e troppo erudita. Per lui i trapassi non devono essere “spiegati”, ma “immaginati” come fossero quadri, affinché il lettore possa penetrarli a fondo e capirli.

Per questo, insieme al romanzo, questo carme verrà reputato dai patrioti italiani dell’Ottocento come l’esempio più alto di poesia civile.

Le Grazie

Le Grazie, ultima opera incompiuta di Foscolo, nascono da un profondo mutamento storico che vede una vera e propria involuzione nell’imperialismo napoleonico, e quindi un vero e proprio allontanamento dai problemi politici che avevano caratterizzato, viceversa, il carme.

E’ un’opera incompiuta, che doveva essere composta da tre inni, sui quali egli lavorerà per circa un ventennio, non giungendo mai a dar loro una for-ma definitiva. La struttura il poeta la descrive così:

  • Primo inno dedicato a Venere. Si canta, da un punto di vista metastorico, la bellezza del creato;
  • Secondo inno dedicato a Vesta. Si elogia, attraverso la dea del focolare, l’amore domestico;
  • Terzo inno, dedicato a Pallade, s’incentra sulla sapienza e quindi sul compito della cultura.

IL VELO DELLE GRAZIE

Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;
e nel mezzo del velo ardita balli,
canti fra ’l coro delle sue speranze
Giovinezza: percote a spessi tocchi
antico un plettro il Tempo; e la danzante
discende un clivo onde nessun risale.
Le Grazie a’ piedi suoi destano fiori,
a fiorir sue ghirlande: e quando il biondo
crin t’abbandoni e perderai ‘l tuo nome,
vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno
l’urna funerea spireranno odore.
Or mesci, amabil Dea, nivee le fila;
e ad un lato del velo Espero sorga
dal lavor di tue dita; escono errando
fra l’ombre e i raggi fuor d’un mirteo bosco
due tortorelle mormorando ai baci;
mirale occulto un rosignuol, e ascolta
silenzïoso, e poi canta imenei:
fuggono quelle vereconde al bosco.
Mesci, madre dei fior, lauri alle fila;
e sul contrario lato erri co’ specchi
dell’alba il sogno; e mandi alle pupille
sopite del guerrier miseri i volti
della madre e del padre allor che all’are
recan lagrime e voti; e quei si desta,
e i prigionieri suoi guarda e sospira.
Mesci, o Flora gentile, oro alle fila;
e il destro lembo istoriato esulti
d’un festante convito: il Genio in volta
prime coroni agli esuli le tazze.
Or libera e la gioia, ilare il biasmo,
e candida è la lode. A parte siede
bello il silenzio arguto in viso e accenna
che non fuggano i motti oltre le soglie.
Mesci cerulea Dea, mesci le fila;
e pinta il lembo estremo abbia una donna
che con l’ombre i silenzi unica veglia;
nutre una lampa su la culla, e teme
non i vagiti del suo primo infante
sien presagi di morte; e in quell’errore
non manda a tutto il cielo altro che pianti
beata! ancor non sa come agli infanti
provido è il sonno eterno, e que’ vagiti
presagi son di dolorosa vita.

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Felice Casorati: Le Grazie di Foscolo

(La musa Erato della poesia corale inizia il canto e la Grazia Flora, seguendola, ricama un velo): “Mescola, dea profumata, fili risa e in mezzo ad essi balli la coraggiosa Giovinezza cantando le sue speranze: il tempo suona con rapidi tocchi l’antica lira, e scende per un pendio su cui nessuno risale. Le Grazie al suo passaggio fanno nascere fiori con cui adornano le sue ghirlande, e quando spariranno i capelli biondi e non avrai più il tuo nome, quei fiori vivranno, o Giovinezza, e manderanno un dolce odore intorno alla tua urna. Me-scola, odorosa dea, fili bianchi come neve, e lateralmente sul velo sorga dalle tue dita la stella della sera, Espero; escono in volo fra la penombra da un bosco di mirto due tortorelle tubando per amore, li guarda, nascosto, un usignolo, e li ascolta silenzioso e poi canta inni nunziali e quelle, vergognose, si rifugiano nel bosco. Mescola, madre dei fiori, le foglie del lauro e sul lato opposto vaghi il sogno mattiniero con gli specchi, in modo da trasmettere al guerriero addormentato i volti preoccupati della madre e del padre quando offrono agli altari i loro dolore e le loro preghiere; allora si sveglia e osserva sospirando i suoi prigionieri. Mescola, o Flora gentile, oro alla trama, in modo che il margine destro sia ricamato di un festoso banchetto: il Genio dell’ospitalità dapprima infiori le tazze degli esuli. Ora è libera la gioia, senza cattiveria il biasimo, e sincera a lode. In disparte vigila il Silenzio, con viso arguto e osserva affinché le parole non vadano oltre il dovuto. Mescola fili azzurri, o Dea, e nel lembo estremo appaia una donna, che sola veglia nell’oscurità e nel silenzio: tiene acceso una luce sulla culla e teme che i vagiti del suo primo figlio siano presentimento di morte, e in questo errore non fa che invocare il cielo con pianto. Beata! Ancora non conosce come ai fanciulli sia provvidenziale la morte e quei vagiti siano presentimento di vita dolorosa.

Questo brano fa parte del terzo inno, in cui si racconta come Minerva cacci via gli uomini immeritevoli dei doni di Giove e, dopo essersi schierata con gli eserciti portatori di valori di giustizia, si rifugi in un’isola per tessere un velo.

Potremmo leggere questa parte come una proiezione dell’ultimo periodo foscoliano:

  • il ritirarsi di Minerva in un isola sembra rimandare sia alla sua nascita, quanto all’esilio in cui egli è costretto a vivere;
  • l’essersi dapprima schierata con gli eserciti, può alludere all’impegno politico di Foscolo;
  • Il tessere il velo, invece, al raggiungimento definitivo verso la poesia, ultimo approdo cui rifugiarsi contro la delusione della storia.

LA CULTURA DELL’ETA’ NAPOLEONICA

cartina 1812.JPGL’Europa napoleonica

Situata tra l’età dell’esperienza napoleonica e il 1815, quando, con il congresso di Vienna viene “ripristinato” l’ancient regime, la cultura di quel periodo testimonia a livello europeo le contraddizioni tra ansia di libertà e sua negazione, che proprio il generale corso aveva prodotto.

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Ingres: Napoleone imperatore

Spenti infatti gli echi rivoluzionari, Napoleone era apparso a tutti come colui che avrebbe portato le istanze libertarie nell’intera Europa: il triennio giacobino italiano (1796/1799), le guerre vittoriose contro le varie coalizioni dell’Europa continentale, la trasformazione dapprima come console (1802), poi come imperatore (1804), avevano all’inizio scaldato i cuori europei, vedendo nelle armate francesi l’avanguardia delle istanze rivoluzionarie, per poi subito spegnerle, vivendo la delusione della scoperta della natura dispotica di Napoleone e la ripresa delle forze reazionarie dopo la sconfitta definitiva della Francia a Walerloo (1815). Ma se fu proprio lo stesso a dettare, oltre l’agenda politica europea, la cifra culturale e quindi stilistica entro cui disegnare la sua avventura e tale scelta cadde nel neoclassicismo, per meglio dire un nuovo classicismo entro le cui forme classiche s’inserissero realtà contemporanee, sarà il suo acerrimo nemico, cioé la Prussia a elaborare una nuova sensibilità a cui diamo il nome di preromanticismo.

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David: Giuramento degli Orazi

Napoleone, primo protagonista della nuova Europa, padrone di Francia senza alcuna tradizione dinastica, aveva bisogno di una forma “pubblicitaria” che ne legittimasse il potere. Ecco allora i pittori Jean-Auguste-Dominique Ingres e Jacques-Louis David, dipingerlo in atteggiamenti tipici della storia romana.
D’altra parte l’innamoramento del classico aveva origini lontane, che si possono datare già tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento contro l’estetica barocca ed il vezzoso rococò: la stessa rivoluzione francese aveva esaltato le virtutes e i mores della Roma repubblicana. A ciò si era aggiunta la straordinaria scoperta archeologica di Ercolano e Pompei  tra il 1740 e il 1766 che aveva suscitato entusiasmi nell’intellighenzia europea ed un gusto per l’archeologico e la cultura classica, nonché la scoperta di lettura di palinsesti attraverso reagenti chimici: certo l’estetica classica forniva un’incredibile schermo per la realtà presente, rifugio entro cui vagheggiare un’idea d’immutabilità e perfezione; costituiva inoltre un motivo per esaltare il presente potendosene servire sia nei momenti rivoluzionari (il periodo della repubblica), sia in quelli imperiali (l’età Augustea). Ma tale concezione non era lontana nemmeno nel cosiddetto preromanticismo: l’età antica, infatti, poteva esser vissuta come vagheggiamento di un’età perduta per sempre, vivendo la sua armonia con nostalgia e struggimento. 

Già nella seconda metà del Settecento era diventato fondamentale per gli intellettuali europei venire in Italia ed in Grecia ad osservare le bellezze archeologiche e a trovare ispirazione nell’osservazione di esse. E saranno, tra gli europei, i tedeschi a formulare le linee teoriche della nuova estetica “neoclassica”:

Johann_Winckelmann_1.jpgJohann  Joachim Winckelmann:

JOHANN JOACHIM WINCKELMANN:
LA “QUIETA GRANDEZZA” DEL LAOCOONTE

Infine, la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Così come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata. Quest’anima, nonostante le più atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoonte, e non nel volto solo. Il dolore che si mostra in ogni muscolo e in ogni tendine del corpo e che al solo guardare il ventre convulsamente contratto, senza badare né al viso né ad altre parti, quasi crediamo di sentire in noi stessi, questo dolore, dico, non si esprime affatto con segni di rabbia nel volto o nell’atteggiamento. Il Laocoonte non  grida orribilmente come nel canto di Virgilio: il modo con cui la bocca è aperta, non lo permette; piuttosto ne può uscire un sospiro angoscioso e oppresso come ce lo descriva Sadoleto. Il dolore del corpo e la grandezza dell’anima sono distribuiti con eguale misura per tutto il corpo e sembrano tenersi in equilibrio. Laocoonte soffre ma soffre come il Filottete di Sofocle: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo sopportare il dolore come questo uomo sublime lo sopporta. L’espressione di un’anima così elevata passa di molto le forme della bella natura: l’artista dovette sentire nel suo intimo la potenza spirituale che egli trasmise nel suo marmo.  

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Copia romana del Laocoonte

Il testo di Winckelmann ci conduce ad una duplice considerazione:

  • La connessione tra giudizio estetico e giudizio etico: l’atteggiamento di Laocoonte e dei suoi figli non fanno trasparire una lacerazione interiore, nonostante la situazione; essi, attraverso l’espressione diventano per noi exemplum morale, danno a noi la forza di una sopportazione interiore quale traspare nella perfezione marmorea;
  • L’arte non deve avere più un atteggiamento mimetico verso la natura: deve tendere verso una bellezza estetica e ideale che la natura non possiede.

In Italia la personalità più rappresentativa del neoclassicismo, ad eccezione del Foscolo, è quella di Vincenzo Monti.

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Vincenzo Monti

Nato nel 1754 ad Alfonsine in Romagna, studiò a Ferrara e sin da giovane dimostrò un’ottima capacità verseggiatrice. Nel 1778 è a Roma, dove diventa segretario di un nipote del papa di Pio VI sino al 1797. E’ qui che, assimilando il giudizio negativo della chiesa sulla Rivoluzione Francese, dà alle stampe la Bassvilliana (1793), dive immagina che l’ambasciatore francese a Napoli, Ugo di Basville, ucciso a Roma, sorvoli insieme ad un angelo la Francia, osservando gli orrori della rivoluzione. Abbandonata Roma, si trasferisce a Milano, conquistata da Napoleone l’anno precedente (1796). Qui, capovolgendo ideologia politica, pubblicò l’Inno per l’anniversario del supplizio di Luigi XVI (1799). Alla caduta della Repubblica Cisalpina fugge in Francia, per ritornare a Milano a seguito dell’Imperatore francese dove ottenne incarichi onorevoli quali l’insegnamento all’Università di Pavia. Alla fine dell’avventura napoleonica, con il ritorno degli Austriaci nella capitale lombarda, il nostro, visto l’atteggiamento conciliante del nuovo governo con gli intellettuali, cominciò a cantare i fasti del nuovo regime, ma l’ultimo periodo della sua vita fu funestato dalle critiche letterarie mosse per lo più dalle teorie romantiche che già cominciavano a circolare. Muore nel 1828.

La sua poesia più nota è del 1874:

ODE AL SIGNOR DI MONTGOLFIER

Quando Giason dal Pelio
spinse nel mar gli abeti,
e primo corse a fendere
co’ remi il seno a Teti,

su l’alta poppa intrepido
col fior del sangue acheo
vide la Grecia ascendere
il giovinetto Orfeo.

Stendea le dita eburnee
su la materna lira;
e al tracio suon chetavasi
de’ venti il fischio e l’ira.

Meravigliando accorsero
di Doride le figlie;
Nettuno ai verdi alipedi
lasciò cader le briglie.

Cantava il Vate odrisio
d’Argo la gloria intanto,
e dolce errar sentivasi
su l’alme greche il canto.

O della Senna, ascoltami,
novello Tifi invitto:
vinse i portenti argolici
l’aereo tuo tragitto.

Tentar del mare i vortici
forse è sì gran pensiero,
come occupar de’ fulmini
l’invïolato impero?

Deh! perchè al nostro secolo
non diè propizio il Fato
d’un altro Orfeo la cetera,
se Montgolfier n’ha dato?

Maggior del prode Esonide
surse di Gallia il figlio.
Applaudi, Europa attonita,
al volator naviglio.

Non mai Natura, all’ordine
delle sue leggi intesa,
dalla potenza chimica
soffrì più bella offesa.

Mirabil arte, ond’alzasi
di Sthallio e Black la fama,
pèra lo stolto cinico
che frenesia ti chiama.

De’ corpi entro le viscere
tu l’acre sguardo avventi,
e invan celarsi tentano
gl’indocili elementi.

Dalle tenaci tenebre
la verità traesti,
e delle rauche ipotesi
tregua al furor ponesti.

Brillò Sofia più fulgida
del tuo splendor vestita,
e le sorgenti apparvero,
onde il creato ha vita.

L’igneo terribil aere,
che dentro il suol profondo
pasce i tremuoti, e i cardini
fa vacillar del mondo,

reso innocente or vedilo
da’ marzii corpi uscire,
e già domato ed utile
al domator servire.

Per lui del pondo immemore,
mirabil cosa! in alto
va la materia, e insolito
porta alle nubi assalto.

Il gran prodigio immobili
i riguardanti lassa,
e di terrore un palpito
in ogni cor trapassa.

Tace la terra, e suonano
del ciel le vie deserte:
stan mille volti pallidi,
e mille bocche aperte.

Sorge il diletto e l’estasi
in mezzo allo spavento,
e i piè mal fermi agognano
ir dietro al guardo attento.

Pace e silenzio, o turbini:
deh! non vi prenda sdegno
se umane salme varcano
delle tempeste il regno.

Rattien la neve, o Borea,
che giù dal crin ti cola:
l’etra sereno e libero
cedi a Robert che vola.

Non egli vien d’Orizia
a insidïar le voglie:
costa rimorsi e lacrime
tentar d’un dio la moglie.

Mise Tesèo nei talami
dell’atro Dite il piede:
punillo il Fato, e in Erebo
fra ceppi eterni or siede.

Ma già di Francia il Dedalo
nel mar dell’aure è lunge:
lieve lo porta zeffiro,
e l’occhio appena il giunge.

Fosco di là profondasi
il suol fuggente ai lumi,
e come larve appaiono
città, foreste e fiumi.

Certo la vista orribile
l’alme agghiacciar dovría;
ma di Robert nell’anima
chiusa è al terror la via.

E già l’audace esempio
i più ritrosi acquista;
già cento globi ascendono
del cielo alla conquista.

Umano ardir, pacifica
filosofia sicura,
qual forza mai, qual limite
il tuo poter misura?

Rapisti al ciel le folgori,
che debellate innante
con tronche ali ti caddero,
e ti lambîr le piante.

Frenò guidato il calcolo
dal tuo pensiero ardito
degli astri il moto e l’orbite,
l’Olimpo e l’infinito.

Svelaro il volto incognito
le più rimote stelle,
ed appressar le timide
lor vergini fiammelle.

Del sole i rai dividere,
pesar quest’aria osasti:
la terra, il foco, il pelago,
le fere e l’uom domasti.

Oggi a calcar le nuvole
giunse la tua virtute,
e di natura stettero
le leggi inerti e mute.

Che più ti resta? Infrangere
anche alla morte il telo,
e della vita il nettare
libar con Giove in cielo.

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Illustrazione dell’aerostato inventato dai fratelli Montgolfier

Quando Giasone spinse nel mare le navi e per primo solcò con i remi il mare // i Greci videro salire intrepido sull’alta poppa della nave il giovane Orfeo, insieme col fior fiore degli eroi achei. // Percorreva con dita bianchissime la lira donatagli dalla madre, e al suono si placavano il fischio e la violenza tempestosa dei venti. // Meravigliandosi accorsero le Nereidi, lo stesso Nettuno (per la meraviglia) lasciò cadere le briglie dei verdi cavalli alati. // Intanto il poeta della Tracia (Orfeo) cantava la gloria di Argo, la nave degli Argonauti, e il suo canto si sentiva aleggiare sopra le anime greche. // O nuovo, invincibile nuovo Tifi (nocchiero della nave di Giasone) il tuo viaggio aereo ha vinto la straordinarie imprese degli Argolici. / Solcare il mare tempestoso è forse impresa così grande quanto conquistare il cielo, dominio inviolato dei fulmini? // Ahimé! perché il destino favorevole non ha dato la cetra ad un altro Ordeo, dal momento che ci ha dato il signor Montgolfier? // Più grande di Giasone, sorge il figlio di Francia. Applaudi Europa attonita alla nave volante (aerostato). // Giammai la natura, attenta a far rispettare le sue leggi, soffrì la più bella offesa dall’idrogeno. // Arte meravigliosa (la chimica) per cui s’innalza la fama di Sthal e Black (famosi chimici), muoia l’incredulo che ti chiama follia. // Tu chimica fai penetrare lo sguardo acuto dentro i corpi, ed inutilmente cercano di nascondersi gli elementi che oppongono resistenza. // Dalle oscure tenebre traesti la verità e ponesti fine alle aspre ed interminabili ipotesi scientifiche. // Brillò la Sapienza rivestita del tuo splendore ed apparvero le sorgenti da cui ha origine il creato. // L’idrogeno , terribile gas infiammabile, che nel profondo della terra alimenta i terremoti e facendo vacillare i fondamenti del mondo, // vedilo ora reso innocuo, uscire dal ferro usato per le armi di Marte, è già domato ed utile servire a colui che lo ha domato. // Attraverso lui, la materia dimentica del peso, mirabile cosa!, sale in alto e porta alle nuvole un assalto mai veduto prima. // Lo straordinario prodigio lascia immobili coloro che lo guardano, e un battito di paura trapassa ogni cuore. // La terra tace, risuonano (delle voci di quelli che salgono in pallone) le vie deserte del cielo, stanno mille volti attoniti a riguardare su, stanno mille bocche aperte per la meraviglia. // Nasce un piacere e l’estasi frammisti alla paura, i piedi irrequieti, desiderano andare dietro lo sguardo. // Fate silenzio e offrite la pace, o venti, ah, non vi offendete se corpi umani varcano il cielo. // Trattieni la neve, o Borea, vento freddo del nord,  che ti scende dai capelli, il cielo libero e serene concedi a Robert che vola. // Non viene a insidiare Orizia (sposa di Borea), costa rimorsi e dolore il volere tentare la moglie di un dio. // Teseo mise il piede nel letto nunziale di Plutone re dei morti (tentando di rapire Proserpina): lo punì il fato, rinchiudendolo per l’eternità nel regno dei morti. //  Ma già Robert, Dedalo di Francia, è lontano nel mare celeste, lieve lo sospinge il vento, l’occhio lo segue ormai a fatica. // Da quell’altezza, fuggendo allo sguardo, la terra sembra sprofondare oscura, e come ombre evanescenti appaiono città, foreste e fiumi. // Certamente la vista orribile (della terra vista dall’alto) avrebbe potuto agghiacciare gli animi; ma è chiusa la via al terrore nell’anima di Robert. // E ormai l’audace impresa conquista gli scettici, già cento palloni aerostatici salgono alla conquista del cielo. // Coraggio umano, pacifica e sicura scienza, quale forza, quale limite definisce il tuo potere? // Hai rapito al cielo le folgori (invenzione del parafulmine di Franklin, 1752), che privi di pericolo ti caddero davanti come se avessero le ali troncate, sino ai piedi. // La scoperta della gravitazione universale, guidata dal tuo pensiero audace, misurò il movimento e le orbite dei pianeti, il cielo e l’infinità dello spazio. // Svelarono il volto sconosciuto le più lontane stelle e avvicinarono le loro mai guardate prima luci (grazie al telescopio). // Hai diviso i raggi solari, / hai osato pesare questa stessa aria, hai domato la terra, il fuoco, il mare, gli animali e l’uomo. // Oggi la tua virtù è giunta a calcare le nuvole/ rimasero incapaci e silenziose le leggi della natura. // Cosa più ti resta? Infrangere anche il velo della Morte e bere insieme a Giove il nettare della vita.

bi000278_key_image.jpg  I fratelli Montgolfier

L’ode, composta nel febbraio 1784, prese spunto dal secondo volo aerostatico della storia, avvenuto a Parigi il 1º dicembre 1783. E’ composta da 35 strofe in settenari alternati: il primo ed il terzo sdruccioli, il secondo e quarto piani, mentre lo schema metrico è abcb. E’ un classico esempio di come il neoclassicismo montiano sia scenografico:

  • A livello contenutistico potremo associarla ad una lirica di ascendenza illuministica in cui viene esaltata la scienza;
  • A livello formale emerge un tessuto fortemente classico con riferimenti precisi mitologici e una costruzione ricca di metafore, inversioni, omoteleuti e chi più ne ha più ne metta.

Se dovessimo pertanto analizzare l’ode da un punto di vista letterario potremo dire che essa tuttavia più che un’estetica tardo illuministica, risponde ad una perfetta estetica neoclassica: il protagonista della storia è Orfeo che canta l’impresa di Giasone; quest’ultimo è messo di sottofondo, non appare. Se Orfeo è il cantore dell’impresa del re tessalo, Monti sarà il cantore dell’impresa di Montgolfier. E’ la poesia a dominare, non la scienza, la poesia che si fa interprete della realtà contemporanea. In effetti non vi è in tale ode l’impegno educativo che abbiamo letto in Parini; soltanto un aspetto più che altro scenografico con l’intento, quasi fossimo ancora nel barocco, di stupire, come stupiti sono gli spettatori dell’impresa dei fratelli di Montgolfier.

ALTA LA NOTTE

Alta è la notte, ed in profonda calma 
dorme il mondo sepolto, e in un con esso 
par la procella del mio cor sopita. 
Io balzo fuori delle piume, e guardo; 
e traverso alle nubi, che del vento 
squarcia e sospinge l’iracondo soffio, 
veggo del ciel per gl’interrotti campi 
qua e là deserte scintillar le stelle. 
Oh vaghe stelle! e voi cadrete adunque, 
e verrà tempo che da voi l’Eterno 
ritiri il guardo, e tanti Soli estingua? 
E tu pur anche coll’infranto carro 
rovesciato cadrai, tardo Boote, 
tu degli artici lumi il più gentile? 
Deh, perché mai la fronte or mi discopri, 
e la beata notte mi rimembri, 
che al casto fianco dell’amica assiso 
a’ suoi begli occhi t’insegnai col dito! 
Al chiaror di tue rote ella ridenti 
volgea le luci; ed io per gioia intanto 
a’ suoi ginocchi mi tenea prostrato 
più vago oggetto a contemplar rivolto, 
che d’un tenero cor meglio i sospiri, 
meglio i trasporti meritar sapea. 
Oh rimembranze! oh dolci istanti! io dunque, 
dunque io per sempre v’ho perduti, e vivo? 
e questa è calma di pensier? son questi 
gli addormentati affetti? Ahi, mi deluse 
della notte il silenzio, e della muta 
mesta Natura il tenebroso aspetto! 
Già di nuovo a suonar l’aura comincia 
de’ miei sospiri, ed in più larga vena 
già mi ritorna su le ciglia il pianto.

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La notte è alta e in questa profonda tranquillità dorme il mondo e insieme ad esso sembra placarsi la tempesta del mio cuore. Balzo fuori dal letto e attraverso le nuvole che il vento impetuoso rompe e sospinge, vedo scintillare a tratti le solitarie stelle. Oh belle stelle: verrà il momento in cui i pianeti saranno estinti, non più sostenuti dallo sguardo del Divino? e anche tu, costellazione di Boote (Orsa Maggiore), che ruoti lentamente, cadrai insieme a quella del Grande Carro? Ahi, perchè ora mi mostri l’aspetto e mi ricordi la dolce notte quando, seduto a fianco della casta donna, ti indicai con il dito al suo sguardo. Alla chiarezza delle tue stelle volgeva gli occhi sorridenti; mentre io mi tenevo prostrato ai suoi ginocchi, rivolto in contemplazione di un oggetto più bello che sapeva ricompensare meglio i trasporti e i sospiri di un tenero cuore. Oh ricordi! oh dolci momenti! io dunque vi ho perduti per sempre e nonostante ciò continuo a vivere? E’ questo un calmo pensiero? Sono questi gli affetti placati? Ah, mi ha deluso il silenzio della notte e il tenebroso aspetto della silenziosa e triste natura! Già di nuovo l’aria comincia a risuonare dei miei sospiri e già mi torna sulle ciglia un più abbondante pianto.

La poesia montiana tratta da Pensieri d’amore è una parafrasi delle ultime pagine de I dolori del giovane Werther di Wolfang Goethe. La sua importanza è soprattutto nella suggestione che essa ebbe per la poesia leopardiana che fu capace, con diversa profondità, di prendere espressioni ed inserirle nel suo canto poetico. Ma al di là dell’influenza che il poeta Monti ebbe per la poesia successiva, tale passo indica un certo eclettismo poetico che non riesce a “svelare” un vero e proprio autore, quanto piuttosto un tecnico della poesia che riesce a manipolare suggestioni che giungono dall’Europa.

Insieme e parallela all’esperienza neoclassica, come già detto, si sviluppa una linea di tendenza che in apparenza sembra opporsi ad essa ma che troveremo coesistere in importanti personalità del periodo (come nello stesso Vincenzo Monti). Essa, pur con un termine improprio, viene indicata come preromanticismo: ad essa potremo inserire l’esperienza filosofico/letteraria di Jean Jacques Rousseau, il movimento tedesco dello Sturm und Drang (Impeto e Tempesta), e il nostro Ugo Foscolo.

Per il primo aspetto possiamo indicare come padre di una possibile compenetrazione tra la ragione illuministica e la nuova percezione sentimentale Jean Jacques Rousseau, filosofo svizzero. La sua speculazione può essere semplificata attraverso una critica che egli muove contro la civiltà corruttrice: si tratta cioè di spostare il binomio cultura vs natura verso quest’ultima. Ma per Rousseau privilegiare lo stato di natura contro quello culturale “portava alla valorizzazione del sentire più che dell’intelligenza e della ragione, della spontaneità più che della norma” (Guglielmino). Nel romanzo Giulia o la nuova Eloisa (1761) si narra appunto di un amore contrastato che non può realizzarsi per convenzioni sociali, ma da cui non ci si può allontanare, se non con la morte.

Partiamo da un piccolo passo di questo romanzo che ci illustra emblematicamente come dalle ceneri del pensiero illuminato possa formarsi una nuova sensibilità capace di andare oltre la stretta ragione:

L‘azione si svolge in Svizzera, sulle rive del lago Lemano. Attraverso la corrispondenza tra Julie d’Etanges, il suo precettore Saint Preux e la cugina di Julie, Claire, si delinea la storia di una passione. Saint Preux si è accorto di amare l’allieva e vorrebbe rinunciare all’incarico di precettore: mai infatti il padre di Julie acconsentirà di farle sposare un uomo senza fortuna e senza nobiltà. Ma anche Julie lo ama, invano ammonita dalla saggia Claire. Dopo un tentativo di separazione, Saint Preux si stabilisce a Meillerie, sui monti, di fronte alla cittadina di Julie e i due giovani s’incontrano segretamente. Claire stessa richiama Saint Preux. Un inglese, Lord Bomstom, col quale Saint Preux si è legato di stretta amicizia, cerca di perorare la causa di Julie presso suo padre, la cui razione è però tanta violenta da costringere Saint Preux a partire. Julie, passato qualche tempo, accetta, col consenso di Saint Preux, il marito propostole dal padre, M. de Wolmar, che l’ama da tempo. A Clarens, accanto al marito è serena. Nascono due figli. M. de Wolmar invita Saint Preux a vivere con loro. Dopo una lunga lotta per non soccombere alla passione, Saint Preux parte. Interviene però un incidente: durante una passeggiata il figlio di Julie cade nel lago. La madre si butta nell’acqua, lo salva ma si ammala gravemente. Richiamato da Claire, Saint Preux accorre e, prima di morire, Julie gli chiede di rimanere nella sua casa per occuparsi dell’educazione dei suoi figli.
Jean-Jacques Rousseau: biografia, pensiero e opere | Studenti.it

 

JEAN-JACQUES ROUSSEAU:  SAINT PREUX A MEILLEIRE

Nei violenti trasporti che mi agitano non riesco a star fermo; corro, m’inerpico con ardore, mi slancio negli spogli; percorro a grandi passi tutti i dintorni, e dappertutto trovo nelle cose l’orrore che regna dentro di me. Non c’è più traccia di verde, l’erba è gialla e inaridita, gli alberi spogli, i venti boreali accumulano neve e ghiacci, tutta la natura è morta ai miei occhi, come la speranza in fondo al mio cuore.
Tra le rocce di questo pendio ho scoperto in un rifugio solitario una breve spianata da dove si scorge tutta la felice città che abitate. Figuratevi con che avidità portai gli occhi su quell’amato soggiorno. il primo giorno feci mille sforzi per discernere la vostra casa; ma la grande distanza li rese vani, m’accorsi che l’immaginazione mia illudeva gli occhi affaticati. Corsi dal curato a farmi prestate un telescopio col quale vidi o mi parve di vedere la vostra casa, e da allora passo intere giornate in questo asilo contemplando i muri fortunati che racchiudono la sorgente della mia vita. Nonostante la stagione ci vengo già la mattina e non me ne vado che a notte. Con un fuocherello di foglie e di qualche ramo secco e con il moto riesco a proteggermi dal freddo eccessivo. MI sono così innamorato di questo luogo selvaggio che ci porto persino penna e carta, ora sto scrivendo questa lettera su un macigno che il gelo ha staccato dalla rupe vicina.
Qui o Giulia, il tuo infelice amante gode gli estremi piaceri che forse potrà gustare al mondo. Di qui, attraverso l’aria e muri, ardisce a penetrare segretamente fino alla tua camera. 

Il passo ci rimanda ad una concezione secondo cui la natura viene rivissuta attraverso l’interpretazione di un io: non esiste oggettivamente, ma soggettivamente perché l’io poetico si riflette e trova in essa una comunione e una realizzazione, luogo nel quale conoscersi. Non è un caso che Saint Preux scriva seduto su una pietra guardando la casa dell’amata: lì trova non solo ispirazione, ma una forza quasi primigenia che lo porta a scandagliare se stesso ed il suo sentimento.

La storia del romanzo di Rousseau apre un varco nella cultura europea che, privilegiando il sentimento, mette in luce la difficoltà che esso possa dispiegarsi nella pienezza della sua espressività, ed uno degli aspetti dove questo emerge con più forza è quello dell’impossibilità del rapporto di coppia, vissuto sotto il segno dell’amore e non della convenienza sociale. E’ il tema della nouvelle Eloise (la nuova Eloisa, rivisitazione dell’epistolario dell’amore contrastato tra Abelardo ed Eloisa, appunto), e lo sarà per il romanzo di Goethe, scritto nel periodo della sua gioventù in cui aveva aderito al movimento dello Sturm und Drang, I dolori del giovane Werther:

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Goethe da giovane

Werther anima ardente e appassionata, si innamora di Carlotta, venendo a sapere troppo tardi che essa è già promessa sposa di Alberto, uomo pacato e tranquillo. Questi, pur dubitando dei sentimenti di Werther, lascia che i due si frequentino. Carlotta è via via attratta da Werther, sente di amarlo e si lascia baciare da lui. Incapace di resistere alla passione e disperando di avere Carlotta tutta per sé, Werther finge di dover partire per un breve viaggio e si uccide.   

WERTHER ED ALBERTO

12 agosto

Certamente Alberto è il miglior uomo che esista sotto la volta celeste. Ho avuto ieri con lui una discussione che non dimenticherò. Andai a casa sua per salutarlo, dacché mi è venuta la fantasia di andarmene a cavallo per le montagne, da dove ora ti scrivo, e camminando su e giù per la camera ci caddero sotto gli occhi le sue pistole. «Prestamele per il mio viaggio», gli dissi. «Prendile pure», rispose, «ti prendi la briga di caricarle; io le tengo qui solo pro forma». Ne scelsi una, e lui continuò: «Da quando la mia prudenza mi ha giocato un brutto tiro, non voglio più avere a che fare con quegli aggeggi». Ero curioso di sapere il seguito della storia, e lui proseguì: «Mi trovavo da tre mesi presso un amico, in campagna; avevo un paio di pistole scariche, e facevo sonni tranquilli. Una volta, in un pomeriggio piovoso, ero sfaccendato, e non so come mi saltò in testa che avremmo potuto essere assaliti e le pistole avrebbero potuto esserci necessarie, e che… insomma sai come vanno queste cose. Diedi le armi al servitore per farle pulire e caricare; quello si mise a scherzare con le serve, per spaventarle, e Dio sa come, il colpo partì; dentro la canna c’era ancora la bacchetta che fracassò il pollice della mano destra di una ragazza. Oltre che ad ascoltare gli strilli, dovetti pensare a pagare il chirurgo, e da allora lascio sempre le armi scariche. Mio caro amico, a che serve la prudenza? Non si vede mai il pericolo per intero. Pure…». Ora, tu sai che voglio molto bene ad Alberto, fino però ai suoi pure; non è forse evidente di per sé che ogni regola ammette eccezioni? Ma è così scrupoloso che quando gli sembra di aver detto qualche cosa di troppo azzardato e generico, e non del tutto vero, non la finisce più di definire, modificare, sopprimere o aggiungere, fino a che niente rimane di tutto ciò che ha detto. In questo frangente esagerò la dose… e io finii col non dargli più ascolto, mettendomi a fantasticare: poi con un gesto improvviso mi appoggiai alla fronte la bocca della pistola, al di sopra dell’occhio destro. «Ehi, che cosa ti viene in mente?», esclamò Alberto strappandomi la pistola dalla mano. «Ma è scarica», risposi. «Scarica o no, non è cosa da fare», replicò con impazienza. «Solo al pensare che un uomo possa essere così pazzo da togliersi la vita, mi sento rivoltare…».
«Ma è mai possibile che tutti gli uomini», esclamai, «quando parlano di qualche cosa devono sempre giudicare: è pazza, è savia, è buona, è cattiva? Ma che significato ha tutto ciò? Voi che giudicate, avete prima esaminato attentamente gli inconsci moventi di un’azione? Siete in grado di ricercarne esattamente le cause, e di rendervi conto del perché è avvenuta e del perché doveva avvenire? Se l’aveste fatto, non sareste così pronti nei vostri giudizi!».
«Mi concederai», disse Alberto, «che certe azioni restano degne di biasimo, qualunque sia il motivo che le determina».
Glielo concessi, stringendomi nelle spalle. «Tuttavia», continuai, «vi sono sempre delle eccezioni. È vero che il furto è un delitto; ma l’uomo che ruba per salvare sé e i suoi dal morire di fame, merita pietà o castigo? E chi scaglierà la prima pietra contro il marito che nella sua giusta ira uccide la sua donna infedele e l’indegno seduttore? Oppure contro la fanciulla che in un’ora di ebbrezza cede alle impetuose gioie dell’amore? Perfino le nostre leggi, che pure sono fredde e pedanti, si fanno commuovere e sospendono la punizione!».
«Questa è tutta un’altra questione», replicò Alberto, «perché l’uomo sopraffatto dalla passione perde ogni facoltà di ragionamento ed è da considerare come ubriaco o pazzo».
«O persone ragionevoli!», esclamai sorridendo. «Passione! Ubriacamento! Pazzia! Voi uomini per bene, come rimanete impassibili ed estranei a tutto questo! Rimproverate l’ubriacone, condannate l’insensato, passate loro dinanzi come il sacrificatore, e ringraziate Iddio, come il fariseo, perché non vi ha fatto simili a loro! Più di una volta io mi sono ubriacato, le mie passioni non sono mai tanto lontane dalla follia, ma non mi pento, perché ho imparato, dietro la mia esperienza, a capire che tutti gli uomini fuori del comune che hanno fatto qualcosa di grande, qualcosa di apparentemente impossibile, sono stati in ogni tempo considerati ubriachi o pazzi… Ma anche nella vita d’ogni giorno è intollerabile sentir gridare ogni qualvolta stia per compiersi un’azione libera, nobile e inaspettata: “Quest’uomo è ubriaco, è pazzo”. Vergognatevi, uomini sobri! Vergognatevi, uomini saggi!».
«Ecco di nuovo le tue strane idee!», disse Alberto. «Tu esageri tutte le cose, e questa volta hai senza dubbio torto nel paragonare il suicidio in questione con le grandi imprese, mentre esso può essere considerato nient’altro che una debolezza. Perché è certamente più facile morire che sopportare fermamente una vita penosa».
Ero sul punto di mettere fine alla discussione, perché niente mi esaspera di più che vedere qualcuno controbattermi armato solo di scialbi luoghi comuni, mentre io parlo mettendoci tutto il mio impegno. Tuttavia mi contenni, dal momento che avevo sentito spesso quel tipo di ragionamento e me ne ero altrettanto spesso indignato; risposi perciò piuttosto vivacemente. «Lo chiami una debolezza? Ti prego, non ti lasciare ingannare dall’apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme sotto l’insopportabile giogo di un tiranno, se alla fine si rivolta e spezza le sue catene? O un uomo che nel terrore di vedere la propria casa in preda alle fiamme, sente le sue forze centuplicarsi e solleva agevolmente pesi che a mente calma potrebbe smuovere appena? E uno che nell’ira dell’offesa affronta sei nemici e li vince tutti, vuoi chiamarlo debole? Mio caro, se lo sforzo è la forza, perché l’estremo sforzo dovrebbe essere il suo contrario?». Alberto mi guardò e disse: «Non te la prendere, ma gli esempi che tu adduci non si adattano al caso nostro». «Può darsi», risposi. «Ma è stato spesso osservato che il mio modo di ragionare è a volte alogico. Vediamo dunque se possiamo raffigurarci in un altro modo lo stato d’animo che determina un uomo a disfarsi del fardello dell’esistenza, generalmente gradito. Perché solo quando siamo in grado di comprendere profondamente un sentimento, noi possiamo avere il giusto criterio di parlarne».
«La natura umana», continuai, «ha i suoi limiti; può sopportare gioia, sofferenza o angoscia solo fino a un certo punto, oltre il quale si soccombe. Qui non si tratta di stabilire se uno è debole o forte, ma se è in grado di sopportare la sofferenza che gli è imposta, tanto morale che fisica; e trovo strano definire vile qualcuno perché si è tolto la vita, come troverei inconcepibile chiamare tale chi muore per una febbre maligna».
«Ancora paradossi!», esclamò Alberto.
«Non quanto tu pensi», replicai, «ammetterai che noi chiamiamo mortale la malattia che attacca il nostro organismo in modo tale che le sue forze siano in parte distrutte, e in parte diminuite di attività; sicché la natura non riesce più ad aiutarci, né a riattivare, in alcun modo, il normale corso della vita. Bene, amico mio, applichiamo questo allo spirito. Considera quante impressioni agiscono sull’uomo nella sua limitatezza, quante idee nascono in lui, fino al momento in cui una crescente passione non gli fa perdere ogni limpida facoltà del pensiero, per travolgerlo una volta per tutte. Invano l’uomo distaccato e ragionevole lo considera con compassione, cercando di persuaderlo con ragionamenti. È come il sano che al capezzale di un infermo non può trasfondere in lui la minima parte delle sue forze».
Per Alberto questo ragionamento era troppo generico. Gli rammentai allora di una fanciulla trovata recentemente annegata e gli ripetei la sua storia. «Era una tranquilla creatura, cresciuta nella piccola cerchia delle occupazioni domestiche, nel lavoro scandito giorno dopo giorno, con nessun’altra prospettiva o distrazione che passeggiare a volte la domenica insieme con le sue compagne, nei dintorni della città, abbigliata con ornamenti messi insieme a poco a poco; oppure ballare in occasione delle feste solenni, e chiacchierare a volte con qualche vicina, per ore, vivacemente interessandosi di una lite o di una maldicenza. Improvvisamente la sua ardente giovinezza prova segreti desideri, tentati dalle lusinghe degli uomini. Le sue gioie abituali divengono sempre più insipide, finché alla fine incontra un uomo verso il quale è trascinata senza potersi opporre al sorgente sentimento, e in lui concentra ogni sua speranza; dimentica allora il mondo intero, non sente che lui, non desidera che lui, l’Unico. Non essendo corrotta dai vuoti pensieri di una vanità incostante, vuole legarsi a lui per l’eternità per arrivare a cogliere la felicità che non possiede e godere tutte le gioie a cui aspira. Ripetute promesse coronano le sue speranze, audaci carezze accendono il suo desiderio, dominano completamente la sua anima; è in preda a oscure sensazioni che le fanno presentire tutte le gioie, è esasperata in modo estremo, stende alla fine le braccia per stringere a sé tutto quello che ha desiderato… e il suo amore l’abbandona. Impietrita, preda dell’oscurità, non ha dinanzi nessun avvenire, nessun conforto, nessuna speranza, perché l’ha abbandonata colui nel quale aveva riposto tutta la sua vita. Non vede il vasto mondo che le si stende davanti, né i tanti che potrebbero consolarla di quella perdita; si sente sola, abbandonata da tutti, e cieca, oppressa dall’orribile angoscia del suo cuore, si lascia andare per distruggere le sue pene nella morte che tutto annienta… Vedi, Alberto, questa è la storia di molti esseri! E non ti sembra proprio la stessa cosa della malattia? La natura non trova alcuna via d’uscita dal labirinto delle forze confuse e contrastanti, e l’uomo deve soccombere. Guai a colui che assistendo a simile tragedia può dire: “Che pazza! Se avesse aspettato, se avesse lasciato trascorrere il tempo, la sua disperazione si sarebbe placata, qualcuno sarebbe giunto per consolarla!”. È proprio la stessa cosa che dire: “Che pazzo, è morto di febbre! Se avesse pazientato finché le forze gli fossero tornate, la linfa vitale risanata, il tumulto del suo sangue calmato, oggi sarebbe ancora in vita, e tutto sarebbe andato per il meglio!”».
Alberto, che non trovava appropriato il paragone, mi fece ancora delle obiezioni; e tra l’altro rilevò che io avevo parlato di una semplice fanciulla; ma che lui non riusciva a capire come si potesse scusare un uomo sveglio di mente, e non così limitato, e in grado di avere una più vasta visione del mondo. «Amico mio», esclamai, «l’uomo è uomo, e il po’ di criterio che può avere, ha scarsa importanza quando lo incalza la passione, e si sente spinto ai limiti delle sue forze! Tanto più… Ma ne parleremo un’altra volta», dissi, e presi il cappello. Avevo il cuore gonfio, e ci separammo senza esserci compresi. Come è difficile che gli uomini si comprendano in questo mondo!

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Il suicidio di Werther

Potremo definire questo passo “ragione e sentimento” dove al primo membro inseriremo la figura di Alberto, il razionale, e al secondo Werther; è l’io del giovane che ci dice, attraverso la sua lettura della realtà, come un essere eccezionale non può che essere anti borghese, andare contro le convenzioni che questa classe sociale stava appena edificando. Alberto rappresenta appunto questa idea, il “buon senso”, “la ragione”, questa idea “illuminista” che cerca di cambiare il mondo sulla logica appunto attraverso il “giusto mezzo”; è evidente che per Werther è proprio questa “grettezza” ad uccidere la passionalità, l’alto sentire, che lo distingue e fa sì che egli sia il vero intellettuale, capace cioè di leggere i limiti che proprio “il buon senso” segna, circoscrive in modus vivendi grigio e senza senso. Il Werther è del 1774 e si può dire contemporaneo ad una stessa riflessione che Alfieri aveva svolto nel Sulla tirannide: arrivano ambedue all’esaltazione del suicidio come estrema di libertà, ma se l’astigiano la connota solo agli spiriti eccezionali, Goethe la inserisce anche ad una piccola creatura, che nonostante l’inconsapevolezza culturale della libertà, l’ha cercata in quanto privata dalla passione d’amore.

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James Macpherson

Ma Werther è anche un uomo colto di fine Settecento: la sua passione letteraria ce la conferma in un passo dello stesso libro:

OSSIAN NEL CUORE DI WERTHER

Ossian ha soppiantato Omero nel mio cuore. In che mondo m’introduce questo magnifico poeta! Camminare attraverso la landa, investito da ogni parte dal vento burrascoso che nelle nebbia fluttuanti evoca i fantasmi dei padri in una luce crepuscolare! Udire come viene giù dai monti, nel frastuono del torrente in mezzo al bosco, il flebile lamento degli spiriti nelle loro caverne ed il pianto d’angoscia della fanciulla che si strugge fino a morire presso le quattro pietre coperte di muschio e d’erba che ricoprono il corpo del suo amato, il nobile guerriero caduto! E’ allora che io lo trovo, il bardo grigio che cammina e cerca sulla vasta landa le orme dei suoi padri, e, ahimè, trova le loro tombe, e quindi lamentandosi guarda verso la cara stella del vespero che si nasconde nel mare tumultuoso, e rivivono nell’anima dell’eroe gli antichi tempi quando un raggio benevolo indicava ancora i pericoli che minacciavano i valorosi, e la luna splendeva sopra la loro nave inghirlandata che ritornava dopo la vittoria. 

I canti di Ossian vennero pubblicati dal precettore di scuola James Macpherson, (Scozia, 1736 – 1796). L’autore mise insieme alcuni canti della tradizione gaelica popolare, da lui tradotti, attribuendoli ad un mitico personaggio dell’antichità, Ossian, vissuto nel III secolo d.C. Ad essi aggiunse altri brani di sua invenzione. L’opera ebbe un successo straordinario in tutta Europa, che li considerò autentici: infatti in essi vi erano tutte le istanze che la nuova corrente culturale stava elaborando a partire dalla critica  alla ragione che l’illuminismo aveva imposto.

I° CANTORE

Trista è la notte, tenebrìa s’aduna,
Tingesi il cielo di color di morte:
Qui non si vede nè stella, nè luna,
Che metta il capo fuor dalle sue porte.
Torbido è ‘l lago, e minaccia fortuna,
Odo il vento nel bosco a ruggir forte.
Giù dalla balza va scorrendo il rio
Con roco lamentevol mormorìo.
Su quell’alber colà, sopra quel tufo,
Che copre quella pietra sepolcrale,
Il lungo-urlante ed inamabil gufo
L’aer funesta col canto ferale.
Ve’ ve’:
Fosca forma la piaggia adombra:
Quella è un’ombra:
Striscia, sibila, vola via.
Per questa via
Tosto passar dovrà persona morta:
Quella meteora de’ suoi passi è scorta.
Il can dalla capanna ulula e freme,
Il cervo geme – sul musco del monte,
L’arborea fronte – il vento gli percote;
Spesso ei si scuote – e si ricorca spesso.
Entro d’un fesso – il cavriol s’acquatta,
Tra l’ale appiatta – il francolin la testa.
Teme tempesta – ogni uccello, ogni belva;
Ciascun s’inselva – e sbucar non ardisce;
Solo stridisce – entro una nube ascoso
Gufo odioso;
E la volpe colà da quella pianta
Brulla di fronde
Con orrid’urli a’ suoi strilli risponde.
Palpitante, ansante, tremante
Il peregrin
Va per sterpi, per bronchi, per spine,
Per rovine,
Chè ha smarrito il suo cammin.
Palude di qua,
Dirupi di là,
Teme i sassi, teme le grotte,
Teme l’ombre della notte;
Lungo il ruscello incespicando,
Brancolando
Ei strascina l’incerto suo piè.
Fiaccasi or questa or quella pianta,
Il sasso rotola, il ramo si schianta
L’aride lappole strascica il vento.
Ecco un’ombra, la veggo, la sento;
Trema di tutto, nè so di che.
Notte pregna di nembi e di venti,
Notte gravida d’urli e spaventi!
L’ombre mi volano a fronte e a tergo:
Aprimi, amico, il tuo notturno albergo.

Il falso storico di Macpherson riesce a penetrare profondamente nella mente di un’intera generazione preromantica: Goethe, come si è visto, e tradotto da Melchiorre Cesarotti, Monti e Foscolo per la nostra letteratura; quello che il canto trasmette è completamente virato verso un naturalismo sentimentale capace di toccare corde che la ragione aveva cancellato.

Un paesaggio mitico lo si può ritrovare anche nel passato: le stesse scoperte archeologiche avevano spinto da una parte a riscoprire il gusto dell’antico, dall’altra e considerare l’Ellade come un mondo perduto per sempre, verso cui vagheggiare per poi prendere consapevolezza della decadenza della civiltà contemporanea. 

Ne è un esempio Keats (autore nella cui giovane vita, morì a 26 anni, scrive alcuni capolavori letterari), che, rappresenta il senso di turbamento del presente di contro all’immobilità dell’arte classica è la riaffermazione dell’arte e quindi della bellezza come unica forma per sconfiggere la caducità della vita:

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JOHN KEATS: ODE ON A GRECIAN URN

Thou still unravish’d bride of quietness,
Thou foster-child of silence and slow time,
Sylvan historian, who canst thus express
A flowery tale more sweetly than our rhyme:
What leaf-fring’d legend haunts about thy shape
Of deities or mortals, or of both,
In Tempe or the dales of Arcady?
What men or gods are these? What maidens loth?
What mad pursuit? What struggle to escape?
What pipes and timbrels? What wild ecstasy?

Heard melodies are sweet, but those unheard
Are sweeter; therefore, ye soft pipes, play on;
Not to the sensual ear, but, more endear’d,
Pipe to the spirit ditties of no tone:
Fair youth, beneath the trees, thou canst not leave
Thy song, nor ever can those trees be bare;
Bold Lover, never, never canst thou kiss,
Though winning near the goal yet, do not grieve;
She cannot fade, though thou hast not thy bliss,
For ever wilt thou love, and she be fair!

Ah, happy, happy boughs! that cannot shed
Your leaves, nor ever bid the Spring adieu;
And, happy melodist, unwearied,
For ever piping songs for ever new;
More happy love! more happy, happy love!
For ever warm and still to be enjoy’d,
For ever panting, and for ever young;
All breathing human passion far above,
That leaves a heart high-sorrowful and cloy’d,
A burning forehead, and a parching tongue.

Who are these coming to the sacrifice?
To what green altar, O mysterious priest,
Lead’st thou that heifer lowing at the skies,
And all her silken flanks with garlands drest?
What little town by river or sea shore,
Or mountain-built with peaceful citadel,
Is emptied of this folk, this pious morn?
And, little town, thy streets for evermore
Will silent be; and not a soul to tell
Why thou art desolate, can e’er return.

O Attic shape! Fair attitude! with brede
Of marble men and maidens overwrought,
With forest branches and the trodden weed;
Thou, silent form, dost tease us out of thought
As doth eternity: Cold Pastoral!
When old age shall this generation waste,
Thou shalt remain, in midst of other woe
Than ours, a friend to man, to whom thou say’st,
“Beauty is truth, truth beauty, – that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.

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Roma, cimitero acattolico: tombe di Keats e Severn

Tu, ancora inviolata sposa della quiete, / figlia adottiva del tempo lento e del silenzio, / narratrice silvana, tu che una favola fiorita / racconti, più dolce dei miei versi, / quale intarsiata leggenda di foglie pervade / la tua forma, sono dei o mortali, o entrambi, insieme, a Tempe o in Arcadia? E che uomini sono? Che dei? E le fanciulle ritrose? Qual è la folle ricerca? E la fuga tentata? E i flauti, e i cembali? Quale estasi selvaggia? // Sì, le melodie ascoltate son dolci; ma più dolci / ancora son quelle inascoltate. Su, flauti lievi, / continuate, ma non per l’udito; preziosamente / suonate per lo spirito arie senza suono. / E tu, giovane, bello, non potrai mai finire / il tuo canto sotto quegli alberi che mai saranno spogli; / e tu, amante audace, non potrai mai baciare / lei che ti è così vicino; ma non lamentarti / se la gioia ti sfugge: lei non potrà mai fuggire, / e tu l’amerai per sempre, per sempre così bella. // Ah, rami, rami felici! Non saranno mai sparse / le vostre foglie, e mai diranno addio alla primavera; / e felice anche te, musico mai stanco, / che sempre e sempre nuovi canti avrai; / ma più felice te, amore più felice, / per sempre caldo e ancora da godere, / per sempre ansimante, giovane in eterno. Superiori siete a ogni vivente passione umana / che il cuore addolorato lascia e sazio, / la fronte in fiamme, secca la lingua. // E chi siete voi, che andate al sacrificio? Verso quale verde altare, sacerdote misterioso, conduci la giovenca muggente, i fianchi / morbidi coperti da ghirlande? E quale paese sul mare, o sul fiume, / o inerpicato tra la pace dei monti / ha mai lasciato questa gente in questo sacro mattino? / Silenziose, o paese, le tue strade saranno per sempre, / e mai nessuno tornerà a dire / perché sei stato abbandonato. // Oh, forma attica! Posa leggiadra! con un ricamo / d’uomini e fanciulle nel marmo, coi rami della foresta e le erbe calpestate – tu, forma silenziosa, come l’eternità / tormenti e spezzi la nostra ragione. Fredda pastorale! / Quando l’età avrà devastato questa generazione, / ancora tu ci sarai, eterna, tra nuovi dolori / non più nostri, amica all’uomo, cui dirai “Bellezza è verità, verità bellezza,” – questo solo / sulla terra sapete, ed è quanto basta.

Possiamo dividere l’analisi del testo di Keats in cinque parti:

  • 1 – 14: superiorità dell’immaginazione, suscitata dall’arte rispetto alla realtà;
  • 15 – 43: coincidenza della perfezione con il non accadimento;
  • 44 – 45: impossibilità della ragione di penetrare la bellezza nell’arte;
  • 46 – 48: contrapposizione tra l’eternità della forma e la caducità umana
  • 49 – 50: coincidenza tra etica ed estetica.

Non è un caso, e appunto il testo di Keats ce ne offre piena testimonianza, della nascita di un vero e proprio genere sepolcrale, che vede anche la lirica di Thomas Gray, Elegia scritta in un cimitero di campagna e, per quanto la cultura italiana l’opera foscoliana Dei Sepolcri.

 

VITTORIO ALFIERI

François-Xavier Fabre - Ritratto di Vittorio Alfieri | Opere | Le Gallerie  degli Uffizi

Biografia

Il conte Vittorio Alfieri nasce ad Asti nel 1749, da una delle famiglie più ricche e nobili dello stato piemontese. Il padre muore nello stesso anno, la madre, vedova con già due figli, lo partorirà in seconde nozze; quindi si risposerà per la terza volta con un lontano parente del secondo marito, da cui nacquero altri cinque figli. Il conte Vittorio viene affidato allo zio tutore, Pellegrino Alfieri che ricoprì, tra le altre cose, il ruolo di viceré in Sardegna, dove si spense (le sue ossa sono tumulate all’interno della cattedrale di Cagliari).
Alcuni leggono in queste tortuose vicende familiari (rapporto con i fratellastri, difficoltà relazionali con il patrigno e la madre) lo spirito ribelle ed individualistico, nonché l’ispirazione tragica, del nostro autore.
Dopo esser stato educato per i primi rudimenti da un precettore privato, a nove anni viene mandato, per volontà del tutore, all’Accademia militare di Torino, dove i nobili venivano istruiti nelle scienze e nell’arte cavalleresca, diventando ufficiali. Sono anni che più tardi Alfieri giudicherà negativamente; intanto, in modo autonomo si avvicina ai classici italiani e francesi. Alla morte dello zio Alfieri eredita una notevole fortuna. Uscito portainsegne dall’Accademia militare, nel 1766, ad appena 15 anni, chiede la dispensa al Re, Carlo Emanuele III, per compiere un viaggio in Italia; al ritorno chiede una seconda dispensa per un viaggio in Europa. E’ un periodo di dissolutezze, ma anche di forte sprovincializzazione, in cui l’autore astigiano se da una parte prende atto della chiusura intellettuale del Piemonte, dall’altra radicalizza il suo individualismo e il suo senso di inappagata insoddisfazione.
Alla fine di questo secondo viaggio torna in Piemonte, dalla sorella Giulia, dove legge i contemporanei autori francesi, ma soprattutto Le vite parallele di Plutarco, che lo esalteranno. Nel 1769 inizia un terzo periodo di viaggi per l’Europa che lo porteranno fino in Russia; durante questo viaggio vivrà un’appassionante storia d’amore, che finirà con un duello.
Nel 1772 si stabilisce a Torino, ponendo fine ad una vita errabonda in cui si mescolava la sua irrequietezza e la sua insoddisfazione. Si circonda di amici intellettuali e comincia a scrivere qualche prosa in francese.
Mentre assiste un’amante ammalata, quasi casualmente, scrive in italiano (di cui, però, non ha gran possesso) una tragedia, Cleopatra, che viene rappresentata a Torino con grande successo. Ciò lo spingerà a voler diventare tragediografo, figura che, nella letteratura italiana, non aveva mai avuto esponenti di spicco, e per far ciò studierà con grande impegno e sforzo i classici italiani e latini, che dovranno offrirgli quella base linguistica e retorica che lui, parlante francese, non possedeva.
Si reca in Toscana, dapprima a Firenze e poi a Siena, dove viene introdotto nei salotti letterari in cui si discute di illuminismo. Da questa esperienza nascerà il trattato Della tirannide (1777). In quello stesso anno incontra la contessa D’Albany (moglie del pretendente alla corona inglese, Carlo Edoardo Stuart) che diventerà la sua compagna per la vita.
Dona tutti i beni ereditati alla sorella Giulia, cosa che gli permette di pubblicare senza censura (infatti per lui, nobile piemontese, non era concesso divulgare opere senza l’approvazione regale). Si trasferisce quindi a Firenze, nel 1778, dove scrive nuove tragedie e il trattato Del principe e delle lettere.
Si reca dal 1783 al 1785 a Roma, dove studia con agio e passione e dove, intanto, si va affermando il gusto neoclassico. Scoperto l’amore “adultero” con la D’Albany, deve abbandonare la città eterna e inizia un pellegrinaggio culturale che lo porterà a visitare le tombe dei grandi, Ravenna, Arquà, e a Milano, dove incontrerà Parini.
Quindi si reca di nuovo in Francia dove si ricongiungerà con la contessa d’Albany, ormai separata dal marito. Assiste a Parigi allo scoppio della Rivoluzione: ne è entusiasta. Ma nel 1792, per la piega che i fatti stanno prendendo, è costretto a fuggire, maturando una forte critica verso gli esiti rivoluzionari.
Dopo queste esperienze il poeta si rifugia un’altra volta a Firenze, sempre più chiuso e disilluso, maturando una sfiducia nella storia che lo condurrà su posizioni conservatrici. Nella città fiorentina si dedicherà allo studio della lingua greca, non cessando tuttavia né a scrivere né a correggere le sue opere.
Muore all’improvviso nel 1803; verrà seppellito a Santa Croce e la contessa D’Albany farà erigere in suo onore un sepolcro marmoreo, opera di Antonio Canova.   

Antonio Canova - Tomba monumentale di Vittorio Alfieri

Antonio Canova: Monumento marmoreo per Vittorio Alfieri

Personalità e poetica

Non si può comprendere appieno la personalità, e di conseguenza la poetica, di Vittorio Alfieri, se non la si inserisce nell’ambiente bigotto e retrivo dello Stato Sabaudo, e ancor più in un centro periferico come Asti. Qui egli maturò un forte senso di libertà, accompagnato da una volontà un po’ narcisistica d’affermazione. Bisogna tuttavia sottolineare come ogni forma ribellistica contro il potere non si traduce mai in lui in un vero e proprio progetto politico, ma si limita ad essere un’idea astratta, vaga, cui tende con tutte le forze, ma che mai potrebbe tradursi in realtà. Questo bisogno di libertà e di autoaffermazione trova appagamento, durante la sua gioventù nei numerosi viaggi, che mai lo soddisfano e dove, ogni qual volta si presenta l’occasione, si scaglia contro ogni forma di servilismo. Tali atteggiamenti possono anche essere letti sotto l’influenza illuministica: ma il suo carattere passionale ed irruento ne fanno una personalità certamente preromantica. In altre parole se l’opposizione che egli prova per i regimi assolutistici possono legarsi ad alcuni filosofi dei lumi, lo allontana da essi la sfiducia verso la “ragione” ottimisticamente intesa ed verso ogni cambiamento: perciò Alfieri è lontanissimo dalle idee democratiche ed illuministiche. Egli predilige le azioni eroiche compiute dai grandi dell’età classica (si veda, a tal proposito, l’adorazione che egli nutre per il libro di Plutarco). E’ evidente che tale personalità produca un’opera letteraria caratterizzata da un forte autobiografismo. Opere come la Vita, le Rime nonché alcune sue tragedie rimandano a questa centralità dell’io;  e tale centralità si realizza, nei personaggi tragici, in un’ansia di libertà, in una solitudine esasperata e nell’insofferenza verso ogni limite.

Un altro elemento caratterizzante la poetica dell’Alfieri è il classicismo; se esso nell’Arcadia rappresentava una ricerca di eleganza e nell’Illuminismo una forma di razionalità, in lui diventa vagheggiamento delle grandi personalità eroiche del passato, a cui Alfieri aspirava.

I trattati

I principali trattati alfieriani sono due: Della tirannide e Del principe e delle lettere.

Della tirannide è un testo diviso in due libri in cui sono teorizzati i principi fondamentali della tirannide: nel primo libro si affrontano i vari modi in cui si struttura una tirannide, che si impone in qualsiasi forma laddove l’uomo vive un’imposizione dogmatica; nel secondo libro si affronta il modo in cui opporsi a tale situazione; Alfieri sceglie opzioni estreme: l’isolamento sdegnoso, l’omicidio o il suicidio.

COME SI POSSA VIVERE NELLA TIRANNIDE

Dico per tanto che allorché l’uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno, vi si trova capace di sentirne tutto il peso, ma per la mancanza di proprie ed altrui forze, vi si trova ad un tempo stesso incapace di scuoterlo, dée allora un tal uomo, per primo fondamentale precetto star sempre lontano dal tiranno, da’ suoi satelliti, dagli infami suoi onori, dalle inique sue cariche, dai vizi, lusinghe, e corruzioni sue, dalle mura, terreno, ed aria perfino, che egli  respira, e che lo circondano. In questa sola severa total lontananza, non che troppo, non mai esagerata abbastanza: in questa sola lontananza ricerchi un tal uomo non tanto la propria sicurezza, quanto la intera stima di se medesimo, e la purità della propria fama; entrambe sempre, o più o meno, contaminate, allorché l’uomo in qualunque modo si avvicina alla pestilenziale atmosfera delle corti.

Affermo dunque che quando un uomo che vive in uno stato tirannico e, mediante la propria capacità intellettiva ne sente tutto il peso, ma per mancanza di forze proprie e altrui non può sconfiggerlo, deve allora un tal uomo, come prima cosa, star sempre lontano dal tiranno, dai suoi ministri, dagli infamanti onori che ci elargisce, dalle ingiuste cariche che ci offre, dai vizi, dalle lusinghe e dalle sue corruzioni, dalla casa, dal terreno e persino dall’aria che respira e gli sta intorno. Soltanto in questa totale lontananza non mai esagerata, in questa sola lontananza un tal uomo può ricercare non la propria sicurezza, ma la piena stima di sé e la purezza della propria fama; entrambe in qualche modo contaminate, allorché si ci avvicini alla corrotta atmosfera delle corti.

E’ chiaro nel breve brano qui proposto che l’atteggiamento alfieriano verso la tirannide, seppur mediato dall’ideologia illuminista, assuma caratteristiche “apolitiche”: manca cioè un progetto, un qualcosa che possa mutare la situazione o migliorarla (come facevano gli intellettuali lombardi con Maria Teresa); in lui c’è solo uno sdegnoso allontanamento, un contrapporre la sua libertà assoluta con quella, altrettanto assoluta del tiranno.

Tale concetto viene ribadito anche all’inizio del suo secondo trattato, pubblicato nel 1786, Del principe e delle lettere. Con quest’opera Alfieri indaga sul rapporto fra letteratura e potere. Essa è strutturata in tre libri: nel primo si analizza l’opportunità da parte del principe di proteggere le lettere, negandola decisamente; il secondo libro pone la questione in modo inverso, invitando gli scrittori a recidere ogni rapporto con l’assolutismo; nel terzo, dopo una rassegna di grandi autori del passato “liberi”, afferma che solo chi è libero da ogni preoccupazione economica può dedicarsi alla letteratura, in quanto “libero” da qualsiasi compromesso. 

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COSA SIANO LE LETTERE

Ma, che sono elle le vere lettere? Difficilissimo è il ben definirle: ma per certo elle sono una cosa contraria affatto alla indole, ingegno, capacità, occupazioni, e desiderj del principe: e in fatti nessun principe non fu mai vero letterato, né lo può essere. Or dunque, come può egli ragionevolmente proteggere, e favorire una sì alta cosa, di cui, per non esserne egli capace, difficilissimamente può farsi egli giudice? E se giudice competente non ne può essere, come mai rimuneratore illuminato può farsene? per giudizio d’altri. E di chi? di chi gli sta intorno. E chi gli sta intorno? Se le lettere sono l’arte d’insegnar dilettando, e di commuovere, coltivare, e bene indirizzare gli umani affetti; come mai il toccare ben addentro le vere passioni, lo sviluppare il cuore dell’uomo, l’indurlo al bene, il distornarlo dal male, l’ingrandir le sue idee, il riempirlo di nobile ed utile entusiasmo, l’inspirargli un bollente amore di gloria verace, il fargli conoscere i suoi sacri diritti; e mille e mille altre cose, che tutte pur sono di ragione delle sane e vere lettere; come mai potranno elle un tale effetto operare sotto gli auspicj di un principe? e come le incoraggirà a produrlo, il principe stesso? L’indole predominante nelle opere d’ingegno nate nel principato, dovrà dunque necessariamente essere assai più la eleganza del dire, che non la sublimità e forza del pensare. Quindi, le verità importanti, timidamente accennate appena qua e là, e velate anche molto, infra le adulazioni e l’errore vi appariranno quasi naufraghe. Quindi è, che i sommi letterati (la di cui grandezza io misuro soltanto dal maggior utile che arrecassero agli uomini) non sono stati mai pianta di principato. La libertà li fa nascere, l’indipendenza gli educa, il non temer li fa grandi; e il non essere mai stati protetti, rende i loro scritti poi utili alla più lontana posterità, e cara e venerata la loro memoria.

In che consistono le vere lettere? E’ difficilissimo definirle con esattezza: ma sicuramente sono una cosa per niente confacente all’indole, capacità, occupazioni e desideri del principe: infatti nessun principe è mai stato un vero letterato, né lo può essere. Dunque, come può egli proteggere ragionevolmente e favorire una così nobile attività, di cui, non essendo esperto, assai difficilmente può giudicarla? E se non può essere giudice competente, come può apprezzarne il valore? Per giudizio dei suoi collaboratori. E di quale? Di chi gli sta intorno. E chi gli sta intorno? Se le lettere sono l’arte che insegna attraverso il diletto, e fanno commuovere, educare ed indirizzare le indoli degli uomini verso il bene, come mai il toccare intensamente le passioni, lo sviluppare il cuore dell’uomo, l’indurlo al bene, l’allontanarlo dal male, l’amplificare le sue idee, il riempirlo d’amore e d’entusiasmo, l’ispirargli un caldo amore di vera gloria, il fargli conoscere i suoi sacri diritti e mille e mille altre cose, che tutte, ben a ragione, appartengono alle sane e vere opere letterarie, come potranno esse operare un tale effetto sotto i voleri di un principe? E come incoraggerà gli scrittori a produrle? Il principe stesso? L’indole predominante nelle opere nate sotto un principe dovrà necessariamente essere molto di più l’eleganza del dettato piuttosto che la profondità e la forza del pensiero. Quindi le verità importanti, accennate qua e là, e anche accuratamente nascoste, tra le adulazioni e le divagazioni, spariscono. Da ciò consegue che i grandi letterati (la cui grandezza io misuro nella maggiore utilità che hanno recato agli uomini) non sono mai stati al servizio di un principe. Li fa nascere la libertà, li educa la loro indipendenza, il non aver paura li rende grandi; e il non aver mai avuto protezione, rende i loro scritti poi utili alla posterità, e cara e venerata la loro memoria.

Questa pagina è importante perché, oltre a riflettere alcune posizioni tipicamente illuministe (l’arte deve educare dilettando: motto d’origine oraziano, ripreso dai philosophes) presenta anche alcuni spunti che saranno alla base del pensiero neoclassico/preromantico foscoliano; si pensi al “il toccare ben addentro le passioni” e “l’inspirargli un bollente amore di gloria verace”: passione/gloria termini fortemente connotati in senso proiettivo verso un qualcosa che si pone ben al di là della ragione illuminata. D’altra parte per Alfieri non è l’educazione vera e propria a far nascere la possibilità di diventare letterato, ma un “impulso naturale”:

DELL’IMPULSO NATURALE

E’ questo impulso un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova mai pace né loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria; un reputar sempre nulla il già fatto e tutto il da farsi, senza però mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non esser nulla. Più laudevole e maggiore debb’essere questo impulso, in proporzione della grandezza del fine che egli si propone, e della grandezza dei mezzi che adopera per conseguirlo. Ma da questo immoderato  amore di giovare a se stesso con la gloria, non dee né può mai andarne disgiunto l’amore dell’utile altrui. Da questo utile, ampiamente provato coi fatti, si aspetta poi in premio quella testimonianza della propria superiorità, che spontaneamente uscendo dalle bocche degli uomini liberi, sola costituisce la vera fama e la gloria di chi n’è l’oggetto. (…) Questo divino impulso è una massima cosa, senza la quale nessun uomo può farsi sommo davvero. Ma non perciò tutti quelli che l’hanno (e son sempre pochissimi) riescono a farsi sommi davvero: che pur troppo questo divino impulso può essere dai tempi, dall’avversa fortuna, e da mille altre ragioni indebolito, deviato, trasfigurato, ed anche spento del tutto. Quest’impulso è una sovrana cosa, cui niuna potenza può dare, ma ogni potenza bensì lo può togliere. La libertà lo coltiva, lo ingrandisce, e moltiplica; il servaggio e il timor lo fan muto.

E’ questo impulso naturale un ribollire del cuore e della mente, per cui non si trova mai pace e riposo; è una voglia insaziabile di ben operare e di gloria; un pensare che ciò che si è fatto è nulla e che bisogna fare tutto, senza mai allontanarsi dal proponimento, è una incendiata e risoluta voglia e necessità o di esser primo fra i più grandi o non esser nulla. Maggiormente lodevole e più grande dev’essere questo impulso rispetto alla grandezza del fine che si propone e dei mezzi atti ad attuarlo. Ma da questo smoderato amore di giovare a se stesso per raggiungere la gloria non dev’essere mai disgiunto quello di esser utile agli altri. Di questo utile, laddove esso sia comprovato dai fatti, si ci aspetterà, come premio, la testimonianza della propria superiorità, che sarà pronunciata da uomini liberi e che sola costituisce la vera fama e la vera gloria di colui di cui si parla. Questo divino impulso è assoluto, senza il quale non si può diventare grandissimi. Ma non per questo tutti coloro che lo posseggono (e sono pochissimi) riescono a farsi grandi: esso può, dall’epoca in cui si vive, da un’avversa sorte, e da mille altri motivi, essere indebolito, deviato, trasfigurato e spento del tutto. Quest’impulso è cosa meravigliosamente grande che nessun potere può dare, ma che può, al contrario,  togliere. Lo coltiva, lo amplifica, lo ingrandisce la libertà; l’obbedienza e la paura lo ammutoliscono.

Ciò che qui descrive Alfieri (parlerà, infatti di questo “divino impulso” nei poeti) è il suo modo di porsi di fronte all’impegno letterario. Egli concepisce quest’ultimo come un’infinita tensione verso la gloria, che si ottiene soltanto nell’assoluta libertà. Il suo discorso, infatti è sempre dilemmatico: da una parte istituisce un rapporto fra “divino impulso”, l’arte e la libertà a cui si contrappone il “servaggio” e quindi l’impossibilità dell’arte e la negazione dell’“impulso”. Per questo l’arte per Alfieri è aristocratica, cioè fatta dai migliori, i quali, per essere tali, devono essere necessariamente liberi.

Palazzo Alfieri: Visite, Biglietti e Orari di Palazzo Alfieri ad Asti

Interno casa Alfieri

Rime

Le Rime alfieriane vengono composte in un lungo periodo che va dal 1776 al 1789. In esse si trovano sonetti, canzoni, odi e i principali generi della poesia classica, così come il rinnovato classicismo arcadico aveva promosso. Esse possono dividersi soprattutto in due nuclei poetici: nel primo il nostro tenta di armonizzare l’eleganza arcade con la sua forte passionalità, nel secondo emerge invece un forte senso di libertà, accompagnato tuttavia da una vena profondamente malinconica.

PRESSO LA FOCE DELL’ARNO

Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva
al mar là dove il tosco fiume ha foce,
con Fido il mio destrier pian pian men giva;
e muggìan l’onde irate in suon feroce.

Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva
il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)
d’alta malinconia; ma grata, e priva
di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.

Dolce oblio di mie pene e di me stesso
nella pacata fantasia piovea;
e senza affanno sospirava io spesso:

quella, ch’io sempre bramo, anco parea
cavalcando venirne a me dappresso…
Nullo error mai felice al par mi fea.

Solo, fra i miei pensieri tristi, in riva, là dove il fiume toscano (Arno) sfocia, con Fido, il mio cavallo, piano piano passeggiavo; e risuonavano le onde agi-tate con violento fragore. Quel lido solitario e il grande fragore del mare mi riempivano il cuore (che è arso da una passione inestinguibile) di profonda malinconia, ma dolce, e priva di quel suo piangere, che solitamente nuoce. Scendeva nella mia serena fantasia un dolce l’oblio delle mie pene e di me stesso; e senza affanno sospiravo spesso: quella, che ho sempre desiderato, cavalcando ancora sembrava venire verso di me… nessuna illusione mi rese mai tanto felice.

L’incipit del brano si richiama al famoso Solo e pensoso di Petrarca, a richiamare l’estremo rispetto che l’autore astigiano nutriva verso la tradizione italiana; Tuttavia emerge, tipica della personalità alfieriana, l’immagine che egli ci vuol consegnare del poeta solitario e “sdegnoso”: basta osservare con attenzione la seconda strofa, già tipicamente preromanica, dove il paesaggio assume le caratteristiche dell’io poetico: “il gran fragor”  che gli riempie il cuore e lo placa.

IN FUGA DAL “SECOL VILE”

Tacito orror di solitaria selva
di sì dolce tristezza il cor mi bea,
che in essa al par di me non si ricrea
tra’ figli suoi nessuna orrida belva.

E quanto addentro più il mio piè s’inselva,
tanto più calma e gioja in me si crea;
onde membrando com’io là godea,
spesso mia mente poscia si rinselva.

Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso
mende non vegga, e più che in altri assai;
né ch’io mi creda al buon sentier più appresso:

ma, non mi piacque il vil mio secol mai:
e dal pesante regal giogo oppresso,
sol nei deserti tacciono i miei guai.

Un silenzioso orrore di una selva solitaria mi allieta il cuore di una tristezza così dolce che nessun orribile belva feroce in compagnia dei suoi cuccioli non si ristora in essa allo stesso modo in cui mi rassereno io. E quanto più dentro il mio piede si introduce nella selva, tanto più calma e gioia si producono in me; per cui ricordando come io là mi sentivo bene, spesso poi la mia mente torna nella selva. Non è che io detesti gli uomini, e che non veda in me stesso dei difetti anzi ne vedo più che in altri uomini; né che io creda di essere più vicino alla buona strada: ma il mio vile secolo non mi è mai piaciuto: e oppresso dal pesante giogo dalla tirannide, solo nei luoghi deserti tacciono le mie sofferenze.

Maggiormente caratterizzata a livello linguistico è questa poesia; suoni aspri la caratterizzano (“orror”, “tristezza”, “ricrea”, “orrida” solo per restare nella prima strofa), quasi a disegnare la selvatichezza del luogo in cui s’inoltra l’altrettanto “fiero” poeta; v’è infatti in essa un capovolgimento dal sapore ossimorico: più è irta e selvaggia la selva più Alfieri si rasserena. Tutto questo, intessuto da lemmi danteschi, per sottolineare la voglia di fuga da questo “secol vile” (il 700) ed isolarsi da un mondo dove prevale il “pesante giogo regal”.

Vittorio Alfieri e Contessa Luisa Stolberg d' Albany | Palazzo MadamaAlfieri e la contessa d’Albany

Vita

Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso è l’opera in prosa più importante di Alfieri, da alcuni considerata il suo capolavoro. Iniziata nel 1790, venne pubblicata postuma nel 1806. In essa viene ripercorsa la vita dell’autore e si inserisce in un genere, appunto quello autobiografico, già rappresentato nel 700 dalle Memoires goldoniane e dalle Confessioni di Rousseau. Tutta l’opera è percorsa da un lungo scavo interiore a cui si contrappone la realtà esterna, vista sempre come portatrice di disvalore, in quanto limitatrice della libertà del poeta. Se è pur vero che l’autobiografia si presenta come una miniera preziosa di notizie sulla vita del poeta, non manca in essa il tentativo di offrirsi come una vita ideale, in cui si tratteggiano i suoi viaggi, gli amori, i duelli (una vita, soprattutto in gioventù avventurosa); ma sono presenti in essa anche le sensazioni che il poeta prova di fronte ai superbi spettacoli della natura. Se, in alcune pagine vi può essere una forma di autocritica, non manca mai il tentativo di presentarsi come eroe, che lotta senza tregua contro ogni sopruso e contro ogni meschineria borghese. Si può affermare che nella Vita di Alfieri venga inaugurato il titanismo ribelle e alieno da qualsiasi forma di compromesso, quale poi verrà sviluppato nel preromanticismo. Pagine importanti verranno poi riservate alla sua scoperta della letteratura e alla sua volontà di farsi autore tragico, anche questo visto in modo eroico e passionale.

FRA I GHIACCI DEL BALTICO

Io sempre incalzato dalla smania dell’andare, benché mi trovassi assai bene in Stockolm, volli partirne verso il mezzo maggio per la Finlandia alla volta di Pietroborgo. Nel fin d’aprile aveva fatto un giretto sino ad Upsala, famosa università, e cammin facendo aveva visitate alcune cave del ferro, dove vidi varie cose curiosissime; ma avendole poco osservate, e molto meno notate, fu come se non le avessi mai vedute. Giunto a Grisselhamna, porticello della Svezia su la spiaggia orientale, posto a rimpetto dell’entrata del golfo di Botnia, trovai da capo l’inverno, dietro cui pareva ch’io avessi appostato di correre. Era gelato gran parte di mare, e il tragitto dal continente nella prima isoletta (che per cinque isolette si varca quest’entratura del suddetto golfo) attesa l’immobilità totale dell’acque, riusciva per allora impossibile ad ogni specie di barca. Mi convenne dunque aspettare in quel tristo luogo tre giorni, finché spirando altri venti cominciò quella densissima crostona a screpolarsi qua e là, e far crich, come dice il poeta nostro, quindi a poco a poco a disgiungersi in tavoloni galleggianti, che alcuna viuzza pure dischiudevano a chi si fosse arrischiato d’intromettervi una barcuccia. Ed in fatti il giorno dopo approdò a Grisselhamna un pescatore venente in un battelletto da quella prima isola a cui doveva approdar io, la prima; e disseci il pescatore che si passerebbe, ma con qualche stento. Io subito volli tentare, benché avendo una barca assai più spaziosa di quella peschereccia, poiché in essa vi trasportava la carrozza, l’ostacolo veniva ad essere maggiore; ma però era assai minore il pericolo, poiché ai colpi di quei massi nuotanti di ghiaccio dovea più robustamente far fronte un legno grosso che non un piccolo. E così per l’appunto accadde. Quelle tante galleggianti isolette rendevano stranissimo l’aspetto di quell’orrido mare che parea piuttosto una terra scompaginata e disciolta, che non un volume di acque; ma il vento essendo, la Dio mercè, tenuissimo, le percosse di quei tavoloni nella mia barca riuscivano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro gran copia e mobilità spesso li facea da parti opposte incontrarsi davanti alla mia prora, e combaciandosi, tosto ne impedivano il solco; e subito altri ed altri vi concorreano, ed ammontandosi facean cenno di rimandarmi nel continente. Rimedio efficace ed unico, veniva allora ad essere l’ascia, castigatrice d’ogni insolente. Più d’una volta i marinai miei, ed anche io stesso scendemmo dalla barca sovra quei massi, e con delle scuri si andavano partendo, e staccando dalle pareti del legno, tanto che desser luogo ai remi e alla prora; poi risaltati noi dentro coll’impulso della risorta nave, si andavano cacciando dalla via quegli insistenti accompagnatori; e in tal modo si navigò il tragitto primo di sette miglia svezzesi in dieci e più ore. La novità di un tal viaggio mi divertì moltissimo; ma forse troppo fastidiosamente sminuzzandolo io nel raccontarlo, non avrò egualmente divertito il lettore. La descrizione di cosa insolita per gl’italiani, mi vi ha indotto. Fatto in tal guisa il primo tragitto, gli altri sei passi molto più brevi, ed oltre ciò oramai fatti più liberi dai ghiacci, riuscirono assai più facili. Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d’Europa che mi siano andati più a genio, e destate più idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuor del globo.

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Edizione originale dell’opera di Alfieri (1804)

Io, sempre spinto dal desiderio di muovermi, benché mi trovassi molto bene a Stoccolma, volli partire verso la metà di maggio per la Finlandia per raggiungere (da lì) San Pietroburgo.  Alla fine d’aprile avevo fatto un giretto fino ad Uppsala, dove vi è una famosa università, e camminando avevo visitato alcune cave di ferro, dove vidi cose stranissime, ma non avendole osservate con attenzione e quindi non avendole notate, e come se non le avessi viste. Arrivato a Grisslehamn, piccolo porto sulla spiaggia orientale, posto di fronte all’entrata del golfo di Botnia, trovai di nuovo l’inverno, dietro il quale sembrava che io avessi deciso d’andare. Il mare era per gran parte gelato e il tragitto dal continente verso la prima isoletta (che questo golfo si supera attraverso cinque isolette che vi sono all’interno), in considerazione del mare ghiacciato, riusciva, per ogni tipo di barca, impossibile. Attesi dunque in quel posto solitario tre giorni, finché, cambiando il vento, quel densissimo mare ghiacciato cominciò, qua e là, a screpolarsi, e a far crich, come dice il nostro Dante (riferendosi al lago ghiacciato del Cocito), quindi a poco a poco a dividersi in tavoloni galleggianti, che qualche piccolo varco pure offrivano a chi avesse voluto intromettersi con quale barchetta. E infatti, il giorno dopo approdò a Grisslehamn un pescatore che giungeva con un battello in quella prima isola in cui anch’io dovevo approdare, e lo stesso pescatore ci comunicò che si sarebbe potuto passare, pur con qualche difficoltà. Io volli subito tentare, sebbene possedessi una barca assai più grande di quella del pescatore, in quanto in essa trasportavo la carrozza. Quindi la difficoltà derivava dalla dimensione della mia barca, tuttavia correvo meno pericolo, perché la sua robustezza poteva meglio resistere ai colpi dei lastroni di ghiaccio. E così, appunto, accadde. Quelle isole ghiacciate rendevano stranissimo l’aspetto di quel mare che sembrava piuttosto una terra distrutta e disciolta, piuttosto che un ammasso di acque; ma, grazie a Dio, essendo il vento leggerissimo, i colpi di quei lastroni sembravano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro abbondanza e mobilità li faceva spesso incontrare davanti alla mia prua, e, unendosi, impedivano il passaggio; e subito anche altri (lastroni) concorrevano ai primi, tanto da formare una barriera che mi segnalava di dover tornare verso la terra ferma. L’unico rimedio a tale eventualità era l’ascia, che castiga ogni persona insolente. Più d’una volta i marinai ed io stesso scendemmo dalla barca e a furia di colpi con le asce allontanavamo i lastroni e li staccavamo dalle pareti della nave, tanto da creare lo spazio per la prua e per i remi; poi risaliti, con la spinta della nave stessa, si allontanavano dal percorso quegli insistenti accompagnatori, e in tal modo percorremmo sette miglia svedesi in dieci o più ore. La novità di quel viaggio mi divertì tantissimo, ma forse nel descriverlo così minuziosamente, non divertirò il lettore. E’ il fatto insolito per gli italiani che mi ha indotto a tale narrazione. Fatto così il primo tragitto, gli altri sei passaggi per le isole, molto più brevi, ed inoltre più liberi dai ghiacci, risultarono molto più semplici. Nella sua selvatica asperità quello è uno dei paesi d’Europa che mi siano piaciuti di più, suscitando in me idee fantastiche, malinconiche ed anche grandiose, per quel vasto ed indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, che ti sembra d’esser fuori dal mondo.

Quello che in questa pagina emerge è la volontà d’infrangere ogni limite, superare ogni barriera, quasi a voler attingere all’infinità della natura. Il paesaggio ghiacciato e isolato, infatti, mette l’uomo, nella sua finitezza, di fronte all’infinità dello spazio, suscitando così il sentimento del sublime, che tanta parte avrà nella poesia successiva. E’ questo che, in qualche modo, fa di Alfieri un uomo che travalica il limite della “ragione” per affacciarsi verso quelle tematiche che poi confluiranno in quel movimento definito impropriamente “preromanticismo”, cioè un “qualcosa” che anticipa la consapevolezza di una nuova età definita, appunto, romantica.

Le tragedie

Il fatto che Alfieri possa essere definito l’unico grande tragico della letteratura italiana è, insieme, una scelta dell’autore stesso e una predisposizione caratteriale che lo conduceva naturalmente verso questo genere. La tragedia italiana non aveva mai prodotto opere di rilievo, ad eccezione di una Merope, di Scipione Maffei, del primo ’700. Il farsi tragediografo fu, dunque, per l’autore astigiano, una sfida letteraria che permettesse all’Italia di eguagliare la Francia che con Racine e Corneille aveva prodotto dei vari capolavori in questo genere. Ma non bisogna dimenticare che Alfieri aveva in sé un animo tragico, una tensione interiore verso l’assoluto che egli trasporta nei suoi personaggi (per alcuni, anche le tragedie sono, in ultima analisi opere autobiografiche). Alfieri compone 19 tragedie; il modo con cui egli lavora ci viene rivelato in una pagina della Vita:

LA COMPOSIZIONE DELLE TRAGEDIE

E qui per l’intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo sì spesso, ideare, stendere, e verseggiare. Questi tre respiri con cui ho sempre dato l’essere alle mie tragedie, mi hanno per lo più procurato il beneficio del tempo, così necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza. Ideare dunque io chiamo, il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginucce di prosaccia farne quasi l’estratto a scena per scena di quel che diranno e faranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma della traccia accennata ne riempio le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi, e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non solamente il porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia, e leggibili. Segue poi come di ogni altro componimento il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v’è nell’idearla e distenderla, non si ritrova certo mai più con le fatiche posteriori.

Tragedie di Vittorio Alfieri da Alfieri Vittorio: (1857) | Sergio Trippini

Edizione delle tragedie alfieriane (1857)

E qui, per una migliore comprensione del lettore, mi conviene spiegare l’uso di queste parole che sono state usate spesso: ideare, stendere e verseggiare. Queste tre fasi, con cui ho sempre creato le mie tragedie, mi hanno sempre offerto il beneficio del tempo fra una fase e l’altra, necessario a riflettere su un componimento di tale importanza. Infatti, se già dall’inizio nasce male, difficilmente in seguito potrà essere corretto. Per ideare io in-tendo il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginette appena abbozzate fare quasi un riassunto scena per scena di quello che faranno e diranno. Definisco poi stendere ripigliare quel primo lavoro e seguendo le indica-zioni date nella prima traccia riempio le scene con i dialoghi in prosa, così come dovrà es-sere l’intera tragedia, senza rifiutare un pensiero, qualunque esso sia, e scrivendo con tutta la forza che ho, senza badare al come. In ultimo per verseggiare io intendo non solo porre in versi la prosa precedentemente elaborata, ma con mente assai per tempo riposata, scegliere tra quel lungo testo prosastico scritto di primo getto, i pensieri migliori, ridurli in versi e renderli leggibili. Segue poi, come per ogni altra opera, il doverla successivamente limare, togliere delle parti, cambiarla in altre; ma se l’azione tragica non nasce nell’idearla e poi distenderla, non può avere la luce solamente con l’ultima fase.

Questa pagina non solo ci illustra il metodo con cui Alfieri lavora, ma ci mostra come in lui operino due forze: da una parte la parte “razionale” che mette in “ordine”, rende “perfetta” l’opera; dall’altra l’aspetto irrazionale, cioè lo scrivere quasi come fosse dettato dall’inconscio (senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi).

Alfieri struttura le sue tragedie nei canonici cinque atti, rispettando le tre unità aristoteliche di tempo, spazio e luogo. Elimina della tragedia classica il coro (che verrà ripristinato da Manzoni) ed ogni intermezzo lirico: l’opera alfieriana deve tutta tendere, sin dall’inizio, verso l’esito finale: a ciò risponde l’esigenza di ridurre il numero dei personaggi; la rappresentazione o la lettura non deve mai staccarsi da essi e dalla loro vicenda, a rischio di perdere la concentrazione e la tensione che la vicenda produce.

Non dobbiamo dimenticare che la produzione tragica alferiana si sviluppa sin dal 1775 al 1788 e vedrà la composizione di ben 19 tragedie: se nelle prime egli sviluppa il tema già presentato nel saggio Sulla tirannide, si prenda come rappresentativa di esso il Filippo (1775), nella cui piéce il sovrano spagnolo è disegnato come un despota che affama il suo popolo, già nel 1777, nella Virginia, tratta dalla storia romana – Iginio difende l’amata Virginia dalle insidie del tiranno Appio Claudio – traspare una tensione verso la libertà, altro tema fondamentale per lo scrittore astigiano.

77372.jpegAnalisi critica di fine 800 sulla tragedia alfieriana e shilleriana

Filippo è una tragedia in cinque atti. Don Carlos, figlio di Filippo II di Spagna, e Isabella di Valois, andata in sposa al re per ragioni di Stato, scoprono di amarsi. Quando Isabella impone a Don Carlos di lasciare la corte è troppo tardi: Filippo, il vero protagonista della tragedia, ha indovinato il loro segreto e vi ha visto l’occasione per dare sfogo al suo odio per il figlio. Non esiterà infatti a tramarne la morte, con astuzia consumata e false accuse, assumendo una maschera crudele di fredda virtù. Dopo aver fatto assassinare Perez, fedele amico di Don Carlos, costringerà il figlio e Isabella a uccidersi sotto i suoi occhi.

INFELICITA’ DEL TIRANNO

FILIPPO:
Gomez; compiuti
mie’ cenni hai tu? Quant’io t’ho imposto arrechi?

GOMEZ:
Perez trafitto muore: ecco l’acciaro,
che gronda ancor del suo sangue fumante.

CARLO:
Oh vista!

FILIPPO:
In lui dei traditor la schiatta
spenta pur non è tutta… Ma tu, intanto,
mira qual merto a’ tuoi fedeli io serbo.

CARLO:
Quante (oimè!) quante morti veder deggio,
pria di morir? Perez, tu pure?… Oh rabbia!
Giá giá ti seguo. Ov’è, dov’è quel ferro,
che spetta a me? via, mi s’arrechi. Oh! possa
mio sangue sol spegner la sete ardente
di questo tigre!

ISABELLA:
Oh! saziar io sola
potessi, io sola, il suo furor malnato!

FILIPPO:
Cessi la infame gara. Eccovi, a scelta
quel pugnale, o quel nappo. O tu, di morte
dispregiator, scegli tu primo.

CARLO:
Oh ferro!…
Te caldo ancora d’innocente sangue,
liberator te scelgo. – O tu, infelice
donna, troppo dicesti: a te null’altro
riman, che morte: ma il velen deh!
scegli; men dolorosa fia… D’amor infausto
quest’è il consiglio estremo: in te raccogli
tutto il coraggio tuo: – mirami… Io moro…
Segui il mio esempio. – Il fatal nappo afferra…
non indugiare…

ISABELLA:
Ah! sí; ti seguo. O morte,
tu mi sei gioja; in te…

FILIPPO:
Vivrai tu dunque;
mal tuo grado vivrai.

ISABELLA:
Lasciami… Oh reo
supplizio! ei muore; ed io?…

FILIPPO:
Da lui disgiunta,
sí, tu vivrai; giorni vivrai di pianto:
mi fia sollievo il tuo lungo dolore.
Quando poi, scevra dell’amor tuo infame,
viver vorrai, darotti allora io morte.

ISABELLA:
Viverti al fianco?… io sopportar tua vista?…
Non fia mai, no… Morir vogl’io… Supplisca
al tolto nappo… il tuo pugnal…

FILIPPO:
T’arresta…

ISABELLA:
Io moro…

FILIPPO:
Oh ciel! che veggio?

ISABELLA:
… Morir vedi…
la sposa,… e il figlio,… ambo innocenti,… ed ambo
per mano tua… – Ti sieguo, amato Carlo…

FILIPPO:
Scorre di sangue (e di qual sangue!) un rio…
Ecco, piena vendetta orrida ottengo;…
ma, felice son io?… – Gomez, si asconda
l’atroce caso a ogni uomo. – A me la fama,
a te, se il taci, salverai la vita.

Filippo-II-di-Spagna.jpgFilippo II 

FILIPPO: Gomez; hai seguito le mie indicazioni? Mi porti quello che ti ho imposto di fare? GOMEZ: Perez muore trafitto: ecco la spada, grondante ancora del suo sangue fumante. CARLO:  Oh che vedo! FILIPPO:  La stirpe dei traditore non è ancora completamente scomparsa… Ma tu, intanto, osserva quale ricompensa io riservo a coloro che mi sono fedeli. CARLO: Quante (ahimè!) quante morti devo ancora vedere, prima di essere ucciso? Pure tu, Perez?… Oh cieca pazzia! Già ormai ti seguo. Dov’è, dov’è quella spada, che mi hai riservato? dai, mi si porti. Oh! possa ora solo il mio sangue spegnere la sete ardente di questo bestia feroce di Filippo! ISABELLA:  Oh! potessi solamente io, io sola, far cessare il malvagio furore! FILIPPO:  Smettete questa vigliacca sfida. Eccovi a scelta o un pugnale o una tazza avvelenata. O tu, che disprezzi la morte, scegli per primo. CARLO: La spada!… Te che sei ancora calda del sangue innocente di Perez, scelgo te per liberarmi del mio corpo. – O tu, infelice donna, hai parlato troppo: non ti rimane nient’altro che morire: ma scegli il veleno! sarà meno doloroso… Questo è l’ultimo consiglio di un infelice amore: in te raccogli tutto il coraggio: – guardami.. muoio… Segui il mio esempio. – Prendi la tazza velenosa… non indugiare… ISABELLA:  Ah! sí; ti seguo. O morte, tu sei la mia gioia; in te… FILIPPO: Tu invece vivrai, tuo malgrado vivrai. ISABELLA: Lasciami… Oh tremendo martirio! lui muore; ed io?… FILIPPO:  Divisa da lui, sí, tu vivrai; vivrai giorni di pianto: sarà per me sollievo il tuo lungo dolore. Quando poi, liberata del tuo infame amore, desidererai vivere , allora ti ucciderò. ISABELLA:  Viverti al fianco?… io sopportare la tua vista?… Non sarà mai, no… voglio morire… prenda il posto del veleno strappato… il tuo pugnale… FILIPPO: Fermati… ISABELLA:  Muoio… FILIPPO: Oh Dio! che vedo? ISABELLA: … Morire vedi… la sposa… e il figlio,… entrambi innocenti,… ed entrambi per mano tua… – Ti seguo, amato Carlo… FILIPPO:  Scorre un fiume di sangue (e di qual sangue!)… Ecco, ottengo un’orrida e piena vendetta… ma, sono io felice?… – Gomez, si nasconda l’atroce caso a ogni uomo. – A me la fama,  tu, se non lo dici a nessuno, salverai la vita.

E’ un dramma storico: Il personaggio dell’inizio del brano è Ruy Gomez da Silva, fautore del matrimonio tra il re di Spagna Filippo II e Isabella di Valois; don Carlos figlio di Filippo e di Maria Emanuela D’Aviz, morta giovanissima di parto. La morte del giovanissimo figlio del re, ad appena ventitré anni, eccitò la fantasia non solo la fantasia dell’Alfieri, ma, più tardi, del grande drammaturgo tedesco Schiller.

Alfieri, che proprio in quegli anni, stava meditando sul concetto di tirannia, (Della tirannide è del 1777), disegna la figura di Filippo, modellandola sulla descrizione di Tiberio fatta da Tacito. Il re di Spagna, dopo aver strappato la moglie promessa al figlio, sposandola, mette poi in atto delle azioni per soggiogare e quindi colpevolizzare il figlio e la moglie, che nel frattempo erano diventati amanti. Ma quello che è emerge in questo breve passo è la vera tirannide non può ammettere alcuna forma di affettività: il  tiranno è solo e la vera sua tragedia sta nell’affermazione di un potere oltre cui non vi è nessuno e nulla; una solitudine felice è un ossimoro, e questo Filippo lo sa bene (come bene sa la critica novecentesca che il voler uccidere, annullare un figlio possiede valenze sconosciute alfieriano ma certamente dibattute nella psicoanalisi freudiana)

unnamed.jpgRappresentazione teatrale del Filippo del 2010

Un altro tema nelle tragedie di Alfieri è, come già abbiamo visto in Virginia quello della libertà, che viene in seguito mitigato dall’idea della sconfitta: è così nella Congiura de’ Pazzi (1778) in cui, nella Firenze di Lorenzo il Magnifico il suicidio di Raimondo, per non rinunciare alla libertà che il signore stava spegnendo, appare più come una sconfitta che una vittoria, nel Timoleone (1780) – tratto dalle Vite parallele di Plutarco – l’uccisione da parte dell’eroe eponimo del fratello Timofane per ridare libertà a Sparta, appare come una lotta staccatasi dal dato reale, in cui predominano astratti furori, più che tensioni emotive reali.

 

Il capolavoro viene con il Saul (1782), dove la figura dell’eroe appare con più sfaccettature, con maggiori risonanze interiori: l’incedere della vecchiaia, la perdita del potere a favore dei giovani vissuto con rabbia e gelosia, ma anche con amore, l’abbandono di Dio che sceglie suo genero, la scelta della morte eroica (temi presenti nelle opere precedenti, ma qui raccolti nella complessità di una mente sempre più folle. Un ulteriore passaggio lo leggiamo nell’altro capolavoro la Mirra (1784) in cui il dramma raccontatoci da Ovidio, viene qui spogliato da ogni ridondanza per focalizzarsi nell’animo di una giovane donna costretta dal destino a vivere un amore non voluto e tormentato ed accettare con forza l’impossibilità di realizzarlo. Le ultime prove, tra le quali citiamo il Bruto primo (1786) e il Bruto secondo (1788), in cui, riprendendo la storia romana e il tema degli uccisori di Cesare come anelito di libertà, ci sembra che il nostro ripeta stilemi senza più il vigore e la forza iniziale.

Vita di Vittorio Alfieri - AbeBooks

Saggio critico del 1904 sull’opera di Alfieri

I capolavori tragici alfieriani, per unanime consenso critico, vengono ritenuti la Mirra e il Saul.

Mirra

La vicenda si svolge a Cipro, isola dedicata a Venere, nella corte di Ciniro. E’ la vigilia delle nozze che dovrebbero unire Mirra, figlia del re e di Cecri, con Pereo, principe d’Epiro, ma non c’è felicità a corte, poiché la promessa sposa appare mortalmente triste. In accordo con la nutrice Euriclea, i due genitori, addolorati e desiderosi di rivedere lieta la loro unica figlia, cercano di scoprire la ragione di tanta mestizia, pronti anche a sospendere le nozze qualora Mirra confessasse di nutrire un altro amore. Mirra entra in scena nel secondo atto, opponendo alle insistenti domande dei genitori, della nutrice e dello stesso Pereo, un ostinato silenzio, sotto il quale però non riesce a nascondere un terribile tormento. Nelle sue parole si mescolano parole d’affetto verso i suoi genitori e il promesso sposo, lacrime, sbocchi interrotti di paura e di malessere incomprensibili. Supplice e disperata, Mirra giunge a invocare la morte, fra lo sbigottimento di coloro che le stanno attorno. Nel terzo atto Mirra accetta di unirsi in matrimonio con Pereo, segretamente sperando di allontanarsi dalla casa che le è divenuta ormai intollerabile, e morire di dolore lontano dagli occhi di chi più ama. Nel quarto atto, durante il rito nuziale, la volontà di Mirra cede alla forza dell’angoscia e. delirando, la giovane impreca contro le nozze stesse: la cerimonia è interrotta e Pereo, per l’umiliazione e il dolore si uccide. Nell’atto finale, di fronte alla ferma decisione del padre di sapere, e sconvolta per aver provocato il suicidio dell’innocente Pereo, Mirra confessa la propria passione incestuosa e con la spada del padre si trafigge il cuore.

Lunedì 13 gennaio 2014, Circolo dei lettori, ADELAIDE RISTORI. Vita  romanzesca di una primadonna dell'Ottocento – Teatro Stabile Torino

Adelaide Ristori: Attrice torinese dell’800

La tragedia, scritta nel 1784,  prende spunto specificatamente da un passo ovidiano: nelle Metamorfosi, infatti, si narra la storia della giovane Mirra che nutre una passione incestuosa verso il padre Ciniro. Attraverso inganni la giovane donna arriva a consumare l’incesto, ma per questo verrà punita dagli dei che la trasformeranno in albero. Accanto al mito ovidiano sono echi dalle tragedie classiche come l’Ippolito di Euripide e la Fedra (dello stesso argomento di quella greca) di Seneca. Alfieri rielabora completamente il mito: Mirra non compie, ma neanche rivela, se non nell’ultimo atto, la sua insana passione. Ciò determina un’impietosa analisi della mente di Mirra, spinta dalla ragione a negare e a negarsi ciò che invece inconsciamente prova; non vi è quindi la scissione, come nelle altre tragedie, di due personaggi che, emblematicamente lottano tra loro; qui la lotta tra passione e ragione viene interiorizzata.

LA CONFESSIONE DI MIRRA

CINIRO:
Mirra, che nulla tu il mio onor curassi,
creduto io mai, no, non l’avrei; convinto
me n’hai (pur troppo!) in questo dì fatale
a tutti noi: ma, che ai comandi espressi,
e replicati del tuo padre, or tarda
all’obbedir tu sii, più nuovo ancora
questo a me giunge.

MIRRA:
… Del mio viver sei
signor, tu solo… Io de’ miei gravi,… e tanti
falli… la pena… a te chiedeva,… io stessa,…
or dianzi… qui… – Presente era la madre…
deh! perché allor… non mi uccidevi?…

CINIRO:
E’ tempo,
tempo ormai, sì, di cangiar modi, o Mirra.
Disperate parole indarno muovi;
e disperati, e in un tremanti, sguardi
al suolo affissi indarno. Assai ben chiara
in mezzo al dolor tuo traluce l’onta;
rea ti senti tu stessa. Il tuo più grave
fallo, è il tacer col padre tuo: lo sdegno
quindi appien tu ne merti; e che in me cessi
l’immenso amor, che all’unica mia figlia
io già portai. – Ma che? tu piangi? e tremi?
e inorridisci?… e taci? – A te fia dunque
l’ira del padre insopportabil pena?

MIRRA:
Ah!… peggior … d’ogni morte

CINIRO:             
Odimi.  Al mondo
favola hai fatto i genitori tuoi,
quanto te stessa, coll’infausto fine
che alle da te volute nozze hai posto.
Già l’oltraggio tuo crudo i giorni ha tronchi
del misero Peréo…

MIRRA:
Che ascolto? Oh cielo!

CINIRO:             
Peréo, sì, muore; e tu lo uccidi. Uscito
del nostro aspetto appena, alle sue stanze
solo, e sepolto in un muto dolore,
ei si ritrae: null’uomo osa seguirlo.
Io, (lasso me!) tardo pur troppo io giungo…
Dal proprio acciaro trafitto, ei giacea
entro un mare di sangue: a me gli sguardi
pregni di pianto e di morte inalzava;…
e, fra i singulti estremi, dal suo labro
usciva ancor di Mirra il nome. – Ingrata…

MIRRA:
Deh! più non dirmi… Io sola, io degna sono,
di morte… E ancor respiro?…

CINIRO:
Il duolo orrendo
Dell’infelice padre di Peréo,
io che son padre ed infelice, io solo
sentir lo posso: io ’l so, quanto esser debba
lo sdegno in lui, l’odio, il desio di farne
aspra su noi giusta vendetta. – Io quindi,
non dal terror dell’armi sue, ma mosso
dalla pietà del giovinetto estinto,
voglio, qual de’ padre ingannato e offeso,
da te sapere (e ad ogni costo io ’l voglio)
la cagion vera di sì orribil danno. –
Mirra, invan me l’ascondi: ah! ti tradisce
ogni tuo menom’atto. – Il parlar rotto;
lo impallidire, e l’arrossire; il muto
sospirar grave; il consumarsi a lento
fuoco il tuo corpo; e il sogguardar tremante;
e il confonderti incerta; e il vergognarti,
che mai da te non si scompagna:… ah! tutto,
sì tutto in te mel dice, e invan tu il nieghi;…
son figlie in te le furie tue… d’amore.

MIRRA:
Io?… d’amor?… Deh! nol credere… T’inganni.

CINIRO:             
Più il nieghi tu, più ne son io convinto.
E certo in un son io (pur troppo!) omai,
ch’esser non puote altro che oscura fiamma,
quella cui tanto ascondi.

MIRRA:
Oimè!… che pensi?…
Non vuoi col brando uccidermi;… e coi detti…
mi uccidi intanto…

CINIRO:
E dirmi pur non l’osi,
che amor non senti? E dirmelo, e giurarlo
anco ardiresti, io ti terria spergiura. –
Ma, chi mai degno è del tuo cor, se averlo
non potea pur l’incomparabil, vero,
caldo amator, Peréo? – Ma, il turbamento
cotanto è in te;… tale il tremor; sì fera
la vergogna; e in terribile vicenda,
ti si scolpiscon sì forte sul volto;
che indarno il labro negheria…

MIRRA:
Vuoi dunque…
farmi… al tuo aspetto… morir… di vergogna?…
E tu sei padre?

CINIRO:
E avvelenar tu i giorni,
troncarli vuoi, di un genitor che t’ama
più che se stesso, con l’inutil, crudo,
ostinato silenzio? – Ancor son padre:
scaccia il timor; qual ch’ella sia tua fiamma,
(pur ch’io potessi vederti felice!)
capace io son d’ogni inaudito sforzo
per te, se la mi sveli. Ho visto, e veggo
tuttor, (misera figlia!) il generoso
contrasto orribil, che ti strazia il core
infra l’amore, e il dover tuo. Già troppo
festi, immolando al tuo dover te stessa:
ma, più di te possente, Amor nol volle.
La passíon puossi escusare; ha forza
più assai di noi; ma il non svelarla al padre,
che tel comanda, e ten scongiura, indegna
d’ogni scusa ti rende.

MIRRA:
– O Morte, Morte,
cui tanto invoco, al mio dolor tu sorda
sempre sarai?…

CINIRO:
Deh! figlia, acqueta alquanto,
l’animo acqueta: se non vuoi sdegnato
contra te più vedermi, io già nol sono
più quasi omai; purché tu a me favelli.
Parlami deh! come a fratello. Anch’io
conobbi amor per prova: il nome.

MIRRA:
Oh cielo!…
Amo, sì; poiché a dirtelo mi sforzi;
io disperatamente amo, ed indarno.
Ma, qual ne sia l’oggetto, né tu mai,
né persona il saprà: lo ignora ei stesso…
ed a me quasi io ’l niego.

CINIRO:
Ed io saperlo
e deggio, e voglio. Né a te stessa cruda
esser tu puoi, che a un tempo assai nol sii
più ai genitori che ti adoran sola.
Deh! parla; deh! – Già, di crucciato padre,
vedi ch’io torno e supplice e piangente:
morir non puoi, senza pur trarci in tomba. –
Qual ch’ei sia colui ch’ami, io ’l vo’ far tuo.
Stolto orgoglio di re strappar non puote
il vero amor di padre dal mio petto.
Il tuo amor, la tua destra, il regno mio,
cangiar ben ponno ogni persona umíle
in alta e grande: e, ancor che umíl, son certo,
che indegno al tutto esser non può l’uom ch’ami.
Te ne scongiuro, parla: io ti vo’ salva,
ad ogni costo mio.

MIRRA:                                     
Salva?… Che pensi?…
Questo stesso tuo dir mia morte affretta…
Lascia, deh! lascia, per pietà, ch’io tosto
da te… per sempre… il piè… ritragga…

CINIRO:
O figlia
unica amata; oh! che di’ tu? Deh! vieni
fra le paterne braccia. – Oh cielo! in atto
di forsennata or mi respingi? Il padre
dunque abborrisci? e di sì vile fiamma
ardi, che temi…

MIRRA:
Ah! non è vile;… è iniqua
la mia fiamma; né mai…

CINIRO:
Che parli? iniqua,
ove primiero il genitor tuo stesso
non la condanna, ella non fia: la svela.

MIRRA:
Raccapricciar d’orror vedresti il padre,
se la sapesse… Ciniro…

CINIRO:
Che ascolto!

MIRRA:             
Che dico?… ahi lassa!… non so quel ch’io dica…
Non provo amor… Non creder, no… Deh! lascia,
te ne scongiuro per l’ultima volta,
lasciami il piè ritrarre.

CINIRO:
Ingrata: omai
col disperarmi co’ tuoi modi, e farti
del mio dolore gioco, omai per sempre
perduto hai tu l’amor del padre.

MIRRA:
Oh dura,
fera orribil minaccia!… Or, nel mio estremo
sospir, che già si appressa,… alle tante altre
furie mie l’odio crudo aggiungerassi
del genitor?… Da te morire io lungi?…
Oh madre mia felice!… almen concesso
a lei sarà… di morire… al tuo fianco…

CINIRO:
Che vuoi tu dirmi?… Oh! qual terribil lampo,
da questi accenti!… Empia, tu forse?…

MIRRA:
Oh cielo!
che dissi io mai?… Me misera!… Ove sono?
Ove mi ascondo?… Ove morir? – Ma il brando
tuo mi varrá…

(Rapidissimamente avventatasi al brando del padre, se ne trafigge.)

CINIRO:
Figlia… Oh! che festi? il ferro…

MIRRA:
Ecco,… or… tel rendo… Almen la destra io ratta
ebbi al par che la lingua.

CINIRO:
… Io… di spavento,…
e d’orror pieno, e d’ira,… e di pietade,
immobil resto.

MIRRA:
Oh Ciniro!… Mi vedi…
presso al morire… Io vendicarti… seppi,…
e punir me… Tu stesso, a viva forza,
l’orrido arcano… dal cor… mi strappasti…
ma, poiché sol colla mia vita… egli esce…
dal labro mio,… men rea… mi moro…

CINIRO:
Oh giorno!
Oh delitto!… Oh dolore! – A chi il mio pianto?…

MIRRA:
Deh! più non pianger;… ch’io nol merto… Ah! sfuggi
mia vista infame;… e a Cecri… ognor… nascondi…

CINIRO:
Padre infelice!… E ad ingojarmi il suolo
non si spalanca?… Alla morente iniqua
donna appressarmi io non ardisco;… eppure,
abbandonar la svenata mia figlia
non posso…

Mirra, un amore colpevole? | Stile di moda, Vestito bianco

Rappresentazione teatrale della Mirra

CINIRO: Mirra, che tu non curassi per nulla del mio onore, non l’avrei mai creduto; me ne sono convinto (purtroppo!) in questo giorno di lutto per noi tutti; ma che tu alle richieste espresse e ripetute da tuo padre, ora che tu sia restia nell’obbedirmi, questo giunge come un’ulteriore novità. MIRRA: Della mia vita, sei solo tu il padrone… Io dei miei gravi e numerosi errori chiedevo a te la pena… io stessa (te l’ho chiesta) un attimo fa, con la presenza di mamma. Allora, perché non mi hai ucciso?… CINIRO: E’ ora di cambiare atteggiamento, Mirra. Pronunci parole disperate e fissi gli occhi disperati e tremanti, inutilmente. Assai chiaramente appare, in mezzo al dolore, la tua vergogna: colpevole ti senti tu stessa. Il tuo più grave errore è tacere con tuo padre; quindi meriti la mia rabbia e cessi l’immenso amore che io provai per te, unica figlia. Che fai? Piangi? Tremi e inorridisci e… taci. Per te sarebbe dunque l’ira paterna un’insopportabile pena? MIRRA: Peggiore di qualsiasi morte… CINIRO: Ascoltami. Hai reso i tuoi genitori oggetto di dicerie per il mondo, come te stessa, coll’infausto fine che tu hai creato alle nozze pur da te volute. Già la tua crudele offesa ha spezzato i giorni al misero Pereo. MIRRA: Che ascolto? Oh cielo! CINIRO: Pereo è morto, e tu l’hai ucciso. Appena uscito alla nostra vista, si reca da solo nelle sue stanze, sepolto in un muto dolore, nessun uomo lo ha seguito, Io (povero me) giungo purtroppo troppo tardi… Ucciso con la propria spada, egli giaceva in un mare di sangue e gli occhi pieni di pianto e di morte innalzava verso di me. E fra gli ultimi singulti, dalle sue labbra usciva ancora il tuo nome, Mirra. Ingrata! MIRRA: Non dirmi più niente. Solo io sono degna di morire. E ancora vivo… CINIRO: Il dolore immenso dell’infelice padre di Pereo. Io che sono padre ed infelice, io solo lo posso capire, io lo so quanto debba essere grande la rabbia, l’odio, il desiderio di fare contro di noi una giusta vendetta. Io quindi, non dalla paura delle sue armi, ma mosso dalla pietà per il giovane morto, voglio, come deve un padre ingannato e offeso, sapere da te (e ad ogni costo lo voglio sapere) il motivo vero di un così orribile danno. Mirra, inutilmente lo nascondi, ti tradisce ogni minimo gesto. Il parlare con frasi spezzate, l’impallidire, l’arrossire, i muti gravi sospiri, il consumarsi lentamente del tuo corpo, il guardare furtivamente di nascosto; e la vergogna che t’accompagna sempre. Ah, tutto, sì, tutto me lo dice, e inutilmente tu lo neghi. Le tue sono furie d’amore? MIRRA: D’amore? Non credere. Ti sbagli. CINIRO: Più lo neghi, più sono convinto. E certo sono io, ormai, ch’esser non può che un amore in-degno, quello che tu nascondi. MIRRA: Oimè, che dici? Non mi uccidi con la spada e intanto mi uccidi con le parole… CINIRO: E tu non osi dirmi che provi amore? E se anche avresti il coraggio di dirmelo e di giurarlo, ti considererei una spergiura. Ma, chi è mai degno del tuo cuore, se non poté esserlo l’incomparabile, vero, caldo amante Pereo. Ma c’è in te un tale turbamento, un tale tremore, così forte è la vergogna; e in un terribile susseguirsi si scolpiscono fortemente sul tuo volto, che inutilmente potrai negarlo. MIRRA: Vuoi dunque, di fronte a te, farmi morire di vergogna? E tu sei un padre? CINIRO: E vuoi tu avvelenare i giorni, spezzarli d’un padre che t’ama più di se stesso, con l’inutile, crudele silenzio? Ancora sono tuo padre, non avere paura. Chiunque sia il tuo amore (purché ti veda felice) sono capace di qualsiasi sforzo per te, basta che me sveli. Ho visto e vedo tuttora (povera figlia!) l’incredibile contrasto che ti strazia il cuore, tra il dovere e l’amore. Già troppo ti sei immolata, ma l’amore è più potente, non ha voluto. Si può scusare la passione, è più forte di noi; ma il non rivelarla al padre, che te lo ordina e ti scongiura, ti rende indegna di ogni scusa. MIRRA: Oh, morte, che tanto invoco, sarai sempre sorda al mio dolore? CINIRO: Figlia, calmati, riposa l’animo, se non vuoi vedermi adirato; non lo sono quasi più: basta che tu mi parli. Parlami come fossi un fratello. Anch’io ho conosciuto, per esperienza, di cosa è capace l’amore… MIRRA: Oh cielo! Amo sì, sebbene mi costi fatica dirtelo. Amo disperatamente ed inutilmente. Ma chi sia l’oggetto del mio amore, né tu, ne altri lo sapranno mai. Lo ignora egli stesso, e io lo nego a me stessa. CINIRO: Ed io devo e voglio saperlo. Né tu puoi essere crudele con te stessa e allo stesso tempo con i tuoi genitori che adorano te sola. Allora, parla! Vedi già che da padre irato con te torno ora supplichevole e piangente: non puoi morire, senza portare noi stessi alla tomba. Chiunque sia colui che ami, io voglio farlo tuo. Uno sciocco orgoglio di re non può strappare l’amore di padre che provo nel petto: il tuo amore, la tua mano, il mio regno possono ben cambiare una persona umile e porlo in grande ed alto stato: e, sebbene umile, sono certo, che non può essere del tutto indegno un uomo che tu ami. Te ne scongiuro: rivelami il suo nome, io ti voglio salva, ad ogni costo. MIRRA: Salva? Che pensi? Queste tue stesse parole affrettano la morte. Ti prego, lascia che io mi allontani da te per sempre. CINIRO: O figlia, unica amata, che dici? Vieni fra le mie braccia. Oh, come una forsennata tu mi respingi; dunque aborri anche tuo padre, e di così indegno amore bruci, che hai paura… MIRRA: Ah, non è umile il mio amore, è sacrilego, né mai… CINIRO: Che dici? Sacrilego! Quando per primo il tuo stesso padre non la condanna, non può esserlo. Avanti, dimmi il nome. MIRRA: Vedresti tu stesso, padre, inorridire, se lo sapessi… Ciniro. CINIRO: Che dici? MIRRA: Che dico? Povera me! Non so più ciò che dico. Non provo amore per te, non credere. Ti prego, per l’ultima volta, lasciami andare via. CINIRO: Ingrata! Ormai vuoi farmi disperare con i tuoi modi e farti gioco del mio dolore; ormai per sempre hai perduto l’amore di tuo padre. MIRRA: Oh, dura, crudele e orribile minaccia! Ora, nell’ultimo respiro della mia vita, che ormai s’avvicina, ai tanti tormenti della mia vita si aggiungerebbe l’odio crudele dei genitori? Morire io lontana da te? Oh madre mia felice, almeno a lei sarà concesso di morire al tuo fianco. CIRINO: Che cosa vuoi dire? Oh, quale terribile squarcio di verità da que-ste tue parole! Empia tu forse dunque saresti? MIRRA: Oh cielo! Che mai ho detto? Povera me! Dove sono, dove mi nascondo… dove darmi la morte. La tua spada mi servirà… (Immediatamente si avventa sulla spada del padre e si trafigge) CINIRO: Figlia, oh, che hai fatto… la spada… MIRRA: Ecco te la rendo. Almeno ho avuto la mano veloce come la lingua. CINIRO: Io resto immobile pieno di spavento, d’orrore, di rabbia, di pietà. MIRRA: Oh Ciniro! Mi vedi vicino alla morte. Io ho saputo vendicarti e punire me stessa. Tu stesso l’orrendo mistero mi hai strappato dal cuore, ma poiché solo con la mia vita esce dalla mia bocca, muoio meno colpevole. CINIRO: Oh quale giorno! Oh delitto! Oh quale dolore! Per chi il mio pianto? MIRRA: Non piangere più, che io non lo merito; sfuggi la mia vista infame e a mia madre Cecri nascondi (il motivo) per sempre. CINIRO: Padre infelice, perché il suolo ancora non si spalanca. Io non ho il coraggio d’avvicinarmi all’ingiusta donna che muore, eppure non posso abbandonare mia figlia piena di sangue…
Musicultura On Line - Commenti Classica, Lirica, Balletto - Jesi (AN): una  vera sorpresa questa "Mirra"

Denia Mazzola Gavazzeni in Mirra (riduzione musicale in due atti di Domenico Alealona)

Il suicidio di Mirra non è un suicidio contro la libertà di non poter amare, ma, più profondamente il suicidio della volontà inconscia contro la ragione. E’ quest’ultima a venire de finitamente sconfitta: essa non ha saputo prevalere sull’animo della protagonista; Mirra, infatti, resterà sola (nella scena successiva morirà con solo accanto la sua nutrice, lontano dai genitori) con il suo dramma che solo la morte può sciogliere. C’è già qui un personaggio, sia pur tratto da un’opera classica, profondamente legato al pathos; la sua sofferenza va al di là, come già detto, della ragione, capace di guidare l’uomo verso un infinito progresso (come affermavano gli illuministi), per aprire varchi inesplorati dell’animo umano.

Saul

Il testo biblico narra di come il valoroso guerriero Saul venga unto primo re d’Israele dal sommo sacerdote Samuele. Accecato dalla brama del potere, tuttavia, Saul si allontana progressivamente dalla grazia e dal favore di Dio, finché Samuele, divinamente ispirato, non consacra nuovo re il giovane pastore e musico David. In guerra con i Filistei, David si distingue in atti di valore, acquistando grande valore agli occhi del popolo; ma le sue vittorie inveleniscono il vecchio re Saul, che teme per il trono cui non intende rinunciare. In parte per sincera ammirazione, in parte per calcolo politico Saul dà in sposa la figlia Micol a David, ma al contempo trama per ucciderlo, giungendo, nel tempo in cui avrebbe bisogno del suo valore guerriero, a blandirlo dal regno. La tragedia alfieriana, che ha la durata “classica” di ventiquattro ore, si apre sulla notte in cui David, accolto dal fedele amico Gionata, fratello di Micol, di nascosto fa ritorno all’esercito di Saul, accampato sulle alture di Gelboé in attesa dello scontro con i Filistei. Saul entra in scena nel secondo atto, mostrando la confusione di sentimenti che violentissima lo domina: senso di regalità e orrore per le forze che lo abbandonano, ricordi del passato glorioso e preveggenza di morte, amore per i figli e ossessione del tradimento, ammirazione per la giovanile baldanza di David, invidia e rancore per i suoi successi. Nel terzo atto, dopo essersi temporaneamente riconciliato con David grazie anche al suo canto, Saul viene assalito da un nuovo accesso d’ira, minaccia di morte David e lo induce a fuggire. Nel quarto atto Saul manda a morte il sacerdote Achimelech, accusando la casta sacerdotale di tradimento, e si appresta a combattere i Filistei senza l’aiuto di David. La situazione precipita nel quinto atto: i Filistei travolgono l’esercito israelita, Saul, sempre più sconvolto da allucinazioni e rimorsi, apprende della morte dei figli in battaglia, e per non cadere nelle mani del nemico si dà la morte, affidando la figlia Micol a David.

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Guercino: Saul e David

Il Saul precede la composizione della Mirra: infatti viene scritto nel 1782 e rappresenta il punto più alto della tragedia alfieriana che ha come tema l’interiorizzazione di un dilemma irrisolvibile. Infatti se la precedente tragedia, pur rappresentando un mito, lo risolveva, tragicamente, in una sorta di dramma “borghese” (l’amore del padre per una figlia a cui vuole concedere tutto, pur di vederla felice), questa tragedia ha come protagonista un tiranno il cui limite verso l’assoluto della libertà trova un limite non in un antagonista ma in Dio. Questo condurrà alla pazzia Saul e l’autore, appunto, ne scava i recessi dell’animo più profondi, mostrandoci le contraddizioni, i tormenti, la disperazione che può trovare quiete soltanto nella morte.

Nella pianura di Gelboè l’esercito di Israele, guidato dal re Saul, attende di misurarsi contro i filistei. David, già scacciato da Saul per gelosia, nonostante fosse sposo di sua figlia Micol e amico fraterno dell’altro figlio Gionata, è giunto al campo per combattere l’indomani con il suo popolo. Saul lo riaccoglie: i successivi colloqui del re con i figli, con David, col ministro Abner, rivelano i suoi tormenti e le sue malinconie, accentuati dal contrasto fra la propria vecchiaia e decadenza e la giovinezza e i successi di David. Quando però sempre più ossessionato da un’ansia di dominio assoluto, Saul fa mettere a morte il sommo sacerdote Achimelec, David lo abbandona. Assalito e sconfitto dai filistei, Saul si uccide.

I TORMENTI DI SAUL

SAUL:
Bell’alba è questa. In sanguinoso ammanto
oggi non sorge il sole; un dì felice
prometter parmi. – Oh miei trascorsi tempi!
Deh! dove sete or voi? Mai non si alzava
Saùl nel campo da’ tappeti suoi,
che vincitor la sera ricorcarsi
certo non fosse.

ABNER:
Ed or, perché diffidi,
o re? Tu forse non fiaccasti or dianzi
la filistea baldanza? A questa pugna
quanto più tardi viensi, Abner tel dice,
tanto ne avrai più intera, e nobil palma.

SAUL:
Abner, oh! quanto in rimirar le umane
cose, diverso ha giovinezza il guardo,
dalla canuta età! Quand’io con fermo
braccio la salda noderosa antenna,
ch’or reggo appena, palleggiava; io pure
mal dubitar sapea Ma, non ho sola
perduta omai la giovinezza… Ah! meco
fosse pur anco la invincibil destra
d’Iddio possente!… e meco fosse almeno
David, mio prode!

ABNER:
E chi siam noi? Senz’esso
più non si vince or forse? Ah! non più mai
snudar vorrei, s’io ciò credessi, il brando,
che per trafigger me. David, ch’è prima,
sola cagion d’ogni sventura tua…

SAUL:                
Ah! no: deriva ogni sventura mia
da più terribil fonte… E che? celarmi
l’orror vorresti del mio stato? Ah! S’io
padre non fossi, come il son, pur troppo!
di cari figli,… or la vittoria, e il regno,
e la vita vorrei? Precipitoso
già mi sarei fra gli inimici ferri
scagliato io, da gran tempo: avrei già tronca
così la vita orribile, ch’io vivo.
Quanti anni or son, che sul mio labro il riso
non fu visto spuntare? I figli miei,
ch’amo pur tanto, le più volte all’ira
muovonmi il cor, se mi accarezzan… Fero,
impazïente, torbido, adirato
sempre; a me stesso incresco ognora, e altrui;
bramo in pace far guerra, in guerra pace:
entro ogni nappo, ascoso tosco io bevo;
scorgo un nemico, in ogni amico, i molli
tappeti assiri, ispidi dumi al fianco
mi sono; angoscia il breve sonno; i sogni
terror. Che più? Chi ’l crederia? spavento
m’è la tromba di guerra; alto spavento
è la tromba a Saùl. Vedi, se è fatta
vedova omai di suo splendor la casa
di Saùl; vedi, se omai Dio sta meco.
E tu, tu stesso, (ah! ben lo sai) talora
a me, qual sei, caldo verace amico,
guerrier, congiunto, e forte duce, e usbergo
di mia gloria tu sembri; e talor, vile
uom menzogner di corte, invido, astuto
nemico, traditore…

ABNER:
Or, che in te stesso
appien tu sei, Saulle, al tuo pensiero,
deh, tu richiama ogni passata cosa!
Ogni tumulto del tuo cor (nol vedi?)
dalla magion di que’ profeti tanti,
di Rama egli esce. A te chi ardiva primo
dir, che diviso eri da Dio? l’audace,
torbido, accorto, ambïzioso vecchio,
Samuèl sacerdote; a cui fean eco
le sue ipocrite turbe. A te sul capo
ei lampeggiar vedea con livid’occhio
il regal serto, ch’ei credea già suo.
Già sul bianco suo crin posato quasi
ei sel tenea; quand’ecco, alto concorde
voler del popol d’Israello al vento
spersi ha suoi voti, e un re guerriero ha scelto.
Questo, sol questo, è il tuo delitto. Ei quindi
d’appellarti cessò d’Iddio l’eletto,
tosto ch’esser tu ligio a lui cessasti.
Da pria ciò solo a te sturbava il senno:
coll’inspirato suo parlar compieva
David poi l’opra. In armi egli era prode,
nol niego io, no; ma servo appieno ei sempre
di Samuello; e più al’’altar, che al campo
propenso assai: guerrier di braccio egli era,
ma di cor, sacerdote. Il ver dispoglia
d’ogni mentito fregio; il ver conosci.
Io del tuo sangue nasco; ogni tuo lustro
è d’Abner lustro: ma non può innalzarsi
David, no mai, s’ei pria Saùl non calca.

SAUL:                
David?… Io l’odio… Ma, la propria figlia
gli ho pur data in consorte . . . Ah! tu non sai.-
La voce stessa, la sovrana voce
che giovanetto mi chiamò più notti,
quand’io, privato, oscuro e lungi tanto
stava dal trono e da ogni suo pensiero;
or, da più notti, quella voce istessa
fatta è tremenda, e mi respinge, e tuona
in suon di tempestosa onda mugghiante:
“Esci Saùl; esci Saulle”… Il sacro
venerabile aspetto del profeta,
che in sogno io vidi già, pria ch’ei mi avesse
manifestato che voleami Dio
re d’Israèl, quel Samuèle, in sogno,
ora in tutt’altro aspetto io lo riveggo.
Io, da profonda cupa orribil valle,
lui su raggiante monte assiso miro:
sta genuflesso Davide a’ suoi piedi:
il santo veglio sul capo gli spande
l’unguento del Signor; con l’altra mano
che lunga lunga ben cento gran cubiti
fino al mio capo estendesi, ei mi strappa
la corona dal crine; e al crin di David
cingerla vuol: ma, il crederesti? David
pietoso in atto a lui si prostra, e niega
riceverla; ed accenna, e piange, e grida,
che a me sul capo ei la riponga… – Oh vista!
Oh David mio! tu dunque obbediente
ancor mi sei? genero ancora? e figlio?
e mio suddito fido? e amico?… Oh rabbia!
Tormi dal capo la corona mia?
Tu che tant’osi, iniquo vecchio, trema…
Chi sei?… Chi n’ebbe anco il pensiero, pera…-
Ahi lasso me! Ch’io già vaneggio!…

ABNER:
Pera,
David sol pera: e svaniran con esso,
sogni, sventure, vision, terrori.

SAUL: E’ questa una buona alba: Oggi il sole non sorge circondato da una nebbia rossastra (indice di sventura) Mi sembra che si prometta un giorno felice. – Oh, tempi miei felici! Dove siete ora? Mai non si alzava Saul dai suoi tappeti che non fosse certo che si sarebbe ricoricato vincitore. ABNER: E ora perché temi, o re? Tu forse, poco tempo fa, non hai indebolito la forza dei Filistei? A questa battaglia, quanto più si ritarderà l’inizio, te lo garantisce Abner, tanto più ne avrai una grande e nobile vittoria. SAUL: Oh, Abner! Quanto nell’osservare le cose umane è diverso lo sguardo di un giovane da quello di un vecchio! Quando io, con braccio fermo, tenevo la nodosa lancia, non avevo dubbi… Ma non ho solo perduto la giovinezza, ormai. Ah, fosse con me ancora l’invincibile favore di Dio potente… e fosse qui con me, almeno, David, mio eroe. ABNER: E chi siamo noi? Senza di lui non si può forse vincere ora? Oh, se io credessi ciò, non vorrei più sfoderare la spada che per trafiggere me. David, che è la prima e la sola ragione della tua rovina. SAUL: Ah, no! Deriva da un motivo più grande la mia rovina. E che? Vorresti nascondermi la gravità della mia situazione? Ah, se io non fossi padre, come sono, purtroppo, di figli cari, ora vorrei la vittoria, il regno e la vita? Con precipitazione io mi sarei gettato fra gli eserciti nemici, da molto tempo avrei già spezzato gli anni di questa mia vita. Da quanti anni non ho più la capacità di ridere? I figli miei, che pure amo tanto, muovono spesso il cuore all’ira, se s’avvicinano con affetto… Sono sempre feroce, impaziente, tormentato, arrabbiato, sempre sono odioso verso me stesso e gli altri, desidero fare la guerra in pace e la pace in guerra; dentro ogni coppa che bevo temo ci sia nascosto un veleno; vedo nemici in ogni amico, i soffici tappeti assiri, sono ispidi rovi al mio fianco; mi dà angoscia l’insonnia, i sogni mi procurano terrore. Che altro ancora? Chi lo crederebbe che mi procura uno spavento la tromba di guerra, un grande spavento a Saul. Vedi, è priva del suo splendore la casa di Saul; vedi se Dio ora sta con me. E tu, tu stesso (lo sai bene) talora mi sembri un vero amico, un guerriero, un parente sincero, un forte comandante, uno scudo per la mia gloria; altre volte mi sembri vigliacco, un cortigiano infido, invidioso, furbo, nemico e traditore. ABNER: Ora, che sei pienamente in te stesso, richiama il passato alla tua mente. Ogni tormento del tuo cuore (non lo vedi?) deriva dalla casa dei profeti della città di Rama. Chi ha avuto il coraggio di dirti che tu eri ormai diviso da Dio? Samuele audace, malfidato, furbo, vecchio ambizioso, a cui fanno eco gli ipocriti sacerdoti. Egli vedeva con il suo invidioso occhio rifulgere sul tuo capo la corona, che egli pensava già sua, già sui suoi bianchi capelli la vedeva, quando ecco un nobile e concorde volere del popolo d’Israele ha gridato al vento i suoi desideri ed ha scelto un re guerriero. Solo questa è la tua colpa. Egli quindi ha cessato di chiamarti scelto da Dio, nel momento stesso in cui tu cessasti d’essergli devoto. Dapprima solo questo ti turbava il sonno. Poi con le sue ispirate parole David compiva l’opera. In battaglia era coraggioso, non lo nego, ma sempre schiavo di Samuele, e assai più legato alla vita religiosa che alla vita militare. Negli atti militare, nel cuore sacerdote. Scopri il vero da ogni falsa apparenza, conosci la verità. Io nasco da te; ogni tua gloria è una mia gloria, ma non può innalzarsi David, se prima non schiaccia Saul. SAUL: David, io l’odio. Eppure gli ho dato mia figlia in sposa. Ah, tu non lo sai. La voce stessa, la voce di Dio che più notti mi ha chiamato da giovane, quando io, privo d’autorità, sconosciuto, e così lontano ero dal trono e da ogni suo pensiero, ora, da più notti, quella stessa voce è diventata tremenda, mi respinge e tuona come un’onda tempestosa che mugghia: “Lascia il trono, Saul, lascialo”… e la sacra e venerabile figura del profeta, che in sogno io ho già visto, prima che mi manifestasse che Dio mi voleva come re d’Israele, quel Samuele, in sogno io lo rivedo in tutt’altro atteggiamento. Io da una profonda e oscura grotta osservo lui su un alto monte illuminato dal sole: David sta inginocchiato ai suoi piedi; il vecchio santo gli spande sulla fronte l’unguento del Signore, con l’altra mano, lunga lunga ben oltre cento cubiti, si stende fino al mio capo, e mi strappa la corona dai capelli e vuole metterla sulla testa di David; ma, potresti crederlo? David si prosta con atto pietoso di fronte a lui e non vuol riceverla, e con cenni, pianti e grida (fa capire) che egli deve rimetterla sul mio capo. Oh, cosa vedo! Oh, mio David! Tu dunque mi sei ancora ubbidiente? Sei ancora mio genero? Mio figlio? Mio suddito fidato? Amico?… Oh, rabbia! Togliermi dal capo la mia corona! Tu che tanto hai osato, vecchio sacrilego (Samuele) ora trema! Chi sei? Muoia chi ne ebbe soltanto il pensiero! Oh, povero me! Che ora già sto vaneggiando…. ABNER: Muoia, il solo David muoia, e con lui cesseranno i sogni, le sventure, le visioni, le paure.

In questo passo vediamo Saul già prossimo alla follia, da cui, in seguito, si genererà la tragedia. Sebbene il giorno si mostri propizio per la battaglia, il re è preso da tormenti, non per paura dello scontro, ma è come se fosse invaso da una torbida angoscia, da un presentimento nefasto: non sono le forze che lo hanno abbandonato, ma Dio. Nonostante Abner cerchi di rincuorarlo, Saul è completamente solo, e in questa solitudine egli analizza impietosamente se stesso, non riuscendo a liberarsi dagli atroci dubbi che lo angosciano; dapprima è Abner che gli appare come amico, ma anche come traditore; poi è David verso cui prova un inspiegabile odio e amore; infine il sacerdote Samuele, colui che un tempo gli aveva offerto la corona per volontà di Dio e che ora, per la stessa volontà, vuole offrirla a David. Saul lo rispetta e lo odia perché sa che è lui il tramite della volontà di Dio e sa pertanto che se Samuele vuole offrire la corona a David, lo fa perché è Dio che lo vuole. Da qui la tremenda percezione dell’abbandono del Signore e l’angosciosa solitudine.

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Saul nell’interpretazione di Stefano Sabelli

LA MORTE DI SAUL

SAUL:
Ombra adirata, e tremenda, deh! cessa;
lasciami, deh!… Vedi: a’ tuoi piè mi prostro…
Ahi! dove fuggo?… ove mi ascondo? O fera
ombra terribil, placati… Ma è sorda
ai miei preghi; e m’incalza?… Apriti, o terra,
vivo m’inghiotti . . . Ah! pur che il truce sguardo
non mi saetti della orribil ombra…

MICOL:
Da chi fuggir? niun ti persegue. O padre,
me tu non vedi? me più non conosci?

SAUL:
O sommo, o santo sacerdote, or vuoi
ch’io qui mi arresti? o Samuèl, già vero
padre mio, tu l’imponi? ecco, mi atterro
al tuo sovran comando. A questo capo
già di tua man tu la corona hai cinta;
tu il fregiasti; ogni fregio or tu gli spoglia;
calcalo or tu. Ma,… la infuocata spada
d’Iddio tremenda, che già già mi veggo
pender sul ciglio,… o tu che il puoi, la svolgi
non da me, no, ma da’ miei figli. I figli,
del mio fallir sono innocenti.

MICOL:
Oh stato,
cui non fu il pari mai! – Dal ver disgiunto,
padre, è il tuo sguardo: a me ti volgi…

SAUL:                
Oh gioia! Pace hai sul volto? O fero veglio, alquanto
miei preghi accetti? io da’ tuoi piè non sorgo,
se tu i miei figli alla crudel vendetta
pria non togli. – Che parli?… Oh voce! “T’era
David pur figlio; e il perseguisti, e morto
pur lo volevi”. Oh! che mi apponi? . . . Arresta.
Sospendi or, deh! Davidde ov’è? si cerchi:
ei rieda; a posta sua mi uccida, e regni:
sol che a’ miei figli usi pietade, ei regni… –
Ma, inesorabil stai? Di sangue hai l’occhio;
foco il brando e la man; dalle ampie nari
torbida fiamma spiri, e in me l’avventi…
Già tocco m’ha; già m’arde: ahi! dove fuggo?
per questa parte io scamperò.

MICOL:
Né fia,
ch’io rattener ti possa, né ritrarti
al vero? Ah! m’odi: or sei…

SAUL:                                                   
Ma no; che il passo
di là mi serra un gran fiume di sangue.
Oh vista atroce! sovra ambe le rive,
di recenti cadaveri gran fasci
ammonticati stanno: ah! tutto è morte
colà: qui dunque io fuggirò… Che veggo?
Chi sete or voi? – “D’Achimelèch siam figli.
Achimelèch son io. Muori, Saulle,
muori”.- Quai grida? Ah! lo ravviso: ei gronda
di fresco sangue, e il mio sangue ei si beve.
Ma chi da tergo, oh! chi pel crin mi afferra?
Tu, Samuèl? – Che disse? che in brev’ora
seco tutti saremo? Io solo, io solo
teco sarò; ma i figli … – Ove son io?-
Tutte spariro ad un istante l’ombre.
Che dissi? Ove son io? Che fo? Chi sei?
Qual fragor odo? ah! di battaglia parmi:
pur non aggiorna ancor: sì, di battaglia
fragore egli è. L’elmo, lo scudo, l’asta,
tosto or via, mi si rechi: or tosto l’arme
l’arme del re. Morir vogl’io, ma in campo.

MICOL:
Padre, che fai? Ti acqueta . . . Alla tua figlia

SAUL:
L’armi vogl’io; che figlia? Or, mi obbedisci.
L’asta, l’elmo, lo scudo; ecco i miei figli.

MICOL:
Io non ti lascio, ah! no…

SAUL:
Squillan più forte le trombe?
Ivi si vada: a me il mio brando
basta solo. – Tu, scostati, mi lascia;
obbedisci. Là corro: ivi si alberga
morte, ch’io cerco.

ABNER:
Oh re infelice!… Or dove,
deh! dove corri? Orribil notte è questa.

SAUL:
Ma, perché la battaglia?

ABNER:
Di repente,
il nemico ci assale: appien sconfitti
siam noi…

SAUL:
Sconfitti? E tu fellon, tu vivi?

ABNER:
Io? per salvarti vivo. Or or qui forse
Filiste inonda: il fero impeto primo
forza è schivare: aggiornerà frattanto.
Te più all’erta quassù, fra i pochi miei,
trarrò…

SAUL:
Ch’io viva, ove il mio popol cade?

MICOL:
Deh! vieni… Oimè! cresce il fragor: s’inoltra…

SAUL:
Gionata,… e i figli miei,… fuggono anch’essi?
mi abbandonano?

ABNER:
Oh cielo!… I figli tuoi,…
no, non fuggiro… Ahi miseri!

SAUL:
T’intendo: morti or cadono tutti…

MICOL:
Oimè!… I fratelli?…

ABNER:
Ah! più figli non hai.

SAUL:
– Ch’altro mi avanza?
Tu sola omai, ma non a me, rimani. –
Io da gran tempo in cor già tutto ho fermo:
e giunta è l’ora. – Abner, l’estremo è questo
de’ miei comandi. Or la mia figlia scorgi
in securtà.

MICOL:
No, padre; a te dintorno
mi avvinghierò: contro a donzella il ferro
non vibrerà il nemico.

SAUL:
Oh figlia!… Or, taci:
non far, ch’io pianga. Vinto re non piange.
Abner, salvala, va’: ma, se pur mai
ella cadesse infra nemiche mani,
deh! non dir, no, che di Saulle è figlia;
tosto di’ lor, ch’ella è di David sposa;
rispetteranla. Va’; vola…

ABNER:
S’io nulla
valgo, fia salva, il giuro; ma ad un tempo
te pur…

MICOL:
Deh!… padre… Io non ti vo’, non voglio
lasciarti…

SAUL:
Io voglio: e ancora il re son io.
Ma già si appressan l’armi: Abner, deh! vola:
teco, anco a forza, s’è mestier, la traggi.

MICOL:
Padre! … e per sempre?…

SAUL:
Oh figli miei!… Fui padre. –
Eccoti solo, o re ; non ti resta
dei tanti amici, o servi tuoi. – Sei paga,
d’inesorabil Dio terribil ira? –
Ma, tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo,
fido ministro, or vieni. – Ecco già gli urli
dell’insolente vincitor: sul ciglio
già lor fiaccole ardenti balenarmi
veggo, e le spade a mille… – Empia Filiste,
me troverai, ma almen da re, qui… morto. –

SAUL: Fantasma adirato e tremando, smettila; lasciami; vedi, ai tuoi piedi mi prosto… Dove posso fuggire?… dove posso mi nascondo? O feroce e terribile ombra, placati… Ma sei sorda alle mie preghiera, e m’incalzi? Apriti, o terra, e inghiottimi… Ah, potesse il fantasma cessare di trafiggermi con lo sguardo. MICOL: Da chi fuggi? Nessuno ti persegue. Oh padre, non vedi più? Non mi riconosci più? SAUL: O sommo e santo sacerdote, vuoi che io mi dimetta? O Samuele, mio padre vero, tu lo comandi? Ecco, mi prostro al tuo supremo comando: Hai già cinto la corona su questa testa, tu l’hai ornata; ora togli qualsiasi ornamento, mettila tu se vuoi. Ma la spada infuocata e tremenda di Dio, che già vedo pendere davanti agli occhi, o, tu che puoi, allontanala non da me, no, ma dai miei figli; loro sono innocenti. MICOL: Oh quale condizione, senza uguale precedente, lontano dalla verità, padre, è il tuo sguardo; volgilo verso di me. SAUL: Oh gioia! Sul volto t’è dipinta la pace, oh fiero vecchio, dunque accetti le mie preghiere? Io non mi alzo dai tuoi piedi, se tu prima non togli i miei figli dalla crudele vendetta. Che dici? Oh, sento la tua voce: “Ti era anche David figlio, lo hai perseguito, e addirittura lo volevi morto”; Oh, che accuse mi muovi? Fermati, sospendi ora le tue parole… Davide dov’è? Si cerchi, egli torni; mi uccida a suo piacimento e infine regni. Ma, sei inesorabile? Hai gli occhi pieni di sangue, la spada e le mani di fuoco, spando fuoco dal naso, e la volgi verso me… Già mi hai colpito, brucia. Ahi, dove fuggo? Cercherò scampo da questa parte. MICOL: Non avverrà che io possa trattenerti né riportarti alla verità: Ah, mi senti, tu sei… SAUL: Ma no, che la fuga m’impedisce un gran fiume di sangue. Oh, vista atroce. Sopra le due rive stanno ammonticchiati numerosi cadaveri: ah, tutto è morte di là; allora fuggirò per di qui. Cosa vedo? Chi siete voi? “Siamo figli di Achimelech. Io sono Achimelech. Muori, Saul, muori”. Chi grida? Ah, lo vedo? Gronda di sangue fresco, e beve il mio sangue. Ma chi da dietro? Chi afferra i miei capelli da dietro? Tu, Samuele? – Che ha detto? Che tra breve saremo tutti con loro? Io solo, io solo, sarò con te, ma i figli… Dove sono? Sono andate tutte vie le ombre. Che ho detto? Dove sono? Che faccio? Chi sei? Quale fragore sento? Ah di guerra, mi sembra, non si è ancora fatto giorno, sì è fragore di battaglia. Ora subito le armi, le armi del re. Voglio morire, ma sul campo. MICOL: Padre, che fai? Calmati. Alla tua figlia… SAUL: Voglio le armi? Quale figlia? Obbediscimi. La lancia, l’elmo, lo scudo; ecco i miei figli. MICOL: Io non ti lascio, no. SAUL: Suonano più forte le trombe di guerra? Si vada lì, a me basta solo la spada. Tu scostati, lasciami; obbedisci. Corro là, lì sta la morte che io cerco. ABNER: Oh re infelice, dove corri? E’ una notte orribile, questa. SAUL: Ma perché, la battaglia… ABNER: All’improvviso il nemico ci ha assaltato, siamo totalmente sconfitti. SAUL: Sconfitti? E tu, traditore, tu vivi? ABNER: Io vivo per salvarti. Ora qui forse i Filistei giungeranno: il feroce primo impeto è schivare l’urto. Nel frattempo si fa mattino. Ti porterò sull’altura, insieme a pochi soldati. SAUL: Che io viva, mentre il mio popolo muore? MICOL: Vieni, oimé il fragore aumenta, avanza. SAUL: Gionata e gli altri miei figli fuggono anche loro? Mi abbandonano? ABNER: Oh, cielo, i tuoi figli, no, non fuggirono, ah, poveri loro! SAUL: Capisco, sono tutti morti. MICOL: Ahi, i fratelli! Ah, non hai più figli! SAUL: Che cosa mi resta? Tu sola ormai, ma non a me, rimani. Io da tempo ormai ho deciso fermamente: è arrivato il mio momento. Abner, questo è l’ultimo mio comando. Ora fai da scorta a mia figlia, e portala in un luogo sicuro. MICOL: No, padre, mi avvinghierò a te, il nemico non oserà colpire con la spada una donna. SAUL: Oh, figlia, taci, non farmi piangere. Un re vinto non piange. Abner, salvala: va’, ma se mai cadesse fra mani nemiche, non dire, no, che è figlia di Saul, piuttosto di’ loro che lei è la moglie di David. La rispetteranno, va’, vola! ABNER: Se valgo qualcosa, lei sarà salva, ma anche tu. MICOL: Ahi, padre, io non ti voglio lasciare. SAUL: Lo voglio io, e sono ancora il re. Ma già si avvicinano le armi. Abner, va’, vola! Portala via con te, con la forza, se necessario. MICOL: Padre, per sempre?… SAUL: Oh, figli miei, fui padre. Eccoti solo, o re; non ti resta nessuno dei tanti amici, e nemmeno dei servi. Sei soddisfatta ira terribile di un Dio inesorabile? Ma tu rimani, o spada, per l’ultimo scopo, fedele ministro. Ecco già sento le urla dell’insolente vincitore; vedo balenarmi sugli occhi le loro fiaccole ardenti e le mille spade. – Empi Filistei, mi troverai, qui morto, ma almeno da re.

Sono qui raccolte le tre ultime scene del V atto del Saul. Nella prima Saul è impazzito, preda del suo rimorso. Vaga da una parte all’altra inseguendo i fantasmi di fronte agli occhi di un’atterrita Micol. I fantasmi sono le sue azioni, che ora gli si rivolgono contro: David, perseguitato e minacciato di morte, Achimelech, ucciso perché sosteneva David. Eccoli ora che s’innalzano a torturarlo, con voci insistenti, di fronte all’impotente Saul. Nella seconda scena entra in scena Abner: il re si è ripreso, e insegue la morte a viso aperto, in pieno campo di battaglia. Nell’ultima scena, Saul è solo con se stesso: la sua illimitata brama di potere ha trovato un ostacolo, Dio stesso; la sua è una sconfitta contro chi non si potrà mai vincere. Emerge qui la figura del Titano, di chi sfida Dio e ne è vinto. Ma sarà proprio il titanismo uno dei temi cardine del Romanticismo.