GIACOMO LEOPARDI

leopardi

Biografia

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Monaldo Leopardi e Adelaide Antici

Giacomo Leopardi, nasce a Recanati, piccolo centro all’interno dello Stato Pontificio, il 29 giugno del 1798, dal conte Monaldo e da Adelaide Antici. L’ambiente sociale e il periodo storico nel quale Giacomo si forma è quello della Restaurazione reso ancora più pesante dal vivere in un luogo considerato periferia di uno Stato che si faceva forza nel combattere qualsiasi forma di modernità e nel contrastare ferocemente le idee della Rivoluzione Francese.

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Casa Leopardi a Recanati nella seconda dell’800

La famiglia Leopardi, nel piccolo borgo, per nome e nobiltà è abbastanza prestigiosa, ma non altrettanto ricca. Gran parte del denaro era stato infatti speso dal conte Monaldo nell’arricchimento di una cospicua biblioteca, che non solo raccoglieva classici greci e latini, ma anche opere più antiche come quelle in ebraico e più moderne, in lingua francese, appartenenti, addirittura al pensiero illuminato. Il giovane Giacomo trascorre la sua infanzia insieme ai fratelli a lui più vicini, Carlo e Paolina, con cui condivide momenti e giochi. Comincia, tuttavia, a mostrare i segni della sindrome di Pott, che ne influenza la crescita: tutto ciò verrà accentuato dagli anni in cui, con determinazione, deciderà di acquisire quanta più conoscenza possibile, passando dagli 11 ai 18 anni, che lui stesso definirà  “sette anni di studio matto e disperatissimo”, nella biblioteca paterna di oltre ventimila volumi, ed uscendone con una perfetta conoscenza del greco e del latino, nonché dell’ebraico, ma fortemente minato nel fisico.

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La biblioteca a casa Leopardi (oggi con il busto del poeta)

Ma perché lo fece?

Spiegarlo come meccanismo psicologico in risposta alla solitudine che lo attanagliava, può sembrare semplicistico. Ma dobbiamo tener presente l’aridità di affetti da cui si sentiva circondato. Il grido d’amore che egli espresse gli fece infatti rappresentare in casa, in età ancora infantile, due tragedie e scrivere a quindici anni opere d’estrema erudizione, come Storia dell’astronomia e a diciassette il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Infatti, come ci dice nello Zibaldone (una sorta di diario di riflessioni che tenne tra il 1817 e il 1832) il padre, che pur lo amava immensamente, s’aspettava da lui onore e successo, la madre, bigotta oltre ogni limite, per cui era meglio un figlio morto piccolo affinché non cadesse nel peccato, gli diede una fame d’amore che poteva ottenere solo mostrandosi genialmente eccezionale. Tutto ciò, per la sua estrema sensibilità e capacità, poteva accadere solo con la cultura.

Le traduzioni di allora, soprattutto quella del II libro dell’Eneide, della Batracomiomachia pseudomerica e degli Idilli di Mosco (poeta greco di cui ci sono pervenute liriche, ma di cui non si sa nulla) e la non comune preparazione filologica lo misero in contatto epistolare con l’intellettuale Pietro Giordani (di idee liberali) che lo posero contro il reazionario Monaldo, ma soprattutto gli diedero la misura dell’arretratezza culturale e dell’isolamento del luogo in cui viveva. E’ di questi anni il passaggio “dall’erudizione al bello” come lui stesso, nello Zibaldone lo definirà e in un passo più tardi della “conversione letteraria” che maturò a partire dal 1816. Dopo il possesso degli strumenti tecnici, Leopardi, infatti, approfondisce i temi o, per meglio dire, la bellezza della poesia omerica, virgiliana e oraziana, e comincia anch’egli a comporre canzoni come All’Italia e Sopra il monumento di Dante, che testimoniano l’allontanamento dal conservatorismo e bigottismo della sua famiglia.

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Pietro Giordani

L’amicizia con Giordani, conosciuto personalmente a Recanati nel 1818, non solo aiutarono la sua maturazione, ma lo misero in contatto con gli intellettuali più in vista della penisola italiana. Ed è proprio l’affacciarsi al dibattito culturale che avveniva allora in Italia, alimentato dall’articolo della De Staël, che gli permise di porsi in modo attivo nella discussione di allora, per rispondere in modo del tutto originale rispetto alle teorie allora correnti, con la Lettera ai compilatori italiani della Biblioteca italiana (1816), rimasta inedita, confluita poi nel più argomentato Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, anch’essa non pubblicata. La mancanta diffusione accentuano in qualche modo l’isolamento non solo geografico, ma anche intellettuale del giovane recanatese.

Siamo nel 1819 quanto tenta “la fuga” da Recanati, purtroppo fallita: la frustrazione per l’atto mancato, una forma di esaurimento psicofisico, che si materializzò soprattutto nell’organo della vista, non permette a lui di leggere; l’isolamento del pensiero lo conduce a quello che potremo definire “dal bello al vero” o, modellandolo a quello precedente, alla “conversione filosofica”, portandolo ad un assoluto ateismo. Ciò non provoca in lui l’abbandono della poesia, ma darà vita a sei idilli scritti tra il 1819 e il 1821 e nel ’20 alla terza canzone civile: Ad Angelo Mai a cui ne seguiranno altre sei in cui esplicherà tutto il suo pessimismo.

Ottenuto, finalmente, il permesso di lasciare Recanati, nel 1822 si recò a Roma, dove rimase fino al 1823: grandi furono le aspettative, altrettanto grande la delusione: il vuoto culturale accompagnato dallo sfarzo gli procurano più fastidi che piacere. Si vide quasi costretto quindi a tornare “nel natio borgo selvaggio” e nel 1824 fece pubblicare a Bologna le Canzoni fino ad allora elaborate. L’acquisizione della verità filosofica ebbe influenza anche sulla successiva produzione letteraria: in pochi anni scrive venti prose di carattere filosofico, sulla stregua dei Dialoghi di Luciano di Samosata (intellettuale siriaco, di lingua greca, vissuto nel periodo degli Antonini) che prendono il titolo di Operette morali.

Riesce, intanto, ad allontanarsi da Recanati per recarsi a Milano su invito dell’editore Stella come commentatore di scrittori classici: il clima della città lombarda, tuttavia, non si confaceva alla salute del nostro; si trasferisce quindi prima a Firenze e quindi a Pisa. Sia la bellezza della città, sia il rinascere della sua ispirazione poetica lo riportano a comporre versi. Dopo un breve soggiorno fiorentino, Leopardi deve, per ristrettezze economiche, tornare a Recanati, ma in questa prigione scriverà forse alcune tra le poesie più belle. Si trovò a chiedere a Viesseux (intellettuale ed editore) un impiego qualsiasi, pur di rifuggire dallo Stato di Chiesa. Otterrà un assegno vitalizio da generosi amici fiorentini, dove trovò inizio una certa vita sociale, grazie anche all’amicizia con il giovane napoletano Antonio Ranieri.

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Ritratto di Antonio Ranieri in età matura  

La vita esuberante di quest’ultimo, sempre a caccia di qualche gonnella, mise Leopardi a maggior contatto con realtà, specie di quella amorosa, fino ad allora solo idealizzata, e se s’innamora, forse realmente per la prima volta, di Fanny Targioni Tozzetti, è altrettanto forte la delusione da fargli cambiare registro poetico nel cosiddetto Ciclo d’Aspasia. Per un consiglio del medico, grazie anche ad un piccolo appannaggio che riesce ad ottenere dalla famiglia, riesce a non rientrare a Recanati ma a trasferirsi a Napoli, città dell’amico Ranieri, ma anche località consigliata da un medico per, parafrasando Parini, la “salubrità dell’aria”. Va a vivere in una villa, presso la sorella dell’amico Antonio, posta alle pendici del Vesuvio, che gli darà l’ispirazione per le sue ultime due liriche, una delle quali fra le più belle della maturità La ginestra. Muore in questa città il 14 giugno del 1837 a soli 39 anni.

Zibaldone

Prima di qualsiasi approccio verso la produzione letteraria/filosofica di Leopardi è necessario soffermarci su questa raccolta di pensieri, appunti, riflessioni che il nostro elabora dal 1817 al 1832, e che sistema, intorno al ’27, scrivendo un indice analitico degli stessi, quasi a voler codificare un percorso di autobiografia intellettuale a cui lui stesso dà il nome Zibaldone. Ma cosa vuol dire Zibaldone? La parola era già attestata come titolo di alcune raccolte disordinate di pensieri e testi e sembra fare riferimento allo zabaione, dunque a un amalgama montato con ingredienti diversi tra loro. Nello Zibaldone leopardiano, il titolo ha una valenza sia formale che contenutistica: allude alla varietà disordinata dei temi e al carattere provvisorio e frammentario della scrittura.

Possiamo dividirlo, per comodità didattica, a grandi linee, in:

  • teoria del piacere e pessimismo;
  • poetica del vago e indefinito.

tenendo ben presente che le tematiche su esposte si intersecano necessariamente tra loro.

TEORIA DEL PIACERE

Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perchè nessun piacere è eterno, 2. nè la sua estensione, perchè nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perchè, come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch’è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente l’infinità, perchè ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perchè non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell’anima, perchè quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perchè la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno. (…)  Quindi potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre, del che ci facciamo tanta maraviglia, come se ciò venisse da una sua natura particolare, quando il dolore la noia ec. non hanno questa qualità. Il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perchè non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perchè l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato. Veniamo alla inclinazione dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2. che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte non potendo spogliar l’uomo e nessun essere vivente, dell’amor del piacere che è una conseguenza immediata e quasi tutt’uno coll’amor proprio e della propria conservazione necessario alla sussistenza delle cose, dall’altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha voluto supplire 1. colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima, e bisogna considerarle come cose arbitrarie in natura, la quale poteva ben farcene senza, 2. coll’immensa varietà acciocchè l’uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all’altro, o anche disingannato di tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran varietà delle cose, ed anche non potesse così facilmente stancarsi di un piacere, non avendo troppo tempo di fermarcisi, e di lasciarlo logorare, e dall’altro canto non avesse troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti i piaceri a soddisfarlo. Quindi deducete le solite conseguenze della superiorità degli antichi sopra i moderni in ordine alla felicità. 1. L’immaginazione come ho detto è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli. Ma questa non può regnare senza l’ignoranza, almeno una certa ignoranza come quella degli antichi. La cognizione del vero cioè dei limiti e definizioni delle cose, circoscrive l’immaginazione. E osservate che la facoltà immaginativa essendo spesse volte più grande negl’istruiti che negl’ignoranti, non lo è in atto come in potenza, e perciò operando molto più negl’ignoranti, li fa più felici di quelli che da natura avrebbero sortito una fonte più copiosa di piaceri. (…) Del resto il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione (non solamente nell’uomo ma in ogni vivente), la pena dell’uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l’uomo non molto profondo gli scorge solamente da presso. Quindi è manifesto 1. perchè tutti i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e l’ignoto sia più bello del noto; effetto della immaginazione determinato dalla inclinazione della natura al piacere, effetto delle illusioni voluto dalla natura. 2. perchè l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. Stante la considerazione qui sopra detta, l’anima deve naturalmente preferire agli altri quel piacere ch’ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli veramente Omerici in questo,  gl’ignoranti ec. in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne. La malinconia, il sentimentale moderno ec. perciò appunto sono così dolci, perchè immergono l’anima in un abbisso di pensieri indeterminati de’ quali non sa vedere il fondo nè i contorni. (…) Del rimanente alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perchè allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perchè il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia, come chiamano. Al contrario la vastità e moltiplicità delle sensazioni diletta moltissimo l’anima. Ne deducono ch’ella è nata per il grande ec. Non è questa la ragione. Ma proviene da ciò, che la moltiplicità delle sensazioni, confonde l’anima, gl’impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie l’esaurimento subitaneo del piacere, la fa errare d’un piacere in un altro senza poterne approfondare nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo a un piacere infinito.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è giacomo-leopardi-zibaldone-di-pensieri-1961-mondadori-2.jpgEdizione dello Zibaldone del 1961

Queste rilessioni “sul piacere” di Leopardi, scritte nel tra il 12 e il 23 luglio del 1820, rappresentano uno dei nuclei fondamentali della sua speculazione filosofica. In primo luogo bisogna sottolineare come l’autore recanatese parti da considerazioni “sensistiche”, figlie dell’illuminismo: il piacere, come sensazione, è innato nell’uomo, senza di esso non esisterebbe la vita umana. Essendo questo parte integrante dell’uomo diventa “naturale aspirazione”, a cui, tuttavia la realtà non può corrispondere in modo completo e ciò perché la vita dell’uomo, rispetto al tempo e allo spazio, è limitata (e quindi può dare a lui piaceri limitati) mentre lo stesso essere umano tende a qualcosa di illimitato e quindi irraggiungibile. Per questo l’ottenimento di un piacere “reale” porta con sé, inevitabilmente, la consapevolezza della sua limitatezza, dando luogo al dolore. Ora l’uomo un tempo, secondo Leopardi, era più felice proprio perché aveva la possibilità di raggiungere l’illimitatezza del piacere attraverso la facoltà immaginativa: quest’ultima è certamente illimitata in quanto non può essere circoscritta ed era maggiore un tempo perché non ancora limitata dal progresso che, svelando la realtà, uccide l’immaginazione. Rimane oggi tale facoltà solo quando vi è un qualcosa che, privando o frapponendosi tra la vista o l’udito, ci offre la possibilità d’immaginare cosa vi è “oltre esso”. E’ tale concetto che sta alla base del “pessimismo storico”, intendendo con esso quella felicità che la natura ci offre (quindi natura a noi benigna) di contro al progresso della storia che la cancella.

Tale riflessione trova la sua esplicitazione nelle canzoni elaborate intorno al ’20, nate a seguito delle sollecitazioni culturali del Giordani e che vedono il nostro Leopardi, oltre a prendere posizione riguardo la situazione politica dell’Italia, staccarsi, in modo definitivo, dall’ideologia bigotta e retriva a cui la famiglia lo aveva indirizzato, tra queste ricordiamo : All’Italia (1918): in cui il giovane poeta mostra di aver assimilato la lezione di Petrarca e lo spirito libertario di Alfieri e Foscolo; Ad Angelo Mai (1920): dedicata al cardinale che ritrovò il De Republica di Cicerone; Bruto minore (1821): l’dea del suicidio come risposta al tramonto di ogni di ogni magnanima illusione; Ultimo canto di Saffo (1922): la canzone nasce con l’intenzione di “rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane” (Annotazioni alle 10 canzoni stampate a Bologna nel 1824), e nei cosiddetti “Piccoli idilli“.

Paolina Leopardi

La radicalizzazione del “pessimismo” leopardiano, avviene durante il lungo silenzio, dal 1824 al 1828, e che sfocerà  nella pubblicazione delle Operette morali: generalmente in esse troviamo la risoluzione del conflitto uomo natura attraverso qualsiasi negazione della sua benevolenza verso l’uomo, in ogni attimo della storia dell’uomo e della sua singolare vita. Non c’è mai alcuna felicità se, come è nella realtà, egli nasce per morire e diventa parte di un meccanismo che trascende ogni sua volontà.

LA REA NATURA

La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente a’ loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio piú alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi ec. ec.

La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente, regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti. Ciò, essendo necessaria conseguenza dell’ordine attuale delle cose, non dà una grande idea dell’intelletto di chi è o fu autore di tale ordine.

Sono questi “pensieri”, ambedue vergati nel 1829, a darci l’evoluzione del pesiero leopardiano dal pessimismo storico al pessimismo cosmico. Infatti “Leopardi tiene a precisare che la sua filosofia è apparentemente misantropica, in quanto si prefigge lo scopo di convertire l’odio che l’uomo prova verso i suoi simili nella consapevolezza che la vera causa dell’infelicità umana è appunto la natura. Il suo invito a reagire alla malignità della natura nasce, prima che da un atteggiamento filosofico, dalla sofferenza e dall’esperienza personale della propria e dell’altrui infelicità”.

Ale ’98: Leopardi e la Natura

LA POETICA 

Il passato, a ricordarsene, è più bello del presente, come il futuro a immaginarlo. Perché? Perché il solo presente ha la sua vera forma nella concezione umana; è la sola immagine del vero, e tutto il vero è brutto.

Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli oggetti veduti per metà o con certi impedimenti ec. ci destino idee indefinite, si spiega perché piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogo, oggetto ec. dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov’ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori e in una loggia parimente ec.; quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell’ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il riflesso che produce, per esempio, un vetro colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro; tutti quegli oggetti insomma che per diversi materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell’ordinario ec. Per lo contrario la vista del sole o della luna in una campagna vasta ed aprica e in un cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della sensazione. Ed è pur piacevole, per la ragione assegnata di sopra, la vista di un cielo diversamente sparso di nuvoletti, dove la luce del sole o della luna produca effetti variati e indistinti e non ordinari ec. È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada a poco a poco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso ec. ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non veder tutto e il potersi perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo a ciò che non si vede. Similmente dico dei simili effetti, che producono gli alberi, i filari, i colli, i pergolati, i casolarii pagliai, le ineguaglianze del suolo ec. nelle campagne. Per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura, dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima, per l’idea indefinita in estensione, che deriva da tal veduta. Cosí un cielo senza nuvolo. Nel qual proposito osservo che il piacere della varietà e dell’incertezza prevale a quello dell’apparente infinità e dell’immensa uniformità. E quindi un cielo variamente sparso di nuvoletti è forse piú piacevole di un cielo affatto puro; e la vista del cielo è forse meno piacevole di quella della terra e delle campagne ec., perché meno varia (ed anche meno simile a noi, meno propria di noi, meno appartenente alle cose nostre ec.). Infatti ponetevi supino in modo che voi non vediate se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete una sensazione molto meno piacevole che considerando una campagna o considerando il cielo nella sua corrispondenza e relazione colla terra ed unitamente ad essa in un medesimo punto di vista. È piacevolissima ancora, per le sopraddette cagioni, la vista di una moltitudine innumerabile, come delle stelle o di persone ec., un moto moltiplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago ec., che l’animo non possa determinare né concepire definitamente e distintamente ec., come quello di una folla o di un gran numero di formiche o del mare agitato ec. Similmente una moltitudine di suoni irregolarmente mescolati e non distinguibili l’uno dall’altro ec. ec. ec.

Le parole lontanoantico e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste e indefinite e non determinabili e confuse.

Le parole notte notturno ec., le descrizioni della notte ec., sono poeticissime, perché, la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sí di essa che [di] quanto ella contiene. Cosí oscurità, profondo ec. ec.

Le rimembranze che cagionano la bellezza di moltissime immagini ec. nella poesia ec. non solo spettano agli oggetti reali, ma derivano bene spesso anche da altre poesie, vale a dire che molte volte un’immagine ec. riesce piacevole in una poesia, per la copia delle ricordanze della stessa o simile immagine veduta in altre poesie.

Quello che altrove ho detto sugli effetti della luce o degli oggetti visibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il piú spregevole) udito da lungi o che paia lontano senza esserlo o che si vada a poco a poco allontanando e divenendo insensibile o anche viceversa (ma meno) o che sia cosí lontano, in apparenza o in verità, che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità degli spazi; un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec., dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s’ode suonare per le valli, senza però vederli, e cosí il muggito degli armenti ec. Stando in casa, e udendo tali canti o suoni per la strada, massime di notte, si è piú disposti a questi effetti, perché né l’udito né gli altri sensi non arrivano a determinare né circoscrivere la sensazione e le sue concomitanze. È piacevole qualunque suono, anche vilissimo, che largamente e vastamente si diffonda, come in taluno dei detti casi, massime se non si vede l’oggetto da cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e dà, quando non sia vinto dalla paura, il fragore del tuono, massime quand’é piú sordo, quando è udito in aperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme confusamente in una foresta o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è udito da lungi, o dentro una città trovandosi per le strade ec. Perocché oltre la vastità e l’incertezza e confusione del suono non si vede l’oggetto che lo produce, giacché il tuono e il vento non si vedono. È piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il calpestio de’ piedi o la voce ec. Perocché l’eco non si vede ec. E tanto piú quanto il luogo e l’eco è piú vasto, quanto piú l’eco vien da lontano, quanto piú si diffonde; e molto piú ancora se vi si aggiunge l’oscurità del luogo che non lasci determinare la vastità del suono né i punti da cui esso parte ec. ec. E tutte queste immagini in poesia ec. sono sempre bellissime, e tanto piú quanto piú negligentemente son messe e toccando il soggetto, senza mostrar l’intenzione per cui ciò si fa, anzi mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son per produrre e di non toccarli se non per ispontanea e necessaria congiuntura e indole dell’argomento ec. Vedi in questo proposito Virg. Eneide, VII, v.8, seqq.* La notte o l’immagine della notte è la piú propria ad aiutare, o anche a cagionare, i detti effetti del suono. Virgilio da maestro l’ha adoperata .

*aspirant aurae in noctem nec candida cursus // luna negat, splendet tremulo sub lumine pontus
Spirano le brezze sulla notte né la candida luna nega // il percorso, il mare splende sotto tremula luce

 

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è manoscritto_carducci.pngPagina autografa dello Zibaldone

Una voce o un suono lontano, o decrescente e allontanantesi a poco a poco, o echeggiante con un’apparenza di vastità ec. ec., è piacevole per il vago dell’idea ec. Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito in piena campagna, in una gran valle ec., il canto degli agricoltori, degli uccelli, il muggito de’ buoi ec. nelle medesime circostanze.

All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. 

Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. 

I primi passi sono del 1821, corrispondenti al periodo dei primi idilli; gli ultimi tre del 1827/1828, quando a Pisa sente rinascere in sé la volontà di scrivere poesia (periodo dei “grandi idilli”), a dimostrazione di come il pensiero leopardiano, come appunto troviamo all’interno dello Zibaldone, si accompagni al fare poetico.

Per la prima parte infatti notiamo come la sua poetica si collega in modo indissolubile alla teoria del piacere: all’impossibilità di recuperare l’immaginazione, si risponde con la poesia sentimentale, e questa non può che essere intessuta di parole vaghe, indefinite, capaci di porci al di là delle limitazioni spazio/temporali. Gli ultimi tre pensieri fondono alla poetica “del vago e indefinito” quella delle “rimembranze” e della “doppia visione”: anche questi aspetti, rimandano a qualcosa che si perde nel tempo o si costituiscono come indefinite e amplificano la capacità del poeta di allargare lo spazio a sensazioni personali che si perdono nel tempo o riescono a contrapporre al “presente” la facoltà del pensiero immaginativo.

Opere in prosa giovanili

L’impegno nello studio definito nello Zibaldone “matto e disperatissimo” dal 1809 al 1816 si può dire si concretizzi in due opere che potremmo definire divulgative: la Storia dell’astronomia (1813) e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815). Non possono certo dirsi opere originali e non ci sentiamo, come alcuni critici poi hanno detto, di dire che l’interesse per l’astronomia o per il sapere primitivo siano prodromi di uno svolgersi poetico successivo. Più corretto ci sembra il fatto è che egli voglia “divulgare” nel sonnacchioso paese le acquisizioni scientifiche galileiane, un po’ come fece l’Algarotti nel ‘700 nel Newtonismo per le dame. Se qualche interesse tale opere suscitano è per l’evoluzione tra uno scritto e l’altro della prosa leopardiana.

Più interessante è la Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana del 1816, che sarà poi ripresa nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, di due anni più tarda, in cui il nostro prende posizione sul dibattito culturale suscitato dall’articolo della De Staël Sull’utilità delle traduzioni, apparso appunto sulla Biblioteca Italiana, anche se, è importante dirlo, nessuna influenza avrà su tale dibattito, non essendo stata pubblicata.

L’IMITAZIONE DEGLI ANTICHI

Ora da tutto questo e dalle altre cose che si son dette, agevolmente si comprende che la poesia dovette essere agli antichi oltremisura più facile e spontanea che non può essere presentemente a nessuno, e che a’ tempi nostri per imitare poetando la natura vergine e primitiva, e parlare il linguaggio della natura (lo dirò con dolore della condizione nostra, con disprezzo delle risa dei romantici) è pressoché necessario lo studio lungo e profondo de’ poeti antichi. Imperocché non basta ora al poeta che sappia imitar la natura; bisogna che la sappia trovare, non solamente aguzzando gli occhi per iscorgere quello che mentre abbiamo tuttora presente, non sogliamo vedere, impediti dall’uso, la quale è stata sempre necessarissima opera del poeta, ma rimovendo gli oggetti che la occultano, e scoprendola, e diseppellendo e spastando e nettando dalla mota dell’incivilimento e della corruzione umana quei celesti esemplari che si assume di ritrarre. A noi l’immaginazione è liberata dalla tirannia dell’intelletto, sgombrata dalle idee nemiche alle naturali, rimessa nello stato primitivo o in tale che non sia molto discosto dal primitivo, rifatta capace dei diletti soprumani della natura, dal poeta; al poeta da chi sarà? o da che cosa? Dalla natura? Certamente, in grosso, ma non a parte a parte, né da principio; vale a dire appena mi si lascia credere che in questi tempi altri possa cogliere il linguaggio della natura, e diventare vero poeta senza il sussidio di coloro che vedendo tutto il dì la natura scopertamente e udendola parlare, non ebbero per esser poeti, bisogno di sussidio. Ma noi cogli orecchi così pieni d’altre favelle, adombrate inviluppate nascoste oppresse soffocate tante parti della natura, spettatori e partecipi di costumi lontanissimi o contrari ai naturali, in mezzo a tanta snaturatezza e così radicata non solamente in altri ma in noi medesimi, vedendo sentendo parlando operando tutto giorno cose non naturali, come, se non mediante l’uso e la familiarità degli antichi, ripiglieremo per rispetto alla poesia la maniera naturale di favellare, rivedremo quelle parti della natura che a noi sono nascoste, agli antichi non furono, ci svezzeremo di tante consuetudini, ci scorderemo di tante cose, ne impareremo o ci ricorderemo o ci riavvezzeremo a tante altre, e in somma nel mondo incivilito vedremo e abiteremo e conosceremo intimamente il mondo primitivo, e nel mondo snaturato la natura? E in tanta offuscazione delle cose naturali, quale sarà se non saranno gli antichi, specialmente alle parti minute della poesia, la pietra paragone che approvi quello ch’è secondo la natura, e accusi quello che non è? La stessa natura? Ma come? quando dubiteremo appunto di questo, se avremo saputo vederla e intenderla bene? L’indole e l’ingegno? Non nego che ci possano essere un’indole e un ingegno tanto espressamente fatti per le arti belle, tanto felici tanto singolari tanto divini, che volgendosi spontaneamente alla natura come l’ago alla stella, non sieno impediti di scoprirla dove e come ch’ella si trovi, e di vederla e sentirla e goderla e seguitarla e considerarla e conoscerla, né da incivilimento né da corruttela né da forza né da ostacolo di nessuna sorta; e sappiano per se medesimi distinguere e sceverare accuratamente le qualità e gli effetti veri della natura da tante altre qualità ed effetti che al presente o sono collegati e misti con quelli in guisa che a mala pena se ne discernono, o per altre cagioni paiono quasi e senza quasi naturali; e in somma arrivino senza l’aiuto degli antichi a imitar la natura come gli antichi facevano. Non nego che questo sia possibile, nego che sia provabile, dico che l’aiuto degli antichi è tanto grande tanto utile tanto quasi necessario, che appena ci sarà chi ne possa far senza, nessuno dovrà presumere di potere. Non mancherà mai l’amore degli uomini alla natura, non il desiderio delle cose primitive, non cuori e fantasie pronte a secondare gl’impulsi del vero poeta, ma la facoltà d’imitar la natura, e scuotere e concitare negli uomini questo amore, e pascere questo desiderio, e muovere ne’ cuori e nelle fantasie diletti sostanziosi e celesti, languirà ne’ poeti, come già langue da molto tempo. E qui non voglio compiangere l’età nostra, né dire come sia vantaggioso, quello che tuttavia, così per la ragione che ho mentovata, come per altre molte, è, almeno generalmente parlando, necessarissimo, né pronosticare dei tempi che verranno quello che l’esperienza dei passati e del presente dimostra pur troppo chiaro, che qualunque sarà poeta eccellente somiglierà Virgilio e il Tasso, non dico in ispecie ma in genere; un Omero un Anacreonte un Pindaro un Dante un Petrarca un Ariosto appena è credibile che rinasca.

24541118623_0e85e0c876_b.jpgDiscorso di un italiano sopra la poesia romantica (autografo)

Il ragionamento critico leopardiano si muove su due direttive precise:

  • se il diletto della poesia sta nell’imitazione della natura, risulta naturale che laddove tale imitazione sia risultata preponderante in quanto la stessa natura era osservata “naturalmente” (diremo senza sovrastrutture culturali) la poesia ha raggiunto i suoi vertici, e questa è l’età antica;
  • oggi proprio a causa della capacità razionale, che si è tradotta in un aumento culturale, tale approccio con la natura è impossibile e quindi sarebbe quasi impossibile la poesia; sbagliano pertanto i Romantici quando criticano l’atteggiamento che vede nell’imitazione degli antichi un freno per la poesia, perché a far da freno alla poesia è la “modernità”;
  • ma, andando al di là del passo su riportato, non è “emulando” il loro stile che s’otterrà la poesia (e qui si mostra contrario ad un erudito neoclassicismo), ma cercando d’imitare l’atteggiamento degli antichi, togliendo le scorie dall’oggetto poetico e porsi “naturalmente”, diremo quasi istintivamente di fronte alla natura (ottenendo, se così si può dire, un esito romantico, lontano tuttavia dal Romanticismo preponderante di stampo manzoniano).

Il Discorso può riflettere il primo momento della meditazione filosofico-letteraria di Leopardi. Esso si muove sotto l’influsso delle teorie di Rousseau, secondo cui la civiltà aveva prodotto, nonostante un miglioramento della condizione di vita, uno stato di infelicità. Ciò era dovuto ad un allontanamento progressivo dell’uomo dalla natura, privandolo appunto dallo stato di felicità “naturale”. Tale atteggiamento culturale è detto, scolasticamente, “pessimismo storico”. Con questo termine s’intende, appunto, il rapporto tra felicità e uomo che si può illustrare con l’antinomia natura/civiltà o natura/ragione, dove il primo è positivo ed il secondo negativo.

Pertanto risulta evidente che, se la felicità è figlia di un rapporto esclusivo con la natura, tale rapporto è oggi negato e pertanto è negata la possibilità di far poesia, soprattutto se, per i Romantici, si tratta di imitare i contemporanei d’oltralpe. Tuttavia Leopardi è consapevole che se la capacità poetica “descrittiva” dell’evento naturale è conclusa, lo stesso non si può dire per la poesia sentimentale, cioè per una poesia che non sia più rappresentativa, ma che sia capace di far esprimere l’io lirico sulla natura.

Produzione letteraria e concezioni filosofiche dal 1817 al 1822

Il Discorso nasce a seguito dell’amicizia con Pietro Giordani, anch’egli posizionato contro le teorie dei cosiddetti romantici italiani, il cui esponente principale è Giovanni Berchet. Il classicismo di Giordani, infatti, parte da un punto di vista differente, oserei dire, politico (il classico rappresenta una lunga tradizione della nostra cultura: abdicare da esso vuol dire venir meno a ciò che potrebbe stare alla base di una cultura patriottica). E’ da questa posizione che il Leopardi all’inizio si cimenterà con la canzone All’Italia e Sopra il monumento di Dante, ambedue dedicate a Vincenzo Monti, la cui forma e il cui stile rispecchiano ancora un’estetica tradizionale.

ALL’ITALIA

O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l’erme
torri degli avi nostri,
ma la gloria non vedo,
non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
i nostri padri antichi. Or fatta inerme,
nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè! quante ferite,
che lividor, che sangue! oh, qual ti veggio,
formosissima donna! Io chiedo al cielo
e al mondo: «Dite, dite;
chi la ridusse a tale?» E questo è peggio,
che di catene ha carche ambe le braccia;
sí che sparte le chiome e senza velo
siede in terra negletta e sconsolata,
nascondendo la faccia
tra le ginocchia, e piange.
Piangi, ché ben hai donde, Italia mia,
le genti a vincer nata
e nella fausta sorte e nella ria

  Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
mai non potrebbe il pianto
adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
ché fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
che, rimembrando il tuo passato vanto,
non dica: «Giá fu grande, or non è quella?»
Perché, perché? Dov’è la forza antica?
dove l’armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
chi ti tradí? Qual arte o qual fatica
o qual tanta possanza
valse a spogliarti il manto e l’auree bende?
Come cadesti o quando
da tanta altezza in cosí basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
agl’italici petti il sangue mio.

Dove sono i tuoi figli? Odo suon d’armi
e di carri e di voci e di timballi:
in estranie contrade
pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi. Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
un fluttuar di fanti e di cavalli,
e fumo e polve, e luccicar di spade
come tra nebbia lampi.
Né ti conforti? e i tremebondi lumi
piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
l’itala gioventude? O numi, o numi!
pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
non per li patrii lidi e per la pia
consorte e i figli cari,
ma da nemici altrui,

per altra gente, e non può dir morendo:
«Alma terra natia,
la vita che mi desti ecco ti rendo.» 

Oh venturose e care e benedette
l’antiche etá, che a morte
per la patria correan le genti a squadre,
e voi sempre onorate e gloriose,
o tessaliche strette,
dove la Persia e il fato assai men forte
fu di poch’alme franche e generose!
Io credo che le piante e i sassi e l’onda
e le montagne vostre al passeggere
con indistinta voce
narrin siccome tutta quella sponda
coprîr le invitte schiere
de’ corpi ch’alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l’Ellesponto si fuggia,
fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
e sul colle d’Antela, ove morendo
si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salía,
guardando l’etra e la marina e il suolo.

E di lacrime sparso ambe le guance,
e il petto ansante, e vacillante il piede,
toglieasi in man la lira:
«Beatissimi voi,
ch’offriste il petto alle nemiche lance
per amor di costei ch’al sol vi diede;
voi, che la Grecia cole e il mondo ammira.
Nell’armi e ne’ perigli
qual tanto amor le giovanette menti,
90qual nell’acerbo fato amor vi trasse?
Come sí lieta, o figli,

l’ora estrema vi parve, onde ridenti
correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch’a danza e non a morte andasse
ciascun de’ vostri, o a splendido convito:
ma v’attendea lo scuro
Tartaro, e l’onda morta;
né le spose vi fôro o i figli accanto,
quando su l’aspro lito
senza baci moriste e senza pianto.

Ma non senza de’ Persi orrida pena
ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
or salta a quello in tergo e sí gli scava
con le zanne la schiena,
or questo fianco addenta or quella coscia;
tal fra le perse torme infuriava
l’ira de’ greci petti e la virtute.
Ve’ cavalli supini e cavalieri;
vedi intralciare ai vinti
la fuga i carri e le tende cadute,
e correr fra’ primieri
pallido e scapigliato esso tiranno;
ve’ come infusi e tinti
del barbarico sangue i greci eroi,
cagione ai Persi d’infinito affanno,
a poco a poco vinti dalle piaghe,
l’un sopra l’altro cade. Oh viva! oh viva!
beatissimi voi
mentre nel mondo si favelli o scriva.

Prima divelte, in mar precipitando,
spente nell’imo strideran le stelle,
che la memoria e il vostro
amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un’ara; e qua mostrando
verran le madri ai parvoli le belle
orme del vostro sangue. Ecco, io mi prostro,
o benedetti, al suolo,
e bacio questi sassi e queste zolle,
che fien lodate e chiare eternamente
dall’uno all’altro polo.
Deh! foss’io pur con voi qui sotto, e molle
fosse del sangue mio quest’alma terra.
Ché, se il fato è diverso, e non consente
ch’io per la Grecia i moribondi lumi
chiuda prostrato in guerra,
cosí la vereconda
fama del vostro vate appo i futuri
possa, volendo i numi,
tanto durar quanto la vostra duri.


Alessandro Puttinati: Italia turrita (1850)

Italia mia, vedo le mura di Roma, gli archi di trionfo, le colonne, le statue e le solitarie torri dei nostri avi, ma non vedo la gloria, la grandezza militare ottenuti con le armi, dei quali erano carichi i nistri antenati. Ora indifesa, mostri la fronte ed il petto nudo. Ora quante ferite, quanti lividi, quanto sangue! In che stato ti vedo, bellissima donna! Chiedo al cielo e al mondo: raccontate, dite; chi l’ha ridotta in tale stato? E quel che è peggio è che ha le braccia cariche di catene, in questo stato con i capelli sciolti e senza velo, siede per terra trascurata e afflitta, nascondendo la faccia tra le ginocchia, e piange. Piangi, ché ne hai tutte le ragioni, Italia mia, che eri nata per essere superiore agli altri popoli nella buona così come nella cattiva sorte. // Anche se i tuoi occhi fossero due fonti perenni, il tuo pianto non sarebbe adeguato alla tua rovina e alla vergogna che ne segue; poiché fosti regina, e ora sei un’umile serva. Chi parla o scrive di te senza dire, ricordando la tua gloria passata, non dica: «un tempo fu grande, adesso non è più quella che fu? Perché? Perché Dov’è l’antica forza militare, dove sono le armi, dove il valore, dove la costanza? Chi ti ha tolto la spada? Chi ti ha tradito? Quale inganno  quale fatica o quale potenza fu capace di strapparti il manto e le bende d’oro? In che modo o quando sei precipitata da una così grande altezza in basso loco? Nessuno combatte per te? Nessuno dei tuoi figli ti difende? Le armi, datemi le armi: io solo combatterò, morirò io solo. Concedimi o cielo che il mio sangue diventi fuoco nel cuore degli italiani. // Dove sono i tuoi figli? Sento suoni di armi, di carri, di voci e di tamburi in paesi stranieri, combattono i tuoi figli. Ascolta, Italia, fa’ attenzione. Io vedo, mi sembra, un ondeggiare di fanti e di cavalli, fumo e polvere, un luccicare di armi, come lampi nella nebbia. E ciò non ti conforta? e non sopporti di rivolgere gli occhi spaventati a quel fatto dall’esito incerto? Per quale scopo la gioventù italiana combatte? O numi, o numi: combattono per un’altra terra le armi italiane. Oh disgraziato colui che è ucciso in guerra, non per la terra dei suoi padri e l’onesta moglie e i cari figli, ma da nemici di altri e combattendo per un altro popolo, e non può dire morendo: mia terra nutrice (mia patria), ecco, ti restituisco la vita che mi hai dato. // Oh fortunate e amate e benedette le epoche antiche, quando i popoli, uniti in eserciti, correvano per la patria incontro alla morte, e tu, sempre onorato e glorioso, passo della Tessaglia, dove la Persia e il fato furono sconfitti da pochi soldati arditi e magnanimi! Io credo che la vegetazione, le rocce e il mare, le montagne, in coro raccontino a chi visita quei luoghi come le schiere non vinte ricoprirono tutta quella costa coi loro corpi di guerrieri consacrati alla patria greca. Allora il re persiano Serse, tanto vigliacco quanto feroce, fuggiva per l’Ellesponto, divenuto oggetto di scherno per tutti i discendenti; e sulla collina d’Antela, dove, morendo, il sacro esercito spartano divenne immortale, saliva Simonide, guardando il cielo e la spiaggia e la terra. // E con le guance bagnate di lacrime, il petto affannato e il piede incerto, prendeva in mano la sua cetra: «Beatissimi voi, che offriste i vostri petti alle lance dei nemici (sacrificaste la vostra vita) per amore di costei che vi diede alla luce (la patria); voi che la Grecia venera, e il mondo ammira. Quale amore così grande spinse i vostri giovani animi alle armi e ai pericoli, quale amore vi condusse al crudele destino della morte? O figli, come è possibile che la vostra ultima ora (di vita) vi sia sembrata così gloriosa, per cui correste felici al passo doloroso e terribile? Sembrava che ciascuno di voi andasse a un ballo o a un ricco banchetto, e non a morire: ma vi attendeva il Tartaro oscuro e l’onda della morte; e non vi furono vicini le spose o i figli quando moriste sul terreno scosceso, senza baci e senza lacrime. // Ma (la vostra morte) non avvenne senza il dolore tremendo e la sofferenza immensa dei Persiani. Come il leone in mezzo a una mandria di tori ora si slancia sulla groppa di uno e gli lacera la schiena con i denti, ora gli azzanna un fianco o una coscia, allo stesso modo la rabbia e la virtù dei cuori greci si scatenavano in mezzo alla massa dei Persiani. Vedi cavalli e cavalieri abbattuti; vedi i carri e le tende a terra impedire la fuga ai vinti, e il tiranno stesso (Serse) correre tra i primi, pallido e con i capelli scarmigliati; vedi come, intrisi e macchiati del sangue dei barbari, gli eroi greci, loro che inflissero immenso dolore ai Persiani, cadono l’uno sull’altro, uccisi a poco a poco dalle ferite. Viva, viva: beatissimi voi, finché al mondo si parli o si scriva (perché si parlerà e si scriverà delle vostre gesta eroiche). // Strideranno le stelle strappate via dal cielo in mare, precipitando, spente nei suoi fondali, prima che passino o si riducano il ricordo di voi e l’amore per voi. La vostra tomba è un altare; e qua verranno le madri per mostrare ai figli le tracce gloriose del sangue da voi versato. Ecco, io mi prostro al suolo, o benedetti, e bacio questi sassi e questa terra, che saranno lodate e conosciute in eterno da un capo all’altro del mondo. Oh, se fossi anch’io con voi qui sotto e se questa terra materna fosse bagnata del mio sangue. Ma se il mio destino è un altro, e non permette che io chiuda gli occhi moribondi ucciso in guerra, almeno la fama modesta del vostro cantore possa durare presso i posteri finché duri la vostra.

Questa canzone, scritta nel 1818, è figlia delle conversazioni che il poeta ha avuto con Giordani e segna un distacco netto sia dal conservatorismo paterno, sia dal dibattito culturale nato dall’invito di Madame De Stael e al quale il nostro aveva già risposto con la lettera alla Biblioteca italiana. Egli infatti, partendo dalla poesia petrarchesca (ma si sentono anche echi foscoliani) vuole sottolineare la superiorità della poesia antica su quella moderna, evidenziando nel testo il valore del passato contro la mediocrità del presente. Certo il tema può sembrare abusato, così come il linguaggio che sembra ricalcare più che un’estetica neoclassica, i cui riferimenti sono solo di valore estetico, un significato patriottico e quindi politico, proprio come l’amico Giordani gli aveva insegnato. Eppure, come dice il critico letterario Luperini “si delinea, accanto al tema civile, una tematica esistenziale: il poeta fa corrispondere alla crisi storica dell’Italia una propria crisi personale, proponendosi gesti eroico riscatto indivinduale”.

Il giovane favoloso di Mario Martone - Un Leopardi contraddittorio e affamato di vita

Leopardi e Giordani nel film di Martone

Contemporanea a quella delle Canzoni civili e quella degli idilli, definiti dalla critica letteraria come “piccoli idilli” per differenziarli dalla produzione successiva, che conterrà testi composti tra il 1827 ed il 1828. Tra i più importanti di essi ricordiamo La sera del dì di festa, L’infinito, Alla luna.

LA SERA DEL DI’ DI FESTA

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, che t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai nè pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno. A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate! Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dì festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov’è il suono
di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
de’ nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.

maxresdefault.jpgElio Giordano nei panni di Leopardi illuminato dalla luna nel film Il giovane favoloso

Dolce e luminosa è la notte senza vento e placida sopra i tetti riposa  e in mezzo agli orti riposa la luna e rivela da lontano nitida ogni montagna. O, donna mia, ormai tace ogni sentiero e attraverso i balconi trapela fioca la luce delle lampade accese: tu dormi, che un facile sonno ti prese nelle stanze silenziose e non ti angustia alcun affanno e di certo non sai né pensi quale grande ferita d’amore mi hai inferto nel cuore. Tu dormi: ed io mi affaccio a salutare questo cielo, che sembra così benevolo alla vista e l’antica natura onnipotente che mi ha generato per la sofferenza. Mi disse: a te nego anche la speranza e tuoi occhi non luccichino se non per le lacrime. Questo è stato un giorno festivo: ora tu (riferito alla donna) riposati dopo gli svaghi; e forse ti torna alla memoria durante il sonno a quanti sei piaciuta, e quanti ti piacquero: non io ti ritorno al pensiero e nemmeno lo spero. Nel frattempo io chiedo quanto mi resti da vivere e mi getto a terra, e piango e sono percorso da fremiti. Ah orrendi giorni in una così giovane età! Ahimè, per la via sento non lontano il canto dell’artigiano, che torna a notte tarda, dopo i divertimenti, alla sua povera casa; e mi si stringe dolorosamente il cuore nel pensare a come tutto nel mondo passa, e quasi non lascia traccia. Ecco è terminato il giorno festivo, e al giorno di festa segue quello volgare ed il tempo porta via con sé ogni cosa umana. Ora dov’è il rumore di quei popoli antichi? ora dov’è la fama dei nostri antenati famosi ed il grande impero di Roma, tanto celebre e il clamore dei suoi eserciti che da lei si sparse per terra e per mare? Tutto è tranquillo e silenzioso, tutto il mondo riposa e  di loro non si parla più. nella mia fanciullezza, quando si aspetta con desiderio il giorno di festa, dopo quando era finito, io con dolore, giacevo nel letto sveglio e nella notte fonda un canto che si udiva allontanarsi e morire piano piano, già in modo simile mi stringeva il cuore.

Il testo lirico, tutto in endecasillabi senza interruzioni strofiche, presenta una varietà stilistico tematica che pur intrecciandosi in modo non sempre armonico all’interno dei versi, ne dà tuttavia un’immagine unitaria. Inizia con la descrizione notturna, placando il verso con il polisintedo, che ci prepara all’epifania lunare. Quindi la presenza femminile, posta in rilievo oppositivo: la seconda persona con cui la indica sottolinea da una parte lo struggimento, dall’altra l’esclusione di contro alla di lei indifferrenza fatta di nessun affanno, inconsapevole del dolore provocatogli. Si affianca a lei la natura, «l’antica natura onnipossente che mi fece all’affanno». L’ultima parte è introdotta dalla sensazione uditiva del canto dell’artigiano e che lo porta al pensiero dell’età antica e  alla considerazione topica dell’omnia fert aetas che investe l’intera storia, immagine del canto dell’artigiano che si allontana ripetuta nell’ultimo verso: la sensazione che tutto trascorri e passi senza lasciare traccia permane come acquisizione conoscitiva per il giovane poeta. 

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Pagina autografa

L’INFINITO

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Sempre caro mi è stato questo colle solitario e questa siepe che sottrae allo sguardo tanta parte dell’estremo orizzonte. Stando fermo e guardando fisso io immagino nel pensiero spazi infiniti al di là di quella siepe e silenzi che un uomo non può percepire e quiete profonde, per cui per poco il cuore non si smarrisce. E quando sento stormire le foglie a causa del vento io paragono quell’infinito silenzio a questa voce e mi viene in mente l’eternità, le stagioni passate, la presente e viva ed il suo suono. Tra questa immensità si smarrisce il mio pensiero ed il lasciarsi andare in questo mare mi è gradito.

L’idillio, in quindici endecasillabi sciolti, ci vuole presentare un’esperienza reale/psichica nella quale il nostro trova, nell’indeterminatezza della natura la voce della poesia, che la civiltà ha in parte distrutto. Esso si situa in una duplice direzione:

  • Definisce quello che nella Lettera di un italiano intorno alla romantica ritiene essere l’imitatio verso gli antichi: riprodurre il sentimento verso la natura, la sola che dà diletto. Ma se la natura, oggi, si svuota della capacità immaginativa in quanto “incrostata” di sapienza razionale, essa può ridare gioia in ciò che tale “incrostazione” non vi è;
  • Chiarisce ciò che nello Zibaldone aveva definito come lessico poetico: e tale lessico richiede parole assolutamende vaghe e indefinite.

L’idillio è costruito sapientemente attraverso un’opposizione che pone elementi reali contro elementi immaginativi. Dapprima il poeta è limitato dalla siepe che non gli permette di vedere lo spazio. Tale spazio, razionalmente, è finito, perché per Leopardi, la terra e l’universo sono realtà finite, ma in quanto inconcepibili nella loro interminatezza dalla ragione umana, esse danno vita ad una funzione immaginativa e quindi poetica. In questa prima parte inserisce anche l’infinito silenzio che richiama alla seconda parte dell’idillio, dove tale sensazione è prodotta dallo stormire delle foglie. A dire il vero la seconda sensazione è più vasta, maggiormente richiamata: l’infinito silenzio, il tempo remoto, il presente e quello limitato in cui il poeta è (sedendo e mirando, come fosse posto in terra, in un angolo un po’ sopraelevato del suo giardino). Tale capacità è resa mirabilmente dall’uso sapientissimo degli enjambement, che dal quarto verso mettono in rilievo parole indefinite o aggettivi dimostrativi a denotare la distanza dell’io poeta da ciò che immagina (questo, quello).

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Se nell’intenzione del poeta vi era quasi la volontà di realizzare una poesia classicamente atteggiata, non è un caso che essa risulti fortemente romantica: è infatti un testo metafisico, che si basa sull’immaginazione e quindi sul “non definito”. Ma tale indeterminatezza non nasce come un allontanamento totale dalla realtà, come un puro sogno. Egli parte da un dato reale per immaginare, non cede al fascino della teoria dell’onirico, dell’impalpabile, dell’etereo: è infatti una siepe o il fruscio a determinare l’immaginazione. E che tale immaginazione crei diletto lo sottolinea nello splendido ultimo verso, dove al centro di esso pone il lemma “dolce”, con la o tonica a fermare la voce del lettore.

Un altro importante aspetto della meditazione leopardiana di questo periodo riguarda la teoria del piacere. Il Leopardi deriva tale teoria dalla filosofia sensistica settecentesca, ma la determina e l’approfondisce con meditazioni culturali e personali. Il piacere è una condizione indefinita dell’uomo, in quanto irrealizzabile nella sua totalità: ciò che l’uomo prova è una serie di piaceri caratterizzati da limitatezza temporale, che interrompono una naturale condizione di insoddisfazione che cessa solo con la morte. Il compito della natura, in questa fase, è tuttavia quello di dispensarci di tali momenti di felicità, fornendoci le “illusioni” e attimi di “godimento”. Essa infatti attenua e lenisce il senso di finitezza e precarietà della vita umana. Allora come mai anche gli antichi, nella loro produzione poetica, spesso parlano dell’infelicità dell’uomo? In questa fase Leopardi non incolpa la ragione, ma il destino o gli dei (definizioni che rimandano ad unico concetto). Ma vedremo che tale spiegazione, che presumibilmente apparirà anche a lui insufficiente, sarà presto superata.

Tale posizione è illustrata mirabilmente in una delle più famose canzoni leopardiane, ancora appartenenti al primo periodo:

L’ULTIMO CANTO DI SAFFO

Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna; e tu che spunti
fra la tacita selva in su la rupe,
nunzio del giorno; oh dilettose e care
mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
sembianze agli occhi miei; già non arride
spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva
quando per l’etra liquido si volve
e per li campi trepidanti il flutto
polveroso de’ Noti, e quando il carro,
grave carro di Giove a noi sul capo,
tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
fiume alla dubbia sponda
il suono e la vittrice ira dell’onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
vile, o natura, e grave ospite addetta,
e dispregiata amante, alle vezzose
tue forme il core e le pupille invano
supplichevole intendo. A me non ride
l’aprico margo, e dall’eterea porta
il mattutino albor; me non il canto
de’ colorati augelli, e non de’ faggi
il murmure saluta: e dove all’ombra
degl’inchinati salici dispiega
candido rivo il puro seno, al mio
lubrico piè le flessuose linfe
disdegnando sottragge,
e preme in fuga l’odorate spiagge.

 Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
di misfatto è la vita, onde poi scemo
di giovanezza, e disfiorato, al fuso
dell’indomita Parca si volvesse
il ferrigno mio stame? Incaute voci
spande il tuo labbro: i destinati eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta prole
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
de’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,
alle amene sembianze eterno regno
diè nelle genti; e per virili imprese,
per dotta lira o canto,
virtù non luce in disadorno ammanto.

 Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
e il crudo fallo emenderà del cieco
dispensator de’ casi. E tu cui lungo
amore indarno, e lunga fede, e vano
d’implacato desio furor mi strinse,
vivi felice, se felice in terra
visse nato mortal. Me non asperse
del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perìr gl’inganni e il sogno
della mia fanciullezza. Ogni più lieto
giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
della gelida morte. Ecco di tante
sperate palme e dilettosi errori,
il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
han la tenaria Diva,
e l’atra notte, e la silente riva.

Placida notte e pudico raggio della luna tramontante luna e tu stella che spunti tra il silente bosco della scoscesa rupe annunciando il mattino; piacevoli e gradite immagini al mio sguardo, quando ancora sconosciute erano la passione e il destino d’amore; oramai un dolce spettacolo non giova a chi è disperato. A noi vivifica un’inconsueta felicità quando il soffio del vento turbina per la piovigginosa aria e per i campi agitati, quando l’imponente carro di Giove scaglia fulmini sul nostro capo, squarciando il cielo. A noi giova annegare per i dirupi e le profonde valli, per noi la disordinata fuga delle greggi o il suono e la vincitrice forza dell’onda di un profondo fiume sulla non sicura sponda. // Bella la tua copertura, o cielo divino, e bella sei tu, terra ricoperta di rugiada: ah di questa infinita bellezza niente hanno fatto gli dei ed il triste destino alla povera Saffo. Ai tuoi superbi regni, o natura, data come misera e non gradita ospite e disprezzata amante, invano supplichevole sollevo il cuore e lo sguardo. A me non giova un campo soleggiato, o l’alba che spunta dalla porta del cielo; non giovano il canto di variopinti uccelli e non il mormorio delle foglie dei faggi: e dove all’ombra dei salici pendenti un limpido ruscello dispiega le sue acque trasparenti, quello stesso ruscello disprezzandomi sottrae al mio incerto piede le sue acque sinuose e fuggendomi urta contro le sue rive profumate. // Quale colpa, quale così vergognosa enormità mi ha macchiato prima di nascere, per cui così ostile il cielo e la fortuna mi fossero? In cosa peccai bambina, quando la vita ignorava il male, quando ormai privata del fiore della giovinezza, il filo della mia spenta vita si riavvolgeva nel fuso della irremovibile Parca? (Rivolgendosi a se stessa) La tua bocca pronuncia incauti parole: i futuri avvenimenti sono voluti da una misteriosa volontà. Tutto è mistero, al di fuori del nostro dolore. Figli non desiderati nascemmo per piangere, e il motivo sta nel grembo degli dei. Oh preoccupazioni o vane aspirazioni della mia gioventù. Giove ha dato alla gente dominio eterno alla beltà; non risplende in un corpo brutto la virtù per imprese gloriose, suono sapiente o capacità letteraria. // Moriremo. Con il brutto corpo sparso sulla terra, l’animo nudo fuggirà verso la morte e correggerà il crudele errore del destino. E tu (Faone) a cui mi strinse un inutile lungo amore ed una lunga fedeltà ed una illusoria implacabile passione, vivi felice, se felicemente possa vivere sulla terra un mortale. Giove non asperse su di me il soave liquore della felicità dal vaso cui raccoglieva raramente. Ogni giorno più felice della nostra vita vola via. Subentrano le malattie, la vecchiaia, e la minaccia della fredda morte: ecco, di tante sperate glorie e piacevoli svaghi, la morte mi avanza, il mio tenace ingegno lo possiede la regina dell’Infero (Proserpina), l’oscura notte e il silenzioso rivo.

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Antoine-Jean Gros Sappho a Leucode (1801)

Questo testo, tra le canzoni di Leopardi, nella pubblicazione dei Canti da lui voluti, precede gli idilli, che invece verranno scritti prima. E’ un testo infatti del 1822, in cui si può misurare il classicismo leopardiano, ma come questo, al contrario di Foscolo, sia intessuto di elementi soggettivi e non più civili. Questa canzone è composta da quattro strofe di 18 versi sciolti, solo gli ultimi due che hanno rima baciata; i versi sono prevalentemente endecasillabi ad eccezione del penultimo che è settenario. Tale struttura risponde, secondo la retorica classica, ad un tema “gravissimo”, sia per la superiorità degli endecasillabi che per la quasi mancanza di rime.

Il tema, come ci dice egli stesso, è quello di “rappresentare l’infelicità di un animo delicato, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane”. Ciò ci conduce, direi quasi semplicisticamente, ad identificare la situazione del poeta recanatese con quella di Saffo. Ma se si accettasse una totale identificazione si perderebbe il senso ultimo di questo scritto. Troviamo infatti la concezione secondo la quale è il destino a serbarci un triste svolgersi della nostra esistenza, ma troviamo altresì un inizio di un ripensamento/approfondimento del ruolo della natura nella vita dell’uomo, come verrà poi sviluppato nelle Operette morali.

Operette morali: la morte della voce poetica: 1823 – 1826

Il giovane Leopardi, a seguito della corrispondenza col Giordani, aveva fortemente sentito la necessità di un allontanamento da Recanati e nel ’19 ci tentò, provando a fuggire. Scoperto dal padre, che temeva per la salute del giovane nonché, e forse ancor di più, delle meditazioni filosofiche politiche che nel figlio andavano maturando, lo fece desistere dal tentativo. Frustrato, senza poter più leggere, il nostro si lascerà andare a una più radicale meditazione che lo porta a riflettere sul senso della vita. Alla fine, col consenso del padre, ma siamo già nel ’22, riuscirà a partire e a raggiungere la grande città, Roma, ospite di uno zio, fratello della madre. Non sarà affatto entusiasta: laddove cercava un confronto vitale per l’affermazione della sua cultura, trova soltanto conformismo e grettezza; laddove cerca nelle vie la storia, non sa trovarla, perché si sente solo, non la conosce e non vuole sempre chiedere d’essere accompagnato. Vive in casa dello zio, circondato dall’affetto, ma non lo stesso che gli davano i fratelli a Recanati. Vi torna nel ’23 e sente che la poesia per lui non ha più voce. Accentua il sarcasmo sulla sua condizione ed inevitabilmente sulla condizione dell’uomo e medita di scrivere una serie di prose sul modello di Luciano di Samosata, scrittore irreverente del II secolo dopo Cristo. Nel 1824 scrive il corpus maggiore di esse (20) a cui se ne aggiungeranno 3 nel ’27 e due nel ’32. Nell’edizione definitiva, dettata da Leopardi a Ranieri ed uscita postuma, Leopardi ne eliminerà una, Dialogo di un lettore di umanità e Sallustio.

DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO

FOLLETTO: Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio*? Dove si va?
GNOMO: Mio padre m’ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno. Dubita che non gli apparecchino qualche gran cosa contro, se però non fosse tornato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro e argento; o se i popoli civili non si contentassero di polizzine per moneta come hanno fatto più volte, o di paternostri di vetro, come fanno i barbari; o se pure non fossero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare il meno credibile.
FOLLETTO: “Voi gli aspettate invan: son tutti morti”, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.
GNOMO: Che vuoi tu inferire?
FOLLETTO: Voglio inferire che gli uomini son tutti morti, e la razza è perduta.
GNOMO: Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s’è veduto che ne ragionino.
FOLLETTO: Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?

GNOMO: Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?
FOLLETTO: Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo.
GNOMO: Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari.
FOLLETTO: Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.
GNOMO: E i giorni della settimana non avranno più nome.
FOLLETTO: Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano? o forse ti pensi, poiché sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?
GNOMO: E non si potrà tenere il conto degli anni.
FOLLETTO: Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo; e non misurando l’età passata, ce ne daremo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo aspettando la morte di giorno in giorno.
GNOMO: Ma come sono andati a mancare quei monelli?
FOLLETTO: Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.
GNOMO: A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di pianta, come tu dici.
FOLLETTO: Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.
GNOMO: Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli.
FOLLETTO: E non volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per li folletti.
GNOMO: Tu folleggi veramente, se parli sul sodo.
FOLLETTO: Perché? io parlo bene sul sodo.
GNOMO: Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo è fatto per gli gnomi?
FOLLETTO: Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra? Oh questa è la più bella che si possa udire. Che fanno agli gnomi il sole, la luna, l’aria, il mare, le campagne?
GNOMO: Che fanno ai folletti le cave d’oro e d’argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle?
FOLLETTO: Ben bene, o che facciano o che non facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie. E però ciascuno si rimanga col suo parere, che niuno glielo caverebbe di capo: e per parte mia ti dico solamente questo, che se non fossi nato folletto, io mi dispererei.
GNOMO: Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato gnomo. Ora io saprei volentieri quel che direbbero gli uomini della loro presunzione, per la quale, tra l’altre cose che facevano a questo e a quello, s’inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genere umano, e che la natura gliel’aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori.
FOLLETTO: Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagatella. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo e le storie delle loro genti, storie del mondo: benché si potevano numerare, anche dentro ai termini nella terra, forse tante altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d’uomini vivi: i quali animali, che erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però mai che il mondo si rivoltasse.
GNOMO: Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?
FOLLETTO: Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come essi dicevano.
GNOMO: In verità che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci.
FOLLETTO: Ma i porci, secondo Crisippo erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale.
GNOMO: Io credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece dell’anima, non avrebbe immaginato uno sproposito simile.
FOLLETTO: E anche quest’altra è piacevole; che infinite specie di animali non sono state mai viste né conosciute dagli uomini loro padroni; o perché elle vivono in luoghi dove coloro non misero mai piede, o per essere tanto minute che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire. E di moltissime altre specie non se ne accorsero prima degli ultimi tempi. Il simile si può dire circa al genere delle piante, e a mille altri. Parimenti di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d’anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende.
GNOMO: Sicché, in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giù per l’aria, avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio degli uomini.
FOLLETTO: Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.
GNOMO: E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.
FOLLETTO: E il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo.

* gli gnomi erano spiriti che vivevano sottoterra, figli di Sabazio, divinità dei Traci corrispondente al Dioniso dei Greci. I folletti, al contrario erano natura dell’aria.

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Illustrazione per l’operetta leopardiana

L’operetta, come la maggior parte di quelle della prima edizione, è del 1824 e viene considerata fra le più riuscite per il ritmo serrato del dialogo, che fa sì che in essa si riveli una “levità musicale” come dice il critico Fubini, e per la forte ironia che riesce a togliere il senso tragico al tema che fa da sottofondo alla riflessione leopardiana. E’ evidente che qui venga criticata l’arroganza di chi crede che la terra sia a servizio dell’uomo e ci viene mostrato, attraverso un efficace paradosso che alla scomparsa dell’uomo, non corrisponderebbe affatto un’altrettanta scomparsa della terra. Ma l’importanza dell’operetta è che essa sembra situarsi ancora in un momento d’incertezza leopardiana, la stessa che si era già mostrata nell’ultimo canto di Saffo: non è un caso che in un passo citi le colpe dell’uomo per la loro autodistruzione e non dia colpa alcuna colpa alla natura che prende solamente “atto” della loro assenza.

Bisognerà attendere il capolavoro delle Operette in cui tale “empasse” verrà finalmente risolto:

DIALOGO DI UN ISLANDESE E DELLA NATURA

Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l’interiore dell’Affrica, e passando sotto la linea equinoziale in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque. Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse: 
NATURA: Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?
ISLANDESE: Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa. 
NATURA: Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
ISLANDESE: La Natura?
NATURA: Non altri.
ISLANDESE: Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere.
NATURA: Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi?
ISLANDESE: Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza e dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli e vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell’isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’immagine di piacere, io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l’intensità del freddo, e l’ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degl’incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, che d’esser quieta; riescono di non poco momento, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell’animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine d’impedire che l’esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le altre cose non m’inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te di nessun’ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori dell’aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l’abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m’inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all’uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando che tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l’uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l’uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l’animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l’ordinario); tu non hai dato all’uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne’ paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole e dall’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l’uomo non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto all’una o all’altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi che ne seguono.
NATURA: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
ISLANDESE: Ponghiamo caso che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de’ tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.
NATURA: Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
ISLANDESE: Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?
Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa. 

Tale “operetta” ci conduce ad un punto di svolta in cui la meditazione leopardiana sul rapporto natura/uomo era giunta.

Convergono in essa alcuni punti interessanti:

  • identificazione islandese/ Leopardi: ambedue viventi ai confini del mondo. Il primo in un’isola poco frequentata nel nord Europa; il secondo in un piccolo centro dello Stato della Chiesa, chiuso ad ogni contatto culturale “moderno”;
  • La trasformazione del “viaggio” di settecentesca memoria, rivolto alla conoscenza e acquisizione di usi e costumi di realtà diverse; qui, invece, la conoscenza è di origine filosofica e si ammanta di sapere classico (epicureo e quindi lucreziano, nonché dell’apporto stoico di Seneca).

Proprio a partire dal primo punto notiamo che l’Islandese/Leopardi è un protagonista lontano dalla civiltà e quindi “naturalmente” portato a vivere in contatto con la natura. Il fatto che egli la fugga, lo pone in antitesi proprio al viaggio settecentesco: si pensi, per la letteratura italiana, ai passi di Alfieri sul mar Baltico e come l’imponenza dei ghiacci portava l’uomo a quella sublimità che potremo certamente definire “preromatica”.

Qui vi è non il viaggio, ma la fuga, illusoria: la natura non si può fuggire in quanto sta dentro di noi; per Leopardi noi stessi siamo natura e pertanto è illusorio cercare di fuggirla. L’uomo vi ha tentato anche con razionalità, vincendo lo stupido antropocentrismo e cercando un luogo in cui l’uomo potesse stare senza adattamento, come gli orsi nel gelo o i leoni nella savana. Ma tale luogo la natura non lo ha predisposto. Allora, attraverso un incalzante interrogativo Leopardi le chiede perché la Natura stessa ha creato l’uomo per poi disinteressarsi completamente di lui. Riprende la teoria illuminista, già vista in Foscolo, secondo cui, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, quindi quella teoria che vede la natura come un processo meccanico. Tale è la risposta della stessa Natura, che non può generare, a sua volta, che l’interrogativo sul motivo del vivere se poi tale vita è inutile per l’uomo, ma utile solo alla stessa natura. Non c’è risposta e la chiusura è grottesca, amara. I due leoni, rappresentanti essi stessi la natura, sbranandolo, campano un giorno in più, o ancora, diventato mummia, si riduce ad essere oggetto di sguardi curiosi (di chi?).

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Attilio Del Giudice: Dialogo della natura e di un islandese

Concludendo potremo solo dire che, quello già intuito ne L’ultimo canto di Saffo, approfondito nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo, negato quello che precedentemente aveva rappresentato l’idillio L’infinito, ci troviamo di fronte al passaggio per cui l’antinomia natura/ragione viene a cadere, determinando l’ineluttabile infelicità umana. Tale fase del pensiero leopardiano prende il nome di “pessimismo cosmico”.

Produzione letteraria nel periodo pisano-recanatese 1828 -1830

Questo è lo stesso atteggiamento che Leopardi avrà nella stagione dei cosiddetti “Grandi Idilli”, scritti nel periodo pisano-recanatese, in cui, dopo l’esperienza prosastica delle Operette, sente rinascere la voglia della poesia, come dice, in una lettera, alla sorella Paolina: Dopo due anni ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta.

Nascono infatti Il risorgimento e la celeberrima A Silvia, composta a Pisa nel ’28:

A SILVIA

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi? 

 Sonavan le quiete stanze,
e le vie d’intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.

 Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi? 

 Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.

Anche perìa fra poco

la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? Questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.

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Silvia, ricordi ancora quel tempo della tua vita, quando la bellezza risplendeva nei tiuoi occhi felici e pudichi e tu, lieta e pensosa, ti preparavi ad affrontare l’età che immette alla giovinezza? // La casa e le vie intorno risuonavano del tuo interrotto canto, quando occupata in lavori femminili sedevi abbastanza contenta di quell’incerto futuro che sognavi. Era il mese del profumato Maggio e tu trascorrevi così le tue giornate. // Io, a volte interrompendo i graditi studi e le fatiche letterarie tra le quali trascorrevo la mia giovinezza e la parte migliore di me, dai balconi della casa paterna ascoltavo il suono della tua voce ed il telaio che velocemente facevi scorrere con la mano. Contemplavo il cielo sereno, le strade illuminate dal sole, i giardini e da una parte il mare in lontananza e dall’altra i monti. Nessuno può dire ciò che provavo dentro di me. // Che dolci pensieri, che speranze, o Silvia mia! Come ci sembrava allora la vita umana e il destino! Quado mi viene in mente quanto grandi fossero le nostre speranze mi sento opprimere da un senso di angoscia crudele e inconsolabile e ricomincio a sentire tutto il dolore per la mia vita sventurata. O natura, natura, perché non mantieni le promesse che fai in gioventù? Perché così tanto inganni i tuoi figli? // Tu prima che l’inverno facesse seccare l’erba, morivi, dopo essere stata combattuta e vinta da un male incurabile, o tenera ragazza. E non vedevi la giovinezza, non ti rallegrava il cuore ascoltare le dolci lodi rivolte ora alla tua bellezza dei tuoi neri capelli, ora ai tuoi occhi innamorati e sfuggenti, né con te le compagne, nei giorni di festa, parlavano d’amore. // Poco dopo venivano meno anche i miei dolci sogni; il destino ha negato anche a me la giovinezza. Ahi come sei irrevocabilmente svanita, cara compagna della mia giovinezza, mia compianta speranza. Questo è quel mondo tanto desiderato? Questi i piaceri, l’amore, il lavoro gli accadimenti di cui parlammo tanto insieme? Questa è la sorte degli uomini? Appena la vita è apparsa per quello che è veramente tu infelice cadesti: e con la mano mostravi di lontano la fredda morte e la tomba disadorna.

Questa canzone è considerata, al pari dell’Infinito, come uno dei punti più alti della poesia leopardiana. Essa è composta da sei strofe di lunghezza ineguale in versi endecasillabi e settenari liberamente rimati.

Non vi è in essa un racconto, ma le immagini di un ricordo (non è un caso che, nello stesso periodo egli componga Le Ricordanze) e, come ricordo, appare al poeta degno di essere cantato perché essendo esso indefinito e di contorni sfumati, non può che nascere dall’immaginazione della mente (che richiama in sé episodi), e pertanto risulta essere fortemente poetico.

Tale discorso ci è confermato proprio dalla figura di Silvia, appena tratteggiata (occhi scuri e fuggitivi, mani veloci che tessono). Ella è altrettanto vaga da essere richiamata dal senso uditivo più che visivo, ricreando quell’opposizione siepe/infinito, fruscio/silenzio e qui limite della finestra, sguardi fuggenti, lavoro e canto.

Il loro, come ci viene suggerito, è un non rapporto, è un non incontro tra una giovane popolana ed giovane intellettuale, ambedue fermi sul limitare della giovinezza. Ed è proprio in questo limitare che si ferma il pensiero leopardiano: Oh natura, natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? Domanda retorica, certamente, la cui risposta non può che essere quella già formulata nel Dialogo di un islandese e della natura: essa è indifferente al destino dell’uomo. Ma qui, come nel venditore d’almanacchi (non per niente più o meno della stessa fase) vi è in più condivisione di un identico destino, quella che latinamente potremo definire compassione, che non ha nulla di religioso, ma come soffro con te, quindi soffriamo insieme (cum patior) per un identico destino.

Tale compassione deriva dalla constatazione di una duplice morte; la prima fisica: l’orrenda tisi porta via una giovane donna, uccidendo in lei ogni illusione di vita futura, ma di pienezza di vita, dell’esplodere della giovinezza e della sessualità; la seconda è una morte intellettuale: accortosi dell’“aridità del vero” la vita perde senso, coincidendo, quindi, con la non vita.

Anche qui, sapientemente disseminati operano richiami filosofici e letterari: Virgilio e il canto di Circe Solis filia lucos / adsiduo resonat cantu … arguto tenues percurrens pectine telas (dove la figlia del Sole fa risuonare gli inaccessibili boschi del suo continuo canto …, percorrendo le tele sottili col pettine sonoro); concetto di morte come nulla, di matrice stoica.

La gioia ritrovata nel mite ambiente pisano non può durare a lungo. Le gravi difficoltà economiche, determinate dall’interrompersi del rapporto con l’editore Stella che gli aveva proposto un commento dei classici, il peggiorare delle sue condizioni fisiche, che non gli consentono né di leggere, né di scrivere (ha bisogno di qualcuno che lo faccia per lui) lo riportano nel natìo borgo selvaggio.

Ma questo non gli uccide la vena poetica, anzi sembra prosegua grazie al ricordo e all’affetto ritrovato (soprattutto per la sorella Paolina).

Tuttavia le sue condizioni peggiorano; ad esse si aggiunge la notizia della morte del fratello Luigi, morto per tisi a soli 24 anni. Prostrato da una parte dal dolore, dall’altra da difficoltà fisiche ed economiche, si sposta per l’estate a Firenze, ma le sue condizioni peggiorano. Quindi ad autunno inoltrato torna a Recanati, in compagnia di Vincenzo Gioberti, giovane prete conosciuto a Firenze. In casa le condizioni non sono delle migliori: gli viene anche a mancare il diletto fratello Carlo, che è scappato per sposarsi contro la volontà dei genitori. Cade in una incredibile malinconia, che lo estraniano ancora di più, anche dalle figure familiari. Ma, nonostante tale “infelicità”, non si attenua la vena poetica, che gli permette di riprendere a scrivere delle pagine poetiche di altissima intensità. La prima di esse è Le ricordanze, composta in Recanati nel ’29:

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Recanati al tramonto

LE RICORDANZE

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo,
e delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
creommi nel pensier l’aspetto vostro
e delle luci a voi compagne! Allora
che, tacito, seduto in verde zolla,
delle sere io solea passar gran parte
mirando il cielo, ed ascoltando il canto
della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
e in su l’aiuole, susurrando al vento
i viali odorati, ed i cipressi
là nella selva; e sotto al patrio tetto
sonavan voci alterne, e le tranquille
opre de’ servi. E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
questa mia vita dolorosa e nuda
volentier con la morte avrei cangiato.

Nè mi diceva il cor che l’età verde
sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una gente
zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo,
son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
per invidia non già, che non mi tiene
maggior di se, ma perchè tale estima
ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
a persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
tra lo stuol de’ malevoli divengo:
qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
e sprezzator degli uomini mi rendo,
per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola
il caro tempo giovanil; più caro
che la fama e l’allor, più che la pura
luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
senza un diletto, inutilmente, in questo
soggiorno disumano, intra gli affanni,
o dell’arida vita unico fiore.

Viene il vento recando il suon dell’ora
dalla torre del borgo. Era conforto
questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
quando fanciullo, nella buia stanza,
per assidui terrori io vigilava,
sospirando il mattin. Qui non è cosa
ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per se; ma con dolor sottentra
il pensier del presente, un van desio
del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
raggi del dì; queste dipinte mura,
quei figurati armenti, e il Sol che nasce
su romita campagna, agli ozi miei
porser mille diletti allor che al fianco
m’era, parlando, il mio possente errore
sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,
al chiaror delle nevi, intorno a queste
ampie finestre sibilando il vento,
rimbombaro i sollazzi e le festose
mie voci al tempo che l’acerbo, indegno
mistero delle cose a noi si mostra
pien di dolcezza; indelibata, intera
il garzoncel, come inesperto amante,
la sua vita ingannevole vagheggia,
e celeste beltà fingendo ammira.

O speranze, speranze; ameni inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; che per andar di tempo,
per variar d’affetti e di pensieri,
obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
son la gloria e l’onor; diletti e beni
mero desio; non ha la vita un frutto,
inutile miseria. E sebben vóti
son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
il mio stato mortal, poco mi toglie
la fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo il viver mio sì vile
e sì dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m’avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
sarammi allato, e sarà giunto il fine
della sventura mia; quando la terra
mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
fuggirà l’avvenir; di voi per certo
risovverrammi; e quell’imago ancora
sospirar mi farà, farammi acerbo
l’esser vissuto indarno, e la dolcezza
del dì fatal tempererà d’affanno.

E già nel primo giovanil tumulto
di contenti, d’angosce e di desio,
morte chiamai più volte, e lungamente
mi sedetti colà su la fontana
pensoso di cessar dentro quell’acque
la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
malor, condotto della vita in forse,
piansi la bella giovanezza, e il fiore
de’ miei poveri dì, che sì per tempo
cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso
sul conscio letto, dolorosamente
alla fioca lucerna poetando,
lamentai co’ silenzi e con la notte
il fuggitivo spirto, ed a me stesso
in sul languir cantai funereo canto.

Chi rimembrar vi può senza sospiri,
o primo entrar di giovinezza, o giorni
vezzosi, inenarrabili, allor quando
al rapito mortal primieramente
sorridon le donzelle; a gara intorno
ogni cosa sorride; invidia tace,
non desta ancora ovver benigna; e quasi
(inusitata maraviglia!) il mondo
la destra soccorrevole gli porge,
scusa gli errori suoi, festeggia il novo
suo venir nella vita, ed inchinando
mostra che per signor l’accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo
son dileguati. E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
questa Terra natal: quella finestra,
ond’eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. Ove sei, che più non odo
la tua voce sonar, siccome un giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
il passar per la terra oggi è sortito,
e l’abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
la gioia ti splendea, splendea negli occhi
quel confidente immaginar, quel lume
di gioventù, quando spegneali il fato,
e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
l’antico amor. Se a feste anco talvolta,
se a radunanze io movo, infra me stesso
dico: o Nerina, a radunanze, a feste
tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
van gli amanti recando alle fanciulle,
dico: Nerina mia, per te non torna
primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
dico: Nerina or più non gode; i campi,
l’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
sospiro mio: passasti: e fia compagna
d’ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cor, la rimembranza acerba.

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Le Ricordanze: pagina autografa

Belle stelle dell’Orsa, non avrei mai creduto di tornare a contemplarvi ancora dopo così tanto tempo come facevo una volta mentre brillate nel giardino della casa di mio padre e parlare con voi dalle finestre della casa che fu mia quando ero un adolescente e dove conobbi la fine delle gioie della mia vita. Quante immagini e quante fantasie un tempo mi creavo nei pensieri vedendo voi e le altre stelle vicine nel cielo! Quando seduto sul prato, silenzioso, trascorrevo le mie serata scrutando il cielo e ascoltando il canto della rana lontana nei campi. E la lucciola volava sulle siepi e sulle aiuole mentre i viali profumati e i cipressi lontani nella selva sussurravano al vento; e nella casa paterna risuonavano le voci e il lavoro dei servi. E quali pensieri immensi e dolci sogni mi ispirò guardare il mare lontano, e i monti azzurri che scopro dalla casa e che un giorno sognavo di varcare, credendo di trovare al di là dei mondi misteriosi e immaginando per la mia vita una felicità sconosciuta. Ignaro del mio destino e di quante volte in seguito avrei scambiato questa vita con la morte senza alcun rimpianto dolorosa e priva di gioie. // Nemmeno il cuore mi ha fatto cenno del fatto che sarei stato condannato a consumare la mia giovinezza in questo verde borgo selvaggio in cui sono nato, fra gente ignobile e incivile; per questa gente, la cui voglia di conoscere e di cultura sono parole strane e spesso oggetto di scherno; questa gente che mi odia e mi sfugge non per invidia, poiché non mi ritiene migliore di sé, ma perché pensa che migliore mi ritenga io rispetto a loro, sebbene io non abbia mai dato segno di ciò. Qui passo i miei anni, nascosto e abbandonato, senza vita e senza amore, e tra le persone malevoli divento come non sono mai stato, aspro e scortese: qui mi spoglio di pietà e virtù e disprezzo le persone meschine tra cui vivo; e intanto se ne va il tempo caro della gioventù, più caro della gloria e della fama, più caro della luce pura del giorno e dello stesso vivere: ti perdo senza aver avuto un attimo di gioia, inutilmente, in questo inumano soggiorno, con solo gli affanni come unico fiore nella vita arida. // Viene il vento facendo suonare le campane della torre del borgo. E ricordo che questo suono era per me un conforto quando ero un ragazzino e durante le notti passate nella camera buia vegliavo a causa di incubi e inquietudini incessanti, sospirando perché arrivassero presto il mattino e la luce del giorno. Non c’è nulla qui che, vedendolo o sentendolo,  non faccia riaffiorare alla mia memoria un’immagine dalla quale prende vita un ricordare dolce. Dolce di per sé; però poi con dolore arriva il pensiero del presente e un desiderio vano del passato che mi porta a dire: ho esaurito la mia esistenza. Quella loggia volta ad ovest queste pareti affrescate e i dipinti che raffigurano greggi, e il sole che sorge sulla campagna solitaria mi procurano mille diletti nei momenti di riposo dagli studi quando, dovunque mi trovassi, si trovava vicino a me quella mia capacità di credere nei sogni. In quelle antiche sale, al riflesso della neve, mentre il vento sibilava forte tutt’attorno a queste ampie finestre, risuonarono i giochi e le mie grida felici nel tempo in cui si mostra il duro pieno di dolcezza, l’indegno mistero della vita e della realtà non ancora sperimentata e intatta; e chi è il ragazzo che ancora sogna, come un innamorato inesperto una vita che sarà piena di inganni e che ammira una bellezza celeste vista con gli occhi dell’immaginazione. //  O speranze, speranze, dolci inganni della mia adolescenza! Sempre, parlando, io torno a voi; poiché non so dimenticarvi per quanto trascorra il tempo, per quanto anche gli affetti e i pensieri cambino. Fantasmi, io lo so, sono gloria e onore, il bene e i diletti solo un puro desiderio. E sebbene i miei anni siano vuoti, sebbene oscura e solitaria sia la mia vita mortale, so bene che la fortuna ha ben poco da prendersi da me. Ma, ahimè, ogni volta che vi ripenso, o mie speranze antiche, e che penso al mio fantasticare sul futuro e lo confronto con questa mia vita così inutile e priva di scopo e così dolorosa, che solo la morte mi resta dopo aver sognato grandi speranze sento stringermi il cuore e sento che non mi riesco a rassegnare del tutto al mio destino. E anche quando questa morte che invoco mi raggiungerà e sarà arrivata la fine delle mie sventure; quando per me la terra sarà una valle straniera e dal mio sguardo il futuro fuggirà; mi ricorderò sicuramente di voi, mie speranze, quell’immagine mi farà ancora sospirare, e renderà amaro il mio aver vissuto invano; e l’amarezza del ricordo andrà a guastare perfino il giorno in cui avrò la gioia di cessare di vivere. // E già in adolescenza, in quel primo tumulto di felicità di angosce di desideri, più volte ho invocato la morte e a lungo stetti seduto là, su quella fontana pensando di fermare dentro di me l’acqua di quelle speranze, il dolore di questa mia vita. Poi, ridotto in pericolo di vita da una malattia, rimpiansi la mia bella giovinezza il fiore dei miei giorni così poveri di gioie che così precocemente appassiva; e spesso, la sera tardi, seduto sul letto che, testimone delle mie sofferenze, scrivendo dolorosamente poesie alla luce fioca, piansi col silenzio e la notte come unici compagni, l’energia della vita che mi abbandonava. E proprio nel momento in cui la vita mancava, cantai un canto funebre. //  Chi può mai ricordarvi senza sospiri, o primi momenti della mia giovinezza, giorni pieni di lusinghe indescrivibili, e allorquando al giovane estasiato sorridono le fanciulle; tutto intorno ogni cosa sorride a gara, l’invidia tace e non eccita ancora oppure è innocua; e quasi il mondo porge la mano destra in aiuto, come volesse scusarsi dei suoi errori, festeggiando il nuovo entrare della vita e facendogli omaggio mostra di accettarlo come suo signore e lo chiami? Ma quei giorni sono fugaci e si sono dileguati come un lampo. E quale uomo può dire di non aver conosciuto sventura se ormai è trascorsa la bellezza di quell’età se il suo bel tempo, la sua giovinezza, ahi la giovinezza è oramai finita e spenta? //  O, Nerina! E non sento forse questi luoghi che parlano di te? Sei forse caduta dal mio pensiero? Dove sei fuggita, che qui di te trovo solo le ricordanze, o dolcezza mia? Questa terra mia natale oramai non ti vede più: quella finestra, dalla quale avevi l’abitudine di parlarmi, e dove si riflette mesta la luce delle stelle, è ora deserta. Dove sei, ora che non sento la tua voce che risuona, quando ogni parola che mi arrivava dalle tue labbra da lontano mi faceva impallidire? Altro tempo. Furono i tuoi giorni, amore mio dolce. Passasti. Il passaggio su questo mondo ad altri ora è dato in sorte, l’abitare questi odorati colli. Ma troppo rapida sei passata e la tua vita è stata breve quasi come un sogno. Danzavi, tu, nel cammino della vita. La gioia risplendeva intorno a te, e quel fiducioso immaginare intorno all’avvenire e la luce della giovinezza splendevano nei tuoi occhi, quando il destino li ha poi spenti facendoti morire. Ahi Nerina. Nel mio cuore ancora regno l’amore antico. Quando, a volte, vado a feste o a raduni dico tra me e me: o Nerina, a feste e raduni tu non vai più, e più non ti prepari. Se maggio torna, e gli amanti vanno donando canti e ramoscelli alle fanciulle, dico: per te, Nerina mia, la primavera non tornerà mai più, né tornerà l’amore. Ogni bella giornata, ogni valle in fiore che io guardo, ogni piacere che io sento, mi dico: Nerina ora non ne gode più; i campi e l’aria lei non guarda più. Ahi, tu sei passata, eterno sospiro mio: passasti e il tuo ricordo acerbo sarà mio compagno in ogni dolce immaginare, di tutti i miei teneri sentimenti, di tutti i miei cari e tristi moti del cuore.

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Parco letterario a Recanati

La poesia che sboccia a Pisa, continua a modulare la sua voce nel “natio borgo selvaggio”, come definisce Recanati nel terzo verso della seconda strofa. E’ tra le mura di una casa e di un paese ostile, più forte si fa sentire il sentimento del ricordo, di come quei luoghi li ha vissuti e come ora gli si presentano. E lo fa in un testo che viene definito “della rimembranza”, concetto già definito da lui intrinsecamente poetico.

Il testo è composto da sette strofe di endecasillabi e settenari variamente rimati.

  1. L’incipit con l’evocazione alle stelle rimanda alla poesia del “vago” e dell'”indefinito”, già presente nei piccoli idilli e in A Silvia. A questi viene aggiunto il concetto della “rimembranza” di quegli stessi luoghi vissuti nella fanciullezza, dove il poeta ora è tornato “a contemplarvi  sul paterno giardino”. In questa strofa l’uso verbale tra imperfetto e passato remoto sottolinea questo rapporto tra passato vissuto ed immaginato e il presente, ma viene anche ripetuta l’opposizione tra dentro e fuori, interno esterno, realtà immaginazione già vista sin dall’Infinito: il poeta all’interno della casa osserva il cielo dalle finestre per ragionar con le stelle dell’Orsa. A tutto questo si contrappone la consapevolezza filosofica del vero: da una felicità solo pensata e fantasticata emerge la realtà che era solamente finzione per questa vita dolorosa e nuda che avrebbe cambiato volentieri con la morte;
  2. Contrasto fra poeta e il paese reale, pieno di gente “zotica, vil”. Ora, qui (avverbio posto ad inizio verso, a rimarcare il luogo in cui si sente incarcerato), in questo luogo “abbandonato e occulto” (segregato in casa e isolato) il poeta non può che esacerbare il suo astio, diventando “sprezzator degli uomini”. Ed è proprio qui che ha perduto la sua giovinezza, unico fiore di una vita arida.
  3. Torna il ricordo, dal suonare dell’orologio della torre agli armenti dipinti sulle pareti. L’acerbità del presente e dei luoghi in cui vive, può solo essere attenuata dai ricordi che questi stessi luoghi possono suscitare; ed ecco riaffiorare nella mente del poeta la neve che appare dalle chiuse finestre o il sibilare del vento tra le mura, visioni e rumori accompagnati dalle grida festose di loro bambini (è evidente il riferimento ai giochi infantili tra Giacomo, Carlo e Paolina). La dolcezza infinità di un mondo in cui è possibile fingere una vita “pien di dolcezza” per il “mistero delle cose”.
  4. Almeno la giovinezza si alimenta di speranze, che soltanto la maturità può definirle “ameni (dolci) inganni”. Il rapporto tra il passato e presente qui si fa più intenso e la felicità del ricordo di ciò che è stato non placa il desiderio di una morte che annulli ogni dolore. Anche in quel momento in cui viene spento ogni futuro, nell’attimo stesso dell’abbandono della vita, il poeta sarà travolto dal pensiero della disillusione per l’uomo, dall’infelicità della condizione umana.
  5. La strofa si più cupa, ma sempre letterariamente controllata (si noti il richiamo petrarchesco dal sonetto proemiale – in sul mio primo giovanil errore: nel primo giovanil tumulto). In essa  il poeta ricorda che già allora riemergeva l’idea del suicidio.
  6. Qui, in questa stanza, le immagini si fanno più chiare, leggere: l’idea di una giovinezza accompagnata dal sorriso di fanciulle, da una vita solare che perdona gli errori giovanili, dal nascere. Ma queste immagini non possono che portare alla consapevolezza dell’infelicità della vita, in quanto, diventati adulti,  tali illusioni non sono che vaghi sogni.
  7. Nell’ultima strofa appare Nerina, compagna ideale di Silvia, per alcuni critici, la stessa persona. Qui tuttavia, al contrario della poesia scritta a Pisa, Nerina è cantata in assenza. Il paese vive la sua assenza, non la vede alla finestra, non la sente cantare: lei è la vita che si spegne di cui è rimasto solo il ricordo. 

IL SABATO DEL VILLAGGIO

La donzelletta vien dalla campagna
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e viole,
onde, siccome suole, ornare ella si appresta
dimani, al dí di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dí della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch’ebbe compagni nell’età piú bella.
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giú da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore;
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo riposo. 

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi al chiarir dell’alba.

 Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.

 Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave. 

La fanciulla ritorna dalla campagna al tramonto del giorno, portando un fascio d’erba (per gli animali) e tiene in mano un mazzolino di rose e di viole, delle quali, come è solita,. Si prepara ad ornare l’indomani, giorno di festa, il petto ed i capelli. Intanto sulle scale siede a filare con le vicine una vecchietta, rivolta là dove tramonta il sole, e racconta la sua giovinezza, quando anch’ella si prepara la domenica e ancora giovane e bella era solita andare a ballare con coloro che erano giovani come lei. Ormai inizia a scurire, il cielo torna azzurro e al biancheggiare della luna appena sorta ritornano le ombre giù dai colli e dalle case. Ora la campana dà il segno della festa che sta arrivando; e a quel suono si direbbe che il cuore si consola. I ragazzini, cantando in gruppo sulla piazzola, e saltando di qua e di là fanno un rumore allegro, e intanto il contadino torna alla sua povera casa, fischiettando e tra sé e sé pensa al giorno del riposo. // Poi quando intorno tutti i lumi sono spenti e tutto è silenzio, senti il martello picchiare, senti la sega del falegname che, sveglio nella sua bottega chiusa, alla luce di una lucerna si affretta a finire un lavoro prima della luce dell’alba. // Questo è il giorno più gradito della settimana, pieno di speranza e di gioia: domani le ore porteranno tristezza e noia, e ognuno tornerà al pensiero delle fatiche di tutti i giorni. // Ragazzino scanzonato, questa giovinezza è come un giorno luminoso sereno, che precede la maturità. Godi, ragazzo, della giovinezza; questa è una condizione beata, un’età gioiosa. Non ti pesi che la maturità tardi ancora a venire.

La canzone, composta da 4 strofe di endecasillabi e settenari, variamente rimati, fu composta nel ’29. Il tema centrale in essa è il piacere, riprendendolo da ciò che aveva elaborato in gioventù. Infatti nel ’21 Leopardi, nello Zibaldone, scriveva: Il piacere umano (…) sui può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere. Tale concetto viene qui vivificato in un quadretto recanatese, il giorno di sabato, in cui, appunto, nell’attesa della domenica, si vive nell’aspettativa del riposo; ma la domenica si riempie a sua volta dalla preoccupazione del lavoro del lunedì. Tale concetto si riaffaccia con plasticità nella figura della donzelletta e della vecchierella: esse diventano a loro volta simbolo dell’attesa del futuro e del ricordo, due attimi che negano il presente, per cui la felicità non si dà. L’immagine finale vuole infatti sottolineare il concetto di giovinezza come momento d’aspettativa di maturità, dell’illusione di felicità: ma non può nascondere, verso i giovani vocianti nella piazza quel sentimenti di compassione che umanizza la tragicità della condizione umana.

La condizione tragica della vita di un uomo riappare in uno dei canti più alti di Leopardi: anche qui, come l’Islandese, un isolato dal mondo:

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Antonio Berté: Quadro ispirato dalla canzone leopardiana

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colá dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir della terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
A che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Cosí meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre lá donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrá fors’altri; a me la vita è male.

 O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente; ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so giá dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

 Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.

Che fai nel cielo, luna? Dimmi che fai silenziosa luna? Sorgi di sera e vai sopra i deserti, poi tramonti. Non sei ancora stanca di far lo stesso tragitto in eterno? Ancora non sei stufa, ancora sei desiderosa di contemplare queste valli? La tua vita somiglia a quella di un pastore: si sveglia all’alba, porta il gregge sempre avanti nei campi e vede pecore, sorgenti e prati; poi, stanco, si riposa la sera e non spera nient’altro. Dimmi, luna, quale vantaggio trae il pastore da questa vita e a voi, corpi celesti, la vostra vita? Dimmi, qual è il fine di questa mia breve vita e della tua, invece, eterna? // Un vecchio dai capelli bianchi, infermo, mal vestito e scalzo, porta sulle spalle un carico pesantissimo lungo un percorso di sassi aguzzi, sabie dove si sprofonda, macchie piene di spine, al vento, nella tempesta, nel caldo afoso, nel gelo e corre desideroso, supera torrenti e stagni, cade, si rialza e si affretta sempre più, senza quiete né ristoro, lacero e insanguinato, finché non arriva là dove questo faticoso tragitto lo conduce: un abisso orrendo, immenso, dove egli, precipitando, dimentica tutto. Vergine luna, questa e la tua vita mortale. // L’uomo nasce nel dolore del parto, e la nascita è un momento in cui rischiamo la vita. Dolore e tormento sono per il nato le prime sensazioni e nel momento stesso in cui nasce, il padre e la madre cominciano a consolarlo per il fatto di essere nato; poi, man mano che cresce, padre e madre gli danno aiuto e in continuazione con gesti e parole si preoccupano di fargli coraggio e di consolarlo della situazione che vive da essere umano: non c’è nessun altro compito più prezioso che svolgano i genitori per il proprio figlio. Ma per quale motivo si dà vita, perché si continua a sostenere qualcuno se poi bisogna consolarlo di questa stessa vita? Se la vita è una sventura, perché mai dovremmo continuare a sopportarla e a vivere? Intatta luna, questo è lo stato dell’essere umano. Ma tu non sei mortale, e forse non t’importa nulla di quello che ti dico. // Eppure, tu che te ne stai sola e viaggi in eterno, e sei così pensierosa, tu forse capisci che cosa sono questo nostro vivere terreno, le nostre sofferenze, i nostri sospiri; questo morire, questo pallore del viso nel momento in cui moriamo e spariamo dalla terra, mancando alla consueta, compagnia di uomini che ci hanno voluto bene. E tu forse comprendi il senso profondo di queste cose, del ciclo del tempo e delle leggi dell’universo. Tu sai certamente per amore di che cosa giunga la primavera, sorridente, a chi sia di vantaggio l’estate e a chi l’inverno con il suo gelo. Conosci mille cose e mille ne scopri, mentre queste sono nascoste al semplice pastore. Spesso quando ti contemplo, mentre tu sei muta su questa pianura deserta, che è tanto estesa che all’orizzonte confina con il cielo; o quando ti vedo che mi segui mentre conduco il gregge; e quando vedo in cielo brillare le stelle, dico pensando fra me e me: qual è il senso di tutte queste luci? Che scopo ha l’aria infinita, e quel profondo infinito sereno? E che cosa significa questa immensa solitudine? E io chi sono? Così penso fra me e me: e così allo stesso modo non so indovinare quale utilità e valore vi sia della immensa stanza [dell’universo] e dello sterminato numero di esseri viventi; e poi nemmeno di questo darsi da fare, di questi movimenti di ogni cosa celeste e terrestre, che girano senza posa per tornare sempre là da dove sono partite. Ma tu, giovane immortale, sicuramente conosci il tutto. Io conosco e sento questo, che dei giri eterni [dei corpi celesti], che della mia fragilità, qualche bene o soddisfazione l’avrà forse qualche altro; per me la vita è sofferenza. // O gregge mio che ti riposi, oh te beata, che forse non conosci la tua miseria! Quanto ti invidio! Non solo perché vivi quasi libero da ogni sofferenza; perché ogni fatica, ogni dolore, ogni paura anche mortale dimentichi subito; ma soprattutto perché non conosci la noia. Quando tu giaci all’ombra [degli alberi], sull’erba, tu sei sereno e contento; e la maggior parte dell’anno conduci senza noia in quello stato. Anch’io siedo sopra l’erba, all’ombra [degli alberi] eppure una pena mi occupa la mente, e quasi mi dà fastidio come fosse un assillo, a tal punto che pur seduto sono più lontano che mai dal trovar pace o dal trovar un luogo tranquillo. Eppure non desidero nulla, e non ho finora nessuna ragione di dolore. Non so dire la qualità e la quantità del tuo godimento; ma sei fortunata. E anch’io come te godo poco, o mio gregge, ma non mi lamento solo di questo. Se tu sapessi parlare ti chiederei: dimmi, perché ogni animale è appagato quando giace in piena comodità e nell’ozio; mentre se io mi riposo il tedio mi assale? // Forse se avessi le ali e potessi volare tra le nuvole come un uccello, e potessi contare le stelle ad una ad una, o se fossi come il tuono che può passare da cima a cima, sarei più felice, mio dolce gregge, sarei più felice, mia candida luna. O forse il mio pensiero, osservando il destino degli altri esseri viventi, si allontana dalla verità: forse il giorno della nascita è dannoso a chi viene alla vita in qualsiasi forma e in qualsiasi stato esso sia, dentro una tana o dentro una culla.

E’ questa l’ultima canzone del periodo pisano-recanatese, terminata nel ’30. La suggestione per il tema gliel’aveva data un articolo sul Journal des savants (Giornale dei sapienti) del ’26 in cui si recensiva un libro di viaggi. L’autore descriveva la vita dei pastori kirghisi e riportava il fatto che essi, durante il lavoro della pastorizia, seduti soli in terra, cantassero canzoni tristi e malinconiche. Leopardi prende le mosse da tale suggestione e immagina un dialogo con la luna (ormai divenuto topico del suo linguaggio poetico), in cui ripropone il suo interrogativo sul destino della vita dell’uomo.

Tale canto è stato, strofe per strofe, ben riassunto dal critico letterario Contini:

  1. Domande alla luna (…) circa il significato della sua vita, ciclica come la vita vana del pastore;
  2. Metafora negativa, esalata senza pause, sulla vita dell’uomo;
  3. Tristezza della nascita per l’uomo;
  4. Domande alla luna circa il senso della vita, che per il pastore è male;
  5. Invidia il gregge, sprovvisto del taedium vitae;
  6. Sospetto che il volo darebbe la felicità al pastore; ma il sospetto che il male di vivere sia universale.

In questo canto il poeta sembra riprenda elementi tipici della sua produzione precedente: si pensi a come il pastore/Leopardi si trovi qui avvolto in un infinito spaziale estremamente indefinito e vago. Se questo, tuttavia, può creare ancora una volta la parola poetica, non può più illuderlo sulla possibile felicità. A testimoniarlo è un altro richiamo identificativo natura/luna, che nel suo silenzio può forse solo sottolineare l’indifferenza per la vita del pastore.

La dolcezza del dettato, ottenuta soprattutto attraverso la cantabilità del testo (si pensi alla terminazione in –ale di ogni strofa) non nasconde l’allargamento di riflessione leopardiana che descrive il corso della vita umana dalla nascita alla morte, corso nel quale, come già detto altrove, non vi è felicità. Ma qui sembra maggiormente sottolinearlo perché nega a se stesso e quindi anche all’uomo la ricordanza e quindi la compassione verso i suoi simili ed inoltre abbraccia la totalità del creato, in un senza senso senza Dio, che apre a nuove prospettive poetiche che prenderanno forma in un diverso e strabiliante poetare.

Periodo fiorentino 1830 – 1833

Grazie all’interessamento di Pietro Colletta (intellettuale napoletano, in quel periodo, per motivi politici a Firenze, dove collabora all’Antologia) Leopardi lascia definitivamente Recanati e si sposta nella città toscana dove, per la prima volta, si può dire, conducesse un intenso e felice rapporto con la vita. A tale cambiamento corrisposero due fattori fondamentali: l’amicizia con Antonio Ranieri (giovane ed esuberante intellettuale napoletano che seppe donargli un affetto fraterno e un appoggio pratico nei momenti di difficoltà) e l’amore per Fanny Fargioni Tozzetti, signora fiorentina usa a frequentare salotti letterari.

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Fanny Targioni Tozzetti

In questo clima Leopardi s’inserisce in un dibattito culturale più ampio: pensa di pubblicare, insieme all’amico napoletano con l’intervento del finanziatore Freppa una rivista Lo spettatore fiorentino (che non vedrà mai la luce, per l’intervento della censura), pubblica l’edizione dei Canti, contenenti le liriche scritte fine al ’31. Aggiunge con Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e con il Dialogo di Tristano ed un amico altre due prose alle Operette morali.

DIALOGO DI UN VENDITORE D’ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE

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Almanacco del 1832

VENDITORE: Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
PASSEGGERE: Almanacchi per l’anno nuovo?
VENDITORE:Si signore.
PASSEGGERE: Credete che sarà felice quest’anno nuovo? 
VENDITORE: Oh illustrissimo si, certo.
PASSEGGERE: Come quest’anno passato?
VENDITORE: Più più assai.
PASSEGGERE: Come quello di là?
VENDITORE: Più più, illustrissimo.
PASSEGGERE: Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
VENDITORE: Signor no, non mi piacerebbe.
PASSEGGERE: Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?
VENDITORE: Saranno vent’anni, illustrissimo.
PASSEGGERE: A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?
VENDITORE: Io? non saprei.
PASSEGGERE: Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
VENDITORE: No in verità, illustrissimo.
PASSEGGERE: E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
VENDITORE: Cotesto si sa.
PASSEGGERE: Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste? 
VENDITORE: Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
PASSEGGERE: Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
VENDITORE: Cotesto non vorrei.
PASSEGGERE: Oh che altra vita vorreste rifare? La vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
VENDITORE: Lo credo cotesto.
PASSEGGERE: Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
VENDITORE: Signor no davvero, non tornerei.
PASSEGGERE: Oh che vita vorreste voi dunque?
VENDITORE: Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
PASSEGGERE: Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
VENDITORE: Appunto.
PASSEGGERE: Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
VENDITORE: Speriamo.
PASSEGGERE: Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.
VENDITORE: Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
PASSEGGERE: Ecco trenta soldi.
VENDITORE: Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

Questa breve operetta ha un andamento circolare, per meglio dire inizia nello stesso modo con cui finisce, quasi a sottolineare la circolarità e non il “progresso” di cui si vanta il liberalismo cattolico. Di fronte alla materia, che, pur non prendendo di petto la natura in modo diretto, non ne rifiuta la sostanza (la vita è dolore) è tuttavia mostrata in un rapporto in cui i due interlocutori, in cui si potrebbe leggere da una parte Leopardi stesso, (il passeggere), dall’altra un persona umile, non sono differenti l’uni all’altro ma si corrispondono nella “verità” del loro destino.

DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO

AMICO: Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
TRISTANO: Sì, al mio solito.
AMICO: Malinconico, sconsolato, disperato: si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.
TRISTANO: Che v’ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
AMICO: Infelice sì forse. Ma pure alla fine…
TRISTANO: No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n’era tanto persuaso, che tutt’altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch’io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d’ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell’utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero è tutt’altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l’una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d’animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l’arme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d’ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo. Io per me, come l’Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino. Parlo sempre degl’inganni non dell’immaginazione, ma dell’intelletto. Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano. Io diceva queste cose fra me, quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d’invenzione mia; vedendola così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare. E anche mi ricordai che da quei tempi insino a ieri o all’altr’ieri, tutti i poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi e piccoli, in un modo o in un altro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine. Sicché tornai di nuovo a maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo sdegno e il riso passai molto tempo: finché studiando più profondamente questa materia, conobbi che l’infelicità dell’uomo era uno degli errori inveterati dell’intelletto, e che la falsità di questa opinione, e la felicità della vita, era una delle grandi scoperte del secolo decimonono. Allora m’acquetai, e confesso ch’io aveva il torto a credere quello ch’io credeva.
AMICO: E avete cambiata opinione?
TRISTANO: Sicuro. Volete voi ch’io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono?
AMICO: E credete voi tutto quello che crede il secolo?
TRISTANO: Certamente. Oh che maraviglia?
AMICO: Credete dunque alla perfettibilità indefinita dell’uomo?
TRISTANO: Senza dubbio.
AMICO: Credete che in fatti la specie umana vada ogni giorno migliorando?
TRISTANO: Sì certo. È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l’uomo; perché (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui. E però anticamente la debolezza del corpo fu ignominiosa, anche nei secoli più civili. Ma tra noi già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito. E dato che si potesse rimediare in ciò all’educazione, non si potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L’effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini, e che gli antichi a confronto nostro si può dire più che mai che furono uomini. Parlo così degl’individui paragonati agl’individui, come delle masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna) paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono incomparabilmente più virili di noi anche ne’ sistemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo costantemente che la specie umana vada sempre acquistando.
AMICO: Credete ancora, già s’intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente.
TRISTANO: Certissimo. Sebbene vedo che quanto cresce la volontà d’imparare, tanto scema quella di studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri dotti, che vivevano contemporaneamente cencinquant’anni addietro, e anche più tardi, e vedere quanto fosse smisuratamente maggiore di quello dell’età presente. Né mi dicano che i dotti sono pochi perché in generale le cognizioni non sono più accumulate in alcuni individui, ma divise fra molti; e che la copia di questi compensa la rarità di quelli. Le cognizioni non sono come le ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti sanno poco, e’ si sa poco; perché la scienza va dietro alla scienza, e non si sparpaglia. L’istruzione superficiale può essere, non propriamente divisa fra molti, ma comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se non a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e fornito esso individualmente di un immenso capitale di cognizioni, è atto ad accrescere solidamente e condurre innanzi il sapere umano. Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi uomini dottissimi divenga ogni giorno meno possibile? Io fo queste riflessioni così per discorrere, e per filosofare un poco, o forse sofisticare; non ch’io non sia persuaso di ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi il mondo tutto pieno d’ignoranti impostori da un lato, e d’ignoranti presuntuosi dall’altro, nondimeno crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano di continuo.
AMICO: In conseguenza, credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati.
TRISTANO: Sicuro. Così hanno creduto di sé tutti i secoli, anche i più barbari; e così crede il mio secolo, ed io con lui. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò che appartiene al corpo o in ciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose dette dianzi.
AMICO: In somma, per ridurre il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di politica) quello che ne pensano i giornali?
TRISTANO: Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de’ giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell’età presente. Non è vero?
AMICO: Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete diventato de’ nostri.
TRISTANO: Sì certamente, de’ vostri.
AMICO: Oh dunque, che farete del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei sentimenti così contrari alle opinioni che ora avete?
TRISTANO: Ai posteri? Io rido, perché voi scherzate; e se fosse possibile che non ischerzaste, più riderei. Non dirò a riguardo mio, ma a riguardo d’individui o di cose individuali del secolo decimonono, intendete bene che non v’è timore di posteri, i quali ne sapranno tanto, quanto ne seppero gli antenati. Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d’individui, desidero e spero che me lo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. Ma per tornare al proposito del libro e de’ posteri, i libri specialmente, che ora per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli, vedete bene che, siccome costano quel che vagliono, così durano a proporzione di quel che costano. Io per me credo che il secolo venturo farà un bellissimo frego sopra l’immensa bibliografia del secolo decimonono; ovvero dirà: io ho biblioteche intere di libri che sono costati quali venti, quali trenta anni di fatiche, e quali meno, ma tutti grandissimo lavoro. Leggiamo questi prima, perché la verisimiglianza è che da loro si cavi maggior costrutto; e quando di questa sorta non avrò più che leggere, allora metterò mano ai libri improvvisati. Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto senza altre fatiche preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l’indole del tempo presente e futuro, assolvano essi e loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo di maneggi e di faccende, che anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che consista in parte la differenza ch’è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in questo la nullità. Onde è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali, nell’immensa moltitudine de’ concorrenti, non è più possibile di aprirsi una via. E così, mentre tutti gl’infimi si credono illustri, l’oscurità e la nullità dell’esito diviene il fato comune e degl’infimi e de’ sommi. Ma viva la statistica! vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri sessantasei anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni.
AMICO: Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all’ultimo ricordarvi che questo è un secolo di transizione.
TRISTANO: Oh che conchiudete voi da cotesto? Tutti i secoli, più o meno, sono stati e saranno di transizione, perché la società umana non istà mai ferma, né mai verrà secolo nel quale ella abbia stato che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o non iscusa punto il secolo decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare, andando la società per la via che oggi si tiene, a che si debba riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al peggio. Forse volete dirmi che la presente è transizione per eccellenza, cioè un passaggio rapido da uno stato della civiltà ad un altro diversissimo dal precedente. In tal caso chiedo licenza di ridere di cotesto passaggio rapido, e rispondo che tutte le transizioni conviene che sieno fatte adagio; perché se si fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo si torna indietro, per poi rifarle a grado a grado. Così è accaduto sempre. La ragione è, che la natura non va a salti, e che forzando la natura, non si fanno effetti che durino, Ovvero, per dir meglio, quelle tali transizioni precipitose sono transizioni apparenti, ma non reali.
AMICO: Vi prego, non fate di cotesti discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete molti nemici.
TRISTANO: Poco importa. Oramai né nimici né amici mi faranno gran male.
AMICO: O più probabilmente sarete disprezzato, come poco intendente della filosofia moderna, e poco curante del progresso della civiltà e dei lumi. Tristano: Mi dispiace molto, ma che s’ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.
TRISTANO: Mi dispiace molto, ma che s’ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.
AMICO: Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che s’ha egli a fare di questo libro?
TRISTANO: Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario.
AMICO: Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare.
TRISTANO: Verissimo. E di più vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismentirà le mie parole; perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l’ora ch’io dico non sia lontana. Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere, così morto come sono spiritualmente, così conchiusa in me da ogni parte la favola della vita, durare ancora quaranta o cinquant’anni, quanti mi sono minacciati dalla natura. Al solo pensiero di questa cosa io rabbrividisco. Ma come ci avviene di tutti quei mali che vincono, per così dire, la forza immaginativa, così questo mi pare un sogno e un’illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se qualcuno mi parla di un avvenire lontano come di cosa che mi appartenga, non posso tenermi dal sorridere fra me stesso: tanta confidenza ho che la via che mi resta a compiere non sia lunga. E questo, posso dire, è il solo pensiero che mi sostiene. Libri e studi, che spesso mi maraviglio d’aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di gloria e d’immortalità, sono cose delle quali è anche passato il tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di questo secolo non rido: desidero loro con tutta l’anima ogni miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente il buon volere: ma non invidio però i posteri, né quelli che hanno ancora a vivere lungamente. In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d’esser vissuto invano, mi turbano più, come solevano. Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo. Questo è il solo benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall’altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.

L’operetta, scritta nel ’32 e che appare anche l’ultima nell’edizione definitiva dell’opera, è una risposta all’accoglienza che le Operette morali del ’27 avevano ricevuto e che reputavano la meditazione filosofica leopardiana come frutto della sua deformità fisica. Ciò determina una reazione il Leopardi che si risolve in sarcasmo e riso e quindi in un atteggiamento maggiormente distaccato. Si veda l’esempio con cui descrive il rifiuto della società contemporanea alla sua speculazione: mariti cornuti che fingono di non esserlo per non sentirsi tali (esempio irridente e popolaresco).

Egli rovescia il discorso: vile è colui che crede che il progresso o la religione possano risolvere il problema dell’infelicità umana, coraggioso è colui che, senza finzioni consolatorie riesce a guardare in faccia la realtà. Non è un problema di dolore personale, quindi, ma dell’intera umanità. Egli non scrive pertanto spinto da un sentimento individuale e prova ne è la cultura stessa: anche la Bibbia descrive l’infelicità dell’uomo, così come la cultura classica greca o latina.

Possiamo sintetizzare il testo attraverso  5 questioni questioni/domande:

  1. La vita umana è infelice?
  2. L’umanità è sempre più perfetta
  3. Il sapere e la cultura progrediscono
  4. Quest’epoca è superiore a quelle passate
  5. Che cosa si fa delle “operette morali”, opera negatrice il progresso dell’umanità

a cui Tristano/Leopardi, fingendo di ritrattare risponde:

  1. Il sapere contemporaneo non accetta l’infelicità dell’uomo che tuttavia non è espressa da Leopardi ma da moltissima letteratura classica e teologica. Lo strano si è che se si riporta l’ideologia di Teognide o di Lucrezio, o addirittura passi biblici non si ha nulla da dire; se lo si pubblica in un libro contemporaneo lo si reputa “non vero” e controproducente il progresso storico “inevitabile”;
  2. L’umanità si dice che oggi sia più perfetta, ma si è abbandonata la cultura che faceva tutt’uno tra cultura del corpo e cultura della mente. Molto probabilmente l’educazione classica, rafforzando il corpo, perché è da un corpo sano che nascono le sensazioni, era certamente migliore rispetto alla moderna, in cui si predilige lo “spirito”;
  3. Alla diffusione culturale non corrisponde una elevatezza culturale. Al contrario affinché più gente conosca più la cultura si abbassa, deprimendo così e riducendo il grado d’intellettualità dei pochi, che si ottiene selezionando il processo conoscitivo;
  4. Tutte le epoche si sono credute superiori a quelle che le avevano precedute; non esiste epoca superiore all’altra; ma se proprio dovessimo riferirci a quella del secolo decimonono, essa non lo è affatto in quanto delega il sapere nei giornali, creando una falsa cultura di massa, nuova parola con cui s’intende un’unione di individui quindi, per Leopardi contraddizione (massa/ individuo)
  5. Riguardo le “Operette morali” possono essere anche bruciate, ma ciò non permetterà all’autore di cambiare opinione

La posizione con cui l’amico tenta di “giustificare” il suo secolo viene smontata in modo reciso da Leopardi: immaginare la felicità futura e non possederla perché la si sta costruendo, quindi il secolo attuale sarebbe quasi un ponte, è ridicola. Tutti i tempi sono stati aspettative di tempi futuri, non esiste età definitiva. Anzi questo secolo è forse il peggiore, perché creando illusioni nega la verità della naturale infelicità.

Ai tempi del pessimismo storico, Leopardi aveva creduto che l’infelicità fosse conseguenza della consapevolezza razionale del vero; ma ora sa che è una condizione ontologica dell’intero universo. Dunque, neppure gli sciocchi possono sottrarvisi. Per questo motivo, nei confronti dei propri simili prova un sentimento di profonda e dolente pietà.

Ciclo d’Aspasia (1833 – 1835)

L’amore per la nobildonna Fanny Targioni Tozzetti è fortemente sentito dall’inesperto Leopardi; è talmente vivo in lui da dettargli altre parole per la sua poesia. Consalvo, la prima, con il nome del protagonista di un poema epico cavalleresco del ‘600, in cui dichiara che sarebbe andato fino all’inferno, pur di ricevere un suo bacio; Il pensiero dominante, in cui si sente pienamente investito da questo nuovo dio; Amore e morte, in cui riprendendo il mito greco di Eros e Thanatos, il poeta agognerebbe la morte, pur di non soffrire. Ma il capolavoro di questo ciclo avviene quando si rende conto che il sentimento provato per Fanny è pura illusione: la rabbia provata per questa estrema delusione si traduce in un piccolo canto in cui versifica con nuovissimi accenti:

A SE STESSO

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, nè di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.

Ora, o mio cuore stanco, riposerai per sempre. E’ finita l’ultima illusione che avevo creduto eterna. E’ svanita. Sento profondamente che in noi non solo la speranza ma anche il desiderio delle gradite illusioni è spento. Riposa per sempre. Troppo hai sofferto. Non c’è nessuna cosa che valga i tuoi palpiti, né il mondo è degno dei (tuoi) sospiri. La vita non è altro che amarezza e noia; e spregevole è il mondo. Calmati ormai. Rinuncia definitivamente ad ogni speranza. Agli uomini il destino donò solo la morte. Ormai (o mio cuore) disprezza te stesso, la natura, il potere perverso che domina occultamente a danno di tutto e l’infinita vanità dell’universo.

Leopardi c’aveva creduto: l’amore poteva superare il nichilismo con cui aveva definito l’esistenza: null’altro, solo lui. La caduta dell’illusione non può che provocare un verso rabbioso, franto, “antidillico”, dove la cruda parola viene spezzata in continui enjambement, ma dove, pur sapientemente occultandola, continua ad esercitare un incredibile controllo tecnico: tre strofe uguali, un settenario, due endecasillabi, un settenario ed un endecasillabo, a cui si aggiunge il verso finale (endecasillabo).

Chiude la raccolta la lirica Aspasia, con il nome della concubina di Pericle, in cui il poeta, rifugiandosi nel ricordo di Fanny, cerca di sbollire “la rabbia” ed ammette la sua sconfitta.

A Napoli (1833-1837)

Nel 1833 Leopardi, insieme all’amico Antonio Ranieri, si trasferisce a Napoli. Qui, sempre più ammalato, elabora alcune opere, quali I Paralipòmeni della Batracomiomachia (riprendendo un testo omerico già tradotto in gioventù) in cui satireggia la situazione politica italiana (disegna gli italiani come topi, gli austriaci come granchi i Borboni come rane) e la Palinodia a Gino Capponi con il quale polemizza sul liberalismo. Contiene, inoltre, due lunghi canti, Il tramonto della luna, ma soprattutto l’ultimo, che costituisce la summa del pensiero leopardiano e, se così possiamo dire, il suo testamento letterario:

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Pierre Henri de Valenciennes, Eruzione del Vesuvio sotto i tempi di Tito (1813)

LA GINESTRA

Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον
τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre
che la luce.
Giovanni, III, 19.

Qui su l’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante
e d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell’impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s’annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fûr liete ville e cólti,
e biondeggiâr di spiche, e risonâro
di muggito d’armenti;
fûr giardini e palagi,
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fûr cittá famose,
che coi torrenti suoi l’altèro monte
dall’ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
ove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrá dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
«Le magnifiche sorti e progressive».

Qui mira e qui ti specchia,

secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e vòlti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch’a ludibrio talora
t’abbian fra sé. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto;
bench’io sappia che obblio
preme chi troppo all’etá propria increbbe.
Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertá vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltá, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Cosí ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci die’. Per queste il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe’ palese; e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell’alma generoso ed alto,
non chiama sé né stima
ricco d’òr né gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma sé di forza e di tesor mendíco
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
non credo io giá, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice: “A goder son fatto,”
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nòve
felicitá, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest’orbe, promettendo in terra
a popoli che un’onda
di mar commosso, un fiato
d’aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sí, ch’avanza
a gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
ch’a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor piú gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dá la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccom’è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell’uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede cosí, qual fôra in campo
cinto d’oste contraria, in sul piú vivo
incalzar degli assalti,
gl’inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
Cosí fatti pensieri
quando fien, come fûr, palesi al volgo;
e quell’orror che primo
contra l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper; l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probitá del volgo
cosí star suole in piede
quale star può quel c’ha in error la sede.

 Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa,
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch’a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo, ove l’uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor piú senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o cosí paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiú, di cui fa segno
il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto; e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente; e che, i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente etá, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietá prevale.

 Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
cui lá nel tardo autunno
maturitá senz’altra forza atterra,
d’un popol di formiche i dolci alberghi
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l’opre,
e le ricchezze ch’adunate a prova
con lungo affaticar l’assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; cosí d’alto piombando,
dall’utero tonante
scagliata al ciel profondo,
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli,
o pel montano fianco
furiosa tra l’erba
di liquefatti massi
e di metalli e d’infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar lá su l’estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e cittá nove
sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
dell’uom piú stima o cura
ch’alla formica: e se piú rara in quello
che nell’altra è la strage,
non avvien ciò d’altronde
fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

 Ben mille ed ottocento
anni varcâr poi che sparîro, oppressi
dall’ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta piú mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
dell’ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando piú volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall’inesausto grembo
sull’arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l’acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontan l’usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente,
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
dopo l’antica obblivion, l’estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietá rende all’aperto;
e dal deserto fòro
diritto infra le file
de’ mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per vòti palagi atra s’aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l’ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Cosí, dell’uomo ignara e dell’etadi
ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sí lungo cammino
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l’uom d’eternitá s’arroga il vanto.

 E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
giá noto, stenderá l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver’ le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma piú saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.

JPG.jpegUn acquerello del XIX secolo con Villa Ferrigni presso Torre del Greco, dove Giacomo Leopardi compose La Ginestra.

Qui sulle aride pendici del terribile vulcano distruttore, il Vesuvio, che non sono rallegrate da nessun albero né fiore, tu spargi i tuoi rami solitari, o profumata ginestra, felice di trovarti nei deserti. Ti ho già vista abbellire con i tuoi steli le campagne disabitate che circondano la città (Roma) che un tempo fu dominatrice degli esseri umani, e sembra che questi luoghi col loro aspetto cupo e silenzioso testimonino e ricordino a chi passa il grande impero perduto. Ti rivedo ora su questo suolo, tu che sei amante di luoghi tristi e abbandonati dal mondo, e sempre compagna di grandezze decadute. Questi terreni, cosparsi di ceneri sterili, e ricoperti dalla lava solidificata, che risuona sotto i passi del viandante; dove si annida e si contorce sotto al sole il serpente, e dove il coniglio torna all’abituale tana tra le caverne; furono città ricche e campi coltivati, biondeggiarono di campi di grano, e risuonarono di muggiti delle mandrie; furono giardini e ville sontuose, un gradito rifugio per l’ozio dei potenti; e furono città famose che il vulcano indomabile, eruttando dalla bocca di fuoco torrenti di lava distrusse insieme con i loro abitanti. Ora qui intorno la rovina avvolge tutto, là dove tu hai radici, o fiore gentile e, quasi compiangendo le miserie altrui, verso il cielo emani un profumo assai dolce, che allieta il paesaggio desertico. A questi luoghi deserti si rechi chi è solito esaltare ed elogiare la nostra umana condizione, e veda quanto la natura benigna si preoccupa dell’uomo. E in maniera opportuna potrà anche valutare la potenza del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se l’aspetta, con una scossa impercettibile distrugge in parte in un solo momento, è può con moti poco meno lievi all’improvviso annientare del tutto. // Qui guardati e ammira la tua immagine riflessa, secolo superbo e stolto, che hai abbandonato la strada segnata sin qui dal pensiero rinascimentale, e tornato sui tuoi passi, ti vanti del tuo procedere all’indietro, e lo chiami addirittura progresso. Tutti gli ingegni, di cui una sorte malvagia ti ha reso padre, sono intenti ad adulare il tuo atteggiamento infantile, benché a volte, tra di loro, si facciano beffe di te. Io non verrò sotterrato macchiandomi di una simile vergogna; ma piuttosto avrò mostrato chiaramente il disprezzo nei tuoi confronti che è rinchiuso nel mio cuore: benché io sappia che all’oblio è destinato chi troppo ha biasimato il proprio tempo. Di questo male, che sarà in comune tra me e te, finora ne rido molto. Vai sognando la libertà, e nel frattempo vuoi che il pensiero sia di nuovo servo, (quel pensiero) in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie, e per cui solo si può crescere in civilizzazione, che da sola guida i destini dei popoli verso il meglio. Perciò ti ha infastidito la verità sulla sorte amara e sul mondo infelice che la natura ci ha assegnato. Per questo motivo, vigliaccamente hai voltato le spalle al pensiero che ci ha mostrato queste cose: e, mentre fuggi, chiami vile chi segue quella via, e definisci magnanimo solo chi, astuto o stolto, illudendo sé stesso o gli altri, esalta fin sopra le stelle la condizione umana. // Un uomo di umile condizione e salute cagionevole, che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti, non definisce né reputa se stesso ricco di beni o di vigore fisico, e non ostenta ridicolmente tra la gente la sua vita lussuosa o il suo bell’aspetto; ma senza vergogna si mostra privo di forza fisica e di beni materiali, e chiama apertamente le cose col loro nome, e stima le sue cose in modo aderente alla verità. Non penso che sia un essere magnanimo, ma sciocco chi, nato per morire, nutrito di sofferenze, afferma: “Sono stato creato per essere felice”, e di nauseante orgoglio riempie i suoi scritti, promettendo in terra, a quei popoli che un’onda di un mare tempesta, una pestilenza, un terremoto possono distruggere in modo che ne sopravviva a stento il ricordo, un destino esaltante e straordinarie felicità, che il cielo stesso ignora. Nobile spirito è quello che ha il coraggio di sollevare i propri occhi mortali contro il destino comune, e che con parole oneste, senza nulla togliere alla verità, confessa il male che ci è stato assegnato, e la nostra insignificante e fragile condizione; quello che si mostra coraggioso e forte nella sofferenza, e che non aggiunge alle sue sciagure né gli odi né le ire fraterne, più gravi ancora di ogni altro danno, dando la responsabilità all’uomo del suo dolore, ma dà la colpa a colei che è davvero responsabile (la natura), che per gli uomini è madre perché li ha generati e matrigna per come li tratta. Chiama nemica costei (la natura); e pensando di essere, com’è vero, unita e schierata contro di lei, la società umana ritiene che tutti gli uomini siano alleati tra loro e tutti li stringe in un abbraccio con vera partecipazione, offrendo ed aspettando un valido e rapido aiuto nelle alterne difficoltà e nelle sofferenze della comune lotta. E crede che sia cosa stolta armarsi e porre insidie per contrastare un proprio simile, così come sarebbe stupido, in un campo di battaglia circondato dai nemici, nel momento più feroce dell’assalto, dimenticando i nemici, aprire aspre ostilità contro i propri compagni e disseminare la fuga o tirare colpi di spada tra i propri guerrieri. Quando considerazioni di questo tipo saranno, come lo sono state in passato, evidenti al popolo; e quel terrore che per primo unì gli uomini contro la natura malvagia in una catena di solidarietà, sarà ricondotto in parte a una vera sapienza, allora l’onestà e la rettitudine degli esseri umani e la giustizia e la pietà, avranno un’altra radice che non l’ottusa fiducia, sulle cui fondamenta la mentalità del popolo è solita star in equilibrio come può stare chi ha il proprio fondamento nell’errore. // Spesso siedo nottetempo su questi luoghi, che, deserti, la lava solidificata, e sembra muoversi ancora, ricopre di un colore marrone scuro; e sul triste paesaggio, sotto un cielo terso e pulitissimo vedo risplendere le stelle nel cielo, alle quali il mare, da lontano, fa da specchio, e tutto il mondo brilla di scintille per l’universo sereno. E fissando con gli occhi quelle luci, che a loro paiono solo dei puntini, e invece sono talmente grandi, che in realtà terra e mare sono solo un punto al loro cospetto; alle quali non solo l’uomo, ma questa stessa Terra dove l’uomo vale nulla, è del tutto sconosciuto; e quando ammiro quelle lontane e infinite costellazioni di stelle, che ci sembrano come una nebbia, alle quali non l’uomo, non la terra soltanto, ma tutte insieme le nostre stelle, infinite per numero e per mole, insieme col sole dorato o sono sconosciute o appaiono come loro sembrano alla Terra, e cioè un punto di luce fioca; allora come appari al mio pensiero, o stirpe umana? E ricordando il tuo stato sulla terra, di cui è testimonianza il suolo vulcanico che io calpesto; e d’altra parte (ricordando) che ti reputi padrona e fine ultimo dell’universo; e (ricordando) quante volte ti è piaciuto fantasticare su come i creatori (gli dei) del mondo siano scesi su questo oscuro granello di sabbia, che ha nome Terra, per causa tua, e su come spesso abbiano conversato piacevolmente con i tuoi simili; e (ricordando) che perfino la presente età, che per conoscenza e costume civile sembra essere così superiore alle età precedenti, insulta i saggi, raccontando di nuovo sogni già derisi in passato; che sentimento o che pensiero, o umanità infelice, assale alla fine il mio cuore nei tuoi confronti? Non so se prevale il riso o la pietà. // Come un piccolo frutto cadendo dall’albero, che nell’autunno inoltrato la maturazione fa precipitare a terra senza altra forza, schiaccia, annienta e sommerge in un attimo gli accoglienti nidi di un popolo di formiche, scavati nel terreno molle con gran lavoro, e le gallerie e le riserve di cibo che con lunga fatica le infaticabili formiche in gara tra loro hanno raccolto con previdenza nella stagione estiva; così, piombando dall’alto, dalle viscere rumorose del vulcano scagliate in alto verso il cielo, le tenebre fatte di cenere, pomice e sasso, mescolate ai bollenti ruscelli, oppure un’immensa piena di massi liquefatti di metalli e di sabbia infuocata, che scende furiosa tra l’erba, lungo il fianco del monte sconvolse, distrusse e ricoprì in pochi attimi le città che il mare bagnava sulla costa: così ora su quelle città pascola la capra, e nuove città sorgono all’esterno della colata, a cui fanno da sgabello le città sepolte, e l’alto monte quasi calpesta col suo piede le mura crollate. La natura non nutre per il genere umano maggiore stima o cura che per la formica: e se la strage avviene più raramente tra quelli (gli uomini) che tra queste (le formiche), ciò avviene d’altra solo perché la stirpe degli uomini è meno feconda. // Sono passati ben mille e ottocento anni da quando scomparirono, sepolti dalla forza della lava infuocata, le affollate città e il contadino intento a lavorare nei vigneti, che la terra arida e bruciata, nutre a fatica in questi campi, alza tuttora lo sguardo sospettoso verso la cima del vulcano portatore di morte, che per nulla resa più mite, ancora lo sovrasta tremenda, ancora minaccia una strage a lui (il contadino), ai suoi figli e ai loro miseri averi. E spesso il poverello sul tetto della sua rustica casa, trascorrendo insonne tutta la notte all’aperto, e sobbalzando più volte (per la paura), osserva ansioso il procedere del temuto ribollire, che cola dalle inesauribili viscere sul pendio sabbioso, al cui bagliore risplende la marina di Capri e il porto di Napoli e il quartiere Mergellina. E se lo vede avvicinarsi, o se sente per caso gorgogliare in fermento nel profondo del pozzo di casa, sveglia i figli, sveglia la moglie in fretta, e subito va via, con quanto delle loro cose possono prendere e, fuggendo, vede da lontano la quotidiana abitazione, e il modesto campo, che costituì per lui l’unica difesa alla fame, preda della colata incandescente che avanza con mille crepitii, e inesorabile si stende per sempre sopra quelli (campo e casa). Alla luce del sole torna, dopo un oblio secolare, l’estinta Pompei, come uno scheletro sepolto, che dalla terra viene all’aperto per desiderio di ricchezza o pietà; e dal foro deserto dritto in mezzo alle fila dei colonnati diroccati il pellegrino contempla da lontano la doppia cima (il Vesuvio e il monte Somma) e il pennacchio di fumo, che ancora minaccia le rovine sparse (di Pompei). E nell’orrore della notte oscura per i teatri abbandonati, per i templi crollati e le case devastate, dove il pipistrello nasconde i propri figli, come una fiaccola misteriosa che si aggiri lugubre tra i palazzi vuoti, corre il bagliore della lava assassina, che da lontano in mezzo all’ombra rosseggia e colora i luoghi tutt’intorno. Così, del tutto indifferente all’uomo e alle ere che egli chiama antiche, e del susseguirsi delle generazioni umane, la natura rimane sempre giovane e vigorosa, ed anzi procede per un cammino così lungo che ella pare immobile. Nel frattempo, crollano i governi, passano le genti e le culture: ella non se ne accorge: e l’uomo pretende il diritto all’eternità. // E tu, flessibile ginestra, che con i tuoi cespugli odorosi adorni queste campagne desertificate, anche tu presto soccomberai alla potenza crudele della lava in eruzione, che ritornando ai luoghi già colpiti, stenderà sui tuoi molli rami il suo mantello avido di morte. E piegherai sotto la colata mortale senza opporre resistenza il tuo capo innocente: ma senza averlo piegato fino a quel momento, con suppliche inutili e codarde al futuro oppressore; e senza averlo alzato con forsennato orgoglio contro le stelle, né sul deserto, dove tu sei nata e hai dimora non per scelta ma per gioco del caso; ma più saggia, e tanto meno debole ed insensata dell’uomo, poiché non hai mai creduto che la tua specie fosse stata resa immortale o dal destino o da te stessa.

La Ginestra, come già detto, rappresenta la summa del pensiero leopardiano, ma forse è meglio dire, l’approdo ultimo del suo tragitto speculativo, che ci permette di definire il poeta recanatese, come dice il Timpanaro “un progressivo”.

Già tale definizione sembra contraddire la visione “politica” di Leopardi, e questa poesia sembra ne sia la dimostrazione: l’attacco contro il liberismo cattolico allora rivolto alla lotta per la liberazione della patria è teso, reso forte dal sarcasmo con cui il poeta sembra invitare, sulla falde del Vesuvio, colui che disegna per l’uomo Le magnifiche sorti e progressive. Ma egli va oltre, stringendo in un forte crescendo logico la loro inattualità.

Potremo partire dall’opposizione che vi è, sin da principio, tra il luogo, definito con l’avverbio qui, a disegnare l’intera desolazione de l’arida schiena e l’odorosa ginestra: l’antinomia è presente sin nei primi quattro versi: il primo a simboleggiare la natura, la seconda l’io poetico. E ancora nella stessa strofa il richiamo al glorioso passato che, nella sua distruzione ci indica l’inesorabilità della natura. Di fronte a tale “inesorabilità” l’illusione di un futuro migliore è pura illusione.

Nella seconda strofa l’accusa si fa diretta: il secolo romantico, richiamandosi al sentimento religioso, ha voltato le spalle a quella cultura che dal Rinascimento fino all’Illuminismo aveva tentato di liberare l’uomo dalla schiavitù del pensiero. Il dire a questa intellettualità che la loro modernità è frutto di un recupero “vergognoso” dell’ideologia liberale, non può che procuragli quella damnatio memoriae di cui sa già d’essere condannato.

Nella terza strofe l’io poeta s’identifica con l’uomo di povero stato e l’identificazione va oltre il dato metaforico per raggiungere quello reale (effettivamente Leopardi era povero e malato). Egli non cesserà di incolpare la natura per la condizione disperata dell’uomo: ma facendo in modo che questa verità (basata sulla ragione) venga diffusa ai più e togliendo loro l’illusione di un premio ultraterreno che svilirebbe il loro impegno, riuscirà a creare quella solidarietà che va oltre la compassione per abbracciare una forte volontà di lotta contro colei che madre è di parto e di voler matrigna (si noti il significativo chiasmo)

La quarta strofe sembra richiamare L’infinito: il poeta che si siede e osserva il cielo ed il mare. Ed anche qui la presenza del luogo sembra rimandarlo, per assenza, all’universo intero. Ma l’atto si capovolge e il poeta immagina che da quel vuoto si possa osservare il nostro mondo; l’equazione è semplice: se a noi le stelle del cielo immenso sembrano delle piccole luci sarà altrettanto vero che da loro questo mondo apparirà come un piccolo mondo; zoomando ancora all’interno di questo piccolo mondo, agli occhi delle stelle l’uomo sarà nulla. E’ evidente che il pensiero, per cui un ipotetico Dio possa aver fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, appaia ridicolo e pietoso (Non so se il riso o la pietà prevale).

La quinta strofe sembra esemplificare, con la descrizione del destino delle formiche la condizione dell’uomo ed il fatto che a metaforizzarla scelga proprio l’insetto non è senza significato. Conclude, quasi irridendo gli avversari, che se a questi piccoli animali capitano più stragi rispetto all’umanità è per la loro numerosità.

La sesta strofe sottolinea la caducità dell’uomo rifacendosi alle recenti scoperte archeologiche di Ercolano e di Pompei: la loro grandezza inconsapevole un tempo, la loro cancellazione improvvisa, sono la dimostrazione di come la natura possa, in un solo attimo, distruggere senza alcuna pietà. Ne consegue, logicamente, che la natura sta, l’uomo trascorre: il dramma è che l’uomo arroga lo stare a se stesso.

L’ultima chiude la canzone in modo circolare. La ginestra, fiore forse povero e non bello, che riesce a “vivere” nonostante l’aridità del terreno, è la dimostrazione della capacità che l’uomo avrebbe se ardisse a riconoscere la sua fragilità: anche la ginestra, forse un giorno verrà seppellita dalla lava espulsa dal Vesuvio; anche il poeta un giorno verrà cancellato dalla malattia che lo perseguita, ma sia l’una che l’altro, non cercheranno favole consolatorie, ma sceglieranno con dignità il loro destino.

Opere private

Lettere

L’epistolario leopardiano è molto nutrito: in esso compaiono circa mille lettere, scritte tra il 1815 ed il 1837. Molte di esse sono rivolte ad intellettuali, ma molte sono anche quelle scritte ai familiari, soprattutto ai fratelli Carlo e Paolina. Esse costituiscono una preziosa testimonianza non solo sulla biografia, ma anche sul suo percorso concettuale, poetico, psicologico, politico e culturale. Leopardi non ha mai pensato ad una sua pubblicazione, ma esse conservano una vivacità espressiva dettata dalla sincerità di quanto viene espresso.

Zibaldone

Con questo termine Leopardi intese una raccolta, su appositi quaderni, di appunti e pensieri di più svariata natura, che egli riportò dal 1817 al 1832. In quindici anni si accumulò, in quei quaderni un’incredibile quantità di materiale che vanno a costituire la bellezza di 4526 pagine. Decidendo di farne un indice Leopardi lo divise per argomenti e questo permette di seguire il suo lavoro “passo passo”, quasi fosse un libro “parallelo” alle grandi opere che andava componendo.

 

TRA DONNE E BAMBINI: LA LETTERATURA “MINORE” NELL’ITALIA POST-UNITARIA

MIlano.jpgMilano a fine ‘800

La letteratura in Italia nella seconda metà dell’Ottocento oltre a vedere il disagio circoscritto, nello spazio e nel tempo, della Scapigliatura, la poesia ore rotundo di Giosue Carducci e la grande stagione verista dei siciliani Capuana, Verga e De Roberto, vede anche una forma di letteratura che rispondeva alle varie esigenze dello stato appena nato:

  • Rispondere ad una nascente industria culturale che vedeva via via allargato il pubblico dei lettori (grazie anche alla legge Casati e poi Coppino che istituiva l’obbligo d’istruzione elementare – due e poi tre anni)
  • Rispondere al bisogno d’evasione soprattutto femminile, cui era principalmente destinato, ma non esente da inserimenti fortemente “moralistici”, ad imitazione di quanto era successo in Francia con il feuilleton e che da noi prese il nome di “romanzo d’appendice”. Non mancano in questo ambito opere che per la loro fattura vanno ben oltre la pura evasione, presentando temi attenti alla condizione della donna, con le scrittrici Neera o la Marchesa Colombi.
  • Rispondere all’appello giobertiano di “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, attraverso una letteratura pedagogica, rivolta ai ragazzi che come abbiamo visto avevano ormai l’obbligo (sebbene spesso disatteso) dell’istruzione elementare. A tale scopo risposero gli scrittori Edmondo De Amicis con Cuore e Carlo Collodi con Pinocchio.

Giuseppe_Pomba_1895L’editore Pomba

Per quanto riguarda il primo punto, è necessario notare da una parte il rafforzamento dall’altra la nascita di case editrici che si occupavano sia della pubblicazione di riviste propriamente dette che di libri, ognuna con delle proprie specificità. Basti qui ricordare Zanichelli, ex libraio, cui si deve la prima pubblicazione in lingua italiana del saggio di Darwin Sull’origine della specie, Pomba, tipografo che sapeva bene che “le classi facoltose non pensano ai libri, mentre le altre non hanno né il tempo né il gusto per dilettarsi coi libri” e quindi virò la sua attività sugli scolastici, opere di giurisprudenza o opere relative all’agricoltura. Dall’estero vennero il francese Le Monnier, lo svizzero Hoepli o il tedesco Olschki che portarono la loro esperienza in Italia. Il più importante fu certamente il milanese Treves, che pubblicò le opere dei più grandi scrittori italiani (e a cui aspiravano coloro che volevano annoverarsi fra i “grandi”). Sempre a Milano ebbe successo la Sonzogno che forte del possesso della rivista “Il Secolo”, il più letto allora nell’Italia del Nord, poté annoverare tra le maggiori vendite i cosiddetti libri romantici per signorine e la Ricordi, che si specializzò nella pubblicazione di spartiti musicali. Ai ragazzi si dedicò Bemporad, al cui successo contribuirono i romanzi di Emilio Salgari.

13a_g4-1.jpgL’editore Treves

La letteratura femminile presenta caratteri interessanti sia dal punto di vista sociologico che culturale: per il primo si deve sottolineare come la donna, nella seconda metà dell’Ottocento, trovò una via “lavoratrice” che la rendeva famosa e protagonista nella società di allora, quindi la nascita di una letteratura che avesse come punto di vista proprio quello femminile, toccando a volte corde che potremo definire proto-femministe.

neera_ritratto.jpgNeera

Tra le più importanti ricordiamo Neera, pseudonimo di Anna Zuccari (1846 – 1918), nata a Milano, città che più di ogni altra le poteva offrire stimoli culturali; in contatto con Capuana e Verga, aderì ella stessa alla corrente del verismo attraverso la quale  affrontò il tema dominante della condizione femminile – senza mettere in discussione il ruolo socialmente subordinato – limitandosi a rivendicare le ragioni del cuore e della sensibilità femminile a fronte della mediocrità della realtà quotidiana nella quale le protagoniste dei suoi romanzi finiscono per ripiegare.

Né è un esempio un brano tratto da un suo romanzo, tra i suoi numerosi, dal titolo Teresa del 1886, che fa parte di una trilogia che ha protagoniste giovani donne Teresa appunto, Lydia e L’indomani.

Teresa, tra l’adolescenza e l’età adulta, vive la sua passione per Egidio, ostacolata dalla grettezza del padre che, per meschine valutazioni economiche, le impedisce di sposarlo. Il peso delle convenzioni sociali e l’obbedienza familiare condizionano anche il comportamento di Teresa, obbligandola a rinunciare alla felicità e soltanto, nel tempo, ella maturerà la consapevolezza e la forza di reagire alle imposizioni. Una malinconica vicenda che però offre una visione completa sul vero senso dell’esistenza.

TERESA

Quell’anno si chiuse con due avvenimenti importanti. Luminelli minore chiese la mano di una delle gemelle, accontentandosi di prenderla senza dote; e Carlino, laureato in legge, partì per una cittaduzza della bassa Italia. Lo avevano consigliato a percorrere la carriera giudiziaria, la più pronta, la più sicura, quella che gli avrebbe permesso di aiutare subito la famiglia. Il signor Caccia si appoggiava molto sul figlio, per il quale egli e tutti di casa avevano fatto grandissimi sacrifici. Carlino non era riuscito quell’uomo eminente che il padre aveva vagheggiato nelle ore raccolte del suo studiolo, quando il piccolo ginnasiale era alle prese con Cornelio Nipote; tuttavia, avendo superato l’esame e addottoratosi come tutti gli altri, gli faceva un certo qual onore, di cui andava tronfio sollevando le sopracciglia ad altezze insolite. «Bada» gli aveva detto al momento della partenza «di non dimenticare mai i buoni esempi avuti in famiglia. E poiché la signora Soave lagrimava in silenzio, seduta sul divano, coi piedi sullo sgabelletto — fatta così debole oramai da non potersi più reggere — il signor Caccia le diede un’occhiata dall’alto in basso, crollando le spalle poderose. “È una miseria l’essere donna” pensava tra sé — e tornò a salutare il figlio, rigido, impassibile, dando prova di una grande superiorità. Teresina si meravigliò, e quasi ne fece a se stessa un rimprovero, di non commuoversi abbastanza a questa partenza. Amava meno suo fratello? No, certo: ma era così assorta nell’amore di Orlandi che ogni altra affezione sembrava pallida al confronto. E poi aveva già molto sofferto. Il suo cuore non provava più lo slancio subitaneo della prima giovinezza; incominciava ad essere stanco, e a misurare il dolore. Aveva riflettuto qualche volta — non senza esitazione, temendo di essere una cattiva sorella — se, non essendovi Carlino da mantenere agli studi, il ricevitore le avrebbe assegnata una piccola dote. Come tutto in questo caso sarebbe semplificato! Capiva le ragioni del padre: aveva troppo vissuto in quell’ambiente e in quello solo, per non essere persuasa che la sua condizione di donna le imponeva anzitutto la rassegnazione al suo destino — un destino ch’ella non era libera di dirigere — che doveva accettare così come le giungeva, mozzato dalle esigenze della famiglia, sottoposto ai bisogni e ai desideri degli altri. Sì, di tutto ciò era convinta; ma anche un cieco è convinto che non può pretendere di vedere, e tuttavia chiede al mondo dei veggenti, perché egli solo debba essere la vittima. Quando Carlino partì, accompagnato dai voti e dalle speranze d’ognuno, Teresina mormorò tristemente:  «Ecco, egli va a formarsi il suo avvenire come vuole, dove vuole!» E una quantità di riflessioni dolorose vennero ad assalirla, così che trovossi paralizzata nel momento dell’addio. Parve fredda, indifferente. Appena scomparso, fu presa dai rimorsi; si rimproverava sempre, da se stessa, ad ogni movimento di ribellione. Sotto il velo delle lagrime, le si disegnò sul volto uno sgomento di persona colpevole, e insieme un terrore timido, uno sconforto, qualche cosa di indefinibile. Somigliava tanto alla sua mamma, allora, con quell’aria di rassegnazione stanca, che il signor Caccia le ravvolse entrambe nel medesimo sguardo olimpico, sdegnoso, riportandolo poi, con una lieve dilatazione di compiacenza, sull’Ida bella e robusta: festevole, anche nella dimostrazione del suo rammarico. Ida, in famiglia, produceva l’effetto di un raggio di sole, era l’idolo, il beniamino di tutti, aveva avuto, nascendo, il dono di piacere; ognuno era indulgente con lei. Studiava per fare la maestra e la consideravano già come un prodigio. Dopo l’Ida, il posto più in vista, lo occupavano le gemelle; era impossibile non accorgersi di loro, grosse, grasse, rubiconde, indivisibili, somiglianti al padre nella truculenza sgarbata, nelle larghe spalle e nel vivo colorito. Si atteggiavano a padronanza, forti della loro duplicità e di una volontà sola, alla quale ubbidivano due voci, quattro occhi, quattro mani. Insediate nella gran camera di Carlino, erano esse che alla mattina si ponevano alla finestra per guardare i passanti, fresche e ardite nei loro vent’anni. Teresina pativa ora il freddo, e alla mattina, appena levata, era troppo pallida per farsi vedere alla finestra. Le gemelle avevano stretta relazione coi nuovi inquilini della casa della Calliope — i Ridolfi — , che avevano due belle ragazze; e da una casa all’altra si telegrafava continuamente con occhiatine, con piccoli segni, con sorrisi e cenni di convenzione. Teresina restava esclusa da questi maneggi, e li comprendeva poco, perché, avendo trascorsa la giovinezza nel fare da mamma alle sorelle, non le era rimasto il tempo di cercarsi un’amica della sua età.
(…)
Ella pensava che anche lontano Egidio dovesse conservare l’ardore del desiderio, come lo conservava lei, e che nessuna donna potesse interessarlo, come a lei non interessava uomo. Eppure questa fede ingenua veniva scossa qualche volta. Vedeva, guardandosi attorno, riflettendo, confrontando e capiva che tutto nella vita di un giovane si svolge in modo opposto a quello di una ragazza; per conseguenza l’amore dell’uno non può essere uguale all’amore dell’altra. S’accorgeva anche di una crescente compassione per lei, nelle persone buone; compassione che i maligni rivestivano di una ironia piccante. Frequenti allusioni alle fanciulle che invecchiano in casa, prive d’amore, la ferivano acutamente. Forse ch’ella non amava? Forse che non era amata? Ma che cos’era dunque quel mistero che le sfuggiva continuamente, sul quale sembrava concentrarsi l’attenzione di tutti? Quale catena, quale segreto accordo legava insieme uomini e donne, per cui si intendevano con un monosillabo, con un’occhiata? L’amore? Ma ella amava. Si poteva amar di più? Arrestandosi a questa riflessione, un rossore tardivo le saliva alle guancie. Non era più il rossore invadente dei quindici anni; era un riflesso che dava appena un po’ di tepore alla pelle, per cui tornava subito pallida come prima. E pensava: “No, non è possibile. Qualunque cosa ci possa essere, non potrebbe farmi più felice di quanto lo fui, stretta nelle sue braccia, in quel mattino… Egli era allora tutto mio”. Tentava qualche volta di prendere una rivincita su quelle arie di protezione sprezzante; e rispondeva con alterigia, o non rispondeva affatto. Una volta la pretora le disse: «Non fare così; diranno che inacidisci come una zitellona». A tali parole Teresina, colpita, andò a chiudersi in camera, e pianse come non aveva mai pianto da che era al mondo. Pianse le lagrime disperate della giovinezza che muore. Pianse su se stessa, per il suo volto emaciato, per i suoi begli occhi che si spegnevano nell’atonia; per il suo povero corpo che, dopo aver vissuto come una pianta, stava per fossilizzarsi come un sasso. Ebbe un accesso di vera disperazione, durante il quale sentì agitarsi nel fondo delle viscere un torrente d’odio, di passioni malvagie, di invidie non mai provate. Si torceva sul letto, mordendo le coperte con una voglia pazza di fare del male a qualcuno, col desiderio mostruoso di veder scorrere del sangue insieme alle sue lagrime. La trovarono sfinita, livida in volto, coi denti serrati. Il dottor Tavecchia, chiamato per tranquillizzare lo spavento della madre, accennò a un isterismo nervoso e prescrisse dei calmanti.

page1-369px-Neera_-_Teresa.djvu.jpgVecchia  edizione del romanzo di Neera

Nel passo su riportato Neera sottolinea con forza le convenzioni sociali che costituivano l’essenza di una famiglia borghese, come la preminenza della figura maschile (padre che prende le decisioni, fratello cui va tutto l’interesse familiare), la sottomissione della madre, prona alle volontà di un marito burbero. Ma la capacità della scrittrice sta nell’analisi con cui osserva la psicologia femminile: alla fragilità malinconica di Teresa, si contrappone la forza di Ida e la vitalità un po’ grezza delle sorelle gemelle. Quello che rende questo romanzo “minore” rispetto alla grande prosa verghiana è la continua aggettivazione che fa sì che il narratore onnisciente guidi con mano sicura il lettore verso l’identificazione di chi ha torto e di chi ha ragione (si prenda a paragone come la Mena dei Malavoglia rinunci all’amore di compare Alfio per misurare la distanza tra la pur brava scrittrice milanese e Verga).

Maria_Antonietta_Torriani_-1600x900.jpgMaria Antonietta Torriani

La Marchesa Colombi, pseudonimo della piemontese Maria Antonietta Torriani (1840 – 1920). Maestra elementare, sin da giovane pubblicò racconti Nel giornale delle donne. Spostatasi a Milano, entrò in contatto con Anna Maria Mozzoni, protofemminista lombarda, si sposò con Eugenio Torelli Vieller, redattore della Rivista illustrata, in seguito primo direttore del Corriere della sera, dal quale si separò. E’ in questo periodo che la Torriani prese il soprannome di Marchesa Colombi, tratto dalla commedia La satira e Parini di Paolo Ferrari, in cui i marchesi Colombi sono personaggi futili e frivoli.

Prendiamo un passo da uno dei suoi romanzi brevi, Un matrimonio di provincia del 1885:

La quindicenne Denza (Gaudenzia) Dellera vive con il padre Pietro, vedovo, la sorella maggiore Caterina, detta Titina, e la zia. La famiglia è povera, e le ragazze non possono concedersi svaghi. Il padre, appassionato di letteratura, le educa in casa raccontando le vicende dei più celebri poemi greci, latini e italiani. Dopo qualche tempo Pietro si risposa con Marianna che impone una severa disciplina, abituando le figliastre ai lavori di casa e a una vita di stenti e rinunce. La famiglia ha rapporti con i cugini Bonelli: una sera i Dellera vengono invitati da loro a teatro; dopo la rappresentazione Maria comunica a Denza che ha suscitato l’attenzione di un uomo, Onorato Mazzucchetti, rampollo di una famiglia agiata. Denza, che sentiva già prepotente il bisogno di essere amata, ne è entusiasta e commossa, e comincia a fantasticare in ogni momento sul suo innamorato, attendendo con pazienza gli sviluppi della vicenda. Un giorno Denza e Onorato si incrocianoe lui le palesa a voce i suoi sentimenti. Denza è felice, ma il tempo passa e non arriva alcuna domanda di matrimonio. Anzi, Mazzucchetti va a trascorrere un periodo di formazione in Francia. La giovane è sicura, nel suo cuore, che sia solo questione di tempo, ma negli anni si sposano la sorella e le due cugine, e lei è ancora sola. Un giorno, Denza apprende delle imminenti nozze tra Mazzucchetti e un’altra donna. Si spezza così il suo sogno e, avendo superato i 25 anni, è inoltre conscia dell’età avanzata, in ottica matrimoniale. Quando si fa avanti Scalchi, un benestante notaio quarantenne, Denza, pur non rimanendone particolarmente affascinata, accetta la sua mano, per sfuggire a un futuro da zitella e arrivare al tanto agognato matrimonio, ormai però sprovvisto dell’aura poetica di cui lo aveva rivestito.

              UN MATRIMONIO IN PROVINCIA

Da quel momento non ebbi più tempo di pensare alle mie aspirazioni passate, e quasi neppure al mio sposo. Il matrimonio, colle sue formalità preventive, m’assorbiva tutta, ed assorbiva anche il resto della famiglia. Mia sorella aveva affidato il figliolo alla suocera, ed era venuta a Novara per aiutarci. Tutto il giorno eravamo in giro a far compere, o visite di partecipazione. E la sera, io e mia sorella, facevamo delle copie, colla nostra scrittura più accurata, d’un epitalamio che il babbo aveva preparato per le mie nozze. A misura che una copia era finita, lui la correggeva, — c’era sempre da correggere nelle nostre copie, — poi la rotolava, la legava con un nastrino rosso, e ci scriveva sopra il nome dei destinatari, con una precisione notarile: «Signor Bonelli ingegnere Agapito, e genero e figlia, coniugi Crespi». «Signor Martino Bellotti, dottore in medicina, chirurgia ed ostetricia, e consorte». Intanto la matrigna combinava la colazione e gli inviti, e tratto tratto interrompeva il nostro lavoro, per consultarci e fare delle lunghe discussioni. A mia ricordanza non s’era mai fatto un invito a pranzo in casa nostra. Avevamo l’abitudine di desinare in cucina, al tocco, e quando capitava lo zio Remigio, o qualcuno degli Ambrosoli, o qualche altro parente di fuori, gli si offriva il nostro desinare di famiglia, senza nessuna aggiunta, su quella tavola di cucina, tra i fornelli ed il paravento della zia. Ora il paravento non c’era piú; ma ad ogni modo non era possibile servire una colazione nuziale in cucina. Bisognava apparecchiare in salotto. Quella novità ci mise in grande orgasmo. Si dovettero portar via i sacchi di granturco, le patate, le castagne e tutto; si dovettero scoprire i mobili, ed appendere le cortine, e togliere le tavole rotonde per sostituirvi quella grande della cucina. Poi non era lunga a sufficienza, e ci si aggiunsero 44 ancora ai due capi le tavole rotonde un po’ piú bassine, che facevano un effetto curioso e poco bello. Nessuna delle nostre tovaglie aveva le dimensioni di quella mensa cosí allungata. E le due tavole rotonde ebbero anche una tovaglia a parte, di modo che facevano come casa da sé, un gradino piú in giú della tavola centrale. Il babbo suggerí di nascondere il gradino sotto uno strato di fiori; ma rinunciò a mettersi, come s’era combinato prima, a capo tavola, perché, dovendo sedere piú basso, non avrebbe dominato tutta la mensa leggendo l’epitalamio. Scelse il posto nel centro, e la matrigna l’altro in faccia a lui, sebbene quella nuova moda francese non fosse di loro gusto. Anche la mia abbigliatura da sposa era stata argomento di molte discussioni. La solennità che si voleva dare alla cerimonia, non arrivava però al lusso dell’abito bianco. Un abito di seta colorata a strascico, sul quale avevo fatto assegnamento e di cui andavo superba, la Maria lo trovò disadatto alla circostanza e provinciale. Allora la matrigna fece la pensata di vestirmi da viaggio, e per quanto le si facesse osservare che non facevamo nessun viaggio, non si lasciò rimovere, ed il vestito da viaggio fu accettato. Finalmente venne quella mattina aspettata e temuta. Quando fui tutta vestita come una touriste che si disponesse a fare il giro del mondo, cominciai a piangere abbracciando tutti prima d’andare in chiesa, come se non dovessimo mai piú rivederci in questo mondo. Poi, durante la cerimonia piansi tanto che fu un miracolo se udirono il sí, che tentai di pronunziare fra due singhiozzi. Poi tornai a piangere zitta zitta durante tutta la colazione, rispondendo con un piccolo singhiozzo ogni volta che mi facevano un complimento, tanto che smessero di farne, e mangiarono tutti quieti, parlando di cose serie, dei raccolti, che quell’anno erano buoni, dei nostri vini dell’alto Novarese che non hanno nulla da invidiare a quelli del Piemonte, e del secondo vino, «il cosí detto vinello che è eccellente, e tanto conveniente per uso di famiglia». Poi, alle frutta, quando il babbo spiegò uno dei tanti fogli che avevo scritto io stessa, e cominciò a leggere ad alta voce: In questo dí, sacro ad Imene, io prego La Vergine ed i Santi a voi propizi, quei versi, che sapevo a mente, mi commossero al punto che scoppiai in un pianto dirottissimo, e dovettero condurmi via. Cosí, dopo tutti quegli anni d’amore, di poesia, di sogni sentimentali, fu concluso il mio matrimonio. Ora ho tre figlioli. Il babbo, che quel giorno dell’incontro con Scalchi aveva accesa lui la lampada che mi consigliava, dice che la Madonna mi diede una buona inspirazione. E la matrigna pretende che io abbia ripresa la mia aria beata e minchiona dei primi anni. Il fatto è che ingrasso.

IPA_ALMJ4GHH1-728x1024Ritratto di Maria Antonietta Torriani

“E non mi sarebbe venuta l’idea di leggere Un matrimonio in provincia se non me ne avesse parlato con singolare entusiasmo Natalia Ginzburg. Mentre spesso nelle ricognizioni tra i minori dell’Ottocento italiano, le soddisfazioni di lettura devo pagarle con uno sforzo, una resistenza da vincere, qui dalle prime pagine si riconosce la voce di una scrittrice che sa farsi ascoltare qualsiasi cosa racconti, perché è il suo modo di raccontare che prende, il suo piglio dimesso ma sempre concreto e corposo, con un sottile filo d’ironia: di quell’ironia su stessi che è l’essenza dello humour. A contestare il mito della donna romantica con l’evidenza prosaica della fatalità piccolo-borghese, la narrativa tardo ottocentesca italiana – dalla Serao a Neera – non mette avanti eroine alla Madame Bovary (anche il «bovarismo», in Italia, sembra privilegio maschile): più che alla provincia di Flaubert che la nostra sia vicina a quella di Čechov: drammi silenziosi nelle esistenze senza avvenimenti di donne di casa frustrate nell’autonomia dei sentimenti. La Marchesa Colombi appartiene a questo filone ma è anche qualcosa di molto diverso: perché quando rappresenta la ristrettezza la noia lo squallore lo fa con una spietatezza di sguardo, una nettezza di segno, una deformazione grottesca da dare l’effetto del massimo di tristezza col massimo d’allegria poetica” (Italo Calvino)

Carolina Invernizio, dissepolta e vivaCarolina Invernizio

Tuttavia la scrittrice di maggior successo fu  Carolina Invernizio. Nasce a Voghera nel 1858, da una famiglia borghese, il padre, infatti, era funzionario di Governo. A quattordici anni si trasferisce a Firenze, dove frequenta le scuole Magistrali. Comincia a scrivere a ventisei anni e nell’arco di una vita produce circa centotrenta romanzi, nonostante sia diventata moglie del tenente Quinterno e madre di una bambina. È una donna borghese che riceve e tiene salotto, frequenta teatri, sartorie, esce spesso e volentieri. L’ambiente fiorentino nel periodo in cui la scrittrice muove i suoi primi passi ben conosce la letteratura cosiddetta d’appendice: Lorenzini (il futuro Collodi di Pinocchio), ad imitazione dei Misteri di Parigi di Eugene Sue, dà alle stampe i Misteri di Firenze, nella città esistono editori di tali romanzi, scrittori a cottimo (non bisogna dimenticare che nel porto di Livorno, oltre a visitatori inglesi, salpavano anche i romanzi gotici). Con il ritorno del marito nel 1896 dalla guerra d’Abissinia , la scrittrice si trasferì prima a Torino e poi, nel 1914 , a Cuneo, dove Carolina aprì il suo salotto di via Barbaroux a intellettuali e a personaggi della cultura, come recita la targa commemorativa posta sulla sua casa e dove muore nel 1916.

Non amata dai critici, ma profondamente apprezzata dal pubblico, Antonio Gramsci la definì “onesta gallina della letteratura popolare”. Venne anche indicata come “La Carolina di servizio” e secondo Enrico Deaglio si deve a lei l’epiteto ancor oggi in voga de “La casalinga di Voghera”.

Ne Il bacio di una morta, il romanzo più importante dell’Invernizio, scritto nel 1886, appaiono tutti questi temi: cominciamo con l’ultimo, quello del fratello disperso, che giunge  a casa temendo la morte della sorella:

 IL BACIO DI UNA MORTA

La luna era salita a poco a poco sull’orizzonte, ma i suoi raggi erano ancora troppo deboli per rischiarare la cupa ombra dei cipressi e mandava soltanto una luce pallida, velata, misteriosa sulle tombe di pietra e di marmo, alcune abbandonate, altre coperte di ghirlande e di fiori…
Se qualcuna delle mie lettrici ha visitato un cimitero di notte, sa quale triste e funebre impressione se ne riceve. Il solenne silenzio che regna in quel luogo, sacro al riposo dei morti, i grandi cipressi, le croci mortuarie… tutto è propizio alle più folli e deliranti visioni…
Là…è la morte: davanti, di dietro, al nostro fianco, sotto i nostri passi, sotto l’erba che calpestiamo; è impossibile sottrarsi al suo pensiero. Anche l’uomo il più forte, il più scettico trema, si sente il cuore stretto da una gelida pressione. I monumenti assumono ai nostri occhi un aspetto strano, fantastico, bizzarro; ombre vaghe, sfumate, impalpabili, sembrano librarsi dinanzi a noi, fra le tombe, nell’aria; un sudor freddo scorre per tutto il corpo, le labbra diventano mute…
Tale impressione non mancò di provare Ines, mentre stretta al braccio del compagno, seguiva il custode sotto i loggiati del cimitero. Ella soffriva molto la giovane donna, ma i suoi occhi erano privi di lacrime, il suo volto si manteneva calmo…
Alfonso si rivolgeva intorno sguardi inquieti, smarriti; sulle sue guance erano due macchie di un rosso ardente, le labbra aveva livide.
Ines sentiva di quando in quando scuotersi convulsemente il braccio del suo compagno, come se alcuni brividi l’avessero investito. Ella lo guardava atterrita, ed egli, come se avesse compreso quello sguardo supplichevole, pietoso, tentava un sorriso; ma quel sorriso era così straziante, così amaro, che strappava le lacrime.
Il custode solo si mostrava indifferente. Egli camminava senza riguardo in mezzo alle tombe, agitando un mazzo di chiavi che aveva appese sulla cintola. Fatto il giro del loggiato, volse a destra e dopo pochi passi si fermò dinanzi a una porta di legno scuro, che aveva nel mezzo dipinta una gran croce bianca.
Era la porta della cappellina, dove era stata posta provvisoriamente in deposito la cassa, che conteneva le spoglie della contessa Rambaldi.
Ines si sentiva il cuore serrato come in una morsa. Alfonso trasse un fazzoletto per asciugarsi il viso, irrigato da grosse gocce di sudore.
Il custode aveva aperta la porta…ed era entrato per il primo. I due giovani lo seguirono.
La cappella era debolmente illuminata da una lampada ad olio appesa al muro; ed a quel chiarore vacillante potevasi appena discernere una specie di tavola quadrata, su cui era posata una cassa di legno nero con maniglie e borchie dorate.
«E’ quella»  disse a bassa voce il custode.
Alfonso fece un balzo come se avesse subìta una scossa elettrica e strinse la mano di Ines con una tal forza, che ci volle tutto il coraggio della giovine donna per non mandare un grido di dolore.
Il custode era ritornato sulla porta.
Ines guardò Alfonso temendo che egli soccombesse alle commozioni che l’agitavano…ma il giovane teneva gli occhi fissi, spalancati sulla cassa.
«Ella… è là…là…vicino a me» balbettò «ma quel coperchio mi toglie la vista del suo viso…Clara…io io voglio vederti…»
Ines si era avvicinata al custode e traendo dalla valigetta, che aveva portato con sé, una borsa piena d’oro.
«Questo per voi» disse a bassa voce «se acconsentite al desiderio di mio marito; fategli vedere sua sorella»
«Ma io non posso…non posso».
«Oh! non siate così crudele…voi siete padre…se la morte…vi rapisse un figlio…diletto…non desiderereste vederlo più e più volte, prima che la terra ricoprisse per sempre le sue spoglie?»
Il custode s’inteneriva.
Ines se ne accorse e facendogli scorrere destramente la borsa in mano
«Suvvia, siate buono» esclamò «Dio vi ricompenserà più di quello che io posso fare»
Due grosse lacrime caddero sulle rozze gote del custode.
Egli si avvicinò, senza far parola, alla cassa…e cercando dolcemente di allontanarne Alfonso:
«Aspetti» disse «che io l’apra, così potrà rivedere la sua povera sorella».
Oh! quanta passione, quanta ineffabile tenerezza apparve sul viso pocanzi impietrito del giovane, a quelle parole del custode! Sulle guance livide gli ritornò il sangue…gli occhi ardenti, asciutti gli s’inondarono di pianto.
«La rivedrò…la rivedrò…» disse a voce sommessa, ardente, quasi credesse di sognare. Il custode aveva con lentezza fatte girare le viti e senza alcun sforzo, ne sollevò il coperchio.
Un gran velo bianco copriva il cadavere. Il custode l’alzò con una delicatezza ed un rispetto, strani in un uomo del suo mestiere, e tosto scoperse la pallida e bella figura della contessa.
Alfonso ed Ines giunsero le mani, e per qualche minuto il loro dolore parve tacere, avanti la serenità di quella figura, che dormiva del sonno tranquillo, solenne della morte.
La contessa era vestita tutta di bianco: i suoi capelli sparivano sotto una cuffietta di trina, che le scendeva fino sulla fronte: al collo aveva una croce di brillanti attaccata ad un nastro celeste.
Ella era bella di una celeste purezza, e sotto quelle trine candide, con quel vestito bianco, pareva una vergine assopita nei pensieri del cielo.
Il viso era pallido, smagrito, ma non aveva quella lividezza spaventosa, propria dei cadaveri. Nessuna vedendola avrebbe creduto alle sofferenze che servirono di preludio alla di lei morte. Uno sguardo sembrava scivolar fuori dalle semichiuse pupille; dalle labbra aperte ad un principio di sorriso, sembrava uscire ancora una parola di amore…di addio, per i suoi cari.
«Com’era bella!» mormorò Ines portandosi il fazzoletto agli occhi.
«Bella e buona» disse Alfonso con un brivido.
E scuotendosi dall’estasi che l’aveva per un istante dominato, si gettò piangendo su quell’adorato cadavere.
«Clara…mia Clara…» diceva singhiozzando «eccomi a te di ritorno… ma tu non mi vedi… non odi il tuo povero fratello… che ti è vicino; tu sei morta… pensando ch’io t’avessi dimenticato… morta scrivendo… e pronunciando il mio nome… Clara… o mia Clara…»
Grosse lacrime gli scendevano in copia sulle guance…
«Sei pur bella!…» continuò «ma Dio solo vede ora i tuoi dolci sorrisi… oh! mia Clara… dimmi chi ti ha resa infelice sulla terra… chi ti ha fatto morire… così giovane? Parlami… parlami… sono tuo fratello, che amavi tanto…»
S’interruppe con un palpito angoscioso, e le braccia indebolite gli cascarono pendenti lungo il corpo.
Ines cercò di sorreggerlo, di trascinarlo lontano.
Ma egli si svincolò da lei… Pareva non potersi saziare di guardare quel cadavere, egli s’ostinava a credere che colei che aveva tanto amato non poteva essere morta… e che forse stava per risvegliarsi…
Era sì bella ancora quella morta!… Eravi ancora tanto fascino in quelle purissime forme… nella delicata posa! Possibile che l’anima di lei, fosse svanita intieramente nello spazio… non rimanesse ancora in quel corpo immobile un po’ di divina essenza… un soffio…
Le pupille di Clara non avevano il color vitreo, appannato, oscuro, che sogliono prendere gli occhi degli estinti…
Alfonso la guardava e gli pareva che esse ricambiassero i suoi sguardi. Eppure quelle pupille erano immobili… come la fronte di Clara era ghiacciata.
«Ah! se Dio volesse… se Dio volesse» mormorava come in un delirio «Clara… Clara… guardami ancora… dammi un bacio… un bacio solo… per mostrarmi che mi hai perdonato…»
Ed appoggiò le labbra ardenti sulle labbra della povera morta…
Ma allora gettò un grido, che risuonò lungamente in tutta la cappella e si alzò barcollando come un ubriaco, coi capelli scomposti, gli occhi sbarrati.
«Le sue labbra si sono mosse» esclamò. «Ella mi ha baciato… ella vive… vive!»
Ines e il custode credettero che Alfonso divenisse pazzo… e si avvicinarono.
Ma appena ebbero gettato uno sguardo sul cadavere, essi pure divennero pallidi.
Le labbra della morte si erano aperte ed avevano acquistato un leggerissimo color di rosa; la luce che scivolava dalle ciglie socchiuse di lei, si era fatta più brillante.
«Che sia viva davvero?» pensò il custode sbalordito in strana guisa «oh! sarei in un bell’imbroglio»
«Sì… ella vive… ella vive» rispose Alfonso.
E con atto subitaneo aprì l’abito della morta e le pose una mano sul cuore. Il cuore non batteva. Egli appoggiò allora la testa sul petto di lei… e li parve di sentire come una impercettibile pulsazione.
Appoggiò di nuovo le sue labbra alla bocca di Clara e quelle labbra ebbero un leggero brivido.
«Bisogna levarla subito da qui» esclamò Alfonso cercando dominare la sua estrema agitazione «ella non è morta… vi ripeto, mi ha baciato ancora!»
Un brivido di ghiaccio percorse le vene del custode.
«Ma se v’ingannaste!?» balbettò «se qualcuno venisse a scoprire…»
«Nessuno saprà nulla…»
«Ma io non posso trasportare la morta in casa mia» disse il custode esitante «ho moglie e figli, ed una sola camera».
Alfonso aveva ripreso il suo sangue freddo.
«Ascoltatemi» esclamò brevemente «non ha detto vostro nipote che abita qui vicino, in una casetta isolata?»
«Sissignore… abita una casetta da solo con la madre – ma non tanto vicino; è di là dal ponte di Ema».
«Bene, questo non importerebbe; la sua carrozza ci trasporterà».
«Ma questa cassa, che domani debbo mettere nella fossa…»
«E vorreste seppellire una donna viva?!»
Il custode chinò confuso il viso.
«Verrà qui il conte Rambaldi?» chiese Alfonso vivacemente.
«Nossignore, ha dato a me l’incarico di tutto, pagandomi anticipatamente».
Alfonso mandò un’esclamazione di gioia, mentre ricambiava un rapido sguardo con Ines.
«Tutto va per il meglio adunque… nessuno saprà quanto qui succede… voi terrete il segreto con tutti – ve lo pagherò a prezzo d’oro; metterete nella tomba la cassa vuota».
«Ma non vedete che la signora contessa non si muove… che è propria morta… che siete stato vittima di un’allucinazione?!»
Le parole del custode erano state ferme, ma la voce tremava.
«No… non è morta… non è morta, vi ripeto» esclamò Alfonso prendendo una gelida mano di Clara e inondandola di lacrime.
«E vorreste seppellirla con questo dubbio?» disse a sua volta Ines con un singhiozzo che straziava il cuore…
Il custode commosso dalla terribile insistenza di quel dolore… e forse, in fondo temendo… della verità di quelle supposizioni.
«Ebbene, ammettiamo che non sia morta?… dove vorreste condurla?»
«A casa di vostro nipote, ve l’ho detto… egli è un bravo giovine… manterrà il segreto con tutti.»
Il custode era in una terribile alternativa.
«Oh! non mi dite di no» aggiunse il giovane supplichevole «voi non correte alcun pericolo, ve lo giuro, e poi se avete timore, io vi darò tant’oro da assicurare il vostro avvenire, e quello della vostra famiglia…»
«Basta… basta, signore… non è già l’interesse che mi spinge a giovarvi: ma si è perché mi assale il dubbio che la povera signora non sia infatti morta… Farò quanto vorrete… ma segretezza.»
«Sul mio onore, nessuno saprà quanto è successo» disse Alfonso portandosi una mano sul cuore…
«Ma se fosse morta davvero?»
«Sul mio onore vi giuro che vi riporterei… collo stesso mistero, il cadavere.»
Il custode era vinto.
«Aspettatemi qui un momento» disse «vado ad avvisare mio nipote.»
Ed uscì in fretta dalla cappella.
«E’ Dio che mi ha ispirato… Dio» esclamò Alfonso sollevando il corpo di Clara fra le sue braccia… stringendolo come un forsennato al seno.
Ines, abbrividiva.
«Io temo, povero Alfonso, che tu d’illuda: le sue mani sono di ghiaccio.»
«Ma ella non è morta!»
«La sua fronte è di marmo.»
«Ma ella vive, ti ripeto… lo sento… lo sento… e mi pare che ella m’intenda, mi pare che il cuore suo palpiti sul mio.»
Mentre così parlava, il custode ritornò in compagnia del fiaccheraio.
Questi era pallido in volto come un lenzuolo ed aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Mio zio mi ha detto tutto… è vero… signore… è vero: la povera morta vive?»
«Sì…  lo spero… lo spero, perché Dio è buono… ma affrettiamoci… ella potrebbe rinvenire e sarebbe orribile che si trovasse qui»
Con molta cura, la povera contessa che continuava a rimanere immobile, rigida come un cadavere, fu trasportata nella vettura.
A quell’ora la strada era affatto deserta, e certo nessuno avrebbe immaginato la scena compiuta nel cimitero.
Quando la carrozza fu partita, portando seco la giovane coppia e la povera morta, il custode riprese la via della cappella col capo chino… e le mani incrociate sulle reni. Egli chiedeva a se stesso se non aveva sognato.
«Che la morta sia viva davvero…» mormorava «oh! la sarebbe strana… ma sarebbe anche più orribile il pensare che senza quel signore, quel suo fratello, la povera contessa domani sarebbe stata sepolta viva. Brr… mi vengono i sudori freddi nel pensarci. Del resto nessuno saprà mai questo segreto… Al conte poco importa di sua moglie, tanto è vero che ha lasciato a me la cura di tutto… quel conte mi sembra un poco di buono e mi ha fatto una brutta impressione la prima volta che lo vidi… Gridò, perché la tomba non era stata ancora preparata: che volesse proprio seppellir viva la moglie?… uhm! uhm! non sarebbe difficile… ed io sarei stato il complice di un assassinio? Ah! il fratello della signora contessa, quello mi ha un viso di galantuomo… si può fidarsi…  di lui… Ma cosa sono tutte quelle ombre che vedo questa notte?… Non so perché mi tremano le gambe ed ho degli scrupoli. Che qualche volta senza volerlo, io abbia seppellite delle persone vive?»
Egli diceva tuttociò fra sé, mentre si guardava attorno rabbrividendo. Tonino era sempre stato un uomo forte e positivo, non aveva mai creduto agli spettri né punto, né poco, ma in quella notte si sentiva agitato da brividi strani. Gli pareva di veder proiettarsi delle ombre sulle bianche pietre, gli pareva veder aprirsi delle tombe ed uscirne dei fantasmi avvolti nel funebre lenzuolo e che tendevano verso di lui le braccia, dicendo con una voce che non aveva nulla di umano:
«Anche noi ci seppellisti vivi.

71IwaCyQIbL._SL1081_.jpgLocandina del film tratto dal romanzo dell’Invernizio

I romanzi dell’Invernizio, non nascono dal nulla: a lei, e agli scrittori “popolari” che pullulavano a Firenze in quel periodo, erano ben conosciuti l’intrigo delle avventure, l’oscenità delle situazioni, il grottesco dei personaggi, il nero dei bassifondi del feuilleton europeo. L’Invernizio deve il suo successo nel saper amalgamare tutti questi ingredienti e i luoghi comuni di mezzo secolo di letteratura popolare, per adattarli alle signorine della buona società dell’Italia di fine ‘800, cui spesso si rivolge direttamente. Infatti il pubblico della scrittrice è femminile, come femminile è il mondo tematico che l’autrice sceglie: le sue protagoniste sono fidanzate, mogli, figlie e madri, e le antagoniste di esse sono altrettanto donne, maliarde, seduttrici, sataniche. E gli uomini? Deboli, incapaci, inaffidabili, pronti a correre dietro alla prima gonnella; oppure, lacerati da antichi e non scordati tradimenti, si rinchiudono come orsi, meditando tremende vendette; o ancora, dispersi nel mondo, e fanno appena in tempo a sopraggiungere quando la morte di una parente si fa prossima.

Più interessante certamente la letteratura per ragazzi, i cui massimi rappresentanti furono Edmondo De Amicis, Carlo Collodi.

Edmondo_De_Amicis_2Edmondo De Amicis

Edmondo De Amicis nasce a Oneglia nel 1846. Intraprende ancora giovanissimo la carriera militare, partecipando alla campagna del 1866, e l’abbandona per l’attività giornalistica. Nel 1991 aderisce al socialismo, facendosi portavoce del filantropismo laico di fine Ottocento. Scrive La vita militare nel 1868 e resoconti di viaggi (Spagna del 1873 e Ricordi di Parigi del 1879). Ottiene un incredibile successo con il romanzo Cuore (1886). Esso rappresentò per più generazioni una sorta di “codice della morale laica” post-risorgimentale. Intervenne anche sulla questione della lingua con L’idioma gentile, seguendo l’esempio manzoniano. Muore a Bordighera nel 1908.

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Il romanzo, tradotto in moltissime lingue, che gli ha dato celebrità è certamente Cuore.

Il romanzo è il diario immaginario di un alunno di terza elementare, Enrico Bottini, che narra gli episodi, lieti e tristi, e le curiosità di un intero anno scolastico, annotando via via su un quaderno, che poi insieme al padre correggerà e risistemerà qualche anno dopo per la stampa. La vicenda è periodizzata in dieci mesi, da ottobre a luglio, nove racconti mensili, dettati dal maestro; in essi l’autore pone al centro dell’azione dei ragazzi-eroi, figure esemplari e simboliche di una realtà volutamente alterata perché drammatizzata e stilizzata. Una galleria di personaggi popola il diario di scuola, figure simboliche, nelle quali è tuttavia possibile cogliere momenti di notevole efficacia rappresentativa, soprattutto nelle rapide e incisive descrizioni degli ambienti in cui vivono e agiscono.

LA MADRE DI FRANTI

28, sabato

Ma Votini è incorreggibile. Ieri, alla lezione di religione, in presenza del Direttore, il maestro domandò a Derossi se sapeva a mente quelle due strofette del libro di lettura: dovunque il guardo io giro, Immenso Iddio ti vedo. – Derossi rispose di no, e Votini subito: «Io le so!» con un sorriso come per fare una picca a Derossi. Ma fu piccato lui, invece, che non poté recitare la poesia, perché entrò tutt’a un tratto nella scuola la madre di Franti, affannata, coi capelli grigi arruffati, tutta fradicia di neve, spingendo avanti il figliuolo che è stato sospeso dalla scuola per otto giorni. Che triste scena ci toccò di vedere! La povera donna si gettò quasi in ginocchio davanti al Direttore giungendo le mani, e supplicando: «Oh signor Direttore, mi faccia la grazia, riammetta il ragazzo alla scuola! Son tre giorni che è a casa, l’ho tenuto nascosto, ma Dio ne guardi se suo padre scopre la cosa, lo ammazza; abbia pietà, che non so più come fare! mi raccomando con tutta l’anima mia!» Il Direttore cercò di condurla fuori; ma essa resistette, sempre pregando e piangendo. «Oh! se sapesse le pene che m’ha dato questo figliuolo avrebbe compassione! Mi faccia la grazia! Io spero che cambierà. Io già non vivrò più un pezzo, signor Direttore, ho la morte qui, ma vorrei vederlo cambiato prima di morire perché…» e diede in uno scoppio di pianto, «è il mio figliuolo, gli voglio bene, morirei disperata; me lo riprenda ancora una volta, signor Direttore, perché non segua una disgrazia in famiglia, lo faccia per pietà d’una povera donna!». E si coperse il viso con le mani singhiozzando. Franti teneva il viso basso, impassibile. Il Direttore lo guardò, stette un po’ pensando, poi disse: «Franti, va al tuo posto.» Allora la donna levò le mani dal viso, tutta racconsolata, e cominciò a dir grazie, grazie, senza lasciar parlare il Direttore, e s’avviò verso l’uscio, asciugandosi gli occhi, e dicendo affollatamente: «Figliuol mio, mi raccomando. Abbiano pazienza tutti. Grazie, signor Direttore, che ha fatto un’opera di carità. Buono, sai, figliuolo. Buon giorno, ragazzi. Grazie, a rivederlo, signor maestro. E scusino tanto, una povera mamma. E data ancora di sull’uscio un’occhiata supplichevole a suo figlio, se n’andò, raccogliendo lo scialle che strascicava, pallida, incurvata, con la testa tremante, e la sentimmo ancor tossire giù per le scale. Il Direttore guardò fisso Franti, in mezzo al silenzio della classe, e gli disse con un accento da far tremare: «Franti, tu uccidi tua madre!» Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise.

 

LA MADRE DI GARRONE

29, sabato 

Tornato alla scuola, subito una triste notizia. Da vari giorni Garrone non veniva più perché sua madre era malata grave. Sabato sera è morta. Ieri mattina, appena entrato nella scuola, il maestro ci disse: «Al povero Garrone è toccata la più grande disgrazia che possa colpire un fanciullo. Gli è morta la madre. Domani egli ritornerà in classe. Vi prego fin d’ora, ragazzi: rispettate il terribile dolore che gli strazia l’anima. Quando entrerà, salutatelo con affetto, e seri: nessuno scherzi, nessuno rida con lui, mi raccomando.» E questa mattina, un po’ più tardi degli altri, entrò il povero Garrone. Mi sentii un colpo al cuore a vederlo. Era smorto in viso, aveva gli occhi rossi, e si reggeva male sulle gambe: pareva che fosse stato un mese malato: quasi non si riconosceva più: era vestito tutto di nero: faceva compassione. Nessuno fiatò; tutti lo guardarono. Appena entrato, al primo riveder quella scuola, dove sua madre era venuta a prenderlo quasi ogni giorno, quel banco sul quale s’era tante volte chinata i giorni d’esame a fargli l’ultima raccomandazione, e dove egli aveva tante volte pensato a lei, impaziente d’uscire per correrle incontro, diede in uno scoppio di pianto disperato. Il maestro lo tirò vicino a sé, se lo strinse al petto e gli disse: «Piangi, piangi pure, povero ragazzo; ma fatti coraggio. Tua madre non è più qua, ma ti vede, t’ama ancora, vive ancora accanto a te, e un giorno tu la rivedrai, perché sei un’anima buona e onesta come lei. Fatti coraggio». Detto questo, l’accompagnò al banco, vicino a me. Io non osavo di guardarlo. Egli tirò fuori i suoi quaderni e i suoi libri che non aveva aperti da molti giorni; e aprendo il libro di lettura dove c’è una vignetta che rappresenta una madre col figliuolo per mano, scoppiò in pianto un’altra volta, e chinò la testa sul banco. Il maestro ci fece segno di lasciarlo stare così, e cominciò la lezione. Io avrei voluto dirgli qualche cosa, ma non sapevo. Gli misi una mano sul braccio e gli dissi all’orecchio: «Non piangere, Garrone.» Egli non rispose, e senz’alzar la testa dal banco, mise la sua mano nella mia e ve la tenne un pezzo. All’uscita nessuno gli parlò tutti gli girarono intorno, con rispetto, e in silenzio. Io vidi mia madre che m’aspettava e corsi ad abbracciarla, ma essa mi respinse, e guardava Garrone. Subito non capii perché, ma poi m’accorsi che Garrone, solo in disparte, guardava me; e mi guardava con uno sguardo d’inesprimibile tristezza, che voleva dire: «Tu abbracci tua madre, e io non l’abbraccerò più! Tu hai ancora tua madre, e la mia è morta!» E allora capii perché mia madre m’aveva respinto e uscii senza darle la mano. 

Abbiamo volutamente messo a confronto i due passi per sottolineare come il De Amicis usi sottolineare l’aspetto patetico che permette al lettore, sin dalle prime parole, di esprimere un giudizio morale nel primo caso negativo, nel secondo positivo.

Cuore-TV-carlo-calenda.jpgEnrico Bottini nel Cuore di Comencini (1982)

Nel primo racconto si esprime quasi con un  coup de théâtre: interrompendo la lezione la madre di Franti irrompe sulla “scena” (parola che lo stesso autore in questo caso usa), con atteggiamenti teatrali, scompigliata, piangente, genuflessa davanti al Direttore, le mani al petto ad indicare la malattia. E si conclude con la condanna senza appello del giovane Franti, sottolineato dall’aggettivo infame e dal sorride, ad indicare l’irrecuperabilità di colui che calpesta anche il più celebrato rispetto che si deve alla figura materna (quindi alle istituzioni come la scuole e più su sino alla patria).

Cuore5.jpgCuore film del 1948

Nel secondo ci viene presentato invece il “buono” Garrone: anche qui l’autore presenta una scena, gli occhi rossi, l’abito nero, il pianto, l’abbraccio del maestro. De Amicis spinge la sua scrittura in un tono volutamente patetico, spingendo il lettore ad una “forzata commozione”. Quello che più ci colpisce è indubbiamente l’insistere su quel verbo, presente nei due brani e così carico di significato: l’irridere di Franti è presentato come atteggiamento antisociale; per questo per Garrone la raccomandazione del maestro è quella di “non ridere”.

Presentiamo ora un racconto mensile:

IL PICCOLO SCRIVANO FIORENTINO

Faceva la quarta elementare. Era un grazioso fiorentino di dodici anni, nero di capelli e bianco di viso, figliuolo maggiore d’un impiegato delle strade ferrate, il quale, avendo molta famiglia e poco stipendio, viveva nelle strettezze. Suo padre lo amava ed era assai buono e indulgente con lui: indulgente in tutto fuorché in quello che toccava la scuola: in questo pretendeva molto e si mostrava severo perché il figliuolo doveva mettersi in grado di ottener presto un impiego per aiutar la famiglia; e per valer presto qualche cosa gli bisognava faticar molto in poco tempo. E benché il ragazzo studiasse, il padre lo esortava sempre a studiare. Era già avanzato negli anni, il padre, e il troppo lavoro l’aveva anche invecchiato prima del tempo. Non di meno, per provvedere ai bisogni della famiglia, oltre al molto lavoro che gl’imponeva il suo impiego, pigliava ancora qua e là dei lavori straordinari di copista, e passava una buona parte della notte a tavolino. Da ultimo aveva preso da una Casa editrice, che pubblicava giornali e libri a dispense, l’incarico di scriver sulle fasce il nome e l’indirizzo degli abbonati e guadagnava tre lire per ogni cinquecento di quelle strisciole di carta, scritte in caratteri grandi e regolari. Ma questo lavoro lo stancava, ed egli se ne lagnava spesso con la famiglia, a desinare. «I miei occhi se ne vanno,» diceva, «questo lavoro di notte mi finisce.» Il figliuolo gli disse un giorno: «Babbo, fammi lavorare in vece tua; tu sai che scrivo come te, tale e quale.» Ma il padre gli rispose: «No figliuolo; tu devi studiare; la tua scuola è una cosa molto più importante delle mie fasce; avrei rimorsi di rubarti un’ora; ti ringrazio, ma non voglio, e non parlarmene più.»  
Il figliuolo sapeva che con suo padre, in quelle cose, era inutile insistere, e non insistette. Ma ecco che cosa fece. Egli sapeva che a mezzanotte in punto suo padre smetteva di scrivere, e usciva dal suo stanzino da lavoro per andare nella camera da letto. Qualche volta l’aveva sentito: scoccati i dodici colpi al pendolo, aveva sentito immediatamente il rumore della seggiola smossa e il passo lento di suo padre. Una notte aspettò ch’egli fosse a letto, si vestì piano piano, andò a tentoni nello stanzino, riaccese il lume a petrolio, sedette alla scrivania, dov’era un mucchio di fasce bianche e l’elenco degli indirizzi, e cominciò a scrivere, rifacendo appuntino la scrittura di suo padre. E scriveva di buona voglia, contento, con un po’ di paura, e le fasce s’ammontavano, e tratto tratto egli smetteva la penna per fregarsi le mani, e poi ricominciava con più alacrità, tendendo l’orecchio, e sorrideva. Centosessanta ne scrisse: una lira! Allora si fermò, rimise la penna dove l’aveva presa, spense il lume, e tornò a letto, in punta di piedi. 
Quel giorno, a mezzodì, il padre sedette a tavola di buon umore. Non s’era accorto di nulla. Faceva quel lavoro meccanicamente, misurandolo a ore e pensando ad altro, e non contava le fasce scritte che il giorno dopo. Sedette a tavola di buonumore, e battendo una mano sulla spalla al figliuolo: «Eh, Giulio,» disse, «è ancora un buon lavoratore tuo padre, che tu credessi! In due ore ho fatto un buon terzo di lavoro più del solito, ieri sera. La mano è ancora lesta, e gli occhi fanno ancora il loro dovere.» E Giulio, contento, muto, diceva tra sé: “Povero babbo, oltre al guadagno, io gli dò ancora questa soddisfazione, di credersi ringiovanito. Ebbene, coraggio”.
Incoraggiato dalla buona riuscita, la notte appresso, battute le dodici, su un’altra volta, e al lavoro. E così fece per varie notti. E suo padre non s’accorgeva di nulla. Solo una volta, a cena, uscì in quest’esclamazione: «È strano, quanto petrolio va in questa casa da un po’ di tempo! Giulio ebbe una scossa; ma il discorso si fermò lì. E il lavoro notturno andò innanzi.»  

Senonché, a rompersi così il sonno ogni notte, Giulio non riposava abbastanza, la mattina si levava stanco, e la sera, facendo il lavoro di scuola, stentava a tener gli occhi aperti. Una sera, – per la prima volta in vita sua, – s’addormentò sul quaderno. «Animo! animo!» gli gridò suo padre, battendo le mani, «al lavoro!» Egli si riscosse e si rimise al lavoro. Ma la sera dopo, e i giorni seguenti, fu la cosa medesima, e peggio: sonnecchiava sui libri, si levava più tardi del solito, studiava la lezione alla stracca, pareva svogliato dello studio. Suo padre cominciò a osservarlo, poi a impensierirsi, e in fine a fargli dei rimproveri. Non glie ne aveva mai dovuto fare! «Giulio,» gli disse una mattina, «tu mi ciurli nel manico, tu non sei più quel d’una volta. Non mi va questo. Bada, tutte le speranze della famiglia riposano su di te. Io son malcontento, capisci!» A questo rimprovero, il primo veramente severo ch’ei ricevesse, il ragazzo si turbò. “E sì,” disse tra sé, “è vero; così non si può continuare; bisogna che l’inganno finisca”. Ma la sera di quello stesso giorno, a desinare, suo padre uscì a dire con molta allegrezza: «Sapete che in questo mese ho guadagnato trentadue lire di più che nel mese scorso, a far fasce!» e dicendo questo, tirò di sotto alla tavola un cartoccio di dolci, che aveva comprati per festeggiare coi suoi figliuoli il guadagno straordinario, e che tutti accolsero battendo le mani. E allora Giulio riprese animo, e disse in cuor suo: “No, povero babbo, io non cesserò d’ingannarti; io farò degli sforzi più grandi per studiar lungo il giorno; ma continuerò a lavorare di notte per te e per tutti gli altri”. E il padre soggiunse: «Trentadue lire di più! Son contento… Ma è quello là,» e indicò Giulio, «che mi dà dei dispiaceri.» E Giulio ricevé il rimprovero in silenzio, ricacciando dentro due lagrime che volevano uscire; ma sentendo ad un tempo nel cuore una grande dolcezza. 
E seguitò a lavorare di forza. Ma la fatica accumulandosi alla fatica, gli riusciva sempre più difficile di resistervi. La cosa durava da due mesi. Il padre continuava a rimbrottare il figliuolo e a guardarlo con occhio sempre più corrucciato. Un giorno andò a chiedere informazioni al maestro, e il maestro gli chiese: «Sì, fa, fa, perché ha intelligenza. Ma non ha più la voglia di prima. Sonnecchia, sbadiglia, è distratto. Fa delle composizioni corte, buttate giù in fretta, in cattivo carattere. Oh! potrebbe far molto, ma molto di più.» Quella sera il padre prese il ragazzo in disparte e gli disse parole più gravi di quante ei ne avesse mai intese. «Giulio, tu vedi ch’io lavoro, ch’io mi logoro la vita per la famiglia. Tu non mi assecondi. Tu non hai cuore per me, né per i tuoi fratelli, né per tua madre!» «Ah no! non lo dire, babbo!» gridò il figliuolo scoppiando in pianto, e aprì la bocca per confessare ogni cosa. Ma suo padre l’interruppe, dicendo: «Tu conosci le condizioni della famiglia; sai se c’è bisogno di buon volere e di sacrifici da parte di tutti. Io stesso, vedi, dovrei raddoppiare il mio lavoro. Io contavo questo mese sopra una gratificazione di cento lire alle strade ferrate, e ho saputo stamani che non avrò nulla!» A quella notizia, Giulio ricacciò dentro subito la confessione che gli stava per fuggire dall’anima, e ripeté risolutamente a sé stesso: “No, babbo, io non ti dirò nulla; io custodirò il segreto per poter lavorare per te; del dolore di cui ti son cagione, ti compenso altrimenti; per la scuola studierò sempre abbastanza da esser promosso; quello che importa è di aiutarti a guadagnar la vita, e di alleggerirti la fatica che t’uccide”. E tirò avanti, e furono altri due mesi di lavoro di notte e di spossatezza di giorno, di sforzi disperati del figliuolo e di rimproveri amari del padre. Ma il peggio era che questi s’andava via via raffreddando col ragazzo, non gli parlava più che di rado, come se fosse un figliuolo intristito, da cui non restasse più nulla a sperare, e sfuggiva quasi d’incontrare il suo sguardo. E Giulio se n’avvedeva, e ne soffriva, e quando suo padre voltava le spalle, gli mandava un bacio furtivamente, sporgendo il viso, con un sentimento di tenerezza pietosa e triste; e tra per il dolore e per la fatica, dimagrava e scoloriva, e sempre più era costretto a trasandare i suoi studi. E capiva bene che avrebbe dovuto finirla un giorno, e ogni sera si diceva:  “Questa notte non mi leverò più;” ma allo scoccare delle dodici, nel momento in cui avrebbe dovuto riaffermare vigorosamente il suo proposito, provava un rimorso, gli pareva, rimanendo a letto, di mancare a un dovere, di rubare una lira a suo padre e alla sua famiglia. E si levava, pensando che una qualche notte suo padre si sarebbe svegliato e l’avrebbe sorpreso, o che pure si sarebbe accorto dell’inganno per caso, contando le fasce due volte; e allora tutto sarebbe finito naturalmente, senza un atto della sua volontà, ch’egli non si sentiva il coraggio di compiere. E così continuava. 
Ma una sera, a desinare, il padre pronunciò una parola che fu decisiva per lui. Sua madre lo guardò, e parendole di vederlo più malandato e più smorto del solito, gli disse: «Giulio, tu sei malato.» E poi, voltandosi al padre, ansiosamente: «Giulio è malato. Guarda com’è pallido! Giulio mio, cosa ti senti?» Il padre gli diede uno sguardo di sfuggita, e disse: «È la cattiva coscienza che fa la cattiva salute. Egli non era così quando era uno scolaro studioso e un figliuolo di cuore.» «Ma egli sta male!» esclamò la mamma. «Non me ne importa più!» rispose il padre. 
Quella parola fu una coltellata al cuore per il povero ragazzo. Ah! non glie ne importava più. Suo padre che tremava, una volta, solamente a sentirlo tossire! Non l’amava più dunque, non c’era più dubbio ora, egli era morto nel cuore di suo padre… “Ah! no, padre mio,” disse tra sé il ragazzo, col cuore stretto dall’angoscia, “ora è finita davvero, io senza il tuo affetto non posso vivere, lo rivoglio intero, ti dirò tutto, non t’ingannerò più, studierò come prima; nasca quel che nasca, purché tu torni a volermi bene, povero padre mio! Oh questa volta son ben sicuro della mia risoluzione!”
Ciò non di meno, quella notte si levò ancora, per forza d’abitudine, più che per altro; e quando fu levato, volle andare a salutare, a riveder per qualche minuto, nella quiete della notte, per l’ultima volta, quello stanzino dove aveva tanto lavorato segretamente, col cuore pieno di soddisfazione e di tenerezza. E quando si ritrovò al tavolino, col lume acceso, e vide quelle fasce bianche, su cui non avrebbe scritto mai più quei nomi di città e di persone che oramai sapeva a memoria, fu preso da una grande tristezza, e con un atto impetuoso ripigliò la penna, per ricominciare il lavoro consueto. Ma nello stender la mano urtò un libro, e il libro cadde. Il sangue gli diede un tuffo. Se suo padre si svegliava! Certo non l’avrebbe sorpreso a commettere una cattiva azione, egli stesso aveva ben deciso di dirgli tutto; eppure… il sentir quel passo avvicinarsi, nell’oscurità; – l’esser sorpreso a quell’ora, in quel silenzio; – sua madre che si sarebbe svegliata e spaventata, – e il pensar per la prima volta che suo padre avrebbe forse provato un’umiliazione in faccia sua, scoprendo ogni cosa… tutto questo lo atterriva, quasi. – Egli tese l’orecchio, col respiro sospeso… Non sentì rumore. Origliò alla serratura dell’uscio che aveva alle spalle: nulla. Tutta la casa dormiva. Suo padre non aveva inteso. Si tranquillò. E ricominciò a scrivere. E le fasce s’ammontavano sulle fasce. Egli sentì il passo cadenzato delle guardie civiche giù nella strada deserta; poi un rumore di carrozza che cessò tutt’a un tratto; poi, dopo un pezzo, lo strepito d’una fila di carri che passavano lentamente; poi un silenzio profondo, rotto a quando a quando dal latrato lontano d’un cane. E scriveva, scriveva. E intanto suo padre era dietro di lui: egli s’era levato udendo cadere il libro, ed era rimasto aspettando il buon punto; lo strepito dei carri aveva coperto il fruscio dei suoi passi e il cigolio leggiero delle imposte dell’uscio; ed era là, – con la sua testa bianca sopra la testina nera di Giulio, – e aveva visto correr la penna sulle fasce, – e in un momento aveva tutto indovinato, tutto ricordato, tutto compreso, e un pentimento disperato, una tenerezza immensa, gli aveva invaso l’anima, e lo teneva inchiodato, soffocato là, dietro al suo bimbo. All’improvviso, Giulio diè un grido acuto, – due braccia convulse gli avevan serrata la testa. «O babbo! babbo, perdonami! Perdonami!»- gridò, riconoscendo suo padre al pianto. «Tu, perdonami!» rispose il padre, singhiozzando e coprendogli la fronte di baci, «ho capito tutto, so tutto, son io, son io che ti domando perdono, santa creatura mia, vieni, vieni con me!» E lo sospinse, o piuttosto se lo portò al letto di sua madre, svegliata, e glielo gettò tra le braccia e le disse: «Bacia quest’angiolo di figliuolo che da tre mesi non dorme e lavora per me, e io gli contristo il cuore, a lui che ci guadagna il pane!» La madre se lo strinse e se lo tenne sul petto, senza poter raccoglier la voce; poi disse: «A dormire, subito, bambino mio, va’ a dormire, a riposare! Portalo a letto!» Il padre lo pigliò fra le braccia, lo portò nella sua camera, lo mise a letto, sempre ansando e carezzandolo, e gli accomodò i cuscini e le coperte. «Grazie, babbo,» andava ripetendo il figliuolo, «grazie; ma va’ a letto tu ora; io sono contento; va’ a letto, babbo.» – Ma suo padre voleva vederlo addormentato, sedette accanto al letto, gli prese la mano e gli disse:  «Dormi, dormi figliuol mio!» E Giulio, spossato, s’addormentò finalmente, e dormì molte ore, godendo per la prima volta, dopo vari mesi, d’un sonno tranquillo, rallegrato da sogni ridenti; e quando aprì gli occhi, che splendeva già il sole da un pezzo, sentì prima, e poi si vide accosto al petto, appoggiata sulla sponda del letticciolo, la testa bianca del padre, che aveva passata la notte così, e dormiva ancora, con la fronte contro il suo cuore.

2016-07-12-19-39-34Illustrazione per Il piccolo scrivano fiorentino

E’ evidente in questo racconto come il nostro spinga la tonalità verso il versante sentimentale e lo fa attraverso una struttura ripetitiva che accentua la suspense da parte del lettore che, pur sapendo come il racconto va a finire, vuole sapere il modo attraverso cui questa chiusura avverrà. Per far questo, all’interno di una struttura composta da solo tre personaggi, di cui solo due fortemente caratterizzati, padre e figlio, (la madre è una narratologicamente parlando, comparsa), l’autore “onnisciente” fa sì che il lettore sappia lo sforzo del giovane per aiutare il padre, sforzo che, che colpendo la capacità di concentrazione va a ledere la sua capacità scolastica, suscita l’ira paterna. Tale struttura si ripete per tutto il racconto, spezzata dai pensieri del giovane che per vari motivi si trova  nell’impossibilità di confessare il suo lavoro notturno, pur pagandolo con il disinteresse paterno per i suoi insuccessi da scolaro. La soluzione, un po’ meccanica, non può essere che fortuita, un rumore prodotto, il padre che si accorge del lavoro del figlio, ed il perdono che si chiude con un’immagine decisamente “emotiva”: la fronte contro il suo cuore; ecco che De Amicis in poche pagine riassume l’intento pedagogico: abnegazione del lavoro fino al sacrificio per salvaguardare l’unità e l’amore familiare; tale capacità “pedagogica” altre volte verrà piegata a sottolineare l’amor di patria e l’amore per il re, l’interclassismo e il rispetto verso i più poveri, il filantropismo.

Più interessante è certamente Pinocchio, di Carlo Collodi:

Carlo_Collodi_1.jpgCarlo Collodi

Collodi (Carlo Lorenzini) nasce a Firenze nel 1826 da genitori di modesta condizione economica, primogenito di ben 19 figli. La mamma Angiolina era la figlia del fattore dei marchesi Ginori che possedevano un podere a Collodi, paese toscano che ispirò lo scrittore per il suo pseudonimo. Giovane studiò, entrando in seminario: non diventò prete, ma ricevette una buona istruzione. Interruppe gli studi superiori nel 1844, ma aveva già cominciato a lavorare come commesso nella libreria Piatti di Firenze probabilmente fin dal 1843. Nel 1847 collaborò all’Italia Musicale, giornale milanese di cui divenne ben presto una delle firme di maggior richiamo. Arruolatosi volontario partecipò sia alla prima che alla seconda guerra d’indipendenza. Dopo l’unità, contemporaneamente alla partecipazione di giornali comici e satirici, cominciò ad interessarsi alla letteratura per l’infanzia che culmineranno nel 1875 con I racconti delle fate, cui seguiranno Giannettino e Minuzzolo. Nel 1881 uscì su Il giornale dei bambini la prima puntata de Le avventure di Pinocchio con il titolo Storia di un burattino, che vide la luce in volume nel 1883. All’apice del successo, nel 1890, colpito da un aneurisma muore a 64 anni. Viene sepolto nel Cimitero delle Porte Sante a Firenze.

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Il falegname Geppetto con un pezzo di legno «che piangeva e rideva come un bambino» costruisce il burattino Pinocchio, il quale parla, cammina e si muove come un vero bambino e si rivela subito un autentico discolo. Dopo aver schiacciato il Grillo parlante, di cui non gradiva i saggi consigli, vende l’abbecedario, che Geppetto gli ha comprato sacrificando la sua casacca, per andare al teatro dei burattini; ivi il burattinaio Mangiafuoco, prima lo minaccia poi gli regala cinque monete d’oro. Ma Pinocchio, invece di portarle a Geppetto, si lascia abbindolare e derubare da il Gatto e la Volpe, che lo impiccano; lo salva la Fata dai capelli turchini. Dopo essersi fatto di nuovo derubare dal Gatto e dalla Volpe e aver subito altre disavventure (fra l’altro viene imprigionato e rimane preso nella tagliola di un contadino che lo obbliga a far da cane da guardia) ritrova la Fata e sembra voler mettere giudizio. Ma le complicazioni non sono finite: Pinocchio prima corre il rischio di finire nuovamente in prigione e poi di venir fritto in padella da un pescatore; parte in seguito col suo amico Lucignolo per il Paese dei Balocchi; qui, passati cinque mesi di continua baldoria, si trasforma in asino. Viene allora comprato dal direttore di una compagnia di pagliacci; azzoppatosi durante uno spettacolo, è venduto ad un uomo che vorrebbe fare della sua pelle un tamburo; tenta perciò di annegarlo, ma i pesci divorano l’involucro asinino e Pinocchio, tornato burattino, fugge a nuoto. In mare viene inghiottito dal pescecane, nel cui ventre incontra Geppetto, il quale, messosi in viaggio per cercarlo, aveva fatto naufragio ed era stato a sua volta inghiottito. I due fuggono dalla bocca spaventata del pescecane e si mettono in salvo. Ammaestrato dalle sue esperienze, Pinocchio mette giudizio, comincia a lavorare per mantenere Geppetto e si mette anche a studiare: ormai è diventato buono, e la conclusione è che una bella mattina si sveglia trasformato in un ragazzo.

C’ERA UNA VOLTA

I.
Come andò che maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino.

C’era una volta…
«Un re!» diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce: «Questo legno è capitato a tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino». Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo, ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentì una vocina sottile, che disse raccomandandosi: «Non mi picchiar tanto forte!»
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!
Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco, e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; apri l’uscio di bottega per dare un’occhiata anche sulla strada, e nessuno! O dunque?…
«Ho capito;» disse allora ridendo e grattandosi la parrucca, «si vede che quella vocina me la sono figurata io. Rimettiamoci a lavorare». E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solennissimo colpo sul pezzo di legno.
«Ohi! tu m’hai fatto male!» gridò rammaricandosi la solita vocina.
Questa volta maestro Ciliegia restò di stucco, cogli occhi fuori del capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua giù ciondoloni fino al mento, come un mascherone da fontana.
Appena riebbe l’uso della parola, cominciò a dire tremando e balbettando dallo spavento: «Ma di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?… Eppure qui non c’è anima viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Io non lo posso credere. Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto, come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di fagioli… O dunque? Che ci sia nascosto dentro qualcuno? Se c’è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l’accomodo io! E così dicendo, agguantò con tutt’e due le mani quel povero pezzo di legno e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della stanza. Poi si messe in ascolto, per sentire se c’era qualche vocina che si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla!
«Ho capito,» disse allora sforzandosi di ridere e arruffandosi la parrucca, «si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la sono figurata io! Rimettiamoci a lavorare».
E perché gli era entrata addosso una gran paura, si provò a canterellare per farsi un po’ di coraggio.
Intanto, posata da una parte l’ascia, prese in mano la pialla, per piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava in su e in giù, senti la solita vocina che gli disse ridendo: «Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo! Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato. Quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra. Il suo viso pareva trasfigurato, e perfino la punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.»

L’incipit delle favole è rovesciato, al c’era una volta un re… si sostituisce il c’era una volta un pezzo di legno. Per il resto da questo rovesciamento deriva la capacità di Collodi di tenersi in un perfetto equilibrio tra il “realismo” dell’ambientazione (la piccola bottega di un falegname) la “maschera” del teatro dell’arte (maestro Ciligia, caratterizzato dal naso paonazzo e la parrucca) e il fantastico con il legno parlante.

maxresdefault.jpgMastro Ciliegia e Geppetto nel Pinocchio di Comencini

Stilisticamente l’opera si basa sulla paratassi, nel registro di un fiorentino parlato, con l’intenzione assolutamente mimetica, affinché vi fosse, sin dall’inizio, capacità di adesione totale tra la “favola” raccontata ed i suoi piccoli (non solo) lettori.

III
Geppetto, tornato a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino e gli mette il nome di Pinocchio. Prime monellerie del burattino.

La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero. Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino. «Che nome gli metterò?» disse fra sé e sé. «Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.» Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a lavorare a buono, e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi. Fatti gli occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accorse che gli occhi si muovevano e che lo guardavano fisso fisso. Geppetto, vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n’ebbe quasi per male, e disse con accento risentito: «Occhiacci di legno, perché mi guardate?» Nessuno rispose. Allora, dopo gli occhi, gli fece il naso; ma il naso, appena fatto, cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai. Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo. Dopo il naso, gli fece la bocca. La bocca non era ancora finita di fare, che cominciò subito a ridere e a canzonarlo. «Smetti di ridere!» disse Geppetto impermalito; ma fu come dire al muro. «Smetti di ridere, ti ripeto!» urlò con voce minacciosa. Allora la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori tutta la lingua. Geppetto, per non guastare i fatti suoi, finse di non avvedersene, e continuò a lavorare. Dopo la bocca, gli fece il mento, poi il collo, le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani. Appena finite le mani, Geppetto senti portarsi via la parrucca dal capo. Si voltò in su, e che cosa vide? Vide la sua parrucca gialla in mano del burattino.  «Pinocchio!… rendimi subito la mia parrucca!» E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la messe in capo per sé, rimanendovi sotto mezzo affogato. A quel garbo insolente e derisorio, Geppetto si fece triste e melanconico, come non era stato mai in vita sua, e voltandosi verso Pinocchio, gli disse: «Birba d’un figliuolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male! E si rasciugò una lacrima.» Restavano sempre da fare le gambe e i piedi. Quando Geppetto ebbe finito di fargli i piedi, sentì arrivarsi un calcio sulla punta del naso. «Me lo merito!» disse allora fra sé. «Dovevo pensarci prima! Ormai è tardi!» Poi prese il burattino sotto le braccia e lo posò in terra, sul pavimento della stanza, per farlo camminare. Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un passo dietro l’altro. Quando le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare. E il povero Geppetto a corrergli dietro senza poterlo raggiungere, perché quel birichino di Pinocchio andava a salti come una lepre, e battendo i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un fracasso, come venti paia di zoccoli da contadini. «Piglialo! piglialo!» urlava Geppetto; ma la gente che era per la via, vedendo questo burattino di legno, che correva come un barbero, si fermava incantata a guardarlo, e rideva, rideva e rideva, da non poterselo figurare. Alla fine, e per buona fortuna, capitò un carabiniere, il quale, sentendo tutto quello schiamazzo e credendo si trattasse di un puledro che avesse levata la mano al padrone, si piantò coraggiosamente a gambe larghe in mezzo alla strada, coll’animo risoluto di fermarlo e di impedire il caso di maggiori disgrazie. Ma Pinocchio, quando si avvide da lontano del carabiniere che barricava tutta la strada, s’ingegnò di passargli, per sorpresa, frammezzo alle gambe, e invece fece fiasco. Il carabiniere, senza punto smoversi, lo acciuffò pulitamente per il naso (era un nasone spropositato, che pareva fatto apposta per essere acchiappato dai carabinieri), e lo riconsegnò nelle proprie mani di Geppetto; il quale, a titolo di correzione, voleva dargli subito una buona tiratina d’orecchi. Ma figuratevi come rimase quando, nel cercargli gli orecchi, non gli riuscì di poterli trovare: e sapete perché? Perché, nella furia di scolpirlo, si era dimenticato di farglieli. Allora lo prese per la collottola, e, mentre lo riconduceva indietro, gli disse tentennando minacciosamente il capo:  «Andiamo a casa. Quando saremo a casa, non dubitare che faremo i nostri conti!» Pinocchio, a questa antifona, si buttò per terra, e non volle più camminare. Intanto i curiosi e i bighelloni principiavano a fermarsi lì dintorno e a far capannello. Chi ne diceva una, chi un’altra. «Povero burattino!» dicevano alcuni, «ha ragione a non voler tornare a casa! Chi lo sa come lo picchierebbe quell’omaccio di Geppetto!…» E gli altri soggiungevano malignamente: «Quel Geppetto pare un galantuomo! ma è un vero tiranno coi ragazzi! Se gli lasciano quel povero burattino fra le mani, è capacissimo di farlo a pezzi!… Insomma, tanto dissero e tanto fecero, che il carabiniere rimise in libertà Pinocchio e condusse in prigione quel pover’uomo di Geppetto. Il quale, non avendo parole lì per lì per difendersi, piangeva come un vitellino, e nell’avviarsi verso il carcere, balbettava singhiozzando: «Sciagurato figliuolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!…» Quello che accadde dopo, è una storia da non potersi credere, e ve la racconterò in quest’altri capitoli.

Untitled-5-2Pinocchio nel film di Garrone

Anche con questo breve capitoletto Collodi ci induce ad individuare sin dalle prime descrizioni, con un dialogo fortemente caratterizzato a rendere più efficace la struttura teatrale, il carattere dei personaggi: il rassegnato Geppetto, la cui bonarietà lo porterà a pagare una colpa non sua, ed il discolo burattino Pinocchio. Il fatto che sia discolo, permetterà all’autore di farlo imbattere in diverse disavventure che, in una struttura quale quella del romanzo d’appendice, potranno ampliarsi durante la pubblicazione a puntate sul giornale; ma anche di prospettare una “rieducazione” che permetterà al romanzo di perseguire l’intento pedagogico, fondamentale nella letteratura per ragazzi.

XXXV
Pinocchio ritrova in corpo al Pesce-cane… Chi ritrova? Leggete questo capitolo e lo saprete.

Pinocchio, appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel buio, e cominciò a camminare a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, avviandosi un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano.
E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto che gli pareva di essere a mezza quaresima. E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato… che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.
A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:
«Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!»
«Dunque gli occhi mi dicono il vero?» replicò il vecchietto stropicciandosi gli occhi,  «Dunque tu sé proprio il mi’ caro Pinocchio?»
«Sì, sì, sono io, proprio io! E voi mi avete digià perdonato, non è vero? Oh! babbino mio, come siete buono!… e pensare che io, invece… Oh! ma se sapeste quante disgrazie mi son piovute sul capo e quante cose mi son andate per traverso! Figuratevi che il giorno che voi, povero babbino, col vendere la vostra casacca mi compraste l’Abbecedario per andare a scuola, io scappai a vedere i burattini, e il burattinaio mi voleva mettere sul fuoco perché gli cocessi il montone arrosto, che fu quello poi che mi dette cinque monete d’oro, perché le portassi a voi, ma io trovai la Volpe e il Gatto, che mi condussero all’osteria del Gambero Rosso dove mangiarono come lupi, e partito solo di notte incontrai gli assassini che si messero a corrermi dietro, e io via, e loro dietro, e io via e loro sempre dietro, e io via, finché m’impiccarono a un ramo della Quercia grande, dovecché la bella Bambina dai capelli turchini mi mandò a prendere con una carrozzina, e i medici, quando m’ebbero visitato, dissero subito: “Se non è morto, è segno che è sempre vivo”, e allora mi scappò detto una bugia, e il naso cominciò a crescermi e non mi passava più dalla porta di camera, motivo per cui andai con la Volpe e col Gatto a sotterrare le quattro monete d’oro, che una l’avevo spesa all’osteria, e il pappagallo si messe a ridere, e viceversa di duemila monete non trovai più nulla, la quale il giudice quando seppe che ero stato derubato, mi fece subito mettere in prigione, per dare una soddisfazione ai ladri, di dove, col venir via, vidi un bel grappolo d’uva in un campo, che rimasi preso alla tagliola e il contadino di santa ragione mi messe il collare da cane perché facessi la guardia al pollaio, che riconobbe la mia innocenza e mi lasciò andare, e il Serpente, colla coda che gli fumava, cominciò a ridere e gli si strappò una vena sul petto e così ritornai alla Casa della bella Bambina, che era morta, e il Colombo vedendo che piangevo mi disse: “Ho visto il tu’ babbo che si fabbricava una barchettina per venirti a cercare”, e io gli dissi: “Oh! se avessi l’ali anch’io”, e lui mi disse: “Vuoi venire dal tuo babbo?”, e io gli dissi: “Magari! ma chi mi ci porta”, e lui mi disse: “Ti ci porto io”, e io gli dissi: “Come?”, e lui mi disse: “Montami sulla groppa”, e così abbiamo volato tutta la notte, e poi la mattina tutti i pescatori che guardavano verso il mare mi dissero: “C’è un pover’uomo in una barchetta che sta per affogare”, e io da lontano vi riconobbi subito, perché me lo diceva il core, e vi feci cenno di tornare alla spiaggia…
«Ti riconobbi anch’io,» disse Geppetto, «e sarei volentieri tornato alla spiaggia: ma come fare? Il mare era grosso e un cavallone m’arrovesciò la barchetta. Allora un orribile Pesce-cane che era lì vicino, appena m’ebbe visto nell’acqua corse subito verso di me, e tirata fuori la lingua, mi prese pari pari, e m’inghiottì come un tortellino di Bologna.»
«E quant’è che siete chiuso qui dentro?» domandò Pinocchio.
«Da quel giorno in poi, saranno oramai due anni: due anni, Pinocchio mio, che mi son parsi due secoli!»
«E come avete fatto a campare? E dove avete trovata la candela? E i fiammiferi per accenderla, chi ve li ha dati?»
«Ora ti racconterò tutto. Devi dunque sapere che quella medesima burrasca, che rovesciò la mia barchetta, fece anche affondare un bastimento mercantile. I marinai si salvarono tutti, ma il bastimento colò a fondo e il solito Pesce-cane, che quel giorno aveva un appetito eccellente, dopo aver inghiottito me, inghiottì anche il bastimento…» «Come? Lo inghiottì tutto in un boccone?…» domandò Pinocchio maravigliato.
«Tutto in un boccone: e risputò solamente l’albero maestro, perché gli era rimasto fra i denti come una lisca. Per mia gran fortuna, quel bastimento era carico di carne conservata in cassette di stagno, di biscotto, ossia di pane abbrostolito, di bottiglie di vino, d’uva secca, di cacio, di caffè, di zucchero, di candele steariche e di scatole di fiammiferi di cera. Con tutta questa grazia di Dio ho potuto campare due anni: ma oggi sono agli ultimi sgoccioli: oggi nella dispensa non c’è più nulla, e questa candela, che vedi accesa, è l’ultima candela che mi sia rimasta…»
«E dopo?…»
«E dopo, caro mio, rimarremo tutt’e due al buio.»
«Allora, babbino mio», disse Pinocchio, «non c’è tempo da perdere. Bisogna pensar subito a fuggire…»
«A fuggire?… e come?»
«Scappando dalla bocca del Pesce-cane e gettandosi a nuoto in mare.»
«Tu parli bene: ma io, caro Pinocchio, non so nuotare.»
«E che importa?… Voi mi monterete a cavalluccio sulle spalle e io, che sono un buon nuotatore, vi porterò sano e salvo fino alla spiaggia.»
«Illusioni, ragazzo mio!» replicò Geppetto, scotendo il capo e sorridendo malinconicamente.
«Ti par egli possibile che un burattino, alto appena un metro, come sei tu, possa aver tanta forza da portarmi a nuoto sulle spalle?»
«Provatevi e vedrete! A ogni modo, se sarà scritto in cielo che dobbiamo morire, avremo almeno la gran consolazione di morire abbracciati insieme.»
E senza dir altro, Pinocchio prese in mano la candela, e andando avanti per far lume, disse al suo babbo: «Venite dietro a me, e non abbiate paura. E così camminarono un bel pezzo, e traversarono tutto il corpo e tutto lo stomaco del Pesce-cane. Ma giunti che furono al punto dove cominciava la gran gola del mostro, pensarono bene di fermarsi per dare un’occhiata e cogliere il momento opportuno alla fuga.
Ora bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo molto vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormir a bocca aperta: per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.
«Questo è il vero momento di scappare,» bisbigliò allora voltandosi al suo babbo. «Il Pescecane dorme come un ghiro: il mare è tranquillo e ci si vede come di giorno. Venite dunque, babbino, dietro a me e fra poco saremo salvi. Detto fatto, salirono su per la gola del mostro marino, e arrivati in quell’immensa bocca cominciarono a camminare in punta di piedi sulla lingua; una lingua così larga e così lunga, che pareva il viottolone d’un giardino. E già stavano lì lì per fare il gran salto e per gettarsi a nuoto nel mare, quando, sul più bello, il Pesce-cane starnutì, e nello starnutire, dette uno scossone così violento, che Pinocchio e Geppetto si trovarono rimbalzati all’indietro e scaraventati novamente in fondo allo stomaco del mostro. Nel grand’urto della caduta la candela si spense, e padre e figliuolo rimasero al buio.
«E ora?…» domandò Pinocchio facendosi serio.
«Ora ragazzo mio, siamo bell’e perduti.»
«Perché perduti? Datemi la mano, babbino, e badate di non sdrucciolare!..».
«Dove mi conduci?»
«Dobbiamo ritentare la fuga. Venite con me e non abbiate paura.»
Ciò detto, Pinocchio prese il suo babbo per la mano: e camminando sempre in punta di piedi, risalirono insieme su per la gola del mostro: poi traversarono tutta la lingua e scavalcarono i tre filari di denti.
Prima però di fare il gran salto, il burattino disse al suo babbo: «Montatemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io. Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle del figliuolo, Pinocchio, sicurissimo del fatto suo, si gettò nell’acqua e cominciò a nuotare. Il mare era tranquillo come un olio: la luna splendeva in tutto il suo chiarore e il Pesce-cane seguitava a dormire di un sonno così profondo, che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata.

unnamed (2).jpgErnesto Favaretti: Pinocchio nella pancia della balena

“La descrizione dell’esperienza di Pinocchio nel ventre del pescecane è modellata sull’archetipo biblico di Giona nel ventre della balena, tante volte imitato in letteratura. Nella Bibbia, però, l’episodio è sapienziale: nella solitudine e nell’isolamento Giona medita sul significato dell’esistenza. Collodi trasforma, invece, il modello in chiave avventurosa: se è pur vero che si tratta del momento finale del cammino di ravvedimento del burattino, sono del tutto assenti l’indagine psicologica e la meditazione morale e filosofica, mentre si affacciano ingredienti che richiamano piuttosto i romanzi d’avventura. Ad esempio, la nave inghiottita dalla tempesta e fortunosamente a disposizione di Geppetto con le sue provviste proviene chiaramente dal Robinson Crusoe di Defoe. E avventuroso è il racconto della fuga dalla bocca del pescecane” (Barbéri Squarotti).

Non mancano in questo episodio inoltre elementi ironici e fiabeschi: il pescecane che soffre d’asma e la tavola apparecchiata di Geppetto. Quello che cambia rispetto al resto del romanzo è il ripercorrere le avventure di Pinocchio (tipico di chi pubblica a puntate a richiamare nella memoria del lettore quanto già letto precedentemente) e l’atteggiamento di “ravvedimento” di Pinocchio che sta per diventare un bero e proprio bambino.

1200px-Pinochio2_1940Il Pinocchio di Disney

Quello che rende questo racconto un vero e proprio capolavoro della letteratura italiana, apprezzato e diffuso in tutto il mondo è, per quanto ci riguarda, l’aver colmato una mancanza nelle nostre lettere che è quella del romanzo picaresco, cioè la storia di un ragazzo povero che attraverso disavventure prende consapevolezza di sé, maturando e diventando uomo (il più famoso è lo spagnolo Lazarillo de Tormes di autore ignoto del 1554). Ma Pinocchio è anche un romanzo di formazione, che rappresenta la presa di coscienza di un ragazzo che da discolo diventa rispettoso verso il padre e quindi le istituzioni (non diversamente da Cuore), ma ancora è un romanzo sociale: la pèovertà degli ambienti – quelli chiaramente realistici e non fantastici – ci offrono il quadro di una società rurale con tutte le loro difficoltà. Ma, obbedendo alla struttura della favola, ed non avendoci né tempo né spazio parla ai bambini di tutto il mondo come ha dimostrato Walt Disney ed il suo film di grande successo.

 

ROMANTICISMO

La Restaurazione: il prodotto del Congresso di Vienna - laCOOLtura

L’Europa nel 1815

Nel 1815 il Congresso di Vienna restituiva all’Europa una fisionomia che, da punto di vista politico e geografico, tentava di ripristinare la situazione presente prima della Rivoluzione Francese. I grandi ministri, tuttavia, stettero attenti a non umiliare completamente la Francia, affinché non si alterasse troppo il peso di ogni nazione all’interno del continente. Con la Grande Alleanza (Austria, Prussia e Russia)  le potenze cercarono di ripristinare le legittime dinastie all’interno degli stati: la loro politica tuttavia mirava a rafforzarsi, ritagliandosi zone di influenza su cui operare: la Russia voleva sbalzare l’Impero Ottomano e aver mano libera nel Bosforo; la Francia e l’Inghilterra – che si era tenuta al di fuori dall’accordo, mantenendo la monarchia costituzionale – aiutarono la Grecia nell’ottenere l’indipendenza (quindi il controllo sul Mediterraneo), mentre la Prussia rinforzava la sua politica all’interno della sfera germanica. Anche l’Italia subì la stessa sorte, con poche modificazioni rispetto all’assetto politico precedente, fra le quali le più importanti furono il passaggio delle Repubbliche di Venezia e di Genova rispettivamente ai domini austriaci e al regno di Sardegna.

Tuttavia questo “ritorno al passato” non poteva avvenire senza alcuna conseguenza: non era possibile, infatti, cancellare con un tratto di penna l’esperienza napoleonica, tanto più che essa aveva mostrato, pur con tutti i limiti e le contraddizioni “insite” nel sistema stesso, i benefici di uno stato amministrativamente forte ed accentrato. Si creava così, da parte dell’intellettualità più preparata e progressista, una nostalgia tanto più forte rispetto all’immobilismo e alla pochezza dei sistemi restaurati; ma un altro fattore, non meno importante del primo, contribuiva a creare quel clima di risentimento che darà vita ad insurrezioni d’ispirazione liberale che coinvolsero i paesi meridionali del Mediterraneo: la Spagna, il Regno delle Due Sicilie e, come già detto, la Grecia. In Italia tale fermento liberale costituirà la base del nostro Risorgimento formato da uomini che esprimevano l’esigenza di una crescita economica e civile della nostra borghesia, di nuovo censurata e mortificata dallo spezzettamento territoriale e dal clima autoritario che in ciascuno dei vecchi stati s’era costituito.

Già durante i primi decenni il dibattito politico/ideologico si era concentrato sul costituzionalismo, il riformismo e l’identità nazionale: dalle lotte per l’affermazione di questi principi si giunse alla proclamazione d’indipendenza greca del ’30 e al regno di Filippo d’Orleans che diede vita in Francia ad una monarchia costituzionale. Anche in Italia, a livello ideologico, si affermano le esigenze di libertà e di difesa nazionale, che stanno alla base dei primi moti insurrezionali che costellano la nostra storia tra il ’20 e il ’48 e che fanno della “questione italiana” un aspetto della “questione europea” delle nazionalità oppresse (polacchi, serbi, ungheresi) che rappresenta uno dei problemi politici più scottanti del nostro Ottocento.

Diploma di filiazione alla Carboneria (1820)

Tra il 1820 ed il 1831, in Italia le cospirazioni sono in gran parte organizzate dalla Carboneria che in varie forme e filiazioni ereditano le esperienze delle leggi massoniche già operanti nel ‘700 e durante il periodo napoleonico. Essa esprime, grosso modo, l’esigenza di quella impostazione di stampo liberale e costituzionale già avvertita, negli anni precedenti, ad esempio da Vincenzo Cuoco: il suo programma consiste nel tentare d’imporre ai sovrani, attraverso l’attività segreta e la ribellione, una costituzione che garantisca le libertà fondamentali senza mettere in discussione, tuttavia, né l’assetto istituzionale (la monarchia), né quello sociale dello Stato.

Giuseppe Mazzini - Wikipedia

Giuseppe Mazzini

L’opposizione ferma e decisa dei governi locali e degli austriaci, se da un lato frustrano le aspettative, dopotutto moderate, della borghesia, dall’altra radicalizzano le opposizioni favorendo il costituirsi di un’ala democratica e repubblicana, egemonizzata all’inizio da Giuseppe Mazzini e dalla sua organizzazione, la Giovane Italia.

Su questo quadro s’innesta la politica dei Savoia che protesa nella prosecuzione di una politica espansionistica, intravede la possibilità di sfruttare l’aspirazione alla nazionalità e all’indipendenza per un aumento di potere della propria casata. Accolgono, infatti, all’interno dei loro confini, i settori più moderati dell’opinione pubblica nazionale i quali, pur essendo contro i sovrani restaurati, temono che un rivolgimento politico possa determinare anche un rivolgimento sociale.

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Felice Dondi: Le cinque giornate di Milano (1845)

Su questo sfondo s’inseriscono le rivoluzioni francesi del 1830 e del 1848, la guerra regia del Piemonte contro l’Austria (1848/1849) e l’esperienza delle Repubbliche popolari di Roma e di Venezia, caratterizzate, soprattutto la prima, dalla predicazione mazziniana.

Un uomo e una donna davanti alla luna - WikipediaCaspar David Friedrich: Uomo e donna di fronte alla luna (1820)

Il Romanticismo, prima di essere italiano, fu prima di tutto un aspetto della cultura europea.

Germania

In Germania il Romanticismo nacque ufficialmente nel 1799, grazie al filosofo Schlegel, al poeta Novalis e soprattutto la rivista Athenäum quando a Berlino lo stesso Schlegel indicherà con romantik un aspetto della sensibilità moderna in antitesi a quella legata al mondo classico.

WILHELM AUGUST VON SCHLEGEL
POESIA CLASSICA E POESIA ROMANTICA

Alcuni filosofi, i quali però s’accordano con noi nella nostra maniera di riguardare il genio particolare de’ Moderni hanno creduto che il carattere distintivo della poesia del Nord fosse la melancolia; la quale opinione, dove sia chi bene la intenda, non s’allontana dalla nostra. Appo i Greci, la natura umana bastava a se stessa, non presentiva alcun vòto, e si contentava d’aspirare al genere di perfezione che le sue proprie forze possono realmente farle conseguire. Ma quanto a noi, una più al­ta dottrina c’insegna che il genere umano, avendo perduto per un gran fallo il posto che gli era stato originariamente destinato, non ha sulla terra altro fine che di ricuperarlo; al che tuttavia non può giugnere, s’egli resta abbandonato alle sue proprie forze. La religione sensuale de’ Greci non promette­va che beni esteriori e temporali. L’immortalità, se pur vi credevano, non era da essi che appena ap­pena scorta in lontananza, come un’ombra, come un leggier sogno che altro non presentava se non una languida immagine della vita, e spariva dinanzi alla sua luce sfolgoreggiante. Sotto il punto di vista cristiano, tutto è precisamente l’opposito; la contemplazione dell’infinito ha rivelato il nulla di tutto ciò che ha de’ limiti; la vita presente si è sepolta nella notte, ed oltre alla tomba soltanto brilla l’interminabile giorno dell’esistenza reale. Una simile religione risveglia tutti i presentimenti che ri­posano nel fondo dell’anime sensitive, e li mette in palese; ella conferma quella voce segreta la qual ne dice che noi aspiriamo ad una felicità cui non si può aggiugnere in questo mondo, che nessun oggetto caduco può mai riempire il vòto del nostro cuore, che ogni piacere non è quaggiù ch’una fugace illusione. Allorché dunque, simile agli schiavi Ebrei, i quali prostesi sotto i salci di Babilonia fa­cevano risonare dei loro lamentevoli canti le rive straniere, la nostr’anima esiliata sulla terra sospira la sua patria, quali possono mai essere i suoi accenti, se non quelli della melanconia? E però la poesia degli Antichi era quella del godimento, la nostra è quella del desiderio; l’una si stabiliva nel presente, l’altra si libra fra la ricordanza del passato e il presentimento dell’avvenire. Nondimeno non bisogna credere che la melanconia si vada al continuo esalando in monotone querimonie, né ch’ella si esprima sempre distintamente. Nella stessa maniera che la tragedia fu sovente appresso de’ Greci energica e terribile ad onta dell’aspetto sereno sotto cui essi riguardavano la vi­ta, anche la poesia romantica, come l’abbiamo pur anzi dipinta, può passare per tutti i tuoni, da quello della tristezza infino a quello della gioia; ma sempre trovasi in essa un certo che d’indefinibile che dinota l’origine sua; il sentimento è in essa più intimo, l’immaginazione meno sensuale, il pensiero più contemplativo. Contuttociò in realtà i limiti si confondono alcuna volta, e gli oggetti non si mostrano mai interamente distaccati gli uni dagli altri, e quali siamo costretti di rappresentarceli per averne un’idea distinta. I Greci vedevano l’ideale della natura umana nella felice proporzione delle facoltà e nel loro armo­nico accordo. I Moderni all’incontro hanno il profondo sentimento d’una interna disunione, d’una doppia natura nell’uomo che rende questo ideale impossibile ad effettuarsi: la loro poesia aspira di continuo a conciliare, ad unire intimamente i due mondi, fra’ quali ci sentiamo divisi, quello de’ sen­si e quello dell’anima: ella si compiace tanto di santificare le impressioni sensuali coll’idea del miste­rioso vincolo che le congiugne a’ sentimenti più elevati, quanto di manifestare a’ sensi i movimenti più inesplicabili del nostro cuore e le sue più vaghe percezioni. In una parola, essa dà anima alle sensa­zioni, corpo al pensiero. Non è dunque maraviglia che i Greci ne abbiano lasciato, in tutti i generi, de’ modelli più finiti. Essi miravano ad una perfezione determinata, e trovarono la soluzione del problema che s’avevano pro­posto: i Moderni a riscontro, il cui pensiero si slancia verso l’infinito, non possono mai compiutamen­te soddisfare se stessi, e rimane alle loro opere più sublimi un non so che d’imperfetto, che l’espone al pericolo d’essere male apprezzate.

August Wilhelm von Schlegel - Wikipedia

August Wilhelm Schlegel

Vi è nel passo di Schlegel la consapevolezza di superare quella dicotomia che ancora era presente nella cultura di fine Settecento tra cultura classica e cultura romantica. Egli lo sottolinea nel passo (riportato in una traduzione ottocentesca) in cui contrappone la “finitezza” della cultura classica contro “l’infinitezza” della cultura romantica: la prima era determinata dall’imminenza, dal proiettarsi nel presente terreno, in quello che egli definisce “godimento” e quindi soddisfazione del proprio io nel mondo; il secondo dal “vuoto” verso cui si tende, quindi da quella “melanconia” che si produce nella proiezione verso un infinito indeterminato. Schlegel ne fa quasi una distinzione di paesaggio connotativo dell’essere: alla solarità del primo che porta l’uomo classico alla percezione dell’armonia del creato o della possibilità di esso (d’altra parte le stesse speculazioni filosofiche di Aristotele e di Platone vertevano sull’idea di un “di qua”) al notturno della sensibilità moderna, che vede appunto nei paesaggi lunari sia il senso dell’indefinito, come detto, sia il senso del mistero e del non conoscibile, come in parte la stessa filosofia kantiana aveva presagito.

La cultura tedesca conosce, sia a livello lirico che sull’arte del racconto dei veri e propri capolavori romantici. Uno degli più rappresentativi, anche alla luce della sua esperienza biografica, è certamente Friedrich Hölderlin. Nato a Lauffen in Svezia, studia a Tubinga, avendo come condiscepoli, e quindi amici, Schelling e Hegel. Traferitosi dapprima a Jena, quindi a Weimer, diviene precettore nella casa di un banchiere, ma s’innamora di sua moglie, che canta col nome di Diotima, come una fanciulla greca. Vaga dapprima in Svizzera, quindi a Bordeaux, facendo sempre il precettore; ma saputo della morte della musa, attraversa la Francia a piedi, cercando di tornare in Germania. Comincia a soffrire di malattia mentale, che lo portò dapprima in una clinica psichiatrica che lo affida ad un falegname, che lo alloggia in una torre sulla riva di un fiume. Lì vive per 37 anni, suonando il pianoforte e componendo liriche e strani versi, che firma con il nome di Scardanelli.

DA ICH EIN KNABE WAR

Da ich ein Knabe war,
Rettet’ ein Gott mich oft
Vom Geschrei und der Rute der Menschen,
Da spielt’ ich sicher und gut
Mit den Blumen des Hains,
Und die Lüftchen des Himmels
Spielten mit mir.
Und wie du das Herz
Der Pflanzen erfreust,
Wenn sie entgegen dir
Die zarten Arme strecken,
So hast du mein Herz erfreut,
Vater Helios! und, wie Endymion,
War ich dein Liebling,
Heilige Luna!
O all ihr treuen,
Freundlichen Götter!
Dall ihr wüsstet,
Wie euch meine Seele geliebt!
Zwar damals rief ich noch nicht
Euch mit Namen, auch ihr
Nanntet mich nie, wie die Menschen sich nennen,
Als kennten sie sich.
Doch kannt’ ich euch besser
Als ich je die Menschen gekannt,
Ich verstand die Stille des Äthers,
Der Menschen Worte verstand ich nie.
Mich erzog der Wohllaut
Des säuselnden Hains
Und lieben lernt’ ich
Unter den Blumen.
In Arm der Götter wuchs ich gross.

Quand’ero un fanciullo / spesso un dio mi salvava / dalle verghe e dagli urli dei grandi. / Sicuro e buono giocavo / coi fiori del bosco, / e le aurette del cielo /  giocavano con me. / E come tu allieti / il cuor delle piante, / quand’esse ti protendono / le tenere braccia, / così allietavi me pure, / Elio padre! e al par di Endimione / ero il tuo beneamato, / o santa Luna. / O voi tutti, fedeli, Amici iddii! / Quanto più siete deserti, / più vi ama l’anima mia! / Né allora io vi chiamavo / coi vostri nomi, né voi / davate un nome a me, come gli uomini fanno / se tra lor si conoscono. / Pure, io vi conoscevo / assai meglio che gli uomini; / comprendevo il silenzio dell’etere: / le umane parole mai non compresi. / Mi allevò l’armonia / del susurrante bosco, / e appresi ad amare / tra i fiori. / Crescevo in braccio agli dèi.

E’ una poesia giovanile di Hölderlin, dove, anche attraverso la cultura dello Sturm und Drang egli vede il mondo greco come mondo mitico, così come avevamo già visto in Keats e nel nostro Foscolo. Ma qui il poeta tedesco mette qualcosa in più che non è il concetto di “armonia perduta” quanto qualcosa che si rivolge all’assoluto: alla negatività del mondo degli uomini egli contrappone il mondo assoluto della divinità al di fuori dell’umano, quell’accordo universale “naturale” quindi, a-razionale che permette al giovane di vivere l’esperienza della totalità, grazie al Sole che gli permette di “sentire l’afflato divino” che grazie alla luna che aveva dato il sonno (sospensione della vita) al suo amato (Endemione) gli permette di continuare a vivere. Il romanticismo, nel giovane Hölderlin sta nel riuscire a capire il cielo ma non gli uomini.

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Franz Carl Hiemer: Friedrich Hölderlin (1794)

Altro importantissimo rappresentante del Romanticismo tedesco è il poeta Novalis (pseudonimo di Friedrich Leopold von Hardemberg), nato nel 1772 in Baviera e morto giovanissimo, a soli 29 anni, a causa della tisi. Influenzato dal pietismo (visione profondamente religiosa che ha del luteranesimo “tradizionale” una visione maggiormente mistica) egli vedeva nella ripresa del Cristianesimo la base della modernità, come afferma in un saggio Cristianità o Europa e soprattutto negli Inni alla notte, raccolta poetica nella quale auspica il ritorno non di un semplice Dio, ma di un Dio capace di risollevare misticamente il mondo degli uomini.

HYMNEN AN DIE NACHT (VI) 

Hinunter in der Erde Schooß,
Weg aus des Lichtes Reichen,
Der Schmerzen Wuth und wilder Stoß
Ist froher Abfahrt Zeichen.
Wir kommen in dem engen Kahn
Geschwind am Himmelsufer an.

Gelobt sey uns die ewge Nacht,
Gelobt der ewge Schlummer.
Wohl hat der Tag uns warm gemacht,
Und welk der lange Kummer.
Die Lust der Fremde ging uns aus,
Zum Vater wollen wir nach Haus.

Was sollen wir auf dieser Welt
Mit unsrer Lieb’ und Treue.
Das Alte wird hintangestellt,
Was soll uns dann das Neue.
O! einsam steht und tiefbetrübt,
Wer heiß und fromm die Vorzeit liebt.

Die Vorzeit wo die Sinne licht
In hohen Flammen brannten,
Des Vaters Hand und Angesicht
Die Menschen noch erkannten.
Und hohen Sinns, einfältiglich
Noch mancher seinem Urbild glich.

Die Vorzeit, wo noch blüthenreich
Uralte Stämme prangten,
Und Kinder für das Himmelreich
nach Quaal und Tod verlangten.
Und wenn auch Lust und Leben sprach,
Doch manches Herz für Liebe brach.

Die Vorzeit, wo in Jugendglut
Gott selbst sich kundgegeben
Und frühem Tod in Liebesmuth
Geweiht sein süßes Leben.
Und Angst und Schmerz nicht von sich trieb,
Damit er uns nur theuer blieb.

Mit banger Sehnsucht sehn wir sie
In dunkle Nacht gehüllet,
In dieser Zeitlichkeit wird nie
Der heiße Durst gestillet.
Wir müssen nach der Heymath gehn,
Um diese heilge Zeit zu sehn.

Was hält noch unsre Rückkehr auf,
Die Liebsten ruhn schon lange.
Ihr Grab schließt unsern Lebenslauf,
Nun wird uns weh und bange.
Zu suchen haben wir nichts mehr –
Das Herz ist satt – die Welt ist leer.

Unendlich und geheimnißvoll
Durchströmt uns süßer Schauer –
Mir däucht, aus tiefen Fernen scholl
Ein Echo unsrer Trauer.
Die Lieben sehnen sich wohl auch
Und sandten uns der Sehnsucht Hauch.

Hinunter zu der süßen Braut,
Zu Jesus, dem Geliebten –
Getrost, die Abenddämmrung graut
Den Liebenden, Betrübten.
Ein Traum bricht unsre Banden los
Und senkt uns in des Vaters Schooß.

Novalis_1.jpgFranz Gareis: Novalis (1799)

Laggiù nel suo grembo, lontano / dai regni della luce, ci accolga / la terra! Furia di dolori e spinta / selvaggia è segno di lieta partenza. / Dentro l’angusta barca è veloce / l’approdo alla riva del cielo. // Sia lodata da noi l’eterna notte, sia lodato il sonno eterno. / Ci ha riscaldati il torrido giorno, / ci ha fatto avvizzire il lungo affanno. / Non ci attraggono più le terre straniere, / vogliamo tornare alla terra del Padre. // Qui nel mondo che fare se la nostra / fedeltà più non conta né l’amore? / L’antico è già da tutti abbandonato / e noi del nuovo siamo incuranti. / Sta solitario, in preda allo sconforto, / chi ardente e devoto ama il passato. // Il tempo in cui gli spiriti ardevano / luminosi in altissime fiamme, / e gli uomini conoscevano ancora / la mano e il volto del Padre. / Qualche nobile spirito incorrotto / alla sua prima immagine era eguale. // Il tempo, in cui fiorivano ancora, / smaglianti i ceppi antichissimi, / e per il regno del cielo i fanciulli / si votavano al martirio, alla morte. / E se anche parlavano vita e piacere, / più di un cuore si spezzò per amore. // Il tempo, in cui Dio stesso agli uomini / si è rivelato in giovane ardore, / e ha consacrato la sua dolce vita / per forza d’amore a morte immatura. / E angoscia e dolore non ha respinto / da sé, soltanto per esserci caro. // Con ansia struggente vediamo il passato / avvolto in notte profonda, / non sarà mai placata l’ardente / sete nel nostro tempo caduco. / E noi dovremo tornare in patria / per vedere questo sacro tempo. // Che cosa indugia il nostro ritorno? / Già riposano in pace i più cari. / Conclude il corso della nostra vita / la loro tomba: siamo ansiosi e tristi. / Più nulla abbiamo qui da cercare – il cuore è sazio – il mondo è vuoto. // Per ogni vena ci trascorre un dolce / brivido, misterioso e infinito – mi sembra di udire, da lontananze / profonde, un’eco del nostro lutto. / Per noi sospirano anche gli amati, / ci mandano il soffio del loro anelito. // Laggiù ci accolga la sposa / soave, e Gesù prediletto – / Consolato spunta il crepuscolo / per gli amanti i cuori afflitti. / un sogno spezza i nostri legami / e ci immerge nel grembo del Padre.

Il testo è tratto dagli Inni alla notte; opera che potremo definire diseguale (alcuni Inni scritti in versi, altri in prosa ritmica), composta nel 1800 a seguito della morte dell’amata Sophie von Kuhn e del prediletto fratello Erasmus.  Essi costituiscono una riflessione filosofico/religiosa, in cui il poeta tedesco riflette sulla morte e sul significato che essa ha come ricongiungimento alla vera vita che è quella del ritorno al Padre (Vater). Da qui la profonda nostalgia verso il mondo antico in cui questo rapporto si viveva nel mondo, in modo diretto, (paragonato qui al vivere fanciullesco) e la necessità di restaurarlo in una contemporaneità che lo ha dimenticato. Non dimentichiamo che tale riflessione nasce anche da una profonda esperienza biografica: la morte dei cari e il suo essere malato: non solo una riflessione romantica ma anche una biografia romantica.

Figura importantissima della cultura tedesca fu certamente quella di Friedrich Schiller (1759 – 1805). Figlio di un modesto ufficiale, studiò giurisprudenza e medicina, ma sin da giovane provò una forte attrazione per la letteratura. Frutto di questo amore è l’opera teatrale I Masnadieri – opera da inserire più allo Sturm und Drang che al Romanticismo – la cui rappresentazione ebbe un successo straordinario. Il contenuto rivoluzionario dell’opera gli alienò gli appoggi politici che lo costrinse a rifugiarsi a Tubinga: qui, grazie all’amicizia con Goethe, Hölderlin si avvicinò anche alla riflessione estetica e filosofica, il cui frutto è il saggio del 1800 Sulla poesia ingenua e sentimentale. Nella maturità si diede al dramma storico, tra cui spiccano il Don Carlos e la Maria Stuarda. Interessante è il Guglielmo Tell dove tenta, anche secondo i dettami della cultura romantica, di unire il dramma storico al sentimento popolare. Ci piace ricordare che gli appartiene anche l’Inno alla gioia del 1785, musicato da Ludwig van Beethoven. Muore per la tubercolosi a soli 46 anni.

Il suo capolavoro è universalmente individuato nel dramma Maria Stuarda (1801):

Maria Stuarda, rinchiusa nel castello di Fotheringhay sotto l’accusa di aver congiurato contro la regina Elisabetta, è condannata a morte. innocente della colpa che le è stata attribuita per sbarazzarsi di lei – legittima pretendente al trono e sostenitrice della fede cattolica – Maria è oppressa dal senso di colpa per l’antica debolezza di concedersi al conte di Bothwell, uccisore di suo marito, Lord Darnely. Il conte di Leicester , favorito di Elisabetta ma segretamente innamorato della bella e affascinante rivale della regina, propone un incontro di pacificazione, mentre un altro ammiratore di Maria, Mortimer, trama per liberarla. Nel colloquio, dapprima Maria si piega fino a chiedere grazia; ma davanti all’atteggiamento beffardo di Elisabetta, piena di sdegno, le rinfaccia la sua nascita illegittima. Con ciò la sua fine è irrevocabilmente segnata. Frattanto il complotto a favore di Maria viene svelato e Leicester, che lo appoggiava, si salva gettando tutte le accuse su Mortimer. Questi si uccide col nome di Maria sulle labbra. Si sparge voce di un nuovo complotto contro la regina. Il popolo reclama la punizione dei colpevoli. Elisabetta si risolve a firmare, su istigazione di Burleigh, l’esecuzione immediata della sentenza capitale. Maria, che ora appare animata da una volontà tragicamente priva di speranza, si avvia nobilmente al patibolo come alla liberazione di una condizione umiliante per la sua regalità e, nello stesso tempo, a una necessaria espiazione.

 

L’ULTIMO COLLOQUIO TRA MARIA E ELISABETTA
Atto III, scena 4

Elisabetta, Maria, Shrewsbury e Leicester […]

Maria si fa forza e vuole avvicinarsi ad Elisabetta, ma a metà strada si ferma rabbrividendo. I suoi gesti tradiscono la lotta più violenta.
ELISABETTA: Ma come, signori? Chi mi parlava di una donna prostrata e sottomessa. Io vedo una donna altera, per nulla piegata dalla sventura.
MARIA: E sia! Mi assoggetterò anche a queste! Vattene, inutile fierezza dell’animo! Dimenticherò chi sono e tutto quello che ho patito, mi abbasserò di fronte a chi mi ha gettato in questa vergogna. (Si rivolge alla regina) Il cielo è dalla tua parte, sorella! La vittoria incorona il tuo capo fortunato e io adoro in te la divinità che ti innalza. (Le cade ai piedi) Ma ora sii generosa, sorella! Non lasciarmi qui vergognosamente prostrata, tendi la mano, la tua destra regale, e rialzami dalla mia caduta.
ELISABETTA: (ritraendosi) Siete al posto che vi siete meritata, Lady Maria, e io lodo la grazia del mio Dio, che non ha permesso che giacessi io ai vostri piedi come voi ora ai miei!
MARIA: (con crescente intensità) Pensa all’instabilità di tutto ciò che è umano. C’è una divinità che punisce l’orgoglio! Venerala e temila, questa terribile forza divina che mi getta ora ai tuoi piedi… Ma per gli estranei che ci guardano, onora in me te stessa, non sconsacrare, non esporre alla vergogna il sangue dei Tudor, che scorre nelle mie vene, come nelle tue! O Dio del cielo! Non rimanere rigida e inaccessibile, come lo scoglio a cui il naufrago cerca invano, lottando, di aggrapparsi! Tutto per me, la mia vita, il mio destino, dipende dalle mie parole, dalla forza delle mie lacrime: scioglimi il cuore che possa toccare il tuo! Se mi fissi con quello sguardo di ghiaccio, il cuore mi si stringe rabbrividendo, le lacrime indurite non scorrono più, e lo sgomento trattiene la supplica nel petto raggelato.
ELISABETTA: (fredda e severa) Cos’avete da dirmi, Lady Stuard? Volevate parlarmi? Io ora dimentico di essere la regina che avete gravemente offeso, per adempiere solo ad un compito pietoso di sorella e vi concedo la consolazione della mia presenza. Per ascoltare l’invito della generosità, mi espongo ad un giusto biasimo per essere scesi così in basso… sapete bene che volevate farmi uccidere.
MARIA: Come posso cominciare, come posso disporre, le mie parole, perché ti tocchino il cuore, ma non l’offendano. O Dio, da’ forza alle mie parole e togli loro ogni aculeo che potrebbe ferire! Non posso parlare in mio favore senza accusarti duramente, e proprio questo non voglio… Mi hai trattata ingiustamente, perché io sono una regina come te, e tu mi hai tenuta prigioniera; io sono venuta a te supplicando e tu hai sprezzato le sante leggi dell’ospitalità e il sacro diritto delle genti e mi hai rinchiuso tra le mura di un carcere. Mi hanno sottratto crudelmente amici e servitori, mi hanno costretta a indegna privazione e infine trascinata davanti ad un tribunale vergognoso… Ma non ne voglio parlare più! Un eterno oblio ricopra tutte le crudeltà che ho patito. Ma sì, attribuirò tutto al destino; tu non sei colpevole, e neppure io lo sono, uno spirito maligno è salito dagli abissi e ha acceso nei nostri cuori quell’odio che fece di noi, ancor fanciulle, due nemiche. Esso è cresciuto con noi, e uomini malvagi hanno attizzato col fiato l’infausta fiamma. Pazzi fanatici si sono armati, non richiesti, di spada e pugnale. È il destino dei sovrani: le loro discordie precipitano nell’odio il mondo intero e ogni loro dissidio scatena le furie. Ora non c’è più tra di noi una bocca estranea (le si avvicina confidenzialmente e le parla in tono accarezzante), ora siamo solo noi, una di fronte all’altra. Parla ora, sorella! Dimmi la mia colpa, voglio dartene piena soddisfazione. Ah, mi avessi prestato orecchio allora, quando imploravo di vederti! Non si sarebbe giunti a questo punto, e non sarebbe questo triste parco il luogo del nostro doloroso incontro.
ELISABETTA: La mia buona stella mi ha preservata, allora dal mettermi la serpe in seno con le mie stesse mani. Non accusate le stelle, ma la vostra anima nera e la selvaggia ambizione della vostra casa. Fra noi non c’era ombra di discordia, allorquando vostro zio, quel prete superbo e avido di dominare, che non cessa di allungare la mano verso le corone degli altri, mi lanciò la sfida, e indusse voi ad assumere il mio stemma, ad impossessarvi del mio titolo regale e ad iniziare con me un duello all’ultimo sangue. E chi non ha cercato di aizzare contro di me? La lingua dei preti e la spada dei popoli, e tutte le armi terribili del fanatismo religioso, perfino qui, nella pace del mio impero, ha attizzato le fiamme della sommossa… Ma Dio è con me, e quel prete superbo non è padrone del campo… Il suo colpo mirava al mio capo, ma sarà il vostro a cadere!
MARIA: Sono nelle mani di Dio. Non approfitterai in modo così cruento della tua potenza.
ELISABETTA: E chi mi lo impedirà? Vostro zio ha mostrato a tutti i re del mondo come si fa la pace coi propri nemici: la mia scuola sia la notte di San Bartolomeo! Che m’importa dei vincoli del sangue e dei diritti dei popoli? La chiesa affranca da ogni legame, la chiesa santifica regicidio e spergiuro. Io non faccio che applicare gli insegnamenti dei vostri preti. Ma dite, su, che pegno garantirebbe per voi, se generosa vi togliessi le catene? Quale serratura terrebbe custodita la vostra parola, che le chiavi di San Pietro non possano aprire? Nella forza sta la mia sola sicurezza, non si può scendere a patti con i viscidi serpenti.
MARIA: Oh, credimi, sei tu la causa del nostro dissidio, con questa tua triste, cupa diffidenza! Vedesti sempre in me un’estranea, una nemica: se tu mi avessi dichiarata tua erede, come mi spetta, amore e gratitudine avrebbero fatto di me una fedele amica e una cara parente.
ELISABETTA: Non son qui i vostri amici, Lady Stuard, la vostra casa è il papato, vostri fratelli i monaci… Voi mia erede! Volete mettermi in trappola! E io dovrò permettere che voi, mentre sono ancora in vita, seduciate il mio popolo con le vostre arti da Armida, e irretiate la nobile gioventù del mio regno nei vostri lacci lascivi; dovrò sopportare che tutti si volgano al nuovo astro che sorge, mentre io…
MARIA: Governa in pace! Rinuncio ad ogni mia pretesa su questo regno. Ahimè, le ali del mio spirito sono spezzate, la grandezza non mi attira più. Ci sei riuscita: non sono che l’ombra della Maria di un tempo. L’orgoglio del mio animo ha ceduto all’onta del lungo carcere… Hai raggiunto lo scopo, mi hai distrutto in piena fioritura. Ma ora poni fine al tormento, sorella! Dilla, la parola per la quale sei venuta, ché non posso credere che tu sia qui di fronte alla tua vittima solo per beffarti di lei. Pronuncia questa parola! Dimmi: «Sei libera, Maria! Hai provato la mia forza, ora venera la mia grandezza d’animo». Dillo, e io riceverò vita e libertà come un dono dalle tue mani… Una parola, e il passato è cancellato. L’attendo, oh, non farmela aspettare troppo a lungo! Guai a te se non la pronuncerai! Ché se non te ne andrai via da me come una splendente divinità apportatrice di salvezza, sorella!, né per tutta questa terra ricca e benedetta, né per tutte le terre che il mare circonda, vorrei mai star io davanti a te, come tu ora davanti a me!
ELISABETTA: Così vi riconoscete vinta, finalmente? Avete finito di tessere intrighi? Non ci sono assassini in agguato? Non ci sono più avventurieri che si addossino il triste compito di essere vostri paladini? Sì, è finita, Lady Maria, non sedurrete più nessuno. Il mondo ha altri crucci. Non alletta nessuno la prospettiva di essere il vostro quarto marito, perché, mariti o pretendenti, voi li uccidete tutti!
MARIA: (sussultando) Sorella! Sorella! Oh Dio, fa’ che possa trattenermi!
ELISABETTA: (la guarda a lungo con disprezzo e alterigia) Così, Lord Leicester, queste sarebbero le seduzioni che nessun uomo può contemplare impunemente, con cui nessuna donna può osare confrontarsi! Eh, certo… È una fama conquistata a buon mercato: non costa nulla essere per tutti una bellezza, se si accetta di essere la bellezza di tutti.
MARIA: Questo è troppo!
ELISABETTA: (ridendo sprezzante) Ora mostrate il vostro vero viso, finora non era che una maschera.
MARIA: (infiammata dall’ira, ma con dignità) Ho errato come errano gli esseri umani. Ero giovane, allora, e il potere mi seduceva. Ma non l’ho mai tenuto nascosto: ho sempre amato la lealtà e sdegnato le false apparenze. Il mondo conosce il peggio di me, ma io posso dire: sono migliore della mia fama. Guai a te, invece, se un giorno alzerai il mantello di onorabilità che ricopre le tue azioni e sotto il quale nascondi ipocritamente l’ardore sfrenato di passioni clandestine! Non è certo l’onore l’eredità di tua madre: tutti sanno per quali virtù Anna Bolena salì il patibolo!
SHREWSBURY: (s’intromette tra le due regine) Dio del cielo! A questo punto si doveva arrivare! È questo la moderazione, l’umiltà, Lady Maria?
MARIA: Moderazione! Umiltà! Ho sopportato tutto quello che un essere umano può sopportare. Ora vattene, calma pecorile, torna al cielo, paziente sopportazione, spezza finalmente i vincoli che ti trattengono, vieni fuori dal tuo nascondiglio, ira troppo a lungo repressa… Tu, che desti al basilisco infuriato lo sguardo che uccide, concedi alla mia lingua la freccia avvelenata…
SHREWSBURY: È fuori di sé! Perdona le sue smanie, è stata provocata!
LEICESTER: (tenta agitatissimo di condur via Elisabetta) Non ascoltarla, è fuor di senno! Via, via da questo luogo infausto!
MARIA: Il trono d’Inghilterra è sconsacrato da una bastarda, il nobile popolo inglese ingannato da un’astuta ciarlatana! Se regnasse giustizia saresti tu ora davanti a me nella polvere, perché io sono la tua regina.
Elisabetta esce in fretta. I lords la seguono coi segni del più profondo sgomento.

512px-Gerhard_von_Kügelgen_001.jpgGerhard von Kügelgen: Friedrich Schiller (1808)

La storia di Maria Stuarda non era certo nuova per Schiller: gli esempi gli venivano dalla letteratura italiana, durante il ‘600 da Della Valle, più recentemente per lui, certo l’opera di Alfieri.  Ci sono tuttavia nella tragedia di Schiller alcuni elementi che lo fanno apparire all’interno della poetica romantica:

  • l’abolizione delle tre unità aristoteliche
  • la riflessione tra amore e potere, che, con altre declinazioni, come libertà e potere, tanta parte ebbero nella sua riflessione letteraria.

In questo brano tratto dal terzo atto del dramma, che è nella realtà storica non è mai avvenuto, s’immagina che Maria, spinta da Leicester, s’incontri con Elisabetta per indurla ad un atto pietoso. Ciò serve all’autore per mettere a confronto le figure di due donne che non rappresentano più, come nelle opere precedenti, la riflessione sulla fredda ragione di stato e la cristiana umiltà, ma su due forti passioni; la scena è costruita come se ci fosse un combattimento tra le due: all’inizio Maria è sulla difensiva, cerca di non offendere Elisabetta, la chiama sorella per sottolineare il legame di sangue che le unisce. La regina, tratta forse in inganno dall’atteggiamento sottomesso di Maria, ne approfitta per attaccare: le sue parole sono sempre più sferzanti e non concedono nulla all’avversaria; la sovrana sembra acquietarsi solo quando Maria si dice vinta e disposta a rinunciare al trono, non più attirata dalla grandezza politica. Nemmeno con la dichiarazione di sconfitta e dopo l’ennesima richiesta di conciliazione, però, la regina si sente appagata e passa addirittura agli insulti. La situazione allora si capovolge, l’ira di Maria rimonta e le sue parole, estremamente dignitose, rivendicano la sua sincerità e smascherano l’ipocrisia di Elisabetta, che non è più sorella, ma bastarda e ciarlatana. Schiller, nel costruire la scena mantiene la tensione costantemente alta, lasciando nel dubbio lo spettatore circa la volontà di Elisabetta di perdonare o meno: quindi lo scontro avverrà sulle capacità oratorie delle due donne. Il tutto è costruito con la tecnica del crescendo: alle parole di umiliazione di Maria e quindi all’atteggiamento sprezzante di Elisabetta viene sapientemente ribaltato fino alla “quasi” fuga di Elisabetta: attraverso l’espediente scenico del capovolgimento, che avviene sempre al culmine di un’azione e la rende più tragica, Schiller risolve il conflitto tra le due protagoniste e ci suggerisce la sua tesi, secondo cui l’eroe è puro e nobile, mentre chi vuole occuparsi di politica deve per forza risultare impuro, rinunciando all’integrità morale. Alla fine dell’incontro le due donne raggiungono ognuna uno scopo, una sul piano umano, l’altra su quello politico.

Maria_Stuarda_si_avvia_al_patibolo.jpgScipione Vannutelli: Maria Stuarda si avvia al patibolo (1861)

Sul versante della prosa romantica tedesca, l’autore maggiormente rappresentativo è Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, scrittore e musicista. Nasce nel 1776, rimasto orfano, è avviato dallo zio a studi giuridici. Ma sin da giovane si sentì attratto dalla letteratura e dalla musica. Fece da giovane vita dissipata, cercando di far coincidere biografia e arte: ciò lo percepiva soprattutto nella composizione musicale, cui sentiva quasi un rapimento trascendentale che lo portava a considerare la musica stessa quasi una forza diabolica, capace di rapire l’animo. Tale concezione lo portò ad approfondite temi legati al mistero, l’occulto, il diabolico, arrivando nella sua produzione a preconizzare l’inconscio. Per questo atteggiamento egli fu amato da scrittori come Poe e Baudelaire, ma non è un caso che un attento studioso della sua arte fu, un secolo dopo, Sigmund Freud, che, proprio dal racconto Sandmann (L’uomo della sabbia) elaborò la teoria del perturbante. 

Il racconto prende l’avvio da una lettera che Nathaniel scrive all’amico Lotatio, narrandogli che, durante la fanciullezza, sovente veniva evocato “l’uomo della sabbia” per spaventare i bambini che non avevano voglia di andare a dormire. Chiesta la motivazione di questo nome, la mamma risponde che tale nome non è che la  metafora degli occhi che non riescono a stare aperti, “come se vi avessero gettato della sabbia”; mentre la fantesca gli riferisce di una figura spaventosa che, a bambini restii ad andare a letto, rubava gli occhi e li offriva ai suoi figli che li beccavano con il becco ricurvo come quello delle civette. Il bambino ne rimase a tal punto impressionato da non passare le notto in preda al terrore. Ma la curiosità fu più forte. Egli lo identifica con un ospite, figura assai inquietante, che, quando giunge in casa, si avvia direttamente nello studio paterno senza che i bimbi, comandati di andare nelle loro camere, possano vederlo. Un giorno Nathaniel decide di nascondersi nello studio del padre, per “vedere” l’uomo della sabbia. Lo riconosce in un vecchio amico di famiglia, dott. Coppelius, ma la cui figura è fortemente significante. Mentre l’uomo ordina al padre di aprire un vecchio armadio si disvela una camera oscura per ricerche scientifiche: all’interno sicuramente un fuoco, l’evocazione inquietante “A me gli occhi” e la scoperta della sua presenza; Coppeluis lo afferra, quasi gli disarticola e avvicina i suoi occhi alla fiamma; solo la preghiera accorata del padre lo salva. In una successiva visita il padre di Nathaniel rimane ucciso, e della figura dello strambo scienziato si perdono le tracce. Passano gli anni e Nathaliel diventa studente universitario. Gli sembra di aver riconosciuto in un venditore ambulante Giuseppe Coppola, il vecchio Coppelius, facendogli risvegliare l’incubo. In questo periodo s’innamora di Olimpia, figlia del suo professore di scienze, prof. Spallanzani, ma la ragazza ha qualcosa di strano: sguardo vitro e gesti meccanici: Per lei dimentica la sua fidanzata, Clara. Un giorno vede terrorizzato il corpo di Olimpia disputato da Spallanzani e Coppola: tale corpo non è che un automa, costruito dal professore con gli occhi applicati dal venditore ambulante. Nathaliel, a seguito della visione, viene colto da un accesso di follia, rimane a lungo ricoverato. Guarito decide di sposare Clara; insieme a lei e a suo fratello vanno su un’alta torre per osservare il panorama. Narthaliel, affacciatosi, rivede Coppola e, preso da raptus folle, tenta di gettare nel vuoto Clara, che viene salvata dal fratello, mentre lui cade nel vuoto gridando “Begli occhi!”.

ETA_Hoffma_51517549.jpgAutoritratto di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann

L’UOMO DELLA SABBIA

Durante tutta la giornata, all´infuori del pranzo, io e mia sorella vedevamo molto di rado nostro padre. Doveva essere molto occupato nel suo lavoro. Dopo cena, che secondo una vecchia abitudine si consumava già alle sette, noi tutti con la mamma andavamo nel suo studio e ci sedevamo intorno a un tavolo rotondo. Il babbo fumava e beveva un grosso bicchiere di birra. Spesso ci raccontava storie meravigliose e vi si entusiasmava talmente da lasciar spegnere la pipa, e io dovevo riaccendergliela con un pezzo di carta a cui avevo dato fuoco: il che era per me un vero divertimento. Spesso invece ci metteva dinanzi dei libri illustrati, sedeva muto e pensieroso nella sua poltrona e soffiava attorno a sé dense nuvole di fumo, tanto che ci sembrava di nuotare nella nebbia. In quelle sere la mamma era molto triste e appena battevano le nove ci diceva: «Su, ragazzi, a letto, a letto! Viene l’uomo della sabbia, già mi pare di vederlo!». E io ogni volta sentivo veramente un passo lento e pesante che saliva su per le scale: doveva essere l’uomo della sabbia! Una volta quel camminare cupo e rintronante mi fece venire i brividi e alla mamma che ci conduceva via chiesi: «Mamma, chi è mai quel cattivo uomo della sabbia che ci allontana sempre dal babbo? Che aspetto ha?».
«Non esiste nessun uomo della sabbia, figliolo mio» rispose la mamma «quando io vi dico che viene l’uomo della sabbia, voglio solo dire che voi siete assonnati e che non potete tenere più aperti gli occhi, come se vi avessero gettato della sabbia.»
La risposta della mamma non mi soddisfece; anzi, nella mia mente infantile sempre più chiaro si fece il pensiero che la mamma volesse negare l’esistenza dell’uomo della sabbia solo perché noi non dovessimo averne paura, tanto è vero che lo sentivo sempre salire le scale. Desideroso di voler vedere più da vicino questo uomo della sabbia e di sapere quali erano i suoi rapporti con i bambini, chiesi infine alla vecchia cui era affidata la mia sorellina minore chi mai esso fosse.
«Oh, Niele» rispose costei «non lo sai ancora? È un uomo cattivo, che viene dai bambini che non vogliono andare a letto e butta loro negli occhi manciate di sabbia sino a farglieli schizzare sanguinanti fuori dal capo; poi li prende, li mette in un sacco e li porta sulla luna in pasto ai suoi figlioletti; questi stanno lassù in un nido e hanno il becco ricurvo come le civette e con questo beccano gli occhi dei bambini cattivi.»
L’orribile immagine di quell’uomo crudele si impresse così nella mia mente, e quando alla sera io lo sentivo salire le scale, tremavo dall’angoscia e dal terrore. Mia madre riusciva solo a cavarmi dalla bocca questo grido balbettato tra le lacrime: «L’uomo della sabbia! L’uomo della sabbia!». Correvo quindi nella camera da letto e tutta la notte ero torturato dalla paurosa visione dell’uomo della sabbia.
Quando fui abbastanza grande per comprendere che tutto ciò che mi era stato raccontato dalla governante dell’uomo della sabbia e della sua nidiata di figlioli sulla luna non aveva nessun fondamento, l’uomo della sabbia per me continuava a essere un fantasma pauroso ed ero sempre preso da vero terrore quando lo sentivo non solo salire le scale ma anche aprire la porta dello studio di mio padre ed entrarvi. Qualche volta non si faceva vivo per molto tempo, ma poi veniva più volte di seguito. La cosa durò parecchi anni, e io non riuscivo ad abituarmi all’idea di quel fantasma la cui immagine odiosa non riuscì a impallidire nella mia mente. I suoi rapporti con mio padre finirono con l’ossessionare la mia fantasia. Avrei voluto interrogare mio padre, ma un terrore invincibile me lo impediva. Io stesso, io solo, dovevo indagare nel mistero, dovevo vedere il favoloso uomo della sabbia: questo fu il mio più vivo desiderio che col passare degli anni sempre più si radicò in me. L’uomo della sabbia mi aveva messo sulla strada dell’avventura, del meraviglioso, che così facilmente si annida nell’animo dei fanciulli. Niente mi attirava di più che ascoltare o leggere le paurose storie di folletti, di streghe, di gnomi, ma in cima a tutti stava sempre l’uomo della sabbia, che io andavo ovunque, con il gesso o con il carbone, disegnando nei più strani e orribili atteggiamenti su tavoli, su armadi e pareti.
Quando ebbi dieci anni, mia madre mi fece passare dalla camera dei fanciulli in una piccola stanza che si apriva sul corridoio vicino a quella di mio padre. Come sempre quando battevano le nove e si sentiva lo sconosciuto in casa nostra, noi dovevamo in tutta fretta allontanarci. Dalla mia cameretta lo sentivo entrare dal babbo e subito dopo mi sembrava che per la casa si diffondesse un vapore dall’odore strano. Con la curiosità, sempre più cresceva in me il coraggio di fare in qualche modo la conoscenza dell’uomo della sabbia. Spesso, appena la mamma era già passata oltre, dalla mia cameretta sgusciavo nel corridoio, ma non riuscivo a vedere nulla perché l’uomo della sabbia, quando raggiungevo il punto da dove avrei potuto vedere, era già entrato nella camera del babbo. Alla fine, spinto da un impulso irresistibile, decisi di nascondermi proprio nella camera del babbo per aspettarvi l’uomo della sabbia.
Una sera, dal silenzio del babbo e dalla tristezza della mamma, compresi che l’uomo della sabbia sarebbe venuto. Con la scusa che ero molto stanco, lasciai prima delle nove la stanza e mi nascosi in un nascondiglio vicino alla porta.
Il portone di casa cigolò: dal vestibolo, su, verso la scala, rintronarono i passi lenti e pesanti. La mamma mi passò dinanzi con la sorellina. Piano piano aprii la porta della stanza del babbo. Egli come al solito se ne stava seduto muto e rigido, volgendo le spalle alla porta e non si accorse di me. Fui subito dentro e mi cacciai dietro la tendina, che era tesa su un armadio aperto, vicino alla porta, dove il babbo teneva i suoi abiti. Sempre più vicino… sempre più vicino risuonavano i passi… ecco!… di fuori un tossire, uno scalpicciare, un borbottio strano. Nell’attesa angosciosa il cuore mi tremava. Ecco, proprio vicino alla porta un passo serrato… un colpo violento sulla maniglia… la porta si spalanca con rumore! Facendomi animo, con cautela sporgo la testa. L’uomo della sabbia sta nel mezzo della stanza, davanti a mio padre: la luce chiara delle candele gli illumina il viso! L’uomo della sabbia, il tanto temuto uomo della sabbia, è il vecchio avvocato Coppelius, che qualche volta a mezzogiorno viene a mangiare da noi.
Ma nessuna figura più mostruosa avrebbe potuto atterrirmi come quella di Coppelius. Immaginati un uomo alto, dalle spalle larghe, con una grossa testa informe, il viso terreo, le sopracciglia grigie e cespugliose, sotto le quali lampeggiano due occhi da gatto verdastri e pungenti e un naso grande e grosso cadente sopra il labbro superiore. La sua bocca si torce spesso in un sorriso malvagio; si vedono allora sulle guance due macchie scarlatte e uno strano sibilo gli passa attraverso i denti stretti. Coppelius compariva sempre con una giacca color cenere di taglio antiquato, il panciotto e i calzoni dello stesso colore, ma portava calze nere e le scarpe con piccole fibbie ornate di pietre. La piccola parrucca gli copriva a stento il cocuzzolo, i cernecchi gli stavano appiccicati sopra le grandi orecchie rosse e una larga reticella per i capelli saltava fuori dalla nuca, lasciando vedere il fermaglio d´argento che teneva fissata la cravatta pieghettata. Tutto il suo aspetto era stomachevole e odioso; ma soprattutto a noi bambini facevano senso le sue mani pelose e nodose tanto che rifiutavamo tutto ciò che toccava. Egli se ne era accorto e si divertiva a toccare con un pretesto qualsiasi ora un pezzo di torta, ora un frutto dolce che la nostra buona mamma ci aveva messo sul piatto, cosicché, piangendo per lo schifo e per il ribrezzo, rinunciavamo a quelle ghiottonerie che dovevano darci gioia. La stessa cosa faceva nei giorni di festa, quando il babbo ci mesceva un bicchierino di vino dolce: allora egli subito vi posava la mano oppure si portava addirittura il bicchiere alle labbra e rideva diabolicamente quando non riuscivamo a manifestare la nostra rabbia se non attraverso sommessi singhiozzi. Era abituato a chiamarci bestiole. Lui presente, non dovevamo dire neppure una parola e non potevamo fare altro che maledire quel cattivo, odioso uomo che ci rovinava apposta anche il piacere più innocente. Anche la mamma sembrava che odiasse quel ripugnante Coppelius appena infatti egli appariva, tutta la sua serenità, la sua natura gaia e semplice si mutava in una cupa tristezza. Mio padre invece di fronte a lui si comportava come davanti a un essere superiore di cui si devono sopportare le scortesie e che occorre mantenere a ogni costo di buonumore. Bastava che quello vi accennasse perché subito si preparassero cibi prelibati e si servissero vini scelti.
Quando dunque vidi Coppelius, provai orrore e raccapriccio, perché solo lui poteva essere l´uomo della sabbia. Ma l´uomo della sabbia per me non era certo lo spauracchio delle fole della governante, quello che veniva a prendersi in pasto gli occhi dei bambini per le civette sulla luna, no, certo: era un mostro orribile che, dove arrivava, portava con sé dolori e miserie, momentanei o perpetui.
Ero come affascinato. Con il pericolo di essere scoperto e quindi severamente punito, rimasi dove ero, e origliavo sporgendo la testa dalla tendina. Mio padre accolse Coppelius con molto rispetto. «Su, al lavoro» fece questi, con voce stridula, deponendo la giubba. Il babbo cupo e silenzioso si tolse la veste da camera, ed entrambi indossarono lunghe tuniche nere. Dove le avessero prese non riuscii a vedere. Mio padre aprì le ante di un armadio a muro; ma vidi che quello che per tanto tempo avevo creduto un armadio era una caverna nera in cui stava un piccolo focolare. Coppelius si avvicinò e vi accese una fiamma azzurra e scoppiettante. Attorno vi stavano vari e strani oggetti. Dio mio! come era mutato mio padre mentre si chinava sul fuoco! Si sarebbe detto che un dolore tremendo e lancinante avesse trasfigurato i suoi lineamenti dolci e nobili in quelli di un demonio brutto e riluttante. Ora assomigliava a Coppelius. Questi con tenaglie arroventate toglieva dal denso fumo materiali sfavillanti che poi con grande energia martellava. Mi sembrava di vedere tutto attorno visi umani, ma senza occhi, e al posto di questi impressionanti cavità nere. «Qua gli occhi, qua gli occhi» gridava Coppelius con voce cupa e tonante.
Preso da una paura selvaggia, mandai un grido e saltai fuori dal mio nascondiglio. Coppelius mi afferrò: «Bestiola, bestiola!» belò digrignando i denti… Mi sollevò, mi buttò nel fuoco e la fiamma cominciò a bruciarmi i capelli. «Ora abbiamo gli occhi, gli occhi… un bel paio di occhi di fanciullo.» Così sussurrava Coppelius e con le mani prese dalla fiamma alcuni granelli incandescenti che voleva buttarmi negli occhi. Mio padre implorando alzò le mani e gridò: «Maestro, maestro, lascia gli occhi al mio piccolo Nataniele, lasciaglieli».
Coppelius rise in modo stridulo e disse: «Li tenga pure gli occhi il ragazzo per frignare nel mondo; ma ora osserviamo un po´ il meccanismo delle mani e dei piedi». E mi afferrò con violenza, le giunture scricchiolarono, mi svitò mani e piedi che andava poi rimettendo a posto: «Non tutti vanno bene, era meglio prima! Il vecchio aveva capito bene!» così sibilava e bisbigliava Coppelius, ma intorno a me vi erano le tenebre: una specie di spasmo mi attraversò i nervi e le ossa e non sentii più nulla.
Un dolce alito caldo mi accarezzò il viso. Mi ripresi come da un sonno mortale, la mamma stava china su di me. «È ancora qui l’uomo della sabbia?» balbettai.
«No, figliolo caro: ormai se ne è andato, non può più farti del male» così diceva la mamma accarezzando e baciando il suo caro figliolo ritrovato.
Ma perché annoiarti oltre, mio carissimo Lotario? Perché raccontarti così estesamente ogni particolare, quando mi rimane ancora tanto da dire? Basta. Fui scoperto a origliare e maltrattato da Coppelius. La paura e l’angoscia mi fecero venire un febbrone per cui me ne stetti a letto qualche settimana. «L’uomo della sabbia è ancora qui?» Queste furono le mie prime parole sensate, e furono il segno della mia guarigione, della mia salvezza.

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Disegno a penna dello Stesso Hoffmann per L’uomo della sabbia

Su tale racconto commenta lo studioso di letteratura tedesca, prof. Luigi Forte: “Sdoppiamenti e dissociazioni, travestimenti e metamorfosi, che testimoniano la problematica presenza dell’uomo nel carcere terreno e la distanza tra io e natura, attingono con dovizia all’armamentario del fantastico: alberi tramutati in uccelli, pappagalli in maggiordomi, serpi in fanciulle, salamandre in archivisti… Mentre un armadio a muro, come nell’Uomo della sabbia, può d’improvviso dilatarsi in una nera caverna dove si celebrano riti alchemici (…) Già Freud, fornendo un’interessante e classica interpretazione dell’Uomo della sabbia, insisteva sulla dualità del suo mondo: di qui l’incertezza nel definire la consistenza reale o fantastica dei personaggi. La paura originaria del bambino Nataniele, che teme di essere derubato dei propri occhi dal mago sabbiolino, che secondo il racconto della nutrice li porterebbe in un lontano nido sulla luna per offrirli in pasto ai suoi figlioletti dal becco ricurvo come le civette, si condensa, col passare del tempo, in un’ossessione, di cui Hoffmann scandisce, con ritmo impareggiabile le varie tappe. L’Uomo della sabbia  vuole essere non solo l’analisi dell’anima di un alienato, ma, secondo i suggerimenti freudiani, la registrazione dei movimenti di un meccanismo innestato dal complesso di castrazione: come se tutto – mago sabbiolino alias avvocato Coppeluis, a sua volta aspetto negativo dell’imago paterna che confluisce nell’ottico Coppola e nel professor Spallanzani – germinasse nell’identità incrinata di Nataniele, dal suo fissarsi su un’immagina narcisistica (la bambola Olimpia) che lo distoglie da un reale oggetto d’amore (la fidanzata Clara). Hoffmann, utilizzando uno spezzone di romanzo epistolare, tratteggia magistralmente, la regressione di Nataniele, la sua resistenza a crescere e maturare psicologicamente e la conseguente attrazione verso il feticcio Olimpia, che sempre più gli appare come una promesse du bonheur (promessa di felicità) non inficiata dalla inconciliabilità di sogno e realtà.”

Inghilterra

L’Inghilterra, ufficialmente, precede la Germania nella nascita del Romanticismo, ma la nuova sensibilità presente nel paese tedesco con lo Sturm und Drang, nonché la poesia ossianica dello scozzese Macpherson fanno sì che in esso si concentrino le nuove istanze che troveranno la loro sintesi nell’opera Lyrical Ballads (Ballate liriche) pubblicate nel 1798 da William Wordsworth e Samuel Taylor Coleridge.

Benjamin_Robert_Haydon_-_Wordsworth_on_Helvellyn_-_WGA11208.jpgBenjamin Robert Haydon:  Wordsworth sull’Helvellyn

William Wordsworth nasce nel 1770 a Cockermouth, nella regione dei laghi (non per niente, sia lui che Coleridge vennero definiti, all’inizio per spregio, poeti “laghisti”). Da giovane viaggia in Francia, durante la Rivoluzione, ma rimane sfavorevolmente impressionato e quando ritorna in Inghilterra si ritira, insieme alla sorella, a vita appartata insieme alla sorella, consumando anche il rapporto amicale che aveva, da giovane, instaurato con Coleridge. Dopo il matrimonio si avvicina sempre più ad un liberalismo di tipo conservatore, aderendo, quindi in età matura, alla politica della regina Vittoria. Muore nel 1850.

Dalle Ballate liriche, prendiamo la fondamentale prefazione, opera di Wordsworth:

UNA POESIA DI SANGUE E CARNE

Lo scopo principale che ho avuto scrivendo queste poesie è stato quello di rendere interessanti gli avvenimenti di tutti i giorni, rintracciando in essi, fedelmente ma non forzatamente, le leggi fondamentali della nostra natura, specialmente per quanto riguarda il modo in cui noi associamo le idee in uno stato di eccitazione. La vita umile e rurale è stata scelta generalmente perché, in questa condizione, le passioni essenziali del cuore trovano un terreno più adatto alla loro maturazione, sono soggette a minori costrizioni, e parlano un linguaggio più semplice ed enfatico; perché in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza; perché il comportamento della vita rurale nasce da questi sentimenti elementari, e, dato il carattere di necessità delle attività rurali, è più facilmente compreso ed è più durevole; e, finalmente, perché in questa condizione le passioni degli uomini fanno tutt’uno con le forme stupende e imperiture della natura. Si è pure adottato il linguaggio di questi uomini, (certo purificato da quelle che appaiono le sue reali improprietà e da tutte le permanenti e ragionevoli cause di avversione o di disgusto), perché proprio essi comunicano continuamente con le cose migliori, dalle quali proviene originariamente la parte migliore della lingua, e anche perché, a causa della loro posizione sociale e della uniformità e ristrettezza dei loro rapporti interpersonali, soggiacendo in minor misura all’azione della vanità sociale, essi comunicano i loro sentimenti e le loro idee con espressioni semplici e non elaborate. (…) Le poesie di questo volume si distingueranno almeno per un elemento, cioè per il fatto che ciascuna di esse ha un nobile intento. Non dico d’aver ogni volta cominciato a scrivere con un chiaro progetto compiutamente delineato, ma credo che la mia propensione meditativa abbia a tal punto plasmato i miei sentimenti, che la mia descrizione di quegli oggetti che suscitano questi intensi sentimenti recherà con sé, assieme ad essi, un intento. Se in ciò mi sbaglio ho allora ben pochi diritti di chiamarmi un poeta. Tutta la buona poesia è infatti spontaneo traboccare di forti emozioni, ma benché ciò sia vero, nessuna poesia di un qualche valore fu mai scritta su un qualsivoglia argomento se non da un autore che, dotato di una sensibilità organica superiore al comune, avesse anche pensato a lungo e profondamente. Le nostre ininterrotte effusioni di sentimento sono infatti modificate e guidate dai nostri pensieri, che sono invero i rappresentanti di tutti i nostri passati sentimenti. (…) Dopo questo lungo discorso sui temi e sugli scopi di queste poesie, chiedo al lettore di poter informarlo di alcune particolarità che si riferiscono al loro stile, per non essere accusato, tra le tante cose, di aver fatto ciò che non ho mai cercato di fare. Ad eccezione di pochissimi esempi, il lettore non troverà personificazioni di idee astratte in questo volume. Non che io intenda criticare le personificazioni: esse possono essere certo adatte a taluni generi poetici, ma in queste poesie mi sono proposto di imitare, e per quanto mi è stato possibile di adottare, il linguaggio proprio degli uomini, e non penso che tali personificazioni facciano parte naturale di questo linguaggio. Voglio che il lettore rimanga in compagnia della carne e del sangue, convinto che così facendo posso meglio interessarlo. Ciò non significa affermare che altri poeti che battono strade diverse lo interessino meno: non voglio interferire con i loro propositi, voglio solo preferirne uno diverso e tutto personale. Si troveranno inoltre ben pochi esempi in questo libro di quella che viene normalmente chiamata « dizione poetica »: mi sono sforzato di evitarla tanto quanto altri poeti si sforzano di adottarla, e ho fatto questo per la ragione già detta, che è di avvicinare la mia lingua a quella degli uomini, e poi perché il piacere che mi sono riproposto di comunicare è di una natura molto differente da quello che molti suppongono lo scopo primario della poesia.

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E’ evidente che il testo di Wordsworth affronti il tema fondamentale del romanticismo e non solo quell’inglese: nel momento in cui egli afferma di voler “rendere interessanti gli avvenimenti di tutti i giorni“, afferma l’idea di una poesia anticlassica che pertanto abbia come punto di riferimento la realtà quotidiana. Ma compito del poeta non è quella di raffigurarla, ma di “leggerla” con parole dettate dall’emozione, dall’interiorità, per questo esse cercheranno di dare una visione “simbolica” della realtà stessa perché saranno frutto dell’esplosione dell’interiorità trasfigurata in parola; da qui la ricerca di una naturalità e quindi di una semplicità del lessico poetico in cui debba trasparire “il sangue e la carne del poeta” che, in quanto poeta, dovrà essere in grado di toccare “il sangue e la carne del lettore”.

Samuel Taylor Coleridge nasce nel 1772 e come il suo amico Wordsworth, condivide, in gioventù, l’idea di libertà sbandierata dalla Rivoluzione francese. Sposatosi nel 1794, insieme alla moglie nel 1880 si trasferisce con la moglie e Wordsworth nel Keswick, nel distretto dei laghi”. Si ammala e diventa dipendente dall’oppio: sotto l’effetto della droga scrive il Kubla Khan, poema visionario, ma non è lontano da esso nemmeno il suo capolavoro The rime of ancient mariner (La ballata del vecchio marinaio), in cui si narra come un vecchio marinaio, che ha ucciso senza motivo un misterioso albatro che gli faceva da guida, sia condannato a viaggiare in eterno, come l’ebreo errante, raccontando la vicenda che ha causato il naufragio e la morte dell’equipaggio della sua nave e la propria condanna senza fine.

La produzione poetica di Coleridge possiamo definirla maggiormente elaborata, da un punto di vista contenutistico, rispetto a quella di Wordsworth; già nel sua opera più importante il poeta inglese aveva dato sfogo ad ardite simbologie che mettevano a dura prova la capacità del lettore; più diretta è invece la sua produzione lirico-meditativa, che troviamo presente nella pubblicazione delle Lyrical Ballads

FROST AT MIDNIGHT

The Frost performs its secret ministry, 
Unhelped by any wind. The owlet’s cry 
Came loud—and hark, again! loud as before. 
The inmates of my cottage, all at rest, 
Have left me to that solitude, which suits 
Abstruser musings: save that at my side 
My cradled infant slumbers peacefully. 
‘Tis calm indeed! so calm, that it disturbs 
And vexes meditation with its strange 
And extreme silentness. Sea, hill, and wood, 
This populous village! Sea, and hill, and wood, 
With all the numberless goings-on of life, 
Inaudible as dreams! the thin blue flame 
Lies on my low-burnt fire, and quivers not; 
Only that film, which fluttered on the grate, 
Still flutters there, the sole unquiet thing. 
Methinks, its motion in this hush of nature 
Gives it dim sympathies with me who live, 
Making it a companionable form, 
Whose puny flaps and freaks the idling Spirit 
By its own moods interprets, every where 
Echo or mirror seeking of itself, 
And makes a toy of Thought. 

                      But O! how oft, 
How oft, at school, with most believing mind, 
Presageful, have I gazed upon the bars, 
To watch that fluttering stranger ! and as oft 
With unclosed lids, already had I dreamt 
Of my sweet birth-place, and the old church-tower, 
Whose bells, the poor man’s only music, rang 
From morn to evening, all the hot Fair-day, 
So sweetly, that they stirred and haunted me 
With a wild pleasure, falling on mine ear 
Most like articulate sounds of things to come! 
So gazed I, till the soothing things, I dreamt, 
Lulled me to sleep, and sleep prolonged my dreams! 
And so I brooded all the following morn, 
Awed by the stern preceptor’s face, mine eye 
Fixed with mock study on my swimming book: 
Save if the door half opened, and I snatched 
A hasty glance, and still my heart leaped up, 
For still I hoped to see the stranger’s face, 
Townsman, or aunt, or sister more beloved, 
My play-mate when we both were clothed alike! 

         Dear Babe, that sleepest cradled by my side, 
Whose gentle breathings, heard in this deep calm, 
Fill up the intersperséd vacancies 
And momentary pauses of the thought! 
My babe so beautiful! it thrills my heart 
With tender gladness, thus to look at thee, 
And think that thou shalt learn far other lore, 
And in far other scenes! For I was reared 
In the great city, pent ‘mid cloisters dim, 
And saw nought lovely but the sky and stars. 
But thou, my babe! shalt wander like a breeze 
By lakes and sandy shores, beneath the crags 
Of ancient mountain, and beneath the clouds, 
Which image in their bulk both lakes and shores 
And mountain crags: so shalt thou see and hear 
The lovely shapes and sounds intelligible 
Of that eternal language, which thy God 
Utters, who from eternity doth teach 
Himself in all, and all things in himself. 
Great universal Teacher! he shall mould 
Thy spirit, and by giving make it ask. 

         Therefore all seasons shall be sweet to thee, 
Whether the summer clothe the general earth 
With greenness, or the redbreast sit and sing 
Betwixt the tufts of snow on the bare branch 
Of mossy apple-tree, while the night-thatch 
Smokes in the sun-thaw; whether the eave-drops fall 
Heard only in the trances of the blast, 
Or if the secret ministry of frost 
Shall hang them up in silent icicles, 
Quietly shining to the quiet Moon.

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Samuel Taylor Coleridge

Il gelo officia il suo ministero segreto / non aiutato da alcun vento. Il grido  della giovane civetta / s’è fatto più alto, ascolta, ancora! alto come prima. / I degenti nella mia casa , tutti riposano, / mi hanno lasciato in questa solitudine / che si addice / alle meditazioni più astruse: tranne che al mio fianco /  il mio bambino cullato dorme pacifico. / C’è calma davvero! una calma che disturba / ed irrita la riflessione col suo strano / ed estremo silenzio. Mare, e collina, e bosco, / con tutte le innumerevoli cose che continuano a vivere,  / muti come sogni! La sottile fiamma blu / giace nel mio fuoco spento, e non guizza; / solo questa pellicola, che svolazza sulla griglia, / ancora svolazza lì, la sola cosa inquieta. / Credo che il suo movimento in questo silenzio della natura / le dia oscure corrispondenze con me che vivo, / facendone una forma amica / i cui minuscoli battiti e i capricci lo Spirito ozioso / interpreta secondo i suoi umori, ovunque / cercando eco o specchio di se stesso, e fa del pensiero giocattolo. // Ma, oh! / quante volte, quante volte, a scuola, con la più fiduciosa mente, piena di presagi, ho fissato le sbarre, / per vedere questo fluttuante straniero! E quante volte / con le labbra socchiuse/ avevo già sognato / il mio dolce luogo natale, e il vecchio campanile, / le cui campane, sola musica del povero, suonavano / da mattino a sera, in tutto il caldo giorno di mercato, / così dolcemente che mi agitavano e possedevano / con un selvaggio piacere, giungendo al mio orecchio / ancor più come articolati suoni delle cose a venire! / Così stavo a occhi aperti, Finché le placide cose, sognavo,  mi cullavano nel sonno, / e il sonno prolungava i miei sogni!  / E così rimuginavo tutto il mattino seguente, / spaventato dal viso severo del precettore, il mio occhio / fissato con finta attenzione sul mio libro che scivolava: / solo che se la porta si apriva a mezzo, / ed io gettavo / uno sguardo affrettato, e ancora il mio cuore sussultava, / perché ancora speravo di vedere il volto dello straniero / cittadino / o zia, o la sorella più amata/ la mia compagna di giochi / quando eravamo vestiti uguali! // Caro bambino che dormi cullato al mio fianco, / il cui respiro gentile, udito in questa profonda calma / riempie i vuoti sparpagliati, / e le momentanee pause del pensiero! / Il mio bellissimo bambino! Mi fa fremere il cuore / di tenera gioia il guardarti così, / e pensare che tu imparerai molte altre cose, / ed in molti altri scenari! Poiché io sono stato educato / nella grande città, chiuso in oscuri chiostri / e non vedevo nulla di bello tranne il cielo e le stelle. / Ma tu, bambino mio! / Vagherai come la brezza / per laghi e spiagge, sotto le rupi / di antichi monti, e sotto le nubi, / che riproducono  nella loro massa laghi e spiagge / e rupi montane:  così tu vedrai e sentirai  / le belle forme e i suoni intellegibili / di questo eterno linguaggio che il tuo Dio / emette, che dall’eternità insegna / se stesso in tutto, e tutte le cose in se stesso. / Grande maestro dell’universo! Lui modellerà il tuo spirito / e dando forma esso chiede. // Perciò ogni stagione sarà dolce per te, / sia che l’estate rivesta tutta la terra, / di verde o che il pettirosso si posi e canti / tra i fiocchi di neve sul ramo spoglio / del melo molle di muschio, mentre il vicino tetto di paglia / per disgelo fumiga al sole, sia che sgrondino gocciole / udite soltanto nella tregua della bufera / o che il segreto ministero del gelo / le sospenda in silenti ghiaccioli / quieti scintillando alla quieta luna.

Possiamo dividere in quattro parti corrispondenti alle stanze di cui è composto:

  1. Il poeta è seduto a fianco di Hartley, suo secondo figlio, mentre dorme. Fuori il gelo, all’interno il fuoco morente di un camino e intorno solo silenzio. La mente comincia a vagare attraverso le bellezze del mondo naturale e nel camino una scheggia che guizza e quindi vive allo stesso modo del pensiero del poeta.
  2. Il dualismo si ricrea nell’immaginazione riandando a lui bambino, giovane scolaro, che, disattento, riandava al rumore del paese, alle campane, al mercato e temeva lo sguardo severo del maestro di fronte alla sua “svagatezza”; a aspettava con ansia l’arrivo di uno zio o di una sorella che, infine, lo portasse via
  3. Anche il suo bambino imparerà: ma non nel chiuso di una città, ma all’aperto dove potrà immergersi nelle spirito creativo di Dio attraverso il pensiero che non solo sarà modellato, ma modellerà lui stesso il creato;
  4. Per questo il mondo sarà a lui benigno in ogni stagione e in ogni aspetto di cui la natura lo rivestirà.  

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the redbreast sit and sing / Betwixt the tufts of snow on the bare branch 
il pettirosso si posi e canti / tra i fiocchi di neve sul ramo spoglio

Il testo di Coleridge ci offre il suo contributo per una definizione dell’estetica romantica:  si tratta cioè della sua concezione di imagination (immaginazione) come potere creativo della poesia, distinta dalla fancy (fantasia). Per lui esistono due tipi di immaginazione: l’immaginazione primaria, cioè la facoltà creativa alla base dell’atto della percezione, ripetizione dell’atto divino della creazione; l’immaginazione secondaria, o poetica, che può modificare o ricreare la creazione di Dio usando i dati della percezione in nuovi rapporti, forme e schemi. La mente non solo è attiva, come dimostra l’immaginazione primaria, ma anche creativa di una nuova realtà.
Ora essendo l’immaginazione secondaria individuale, non può imitare fedelmente il mondo ma utilizzerà proprie categorie di pensiero; per questo due individui non potranno mai avere la stessa visione del mondo, che sarà sempre unica e originale. Questa concezione e definizione dell’immaginazione era sicuramente debitrice a Kant e ai filosofi idealisti Fichte e Schelling.

Nella letteratura inglese si suole indicare come poeti della seconda generazione romantica coloro i quali sono accumunati soprattutto da uno atteggiamento titanico e ribelle che li coinvolge non solo letterariamente ma anche biograficamente.

George Gordon Byron nasce nel 1778 da un aristocratico piuttosto stravagante, facendo trascorrere al giovane figlio un’infanzia non proprio felice. Sin da giovane si dedica alla letteratura, ma le prime opere non riescono ad ottenere il successo sperato. Insofferente verso la ristretta società inglese comincia a viaggiare fermandosi per più di un anno in Spagna ed in Oriente. Al ritorno pubblica Childe Harold’s pilgrimage (Il pellegrinaggio del giovane Aroldo) opera che lo rende celebre. Costretto ad abbandonare l’Inghilterra (si parla di un rapporto incestuoso con la sorella, che determinò anche la fine del suo matrimonio, celebrato un anno prima) lo porta in Italia, dove aggiunse altre parti al suo  capolavoro. Scrisse altre opere di minore importanza, ma fu viceversa importante il suo impegno per l’indipendenza greca; partito per combattere contro l’impero Ottomano, morì di febbri a Missoloungi (comune della Grecia meridionale). 

Aroldo, dopo una lunga vita di piaceri, intraprende un viaggio che lo porta dal Portogallo al Giura, dopo aver visitato la Spagna, Albania e Belgio. Esule volontario e ribelle appassionato, di volta in volta egli medita sulle situazioni e le memorie che i vari luoghi gli suggeriscono: la triste condizione di schiavitù in cui versa la Grecia, Napoleone a Waterloo, Rousseau e Jolie. Nel quarto canto il poeta dimessa la funzione del pellegrino parla in prima persona dell’Italia e dei suoi grandi: da Petrarca a Boccaccio, da Tasso a Scipione e Rienzi, contrapponendo il passato storico e splendente al presente indegno.   

L’EROE ROMANTICO

But soon he knew himself the most unfit
Of men to herd with Man; with whom he held
Little in common; untaught to submit
His thoughts to others, though his soul was quell’d
In youth by his own thoughts; still uncompell’d,
He would not yield dominion of his mind
To spirits against whom his own rebell’d;
Proud though in desolation; which could find
A life within itself, to breathe without mankind.

Where rose the mountains, there to him were friends;
Where roll’d the ocean, thereon was his home;
Where a blue sky, and glowing clime, extends,
He had the passion and the power to roam;
The desert, forest, cavern, breaker’s foam,
Were unto him companionship; they spake
A mutual language, clearer than the tome
Of his land’s tongue, which he would oft forsake
For Nature’s pages glass’d by sunbeams on the lake.

But in Man’s dwellings he became a thing
Restless and worn, and stern and wearisome,
Droop’d as a wild-born falcon with clipt wing,
To whom the boundless air alone were home:
Then came his fit again, which to o’ercome,
As eagerly the barr’d-up bird will beat
His breast and beak against his wiry dome 
Till the blood tinge his plumage, so the heat
Of his impeded soul would through his bosom eat.

Self-exil’d Harold wanders forth again,
With nought of hope left, but with less of gloom;
The very knowledge that he lived in vain,
That all was over on this side the tomb,
Had made Despair a smilingness assume,
Which, though ’twere wild, – as on the plunder’d wreck
When mariners would madly meet their doom
With draughts intemperate on the sinking deck,
Did yet inspire a cheer, which he forbore to check. 

lord-byron.jpgLord Byron

Ma si riconobbe presto come il meno adatto / tra gli uomini a entrare nel gregge dell’Uomo, col quale ebbe / poco in comune; incapace di sottoporre / i suoi pensieri ad altri, sebbene la sua anima fosse soffocata / in giovinezza dai suoi stessi pensieri; spontaneo ancora, / non voleva concedere il dominio della sua mente / a spiriti a cui il suo si ribellava; / orgoglioso nella sua solitudine, sapeva trovare / una vita in se stesso, per esistere fuori dall’umano. // Dove si elevano i monti, là aveva amici; / dove rombava l’oceano, là era la sua dimora; / dove un cielo s’offre azzurro, e un clima raggiante, / sentiva la passione e la forza di girovagare; / il deserto, la foresta, la caverna, la schiuma dei frangenti / gli facevano compagnia; parlavano / un linguaggio comune, più limpido del volume / della lingua della sua terra, a cui spesso rinunciava / per le pagine della Natura dai raggi del sole riflesse sul lago. // […] //  Ma nella dimora dell’Uomo divenne una cosa / irrequieta e estenuata, e severo e tedioso, / disperato come un falcone nato libero che si spezzi le ali // al quale solo l’aria illimitata fosse dimora: // gli tornò allora quel parossismo e per superarlo, // come l’uccello in gabbia suole battere con ardore / il petto e il rostro contro la volta metallica / finché il sangue non gli lorda il piumaggio, così la collera / della sua anima reclusa gli devastava il petto. // Aroldo esule volontario vagabonda ancora, / di ogni speranza privo, ma con minore tristezza; / la stessa consapevolezza di vivere invano, / giacché tutto era compiuto al di qua della tomba, /  aveva fatto assumere alla Disperazione un’aria sorridente, /  sebbene fosse feroce – come sul relitto saccheggiato / quando i marinai resi folli vanno incontro al loro destino /  con sorsi sfrenati sul ponte che affonda – /  pure ispirava un’allegrezza, che lui si asteneva dal contenere.

Analizziamo il passo attraverso l’analisi di Barbari-Squarotti:

  • Un Romanticismo aristocratico: nella prima strofa, Byron offre un ritratto di Aroldo che vive da solo, separato dal gregge dell’Uomo. Orgoglioso, Aroldo vive nella tipica condizione di isolamento dell’individuo romantico, già prefigurata da Alfieri in Italia, ma ne accentua un aspetto: il disprezzo verso i propri simili, espresso attraverso il termine gregge.
  • La natura amica: nella seconda strofa, Byron rivela i veri amici e interlocutori dell’uomo romantico: la natura nei suoi paesaggi più solitari ed estremi (i monti, l’oceano, il deserto, la foresta, la caverna). Prevale qui il tipico tema romantico della solitudine nella natura, che rispecchia le passioni umane. Da notare la metafora del libro della natura, le cui pagine sono paesaggi riflessi nell’acqua del lago.
  • Byron e Baudelaire: nella strofa successiva, Byron descrive la condizione di sofferenza dell’eroe romantico nella vita comune. Egli soffre nella quotidianità; la sua condizione è espressa dalla similitudine dell’uccello in gabbia che si scaraventa contro le sbarre fino a sanguinare (Charles Baudelaire, precursore del Decadentismo, dopo la seconda metà del secolo, nella raccolta I fiori del male, attribuirà una condizione simile all’albatro, simbolo del poeta). La soluzione è fuggire, vagabondare per il mondo, sempre oppresso e infelice, per evitare la disperazione, personificata con un sorriso feroce e con il paragone dei marinai che si ubriacano – per dimenticare l’angoscia – sulla nave che affonda, simbolo dell’esistenza umana.

800px-Joseph_Mallord_William_Turner_-_Childe_Harold's_Pilgrimage_-_1995-16_-_Auckland_Art_Gallery.jpgJoseph Mallord William Turner – Childe Harold’s Pilgrimage

Percy Bysshe Shelley nasce nel 1792 da una ricca e importante famiglia inglese, con la quale ruppe a seguito di un matrimonio con la sedicenne Harriet Westbrook, senza mai più riallacciare i rapporti. Si lega a Godwin, di cui sposerà la figlia, dopo il suicidio di Harriet, accostandosi così a teorie piuttosto razionali ed ateisti. Si trasferisce dapprima in Svizzera, dove incontrerà Byron, quindi in Italia, pubblicando le sue opere più importanti, come I Cenci, o il dramma lirico Il Prometeo incatenato. Muore annegato nel golfo di La Spezia, di ritorno di una gita in barca, nel 1822. 

800px-Percy_Bysshe_Shelley_by_Alfred_Clint.jpgAlfred Clint: Percy Bysshe Shelley

L’Ode al vento occidentale, una delle liriche più importanti dell’intero romanticismo europeo, viene pubblicata postuma.

ODE TO THE WEST WIND

I
O wild West Wind, thou breath of Autumn’s being, 
Thou, from whose unseen presence the leaves dead 
Are driven, like ghosts from an enchanter fleeing, 

Yellow, and black, and pale, and hectic red, 
Pestilence-stricken multitudes: O thou, 
Who chariotest to their dark wintry bed 

The winged seeds, where they lie cold and low, 
Each like a corpse within its grave, until 
Thine azure sister of the Spring shall blow 

Her clarion o’er the dreaming earth, and fill 
(Driving sweet buds like flocks to feed in air) 
With living hues and odours plain and hill: 

Wild Spirit, which art moving everywhere; 
Destroyer and preserver; hear, oh hear! 

II 

Thou on whose stream, mid the steep sky’s commotion, 
Loose clouds like earth’s decaying leaves are shed, 
Shook from the tangled boughs of Heaven and Ocean, 

Angels of rain and lightning: there are spread 
On the blue surface of thine aëry surge, 
Like the bright hair uplifted from the head 

Of some fierce Maenad, even from the dim verge 
Of the horizon to the zenith’s height, 
The locks of the approaching storm. Thou dirge 

Of the dying year, to which this closing night 
Will be the dome of a vast sepulchre, 
Vaulted with all thy congregated might 

Of vapours, from whose solid atmosphere 
Black rain, and fire, and hail will burst: oh hear! 

III 
Thou who didst waken from his summer dreams 
The blue Mediterranean, where he lay, 
Lull’d by the coil of his crystalline streams, 

Beside a pumice isle in Baiae’s bay, 
And saw in sleep old palaces and towers 
Quivering within the wave’s intenser day, 

All overgrown with azure moss and flowers 
So sweet, the sense faints picturing them! Thou 
For whose path the Atlantic’s level powers 

Cleave themselves into chasms, while far below 
The sea-blooms and the oozy woods which wear 
The sapless foliage of the ocean, know 

Thy voice, and suddenly grow gray with fear, 
And tremble and despoil themselves: oh hear! 

IV 

If I were a dead leaf thou mightest bear; 
If I were a swift cloud to fly with thee; 
A wave to pant beneath thy power, and share 

The impulse of thy strength, only less free 
Than thou, O uncontrollable! If even 
I were as in my boyhood, and could be 

The comrade of thy wanderings over Heaven, 
As then, when to outstrip thy skiey speed 
Scarce seem’d a vision; I would ne’er have striven 

As thus with thee in prayer in my sore need. 
Oh, lift me as a wave, a leaf, a cloud! 
I fall upon the thorns of life! I bleed! 

A heavy weight of hours has chain’d and bow’d 
One too like thee: tameless, and swift, and proud. 


Make me thy lyre, even as the forest is: 
What if my leaves are falling like its own! 
The tumult of thy mighty harmonies 

Will take from both a deep, autumnal tone, 
Sweet though in sadness. Be thou, Spirit fierce, 
My spirit! Be thou me, impetuous one! 

Drive my dead thoughts over the universe 
Like wither’d leaves to quicken a new birth! 
And, by the incantation of this verse, 

Scatter, as from an unextinguish’d hearth 
Ashes and sparks, my words among mankind! 
Be through my lips to unawaken’d earth 

The trumpet of a prophecy! O Wind, 
If Winter comes, can Spring be far behind?

I. O tu vento selvaggio occidentale, alito / della vita d’Autunno, oh presenza invisibile da cui / le foglie morte sono trascinate, come spettri in fuga / da un mago incantatore, gialle e nere, / pallide e del rossore della febbre, moltitudini / che il contagio ha colpito: oh tu che guidi / i semi alati ai loro letti oscuri, / dell’inverno in cui giacciono freddi e profondi / come una spoglia sepolta nella tomba, / finché la tua azzurra sorella della Primavera / non farà udire la squilla sulla terra in sogno / e colmerà di profumi e di colori vividi / il colle e la pianura, nell’aria i lievi bocci conducendo / simili a greggi al pascolo; oh Spirito selvaggio, / tu che dovunque t’agiti, e distruggi e proteggi: ascolta, ascolta! //  II. Tu nella tua corrente, nel tumulto / del cielo a precipizio, le nuvole disperse / sono spinte qua e là come foglie appassite / scosse dai rami intricati del Cielo e dell’Oceano, / angeli della pioggia e del fulmine, e si spargono / là sull’azzurra superficie delle tue onde d’aria / come la fulgida chioma che s’innalza / sopra la testa d’una fiera Monade, dal limite / fioco dell’orizzonte fino alle altezze estreme dello zenit, / capigliatura della tempesta imminente. Canto funebre / tu dell’anno che muore, al quale questa notte che si chiude / sarà la cupola del suo sepolcro immenso, sostenuta a volta, / da tutta la potenza riunita dei vapori / dalla cui densa atmosfera esploderà una pioggia / nera con fuoco e grandine: oh ascolta! // III. Tu che svegliasti dai loro sogni estivi / le acque azzurre del Mediterraneo, dove / si giaceva cullato dal moto dei flutti cristallini / accanto a un’isola tutta di pomice del golfo / di Baia e vide in sonno gli antichi palazzi e le torri / tremolanti nel giorno più intenso dell’onda, sommersi / da muschi azzurri e da fiori dolcissimi al punto / che nel descriverli il senso viene meno! / Tu per il cui sentiero la possente / superficie d’Atlantico si squarcia / e svela abissi profondi dove i fiori / del mare e i boschi fradici di fango, che indossano / le foglie senza linfa dell’Oceano, conoscono / la tua voce e si fanno all’improvviso grigi / per la paura e tremano e si spogliano: oh, ascolta! // IV. Fossi una foglia appassita che tu potessi portare; / fossi una rapida nuvola per inseguire il tuo volo; / un’onda palpitante alla tua forza, e potessi / condividere tutto l’impulso della tua potenza, / soltanto meno libero di te, oh tu che sei incontrollabile! / Potessi essere almeno com’ero nell’infanzia, compagno / dei tuoi vagabondaggi alti nei cieli, come quando / superare il tuo rapidi passo celeste / sembrava appena un sogno; non mi rivolgerei / a te con questa preghiera nella mia dolente / necessità. Ti prego, levami come un’onda, come / una foglia o una nuvola. Cado / sopra le spine della vita e sanguino! Un grave / peso di ore ha incatenato, incurvato / uno a te troppo simile: indomito, veloce ed orgoglioso. // V. Fa’ di me la tua cetra, com’è della foresta; che cosa importa se le mie foglie cadono / come le sue! Il tumulto / delle tue forti armonie leverà a entrambi un canto / profondo e autunnale, e dolcemente triste. / Che tu sia dunque il mio spirito, o Spirito fiero! / Spirito impetuoso, che tu sia me stesso! / Guida i miei morti pensieri per tutto l’universo / come foglie appassite per darmi una nascita nuova! / E con l’incanto di questi miei versi disperdi / come da un focolare non ancora spento, / le faville e le ceneri, le mie parole tra gli uomini! / E alla terra che dorme, attraverso il mio labbro / tu sia la tromba d’una profezia! Oh, Vento, / se viene l’Inverno, potrà la Primavera esser lontana?  

Il brano di Shelley può essere strutturato in due parti distinte, corrispondenti la prima alle stanze I – III, l’altra alle due rimanenti. Ciò è chiaramente indicato dal finale del distico di ogni stanza, il cui verso si rivolge al vento usando la seconda persona invitandolo ad ascoltare la voce del poeta che canta la sua forza tumultuosa e distruttrice, l’energie vitale che lo contraddistingue e che dà vita al grandioso mutare del tempo. Nelle ultime due stanze il poeta desidera diventare esso stesso voce, come il vento, capace di emularne la forza per la preparazione di un’eterna primavera. Sembra quasi che Shelley voglia metaforizzare con il vento i moti rivoluzionari che in quel periodo attraversavano l’Europa per preparare un futuro di libertà indicato con la domanda retorica in cui seppur lontana verrà la Primavera, cioè la libertà per i popoli.

800px-Sir_Henry_Raeburn_-_Portrait_of_Sir_Walter_Scott.jpgHerny Raeburn : Sir Walter Scott

Non si può terminare un discorso sul romanticismo inglese senza parlare della narrativa per la eco che esso ebbe sul futuro del romanzo in Europa: basti pensare che il nostro I promessi sposi, nasce dalla suggestione che Manzoni subì dalla lettura dell’Ivanhoe di Walter Scott.

Walter Scott (1771- 1832) è un scrittore scozzese, in principio dedito all’attività dell’avvocatura. Spinto da amore per la letteratura tedesca, dapprima si fece traduttore, conoscendone bene la lingua, e quindi scrivendo poemi narrativi ottenendo grande successo. Grazie a ciò divenne ricco, ma con abile capacità imprenditoriale seppe rinnovarsi quando il suo fare letterario venne oscurata dalla presenza di Byron; si dedicò pertanto alla narrativa, allontanandosi dal romanzo gotico e, inserendo l’idea di avventura già presente nell’opera di Defoe, in quello che verrà definito romanzo storico. La sua opera maggiormente rappresentativa è l’Ivanhoe (1820), che rappresenta appieno le istanze romantiche vigenti allora in Inghilterra e nella stessa Europa. 

La vicenda si colloca nell’Inghilterra del XII secolo sullo sfondo dei contrasti tra sassoni e normanni. Wilfred di Ivanhoe, figlio di Cedric, ama lady Rowena, pupilla del padre, e ne riamato. Ma Cedric ha deciso di dare Rowena in moglie ad Athelstane di Coningsburgh per riportare una stirpe sassone sul trono, e perciò bandisce Ivanhoe, legato da amicizia con il re normanno Riccardo Cuor di Leone. Il giovane va crociato al seguito di Riccardo. Ma in assenza del re, Giovanni, suo fratello, usurpa il trono. Al ritorno dei crociati Ivanhoe, al gran torneo di Ashby-de-la-Zouche batte tutti i campioni dell’usurpatore. Ma i nobili normanni lo fanno prigioniero con Cedric e Rowena, Athelstane, la bella Rebecca e il padre di lei Isaac: vengono liberati da re Riccardo e Robin Hood, alla testa di sassoni e fuorilegge. Ivanhoe e Rowena si sposano: Rebecca, che ha sempre amato Ivanhoe, lascia l’Inghilterra col padre.  

LA DESCRIZIONE DI GURTH E WAMBA
CAPITOLO I

Il sole stava tramontando su di una erbosa radura di quella foresta che abbiamo citato all’inizio del capitolo*. Centinaia di querce frondose, dal tronco corto e dai grandi rami, che forse avevano visto la marcia trionfale dei soldati romani, allungavano le braccia nodose su un folto tappeto di deliziosa erba verde. In alcuni punti le querce si alternavano ai faggi, agli agrifogli, a un sottobosco di piante diverse, così folto da intercettare i raggi obliqui del sole al tramonto; in altri, le querce si distaccavano le une dalle altre formando quei viali lunghi e spaziosi nel cui intrico l’occhio ama perdersi, mentre l’immaginazione li trasforma in sentieri verso luoghi ancor più selvaggi di silvestre solitudine. Qui i rossi raggi del sole inviavano una luce rotta e incolore che cadeva sui rami spezzati e sui tronchi muschiosi degli alberi, illuminando di macchie brillanti quelle parti di prato che riuscivano a raggiungere. Nel mezzo di questa radura c’era un ampio spazio aperto che sembrava esser stato destinato nei tempi antichi ai riti della superstizione druidica. Infatti, sulla cima di una collinetta, così regolare da sembrare artificiale, restava ancora parte di un cerchio di grosse dimensioni formato da massi rozzi e irregolari. Sette erano ancora eretti, gli altri erano stati spostati dalle loro sedi, probabilmente dallo zelo di qualche convertito al cristianesimo, e giacevano lì vicino o sul fianco della collina. Un solo grosso masso era rotolato fino in fondo e, bloccando il corso di un ruscelletto che scorreva placidamente ai piedi dell’altura, dava origine a un debole mormorio in quel placido e altrimenti silenzioso rivolo d’acqua. Completavano il paesaggio due figure umane che con le loro vesti e il loro aspetto ben si accordavano al carattere rustico e selvaggio tipico a quei tempi delle zone boscose del West-Riding, nello Yorkshire. Il più anziano dei due aveva un aspetto duro, primitivo e selvaggio. Il suo vestito era estremamente semplice: una giacca chiusa, con maniche, di pelle conciata, sulla quale originariamente doveva esserci stato il pelo, ma così consunta che sarebbe stato difficile distinguere dai ciuffi rimasti a quale animale fosse appartenuto. Questo abito primitivo lo copriva dalla gola alle ginocchia e svolgeva contemporaneamente tutte le funzioni di ogni altro capo di vestiario. L’apertura al collo era grande quanto bastava a far passare la testa; se ne poteva dedurre che lo si indossava facendolo scivolare dalla testa e sulle spalle, come una camicia moderna o un’antica cotta di maglia. Dei sandali, legati da lacci di pelle di cinghiale, gli proteggevano i piedi, e una fascia di cuoio sottile era avvolta intorno alle gambe fino al polpaccio, lasciando scoperte le ginocchia all’uso dei montanari scozzesi. Affinché aderisse il più possibile al corpo, la giacca era stretta in vita da una larga cintura di cuoio chiusa da una fibbia di bronzo; a un lato di questa era appesa una sorta di bisaccia e all’altro un corno di montone fornito di un’imboccatura per poterlo suonare. Nella stessa cintura era infilato uno di quei coltelli lunghi, larghi appuntiti e a due tagli, dal manico di corno, che erano fabbricati nella zona e venivano fin da allora chiamati coltelli di Sheffield. L’uomo non portava nulla sulla testa, che era riparata esclusivamente dai folti capelli arruffati, bruciati dal sole a tal punto da apparire di color rosso ruggine in contrasto con la barba piuttosto giallastra che gli cresceva sulle guance. Un’ultima parte del suo abbigliamento resta da descrivere ed è troppo importante per essere tralasciata: un anello di bronzo, simile al collare di un cane, ma senza apertura, ben saldato intorno al collo, abbastanza largo da non impedirgli la respirazione ma sufficientemente stretto da non poter essere tolto salvo che per mezzo di una lima. Su questo strano collare era incisa, in caratteri sassoni, la seguente iscrizione: «Gurth, figlio di Beowulph, è nato schiavo di Cedric di Rotherwood». Accanto a questo guardiano di porci, poiché tale era l’occupazione di Gurth, era seduto su uno dei massi druidici caduti a terra un uomo apparentemente più giovane d’una decina d’anni, il cui abito, sebbene simile nella forma a quello del compagno, era di materiale migliore e di fattura più bizzarra. La giacca era di un brillante color porpora e su di essa si era cercato di dipingere grottesche decorazioni in diverse tinte. Oltre alla giacca portava un corto mantello che gli arrivava appena a metà coscia, di stoffa rossa, pieno di macchie, bordato in giallo brillante; e poiché poteva passarlo da una spalla all’altra o, volendo, avvolgerselo intorno l’ampiezza a confronto della scarsa altezza ne faceva un indumento alquanto stravagante. Sulle braccia portava dei sottili braccialetti d’argento e al collo un collare dello stesso metallo con la scritta: «Wamba, figlio di Witless, è schiavo di Cedric di Rotherwood». 

* Il romanzo viene introdotto da una premessa nella quale l’autore informa il lettore del luogo in cui si svolge la vicenda (la foresta presso Sheffield, nello Yorkshire)

Il testo presentato offre la tecnica con cui Scott opera per la stesura del suo romanzo, la fusione tra romance (“narrazione fittizia in prosa o in versi, il cui interesse s’impernia su fatti inconsueti e meravigliosi”) e novel (“narrazione fittizia che differisce dal romance perché i fatti vengono adattati al corso ordinario delle vicende umane e alla moderna situazione della società”). Tale fusione erano state presentate in un saggio dello stesso scrittore scozzese nel Saggio sul romance del 1824 e da cui abbiamo tratto le citazioni. Tale tecnica richiede uno scrittore onnisciente in grado di guidare il lettore non solo nei meandri della storia in sé, ma anche nella descrizione del modo di vestire e di pensare dei personaggi. In questo passo colpisce la capacità analitica in cui il modo con cui l’autore ci presenta il modo di vestire dei due, voglia offrirci anche il loro quadro sociale e “storico”.

30339586409.jpgEdizione italiana dell’Ivanhoe

IL TORNEO
CAPITOLO XII

Non appena Rowena fu seduta, uno squillo di trombe parzialmente soffocato dalle grida della folla, salutò la sua nuova dignità. Intanto il sole caldo e luminoso splendeva sulle lucenti armature dei cavalieri delle due fazioni che si affollavano ai lati opposti del recinto e discutevano vivacemente sul miglior modo di condurre il combattimento e di sostenere lo scontro.
Poi gli araldi ordinarono il silenzio per ripetere le regole del torneo. Queste erano state calcolate in modo da ridurre in parte i pericoli del combattimento, precauzione tanto più necessaria in quanto lo scontro si sarebbe svolto con spade affilate e lance appuntite.
Ai campioni era proibito di usare la spada di punta e si dovevano limitare a menare colpi. Fu annunciato che potevano usare la mazza o l’ascia di guerra a piacere, ma il pugnale era un’arma proibita. Un cavaliere disarcionato poteva riprendere il combattimento a piedi con qualsiasi altro della fazione avversaria che si trovasse nelle stesse condizioni, ma i cavalieri a cavallo, in questo caso, non dovevano attaccarlo. Quando un cavaliere riusciva a spingere l’avversario ai confini del campo fino a fargli toccare la palizzata col corpo o con le armi, questi era obbligato a dichiararsi vinto e la sua armatura e il suo cavallo passavano a disposizione del vincitore. A un cavaliere che fosse stato così sopraffatto non era più concesso di prendere parte alla lotta. Se un combattente veniva buttato a terra e non era in grado di rialzarsi, il suo scudiero o paggio poteva entrare nel campo e portar fuori dalla mischia il padrone, ma in tal caso il cavaliere era considerato vinto e le sue armi e il suo cavallo erano dichiarati confiscati. Il combattimento doveva aver termine non appena il principe Giovanni avesse abbassato il bastone di comando, questa precauzione veniva di solito presa per evitare l’inutile spargimento di sangue causato dal protrarsi di uno sport tanto violento. Il cavaliere che avesse infranto le regole del torneo o comunque trasgredito quelle dell’onore cavalleresco poteva essere privato delle armi ed essere messo, con lo scudo rovesciato, a cavalcioni della palizzata ed esposto al pubblico disprezzo come punizione per un comportamento indegno di un cavaliere. Gli araldi conclusero queste avvertenze esortando ogni buon cavaliere a fare il suo dovere e a meritare il favore della regina della bellezza e dell’amore.
Fatto questo annuncio, gli araldi ritornarono ai loro posti. I cavalieri, entrando in un lungo corteo dai due lati del campo si disposero in doppia fila, gli uni esattamente di fronte agli altri, con il capo di ciascuna fazione al centro della prima fila; questi tuttavia andarono a occupare i loro posti solo dopo aver sistemato con cura le file del proprio gruppo e aver controllato la posizione di ciascuno.
Era una scena stupenda e al tempo stesso inquietante vedere tanti valorosi cavalieri a cavallo di ottimi destrieri e splendidamente armati, pronti ad affrontare uno scontro così formidabile, seduti sulle loro selle come tanti pilastri di ferro, in attesa del segnale d’inizio con lo stesso ardore dei loro generosi cavalli che, nitrendo e scalpitando, davano segni d’impazienza.
I cavalieri tenevano ancora alzate le loro lunghe lance, e le punte lucenti di queste scintillavano al sole mentre le banderuole di cui erano ornate sventolavano sopra le piume degli elmi. Rimasero in questa posizione mentre i marescialli di campo ispezionavano le file con la massima attenzione per controllare che ciascuna fazione avesse né più né meno del numero di uomini prestabilito. Il conteggio risultò esatto. Allora i marescialli si ritirarono dal campo e William de Wyvil con voce tonante pronunciò le parole del segnale: Laissez aller! Mentre parlava le trombe squillarono, le lance dei campioni furono immediatamente abbassate e messe in resta, gli sproni furono conficcati nei fianchi dei cavalli, e le due prime file di ciascun gruppo si slanciarono l’una contro l’altra a gran galoppo scontrandosi a metà campo con un urto il cui frastuono fu sentito a un miglio di distanza. La fila successiva delle due fazioni avanzò a passo più lento per aiutare i cavalieri che erano stati sopraffatti e per approfittare del successo dei vincitori. Non fu possibile vedere immediatamente i risultati dello scontro poiché la polvere sollevata dal calpestio di tanti cavalli aveva offuscato l’aria, ci volle un minuto perché gli ansiosi spettatori potessero vederne l’esito. Quando il campo divenne visibile, metà dei cavalieri di ciascun gruppo erano a terra disarcionati: alcuni dall’abilità della lancia del loro avversario, altri dalla mole e dalla potenza dell’antagonista che aveva gettato a terra cavallo e cavaliere alcuni giacevano sul terreno come se non dovessero rialzarsi mai più, altri si erano rimessi in piedi e affrontavano avversari nelle stesse condizioni, altri ancora, da entrambe le parti, erano feriti in modo tale da non poter proseguire il combattimento e cercavano di fermare il sangue con le sciarpe e di uscire dalla mischia. I cavalieri ancora a cavallo le cui lance si erano quasi tutte spezzate nella violenza dello scontro, si battevano Walter Scott – Ivanhoe 123 www.writingshome.com da presso con le spade, lanciando grida di guerra e scambiandosi colpi, come se l’onore e la vita dipendessero dall’esito del combattimento. La mischia aumentò ulteriormente con l’arrivo della seconda fila di ciascun gruppo che, agendo da riserva, si era precipitata in aiuto dei compagni. I seguaci di Brian de Bois-Guilbert gridavano: «Ah, Beau-séant! Beauséant! Per il Tempio! Per il Tempio!». La fazione avversa gridava in risposta: «Desdichado! Desdichado!», grido di guerra che avevano preso dal motto sullo scudo del loro condottiero.
I campioni si andavano così scontrando con estrema violenza e con alterne fortune, e la marea della battaglia sembrava spostarsi ora verso il lato meridionale ora verso quello settentrionale del campo, a seconda che prevalesse l’una o l’altra fazione. Frattanto il fragore dei colpi e le grida dei combattenti si confondevano paurosamente con gli squilli delle trombe e soffocavano i lamenti di coloro che erano caduti andando a rotolare senza protezione alcuna sotto le zampe dei cavalli. Le splendide armature dei combattenti erano ormai sporche di polvere e di sangue e cedevano sotto i colpi di spada e di ascia. I vivaci piumaggi, strappati dai cimieri, volavano nell’aria come fiocchi di neve. Tutto ciò che era bello ed elegante nell’abbigliamento marziale era scomparso, e quello che ora si vedeva non ispirava altro che terrore o compassione.
Eppure tanta è la forza dell’abitudine che non solo gli spettatori più grossolani che sono naturalmente attratti dagli spettacoli orripilanti, ma anche le dame di rango che affollavano le tribune seguivano il combattimento con eccitato interesse e senza desiderio alcuno di distogliere lo sguardo da uno scenario così terribile. Qua e là, in effetti, capitava di vedere una bella guancia impallidire, di udire un grido soffocato, quando un amante, un fratello o un marito venivano buttati giù da cavallo. Ma in generale le dame incoraggiavano i combattenti non solo battendo le mani e agitando veli e fazzoletti, ma anche esclamando: «Ottima lancia! Buona spada!», allorché qualche buon colpo veniva portato a segno sotto i loro occhi.
Se tale era l’interesse del gentil sesso per questo gioco sanguinario, ancora più comprensibile è quello degli uomini. Si manifestava con forti acclamazioni a ogni mutamento della sorte, e gli occhi di tutti erano così polarizzati sul campo che gli spettatori sembravano essi stessi dare e ricevere i colpi che con tanta abbondanza venivano inferti. E durante ogni pausa si sentiva la voce degli araldi che esclamavano: «Combattete, valorosi cavalieri! L’uomo muore, ma la gloria vive! Combattete! Meglio la morte che la sconfitta! Combattete, valorosi cavalieri! Occhi luminosi osservano le vostre gesta!». 
In mezzo alle alterne vicende del combattimento, gli occhi di tutti cercavano di rintracciare i capi delle due fazioni, i quali, nel folto della mischia, incoraggiavano i compagni con la voce e con l’esempio. Entrambi davano grandi prove di coraggio, e né Bois-Guilbert né il cavaliere Diseredato avevano trovato nelle file avversarie un campione che potesse essere loro pari.
Ripetutamente avevano cercato di affrontarsi, spinti da reciproco astio e consapevoli che la caduta dell’altro poteva essere decisiva per la vittoria. Ma la folla e la confusione erano tali che durante la prima parte del combattimento i loro sforzi per incontrarsi erano stati vani, e ripetutamente erano stati separati dalla furia dei seguaci ansiosi di farsi onore misurando la propria forza con il capo della fazione avversaria. Ma quando il campo cominciò a spopolarsi di coloro che, in ciascuna fazione, si erano dichiarati vinti o erano stati spinti ai margini del recinto o erano comunque impossibilitati a continuare la lotta, il Templare e il cavaliere Diseredato si trovarono alla fine di fronte con tutta la furia che un astio mortale unito a una rivalità d’onore può suscitare. Tale era l’abilità di ciascuno nel parare e nel colpire che gli spettatori proruppero in un grido involontario e unanime che esprimeva la loro gioia e la loro ammirazione.
Ma in quel momento la fazione del cavaliere Diseredato stava avendo la peggio; il braccio gigantesco di Front-de-Boeuf da un lato e la forza poderosa di Athelstane dall’altro abbattevano e disperdevano coloro che li affrontavano direttamente. Quasi nello stesso momento parve che entrambi, trovandosi liberi da avversari, decidessero che la cosa migliore per dare un vantaggio decisivo al loro gruppo fosse aiutare il Templare nello scontro con il rivale. Perciò, voltati i cavalli nello stesso istante, il normanno spronò da una parte contro il cavaliere Diseredato e il sassone dall’altra. Sarebbe stato assolutamente impossibile per il cavaliere Diseredato sostenere un attacco così impari e inaspettato se non fosse stato messo in guardia dal grido unanime degli spettatori che non potevano non prendere a cuore un campione esposto a tale svantaggio.
«Attento! Attento! Cavaliere Diseredato!», gridavano tutti, tanto che questi si accorse del pericolo e, dopo aver rifilato un duro colpo al Templare, fece indietreggiare il cavallo in modo da evitare la carica di Athelstane e di Front-de-Boeuf. I due cavalieri, visto il loro tentativo così vanificato, irruppero da opposte direzioni tra l’oggetto del loro attacco e il Templare, rischiando quasi di far scontrare i cavalli prima di poterne frenare la corsa. Quando ne ebbero ripreso il controllo, li fecero voltare, e tutti e tre si unirono nello scopo di abbattere il cavaliere Diseredato.
Nulla avrebbe potuto salvarlo, salvo la forza straordinaria e la mobilità del nobile destriero che aveva vinto il giorno precedente.
Ciò gli fu di grande vantaggio poiché il cavallo di Bois-Guilbert era ferito e quelli di Front-de-Boeuf e di Athelstane erano entrambi sfiniti dal peso dei loro giganteschi padroni, ricoperti da capo a piedi delle armature, e dalle fatiche del giorno precedente. La sua bravura di cavaliere e la destrezza del nobile animale che montava consentirono al cavaliere Diseredato di tenere a bada i tre avversari per alcuni minuti, girandosi e roteando con l’agilità di un falcone in volo tenendo il più possibile separati i nemici, attaccando ora l’uno ora l’altro e menando fendenti con la spada senza rimanere ad attendere quelli a lui diretti. Ma benché il campo risuonasse degli applausi alla sua bravura era evidente che alla fine sarebbe stato sopraffatto, e i nobili che attorniavano il principe Giovanni lo implorarono tutti di abbassare il bastone e di salvare un cavaliere così coraggioso dalla sventura di essere sconfitto dal numero.
«No, per la luce del cielo!», rispose il principe; «questo giovanotto, che nasconde il suo nome e disprezza le nostre offerte d’ospitalità, ha già guadagnato un premio e può ben lasciare il turno agli altri». Ma mentre così parlava, un avvenimento inatteso cambiò le sorti della giornata.
C’era nelle file del cavaliere Diseredato un guerriero in armatura nera, in sella a un cavallo nero di grossa corporatura, alto, forte e potente nell’aspetto quanto il cavaliere che lo montava. Questi, che non aveva alcuna insegna sullo scudo aveva fino a quel momento mostrato scarso interesse per l’esito del combattimento e aveva respinto con apparente facilità gli avversari che l’avevano attaccato, senza tuttavia sfruttare il suo vantaggio e senza assalire nessuno. In poche parole, aveva fino allora recitato la parte dello spettatore piuttosto che quella di partecipante al torneo, fatto che gli aveva procurato da parte del pubblico il nome di Le Noir Fainéant, Il Nero Fannullone.
Improvvisamente, allorché vide il capo della sua fazione tanto duramente attaccato, questo cavaliere sembrò liberarsi dell’apatia e, dando di sprone al cavallo che era ancora fresco, si precipitò in suo aiuto come un fulmine, gridando con voce che sembrava uno squillo di tromba: «Desdichado, alla riscossa!». Appena in tempo, poiché, mentre il cavaliere Diseredato incalzava il Templare, Front-de-Boeuf gli si era avvicinato con la spada alzata. Ma prima che questa scendesse, il Cavaliere Nero gli assestò un colpo in testa che scivolando sul lucido elmo, si abbatté con violenza sul frontale del cavallo, e Front-deBoeuf rotolò a terra insieme al destriero, entrambi tramortiti dalla violenza dell’urto. Poi Le Noir Fainéant girò il cavallo verso Athelstane di Coningsburgh, e, siccome gli si era spezzata la spada nell’incontro con Front-de-Boeuf, strappò di mano al massiccio sassone l’ascia di guerra e, da combattente esperto nell’uso di quest’arma, gli diede un tal colpo sul cimiero che anche Athelstane rimase a terra privo di sensi. Compiuta questa duplice impresa, per la quale fu molto applaudito proprio perché del tutto inaspettata da parte sua, il cavaliere sembrò riprendere lo stato d’indolenza precedente e se ne ritornò lentamente verso il lato settentrionale della lizza lasciando il suo capo ad affrontare come meglio poteva Brian de Bois-Guilbert. Ma la cosa non era più così difficile come prima. Il cavallo del Templare aveva perso molto sangue e cedette alla carica del cavaliere Diseredato. Brian de Bois-Guilbert ostacolato dalle staffe da cui non riusciva a liberare il piede, rotolò sul campo. Il suo avversario saltò a terra, levò la spada fatale sopra la sua testa e gli ordinò di arrendersi. Allora il principe Giovanni, impietosito dalla situazione critica del Templare più di quanto lo fosse stato di fronte a quella del suo rivale, lo salvò dall’umiliazione di dichiararsi vinto abbassando il bastone e mettendo fine allo scontro.
Era ora compito del principe Giovanni nominare il miglior cavaliere della giornata, ed egli decise che l’onore toccava al cavaliere che la voce popolare aveva soprannominato Le Noir Fainéant. Fu fatto notare al principe, criticando la sua decisione, che la vittoria era stata conseguita in realtà dal cavaliere Diseredato che nel corso della giornata aveva abbattuto da solo sei campioni e che aveva poi disarcionato e fatto cadere a terra il capo della fazione avversaria. Ma il principe Giovanni rimase del suo parere, sostenendo che il cavaliere Diseredato e il suo gruppo avrebbero perso il torneo se non fosse stato per il potente aiuto del cavaliere dalla nera armatura, al quale perciò insisté di aggiudicare il premio.
Tuttavia, con sorpresa di tutti i presenti, non si riuscì a trovare il cavaliere prescelto da nessuna parte. Aveva lasciato il campo immediatamente dopo la fine del torneo ed era stato visto da alcuni spettatori scendere lungo una radura della foresta con lo stesso passo lento e gli stessi modi svogliati e indifferenti che gli avevano procurato l’epiteto di Fannullone Nero. Dopo che l’ebbero chiamato due volte con squilli di tromba e proclami degli araldi, fu necessario nominare un altro per ricevere gli onori che a lui erano stati destinati. Il principe Giovanni non aveva ormai altri pretesti per opporsi alla nomina del cavaliere Diseredato che fu quindi eletto campione della giornata. Attraverso il campo reso scivoloso dal sangue e ingombro di armature rotte e dei corpi di cavalli uccisi o feriti, i marescialli condussero di nuovo il vincitore ai piedi del trono del principe Giovanni.
«Cavaliere Diseredato», disse questi, «poiché solo con questo nome volete essere conosciuto, vi conferiamo per la seconda volta gli onori di questo torneo e vi annunciamo il diritto di richiedere e di ricevere dalle mani della regina dell’amore e della bellezza la corona che il vostro valore vi ha giustamente meritato». Il cavaliere si inchinò profondamente e con eleganza, ma non rispose nulla.
Mentre le trombe squillavano, mentre gli araldi si sfiatavano a tributare onore ai valorosi e gloria al vincitore, mentre le dame agitavano i fazzoletti di seta e i veli ricamati, e mentre tutti i presenti si univano in rumorose grida di esultanza, i marescialli condussero il cavaliere Diseredato attraverso il campo fino ai piedi del trono d’onore occupato da Lady Rowena. Il campione fu fatto inginocchiare sul gradino più basso. In effetti, dalla fine del combattimento il suo comportamento sembrava determinato più dall’intervento di coloro che gli erano intorno che dalla sua volontà, e fu visto barcollare mentre per la seconda volta veniva condotto attraverso la lizza. Rowena, scendendo dal trono con passo aggraziato e fiero, stava per mettere la corona che aveva in mano sull’elmo del campione quando i marescialli esclamarono: «Così non va… dev’essere a capo scoperto». Il cavaliere mormorò debolmente qualche parola che andò perduta nella cavità dell’elmo, ma che sembrava esprimere il desiderio che non gli fosse tolto.
I marescialli, non si sa se per amore del cerimoniale o per curiosità, non fecero caso alla sua riluttanza e gli tolsero l’elmo tagliando i lacci del casco e aprendo le fibbie della gorgiera. Quando l’elmo fu tolto, si videro i bei lineamenti, abbronzati dal sole, di un giovane uomo di circa venticinque anni in mezzo a una profusione di corti capelli biondi. Il volto era pallido come quello di un morto e segnato da una o due macchie di sangue.
Rowena, non appena lo vide, gettò un debole grido, ma immediatamente, facendo appello alla sua forza di carattere e imponendosi di continuare mentre tremava tutta per la violenza dell’improvvisa emozione, pose sulla testa china del vincitore la splendida corona premio della giornata, e con voce chiara e distinta pronunciò queste parole: «Io vi conferisco questa corona, signor cavaliere, come ricompensa al valore destinata al vincitore della giornata». A questo punto si fermò e poi con tono fermo aggiunse: «E mai corona cavalleresca potrebbe essere messa su fronte più degna!».
Il cavaliere abbassò il capo e baciò la mano della bella sovrana che aveva premiato il suo valore e poi, piegandosi ancora più in avanti, crollò ai suoi piedi.
La costernazione fu generale. Cedric, ammutolito dall’improvvisa apparizione del figlio che aveva bandito, si lanciò verso di lui come se volesse separarlo da Rowena. Ma ciò era già stato fatto dai marescialli di campo, i quali, intuendo la causa dello svenimento, si erano affrettati a togliergli l’armatura e avevano scoperto che la punta di una lancia era penetrata nel pettorale della corazza e aveva ferito a un fianco Ivanhoe.

Ivanhoe - stampa da The Grafic.JPGImmagine tratta da un’edizione illustrata dell’Ivanhoe 

Il brano proposto ci mostra ancora un aspetto aperto da Scott che prevede la fedeltà storica, a tale scopo egli pone particolare attenzione all’elemento informativo/didattico sulle regole di un torneo medievale; scritto su ciò la sua prosa vira su elementi emozionali determinati sia nella crudezza descrittiva degli scontri sia sulla tecnica della suspence ottenuta scrivendo l’episodio da un punto di vista dello spettatore. Ma forse la parte più interessante è certamente il centrare l’attenzione verso due personaggi anonimi: essi sono anonimi sia per gli spettatori del torneo che per i lettori, facendo aumentare in loro la curiosità e quindi la voglia di continuare a leggere. Nello svelamento di uno dei due, cioè Ivanhoe, l’autore non può non far notare come l’eroe sia gravemente ferito, eccitando il lettore nel voler conoscere il prosieguo della sua vicenda; quindi gioca con la figura del personaggio del Fannullone, la cui anonimità è giustificata “narrativamente” in quanto nasconde la figura del legittimo re Riccardo. 

Altro romanzo inglese d’enorme importanza sia per la tematica che per la eco che ancora oggi riceve è di Mary Shelley: Frankenstein o il moderno Prometeo del 1818:

mary-shelley-e-la-maledizione-del-lago.jpgMary Shelley

Mary Shelley (1797) nasce da William Godwin, filosofo dalle idee radicali, e Mary Wollstonecraft, autrice di A Vindication of the Rights of Woman, che morì nel darla alla luce. Aveva appena sedici anni quando incontrò Shelley che sposò in seguito, condividendo con lui una vita fatta di avventure e pericoli. Quando Shelley morì in mare, rimase vedova ad appena venticinque anni e, tornata in Inghilterra, dopo il successo straordinario del suo romanzo giovanile, appunto Frankenstein, riprese l’attività letteraria, di cui ci piace ricordare un altro notevole romanzo L’ultimo uomo del 1826.

Frankenstein, giovane svizzero studioso di filosofia naturale, servendosi di parte anatomiche sottratte a vari cadaveri, costruisce una creatura mostruosa, cui riesce, con procedimenti di cui lui solo ha il segreto, ad infondere la scintilla della vita. Atterrito per la creatura che ha creato, Frankenstein non riesce ad accudirlo e quindi il mostro fugge, non prima di avergli ucciso il fratellino. Lo scienziato lo ritrova sul Monte Bianco e, nonostante l’aspetto terrificante, la creatura si rivela la quintessenza della bontà di cuore e della mitezza. Ma quando si accorge del disgusto e della paura che suscita negli altri, la sua natura, incline alla bontà, subisce una totale trasformazione ed egli diviene un’autentica forza distruttiva: per questo chiede al suo creature di dar vita ad una compagna capace di amarlo e di placare la sete di vendetta verso gli uomini. Frankenstein promette ma non mantiene, inorridito dall’idea di una progenie di mostri. La creatura si vendica uccidendogli due amici, e viene infine raggiunto dal suo creatore nei ghiacci dell’Artico. Qui Frankenstein muore, dopo aver raccontato la storia ad un vecchio marinaio. Sulla sua tomba il mostro mostrerà la rabbia ma anche l’infinito amore per “suo padre” e quindi fuggirà alla ricerca dell’annientamento di sé.

 

L’APPARIZIONE DEL MOSTRO
(Capitolo V)

Fu in una tetra notte di novembre che vidi il compimento delle mie fatiche. Con un’ansia simile all’angoscia radunai gli strumenti con i quali avrei trasmesso la scintilla della vita alla cosa inanimata che giaceva ai miei piedi. Era già l’una del mattino; la pioggia batteva lugubre contro i vetri, la candela era quasi consumata, quando, tra i bagliori della luce morente, la mia creatura aprì gli occhi, opachi e giallastri; trasse un respiro faticoso e un moto convulso ne agitò le membra.
Come posso descrivere la mia emozione a quella catastrofe, descrivere l’essere miserevole a cui avevo dato forma con tanta cura e tanta pena? Il corpo era proporzionato e avevo modellato le sue fattezze pensando al sublime. Sublime? Gran Dio! La pelle gialla a stento copriva l’intreccio dei muscoli e delle vene; i capelli fluenti erano di un nero lucente e i denti di un candore perlaceo; ma queste bellezze  rendeva ancor più orrido il contrasto con gli occhi acquosi, grigiognoli come le orbite in cui affondavano, il colorito terreo, le labbra nere e tirate.
La vita non offre avvenimenti tanto mutevoli quanto lo sono i sentimenti dell’uomo. Avevo lavorato duramente per quasi due anni al solo scopo di infondere la vita a un corpo inanimato. Per questo avevo rinunciato al riposo e alla salute. L’avevo desiderato con intensità smodata, ma ora che avevo raggiunto la meta il fascino del sogno svaniva, orrore e disgusto infiniti mi riempivano il cuore. Incapace di sostenere la vista dell’essere che avevo creato, fuggii dal laboratorio e a lungo camminai avanti e indietro nella mia camera da letto, senza riuscire a dormire. Alla fine lo spossamento subentrò al tumulto iniziale e mi gettai vestito sul letto, cercando qualche momento di oblio. Invano! Dormii, è vero, ma agitato da sogni più strani. Mi sembrava di vedere Elisabeth, nel fiore della salute, per le strade di Ingolstadt. Sorpreso e gioioso, l’abbracciavo; ma come imprimevo il primo bacio sulle sue labbra, queste si facevano livide, color di morte; i suoi tratti si trasformavano e avevo l’impressione di stringere tra le braccia il cadavere di mia madre, avvolto nel sudario. I vermi brulicavano tra le pieghe del tessuto. Mi risvegliai trasalendo d’orrore; un sudore freddo mi imperlava la fronte, battevo i denti e le membra erano in preda a una tremito convulso quando – al chiarore velato della luna che si insinuava attraverso le persiane chiuse – scorsi la miserabile creatura, il mostro da me creato. Teneva sollevate le cortine del letto e i suoi occhi, se di occhi si può parlare, erano fissi su di me. Aprì le mascelle emettendo dei suoni inarticolati mentre un sogghigno gli raggrinzava le guance. Forse aveva parlato, ma non udii; aveva allungato una mano, come per trattenermi, ma gli sfugii precipitandomi giù per le scale. Mi rifugiai nel cortile della casa e vi passai il resto della notte, continuando a percorrerlo, agitatissimo, e tendendo l’orecchio a ogni rumore che annunciasse l’arrivo del diabolico cadavere al quale avevo sciaguratamente dato vita.
Oh! Nessun mortale avrebbe potuto sostenere l’orrore del suo aspetto! Una mummia riportata in vita non sarebbe risultata raccapricciante come quell’essere repulsivo. Lo avevo osservato quando non era ancora ultimato; anche allora era sgradevole, ma quando i muscoli e le giunture avevano assunto capacità di moto era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire.
Trascorsi una nottata infernale. A volte il mio polso batteva così rapido e violento che potevo sentire il palpitare di ogni arteria; altre volte l’estrema debolezza e il languore quasi mi facevano crollare a terra. Insieme all’orrore provavo l’amarezza della disillusione; sogni che a lungo erano stati stati il mio cibo e il mio ristoro si erano trasformati in incubi; e il rovesciamento era stato così rapido, così completa la disfatta!
Sorse il mattino, triste e piovoso, e mostrò ai miei occhi insonni e dolenti la chiesa di Ingolstadt, il suo bianco campanile e l’orologio che segnava le sei. Il guardiano aprì i cancelli del cortile, che era stato il mio asilo quella notte e uscii nelle strade percorrendole a passo svelto come per sfuggire al mostro che temevo mi si parasse dinanzi a ogni angolo. Non avevo il coraggio di tornare al mio alloggio, mi sentivo sospinto a camminare nonostante la pioggia che cadeva da un cielo nero e sconfortante mi bagnasse fino alle midolla.
Continuai così, sperando che l’esercizio fisico alleggerisse il peso che mi opprimeva la mente. Traversavo le strade senza avere idea di dove fossi,  di cosa facessi. Sentivo il cuore  stretto nella morsa dell’angoscia, e mi affettavo con passo irregolare, senza osare guardarmi attorno:

Come uno che, per strada deserta,
cammina tra paura e terrore,
e guardatosi intorno una volta, va avanti
e non volta mai più la testa
perché egli sa, un orrendo demonio
a breve distanza lo segue.*

*Versi tratti dalla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge

L’opera di Mary Shelley presenta una serie di tematiche fondamentali del pensiero contemporaneo, che travalicano il tempo in cui l’opera fu scritta, ma continua ad illuminarci grazie alle trasposizioni cinematografiche e teatrali che si effettuano ancora oggi. Certamente essa non può che inserirsi all’interno del Romanticismo, laddove la figura titanica di Frankenstein, novello Dio, creatore di vita, non può che pagare la sua ybris, tracotanza e orgoglio, finendo per essere vittima di sé, come fosse il protagonista di una tragedia greca che abbia subito una nemesis da parte degli dei. Ma l’opera che la Shelley scrisse appena diciannovenne (frutto di una scommessa tra amici, i quali dovevano portare a termine un racconto gotico) non può essere compresa se non la si inserisce all’interno del processo dell’industrializzazione inglese; essa infatti, attraverso la trasformazione della natura e la produzione di qualcosa di nuovo, attraverso la sua continua modernizzazione, attraverso la “trasformazione” dell’uomo in un tutt’uno con la macchina produttrice sembra essere simboleggiato dalla figura della Creatura, ponendo l’interrogativo sul limite che la scienza deve porsi nella sua volontà di scoperta. A questo va aggiunto certamente il problema etico della diversità, dell’esclusione: se la Creatura è violenta è perché non è stato accettato e amato e tale non accettazione avviene dal punto di vista esteriore, non interiore. La sua anima pura contrasta con la deformità e questo tema illuminerà un altro grande romanzo della cultura europea Notre-Dame de Paris (1831) del francese Victor Hugo.

Francia

Il Romanticismo in Francia viene inaugurato dall’intellettuale ginevrina Madame de Staël con il testo De l’Allemagne (La Germania). In esso la scrittrice non fa altro che far conoscere ai francesi l’opera di Lessing, Goethe, Shiller, Novalis, nonché i teorici della nuova filosofia (si pensi a Fichte). Più che una teorica, la sua funzione vuole essere quella di “operatore culturale”, capace com’era di conoscere i più alti rappresentanti liberali e democratici, tessere rapporti, e costituire il fulcro di un dibattito culturale europeo. Ma non bisogna dimenticare che la Francia, pur essendo la capitale delle teorie razionaliste ed illuminate, aveva a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, una personalità come Jean-Jacques Rousseau che con Julie ou la Nouvelle Héloïse aveva aperto la strada, come d’altra parte aveva fatto Goethe con I dolori del giovane Werther ed in Italia Foscolo con lo Jacopo Ortis.

L’aria culturale nuova in Francia l’aveva raccolta François-René de Chateabriand che già nel 1802 aveva scritto Le génie du Christianisme (Il genio del Cristianesimo) opera capitale per il risveglio cattolico d’Europa, apprezzato soprattutto in seguito, dopo il Congresso di Vienna, e due brevi romanzi Atala e René.

Nasce nel 1768 da nobile famiglia. Viene avviato alla carriera militare e nel 1791, si reca negli Stati Uniti. Al ritorno in Francia si unisce allo schieramento controrivoluzionario e si rifugia in Inghilterra dove rimane fino al 1800. La morte della madre e della sorella lo spingono verso una profonda conversione spirituale, scriverà infatti opere che avranno al centro la riflessione religiosa. Accostatosi alla vita politica alla fine dell’Esperienza napoleonica, vi resterà fino al 1830, quando salirà al potere Luigi Filippo. Si ritira quindi a vita privata, scrivendo opere di carattere autobiografico e storico. Si spegnerà a Parigi nel 1848.

François-René-de-Chateaubriand-por-Anne-Louis-Girodet-de-Roussy-Trioson-c.-1808-1068x1355.jpgFrançois-René de Chateabriand

René, rifugiatosi nella colonia dei Natchez, in Louisiana, per vivere in solitudine, rivela all’amico Chactas e al missionario Souël le ragioni della sua malinconia e della sua scelta. Rievoca così i giorni della sua adolescenza, le lunghe passeggiate in compagnia della sorella Amélie. Già preda di una inestinguibile sete d’infinito. René cercava invano una ragione per pacificare la propria anima. Era arrivato perfino a intravvedere una soluzione nel suicidio, dal quale però era stato dissuaso dalla sorella. Ma Amélie, colpita da una strana crisi, aveva improvvisamente deciso di rinchiudersi in convento. Qui, ascoltando una sommessa invocazione della sorella a Dio, René aveva colto il segreto della sua “criminale passione” per lui. Sconvolto, si era imbarcato per l’America, dove un giorno l’ha raggiunto la notizia della morte prematura di Amélie. Chactas consola il giovane amico, mentre padre Souël gli ricorda severamente che “chiunque abbia ricevuto delle forze le deve consacrare al servizio dei suoi simili”.

L’EROE IN FUGA DA SE STESSO

Ben invano dunque avevo sperato di trovar nel mio paese di che calmare quest’inquietudine, quest’ardore che mi segue dovunque. Lo studio del mondo non mi aveva insegnato nulla, eppure non avevo più la dolcezza dell’ignoranza.
Mia sorella, con un modo di comportarsi inesplicabile, sembrava che si compiacesse d’aumentare il mio affanno: ella aveva lasciato Parigi qualche giorno prima del mio arrivo. Le scrissi che contavo di andare a raggiungerla; s’affrettò a rispondermi per distogliermi da questo proposito, col pretesto che non sapeva dove la chiamerebbero i suoi affari. Che tristi riflessioni feci allora sull’amicizia, che la presenza intiepidisce, che la lontananza cancella, che non resiste alla sventura, e ancor meno alla prosperità!
Mi trovai ben presto più solo nella mia patria di quel che fossi stato in una terra straniera. Per qualche tempo volli gettarmi in un mondo che non mi diceva niente e da cui non ero compreso. L’anima mia, che nessuna passione non aveva ancora logorata, cercava un oggetto a cui attaccarsi; ma mi accorsi che davo più di quel che ricevevo. Non mi si chiedeva un linguaggio elevato, né un sentimento profondo. Non facevo altro che rimpicciolire la mia vita per metterla alla pari con la società. Trattato da per tutto come uno spirito romantico, vergognoso della parte che recitavo, sempre più disgustato delle cose e degli uomini, presi il partito di ritirarmi in un sobborgo, per vivervi totalmente ignorato.
Trovai da principio abbastanza piacere in quella vita oscura e indipendente. Sconosciuto, mi confondevo tra la folla, vasto deserto di uomini!
Sovente, seduto in una chiesa poco frequentata, passavo intiere ore in meditazione. Vedevo povere donne venir a prostrarsi davanti l’Altissimo, o peccatori inginocchiarsi al Tribunale della penitenza. Nessuno usciva da quei luoghi senza un viso più sereno, e i sordi clamori che giungevano da fuori sembravano i flutti delle passioni e le tempeste del mondo che venivano a morire ai piedi del tempio del Signore. Gran Dio, che vedesti in segreto colar le mie lagrime in quei sacri ritiri, tu sai quante volte mi gettai a’ tuoi piedi per supplicarti di scaricarmi del peso dell’esistenza, o di cambiare in me il vecchio uomo!
Ah! chi non ha sentito qualche volta il bisogno di rigenerarsi, di ringiovanire alle acque del torrente, di ritemprare la sua anima alla fontana della vita! Chi non si sente qualche volta spossato dal peso della sua propria corruzione, e incapace di fare alcunché di grande, di nobile, di giusto!
Quando la sera era venuta, riprendendo la strada del mio ritiro, mi fermavo sui ponti per veder tramontare il sole. L’astro infiammando i vapori della città, sembrava oscillare lentamente in un fluido d’oro, come il pendolo dell’orologio dei secoli. Poscia mi ritiravo con la notte, a traverso un labirinto di strade solitarie. Guardando i lumi accesi nelle case degli uomini, mi trasportavo col pensiero in mezzo alle scene di dolore e di gioia che essi rischiaravano, e pensavo che, sotto tanti tetti abitati, io non avevo un amico. In mezzo alle mie riflessioni, l’ora batteva a colpi misurati sulla Torre della cattedrale gotica, e andava ripetendosi su tutti i toni, sempre più lontano, di chiesa in chiesa. Ahimè! ogni ora, nel mondo, apre una tomba e fa versare lacrime!
Quella vita, che m’aveva sulle prime sedotto, non tardò a diventarmi insopportabile. Quel ripetersi delle medesime idee mi stancava. Mi misi a scandagliare il mio cuore, a domandarmi che cosa desideravo. Non lo sapevo; ma a un tratto credetti che i boschi sarebbero la mia delizia. Eccomi in un subito risoluto di terminare in un esilio campestre un corso di vita appena cominciato e nel quale avevo già divorato dei secoli. 
Abbracciai questo progetto con l’ardore che metto in tutti i miei disegni; partii precipitosamente per seppellirmi in una capanna, come altra volta ero partito per fare il giro del mondo. Mi si accusa d’aver gusti incostanti, di non poter godere a lungo della medesima chimera, d’essere preda di una immaginazione che si affretta a giungere al fondo dei miei piaceri, come se si stancasse della loro durata; mi si accusa di sorpassar sempre la mèta che posso toccare: ahimè! io cerco soltanto un bene sconosciuto il cui istinto m’insegue. È colpa mia se dappertutto trovo limiti, se ciò che è finito non ha alcun valore per me? Pure io sento che amo la monotonia dei sentimenti della vita, e se avessi ancora la follia di credere nella felicità, la cercherei nell’abitudine.
La solitudine assoluta, lo spettacolo della natura presto m’immersero in uno stato che quasi non è possibile descrivere. Senza parenti, senza amici, solo, per così dire, sulla terra, senz’aver ancora amato, ero oppresso da una sovrabbondanza di vita. Certe volte arrossivo subitamente e sentivo scorrere nel mio cuore come rivi di lava ardente: certe altre gettavo gridi involontari e le mie notti, sia che sognassi, sia che vegliassi, erano ugualmente agitate. Mi mancava qualche cosa, per riempire l’abisso della mia esistenza: discendevo nella valle, mi spingevo su per la montagna, invocando con tutta la forza dei miei desideri l’ideale oggetto d’una fiamma futura; l’abbracciavo nei venti, credevo udirlo nei gemiti del fiume: tutto era quell’immaginario fantasma, e gli astri nei cieli, e lo stesso principio della vita nell’universo. Pure quello stato di calma e d’inquietudine, d’indigenza e di ricchezza, non era senza attrattive: un giorno m’ero divertito a sfogliare una rama di salcio su d’un ruscello, e ad unire una idea a ogni foglia che la corrente portava via. Un re che tema di perdere la corona per un’improvvisa rivoluzione non prova angosce più vive delle mie a ogni accidente che minacciava i frammenti del mio ramoscello. O debolezza dei mortali! o infanzia del cuore umano che non invecchia mai! Ecco dunque a qual grado di puerilità può discendere la nostra superba ragione! E tuttavia molti uomini legano il loro destino a cose tanto da nulla quanto le mie foglie di salcio.
Ma come esprimere quella folla di sensazioni fuggitive che provavo nelle mie passeggiate? I suoni che rendono le passioni nel vuoto d’un cuore solitario somigliano al mormorio dei venti e delle acque nel silenzio d’un deserto: lo si gode, ma non lo si può ritrarre.

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Ci troviamo di fronte ad un tipico rappresentante della letteratura che trova per gli antecedenti che conosciamo il suo più fulgido esempio nell’opera alfieriana; come il nostro astigiano, René, che certo non può che rappresentare l’autore stesso, si sente superiore agli altri, capace più degli altri di una sensibilità eccezionale. Ma essa è frustrata dalla realtà che lo circonda che è soprattutto legata da interessi economici. Per questo cerca di allontanarsi dalla città, fulcro di una borghesia gretta ed avida, per rifugiarsi in campagna, per cancellare la propria identità e confondersi con la gente semplice. La voglia di annullarsi e trovare se stesso la prova tuttavia all’interno della chiesa, dove l’Altissimo si configura per lui come l’Assoluto, non tuttavia capace di placarlo, ma di provocare in lui una continua tensione per trovare una motivazione per vivere. Se infatti la tensione verso l’assoluto alfieriana è legata all’idea laica, potremo dire, di libertà, se quella wertheriana ed ortisiana sancisce il suo fallimento con il suicidio, in Chateabriand diventa rincorsa verso il sublime divino.

Anche nella poesia la lirica francese s’inserisce nel rinnovamento europeo romantico, non dimenticando che, sul piano della cultura nazionale, tale aspetto letterario era stato messo un po’ da parte nella temperie illuminista. Fra i poeti più importanti ricordiamo Gerard De Nerval, di cui riportiamo una delle più belle, ma al tempo stesso più arcane poesie:

EL DESDICHADO

Je suis le Ténébreux, – le Veuf, – l’Inconsolé,
Le Prince d’Aquitaine à la Tour abolie :
Ma seule Étoile est morte, – et mon luth constellé
Porte le Soleil noir de la Mélancolie.

Dans la nuit du Tombeau, Toi qui m’as consolé,
Rends-moi le Pausilippe et la mer d’Italie,
La fleur qui plaisait tant à mon cœur désolé,
Et la treille où le Pampre à la Rose s’allie.

Suis-je Amour ou Phébus ?… Lusignan ou Biron ?
Mon front est rouge encor du baiser de la Reine ;
J’ai rêvé dans la Grotte où nage la sirène…

Et j’ai deux fois vainqueur traversé l’Achéron :
Modulant tour à tour sur la lyre d’Orphée
Les soupirs de la Sainte et les cris de la Fée.

Io sono il Tenebroso, – il Vedovo, – lo Sconsolato, / Il Principe d’Aquitania dalla torre abolita: / La mia unica Stella è morta, – e il mio liuto costellato / Porta il Sole nero della Malinconia // Nella notte del Sepolcro, Tu che mi hai consolato, / Restituiscimi Posillipo e il mare d’Italia, / Il fiore che piaceva tanto al mio cuore desolato, / E la spalliera dove la vite si intreccia alla rosa. // Sono Amore o Febo?… Lusignano o Biron? / La mia fronte è ancora rossa per il bacio della Regina; / Ho sognato nella Grotta dove nuota la Sirena… // E per due volte vincitore ho attraversato l’Acheronte: / Modulando di volta in volta sulla lira di Orfeo / I sospiri della Santa e le grida della Fata.

default.jpgGustave Doré: La morte di Gerard De Nerval

Poesia di difficilissima interpretazione: qualcuno ha voluto vedere in essa riferimenti all’alchimia, all’astrologia, ai tarocchi (i primi tre versi potrebbero essere riferiti agli arcani XV-XII: Diavolo, Torre e Stella), altri ancora riferimenti al mito della famiglia e degli antenati dello stesso Nerval; nessuna interpretazione è riuscita a cogliere appieno il significato ultimo del dettato poetico, ma forse era proprio questo quello a cui tendeva Nerval (poeta minato psicologicamente a causa della morte della madre avvenuta quando lui aveva solo due anni, lutto mai superato, morto suicida a soli 47 anni). Importante sul piano dell’inserimento del poeta e del brano proposto nel Romanticismo è la sua propensione al mito, al concetto di magia della parola poetica. D’altra parte qui ci troviamo di fronte ad un Nerval che di fronte al fallimento della vita risponde con la forza salvifica della poesia, nella quale troviamo mitizzate figure femminili capaci di risolvere tutte le sue contraddizioni.

Altro importante poeta del romanticismo francese è certamente Alfred de Vigny. figura emblematica di come i più sensibili intellettuali francesi percepiscono il periodo che va dalla fine dell’avventura napoleonica attraversando quasi tutta la prima metà dell’Ottocento francese. Nato nel 1797, per tradizione familiare si accosta alla vita militare, senza rinunciare tuttavia a frequentare ambienti intellettuali che giravano attorno alla figura di Victor Hugo. Sposatosi con una ragazza inglese, dopo esser passato dalla Loira a Parigi, assistette dapprima alla Rivoluzione del 1830, diviso tra politica umanitaria e fedeltà al regnante, sino al 1848, dove presentatosi alle elezioni e battuto, si ritirò a vita privata. Muore nel 1863.

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La poesia proposta viene tratta dal libro in versi I Destini, iniziati nel 1838, ma pubblicati postumi nel 1863.

LA MORT DU LOUP

I
Les nuages couraient sur la lune enflammée
Comme sur l’incendie on voit fuir la fumée,
Et les bois étaient noirs jusques à l’horizon.
Nous marchions, sans parler, dans l’humide gazon,
Dans la bruyère épaisse et dans les hautes brandes,
Lorsque, sous des sapins pareils à ceux des Landes,
Nous avons aperçu les grands ongles marqués
Par les loups voyageurs que nous avions traqués.
Nous avons écouté, retenant notre haleine
Et le pas suspendu. — Ni le bois ni la plaine
Ne poussaient un soupir dans les airs; seulement
La girouette en deuil criait au firmament;
Car le vent, élevé bien au-dessus des terres,
N’effleurait de ses pieds que les tours solitaires,
Et les chênes d’en bas, contre les rocs penchés,
Sur leurs coudes semblaient endormis et couchés.
Rien ne bruissait donc, lorsque, baissant la tête,
Le plus vieux des chasseurs qui s’étaient mis en quête
A regardé le sable en s’y couchant; bientôt,
Lui que jamais ici l’on ne vit en défaut,
A déclaré tout bas que ces marques récentes
Annonçaient la démarche et les griffes puissantes
De deux grands loups-cerviers et de deux louveteaux.
Nous avons tous alors préparé nos couteaux,
Et, cachant nos fusils et leurs lueurs trop blanches,
Nous allions, pas à pas, en écartant les branches.
Trois s’arrêtent, et moi, cherchant ce qu’ils voyaient,
J’aperçois tout à coup deux yeux qui flamboyaient,
Et je vois au delà quatre formes légères
Qui dansaient sous la lune au milieu des bruyères,
Comme font chaque jour, à grand bruit sous nos yeux,
Quand le maître revient, les lévriers joyeux.
Leur forme était semblable et semblable la danse,
Mais les enfants du Loup se jouaient en silence,
Sachant bien qu’à deux pas, ne dormant qu’à demi,
Se couche dans ses murs l’homme, leur ennemi.
Le père était debout, et plus loin, contre un arbre,
Sa Louve reposait comme celle de marbre
Qu’adoraient les Romains, et dont les flancs velus
Couvaient les demi-dieux Rémus et Romulus.
Le Loup vient et s’assied, les deux jambes dressées,
Par leurs ongles crochus dans le sable enfoncées.
Il s’est jugé perdu, puisqu’il était surpris,
Sa retraite coupée et tous ses chemins pris;
Alors il a saisi, dans sa gueule brûlante,
Du chien le plus hardi la gorge pantelante,
Et n’a pas desserré ses mâchoires de fer,
Malgré nos coups de feu qui traversaient sa chair,
Et nos couteaux aigus qui, comme des tenailles,
Se croisaient en plongeant dans ses larges entrailles,
Jusqu’au dernier moment où le chien étranglé,
Mort longtemps avant lui, sous ses pieds a roulé.
Le Loup le quitte alors et puis il nous regarde.
Les couteaux lui restaient au flanc jusqu’à la garde,
Le clouaient au gazon tout baigné dans son sang;
Nos fusils l’entouraient en sinistre croissant.
Il nous regarde encore, ensuite il se recouche,
Tout en léchant le sang répandu sur sa bouche,
Et, sans daigner savoir comment il a péri,
Refermant ses grands yeux, meurt sans jeter un cri.

II
J’ai reposé mon front sur mon fusil sans poudre,
Me prenant à penser, et n’ai pu me résoudre
A poursuivre sa Louve et ses fils, qui, tous trois,
Avaient voulu l’attendre; et, comme je le crois,
Sans ses deux Louveteaux, la belle et sombre veuve
Ne l’eût pas laissé seul subir la grande épreuve;
Mais son devoir était de les sauver, afin
De pouvoir leur apprendre à bien souffrir la faim,
A ne jamais entrer dans le pacte des villes
Que l’homme a fait avec les animaux serviles
Qui chassent devant lui, pour avoir le coucher,
Les premiers possesseurs du bois et du rocher.

III
Hélas ! ai-je pensé, malgré ce grand nom d’Hommes,
Que j’ai honte de nous, débiles que nous sommes !
Comment on doit quitter la vie et tous ses maux,
C’est vous qui le savez, sublimes animaux !
A voir ce que l’on fut sur terre et ce qu’on laisse,
Seul le silence est grand; tout le reste est faiblesse.
– Ah ! je t’ai bien compris, sauvage voyageur,
Et ton dernier regard m’est allé jusqu’au cœur !
Il disait : « Si tu peux, fais que ton âme arrive,
A force de rester studieuse et pensive,
Jusqu’à ce haut degré de stoïque fierté
Où, naissant dans les bois, j’ai tout d’abord monté.
Gémir, pleurer, prier est également lâche.
Fais énergiquement ta longue et lourde tâche
Dans la voie où le sort a voulu t’appeler,
Puis, après, comme moi, souffre et meurs sans parler. »

306.jpgAutografo di Alfred De Vigny

LA MORTE DEL LUPO 
I. Le nubi sulla luna infiammata correvano / Come sull’incendio si vede salire il fumo, / E i boschi erano neri fino all’orizzonte. / Marciavamo, sul prato umido, silenziosamente, / Tra le edere intricate e tra le alte fronde, / Finché, sotto pini simili a quelli delle Lande, / Abbiamo scorto i segni delle unghie lasciati / Dai lupi errabondi che avevamo braccati. / Ci siam messi in ascolto, trattenendo il fiato / E col passo leggero. — Né il bosco né il prato / Emettevano un sospiro nell’aria; sola / Gridava luttuosa al ciel la banderuola; / Poiché il vento, che ben alto sulla terra soffiava, / Solo le torri solitarie coi suoi piedi sfiorava, / E le querce dabbasso, contro le rocce scoscese, / Sui gomiti parevano addormentate e distese. / Nulla si muoveva, dunque, finché, chinando la testa, / Il più vecchio dei cacciatori che seguivano la pista / Ha osservato la terra inginocchiato; ben presto, / Lui che sbagliarsi qui mai è stato visto, / Ha dichiarato sussurrando che le tracce recenti / Annunciavano il passaggio e gli artigli possenti / Di due lupi adulti e di due ancora cuccioli. / Noi tutti abbiamo allora sguainato i pugnali, / E, celando i fucili dai traditori barlumi, / Avanzavamo pian piano, scostando i rami. / In tre si fermano, ed io, cercando cosa vedano, / Scorgo d’un tratto due occhi che fiammeggiano, / E poi vedo al di là quattro forme leggere / Che danzavano alla luna in mezzo alle brughiere, / Come fanno ogni dì, davanti a noi in gran confusione, / I levrieri festanti, quando torna il padrone. / Simile la loro forma e simili i movimenti, / Ma i piccoli del Lupo danzavano silenti, / Ben sapendo che a due passi, con sonno leggero, / Dorme tra le sue mura l’uomo, nemico loro. / Il padre era sdraiato, e più in là, a un tronco appoggiata, / La sua Lupa riposava, come quella scolpita / Che adoravano i Romani, il cui i fianco lanoso / I semidei Remo e Romolo copriva amoroso. / Il Lupo avanza e si ferma, le due gambe dritte, / Piantate nella sabbia con le unghie ritorte. / S’è visto perduto, poiché è stato sorpreso, / La sua fuga stroncata e ogni passaggio chiuso; / Allora ha azzannato, nella sua gola ardente, / Del cane più ardito la gola ansimante, / E le mascelle d’acciaio non ha disserrato, / Malgrado i nostri spari l’avessero colpito, / E, come tenaglie, i nostri aguzzi coltelli / S’incrociassero piombandogli nei muscoli, / Fino all’ultimo istante, quando il cane strangolato, / Morto assai prima di lui, ai suoi piedi è stramazzato. / Allora il Lupo lo lascia e poi ci fissa. I coltelli gli restavano nel fianco, fino all’elsa, / Lo inchiodavano al prato del suo sangue cosparso; / I nostri fucili lo accerchiavano in un crescendo avverso. / Lui ci guarda ancora, quindi si ristende, / Leccandosi il sangue d’intorno alle sue zanne, / E, senza degnarsi di sapere per cosa sia perito, / Chiudendo i grandi occhi, muore senza un grido.
II. Ho chinato il capo sul fucile scarico di polvere, / Preso a riflettere, e non mi son potuto risolvere / Ad inseguire la Lupa e i cuccioli, che, tutti e tre, / Avevano voluto aspettarlo; e, penso tra me, / Se non fosse stato per i Cuccioli, la bella e triste vedova / Non l’avrebbe lasciato solo al momento della prova; / Ma il suo dovere era di salvarli, al fine / Di potergli insegnare a sopportare la fame, / A non vincolarsi mai con i patti civili / Stipulati dall’uomo con le bestie servili / Che cacciano avanti a lui, in cambio di cucce, / Loro, una volta signore di boschi e di rocce.
III. Ahimè! ho pensato, malgrado il gran nome di Uomini, /  Che vergogna ho di noi, per quanto siamo infimi! / Come si debban lasciare la vita e tutti i suoi mali, / Siete voi a saperlo, o sublimi animali! / Se a ciò che in terra fu e si lascia si pensa, / Solo il silenzio è grande; tutto il resto è debolezza. / – Ah! Ti ho ben inteso, selvaggio viaggiatore, / E il tuo ultimo sguardo m’è penetrato fino al cuore! / Diceva: «Se puoi, fa sì che l’anima tua pervenga, / A forza di ristarsene pensierosa e attenta, / Di stoica fierezza a quel siffatto punto / Cui io, nato nei boschi, subito son giunto. / Gemere, piangere, pregare è ugualmente indegno. / Compi il tuo lungo e arduo compito con impegno / Sulla via in cui la sorte ti ha voluto chiamare, / Poi, dopo, come me, soffri e muori senza fiatare.»

E’ il racconto in versi baciati, diviso in tre strofe di lunghezza ineguale, in cui Vigny descrive una caccia notturna contro i lupi. Risulta abbastanza evidente come il poeta francese utilizzi la storia sotto un punto di vista simbolico: l’uomo con i cani rappresenta il “mondo civile” dimentico della natura e delle sue eterne leggi; anche l’animale che l’accompagna ha perso dignità, si è fatto servo in cambio di una cuccia; ad emergere, viceversa, sono gli occhi fieri del lupo, occhi di sfida di chi sa che deve morire, ma muore per salvare i suoi lupacchiotti e la madre. Mentre azzanna un levriero, l’uomo lo colpisce: non c’è dolore, neanche rassegnazione, ma naturale accettazione del destino di chi, nato libero, sa di dover morire. Questo insegnamento ha tratto il cacciatore, affrontare stoicamente il destino dell’uomo. 

America 

L’America diventa nazione culturale quando riesce a mescolare i principi dei padri fondatori con il romanticismo già sviluppato in Europa. Potremo meglio dire che alla base della cultura di ogni buon cittadino americano ci sia stata da una parte la Bibbia (recepita nella versione pietistica) e il Robinson Crusoe di Defoe, massimo esempio, per loro del self made men espressione con la quale ancora oggi indicano il mito dell’uomo che partendo dal basso raggiunge da solo per meriti propri il successo, la ricchezza e la celebrità, come hanno in effetti fatto i padri pellegrini. 

A riuscire in questa forma di proficua fusione possiamo indicare un gruppo di intellettuali che diedero vita a ciò che il critico letterario statunitense Francis Otto Matthiessen definirà “Rinascimento americano” e sono il poeta Walt Whitman ed i romanzieri Nathaniel Hawthorne, James Fenimore Cooper e Herman Melville. Non si inserisce in questo novero l’opera tuttavia contemporanea di Edgar Allan Poe.

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Walt Withman

Walt Whitman nasce nel 1819, da padre carpentiere. Lasciati gli studi in tenera età, diventa prima tipografo (attività che gli permette di leggere molti autori) e in seguito maestro elementare. Passa quindi al giornalismo, attraverso il quale diffonde le proprie idee democratiche e libertarie. Nello stesso anno (1848) viaggia per gli Stati Uniti, raggiungendo il lontano Ovest. La vista di luoghi naturali e incontaminati saranno alla base del suo lavoro Foglie d’erba del 1850, che conobbe un’enorme eco. Muore nel 1892.

SONG OF OPEN ROAD

Afoot and light-hearted I take to the open road, 
Healthy, free, the world before me, 
The long brown path before me leading wherever I choose. 

Henceforth I ask not good-fortune, I myself am good-fortune, 
Henceforth I whimper no more, postpone no more, need nothing, 
Done with indoor complaints, libraries, querulous criticisms, 
Strong and content I travel the open road. 

The earth, that is sufficient, 
I do not want the constellations any nearer, 
I know they are very well where they are, 
I know they suffice for those who belong to them. 

(Still here I carry my old delicious burdens, 
I carry them, men and women, I carry them with me wherever I go, 
I swear it is impossible for me to get rid of them, 
I am fill’d with them, and I will fill them in return.) 

A piedi e con cuore leggero m’avvio per la libera strada / in piena salute e fiducia, il mondo offertomi innanzi, / il lungo sentiero marrone pronto a condurmi ove voglia. // D’ora in avanti non chiederò più buona fortuna, sono io la buona fortuna, / d’ora in avanti non voglio più gemere, non più rimandare, non ho più bisogno di nulla, / finiti i lamenti celati, le biblioteche, le querule critiche, / forte e contento m’avvio per libera strada. // La terra, e tanto mi basta, / le stelle non scendan più accosto, / so che stanno assai bene dove sono, / so che bastano a quelli che appartengono ad esse. // (Eppure io porto anche qui i miei antichi, soavi fardelli, / li porto, uomini e donne, li porto con me dove vado, / dichiaro che mi è impossibile riuscire a disfarmene, / io sono colmo di essi e li colmerò a mia volta).

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Il passo costituisce una parte di un piccolo poemetto dal titolo Il canto della strada all’interno dell’opera Foglie d’erba. E’ un canto assolutamente nuovo, anche rispetto alla poesia romantica europea: Whitman utilizza il verso libero e ad espressioni sublimi, alterna espressioni appena sussurrate, così come appare nell’inciso. In esso vi è tutta la poetica del poeta americano e dello spirito americano: è un canto on the road, l’uomo in cammino sul The long brown path è un uomo felice ed assapora la piena libertà accompagnata da una soddisfazione di sé; ma tale libertà non può essere scissa dal suo passato: per Withman la conquista della frontiera non può avvenire senza il portato della lezione della memoria e della tradizione culturale.

Ancora più famosa. soprattutto per l’incipit è quest’altra lirica di Withman:

O CAPTAIN! MY CAPTAIN

O Captain! My Captain! our fearful trip is done;
The ship has weather’d every rack, the prize we sought is won;
The port is near, the bells I hear, the people all exulting,
While follow eyes the steady keel, the vessel grim and daring:
      But O heart! heart! heart!
            O the bleeding drops of red,
                  Where on the deck my Captain lies,
                        Fallen cold and dead.

O Captain! My Captain! rise up and hear the bells;
Rise up—for you the flag is flung—for you the bugle trills;
For you bouquets and ribbon’d wreaths—for you the shores a-crowding;
For you they call, the swaying mass, their eager faces turning;
      Here captain! dear father!
            This arm beneath your head;
                  It is some dream that on the deck,
                        You’ve fallen cold and dead.

My Captain does not answer, his lips are pale and still;
My father does not feel my arm, he has no pulse nor will;
The ship is anchor’d safe and sound, its voyage closed and done;
From fearful trip, the victor ship, comes in with object won;
      Exult, O shores, and ring, O bells!
            But I, with mournful tread,
                  Walk the deck my captain lies,
                        Fallen cold and dead.

O Capitano! mio Capitano! il nostro viaggio tremendo è finito, / La nave ha superato ogni tempesta, l’ambito premio è vinto, / Il porto è vicino, odo le campane, il popolo è esultante, / Gli occhi seguono la solida chiglia, l’audace e altero vascello; / Ma o cuore! cuore! cuore! / O rosse gocce sanguinanti sul ponte / Dove è disteso il mio Capitano / Caduto morto, freddato. // O Capitano! mio Capitano! alzati e ascolta le campane; alzati, / Svetta per te la bandiera, trilla per te la tromba, per te / I mazzi di fiori, le ghirlande coi nastri, le rive nere di folla, / Chiamano te, le masse ondeggianti, i volti fissi impazienti, / Qua Capitano! padre amato! / Questo braccio sotto il tuo capo! / E’ un puro sogno che sul ponte / Cadesti morto, freddato. // Ma non risponde il mio Capitano, immobili e bianche le sue labbra, / Mio padre non sente il mio braccio, non ha più polso e volere; / La nave è ancorata sana e salva, il viaggio è finito, / Torna dal viaggio tremendo col premio vinto la nave; / Rive esultate, e voi squillate, campane! / Io con passo angosciato cammino sul ponte / Dove è disteso il mio Capitano / Caduto morto, freddato.

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La poesia nasce dall’emozione che su Withman ha avuto la notizia della morte di Lincoln, che, nel 1860, grazie l’approvazione della legge abolì lo schiavismo ma per questo, provocò l’immediata secessione degli stati del Sud e, dopo la loro sconfitta, la morte per mano degli assassini. Qui Withman, contrariamente al suo solito, reintroduce uno schema classico, strofe di otto versi con i primi quattro a rima baciata a due a due e gli altri quattro che formano come un ritornello. La poesia è costruita a livello metaforico (anch’esso classico): la nave come la nazione, il suo capitano il presidente, le tempeste le guerre civili; anche l’amore del popolo è reso con l’immagine della folle trionfante al ritorno della nave in porto. E’ che qui Withman si vuole porre come cantore della giovane patria, ma attraversata da tensioni e lutti. Eppure nessuna forza contraria è riuscita a limitare il suo anelito di libertà.

Ci piace concludere le poche parole spese su Withman con una riflessione tratta dall’Enciclopedia Garzanti della letteratura. “La poesia di Withman si radica profondamente in quel pianeta americano da cui ogni singola “foglia d’erba” trae energia vitale. Nella loro straordinaria intensità i versi di Withman riescono, grazie a una precisione elencatoria che non si fa mai pura cronaca né compiaciuta descrittività, a raggiungere un profondo misticismo. sia quando cantano un amore paganamente puro, sia quando si soffermano attoniti di fronte allo spettacolo della morte, sia quando tracciano figure di operai e di cocchieri in una notte d’inverno, o celebrano il progresso nella vigorosa immagine della ferrovia, essi trascendono il proprio oggetto per immergerlo in un campo di energia ritmica e psichica ben più vasto. Ed è questa la lezione che Withman trametterà ai suoi eredi più recenti, i poeti della «beat generation» e in particolare ad Allen Ginsburg”

lattimo-fuggente-maxw-1280.jpgOh capitano! Mio capitano! da L’attimo fuggente di Peter Weir (1989)

Anche la narrativa presenta delle opere la cui eco varcherà i confini nazionali; tuttavia il romanzo americano presenta all’interno di sé una componente culturale e religiosa che prende il nome di “trascendentalismo”. Carlo Izzo, anglista, lo definisce “un generico idealismo che si rifaceva a grandi linee a Platone e a Kant; l’affermazione della profonda rispondenza del microcosmo al macrocosmo, o dall’anima individuale con l’anima dell’universo…; un individualismo spinto in alcuni dei maggiori rappresentanti all’estremo; un’imprecisa aspirazione, in alcuni, a creare un’organizzazione sociale basata su principi di assoluta uguaglianza di diritti e di doveri”.

Tali aspetti si possono trovare nella figura di Nathaniel Hawthorne, nato nel 1804, da genitori discendenti dai primi colonizzatori puritani. Rimasto orfano del padre, fu costretto dalla madre ad una vita reclusa che lo iniziò con severità alla conoscenza e al culto delle tradizioni puritane. Pochi i fatti notevoli: sicuramente sei mesi nella Brook Farm dei trascendentalisti, la sua profonda amicizia con Melville, l’incarico come console in Inghilterra dal 1853 al 1857, due anni in Italia. Muore nel 1864. La sua opera maggiore è La lettera scarlatta del 1850:

Nathaniel_Hawthorne_by_Brady,_1860-64.jpgNathaniel Hawthorne

La vicenda  – che l’autore, nell’introduzione dichiara di aver tratto da un documento scoperto negli archivi della dogana di Salem – si svolge nella Boston puritana del sec. XVII. Hester Prynne, che ha preceduto nel Massachusetts il marito, un anziano scienziato inglese, ha avuto una figlia, la piccola Pearl, da un amore “illegittimo” e viene crudelmente punita secondo le leggi del tempo: esposta sul palco della gogna, è condannata a portare per tutta la vita sul petto la simbolica lettera A (Adultera), da lei stessa ritagliata in un “bel panno scarlatto” e bordata da ricami bizzarri e arabeschi dorati. Interrogata, Hester continua ostinatamente a tacere il nome del suo amante. Il marito, dato per morto in un naufragio, è riuscito invece a scampare al mare e agli indiani; e arriva a Boston in tempo per assistere alla punizione di Hester. Le impone di non rivelare la sua presenza e, sotto il falso nome di Chillingworth, si mette alla ricerca del complice dell’adulterio della moglie. Riesce a scoprirlo: si tratta del giovane reverendo Dimmesdale, che soffre profondamente del suo peccato ma è troppo orgoglioso per accusarsi. Alla fine, tormentato dalla persecuzione di Chillingworth, che lo segue dappertutto implacabile, Dimmesdale cede: confessa pubblicamente la propria colpa e muore, stroncato dall’emozione.

 

NEGLI OCCHI DELLA FIGLIA

La verità è che questi piccoli puritani, figli della razza più intransigente che sia mai vissuta, indovinavano in quella madre e in quella figlia qualcosa di strano, di singolare, di dissimile da loro, le disprezzavano e non si peritavano di esprimere spesso ad alta voce il loro disprezzo. Pearl intuiva questo sentimento e lo ricambiava con un odio così profondo quale sembrava non poter allignare in un cuore di bimba. Questi scoppi d’ira erano, in un certo senso, di conforto per Hester, perché presupponevano una persona di carattere, più di quanto le ambigue manifestazioni di Pearl potessero far supporre. Ma in ciò essa vedeva pure il riflesso di quell’angoscia che una volta l’aveva perseguitata, perché la piccola aveva ereditato tutto quell’odio e quella collera che in altri tempi avevano straziato il suo cuore. Madre e figlia vivevano al bando della comunità sociale, e nella natura della piccina sembrava perpetuarsi quello stato d’animo che aveva caratterizzato Hester prima della nascita di Pearl e di cui la maternità  cominciava ora a smorzare la violenza.
Quando giocava attorno alla capanna, Pearl non sentiva affatto della mancanza di una compagnia infantile. Da lei si sprigionava come un incantesimo di vita che si comunicava agli oggetti circostanti, come una torcia che propaga il fuoco a tutto ciò che sfiora. Al tocco fatato della sua mano, le cose più disperate – uno bastone, uno straccio, un fiore – senza mutare nella del loro aspetto esterno, divenivano com per incanto spiritualmente adatte commedia che in quel momento si rappresentava. La sua voce infantile era la voce di una moltitudine di personaggi, vecchi e giovani. I pini, annosi, cupi e solenni, che stormivano o sussurravano al vento, si trasformavano nei maggiorenti dei puritani, mentre le erbacce erano i loro ragazzi, e contro di essi  specialmente si accaniva l’ira di Pearl. Ma  in questi giochi meravigliosi cui si abbandonava la mente, non esisteva un linea di continuità: ora, infatti, essa si dava a correre e a danzare, quasi in preda ad uno stato di sovreccitazione, ora si accasciava in terra, quasi esausta da quella rapida e febbrile attività, per abbandonarsi subito dopo seguite a un altro scoppio d’energia. Tutto ciò richiamava in un certo modo alla mente i fantasmagorici giuochi dell’aurora boreale. Non che Pearl, per fantasia ed umore si differenziasse molto dagli altri ragazzi: sotto un certo punto di vista, era logico che essa in mancanza di compagni di gioco, si abbandonasse ai fantasmi della propria immaginazione: la stranezza consisteva nell’ostilità con cui essa considerava tutte queste creature del suo cuore e della sua mente. Mai uno di questi esseri le fosse amico! Sembrava godesse a seminare il terreno di denti del drago e che da ciascuno di essi nascesse un nemico contro il quale ella si scagliava con disperata energia. Nulla di più triste per il cuore di una madre che ne conosce la causa, di vedere questa visione di un mondo perennemente ostile in una creatura tanto giovane, di queste energie tese continuamente a difendere i propri diritti in immaginarie contese!
Osservando Pearl, spesso Hester Prynne posava il lavoro sulle ginocchia e gemeva, con una angoscia che tentava invano di nascondere: «O Padre Celeste – se ancora posso chiamarti mio Padre – chi è questo essere che ho messo al mondo?». E Pearl che udiva questa preghiera, o che, per qualche misterioso intuito, si rendeva conto di quell’angoscia, volgeva il viso alla madre, le sorrideva in modo misterioso e tornava di nuovo ai suoi giuochi.
Ma non abbiamo ancora parlato di una singolarità della bimba. La prima che parve interessarla e preoccuparla non fu, no, il sorriso della madre, a cui gli altri bimbi con quella smorfia della piccola bocca, intorno alla quale nascono tante discussioni per stabilire se sia stato o no un sorriso. La prima cosa di cui Pearl sembrò rendersi conto  fu – indovinate? – la lettera scarlatta sul petto della madre. Un giorno, mentre Hester si chinava sulla sua culla, gli occhi della piccola si fissarono sul ricamo d’oro che circondava quel simbolo d’infamia; e  le sue piccole mani si stesero per afferrarlo, mentre il suo volto s’illuminava di un sorriso, ma di  un sorriso singolare che la faceva apparire stranamente  più vecchia. Trattenendo il respiro, Hester aveva nascosto con un movimento istintivo quel segno fatale tentando di strapparlo, tanto quel gesto della piccina la straziava, ma Pearl, come se la madre scherzasse, l’aveva fissata negli occhi sorridendo. Da quel momento era cominciato per Hester un supplizio continuo, che aveva tregua solo quando la bambina dormiva. A volte, è vero, passavano intere settimane senza che lo sguardo di Pearl si posasse sulla lettera scarlatta; poi un giorno, all’improvviso, i suoi occhi la fissavano e il suo volto s’illuminava di quello strano sorriso che tanto male faceva a Hester.
Una volta, mentre, come le madri amano spesso fare, Hester cercava la sua immagine negli occhi della figlia, in questi balenò ad un tratto quello sguardo misterioso e crudele, ed essa – le donne sole e turbate si abbandonano spesso a sili fantasie – credette di scorgere in quel piccolo specchio nero non la sua immagine rimpicciolita, ma un altro volto, ostile, pieno di sorridente malizia, un volto che essa ben conosceva, ma che raramente aveva visto sorridere e mai esprimere tale cattiveria. Era come se uno spirito maligno si fosse impossessato della bimba e si divertisse a dimostrare la propria esistenza. Questa illusione si ripeté altre volte, sebbene in modo molto più confuso.
Un pomeriggio d’estate, Pearl, che era già abbastanza grande per camminare da sola, si divertiva a raccogliere fiori di prato e a gettarli in grembo alla madre, abbandonandosi a movenze di gioia degne di un elfo ogni volta che le capitasse di colpire la lettera scarlatta. Il primo impulso di Hester era stato quello di coprirsi il petto con le mani, sia per orgoglio, sia per rassegnazione, sia perché credesse che questa nuova pena la rendesse più meritevole agli occhi di Dio, dominò il suo istinto e, fissando tristemente gli occhi folli di Pearl, rimase a sedere, dritta e pallida come una morta. La piccina continuò a gettare fiori, prendendo sempre come bersaglio il simbolo di infamia ed infliggendo al cuore di quella povera madre che nulla poteva rimarginare su questa terra e che persino nell’altra vita l’avrebbero ancora tormentata. Alla fine, esauriti i proiettili, Pearl si fermò, guardando Hester in silenzio, mentre nei suoi profondi occhi neri (così almeno sembrò alla donna) balenava quella nota, sorridente immagine di spirito maligno.
«Figlia mia, chi sei tu?» gridò la madre.
«Sono la tua piccola Pearl!» rispose la bimba, e nel pronunciare queste parole rideva e saltava come un diavoletto che stesse per involarsi dalla cappa del camino.
«Sei davvero mia figlia?» insistette Hester, né la sua era una vana domanda, perché dubitava di venire a capo di quella specie di incantesimo che circondava l’esistenza della sua creatura.
«Sì, sono la tua piccola Pearl!» ripeté la bimba, continuando nei suoi giochi.
«Tu non sei mia figlia! Tu non sei la mia Pearl!» proruppe la madre, quasi in tono scherzoso, poiché spesso una specie di strana ilarità si mescolava al suo dolore. «Dimmi dunque chi sei e chi ti ha mandato qui».
«Dimmelo tu, mamma!» – rispose la bimba, seria,  avvicinandosi a Hester e abbracciandole le ginocchia. «Dimmelo tu!»
«Ti ha mandato il tuo Padre Celeste».
Ma la brava esitazione che aveva preceduto queste parole, non sfuggì a Pearl che, spinta dalla sua bizzarria ed ispirata da qualche cattivo demone, sollevò la piccola mano e indicò la lettera scarlatta.
«E’ questo che mi ha mandato! – gridò pronta. «Io non ho un Padre Celeste!»
«Zitta, Pearl, zitta! Non parlare così!» – ribatté Hester, trattenendo a stento le lacrime. «Solo Lui ci ha messi tutti a questo mondo. Solo Lui ha messo al mondo me, che sono tua madre, e poi, molto tempo dopo, anche a te. E se non fosse così, da dove saresti venuta tu, piccolo e strano folletto?»
«Dimmelo! dimmelo!» ripeté Pearl, che non era più seria come prima, ma già rideva e ricominciava a cogliere fiori. «Proprio tu devi dirmelo! »
Ma Hester non poteva rispondere perché il suo animo era pieno di dubbi. Ricordava tra un sorriso e un brivido,  le ciarle della gente che, notando lo strano carattere della bimba ed ignara della sua origine, la diceva figlia del demonio, uno di quegli esseri che, sin dai primi tempi del cattolicesimo, si favoleggiava fossero sparsi sulla terra, nati da un peccato di donna e destinati a mal operare. Lutero, secondo l’accusa dei monaci suoi nemici, apparteneva a questa razza infernale; né, fra quei puritani della Nuova Inghilterra, Pearl era la sola sospettata di così infausti natali.

la-lettera-scarlatta.jpgImmagine tratta da una scena del film tratta dal romanzo (1995)

Questo passo si può definire emblematico all’interno del percorso non solo narrativo, ma morale di Hawthorne: la figura di Pearl non è “reale”, ma proiezione del senso di colpa di Hester: potremo addirittura affermare che se il narratore è esterno, la focalizzazione è interna. Per questo troviamo il brano proposto è piuttosto inquietante, ma è la stessa inquietudine della protagonista che vede nella piccola Pearl (il cui significato è Perla, così come appare in molte traduzioni) una trasfigurazione diabolica che, oltre alla “A”, le rinfaccia il suo peccato. Ma ci piace notare che l’animo di Hester, il suo senso di colpa, la fermezza ed il “necessario” dolore con la quale lo affronta (al contrario di Dimmesdale, padre della bambina, non in grado di sostenerlo e quindi lo pagherà in modo maggiore, con la morte) rappresenta lo stessa meditazione religiosa dell’autore che, sulla base del suo avvicinamento al trascendentalismo, vorrebbe liberare Esther dal peccato in quanto “la natura è la sola amica dell’uomo… affannarsi sui problemi del peccato, della predestinazione, della dannazione è inutile” (Cunliffe), ma la sua formazione pietista lo porta a considerare che l’espiazione del peccato è necessaria per ottenere la vera libertà.

Amico carissimo di Nathaniel Hawthorne è Herman Melville, autore di racconti marinareschi, tra i quali spicca il Moby Dick.

Herman_Melville_by_Joseph_O_Eaton.jpgHerman Melville

Herman Melville nasce a New York nel 1819: lui stesso ci afferma che la sua università è stata il mare; s’imbarca infatti giovanissimo a 17 anni e per otto anni attraversa gli oceani, riportando varie avventure e l’esperienza di paesi visitati. Tutto ciò farà parte della sua produzione letteraria che all’inizio comprenderà opere come Taipi e Omoo di largo successo. Del 1851 scrisse il suo capolavoro, il Moby Dick, ma l’opera non ebbe un buon riscontro, portando lo scrittore a vivere con difficoltà per far fronte ai suoi problemi familiari. Cerca una più stabile condizione economica e diventa per questo doganiere, attività che condurrà fino alla fine dei suoi giorni. Muore nel 1891.

Il giovane Ishmael, narratore e testomone, salpa sulla baleniera “Pequod”, capèitanata da Achab. Questi ha giurato vendetta a Moby Dick, una possente e maligna balena bianca che in un viaggio precedente gli ha troncato una gamba. L’equipaggio teme il diabolico mostro, ma è ipnotizzato dalla sete di vendetta del capitano e lo segue. Inizia così un inseguimento che si protrae sui mari di tre quarti del globo. Il clima snervante di attesa  offre lo spunto per lunghe riflessioni di carattere filosofico, in cui la bianchezza dell’ineffabile balena diventa metafora di realtà trascendenti la comprensione umana. L’indiano Queequeg, l’unico vero amico di Ishmael, morirà prima della fine della vicenda, dopo essersi costruito una bara su cui intarsia strani geroglifici. La caccia vera e propria è descritta soltanto negli ultimi tre capitoli: Moby Dick, avvistata e poi arpionata, trascina in una folle corsa le lance della baleniera, annientando nave ed equipaggio, e trascinando nell’abisso lo stesso Achab, crocefisso sul suo dorsi dalle corde degli arpioni. L’unico sopravvissuto è Ishmael, che scampa alla morte utilizzando la bara di Queequeg come imbarcazione di fortuna.

moby-dick-illustrazione-1.jpg

L’ULTIMA GIORNATA DI CACCIA

«Fermi, marinai! Il primo che soltanto fa il gesto di saltar giù da questa mia lancia, io lo rampono». Voi non siete altri uomini, ma siete le mie braccia e le mie gambe: perciò obbeditemi… Dov’è la balena? Di nuovo sott’acqua?»
Ma guardava troppo vicino alla lancia, perché Moby Dick, come se intendesse fuggire con il cadavere che portava, e come se il particolare luogo dell’ultimo incontro non fosse stato che una tappa nel suo viaggio a sottovento, aveva ripreso a nuotare risolutamente, ed aveva quasi superato la nave; quest’ultima, sinora, aveva fatto vela nella direzione contraria alla sua, quantunque in quel preciso momento fosse ferma. La balena pareva nuotare alla massima velocità, intenta soltanto a seguitare dritta per la sua strada, sul mare.
«Oh! Achab!» gridò Starbuck «nemmeno ora, nemmeno il terzo giorno, è troppo tardi per desistere. Guarda! Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu, che insensato cerchi lei». Disponendo la vela al vento che si alzava, la lancia solitaria fu spinta rapidamente a sottovento, dai remi e dalle vele insieme. Ed infine, quando Achab fu così vicino alla nave da poter chiaramente distinguere la faccia di Starbuck mentre si sporgeva dalla ringhiera, lo chiamò dicendogli di virare la nave e seguirlo, non troppo in fretta, ad una giusta distanza. Guardando in alto, vide Tashtego, Queequeg e Daggoo che montavano la guardia, attenti, alle tre teste d’albero, mentre i rematori oscillavano nelle due lance sfondate che erano state allora issate di fianco, affaccendati a ripararle. Mentre filava via, Achab ebbe, uno dopo l’altro, una rapida visione di Stubb e Flask attraverso i portelli, anch’essi indaffarati in coperta in mezzo a fasci di ferri nuovi e lance. Mentre vedeva tutto questo, mentre udiva i colpi di martello nelle imbarcazioni schiantate, fu come se ben altri martelli gli conficcassero un chiodo nel cuore. Ma raccolse le forze. E allora, accortosi che la banderuola, o vessillo, era sparita dalla testa dell’albero maestro, urlò a Tashtego, che proprio allora era arrivato su quel posatoio, di scendere di nuovo per prendere un’altra bandiera, un martello e dei chiodi e così inchiodarla all’albero.
Sia che la balena fosse affaticata dalla caccia di tre giorni e dalla resistenza che opponevano al suo nuoto le pastoie annodate in cui si trovava, sia che vi fossero in lei perfidie e malizie nascoste, comunque fosse la verità, la velocità della Balena Bianca prese a diminuire, almeno così parve dal fatto che la lancia le si riavvicinava rapidamente; quantunque, in verità, l’ultima corsa dell’animale non fosse stata così lunga quanto la prima. E sempre, mentre Achab correva sulle onde, i pescecani spietati lo accompagnavano, e con tanta ostinazione si attaccavano alla lancia, e così di continuo mordevano i remi arrancanti, che le pale furono tutte intaccate e schiacciate, lasciando piccole schegge nel mare, quasi a ogni tuffo.
«Non badateci! Quei denti fanno soltanto da nuove scalmiere ai vostri remi. Vogate! È un sostegno migliore la mascella del pescecane che l’acqua cedevole». 
«Ma ad ogni morso, signore, le pale diventano sempre più piccole!»
«Dureranno lunghe quanto basta! Vogate!… Ma chi può dire – mormorò – se questi pescecani nuotano per pascersi della balena o di Acab?… Ma vogate! Sì, tutti all’erta, adesso, le siamo vicini. Il timone! Prendi il timone, fammi passare» e così dicendo, due rematori lo aiutarono ad andare sulla prora, mentre la lancia continuava la sua corsa.
Finalmente, mentre l’imbarcazione, gettata da un lato, arrivò correndo ad allinearsi al fianco della Balena Bianca, questa parve stranamente indifferente al suo arrivo, come le balene talvolta fanno, ed Achab si trovò proprio dentro alla montagna nebbiosa di vapore che, gettata dallo sfiatatoio della balena, si ravvolgeva intorno alla sua grande gobba da Monadnock.
Così vicino le era giunto Acab quando, con il corpo inarcato all’indietro e tutt’e due le braccia alzate e distese, per equilibrarsi, scagliò il ferro feroce e la maledizione ancor più feroce verso l’odiata balena. Mentre acciaio e maledizione affondavano fino al manico, come succhiati in una palude, Moby Dick si contorse sul fianco, spasmodicameme sfregò il fianco che le era più vicino contro la prua e, senza produrvi la minima falla, rovesciò così all’improvviso la lancia che, se non fosse stato per la parte elevata del parabordo cui si era aggrappato, Achab sarebbe stato scaraventato in mare un’altra volta. Accadde invece che tre rematori, che non conoscevano l’istante preciso del lancio, ed erano perciò impreparati ai suoi effetti, vennero sbalzati fuori; ma caddero in tal modo che, in un attimo, due di essi afferrarono il parabordo e, sollevandosi al livello della lancia sulla cresta di un’onda, vi si buttarono nuovamente dentro di peso, mentre il terzo cadeva senza scampo a poppa, ma rimaneva sempre a galla, nuotando.
Quasi contemporaneamente, con una possente decisione di totale, istantanea velocità, la Balena Bianca si gettò nel mare ribollente. Ma quando Achab gridò al timoniere di dar nuovamente volta alla lenza e di tenerla così, e comandò all’equipaggio di voltarsi sui sedili e di tirare la lancia fino al segno, la lenza traditrice, nel momento in cui sentì il doppio sforzo e la tensione si ruppe nell’aria vuota!
«Che cosa si spezza in me? Qualche nervo si spacca!… Tutto a posto, di nuovo! I remi, i remi! Balzatele addosso!»
Udendo lo slancio terribile dell’imbarcazione che squassava il mare, la balena si rigirò per presentare la pallida fronte a difesa, ma in quell’evoluzione, scorgendo lo scafo nero della nave che si avvicinava, e apparentemente vedendo in esso la fonte di tutte le sue persecuzioni, considerandolo, forse, un nemico più grande e più nobile, improvvisamente discese sulla sua prua avanzante sbattendo le mascelle tra impetuosi rovesci di spuma.
Achab vacillò, si batté la fronte con la mano: «Divento cieco: oh, mie mani! Allungatevi davanti a me, che io possa ancora trovare a tastoni la strada. È vicina?
«La balena! La nave!» urlarono i rematori annientati.
«I remi, i remi! Mettiti a pendio verso i tuoi abissi, o mare, che, prima che sia troppo tardi, Achab possa scivolare quest’ultima volta al suo segno! Io vedo: la nave! La nave! Balzate innanzi marinai! Non salverete la mia nave?»
Ma mentre i rematori forzavano violentemente la lancia attraverso i marosi che erano come magli, le estremità di prua di due tavole, precedentemente colpite dalla balena, si schiantarono, e, in un attimo, la lancia, momentaneamente immobilizzata, giacque quasi al livello delle onde mentre l’equipaggio, mezzo in acqua e ammollato, cercava in ogni modo di chiudere la falla e riversare fuori l’acqua che irrompeva.
Frattanto, nell’attimo in cui la scorse, a Tashtego, sulla testa d’albero, il martello rimase sospeso in mano, e la bandiera rossa, che lo avvolgeva a mezzo come un mantello, scivolò via da lui, come se fosse il suo cuore a volar via, mentre Starbuck e Stubb, ritti sul bompresso sotto, s’avvidero insieme con lui del mostro che sopraggiungeva.
«La balena, la balena! Timone a sopravvento, timone a sopravvento! Oh, tutte voi, dolci potenze dell’aria, abbracciatemi stretto! Che Starbuck non muoia, se deve morire, in un deliquio da donna! Timone a sopravvento, dico… a voi, sciocchi, la mascella! La mascella! È questa la fine di tutte le mie ardenti preghiere? Di tutte le mie fedeltà, lunghe una vita? Oh, Achab, Achab, ecco cosa hai fatto! Fermo, timoniere, fermo! No, no! Timone a sopravvento, di nuovo! Si volta per venirci incontro! Oh, la sua fronte implacabile avanza alla volta di uno cui il dovere dice che non può andarsene. Mio Dio, stammi vicino, ora!»
«Non starmi accanto, ma sotto, chiunque tu sia che ora aiuterai Stubb: perché Stubb, anche lui, rimane qui. Io ghigno a te, a te ghignante balena! Chi mai ha aiutato Stubb, o ha tenuto sveglio Stubb, se non l’occhio vigile di Stubb? Ed ora, il povero Stubb se ne va a letto su un materasso che è fin troppo soffice: se fosse imbottito di rovi! Io ghigno a te, a te ghignante balena! Attenti, voi, sole, luna e stelle, io vi dichiaro assassini di uno dei più buoni compagni che mai abbia sfiatato la sua anima. Con tutto ciò io tuttavia brinderei con voi, se soltanto voi porgeste la coppa! Oh, oh, oh! Tu balena ghignante! Ma presto ci saranno gran gorgoglii! Perché non fuggì, Achab? Quanto a me, via le scarpe e la giacca: che Stubb muoia in mutande! La morte più muffita e un po’ troppo salata, però; ciliegie! Ciliegie! Ciliegie! Oh, Flask, se avessimo una ciliegia rossa, prima di morire!
«Ciliegie? Io desidererei soltanto che fossimo là dove crescono. Oh, Stubb, spero che la mia povera madre abbia già ritirato la mia parte di paga, altrimenti adesso le toccherebbero quattro soldi, perché il viaggio è finito».
Sulla prua della nave, quasi tutti i marinai ciondolavano ora inerti; martelli, pezzi di tavole, lance e ramponi, tenuti macchinalmente in mano, così come erano accorsi dalle loro varie occupazioni, tutti gli occhi incantati fissi sulla balena che, vibrando stranamente la testa predestinata da parte a parte, gettava avanti a sé, mentre correva, una larga fascia di schiuma che si spargeva a semicerchio. Castigo, rapida vendetta ed eterna malvagità apparivano in tutto il suo aspetto, e ad onta di tutto quanto l’uomo mortale potesse fare, il massiccio contrafforte bianco della sua fronte urtò sulla destra la prua della nave, tanto che uomini e travi vacillarono. Alcuni caddero a faccia in giù. Come pomi d’albero spostati, arriva, le teste dei ramponieri dondolarono sui loro colli taurini. Sentirono le acque scrosciare attraverso la falla, come torrenti di montagna in una gola.
«La nave! Il carro funebre, il secondo carro funebre!» gridò Achab dalla lancia.
«Il suo legno non poteva essere che americano!»
Tuffandosi sotto la nave che si abbassava, la balena passò per il lungo sotto la chiglia, che rabbrividì; poi, rivoltandosi sott’acqua, risalì veloce alla superficie, lontano, dall’altra parte della prua, ma a poche yarde dalla lancia di Acab, dove, per qualche tempo, giacque tranquilla.
«Io volto la schiena al sole. Oh, Tashtego, fammi udire il tuo martello. Oh, voi, mie tre guglie non arrese, tu, chiglia intatta e tu, scafo, minacciato soltanto da un dio; tu, sicura coperta, tu timone superbo, e tu prua, puntata sulla Stella Polare! Nave gloriosa fino alla morte! Devi dunque perire, e senza di me? Devo io essere privato dell’ultimo caro orgoglio che anche i più vili capitani naufraghi hanno? Oh, solitaria morte di una vita solitaria! Oh, io sento che ora la mia maggiore grandezza dimora nel mio più grande dolore. Oh, oh! Da tutti i vostri limiti più lontani, riversatevi ora qui, voi arditi flutti della mia vita trascorsa, e coronate questo grande maroso della mia morte! Io mi volgo verso di te, balena distruggitrice ma non vincitrice, fino all’ultimo io lotto con te: dal cuore dell’inferno io ti trafiggo; in nome dell’odio, io vomito il mio ultimo respiro su di te. Affondino tutte le bare e tutti i carri funebri in una pozza comune! E poiché né l’una né l’altra di queste due cose sono per me, che io allora ti rimorchi in pezzi, mentre continuo a darti la caccia, quantunque legato a te, a te dannata balena! Così, io scaglio il lancione!»
Il rampone venne lanciato, la balena colpita fuggì innanzi, con la velocità del fuoco, la lenza corse nella scanalatura, ma si imbrogliò. Achab fece per districarla: la sciolse, ma la volta volante lo afferrò intorno al collo e in silenzio, come i muti di Turchia strangolano la vittima, lo fece schizzare fuori dalla lancia, prima che l’equipaggio si rendesse conto che era sparito.
L’istante seguente, il pesante occhiello impiombato all’estremità del cavo volò via dal tino completamente vuoto, abbatté un rematore, e, colpendo il mare, disparve negli abissi.
Per un momento, l’equipaggio della lancia, impietrito, rimase immobile, poi tutti si voltarono. «La nave? Gran Dio, dov’è la nave?»
Presto, attraverso un’atmosfera vaga e nebbiosa, videro il suo fantasma obliquo che svaniva, come nei vapori della Fata Morgana; soltanto l’albero più alto era ancora fuori dall’acqua, mentre, inchiodati dall’infatuazione, o dalla fedeltà o dal Fato ai loro posatoi un tempo superbi, i ramponieri pagani mantenevano le vedette affondanti nel mare. Ed ora, cerchi concentrici si impadronirono anche della lancia solitaria, e di tutto il suo equipaggio, di ogni remo fluttuante, e di ogni palo di lancia, e facendo girare rapidamente in un vortice le cose animate e inanimate, trascinarono anche la più piccola scheggia del Pequod fuori vista.
Ma mentre gli ultimi flutti si rovesciavano a tratti sul capo sommerso dell’indiano all’albero maestro, lasciando ancora visibili pochi pollici dell’eretta alberatura, insieme con lunghe yarde sventolanti della bandiera che ondeggiava calma, assecondando i marosi distruggitori che quasi la toccavano, in quell’istante, un braccio rosso e un martello si levarono all’indietro nell’aria libera, nell’atto di inchiodare più saldamente la bandiera all’albero affondante. A uno sparviero marino che beffardamente aveva seguito il pomo di maestro nella sua discesa dalla sua naturale dimora fra le stelle, beccando la bandiera e disturbando Tashtego – a quest’uccello capitò di far passare la grande ala vibrante fra il legno e il macello: e contemporaneamente, sentendo quell’etereo sussulto, il selvaggio sommerso, di sotto, nel suo anelito di morte tenne fermo il martello, e così l’uccello dei cieli, con strida ultraterrene, il becco imperiale allungato in su e tutto il corpo prigioniero avvolto nella bandiera di Achab, andò a fondo con la nave, che, come Satana, non volle sprofondare nell’inferno finché non ebbe trascinato con sé una parte vivente del cielo, per farsene un elmo.
Ora piccoli uccelli volarono stridendo sul vortice ancora spalancato; una tetra spuma bianca sbatté contro i suoi orli precipiti, poi tutto si calmò, e il grande sudario del mare si distese come già si stendeva cinquemila anni fa.

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Testo di difficile comprensione, come del resto l’intero romanzo. La difficoltà è nella quasi impossibilità di poter dare un significato simbolico definitivo ai due protagonisti del brano: Achab e Moby Dick. Achab potrebbe sia rappresentare l’uomo contemporaneo che tenta di prevaricare la natura, sia quella di un moderno Ulisse (di derivazione dantesca) che vuole conoscere l’inconoscibile, il segreto ultimo della natura e come Ulisse finirà per esserne inghiottito – la nave dell’eroe infernale fa l’identica fine della nave di Achab. La balena bianca, proprio per il suo biancore potrebbe rappresentare Dio, un Dio tuttavia vendicativo che, attraverso la citazione sempre dantesca di un contrappasso, si vendica dell’uomo che vuole vendicarsi, ma si vendica altresì di chi vuole sfidarlo, come un moderno Capaneo, oppure il suo contrario, rappresentante del demonio che mette sulla sua croce Achab che muore, come figura Christi, crocefisso dalle corde sulla sua schiena. Ma è la conclusione è di puro pessimismo: non solo l’uomo viene sconfitto nell’impari lotta, ma di quest’ultima non rimane traccia, lo stesso simbolo di Dio, l’uccello, rimane inchiodato sull’albero della nave, inabissandosi con essa: il mare ricopre ogni cosa e cancella le tracce. 

Ma forse lo scrittore che ebbe maggiore influenza nella cultura europea fu Edgar Allan Poe: egli infatti, tramite la mediazione del padre della lirica moderna, Charles Baudelaire, insegnò al vecchio continente a superare le istanze romantiche, soprattutto laddove esse scadevano in un vago sentimentalismo, per entrare all’interno dell’inconscio, anticipando, un po’ alla stessa maniera di Hoffmann , Freud.

Edgar_Allan_Poe,_circa_1849,_restored,_squared_off.jpgEdgar Allan Poe

Nasce a Boston nel 1809, da genitori attori girovaghi che lo abbandonano a due anni presso un ricco mercante, John Allen, che tuttavia non lo adottò. Il concetto di abbandono non lo abbandonerà mai e verrà in qualche modo amplificato dalla morte, in giovane età, della madre, inasprendo in tal modo, in modo inconscio, la paura dell’abbandono. Studia nella città dove gli Allen si spostano, frequentando in ultimo l’Università della Virginia. Accusato di debiti gioco torna a Boston, dove decide di arruolarsi, ma viene cacciato per palese indisciplina. Raggiunge la zia a Baltimora e comincia l’attività di giornalista, ma dove comincia a pubblicare le sue prime prove, senza mai ottenere una stabilità economica. Ha ventisei anni quando decide di sposarsi con la cugina quattordicenne, Maria Clemm, ma costei, come la madre, è una bellezza destinata a spegnersi con la morte, che avviene nel 1847, lasciando il poeta preda delle sue ossessioni; datosi all’alcool, venne trovato, privo di sensi  in una strada di Baltimora, portato in ospedale, vi morirà pochi giorni per un attacco di delirium tremens: siamo nel 1849, Poe aveva appena 40 anni.  

IL CROLLO DELLA CASA USHER

Durante un giorno triste, cupo, senza suono, verso il finire dell’anno, un giorno in cui le nubi pendevano opprimentemente basse nei cieli, io avevo attraversato solo, a cavallo, un tratto di regione singolarmente desolato, finche’ ero venuto a trovarmi, mentre già si addensavano le ombre della sera, in prossimità della malinconica Casa degli Usher. Non so come fu, ma al primo sguardo ch’io diedi all’edificio, un senso intollerabile di abbattimento invase il mio spirito. Dico intollerabile poiché questo mio stato d’animo non era alleviato per nulla da quel sentimento che per essere poetico è semipiacevole, grazie al quale la mente accoglie di solito anche le più tetre immagini naturali dello sconsolato o del terribile. Contemplai la scena che mi si stendeva dinanzi, la casa, l’aspetto della tenuta, i muri squallidi, le finestre simili a occhiaie vuote, i pochi giunchi maleolenti, alcuni bianchi tronchi d’albero ricoperti di muffa; contemplai ogni cosa con tale depressione d’animo ch’io non saprei paragonarla ad alcuna sensazione terrestre se non al risveglio del fumatore d’oppio, l’amaro ritorno alla vita quotidiana, il pauroso squarciarsi del velo. Sentivo attorno a me una freddezza, uno scoramento, una nausea, un’invincibile stanchezza di pensiero che nessun pungolo dell’immaginazione avrebbe saputo affinare ed esaltare in alcunché di sublime. Che cos’era, mi soffermai a riflettere, che cos’era che tanto mi immalinconiva nella contemplazione della Casa degli Usher? Era un mistero del tutto insolubile; né riuscivo ad afferrare le incorporee fantasticherie che si affollavano intorno a me mentre così meditavo. Fui costretto a fermarmi sulla insoddisfacente conclusione che mentre, senza dubbio, eistono combinazioni di oggetti naturali e semplicissimi che hanno il potere di così influenzarci, l’analisi tuttavia di questo potere sta in considerazioni che superano la nostra portata. Poteva darsi, riflettei, che una piccola diversità nella disposizione dei particolari della scena, o in quelli del quadro sarebbe bastata a modificare, o fors’anche ad annullare la sua capacità a impressionarmi penosamente; e agendo sotto l’influsso di questo pensiero frenai il mio cavallo sull’orlo scosceso di un oscuro e livido lago artificiale che si stendeva con la sua levigata e lucida superficie in prossimità dell’abitazione, e affissai lo sguardo, con un brivido però che mi scosse ancor più di prima, sulle immagini rimodellate e deformate dei grigi giunchi, degli spettrali tronchi d’albero, delle finestre aperte come vuote occhiaie. 
Eppure in questa lugubre casa io ora mi proponevo di soggiornare per alcune settimane. Il suo proprietario, Roderick Usher, era stato uno dei miei lieti compagni di infanzia, ma molti anni erano trascorsi dal nostro ultimo incontro. Una sua lettera mi aveva tuttavia raggiunto in un luogo remoto del paese, una lettera che, dato il carattere insistentemente importuno del mittente, non ammetteva risposta che di persona. Questo scritto rivelava una viva agitazione nervosa. Usher parlava di una acuta malattia fisica, di un disordine mentale che l’opprimeva, e di un impaziente desiderio di vedermi, essendo io il suo migliore, anzi il suo unico amico intimo, nella speranza di ottenere un sollievo al proprio male grazie alla serenità della mia presenza. Era il modo con cui tutto ciò, e molt’altro ancora, era detto, era il cuore che apparentemente accompagnava una tale richiesta, che non mi permise di esitare; ecco perché avevo obbedito senza indugio a quella che seguitavo a considerare tuttora come una piuttosto strana ingiunzione. 
Benché da ragazzi fossimo stati direi persino intimi, in realtà io sapevo assai poco del mio amico. La sua riservatezza abituale era sempre stata eccessiva. Sapevo però che la sua famiglia, di origine antichissima, era sempre stata conosciuta per una particolare sensibilità di temperamento che si era manifestata attraverso le età in molte opere di un’arte esaltata, e si era recentemente rivelata in ripetute e munifiche elargizioni benefiche, per quanto discrete, come pure in un fervore appassionato per le complicazioni, quasi più che per le bellezze ortodosse e facilmente riconoscibili, della scienza musicale. Ero pure al corrente di un particolare assai notevole, che cioè la stirpe degli Usher, pur vetusta qual era, non aveva mai fatto germogliare alcun ramo duraturo; in altre parole, la discendenza dell’intera famiglia si era tramandata sempre in linea diretta, e questo sin dai tempi più remoti, a eccezione di qualche variante trascurabile e del tutto temporanea. Era forse questa mancanza, rimuginavo mentre riandavo col pensiero all’accordo perfetto tra il carattere del luogo e il carattere universalmente noto delle persone che vi abitavano (e frattanto riflettevo sul possibile influsso che il primo, in cosi’ lungo trascorrere di secoli, poteva avere esercitato sul secondo), era forse questa mancanza di rami collaterali e la conseguente invariata trasmissione diretta da padre in figlio del patrimonio col nome, ad avere in fine talmente identificate le due cose, il luogo e la famiglia, da confondere il titolo originario della proprietà nello strano ed equivoco appellativo di “Casa degli Usher”, un appellativo che sembrava racchiudere, nella mente del contadiname che lo usava, tanto la casata quanto il maniero familiare. 
Già ho detto che il solo risultato del mio esperimento alquanto puerile di affissare cioè lo sguardo nelle cupe acque dello stagno, era stato quello di approfondire la mia prima curiosa impressione. Non può esservi dubbio che la consapevolezza del rapido aumentare della mia superstizione, – infatti, per quale motivo dovrei definirla altrimenti? – era servita principalmente ad accelerare quest’aumento. Tale, lo sapevo da tempo, è l’assurda legge di tutti i sentimenti aventi come base il terrore. E poteva essere stato per questo motivo soltanto che, allorché tornai ad alzare gli occhi verso la casa, distogliendoli dall’immagine di essa riflessa nello stagno, subentrò nella mia mente un pensiero bizzarro, talmente bizzarro e paradossale, che lo riferisco unicamente per dimostrare quanto fosse intensa la forza delle sensazioni che mi opprimevano. Avevo talmente esaltata la mia fantasia al punto di credere realmente che su tutta la dimora e sulla tenuta pendesse un’atmosfera caratteristica ad esse e alle immediate vicinanze, atmosfera che non aveva alcuna affinità con l’aria del cielo, ma che si esaltava dagli alberi ammuffiti, dal grigio muro, dal silenzioso stagno, come un vapore pestilenziale e mistico a un tempo, opaco, tardo, appena percettibile, soffuso di una sfumatura plumbea. 
Scuotendomi dall’animo quel che doveva essere stato un sogno, ripresi a osservare più da vicino l’aspetto reale dell’edificio. Il suo tratto più caratteristico sembrava consistere in una estrema vecchiezza. Lo scolorimento del tempo era stato enorme. Tutta la facciata esterna era ricoperta di una fungosità minutissima che pendeva dalle gronde come una intricata finissima ragnatela. Tutto ciò era nondimeno in dipendente da un decadimento vero e proprio. La muratura era rimasta intatta, e sembrava esservi una strana incongruenza tra le parti ancora perfettamente unite della costruzione, e lo stato di rovina delle singole pietre. In questo elemento caratteristico vi era molto che mi rammentava l’aspetto totale tipico di una vecchia opera in legno che sia rimasta per lunghi anni a marcire in un sotterraneo abbandonato, senza essere in alcun modo intaccata dall’aria esterna. Ma all’infuori di questo indice di decadenza dell’insieme, la costruzione non rivelava gravi tracce di instabilità. Forse l’occhio di un osservatore attento avrebbe saputo discernere una fessura appena percettibile che partendo dal tetto, sulla facciata dell’edificio, attraversava il muro in direzione obliqua sino a perdersi nelle imbronciate acque dello stagno. 
Dopo aver notato tutte queste cose mi diressi verso la casa, lungo un breve viale selciato. Un domestico mi prese il cavallo, e io entrai sotto l’arcata gotica dell’ingresso. Un valletto dal passo felpato mi condusse da lì, silenziosamente, attraverso molti anditi bui, labirintici, sino allo studio del suo padrone. Molto di quel che incontrai sul mio cammino contribuì, non so perché, ad avvalorare quel senso di vaga paura cui già ho alluso. Mentre gli oggetti che mi circondavano, le decorazioni del soffitto, le fosche tappezzerie delle pareti, la nerezza d’ebano dei pavimenti, i trofei allucinanti e le armature che vibravano al mio passaggio con secco rumore metallico, erano cose alle quali, anche in altro ambiente, io ero stato abituato sin dall’infanzia, mentre non esitavo a riconoscere l’aspetto familiare di tutti questi oggetti, seguitavo tuttavia ad avvertire quanto straniate dal mio spirito fossero invece le fantasticherie che queste immagini, pur note, evocavano in me. Su una delle scale d’accesso incontrai il medico di famiglia. Ebbi l’impressione che il suo aspetto riflettesse un’espressione mista di bassa astuzia e di perplessità. Mi passò accanto trepidante e proseguì innanzi. Subito dopo il domestico spalancò un uscio e m’introdusse alla presenza del suo padrone. 
La camera in cui venivo così a trovarmi era molto ampia e altissima. Le finestre lunghe, strette, a sesto acuto, erano talmente sopraelevate sul pavimento di quercia nera da risultare del tutto inaccessibili dall’interno. I deboli bagliori di una luce soffusa di vermiglio s’infiltravano attraverso i pannelli intrecciati e servivano a rendere sufficientemente distinti gli oggetti più in vista sparsi per la stanza; l’occhio si sforzava tuttavia invano di raggiungere gli angoli più riposti del locale, o i recessi del soffitto a volta tutto adorno di fregi. Dalle pareti pendevano scuri drappeggi. Il mobilio era sovraccarico, scomodo, antico, in cattivo stato. Sparsi tutt’attorno giacevano molti libri e strumenti musicali, i quali non riuscivano però a dare alcuna vitalità alla scena. Ebbi l’impressione di respirare un’atmosfera di dolore. Un senso di tetraggine greve, profonda, irriducibile, pendeva su tutto e tutto permeava. 
Al mio entrare, Usher si alzò da un divano sul quale si trovava completamente sdraiato, e mi accolse con una vivacità e un calore in cui mi parve a tutta prima di intuire una cordialità eccessiva, un poco troppo rassomigliante allo sforzo obbligato dell’annoiato uomo di mondo. Mi bastò tuttavia uno sguardo al suo viso per convincermi della sua perfetta sincerità. Ci mettemmo a sedere e rimanemmo silenziosi per alcuni istanti, mentre io l’osservavo con un sentimento misto a pietà e quasi di paura. Certo non avevo mai veduto nessuno che in così breve periodo di tempo avesse subita una così spaventosa trasformazione quanto quella che vedevo nella persona di Roderick Usher! Stentavo ad ammettere a me stesso che quell’essere svanito che mi stava dinanzi era il compagno della mia prima giovinezza. Eppure il suo viso era sempre stato assai caratteristico. Una carnagione cadaverica; occhi grandi, liquidi, oltremodo luminosi; labbra alquanto sottili e pallidissime, ma delineate con insuperabile perfezione; un naso delicato, di profilo ebraico, ma con un’ampiezza di narici insolita in modelli analoghi; un mento finemente cesellato che rivelava nella sua eccessiva rotondità una mancanza di energia morale; capelli di una tenuità e di una sofficità addirittura vaporose; tutti questi tratti, insieme con un’espansione insolita delle regioni temporali, contribuivano a formare nel loro complesso una fisionomia non facilmente dimenticabile. Ed ecco che proprio nell’esagerazione del carattere prevalente di questi tratti, e dell’espressione che essi erano soliti rendere, consisteva l’enorme mutamento che mi faceva dubitare della identità di colui col quale stavo parlando. Ma soprattutto il pallore spettrale della pelle e la luminosità irreale dell’occhio mi colpì e persino mi impaurì più di ogni altra cosa. Anche i serici capelli erano stati lasciati crescere senza cura, e così scarmigliati e rabbuffati come se fossero intessuti di lievissimi fili di ragno, più che ricadere intorno al viso vi fluttuavano intorno, tanto da non permettermi, sia pure con uno sforzo, di connettere quella loro impressione di arabesco a un’idea purchessia di umanità vera e propria. 
In quanto ai modi del mio amico fui subito colpito da una specie di incoerenza, di inconsistenza in essi, e ben presto mi accorsi che ciò derivava da tutta una successione di deboli e vani tentativi per padroneggiare uno stato di trepidazione abituale, un’agitazione nervosa eccessiva. In realtà ero stato preparato a questo lato del suo carattere non tanto dalla sua lettera, quanto dalle reminiscenze di certe sue caratteristiche infantili e dalle conclusioni che avevo tratte dalla sua costituzione fisica e dal suo temperamento specialissimi. I suoi gesti erano a volte vivaci, a volte pigri e scontrosi. La sua voce passava rapidamente da un tono di tremula indecisione (allorché gli spiriti animali sembravano completamente soggiogati) a quella specie di concisione energica, quell’eloquio brusco, pesante, tardo, cavo, quella pronunzia plumbea, perfettamente equilibrata e modulata, gutturale, che si riscontra nel bevitore incorreggibile o nell’incallito fumatore d’oppio, nei momenti in cui l’eccitazione della droga è particolarmente intensa.
Fu con questi accenti che egli mi parlò dello scopo della mia visita, del suo ardente desiderio di vedermi, e del conforto che si riprometteva da me. Si dilungò quindi a descrivermi quello che secondo lui era il carattere della sua malattia. Si trattava, mi spiegò, di un male costituzionale ed ereditario, e al quale disperava di trovare un rimedio; una semplice affezione nervosa, si affrettò a soggiungere, che senza dubbio si sarebbe ben presto dileguata. Questo disturbo si manifestava con una sequela di sensazioni innaturali: e alcune tra queste, a mano a mano che egli me le elencava, mi interessavano e mi stupivano, benché forse la loro efficacia risiedesse solo nelle parole e nel tenore generale della narrazione. Usher soffriva assai di una ipersensibilità morbosa; poteva sopportare soltanto il cibo più insipido; poteva indossare soltanto indumenti di un certo tessuto; il profumo di un qualsiasi fiore gli era intollerabile; anche la luce più debole era una tortura per i suoi occhi, e non vi erano che pochi suoni speciali, e soltanto quelli di alcuni strumenti a corda, che non lo riempissero di orrore. 
Mi avvidi che era schiavo, legato mani e piedi, di una forma anomala di terrore. «Io morirò,» mi disse, «dovrò morire in questa disperata follia. Così, così, non altrimenti, mi perderò. Temo gli avvenimenti del futuro non di per se stessi, ma per i loro risultati. Rabbrividisco al pensiero di un fatto qualsiasi, anche il più comune che possa operare su questa agitazione intollerabile del mio spirito. In realtà non rifuggo dal pericolo, se non nel suo effetto assoluto, cioè il terrore. In questo stato di smarrimento dei nervi, in questa pietosa condizione, sento che sopraggiungerà presto o tardi il momento in cui mi vedrò costretto ad abbandonare la vita e la ragione insieme in qualche conflitto con il sinistro fantasma della paura. 
Appresi inoltre per tratti e attraverso accenti rotti e ambigui, un altro curioso aspetto delle sue condizioni mentali. Usher si sentiva incatenato da certe superstiziose impressioni alla casa in cui dimorava e dalla quale più non usciva da molti anni, per un influsso la cui forza superstiziosa era resa in termini troppo incerti per essere qui ridescritti; un influsso ispiratogli nell’animo, mi disse, semplicemente da alcune caratteristiche nella forma e nella sostanza della sua dimora familiare; era un effetto, insomma, che l’elemento fisico delle grigie mura e delle torri e del cupo stagno in cui tutte queste cose si riflettevano aveva infine prodotto sull’elemento morale della sua esistenza. 
Ammetteva tuttavia, se pure con esitazione, che gran parte della caratteristica tristezza che così lo affliggeva poteva essere fatta risalire a un’origine più naturale e assai più tangibile, cioè alla grave e prolungata malattia, o , per meglio dire, alle condizioni sempre più prossime alla morte, di una sorella teneramente amata che da molti anni era la sua unica compagna e la sua sola ed ultima parente sulla terra. «La sua morte», – mi diceva con un’amarezza che non potrò mai dimenticare, «lascerebbe me inutile e debole, ultimo superstite dell’antica razza degli Usher». Mentre parlava, lady Madeline (così si chiamava la sorella di Roderik) attraversò lentamente un tratto lontano della stanza, e senza aver notato la mia presenza scomparve. Io la guardai con indicibile stupore, cui si mescolava un guizzo di paura, senza che tuttavia mi fosse possibile spiegarmi questo mio stato d’animo. Mentre i miei occhi seguivano i suoi passi allontanantisi, mi sentii invadere da una sensazione di stupore. Quando finalmente un uscio si chiuse alle sue spalle, il mio sguardo cercò istintivamente e ansiosamente il volto del fratello, ma questi aveva nascosto la faccia tra le mani e io potei soltanto notare che le sue dita emaciate si erano fatte ancora più esangui e che erano irrorate da molte lagrime appassionate. 
Il male di lady Madeline da molto tempo metteva a dura prova la perizia dei suoi medici. Una composta apatia, un consumarsi graduale della persona, attacchi frequenti sebbene transitori di natura parzialmente catalettica ne costituivano l’insolita diagnosi. Fino a quel momento ella aveva resistito contro l’incalzare del male, e non si era mai messa a letto definitivamente, ma sul finire di quella sera in cui ero giunto alla casa, fu costretta a cedere (come suo fratello mi riferì durante la notte in preda a un’agitazione indescrivibile) al potere distruttore del male; e seppi che l’occhiata fuggevole con cui avevo colto la sua persona sarebbe stata probabilmente l’ultima poiché la giovane donna, almeno finché fosse vissuta, non sarebbe più stata visibile. 
Durante alcuni giorni consecutivi il suo nome non venne più pronunciato né da Usher né da me, e in questo periodo di tempo io feci del mio meglio per alleviare la malinconia del mio amico. Dipingevamo e leggevamo insieme, oppure io restavo ad ascoltare, come perduto in un sogno, le sconnesse improvvisazioni della sua chitarra parlante. E così, mentre una sempre più stretta intimità mi permetteva di entrare ancora più addentro ai recessi del suo spirito, con sempre maggiore amarezza io ero costretto a constatare la vanità di ogni tentativo di rallegrare una mente da cui le tenebre si riversavano come una qualità positiva e insita su tutti gli oggetti dell’universo morale e fisico, in un’unica incessante irradiazione di mestizia. 
Porterò sempre con me la memoria delle lunghe ore solenni da me trascorse così in solitudine insieme al signore della Casa degli Usher. Fallirei tuttavia se tentassi di rendere comunque l’idea esatta del carattere, degli studi o delle occupazioni di cui egli mi metteva a parte o nei quali mi faceva da guida. Su tutto una idealità sovraeccitata e profondamente turbata gettava un chiarore sulfureo. Le sue lunghe estemporanee lamentazioni funebri echeggeranno in eterno entro le mie orecchie. Fra tante altre cose rammento soprattutto in modo particolarmente doloroso una certa strana perversione e amplificazione dello sfrenato motivo dell’ultimo valzer di Weber. Riguardo ai dipinti, su cui la sua complessa fantasia si lambiccava, e che svanivano a ogni tocco in una indefinitezza di cui io rabbrividivo tanto più profondamente quanto meno capivo il motivo del mio rabbrividire, riguardo a questi dipinti (per nitide che siano ora dinanzi a me le loro rappresentazioni) tenterei invano di descrivere più di quel poco che può essere racchiuso entro il cerchio delle semplici parole scritte. La scarna semplicità, la nudità dei suoi disegni fermavano e colpivano l’attenzione. Se mai essere mortale riuscì a dipingere un’idea, questo mortale è stato Roderick Usher. Per me almeno, nelle circostanze che allora mi attorniavano, si levava dalle pure astrazioni che il misantropo riusciva a fissare sulla propria tela, una tale intensità di terrore arcano e intollerabile, quale mai avevo sofferto, sia pur lontanamente, nemmeno nella contemplazione delle indubbiamente scintillanti e tuttavia troppo concrete bizzarrie fantastiche di Füssli. 
Una però di queste concezioni fantasmagoriche del mio amico che meno rigidamente delle altre partecipava dello spirito dell’astrazione può essere adombrata con parole, sia pure inadeguatamente. Si trattava di un piccolo quadro rappresentante l’interno di una volta o galleria rettangolare, immensamente lunga, dai muri bassi, bianchi, lisci, senza alcuna interruzione o fregio. Alcuni punti accessori del disegno servivano efficacemente a suggerire l’impressione che questo scavo s’ingolfasse a profondità prodigiosa sotto la superficie della terra. In tutta la sua vasta estensione non era possibile notare alcuna via di uscita, ne’ era discernibile torcia alcuna, o altra fonte artificiale di luce; e tuttavia si diffondeva ovunque un fiotto di raggi intensissimi che immergevano il tutto in uno splendore abbagliante e spettrale. 
Già ho accennato a quello stato morboso del nervo auricolare che rendeva intollerabile al paziente ogni specie di musica, a eccezione di alcuni effetti di strumenti a corda. Erano forse questi confini ristrettissimi entro i quali egli si rinchiudeva, limitandosi al solo uso della chitarra, a dare origine in gran parte al carattere fantastico delle sue esecuzioni. Non era pero’ possibile spiegare in tal modo la fervida facilità dei suoi improvvisi. Questi devono essere stati, ed erano in realtà, nelle note, come pure nelle parole delle sue vagabonde fantasie (poiché non di rado egli si accompagnava con improvvisazioni verbali rimate), il risultato di quella padronanza intensa di sé e di quella concentrazione mentale cui già ho alluso e che è osservabile soltanto in alcuni particolari momenti, allorché l’eccitamento artificiale raggiunge il suo colmo. Sono riuscito a ricordare facilmente le parole di una di queste rapsodie. Forse ne fui tanto più fortemente impressionato perché mentre egli me le recitava, nella corrente sotterranea o mistica del suo significato, mi parve di notare, e per la prima volta, una piena consapevolezza da parte di Usher del vacillare della sua ragione. Questi versi, che egli aveva intitolati  “Il palazzo incantato”, correvano pressapoco così: 

Nella più verde delle nostre valli,

da buoni angeli visitata,
un tempo un bello e solenne palazzo,
radioso palazzo, ergeva la sua fronte.
Nel regno del monarca Pensiero
esso si ergeva!
Mai serafino levò le ali
su struttura più bella. 

Stendardi gialli, di gloria e d’oro,
sul suo tetto sventolavano
e garrivano (ciò’, tutto ciò, accadeva negli antichi,
antichissimi tempi lontani),
e ogni dolce brezza che indugiava,
in quel dolce giorno,
lungo i contrafforti piumati e pallidi,
un odore alato disperdeva. 

Visitatori di quella valle felice
attraverso due luminose finestre
videro spiriti muoversi musicalmente,
all’intonato ritmo di un liuto,
intorno a un trono, dove seduto
(Porfirogene!)
in pompa addicentesi alla sua gloria,
appariva il governante del regno. 

E tutta di perle e di rubini scintillante
era la stupenda porta del palazzo,
attraverso cui giungeva fluente, fluente,
fluente e in eterno sfavillante,
una coorte di Echi, il cui dolce compito
era soltanto di cantare,
con voci di ineguale bellezza,
l’ingegno e la saggezza del loro re. 

Ma creature malvage, in vesti di lutto,
assalirono l’eccelsa dimora del monarca
(ah, piangiamo, poiché mai un domani
spunterà per lui, abbandonato!),
e, tutt’attorno alla sua dimora, la gloria
che sfavillava e lussureggiava
non é che una favola vagamente ricordata
dell’antico tempo sotterrato. 

E ora i viaggiatori in quella valle,
attraverso le finestre soffuse di rosso lucore,
vedono vaste forme muoversi fantastiche
al suono di una melodia discorde;
mentre, simile a un fiume rapido e irreale,
attraverso la pallida porta,
una folla ripugnante si riversa precipite,
senza sosta, e ride; ma più non sorride. 

usher_01.pngScena di un film di Epstein del 1928 ispirato alla novella di Poe

Ricordo perfettamente che le riflessioni provocate da questa ballata ci portarono lungo un corso di pensieri in cui si manifestò un’opinione di Usher che io cito non tanto per la sua originalità (poiché altri l’hanno manifestata parimenti), quanto per l’ostinatezza con cui egli l’affermava. Quest’opinione, così grosso modo, verteva sulla sensibilità di tutte le cose vegetali. Ma nella sua alterata fantasia questo concetto aveva assunto un carattere più audace, violando, entro determinate condizioni, il regno dell’inorganico. Mi mancano le parole per esprimere appieno tutto il sincero abbandono del suo convincimento. Questa sua certezza tuttavia era collegata (come già ho accennato) alle grigie pietre della dimora dei suoi padri. Le condizioni di sensibilità erano state qui adempiute, così egli immaginava, dal sistema di collocamento di queste pietre, dall’ordine della loro disposizione, nonché dal modo con cui le molte fungosità che le ricoprivano si erano predisposte, e dalla posizione degli alberi putrescenti che circondavano la dimora, ma soprattutto dalla lunga indisturbata durevolezza di questa sistemazione, e dal suo rifrangersi e sdoppiarsi nelle immote acque dello stagno. La prova di ciò, la prova della sensibilità, era rintracciabile, mi disse (e qui mentre egli parlava io trasalii), nella lenta e tuttavia certa condensazione di un’atmosfera propria emanante dalle acque e dalle mura. Tale risultato era scopribile, soggiunse, nella silente, e tuttavia conturbante e terrificante influenza che per secoli aveva plasmato i destini della sua famiglia, e che aveva fatto di lui quello che io ora vedevo, quello che egli era. Opinioni come queste non hanno bisogno di commento, ne’ io ne tenterò alcuno. 
I nostri libri, libri che da anni costituivano non piccola parte dell’esistenza mentale dell’invalido, erano, come è facile supporre, in stretto rapporto con questo elemento fantastico. Insieme consultavamo opere quali la Vervet et Chartreuse di Gresset, Belfagor di Machiavelli; il Cielo e inferno di Swedenborg; il Viaggio sotterraneo di Nicholas Klimm di Holberg; la Chiromanzia di Robert Flud,  Jean d’Indagine e De La Chambre; il Viaggio nella distanza azzurra di Tieck; e La città del sole di Campanella. Il nostro volume preferito era una piccola edizione in ottavo del Directorium Inquisitorium, del domenicano Eymeric de Gironne; e vi erano alcuni passi di Pomponio Mela, intorno agli antichi satiri ed egipani africani, sui quali Usher soleva riflettere, sognando, per lunghe ore. Il suo maggior diletto consisteva però nello studio assiduo di un volume in-quarto gotico straordinariamente raro e curioso, il manuale cioè di una chiesa dimenticata intitolato Vigiliae mortuorum secundum Chorum Ecclesiae Maguntinae
Non potevo fare a meno di meditare ripetutamente sui misteriosi riti descritti in quest’opera e sui loro probabili influssi sull’ipocondriaco, allorché una sera, dopo avermi annunciato bruscamente che lady Madeline più non viveva, mi dichiarò la sua intenzione di conservarne il cadavere per un periodo di quindici giorni (prima dell’inumazione definitiva) in una delle numerose cripte che si aprivano sotto i muri maestri dell’edificio. La ragione naturale che egli mi diede di questo suo singolare modo di agire era tale ch’io non mi sentii in grado di discuterla. Egli era stato spinto a questa decisione (così mi spiegò) in considerazione del carattere insolito della malattia che aveva minato l’esistenza di sua sorella, nonché di alcune indiscrete e impazienti richieste da parte dei medici, e infine in considerazione della posizione lontana e scomoda in cui si trovava il luogo di sepoltura avito. Non negherò che rammentandomi l’aspetto sinistro del personaggio da me incontrato sulle scale il giorno del mio arrivo alla casa, non provai alcun desiderio di controbattere quella che consideravo una precauzione tutt’al più innocua, e per nulla affatto innaturale. Su richiesta di Usher lo aiutai personalmente a predisporre ogni cosa per quella tumulazione temporanea. Dopo aver posato il corpo nella bara lo trasportammo noi due soli sino al luogo del suo riposo. La cripta in cui lo riponemmo (e che era rimasta chiusa talmente a lungo che le nostre torce, semi soffocate in quell’atmosfera opprimente, ci concessero ben poca possibilità di fare indagini) era piccola, umida, totalmente sprovvista di aperture che permettessero ammissioni di luce, essendo scavata a grande profondità proprio sotto quella parte dell’edificio in cui si trovava la mia stanza da letto personale. Doveva essere probabilmente servita, negli antichi tempi feudali, agli oscuri e biechi scopi cui sono destinate le prigioni sotterranee, e in epoca più recente doveva essere stata usata come deposito di polveri, o di qualche altra sostanza ad alto potere combustibile, poiché un tratto del pavimento della cripta, e tutta la parte interna di un lungo passaggio coperto attraverso il quale si raggiungeva la cripta stessa, erano accuratamente ricoperti di lamine di rame. Anche la porta, in ferro massiccio, era stata parimenti protetta. Il suo peso immenso faceva sì che ogniqualvolta essa si muoveva sui cardini si udiva un suono raschiante, insolitamente aspro. 
Dopo aver posato su alcuni trespoli il nostro funebre carico, affidandolo a quel luogo di orrore, scostammo parzialmente il coperchio non ancora avvitato della bara e ci fermammo a contemplare il volto della morta. In quel momento, per la prima volta, la mia attenzione fu attratta dalla somiglianza sorprendente che esisteva tra il fratello e la sorella, e Usher, indovinando forse il mio pensiero, borbottò alcune parole dalle quali compresi che lui e la morta erano stati gemelli, e che tra essi erano sempre esistiti legami di affinità di natura difficilmente comprensibile. I nostri sguardi pero’ non si soffermarono a lungo sulla defunta, che non potevamo fissare senza un arcano timore. La malattia che aveva condotto alla tomba la dama nel fiore della giovinezza aveva lasciato, come accade di solito in tutti i disturbi gravi di carattere tipicamente catalettico, la beffa di un debole rossore sul seno e sul volto, e quel sorriso misteriosamente indugiante sul labbro che è così terribile nella morte. Richiudemmo il coperchio e lo avvitammo, e dopo aver chiuso a chiave la porta di ferro risalimmo faticosamente verso gli appartamenti poco meno tetri della parte superiore della casa. E ora che erano trascorsi alcuni giorni di amaro dolore, subentrò nel disordine mentale del mio amico un mutamento sensibile. I suoi modi soliti erano scomparsi: le sue occupazioni ordinarie trascurate o dimenticate. Errava di stanza in stanza con passo affrettato, ineguale, senza una meta. Il pallore del suo volto aveva assunto se possibile una sfumatura ancora più spettrale, ma la luminosità del suo sguardo si era completamente spenta. Non avevo più inteso l’asprezza cava che di quando in quando assumeva la sua voce, ma adesso le sue parole erano abitualmente caratterizzate da un tremolio vibrante, come se egli vivesse di continuo in uno stato di terrore estremo. Vi erano momenti, in verità, in cui io pensavo che la sua mente senza posa agitata, fosse travagliata da qualche segreto divorante, e che egli lottasse con se stesso per trovare il coraggio necessario a rivelarlo. A volte invece ero costretto ad addossare ogni cosa alle inesplicabili divagazioni della pazzia, poiché lo sorprendevo a fissare nel vuoto per lunghe ore, in atteggiamento di attenzione profondissima, come se ascoltasse qualche suono immaginario. Non è da stupire se questo suo stato terrorizzasse e contagiasse anche me. Mi sentivo invadere per gradi lenti ma sicuri, dei forsennati influssi delle sue fantastiche e tuttavia ossessionanti superstizioni. 
Fu soprattutto nel ritirarmi per la notte, la sera del settimo ed ottavo giorno dopo la deposizione nella cripta di lady Madeline, che io sperimentai tutta la violenza di tali sensazioni. Il sonno non giunse sino al mio letto, mentre le ore andavano dileguandosi, lente e inutili. Cercavo di combattere l’inquietudine nervosa che si era impadronita di me. Mi sforzavo di pensare che buona parte del mio stato d’animo era dovuto all’influsso deprimente del tetro mobilio che arredava la stanza, ai panneggi cupi e gualciti i quali ondeggiavano bizzarramente contro le pareti, torturati dal fiato impetuoso di un temporale prossimo, frusciando inquieti intorno alle decorazioni del letto. Ma i miei tentativi erano vani. A poco a poco tutto il mio essere fu pervaso da un tremito incontenibile e alla fine un vero e proprio incubo gravò sul mio cuore terrorizzandomi senza ragione. Riuscii a scuotermelo di dosso gemendo e dibattendomi strenuamente, mi rizzai a sedere sui cuscini, e appuntando ansiosamente lo sguardo nelle fitte tenebre che avvolgevano la stanza tesi l’orecchio (non so per quale ragione, se non forse perché ne fui suggerito da un impulso istintivo) a misteriosi rumori sommessi, indefiniti, che giungevano a lunghi intervalli, tra le pause dell’uragano, non sapevo da dove. Sopraffatto da un disperato senso di orrore, inspiegabile e tuttavia intollerabile, mi rivestii precipitosamente (poiché capivo che per quella notte non avrei più potuto dormire) e tentai con tutte le mie forze di strapparmi allo stato pietoso in cui ero caduto, mettendomi a passeggiare rapidamente innanzi e indietro per la stanza. Mi aggiravo così da pochi istanti, allorché un passo leggero sulla scala vicina attrasse la mia attenzione. Lo riconobbi quasi subito per il passo di Usher. Un istante dopo egli bussava con tocco discreto alla mia porta ed entrava reggendo una lampada. Il suo aspetto era come al solito cadavericamente esangue, ma adesso leggevo nei suoi occhi come una folle ilarità, e vi era evidentemente in tutto il suo comportamento come una contenuta isteria. I suoi modi mi atterrirono; ma tutto era preferibile alla solitudine che avevo sino a quel momento sopportata e anzi accolsi la sua presenza con un sospiro di sollievo. 
«E tu non l’hai veduto?» mi chiese bruscamente dopo essersi guardato attorno per alcuni attimi in silenzio. «E tu non l’hai veduto dunque?… Ma, aspetta! Lo vedrai». Così dicendo e dopo avere accuratamente schermata la lampada si avvicinò a uno dei finestroni e lo spalancò completamente alla tempesta. La furia impetuosa dell’uragano irrompente per poco non ci sollevò da terra. Era in verità una notte tempestosa e pure paurosamente bella, e di una misteriosa stranezza nel suo affascinante terrore. Evidentemente doveva essersi raccolto in tutta la sua forza, nei dintorni, un turbine, poichè il vento subiva frequenti e violenti mutamenti di direzione, e l’estrema densità delle nubi (che pendevano tanto basse da premere addirittura contro le torri stesse della casa) non ci impediva di scorgere la velocità pazzesca con la quale accorrevano da ogni punto per cozzare le une contro le altre, senza mai disperdersi in lontananza. Ripeto che nemmeno la loro straordinaria densità ci impediva di notare questo, benché non ci fosse possibile scorgere né la luna né le stelle, né vi fosse alcun guizzo di folgore a illuminare la scena. Tuttavia le superfici inferiori di quella massa enorme di vapori in tumulto, come pure tutti gli oggetti terrestri che immediatamente ci circondavano, risplendevano di una luce innaturale per una esalazione gassosa, vagamente luminescente eppur distintamente visibile, che avvolgeva e avviluppava la dimora come un fosforescente sudario. 
«Tu non devi… bisogna assolutamente che tu non veda questo!» dissi rabbrividendo a Usher mentre lo riconducevo con dolce violenza dalla finestra a un sedile. «Queste apparizioni che ti sconvolgono non sono che fenomeni elettrici tutt’altro che rari, a meno che non abbiano la loro paurosa origine nei miasmi fetidi dello stagno. Richiudiamo la finestra; l’aria è fredda e pericolosa per la tua salute. Ecco qui uno dei tuoi libri favoriti. Io leggerò, e tu rimarrai ad ascoltarmi; e così potremo superare insieme questa notte spaventosa. 
L’antico volume che io avevo intanto preso in mano era il Mad Trist di sir Launcelot Canning, ma io lo avevo definito il preferito di Usher più in un attimo di scherzosa malinconia che con intenzione seria; poiché in realtà vi era ben poco nel suo andamento prolisso, anti immaginativo e grottesco che potesse produrre un vero e proprio interesse sull’animo altamente idealistico e spirituale del mio amico. D’altronde era il solo libro che avessi immediatamente a portata di mano, e mi cullavo nella vaga speranza che l’agitazione che attualmente torturava l’ipocondriaco potesse trovare sollievo persino in quel paradosso di follia che mi accingevo a leggere (poiché la cronaca dei disordini mentali è piena di anomalie siffatte). Se avessi potuto infatti giudicare dall’apparenza di eccessiva e ipertesa vivacità con la quale ascoltava, o pareva ascoltare, le parole del racconto, mi sarei ben potuto congratulare con me stesso della riuscita del mio tentativo. Ero giunto a quel noto brano della vicenda in cui Ethelred, l’eroe del Trist, dopo aver tentato invano di essere ammesso pacificamente nell’abitazione dell’eremita, si accinge a entrarvi a viva forza. Qui, si rammenterà, le parole del racconto sono queste:

Ed Ethelred, che era di natura di valoroso cuore, e si sentiva ora più che mai vigoroso, causa la potenza del vino che egli aveva bevuto, non attese di parlamentare oltre con l’eremita, il quale invero era di una natura maligna e ostinata, ma sentendo la pioggia cadergli sulle spalle e temendo lo scatenarsi della tempesta, sollevò alta la sua mazza e a suon di colpi si aprì rapidamente una breccia sulle assi dell’uscio per farvi passare la sua mano guantata di ferro; ed ecco che tirando con questa energicamente spezzò e lacerò e divelse ogni cosa sinché il rumore del legno secco e cavo rimbombò e si ripercosse per tutta la foresta”. 

Al termine di questa frase sussultai e tacqui per un istante, poiché mi sembro’ (pur concludendo immediatamente che la mia fantasia eccitata mi aveva ingannato), mi sembrò, dico, che da un punto imprecisato e lontanissimo della dimora mi giungesse vagamente alle orecchie quella che sarebbe potuta essere, in modo esattamente affine, l’eco (pur soffocata e sorda) proprio del rumore cricchiante e lacerante tanto minuziosamente descritto da sir Launcelot. Fu senza dubbio questa semplice coincidenza ad attrarre la mia attenzione, poiché tra lo sbatacchiare delle intelaiature delle finestre e i soliti rumori confusi del temporale vieppiù aumentati, questo rumore di per se stesso non aveva certamente nulla che altrimenti potesse interessarmi o turbarmi. Proseguii nella lettura: 

Ma il prode campione Ethelred nell’entrare di là dalla soglia si adirò e si stupì di non scorgere alcun segno del maligno eremita; ma invece di costui un drago di aspetto squamoso e prodigioso, dalla lingua di fiamma, che sedeva a guardia di un palazzo d’oro dal pavimento d’argento; e sul muro era appeso uno scudo di scintillante bronzo adorno del seguente motto: 
Colui che quivi entra, conquistatore e’ stato;
chi il drago uccide lo scudo otterrà 

Ed Ethelred sollevo’ la sua mazza e colpi’ al capo il drago che cadde ai suoi piedi esalando il suo fiato pestilenziale con un urlo cosi’ orrido e aspro e al tempo stesso cosi’ penetrante, che Ethelred fu costretto a turarsi le orecchie con le mani contro quello spaventoso rumore di cui mai aveva inteso prima l’uguale” 

Qui mi fermai di nuovo bruscamente, e adesso con un senso di smarrito stupore, poiché non vi era dubbio (per quanto da che direzione provenisse mi era impossibile dire) che in quel preciso istante anch’io sentivo inequivocabilmente un rumore sommesso e apparentemente lontano, ma aspro, prolungato, raschiante e forse stranamente urlante: l’esatta riproduzione insomma di quello che già la mia fantasia aveva evocato come l’urlo innaturale del drago qual era descritto dal novellatore. 
Per quanto sgomentato di questa seconda e veramente straordinaria coincidenza, nonché da mille sensazioni contrarie e contrastanti, in cui predominava una meraviglia e un terrore estremi, conservai tuttavia sufficiente presenza di spirito per evitare di acuire con una mia qualsiasi osservazione lo stato di ipersensibilita’ nervosa del mio compagno. Non ero affatto certo che egli avesse notato questi rumori, sebbene una strana alterazione fosse in quegli ultimi pochi minuti avvenuta in tutto il suo aspetto. Da una positura iniziale che lo aveva tenuto di fronte a me, egli aveva a poco a poco mosso la sua seggiola in modo da sedere con la faccia rivolta all’uscio della stanza, dimodo che’io non potevo scorgere i suoi lineamenti che in parte, benché vedessi che le sue labbra tremavano come se egli mormorasse qualcosa intelligibilmente. Aveva lasciato ricadere la testa sul petto; ma capivo che non dormiva dal suo occhio spalancato, in una fissità quasi rigida, di cui potevo cogliere una visione fuggevole di profilo. Anche il movimento del suo corpo era in contrasto con questa eventualità, poiché si dondolava innanzi e indietro con un’oscillazione lieve ma al tempo stesso costante e uniforme. Dopo aver notato rapidamente tutto cio’, ripresi la lettura del racconto di sir Launcelot, che così procedeva: 

E ora il campione sfuggito alla terribile furia del drago e pensando allo scudo di bronzo e alla rottura dell’incantesimo che incombeva su di esso, scostò dal suo cammino la carogna del mostro e avanzò valorosamente sul pavimento argenteo del castello verso il punto in cui lo scudo pendeva dalla parete, ed esso in verità non attese il suo giungere, ma cadde ai suoi piedi sul pavimento d’argento, con un fragore possente, spaventosamente rimbombante. 

Le mie labbra avevano appena proferito queste ultime sillabe, che (come se uno scudo di bronzo fosse veramente caduto in quel medesimo istante con improvviso fragore sul pavimento d’argento) io avvertii una vibrazione distinta, cava, metallica, squillante, benché apparentemente soffocata. Incapace di dominare più a lungo i miei nervi, balzai in piedi, ma il moto misurato oscillante di Usher proseguì imperturbato. Accorsi alla seggiola in cui sedeva. Aveva gli occhi fissi dinanzi a sé e da tutto il suo aspetto emanava una rigidità petrigna. Ma non appenagli ebbi posato una mano sulla spalla sentii l’intero suo corpo vibrare di un brivido intenso; un sorriso malsano gli aleggiò sulle labbra e io vidi che egli mormorava sommessamente, frettolosamente, parole sconnesse, quasi fosse totalmente ignaro della mia presenza. Mi chinai sudi lui e alla fine compresi il pauroso significato delle sue parole. – Non l’ho udito? Certo che l’ho udito. E lo odo ancora. Da tanto…tanto… tanto… da molti minuti, da molte ore, da molti giorni, io lo odo, e tuttavia non ho osato… oh, pietà di me, miserabile sciagurato che sono! Non osavo… non osavo parlare! L’abbiamo calata nella tomba viva! Non ti dicevo che i miei sensi sono acutissimi? Ebbene ti dico adesso che io ho inteso persino i suoi primi deboli movimenti nella cavità del sarcofago. Li ho avvertiti… molti, molti giorni fa… e tuttavia non osavo… non osavo parlare! Ed ecco che… stanotte…Ethelred… ah! ah! L’abbattersi dell’uscio dell’eremita, e l’urlo di morte del drago, e il clangore dello scudo!… Vuoi dire piuttosto l’infrangersi della sua bara, il suono stridente dei cardini di ferro della sua prigione, il suo dibattersi entro l’arcata foderata di rame della cripta! Oh, dove fuggirò? Non sarà ella qui tra poco? Non sta forse affrettandosi per rimproverarmi la mia precipitazione? Forse che non ho inteso il suo passo sulle scale? Non distinguo forse lo spaventoso pesante battito del suo cuore? Pazzo! – A questo punto balzò in piedi come una furia e urlò queste parole come se nello sforzo esalasse tutta la sua anima: – Pazzo! Ti dico che ella sta ora in piedi fuori dell’uscio! 
Quasi che la sovrumana energia della sua voce contenesse la potenza evocatrice di un incantesimo, gli enormi antichi pannelli che egli additava, di schiusero lentamente, in quel medesimo istante, le loro poderose nere fauci. Fu senza dubbio l’opera dell’uragano infuriante; ma ecco che fuor di quell’uscio si ergeva veramente l’alta ammantata figura di lady Madeline di Usher. Il suo bianco sudario era macchiato di sangue, e su tutto il suo corpo emaciato apparivano evidenti i segni di una disperata lotta. Per un attimo ella rimase tremante, vacillante sulla soglia, poi con un gemito sommesso e prolungato cadde pesantemente sul corpo del proprio fratello e nei suoi violenti e ormai supremi spasimi agonici lo buttò al suolo cadavere, vittima dei giustificati terrori che lo avevano agitato. 
Da quella camera e da quella casa io fuggii inorridito. L’uragano infuriava ancora in tutta la sua collera mentre io attraversavo l’antico sentiero selciato. A un tratto rifulse sul viottolo una luce abbagliante e io mi volsi a guardare donde poteva provenire un così insolito fulgore, poiché dietro di me avevo soltanto l’immensa casa e le sue ombre. Il chiarore proveniva dalla luna calante, al suo colmo, sanguigna, che ora splendeva vividamente attraverso l’unica fessura appena discernibile di cui ho già parlato e che si stendeva dal tetto dell’edificio in direzione irregolare, serpeggiante, sino alla sua base. Mentre guardavo, questa fessura rapidamente si allargò, il turbine di vento infuriò in un supremo anelito, tutta l’orbita del satellite si rivelo’ improvvisa alla mia vista, il mio cervello vacillò, mentre i miei occhi vedevano le possenti mura spalancarsi, s’intese un lungo tumultuante urlante rumore simile al frastuono di mille acque, e il profondo stagno ai miei piedi si chiuse cupo e silenzioso sui resti della “Casa degli Usher”. 

harry-clarke-duo-967-kb.jpgHarry Clarke: Illustrazione per il racconto Il crollo della casa degli Usher

Il racconto si sviluppa attraverso un narratore interno alla storia, che ce la mostra nel modo in cui lui la percepisce. Attraverso questa tecnica, secondo cui il lettore ne sa quanto il narratore, Poe riesce a creare quel clima di tensione tipico di gran parte dei suoi racconti, attraverso i quali insegnerà sia la struttura della narrazione orrorifica, sia quella che in Italia prende il nome di gialla. Il protagonista è un intellettuale, nevroticamente malato che ha una sorella altrettanto malata, che ci appare in modo talmente ineffabile, da perdere qualsiasi consistenza. Essa più che una persona, sembra essere la personificazione dell’idea di morte, che si proietta all’interno della psiche ossessionata di Roderick. Si è che i due fratelli gemelli, la cui malattia funziona come se ci trovassimo di fronte alla teoria dei vasi comunicanti, non sono altro che la proiezione dell’idea di morte, verso il cui abisso precipitano, portando dietro sé la casa e tutto ciò che essa contiene. La critica psicoanalitica ha parlato di “rimosso” e di Madelaine (sorella di Roderick) come l’idea stessa di morte verso cui tende la pulsione dell’inconscio malato, e del suo io più profondo (saranno queste istanze che avvicineranno Poe più verso quella poetica maledetta dei poeti francesi e dei nostri scapigliati che all’interno della poetica romantica, non dimenticando, tuttavia che «l’arte di Poe, specie nei suoi racconti, è una delle espressioni più profonde di un’essenziale tendenza romantica: l’esplorazione della zona buia della psiche, dove si annidano i “mostri”, i terrori, le angosce, gli impulsi inconfessabili. E’ questa la caratteristica di quel filone della letteratura romantica che abbiamo definito “nero”. I racconti di Poe sono dominati da atmosfere allucinate, stravolte, dense di mistero, talvolta ottenute con grande economia di mezzi, talvolta invece puntando sul macabro e l’orroroso. Poe fu anche il creatore di un genere destinato ad immensa fortuna, il racconto poliziesco, fondato su un misterioso delitto e sulla ricerca dell’assassino da parte di un acuto investigatore (Gli omicidi della Rue Morgue)» (Guido Baldi)   

Russia

Già all’inizio del Settecento la cultura russa si era aperta all’influenza europea, durante il cosiddetto “periodo pietroburghese” (nel 1713, Pietro il Grande trasportò la capitale a San Pietroburgo); in seguito grazie a Caterina II che permette entrino nel suo paese istanze illuminate e neoclassiche. Lo stesso si può dire per quanto riguarda la cultura romantica: ciò che tuttavia lo caratterizza è la vera e propria mitizzazione di Byron, preso ad esempio di una vita romantica. Ma non bisogna sminuire la cultura russa, come se fosse un semplice plagio di quella europea – in particolare francese o inglese; l’inserimento di elementi tipici della loro tradizione saranno preparatori per la grandissima stagione della letteratura russa durante la seconda metà dell’Ottocento.

Il romanticismo russo si esplicita sia sul piano lirico che su quello narrativo, generi sui quali si ispireranno sia Michail Jur’evič Lermontov che Aleksandr Sergeevič Puškin.

Mikhail_lermontov.jpgMichail Jur’evič Lermontov

Michail Jur’evič Lermontov nasce a Mosca nel 1814. A sedici anni si iscrive all’Università di Mosca, ma l’abbandona per abbracciare la carriera militare. Si getta con entusiasmo nella vita mondana di Pietroburgo, ostentando pose anticonformiste e di scherno veerso la società del tempo, cercando d’imitare il suo mito, Byron. Muore appena a 27 anni a seguito di un duello.

Tra le sue opere più importanti ci piace ricordare il poema Il demone (pubblicato dopo la morte) e Il novizio. Appaiono in ambedue figure come quella demoniaca, esiliata da un paradiso e alla ricerca di un assoluto, e che per questo si rifiuta di mescolarsi al mondo e alla grettezza della gente. Lo stesso argomento potremo trovarlo nel suo romanzo, Un eroe del nostro tempo (1840), inserito, tuttavia, in un ambiente più realista: 

Un eroe del nostro tempo, ambientato nel Caucaso, è composto da cinque novelle che hanno in comune il protagonista, il giovane ufficiale Pečorin. Le prime due (Bela; Maksim Maksimyč, si fingono narrate all’autore da un amico di Pečorin, appunto Maksim Maksimyč. Le restanti (Taman; La principessa Mary; Il fatalista) appaiono tratte da un diario di Pečorin. Bela è una principessa tartara rapita con l’astuzia da Pečorin e uccisa per una vendetta dal tartaro Kasbič; Maksim Maksimyč è il fuggevole incontro di Pečorin con l’amico al quale affida il diario. Dopo una breve avvertenza in cui si informa il lettore della morte di Pečorin, si passa a Taman, storia di un agguato teso all’ufficiale da una bella contrabbandiera. Nella Principessina Mary, sullo sfondo della città termale di Piatigorks, Pečorin tesse una trama futile e perversa ai danni di due donne innamorate di lui, la sua antica amante Vera e la giovane Mary. Il tenente Grušnickij, innamorato di Mary, lo sfiderà e verrà da lui ucciso. Nel fatalista l’ufficiale Vulič, per dimostrare di credere al destino, sperimenta su di sé, di fronte a Pečorin, la “roulette russa”. La pistola fa cilecca, ma Pečorin gli ha letto in volto la morte e glielo dice. La sera stessa Vulič viene ucciso da un tartaro ubriaco incontrato per caso.

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Edizione russa dell’opera di Lermontov

IN COMPAGNIA DELLA SIGNORINA MARY

La sera una numerosa compagnia si è avviata a piedi verso l’orrido. Secondo l’opinione degli scienziati locali quest’orrido non è altro che un cratere spento; esso si trova sulle pendici del Mašùk, a una versta dalla città. Vi si giunge per uno stretto sentiero tra rocce e arbusti; mentre salivamo la montagna ho porto il braccio alla principessina e lei non l’ha più lasciato per tutta la durata della passeggiata.
La nostra conversazione ha preso avvio dalle maldicenze: ho cominciato a passare in rassegna i nostri conoscenti, presenti e assenti, mettendone in evidenza dapprima i tratti ridicoli e poi i difetti. Mi si è eccitata la bile: avevo cominciato scherzando e ho terminato in preda a un autentico furore. Dapprima ciò l’ha divertita, ma poi l’ha spaventata.
«Siete un uomo pericoloso!» mi ha detto, «preferirei finire in un bosco sotto il coltello di un assassino piuttosto che sulla vostra lingua tagliente… Vi chiedo senza scherzi: il giorno che vi venisse in mente di parlare di me, prendete piuttosto un coltello e sgozzatemi: penso che non vi sarebbe così difficile.»
«Ho forse l’aspetto di un assassino?…»
«Siete peggio.»
Mi sono impensierito un momento e poi ho detto, assumendo un’aria profondamente commossa: «Sì, questa è stata la mia sorte fin dalla mia prima infanzia! Tutti leggevano sul mio viso i segni di brutte qualità che non avevo; ma le supponevano, e così sono nate. Ero riservato: mi rimproveravano di essere malizioso; così sono diventato chiuso. Sentivo profondamente il bene e il male; nessuno mi coccolava, tutti mi offendevano: così sono diventato permaloso; ero cupo mentre gli altri bambini erano allegri e chiacchieroni; io mi sentivo superiore a loro, e loro mi consideravano inferiore. Sono diventato invidioso. Ero pronto ad amare tutto il mondo, ma nessuno mi ha capito: allora ho imparato ad odiare. La mia giovinezza incolore è trascorsa nella lotta contro me stesso e il mondo; i miei sentimenti migliori, per timore di venire deriso, li ho sepolti nel profondo del cuore: e lì sono morti. Dicevo la verità, ma non mi credevano. Ho cominciato ad ingannare; dopo aver conosciuto bene il mondo e le molle della società mi sono fatto esperto dell’arte del vivere e ho visto che gli altri erano felici senz’arte, godevano gratis di quei vantaggi che io cercavo di ottenere così instancabilmente. Allora nel mio petto è nata la disperazione: non quella disperazione che si cura con un colpo di pistola, ma una disperazione fredda, impotente, nascosta dietro l’amabilità e un sorriso benevolo. Sono diventato un invalido morale: una metà della mia anima non esisteva, si era disseccata, era evaporata, era morta, io l’ho amputata e gettata via; invece l’altra reagiva e viveva al servizio di ognuno, ma questo nessuno l’ha notato, perché nessuno sapeva dell’esistenza dell’altra metà morta; ma adesso voi me ne avete suscitato il ricordo, e io vi ho recitato il suo epitaffio. Di solito gli epitaffi sembrano tutti ridicoli alla maggior parte della gente, ma non a me, in particolare quando mi ricordo di cosa cova sotto di essi. Del resto non vi chiedo di condividere la mia opinione: se la mia uscita vi pare ridicola, prego, ridete pure: vi avverto che non me ne addolererò affatto».
In quell’istante ho incontrato i suoi occhi: erano pieni di lacrime; la sua mano, appoggiata sopra la mia, tremava, le sue gote ardevano… le facevo pena! La compassione, sentimento a cui così facilmente soggiacciono le donne, aveva affondato i propri artigli nel suo cuore inesperto. Per tutta la durata della passeggiata è stata distratta, non ha civettato con nessuno e questo è un grande segno!
Siamo giunti all’orrido; le dame hanno lasciato il braccio dei loro cavalieri, ma lei non ha abbandonato il mio. Le arguzie dei dandies locali non la facevano ridere; lo strapiombo dell’abisso, sull’orlo del quale si trovava, non la spaventava, mentre le altre signore lanciavano gridolini e si coprivano gli occhi.
Sulla strada del ritorno non ho ripreso la nostra triste conversazione, ma alle mie domande e ai miei scherzi frivoli lei rispondeva brevemente e distrattamente.
«Avete amato?», le ho chiesto infine.
Lei mi ha guardato fissamente e ha scosso la testa… e di nuovo si è fatta pensierosa; era evidente che aveva voglia di dire qualcosa, ma che non sapeva da che parte cominciare; il suo petto era in agitazione Che fare? Una manica di mussolina è una debole difesa e una scintilla elettrica scoccò dal mio braccio al suo; quasi tutte le passioni cominciano così e sovente inganniamo noi stessi pensando che la donna ci ami per le nostre doti fisiche o morali; certamente esse preparano, predispongono il loro cuore ad accogliere il sacro fuoco, ma è tuttavia il primo contatto che decide la faccenda.
«Non è vero che oggi sono stata molto gentile?», mi ha domandato la principessina con un sorriso forzato al ritorno dalla passeggiata.
Ci siamo congedati…
E’ scontenta di sé: si accusa di freddezza! Oh, questo è il primo, importante trionfo! Domani ella vorrà ricompensarmi. Tutte queste cose le so già a memoria, ecco quel che è noioso!

MV5BZWYyMTI5MDAtMWJhOC00YWE5LTg0MWItOTg4NDRmOTI3NjQyXkEyXkFqcGdeQXVyMzY1MzQyOTY@._V1_.jpgPečorin in una fiction della tv russa

Nel brano sembra riecheggiare l’eco del grande romanzo del libertinismo francese Le relazioni pericolose: se tuttavia il racconto dell’atto di seduzione del visconte di Valmont verso l’austera Mme de Tourvel aveva per Laclos un significato di tipo moralista, nel caso di Lermontov ci troviamo, viceversa in un’azione in cui si vuole descrivere il vuoto entro cui si trova l’intellighenzia russa dopo il fallimento della rivoluzione decabrista del 1825. L’azione di  Pečorin, non solo nel brano presentato, è condotta per noia “Tutte queste cose le so già a memoria, ecco quel che è noioso!“. Egli infatti è il rappresentante dell’uomo che non crede più a nulla; “medicina e veleno” lo definisce lo stesso Lermontov: medicina perché attraverso la mostra di sé può illustrare la vacuità e quindi la possibilità di riscatto; veleno perché denota quasi l’impossibilità dell’uomo a risorgere dallo stato in cui versa la Russia di allora. Romanticamente potremo definire Pečorin come un demonio, ma se tale demonio nelle opere precedenti cercava l’assoluto, nell’Eroe del nostro tempo denuncia la vacuità anche dell’uomo superiore.

Altro grande narratore è certamente Aleksandr Sergeevič Puškin, anch’egli autore di liriche, ma soprattutto del romanzo in versi Evgenij Oneghin e La figlia del capitano.

AleksandrPushkin.jpgAleksandr Sergeevič Puškin

Anche Puškin nasce a Mosca, nel 1799, da un famiglia di letterati: se pertanto la sua giovinezza si nutre della ricca biblioteca familiare, così non si può dire per quanto riguarda l’aspetto affettivo. Del suo primo periodo, oltre a precettori francesi e tedeschi, gli rimane in mente la “njanja” Arina Radionovna, che gli racconta antiche fiabe popolari. Entrato in liceo, si accosta ad idee riformatrici, che lo fanno allontanare dalla capitale. Andato in esilio, viaggia in Crimea, nel Caucaso, in Moldavia, per terminare ad Odessa. Richiamato dalla corte (affinché potesse essere controllato meglio) sposa la bellissima Natal’ja Gončarova, da cui ebbe quattro figli; ma il suo comportamento frivolo, gli porta più di un dispiacere, tanto da sfidare a duello un barone francese: ferito a morte, muore dopo due giorni, nel 1837.

“Ma perché è così importante, Puškin? Tutti conosciamo i grandi romanzieri russi dell’otto e del novecento, ma prima, nel settecento, chi erano i romanzieri russi? Non c’erano: quei pochi, come Karamzin, scrivevano imitazioni dei romanzi francesi, perché i romanzi russi non esistevano. Era una cosa esotica, per un russo, scrivere romanzi, nel settecento, ed era esotico anche, per la classe colta, parlare in russo, perché la lingua madre della maggior parte dei nobili russi dei tempi di Puškin non era il russo, era il francese, il russo lo parlavano i servi della gleba, che erano la maggioranza della popolazione ma non sapevano leggere e scrivere. A Puškin era molto simpatica la sua njanja, la sua bambinaia, Arìna Rodiònovna, che era una serva della gleba e che gli ha insegnato una lingua che era parlata e compresa dalla stragrande maggioranza dei russi, ma che non aveva una letteratura. Puškin ha usato questa lingua per fondare la letteratura russa moderna, le ha dato una dignità letteraria, ha usato, per primo, questo strumento così duttile, così tenero e così violento, dando il via a una stagione letteraria stupefacente.” (Paolo Nori)

81TIfzOOr1L.jpgEdizione russa dell’Evgenij Oneghin

Nell’Evgenij Oneghin (1832), romanzo in versi, il protagonista è un dandy pietroburhese che rifiuta l’amore della bella e giovane Tatjana. Solo dopo molti anni la rincontra e stavolta s’innamora di lei, ma la donna nel frattempo si è sposata. Pur contraccambiando il suo amore, lo rifiuta per rispetto al marito. Più complessa la trama de La figlia del capitano (1834):

Romanzo storico. A raccontare la storia è l’ufficiale Grinjov, che ha assistito ai fatti e li descrive filtrandoli attraverso la sua sensibilità e cultura. Grinjov è di stanza nella fortezza di Belogòrsk, dove incontra e s’innamora di Mar’ja, la figlia del capitano Mirònov che è a capo dell’avamposto. La storia ha il suo culmine nell’attacco di Pugačëv al forte e nella sua conquista. Il capo dei ribelli fa giustiziare Mirònov, ma risparmia Grinjov per il coraggio dimostrato nel dichiararsi fedele all’imperatrice, e anzi lo libera. Grinjov viene per questo sospettato di tradimento e solo l’intervento di Mar’ja convincerà in seguito l’imperatrice  a concedergli la grazia. Non vi sarà invece scampo per Pugačëv, di lì a poco orrendamente giustiziato.

IL FAZZOLETTO BIANCO

Quella notte non dormii e non mi spogliai. Avevo intenzione di recarmi all’alba verso la porta della fortezza da dove Mar’ja Ivànovna sarebbe dovuta uscire e là dirle addio per l’ultima volta. Sentivo in me un gran cambiamento: l’agitazione della mia anima mi era molto meno penosa della malinconia nella quale ancora poco tempo prima ero sprofondato. Alla tristezza della separazione si univano in me anche confuse ma dolci speranze e l’impaziente attesa dei pericoli e il sentimento di una nobile ambizione. La notte passò inavvertitamente. Volevo già uscire di casa quando la mia porta si aprì e si presentò da me un caporale con la notizia che i nostri cosacchi di notte avevano lasciato la fortezza prendendo con sé a forza Jùlaj e che attorno alla fortezza si aggiravano degli sconosciuti. Il pensiero che Mar’ja Ivànovna non avrebbe fatto in tempo a uscire mi terrorizzava; diedi velocemente al caporale alcune istruzioni e mi precipitai dal comandante.
Si faceva ormai giorno. Volavo per strada quando sentii che mi si chiamavano. Mi fermai. «Dove va?» disse Ivàn Ignat’ič, raggiungendomi. «Ivàn Kuzmič è sul bastione e mi ha mandato a cercarla. E’ arrivato Pugàč». «Se n’è andata Mar’ja Ivànovna?» chiesi con un tremito al cuore. «Non ha fatto in tempo» rispose Ivàn Ignat’ič, «la strada per Orenbùrg è interrotta; la fortezza è accerchiata. Andiamo male, Pëtr Andreič!»
Andammo sul bastione: un’altura naturale fortificata con delle travi di legno. Là si ammassavano già tutti gli abitanti della fortezza. La guarnigione era in armi. Il cannone l’avevano trasferito lì il giorno prima. Il comandante andava avanti e indietro di fronte al suo esiguo schieramento. La vicinanza del pericolo aveva animato il vecchio militare di uno straordinario vigore. Nella steppa, a poca distanza dalla fortezza si aggirava una ventina di uomini a cavallo. Sembravano dei cosacchi, ma tra loro si trovavano anche dei baschiri, che si potevano facilmente riconoscere dai cappelli di lince e dalle faretre. Il comandante faceva il giro del suo esercito dicendo ai soldati: «Be’, bambini, difendiamo oggi la mammina imperatrice e dimostriamo a tutto il mondo che siamo gente brava e onorata!». I soldati manifestarono ad alta voce il loro zelo. Švabrin stava accanto a me e guardava fisso i nemici. Gli uomini che si aggiravano per la steppa, notando dei movimenti nella fortezza si riunirono in gruppo e si misero a parlare tra loro. Il comandante ordinò a Ivàn Ignat’ič di dirigere il cannone sul loro gruppo e accostò egli stesso la miccia. La palla fischiò e volò sopra di loro senza fare alcun danno. I cavalieri, disperdendosi, sparirono al galoppo e la steppa si vuotò.
Allora comparve sul bastione Vasilisa Egòrovna e con lei Maša, che non aveva voluto separasi da lei. «Be’?» disse la moglie del comandante «come va la battaglia? Dove sarebbe il nemico?» «Il nemico è vicino» rispose Ivàn Ignat’ič: «Se Dio vuole, tutto andrà bene. Be’, Maša, hai paura?» «No, babbo» rispose Mar’ja Ivànovna «a casa da sola è peggio.» Allora gettò uno sguardo su di me e con uno sforzo sorrise . Involontariamente strinsi l’elsa della mia spada ricordando che il giorno prima l’avevo ricevuta dalle sue mani, come a difendere la mia amata. Il mio cuore ardeva. Mi immaginavo di essere il suo cavaliere. Bramavo di dimostrare che ero degno della sua fiducia, e con impazienza mi misi ad aspettare il momento decisivo.
Intanto, da un’altura che si trovava a mezza versta dalla fortezza erano sbucate nuove masse a cavallo e presto la steppa fu popolata da una folla di uomini armati di lance e di archi. Tra di loro su un cavallo bianco c’era un uomo in caffettano rosso e in mano la spada sguainata: era Pugačëv in persona. Si fermò; lo circondarono, e, era evidente, per ordine suo quattro uomini si allontanarono e a tutta velocità galopparono fino alla fortezza. Riconoscemmo in loro i nostri traditori. Uno di essi teneva sopra al cappello un foglio di carta; un altro teneva sulla lancia la testa di Julàj, che, con uno scrollone, ci gettò attraverso la palizzata. La testa del povero calmucco cadde ai piedi del comandante. I traditori gridavano: «Non sparate; uscite incontro al sovrano. Il sovrano è qui!»
«Adesso ve lo do io»! gridò Ivàn Kuzmič «ragazzi fuoco!» I nostri soldati spararono una salva. Il cosacco che aveva la lettera barcollò e cadde da cavallo; gli altri galopparono indietro. Gettai uno sguardo a Mar’ja Ivànovna. Colpita dalla vista della testa insanguinata di Julàj, stordita dalla salva, sembrava senza sensi. Il comandante chiamò un caporale e gli ordinò di prendere il foglio dalle mani del cosacco ucciso. Il caporale uscì dal campo e ritornò conducendo per le briglie il cavallo dell’ucciso. Consegnò la lettera al comandante. Ivàn Kuzmič la lesse tra sé e poi la fece in pezzi. Nel frattempo i rivoltosi si preparavano evidentemente all’azione. Presto le pallottole cominciarono a fischiare alle nostre orecchie e alcune frecce si conficcarono attorno a noi per terra e sulle travi di legno. «Vasilisa Egòrovna!» disse il comandante «questa non è faccenda da donne; porta via Maša; vedi: la ragazza è più morta che viva.»
Vasilisa Egòrovna, resa docile dalle pallottole, gettò uno sguardo alla steppa, nella quale c’era un gran movimento; poi si voltò verso il marito e gli disse: «Ivàn Kuzmič, la vita e la morte dipendono dalla volontà di Dio: benedici Maša. Maša avvicinti a tuo padre!»
Maša, pallida e tremante, si avvicinò a Ivàn Kuzmič, si mise in ginocchio e gli si inchinò fino a terra. Il vecchio comandante le fece tre volte il segno della croce; poi la fece alzare e, baciandola, le disse con voce mutata: «Be’, Maša sii felice. Prega Dio: non ti abbandonerà. Se troverai un  uomo buono, che Dio vi dia amore e accordo. Vivete come abbiamo vissuto io e Vasilisa Egòrovna. Be’, addio Maša. Vasilisa Egòrovna, portala via, presto.» (Maša gli si gettò al collo e scoppiò in singhiozzi). «Baciamoci anche noi» disse, scoppiando a piangere la moglie del comandante «Addio, mio Ivàn Kuzmič. Perdonami se in qualche volta ti ho fatto arrabbiare!» «Addio, addio mammina!» disse il comandante abbracciando la sua vecchia. «Be’, basta! Andate, andate a casa; e se fai in tempo, metti a Maša il “sarafan”». La moglie del comandante si allontanò con la figlia.  Seguii con lo sguardo Mar’ja Ivànovna. Lei si girò a guardare e mi fece un segno con la testa. A questo punto Ivàn Kuzmič si voltò verso di noi e tutta la sua attenzione si fissò sui nemici. I rivoltosi si strinsero intorno al loro capo e d’un tratto cominciarono a scendere da cavallo. «Adesso tenetevi forte,» disse il comandante «ci sarà l’assalto…» In quel momento si sentirono uno strillo e delle grida; i rivoltosi correvano a piedi verso la fortezza. Il nostro cannone era caricato a mitraglia. Il comandante li fece arrivare aala più breve distanza possibile e all’improvviso sparò ancora. La mitraglia colpì al centro della folla. I rivoltosi si spostarono da entrambi i lati e indietreggiarono. Il loro capo rimase solo in testa… Agitò la spada e sembrava che cercasse di persuaderli con calore. Le strilla e le grida, che per un momento avevano taciuto, subito ricominciarono. «Be’, ragazzi», disse il comandante, «adesso apri la porta e batti il tamburo! Ragazzi, avanti, alla sortita, con me!»
Il comandante, Ivàn Ignat’ič e io in un attimo eravamo oltre il bastione della fortezza; ma la guarnigione intimorita non si mosse. «Cosa state fermi, bambini?» gridò Ivàn Kuzmič, «se c’è da morire, moriamo: siamo soldati!» In quel momento i rivoltosi erano arrivati fino a noi e irruppero nella fortezza. Il tamburo tacque; la guarnigione gettò i fucili; mi spinsero a terra, ma mi rialzai ed entrai con i rivoltosi nella fortezza. Il comandante, ferito alla testa, era in piedi tra un mucchio di delinquenti che gli chiedevano le chiavi. I stavo per gettarmi in suo aiuto; alcuni cosacchi robusti mi presero e mi legarono con delle cinture, dicendo: «Adesso vi danno quel che vi meritate, disubbidienti al sovrano!» Ci trascinarono per le strade; gli abitanti uscivano dalle case con il pane e il sale. Echeggiò il suono delle campane. All’improvviso nella folla gridarono aspettava in piazza i prigionieri e riceveva il giuramento. La folla si riversò in piazza; spinsero là anche noi.
Pugačëv sedeva in poltrona sul terrazzino d’ingresso della casa del comandante. Aveva un rosso caffettano da cosacco con i galloni cuciti. Un alto cappello di zibellino con nappe dorate era calcato sui suoi occhi scintillanti. Il suo viso mi sembrò conosciuto. I capi cosacchi lo circondavano. Padre Gherasim, pallido e tremante, stava sul terrazzino con una croce in mano e sembrava che lo supplicasse in silenzio per le vittime imminenti. Sulla piazza alzarono in fretta una forca. Quando ci avvicinammo, i baschiri dispersero la folla ci presentarono a Pugačëv. Il suono delle campane tacque; si fece un profondo silenzio. «Qual è il comandante?» chiese l’impostore. Il nostro sottufficiale uscì dalla folla e indicò Ivàn Kuzmič. Pugačëv guardò minaccioso il vecchio e gli chiese: «Come hai osato opporti a me, il tuo sovrano?» Il comandante, sfinito dalla ferita, raccolse le ultime forze e rispose con voce ferma: «Tu a me non sei sovrano; tu sei un ladro e un impostore, hai capito?» Pugačëv si accigliò cupamente e sventolò un fazzoletto bianco. Alcuni cosacchi afferrarono il vecchio capitano e lo trasportarono fino alla forca. Sulla traversa stava a cavallo il baschiro che avevamo interrogato alla vigilia. Teneva in mano la corda e un istante dopo vidi il povero Ivàn Kuzmič appeso all’aria. Allora condussero da Pugačëv Ivàn Ignat’ič. «Presta giuramento» gli disse Pugačëv «al sovrano Pëtr Feòdorovič!» «Tu a noi non sei sovrano» rispose Ivàn Ignat’ič, ripetendo le parole del suo capitano, «tu, zietto, sei un ladro e un impostore!» Pugačëv scosse ancora il fazzoletto e il buon tenente si librò in aria accanto al suo vecchio capo.
La fila era arrivata a me. Guardai coraggiosamente Pugačëv preparandomi a ripetere la risposta dei miei generosi compagni. Allora, con mio indescrivibile stupore, vidi tra i capi dei rivoltosi Švabrin, coi capelli tagliati in tondo e un caffettano cosacco. Si avvicinò a Pugačëv e gli disse all’orecchio alcune parole. «Appenderlo!» disse Pugačëv senza  guardarmi. Mi gettarono al collo un cappio. Cominciai a recitare tra me una preghiera recando a Dio un sincero pentimento di tutti i miei peccati e pregandolo per la salvezza di tutti coloro che erano vicini al mio cuore. Mi trascinarono sotto la forca. «Non aver paura, non aver paura» mi ripetevano i carnefici, desiderando forse davvero farmi coraggio. A un tratto sentii il grido: «Fermi, maledetti, aspettate!» I carnefici si arrestarono. Guardai: Savel’ič giaceva ai piedi di Pugačëv. «Padre mio!» diceva il povero servo «cosa ti viene dalla morte di un signorino? Lascialo libero; ti daranno un riscatto; e come esempio e per far paura ordina di appendere magari me che son vecchio!» Pugačëv fece un segno e mi slegarono e liberarono subito. «Il nostro babbino ti risparmia» mi dissero. In quel momento non posso dire che mi rallegrai della mia salvezza, non dirò tuttavia che me ne dispiacqui. I miei sentimenti erano troppo confusi. Mi portarono ancora dall’impostore e mi posero davanti a lui in ginocchio. Pugačëv mi tese la sua mano fitta di vene. «Bacia la mano, bacia la mano!» si diceva intorno a me. Ma io avrei preferito la pena più atroce a questa vile umiliazione. «Babbino Pëtr Andreič!» sussurava Savel’ič che stava dietro di me e mi spingeva: «non ostinarti! Cosa ti costa? Sputaci su e bacia al malf… (bah!) baciagli la mano.» Non mi muovevo. Pugačëv lasciò andare la mano dicendo con un sogghigno: – Sua signoria a quanto pare è ingrullito per la gioia. Alzatelo. Mi alzarono e mi lasciarono libero. Io misi a guardare il seguito dell’orribile commedia.

800px-Перов_Суд_Пугачева_(ГИМ).jpgL’esecuzione di Pugačëv

Il passo rispecchia certamente l’intero romanzo: ciò che emerge è il contrapporsi tra due forme di violenza sia di chi difende, sia di chi attacca. Puškin non giudica, presenta e per far questo adotta la tecnica dello straniamento: a raccontare è Grinjov che fedele all’imperatrice ma al contempo legato da un rapporto di sincerità con Pugačëv (lo incontra come contadino che lo aiuta a ritrovare la strada perduta durante una tormenta) non può prendere posizione, come il suo autore. Per lui, molto presumibilmente, alla luce della violenza contro il capitano della fortezza di Pugačëv e la sua terribile morte per mano dell’imperatrice, è necessario un mondo più tollerante, fatto di una politica più umana, quale nella Russia di Alessandro I e Nicola I non garantivano.

Italia

In Italia la poetica romantica accoglie in modo propositivo le istanze che giungono dalla cultura europea, ma mette anche a frutto gli insegnamenti sia del Monti con i suoi squarci notturni che del Foscolo, il cui romanzo epistolare funge, se così si può dire, da tramite tra le istanze di un preromanticismo già patriottico e le più mature battaglie insurrezionali e politiche che costelleranno la nostra storia nazionale.

I punti del romanticismo italiano sono:

  • la critica ma non l’abiura delle istanze illuministiche (critica al razionalismo più spinto, ma non alla verità);
  • la riscoperta del Medioevo (sulla stregua anche della lettura del romano di Walter Scott, Ivanhoe),
  • la rinascita religiosa (legata chiaramente anche al recupero dell’età di mezzo, in cui la credenza in Dio sovrintendeva ogni sapere ed ogni atto della vita) 
  • l’idea di Patria che s’accosta a quelle precedenti: non è un caso che sia proprio il Medioevo a porre fine all’Universalismo romano, e che le nuove realtà nazionali nascano proprio intorno all’anno 1000.

Sulla_maniera_e_la_utilità_delle_traduzioni.pdf.jpeg

Articolo della De Staël

Alla fine dell’esperienza napoleonica, i nuovi governanti austriaci, attraverso il ministro  Bellegarde, cercarono di convogliare su di sé l’approvazione della classe intellettuale di Milano, allora capitale culturale della penisola, attraverso la nascita di una rivista letteraria la Biblioteca Italiana, le cui pubblicazioni iniziarono nel 1814 e terminarono nel 1840. Nella città meneghina si trovavano Monti, Foscolo ed il giovane Manzoni; quest’ultimi rifiutarono, non così Monti che ne divenne direttore. Il Romanticismo italiano nesce nel gennaio del 1816 quando su questa rivista la ginevrina M.me De Staël pubblicò un articolo dal titolo Sulla maniera e sull’utilità delle traduzioni:

GLI ITALIANI SI RINNOVINO TRADUCENDO

L’Europa certamente non ha una traduzione omerica, di bellezza e di efficacia tanto prossima all’originale, come quella del Monti: nella quale è pompa ed insieme semplicità; le usanze più ordinarie della vita, le vesti, i conviti acquistano dignità dal naturale decoro delle frasi: un dipinger vero, uno stile facile ci addomestica a tutto ciò che ne’ fatti e negli uomini d’Omero è grande ed eroico. Niuno vorrà in Italia per lo innanzi tradurre la Iliade; poiché Omero non si potrà spogliare dell’abbigliamento onde il Monti lo rivestì: e a me pare che anche negli altri paesi europei chiunque non può sollevarsi alla lettura d’Omero originale, debba nella traduzione italiana prenderne il meglio possibile di conoscenza e di piacere. Non si traduce un poeta come col compasso si misurano e si riportano le dimensioni d’un edificio; ma a quel modo che una bella musica si ripete sopra un diverso istrumento: né importa che tu ci dia nel ritratto gli stessi lineamenti ad uno ad uno, purché vi sia nel tutto una eguale bellezza.
Dovrebbero a mio avviso gl’Italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro cittadini, i quali per lo più stanno contenti all’antica mitologia: né pensano che quelle favole sono da un pezzo anticate, anzi il resto d’Europa le ha già abbandonate e dimentiche. Perciò gl’intelletti della bella Italia, se amano di non giacere oziosi, rivolgano spesso l’attenzione al di là dall’Alpi, non dico per vestire le fogge straniere, ma per conoscerle; non per diventare imitatori, ma per uscire di quelle usanze viete, le quali durano nella letteratura come nelle compagnie i complimenti, a pregiudizio della naturale schiettezza. Che se le lettere si arricchiscono colle traduzioni de’ poemi; traducendo i drammi si conseguirebbe una molto maggiore utilità; poiché il teatro è come il magistrato della letteratura. Shakspeare tradotto con vivissima rassomiglianza dallo Schlegel, fu rappresentato ne’ teatri di Germania, come se Shakspeare e Schiller fossero divenuti concittadini. E facilmente in Italia si avrebbe un eguale effetto: né parmi a dubitare che sul bel teatro milanese non fosse gradita l’Atalía*, se i cori fossero accompagnati dalla stupenda musica italiana. Mi si dirà che in Italia vanno le genti al teatro, non per ascoltare, ma per unirsi ne’ palchetti gli amici più famigliari e cianciare. E io ne conchiuderò che lo stare ogni dì cinque ore ascoltando quelle che si chiamano parole dell’opera italiana, dee necessariamente fare ottuso, per mancanza di esercizio, l’intelletto d’una nazione. (…) In questa continua ed universale frivolezza di tutte le pubbliche e private radunanze, dove ognuno cerca l’altrui compagnia per fuggire sè stesso e liberarsi da un grave peso di noia, se voi poteste per mezzo a’ piaceri mescere qualche util vero e qualche buon concetto, porreste nelle menti un poco di serio e di pensoso, che le disporrebbe a divenire buone per qualche cosa.
Havvi oggidì nella Letteratura italiana una classe di eruditi che vanno continuamente razzolando le antiche ceneri, per trovarvi forse qualche granello d’oro: ed un’altra di scrittori senz’altro capitale che molta fiducia nella lor lingua armoniosa, donde raccozzano suoni vôti d’ogni pensiero, esclamazioni, declamazioni, invocazioni, che stordiscono gli orecchi, e trovan sordi i cuori altrui, perché non esalarono dal cuore dello scrittore. Non sarà egli dunque possibile che una emulazione operosa, un vivo desiderio d’esser applaudito ne’ teatri, conduca gl’ingegni italiani a quella meditazione che fa essere inventori, e a quella verità di concetti e di frasi nello stile, senza cui non ci è buona letteratura, e neppure alcuno elemento di essa?
Piace comunemente il drama in Italia: e degno è che piaccia sempre più, divenendo più perfetto e utile alla pubblica educazione: e nondimeno si dee desiderare che non impedisca il ritorno di quella frizzante giocondità onde per l’addietro era sì lieto. Tutte le cose buone devono essere tra sè amiche.
Gl’Italiani hanno nelle belle arti un gusto semplice e nobile. Ora la parola è pur una delle arti belle, e dovrebbe avere le qualità medesime che le altre hanno: giacché l’arte della parola è più intrinseca all’essenza dell’uomo; il quale può rimanersi piuttosto privo di pitture e di sculture e di monumenti, che di quelle imagini e di quegli affetti ai quali e le pitture e i monumenti si consacrano. Gl’Italiani ammirano e amano straordinariamente la loro lingua, che fu nobilitata da scrittori sommi: oltreché la nazione italiana non ebbe per lo più altra gloria, o altri piaceri, o altre consolazioni se non quelle che dava l’ingegno. Affinché l’individuo disposto da natura all’esercizio dell’intelletto senta in sè stesso una cagione di mettere in atto la sua naturale facoltà bisogna che le nazioni abbiano un interesse che le muova. Alcune l’hanno nella guerra, altre nella politica: gl’Italiani deono acquistar pregio dalle lettere e dalle arti; senza che giacerebbero in sonno oscuro, d’onde neppur il sole potrebbe svegliarli.

*Tragedia di Racine rappresentata in Italia nel 1692

Madame_de_Stael_4.jpgM.me De Staël

L’analisi della De Staël sulla cultura italiana è piuttosto attenta:

  • loda l’idioma, elogiando la musicalità della versificazione del Monti nella sua traduzione dell’Iliade omerica rispetto a tutte quelle europee;
  • critica l’esagerata venerazione verso gli autori antichi;
  • disapprova l’uso di tutta la tradizione mitologica, diventata vuota forma, capace di parlare all’intelletto ma non al cuore.

E’ evidente che l’appunto che fa l’intellettuale ginevrina va a colpire i fondamenti su cui si è basata sinora la nostra tradizione letteraria, la quale non ha voluto solamente “abbellire” con i riferimenti l’opera letteraria, ma dare ad essi la forza per il superamento dello spazio e del tempo che la cancellazione di essi e l’attenzione verso il presente porterebbero.

giordani_185d49f482d0e118d928168ede995943-2.jpgPietro Giordani

A lei risponde, sempre nella Biblioteca Italiana Pietro Giordani, nell’aprile del 1816:

UN ITALIANO RISPONDE A M.ME DE STAËL

Fra gli studi veramente utili ed onorevoli all’Italia porremo noi le traduzioni de’ poemi e de’ romanzi oltramontani? Sarà veramente arricchita la nostra letteratura adottando ciò che le fantasie settentrionali crearono? Così dice la baronessa, così credono alcuni italiani; ma io sto con quelli che pensano il contrario. Consideriamo prima la loro fondamentale ragione: ci vuole novità. Ma io dico: oggetto delle scienze è il vero, delle arti il bello. Non sarà dunque pregiato nelle scienze il nuovo, se non in quanto sia vero, e nelle arti, se non in quanto sia bello. Le scienze hanno un progresso infinito, e possono ogni dì trovare verità prima non sapute. Finito è il progresso delle arti: quando abbiano e trovato il bello, e saputo esprimerlo, in quello riposano. Né si creda sì angusto spazio, benché sia circoscritto. Se vogliamo che ci sia bello tutto ciò che ci è nuovo, perderemo ben presto la facoltà di conoscere e di sentire il bello. Gli artisti del disegno delirarono nel secolo decimosettimo, cercando nelle pitture, nelle statue, negli edifizi le più stravaganti novità; e uscirono affatto dalla bellezza e dalla convenienza; dove l’età nostra molto saviamente è ritornata. Ma l’arte di scrivere, che nel Seicento fu da moltissimi difformata per la stessa follia di novità, ha veramente mutato nel secol nostro, ma forse in peggio; in quanto che si è allontanata non pur dall’antico, ma dal nazionale. Ché almeno i seicentisti avevano una pazzia originale e italiana: la follia nostra è di scimie, e quindi tanto più deforme. Già si potrebbe molto disputare se sia veramente bello tutto ciò che alcuni ammirano ne’ poeti inglesi e tedeschi; e se molte cose non siano false, o esagerate, e però brutte; ma diasi che tutto sia bello; non per questo può riuscir bello a noi se lo mescoliamo alle cose nostre. O bisogna cessare affatto d’essere italiani, dimenticare la nostra lingua, la nostra istoria, mutare il nostro clima e la nostra fantasia, o, ritenendo queste cose, conviene che la poesia e la letteratura si mantenga italiana: ma non può mantenersi tale, frammischiandovi quelle idee settentrionali, che per nulla si possono confare alle nostre. Questa mescolanza di cose insociabili produrrebbe (come già troppo produce) componimenti simili a’ centauri, che l’antichità favolò generati dalle nuvole. Non dico per questo che non possa ragionevolmente un italiano voler conoscere le poesie e le fantasie de’ settentrionali, come può benissimo recarsi personalmente a visitare i lor paesi; ma nego che quelle letterature (comunque verso di sé belle e lodevoli) possano arricchire e abbellire la nostra, perché sono essenzialmente insociabili. Altro è andar nel Giappone per curiosità di vedere quasi un altro mondo dal nostro: altro è, tornato di là, volere fra gl’italiani vivere alla giapponese. Io voglio concedere a’ cinesi che abbia eleganza il loro vestire, abbia decoro il loro fabbricare, abbia grazia il loro dipingere. Ma se uno ci consigliasse di edificare e dipingere e vestire come i cinesi; poiché già è invecchiato il modo che noi teniamo di queste cose, parrebbeci buono il consiglio? Quante ragioni addurremmo di non doverlo né poterlo seguire! E della letteratura settentrionale oltre le ragioni abbiamo pur anche avviso dalla ’sperienza, che, innestata contro natura alle nostre lettere, ne ha fatto scomparire quel pochissimo che vi rimaneva d’italiano. Ognuno ponga mente come si scriva  in Italia, dappoiché vi regna Ossian; dietro cui è venuta numerosa turba di simili traduttori. E bello è che questi appassionati di Milton, o di Klopstok, non conoscono poi Dante, e non conosciuto lo disprezzano: cosa da far molto ridere e gl’inglesi e i tedeschi. Troppo è vero che agli stranieri debbano parere isterilite oggidì in Italia le lettere; ma questa povertà nasce da pigrizia di coltivare il fondo paterno; né per acquistar dovizia ci bisogna emigrare e gittarci sulle altrui possessioni, i cui frutti hanno sapore e sugo che a noi non si confà. Studino gl’Italiani ne’ propri classici, e ne’ latini e ne’ greci; de’ quali nella italiana più che in qualunque altra letteratura del mondo possono farsi begl’innesti; poiché ella è pure un ramo di quel tronco; laddove le altre hanno tutt’altra radice; e allora parrà a tutti fiorita e feconda. Se proseguiranno a cercare le cose oltramontane, accadrà che sempre più ci dispiacciano le nostre proprie (come tanto diverse) e cesseremo affatto dal poter fare quello di che i nostri maggiori furono tanto onorati; né però acquisteremo di saper fare bene e lodevolmente ciò che negli oltramontani piace; perché a loro il dà la natura, che a noi altramente comanda; e così in breve condurremo la nostra letteratura a somigliare quel mostro che Orazio descrisse nel principio della Poetica*.

*Orazio all’inizio dell’Ars Poetica immagina, come corrispettivo di un testo di troppo libera invenzione fantastica, un mostro con testa di donna, cervice equina e membra prese ad ogni sorta di animali e ricoperte di piume.

La lettera di Giordani viene posta all’interno della posizione critica di alcuni letterati italiani di fronte all’argomentazione della De Staël, posizione che, per facilità, inseriremo all’interno dei “classicisti”. Eppure, al di là della pacata argomentazione del Giordani, che riprende il concetto della atemporalità dell’arte (finito è il progresso delle arti: quando abbiano e trovato il bello, e saputo esprimerlo, in quello riposano), lo stesso sottolinea il concetto di “italianità” nell’utilizzo del classico per le nostre lettere; in effetti il Giordani, che approfondirà in seguito il suo liberalismo e patriottismo, teme lo snaturamento della tradizione culturale e quindi dell’italianità, in un momento storico in cui il tema dell’identità nazionale è centrale nell’ideologia risorgimentale.  

A favore della De Staël è invece Giovanni Berchet, che sempre nel 1816 scrive la fondamentale, per la poetica romantica, Lettera semiseria di Grisostomo per il suo figliolo: 

Giovanni_Berchet.jpgGiovanni Berchet

Il “PUBBLICO” ROMANTICO

Tutti gli uomini, da Adamo in giù fino al calzolaio che ti fa i begli stivali, hanno nel fondo dell’anima una tendenza alla poesia. Questa tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva, non è che una corda che risponde con simpatiche oscillazioni al tocco della prima.
La natura, versando a piene mani i suoi doni nell’animo di que’ rari individui ai quali ella concede la tendenza poetica attiva, pare che si compiaccia di crearli differenti affatto dagli altri uomini in mezzo a cui li fa nascere. Di qui le antiche favole sulla quasi divina origine de’ poeti, e gli antichi pregiudizi sui miracoli loro, e l’«est deus in nobis». Di qui il più vero dettato di tutti i filosofi: che i poeti fanno classe a parte, e non sono cittadini di una sola società ma dell’intero universo. E per verità chi misurasse la sapienza delle nazioni dalla eccellenza de’ loro poeti, parmi che non iscandaglierebbe da savio. Né savio terrei chi nelle dispute letterarie introducesse i rancori e le rivalità nazionali. OmeroShakespeare, il Calderon, il Camoens, il Racine, lo Schiller per me sono italiani di patria tanto quanto Dante, l’Ariosto e l’Alfieri. La repubblica delle lettere non è che una, e i poeti ne sono concittadini tutti indistintamente. La predilezione con cui ciascheduno di essi guarda quel tratto di terra ove nacque, quella lingua che da fanciullo imparò, non nuoce mai alla energia dell’amore che il vero poeta consacra per instituto dell’arte sua a tutta insieme la umana razza, né alla intensa volontà per la quale egli studia colle opere sue di provvedere al diletto ed alla educazione di tutta insieme l’umana razza. Però questo amore universale, che governa l’intenzione de’ poeti, mette universalmente nella coscienza degli uomini l’obbligo della gratitudine e del rispetto; e nessuna occasione politica può sciogliere noi da questo sacro dovere. Finanche l’ira della guerra rispetta la tomba d’Omero e la casa di Pindaro.
Il poeta dunque sbalza fuori delle mani della natura in ogni tempo, in ogni luogo. Ma per quanto esimio egli sia, non arriverà mai a scuotere fortemente l’animo de’ lettori suoi, né mai potrà ritrarre alto e sentito applauso, se questi non sono ricchi anch’essi della tendenza poetica passiva. Ora siffatta disposizione degli animi umani, quantunque universale, non è in tutti gli uomini ugualmente squisita.
Lo stupido ottentoto, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i campi di sabbia che la circondano, e s’addormenta. Esce de’ suoi sonni, guarda in alto, vede un cielo uniforme stendersegli sopra del capo, e s’addormenta. Avvolto perpetuamente tra ’l fumo del suo tugurio e il fetore delle sue capre, egli non ha altri oggetti dei quali domandare alla propria memoria l’immagine, pe’ quali il cuore gli batta di desiderio. Però alla inerzia della fantasia e del cuore in lui tiene dietro di necessità quella della tendenza poetica.
Per lo contrario un parigino agiato ed ingentilito da tutto il lusso di quella gran capitale, onde pervenire a tanta civilizzazione, è passato attraverso una folta immensa di oggetti, attraverso mille e mille combinazioni di accidenti. Quindi la fantasia di lui è stracca, il cuore allentato per troppo esercizio. Le apparenze esterne delle cose non lo lusingano (per così dire); gli effetti di esse non lo commovono più, perché ripetuti le tante volte. E per togliersi di dosso la noia, bisogna a lui investigare le cagioni, giovandosi della mente. Questa sua mente inquisitiva cresce di necessità in vigoria, da che l’anima a pro di lei spende anche gran parte di quelle forze che in altri destina alla fantasia ed al cuore; cresce in arguzia per gli sforzi frequenti a’ quali la meditazione la costringe. E il parigino di cui io parlo, anche senza avvedersene, viene assuefacendosi a perpetui raziocini o, per dirla a modo del Vico, diventa filosofo.
Se la stupidità dell’ottentoto è nimica alla poesia, non è certo favorevole molto a lei la somma civilizzazione del parigino. Nel primo la tendenza poetica è sopita; nel secondo è sciupata in gran parte. I canti del poeta non penetrano nell’anima del primo, perché non trovano la via d’entrarvi. Nell’anima del secondo appena appena discendono accompagnati da paragoni e da raziocini: la fantasia ed il cuore non rispondono loro che come a reminiscenze lontane. E siffatti canti, che sono l’espressione arditissima di tutto ciò che v’ha di più fervido nell’umano pensiero, potranno essi trovar fortuna fra tanto gelo? E che maraviglia se, presso del parigino ingentilito, quel poeta sarà più bene accolto che più penderà all’epigrammatico?
Ma la stupidità dell’ottentoto è separata dalla leziosaggine del parigino fin ora descritto per mezzo di gradi moltissimi di civilizzazione, che più o meno dispongono l’uomo alla poesia. E s’io dovessi indicare uomini che più si trovino oggidì in questa disposizione poetica, parmi che andrei a cercarli in una parte della Germania.
A consolazione non pertanto de’ poeti, in ogni terra, ovunque è coltura intellettuale, vi hanno uomini capaci di sentire poesia. Ve n’ha bensì in copia ora maggiore, ora minore; ma tuttavia sufficiente sempre. Ma fa d’uopo conoscerli e ravvisarli ben bene, e tenerne conto. Ma il poeta non si accorgerà mai della loro esistenza, se per rinvenirli visita le ultime casipole della plebe affamata, e di là salta a dirittura nelle botteghe da caffè, ne’ gabinetti delle Aspasie, nelle corti de’ principi, e nulla più. Ad ogni tratto egli rischierá di cogliere in iscambio la sua patria, ora credendola il capo di Buona speranza, ora il cortile del Palais-royal. E dell’indole dei suoi concittadini egli non saprà mai un ette.
Ché s’egli considera che la sua nazione non la compongono que’ dugento che gli stanno intorno nelle veglie e ne’ conviti; se egli ha mente a questo: che mille e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni tutte, senza pure avere un nome ne’ teatri; può essere che a lui si schiarisca innanzi un altro orizzonte, può essere che egli venga accostumandosi ad altri pensieri ed a più vaste intenzioni.
L’annoverare qui gli accidenti fisici propizi o avversi alla tendenza poetica; il dire minutamente come questa, del pari che la virtù morale, possa essere aumentata o ristretta in una nazione dalla natura delle instituzioni civili, delle leggi religiose e di altre circostanze politiche; non fa all’intendimento mio. Te ne discorreranno, o carissimo, a tempo opportuno, i libri ch’io ti presterò. Basti a te per ora il sapere che tutte le presenti nazioni d’Europa — l’italiana anch’essa né più né meno — sono formate da tre classi d’individui: l’una di ottentoti, l’una di parigini e l’una, per ultimo, che comprende tutti gli altri individui leggenti ed ascoltanti, non eccettuati quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant’altri, pur tuttavia ritengono attitudine alle emozioni. A questi tutti io do nome di «popolo».

Cosa afferma Berchet in questa celeberrima lettera? Il letterato lombardo parte da Giovambattista Vico, il quale afferma che dapprima gli uomini sono poeti e poi filosofi, definendo tale passaggio come crescita; Berchet la rovescia, dando la palma alla capacità poetica umana che è universale. Tuttavia tale capacità può essere distribuita in tre tipologie umane differenti:

  • passiva: gli ottentotti, originariamente popolazione dell’Africa meridionale, per Berchet coloro che non possono e non sanno sollevarsi al di sopra di semplici bisogni fisici;
  • spenta: i parigini, figli dell’illuminismo raziocinante e classicisti, così abituati alle raffinatezze letterarie da non saper più parlare “al cuore e alla fantasia”
  • attiva: quella parte della popolazione a cui l’attività poetica non è ancora stata spenta, ma non trova corrispondenza letteraria che possa ravvivarla: tale compito spetta alla letteratura romantica.

Berchet non ne parla, ma è evidente che il suo discorso non può prescindere dall’attenzione che la cultura romantica deve alla lingua da utilizzare: infatti la lingua poetica sinora utilizzata, per Berchet,  non può essere che quella “dei parigini”; quella per il romanzo, genere di nessuna tradizione nelle nostre lettere, – lo Jacopo Ortis foscoliano è, linguisticamente parlando, lirico) non esiste ancora (ci penserà, appunto, Manzoni). 

12137967030.jpgIl vocabolario della Crusca del 1806

Ma perché nell’Ottocento diventa cruciale il discorso linguistico? Semplicemente perché l’Italia non è unita né politicamente né linguisticamente ed è sotto il controllo straniero; se il Romanticismo, ed il Risorgimento ad esso legato, mettono al centro della loro riflessione politica e culturale l’identità di nazione, risulta evidente che essa va cercata anche e soprattutto in una unificazione linguistica. Tre sono le teorie che qui velocemente riportiamo:

  • Il purismo di Antonio Cesari e Basilio Puoti, secondo il quale la lingua letteraria deve riprendere i grandi trecentisti sino agli scrittori rinascimentali; aspra è la sua battaglia contro i francesismi (d’illuministica memoria), che assumono tuttavia anche valore politico;
  • Moderatismo classicista i cui maggiori esponenti furono Vincenzo Monti e Pietro Giordani, secondo i quali non è corretto escludere tutta la tradizione letteraria; la lingua pertanto dovrà essere modellata sull’esempio dei grandi scrittori, ma non dovrà escludere le sollecitazioni che gli giungono dall’età presente (si pensi al linguaggio medico e tecnico)
  • Moderno e nazionale, così come la vogliono i romantici, capace di sollecitare il pubblico offrendo loro un prodotto che parli al cuore e alla fantasia. Tale proposito l’affronterà in seguito il Manzoni che non interverrà in modo diretto sulla “questione della lingua”, quanto, piuttosto, in modo “pratico”; I promessi sposi sono infatti un esempio probante di una lingua nazionale e popolare, ottenuta utilizzando il toscano parlato dalle persone colte.

Il Romanticismo italiano, al pari e forse più dell’Illuminismo, coinvolto, come già detto, alla storia nazionale, non può prescindere dalla diffusione di idee, progetti, così come non può fare a meno di discussioni culturali e/o politiche. Per questo egli riprende e accentua l’importanza delle riviste: come per il ‘700 illuminato era stato fondamentale Il Caffè, per la cultura romantica saranno fondamentali Il Conciliatore, l’Antologia ed il Politecnico.

Il_Conciliatore_1818.jpg

Il Conciliatore o Foglio azzurro per il colore delle sue pagine, durò soltanto un anno, dal 1818 al 1819, perché mal visto dall’autorità austriaca che vedeva in esso uno strumento politico più che letterario. Il suo programma si basa sul concetto di utilità generale, dice Borsieri, nel primo numero della rivista, a nome dell’intera redazione:

L’utilità generale deve essere senza dubbio il primo scopo di chiunque vuole in qualsiasi modo dedicare i suoi pensieri al servizio del Pubblico; e quindi i libri e gli scritti di ogni sorta, se dalla utilità vadano scompagnati, possono meritamente assomigliarsi a belle e frondose piante che non portano frutto, e che il buon padre di famiglia esclude dal suo campo. Partendo da questo principio parve agli Estensori del “Conciliatore” che due cose fossero da farsi nella scelta delle materie. Preferire in prima quelle, le quali sono immediatamente riconosciute utili dal maggior numero; ed unirle ad altre che, oltre l’essere dilettevoli di lor natura, avvezzano altresì gli uomini a rivolgere la propria attenzione sopra se stessi, e possono quando che sia recar loro una utilità egualmente reale, quantunque non egualmente sentita.

Il Conciliatore nasce con l’intenzione di riunire gli intellettuali italiani, fossero anche di estrazione diversa ad un progetto comune, per meglio dire conciliare differenti sensibilità per agire per il progresso del paese.  Ma il nome della rivista, che chiaramente si opponeva alla filogovernativa Biblioteca Italiana, voleva anche “conciliare” la volontà di progresso tipica dell’Illuminismo con lo spirito romantico (aspetto che sarà tipico dei nostri maggiori romantici, Manzoni e Leopardi). Tuttavia l’idea di rinnovamento culturale e sociale non poteva non incontrare dapprima il contrasto, quindi l’opposizione del governo austriaco, che decise di convocare il direttore Silvio Pellico e di bandirlo da Milano se avesse continuato a pubblicare articoli “politici”. Pertanto la redazione decise di chiudere la rivista.

Giovan_Pietro_Vieusseux.jpgGiampiero Viesseux

L’Antologia può definirsi come l’erede della rivista milanese. Pubblicato nel tollerante Granducato di Toscana di Ferdinando III tra il 1821 ed il 1832, quando fu chiusa dopo i moti del ”31 in un nuovo clima di sospetto e repressioni. Più moderata del Conciliatore, la rivista tuttavia per chi vi collaborò mostrava chiaramente un ispirazione liberale e cattolica. Essa nacque dall’incontro tra Gino Capponi e Giampiero Viesseux e si riuniva appunto nel “Gabinetto scientifico-letterario Viesseux”, (gabinetto da cabinet francese piccolo luogo; ancora oggi si usa a livello politico: gabinetto di governo, cioè consiglio dei ministri) e venne frequentati da famosi letterari del tempo fra i quali ricordiamo Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni ed il francese Stendhal.

Vieusseux-salaFerri.jpg  Il Gabinetto Viesseux oggi (Sala Ferri)

La poesia romantica in Italia, al di là dell’esperienza leopardiana e manzoniana, per il resto è piuttosto caduca; potremo parlare tuttavia di diversi indirizzi: quello prettamente romantico, per citare i più rappresentativi, del Berchet e Grossi; il maggiormente politico, si pensi a Goffredo Mameli; l’importante (forse non nazionale) poesia dialettale di Carlo Porta (milanese) e Giuseppe Gioacchino Belli (romano); quella del secondo romanticismo, maggiormente sentimentale di Prati e Aleardi.

Cominciamo con Giovanni Berchet, di cui abbiamo già visto l’intervento teorico a sostegno della De Staël.  Nato a Milano nel 1873, sin da giovane si accosta  al romanticismo letterario per poi approdare alla carboneria durante i moti del ’21. Costretto a fuggire prima a Parigi e poi a Londra per una quindicina d’anni, fu lì, in esilio, che scrisse le sue principali opere. Tornato partecipò alla rivolta milanese del ’48. Al fallimento del moto rivoluzionario riparò in Piemonte, dove venne eletto deputato. Morì nel 1851.

IL TROVATORE

Va per la selva bruna 
solingo il Trovator 
domato dal rigor 
della fortuna. 

La faccia sua sì bella 
la disfiorò il dolor; 
la voce del cantor 
non è più quella. 

Ardea nel suo segreto; 
e i voti, i lai, l’ardor 
alla canzon d’amor 
fidò indiscreto. 

Dal talamo inacesso 
udillo il suo Signor: 
l’improvido cantor 
tradì se stesso. 

Pei dì del giovanetto 
tremò alla donna il cor,  
ignora fino allor 
di tanto affetto. 

E supplice al geloso, 
ne contenea il furor: 
bella del proprio onor 
piacque allo sposo. 

Rise l’ingenua. Blando 
l’accarezzò il signor; 
ma il giovan trovator 
cacciato è in bando. 

De’ cari occhi fatali 
più non vedrà il fulgor, 
non berrà più da lor 
l’obblio de’ mali. 

Varcò quegli atri muto 
ch’ei rallegrava ognor 
con gl’inni del valor, 
col suo liuto. 

Scese, varcò le porte; 
stette, guardolle ancor; 
e gli scoppiava il cor 
come per morte. 

Venne alla selva bruna: 
qui erra il trovator, 
fuggendo ogni chiaror 
fuor che la luna. 

La guancia sua sì bella 
più non somiglia a un fior; 
la voce del cantor 
non è più quella.

5005829.jpgEdizione inglese delle “Romanze” di Berchet

Il Trovatore, considerato da molti il capolavoro del Berchet, si presenta in modo paradigmatico riguardo la poetica romantica italiana; in esso infatti troviamo:

  • tema sentimentale: un amore descritto in modo etereo, vago, in cui un giovane trovatore,
    innamorato della della donna del Signore, viene scoperto e quindi bandito dalla patria;
  • tema nazionale: il passo viene letto attraverso un’allegoria politica: il Signore rappresenta l’Austria, la castellana l’Italia ed il trovatore i patrioti costretti vagare lontano dalla patria. Ci piace ricordare che a fianco alla lettura (forse un po’ forzata) politica vi è anche quella autobiografica;
  • tema storico: la riscoperta del Medioevo;
  • La popolarità della lettura: Berchet ottiene la popolarità scegliendo come genere la romanza, dal carattere musicale ottenuto con l’utilizzo di stanze di quattro versi di cui i primi tre settenari e il quarto quinario con rime alternate di cui la terza e quarta in monorime. Continuo l’utilizzo delle parole tronche a dare velocità ed armonia al testo. Il lessico, pur ricercato, rifugge da ogni forma di mitologia e di intellettualismo spinto, riuscendo pertanto comprensibile ai lettori.

Giuseppe_Giusti_1.jpgGiuseppe Giusti

Giuseppe Giusti è un poeta toscano, nato da agiata famiglia presso Pistoia nel 1809. Conobbe a Milano Alessandro Manzoni ed altri intellettuali lombardi. La loro amicizia lo avvicinò ad ideologie liberali. Partì per Firenze dove partecipò ai moti del ’48. Morì di tisi a casa di un suo amico nel 1840.

IL RE TRAVICELLO

Al Re Travicello
piovuto ai ranocchi,  
mi levo il cappello
e piego i ginocchi;
lo predico anch’io
cascato da Dio: 
oh comodo, oh bello
un Re Travicello!

Calò nel suo regno
con molto fracasso;
le teste di legno
fan sempre del chiasso:
ma subito tacque,
e al sommo dell’acque
rimase un corbello
il Re Travicello.

Da tutto il pantano
veduto quel coso, 
«È questo il Sovrano
così rumoroso?
(s’udì gracidare).
Per farsi fischiare
fa tanto bordello
un Re Travicello?

Un tronco piallato 
avrà la corona? 
O Giove ha sbagliato, 
oppur ci minchiona: 
sia dato lo sfratto 
al Re mentecatto, 
si mandi in appello 
il Re Travicello.»

Tacete, tacete;
lasciate il reame,
o bestie che siete,
a un Re di legname.
Non tira a pelare,
vi lascia cantare,
non apre macello
un Re Travicello.

Là là per la reggia
dal vento portato,
tentenna, galleggia,
e mai dello Stato
non pesca nel fondo:
Che scienza di mondo!
Che Re di cervello
è un Re Travicello!

Se a caso s’adopra
d’intingere il capo,
vedete? di sopra
lo porta daccapo
la sua leggerezza.
chiamatelo Altezza,
chè torna a capello
a un Re Travicello.

Volete il serpente
che il sonno vi scuota?
Dormite contente
costì nella mota,
o bestie impotenti:
per chi non ha denti,
è fatto a pennello
un Re Travicello!

Un popolo pieno
di tante fortune,
può farne di meno
del senso comune.
Che popolo ammodo
che Principe sodo
che santo modello
un Re Travicello!

La poesia del Grossi, formata da 9 strofe di otto versi senari con rima alternata per i primi quattro e baciata per gli altri quattro versi, unisce alla cosiddetta “popolarità” il sarcasmo tipico della cultura toscana. La prima è ottenuta riprendendo una celeberrima favola di Esopo, rielaborata in seguito anche in lingua latina da Fedro, nella quale si racconta appunto che alle rane di uno stagno che con insistenza chiedevano un re, Zeus gettò un pezzo di legno, un travicello, appunto, che venne accolto con tutti gli onori. Non passò tuttvia molto tempo che, stanche di vederlo galleggiare immobile e muto, le rane ripresero a protestare vivacemente; allora Zeus inviò loro un serpente che le divorò tutte. Giusti cambia il finale, adattandolo alla sua allegoria: sembra infatti che il poeta volesse alludere al granduca di Toscana Leopoldo II che con la sua politica attendista e fortemente tollerante cercava di “addormentare” i fermenti di ribellione presenti in Toscana.

Di carattere chiaramente politico è il testo di Goffredo Mameli, (morto giovanissimo a 22 anni nella difesa della Repubblica Romana) musicato in seguito da Michele Notaro:

D Induno, Mameli.jpgGoffredo Mameli

CANTO DEGLI ITALIANI

Fratelli d’Italia
l’Italia s’è desta,
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
siam pronti alla morte
l’Italia chiamò.

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci,
l’Unione, e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Fratelli d’Italia / L’Italia si è svegliata, / si è messa in capo l’elmo di Scipione (che aveva conquistato l’Africa) / Dov’è la vittoria? / (La vittoria) porga il capo (all’Italia) / che Dio la creò schiava di Roma // Stringiamoci a coorte (suddivisione compatta di una legione romana) / siamo pronti a morire / l’Italia ci ha chiamato // Noi siamo da secoli / calpestati, derisi / perché non non siamo un popolo / perché siamo divisi / ci raccolga un’unica / bandiera, un’unica speranza / è arrivata già l’ora di unirci tutti insieme. // Stringiamoci a coorte (suddivisione compatta di una legione romana) / siamo pronti a morire / l’Italia ci ha chiamato // Uniamoci, amiamoci / l’unione politica e l’amore / mostrano al popolo / la via di Dio, / chi può allora vincerci? // Stringiamoci a coorte (suddivisione compatta di una legione romana) / siamo pronti a morire / l’Italia ci ha chiamato // Dalle Alpi sino alla Sicilia / dovunque è Legnano (dove si mostrò lo spirito che condusse la Lega Lombarda a sconfiggere l’imperatore Federgo Barbarossa nel 1176) / ogni uomo ha il coraggio di Ferruccio (militare che nel 1530 morì in difesa della Repubblica di Firenze contro le truppe imperiali) / i bambini d’Italia si chiamano Balilla (Giovanni Battista Perasso, soprannominato Balilla, nel 1746, lanciando una pietra contro un ufficiale, diede l’avvio a Genova alla rivoluzione che cacciò gli Austriaci dalla città) / i suoni di ogni tromba / ci richiama ad unirci (come in Sicilia, quando nel 1282, i palermitani si rivolsero contro gli Angioini, episodio storico che prende il nome di Vespri siciliani) // Le spade (dei mercenari) / sono giunchi che si piegano / ah, l’aquila imperiale / sta perdendo le penne / che ha bevuto / il sangue d’Italia / ed insieme alla Russia / il sangue di Polonia / ma quel sangue gli ha bruciato il cuore.

Quello che nel 1946 era ancora un Inno provvisorio, ma venne composto alla vigilia dell’insurrezione di Milano.  In esso si notano le principali caratteristiche della poesia – in questo caso consapevolmente canzone – risorgimentale: aulicità del dettato con ripetute inversioni, l’uso della prosopopea, ancora il richiamo a diversi momenti storici, dalla storia romana fino al ‘700, anche con accenni certamente intuibili dai rivoluzionari. Il testo del Mameli è chiaramente d’ispirazione mazziniana, così come si comprende dal riferimento alla benedizione divina per l’azione rivoluzionaria.

(Vi riporto gli ultimi anni dell’iter incredibile che fece diventare questo testo il nostro Inno nazionale: Il 29 giugno 2016, sulla scia del provvedimento del 23 novembre 2012, è stata presentata alla Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati una proposta di legge per rendere il Canto degli Italiani inno ufficiale della Repubblica Italiana. Il 25 ottobre 2017, la Commissione Affari costituzionali della Camera ha approvato tale proposta di legge, coi relativi emendamenti e il 27 ottobre, il disegno di legge è passato all’omologa commissione del Senato della Repubblica. Il 15 novembre 2017 il disegno di legge che riconosce il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e di Michele Novaro quale inno nazionale della Repubblica Italiana è stato approvato in via definita dalla Commissione Affari costituzionali del Senato.  Visto che le due citate commissioni parlamentari hanno approvato il provvedimento in “sede legislativa”, quest’ultimo è stato direttamente promulgato dal Presidente della Repubblica Italiana il 4 dicembre 2017 come “legge nº 181” senza la necessità dei consueti passaggi nelle aule parlamentari. Il 15 dicembre 2017 l’iter si è concluso definitivamente, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della legge nº 181 del 4 dicembre 2017, avente titolo “Riconoscimento del «Canto degli italiani» di Goffredo Mameli quale inno nazionale della Repubblica”, che è entrata in vigore il 30 dicembre 2017. I due commi che compongono la legge recitano:
«1. La Repubblica riconosce il testo del «Canto degli italiani» di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale.
2. Con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lettera ii), della legge 12 gennaio 1991, n. 13, sono stabilite le modalità di esecuzione del «Canto degli italiani» quale inno nazionale. La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.»
Data a Roma, addì 4 dicembre 2017

La seconda generazione romantica vide la luce dopo il fallimento dei moti rivoluzionari del ’48. In essa, soprattutto nella lirica, si nota un ripiegamento delle istanze precedentemente presenti sia sul piano del contenuto, dove, seppure si affrontava il discorso politico, spesso si cadeva nella retorica, oppure se il tema toccava i sentimenti si poteva scivolare nel lezioso.

I più rappresentativi poeti di questo periodo possiamo individuarli in Aleardo Aleardi (nato nel 1812) e Giovanni Prati (nato nel 1814), amici e collaboratori del periodico Il caffé Petrocchi. Impegnati politicamente ambedue vissero momenti di contrasto, conclusi con un temporaneo arresto da parte degli austriaci, ed ambedue conclusero la loro vita come senatori del Regno. Muoiono a Roma, il primo nel 1873, Prati nel 1884.

Portrait-of-Aleardo-Aleardi-Domenico-Induno-Oil-Painting.jpgDomenico Induno: Ritratto di Aleardo Aleardi

ALEARDO ALEARDI: LE TRE SORELLE

Morían l’autunno e il giorno; ed io sedea
s’una eminente pietra
al passo de la tetra
via che mena a la selva. Una serena
primizia di crepuscolo scendea
su la valle profonda,
dove flotta del glauco Adige l’onda;
mentre ancora sul monte
scintillavano i vetri
d’un paesel lontano,
e il sol dall’orizzonte
saettava sul piano
purissimo del Garda
una striscia d’instabili splendori,
quasi magico ponte, onde le nostre
mutue speranze varchino e i dolori
da la veneta sponda a la lombarda.

Poscia di sotto a un padiglion di foco
tremolando la spera
calava a poco a poco;
calar pareva dietro a la pendice
d’un de’ tuoi monti fertili di spade,
Niobe guerriera de le mie contrade,
leonessa d’Italia,
Brescia grande e infelice.
Accese nuvolette di corallo
rideano ancor per gli ampi
spazi del cielo; ma col mesto riso
del moribondo pio
che accenna col sereno occhio un addio,
movendo al paradiso.

E dal sentïer che adduce
giù da la selva io vidi
a la quieta luce
venire una fanciulla
pur sotto il fascio de le legne altera;
bruna la faccia e il crine
e la pupilla nera,
come frutto di spine.
Ella piangea. «Dimmi l’affanno, o bella
fanciulla, che ài nel core.»
Io le richiesi; ed ella
Risposemi: «Signore,
ieri legato al par d’un omicida
m’ànno condotto a la prigione il padre,
perchè lo colser là, con la sua fida
canna che fulminava una pernice.
Io penso all’infelice,
io penso a la cadente avola mia».
E più non disse, e seguitò la via.

Qui sono riportate le prime due sezioni su cinque di cui è composto l’intero testo poetico. Vi si immagina che il poeta, seduto meditabondo sull’alta costa di un monte da cui si domina la valle dell’Adige e il lago di Garda (descrizione delle prime due stanze) e quindi incontri tre fanciulle (la prima è qui riportata nella terza stanza), tutte colpite da una pena inflitta loro dagli austriaci. Il testo ci offre la possibilità di analizzare come nell’Aleardi vengano compendiate tutte le reminiscenze poetiche tipiche dell’esperienza romantica, dagli idilli leopardiani alle ballate e canzoni popolareggianti. 

effc873eee7044339c8261a4a298357a-1.jpgGiovanni Prati

GIOVANNI PRATI: NOTTE

Chiusa è la stanza; il lumicino è spento;
tacita è l’ombra; e qui pensoso io giaccio.
L’andar dell’oriuolo, altro non sento;
e cadrò presto a’ vani sogni in braccio.

Saprà darmi letizia o turbamento
il fantastico mondo, a cui m’affaccio?
e il cardellino o la procella o il vento
mi solverà da l’incantato laccio?

Vedrò il domani e i miei ? vedrò la stanza
rivisitata da l’ambrosia luce?
Vegli su me la carità de’ numi.

Sebben, dolce sarebbe oltr’ogni usanza,
dentro un sogno d’amor che al ciel conduce,
chiudere al tempo e non aprir più i lumi. 

“In Psiche, raccolta poetica in cui è inserito questo sonetto, i toni della poesia di Prati si fanno dolenti e malinconici. Vibra il senso del fallimento delle ambizioni personali e degli ideali storico-politici, e il poeta si rifugia nella dimensione privata del quotidiano (la presenza rassicurante delle cose di tutti i giorni, l’orologio, il cardellino, il vento…, che sembrano anticipare alla lontana Pascoli). L’aspirazione dell’animo, pervaso di vittimismo, è quella ad evadere nel sogno e in luoghi incantati, dove dimenticare le delusioni della vita. Nel finale, il sonetto si apre ad una prospettiva vagamente religiosa, in una recuperata sintonia con il tutto che si pone a mezzo tra il Romanticismo tedesco e certa estenuata religiosità decadente. Tuttavia è inutile cercare una qualche responsabilità ideologica: Prati mescola i numi di classica ascendenza con il sogno d’amor, così rivelando come la sua sia una fantasticheria innanzi tutto letteraria. (…) Il linguaggio permane troppo letterario, sospeso com’è tra la leziosità (il lumicino, l’oriuolo) e il sublime classicheggiante (l’ambrosia luce, i numi).” (Barbéri Squarotti).

Il Romanticismo lirico, oltre le naturali altissime esperienze di Manzoni e Leopardi, lo dobbiamo ricercare nella poesia dialettale. Infatti la scelta di inserirsi nel dibattito linguistico attraverso il dialetto raggiungeva due obiettivi fondamentali: quello della “reale” popolarità, dove il popolo non è il borghese di Berchet, ma quello reale che l’italiano non lo parla e si esprime solo nel linguaggio materno; l’altro la maggiore aderenza verso il reale, non come obiettivo da raggiungere, com’era per l’illuminismo, ma come rappresentazione dei reali sentimenti del popolo.

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Carlo Porta

Carlo Porta raggiunge con la sua poesia vette elevatissime. Egli appartiene alla prima generazione romantica, essendo nato nel 1775. Di padre borghese, si allontana da Milano solo in due occasioni: una in Baviera, per imparare il tedesco, l’altra a Venezia, dove si diverte, spendendo gran parte del proprio denaro. Torna a Milano ma, con l’arrivo dei Francesi (1800), viene allontanato dagli incarichi pubblici cui si era appena avviato. Li riprende con Napoleone, che gli affida il compito di cassiere generale al Monte (che lo metterà a contatto con la parte più debole della popolazione). Manterrà tale funzione anche con il ritorno degli austriaci. Morirà deluso, perché gli viene attribuito un testo di violenta satira contro il potere che lo metterà in seri guai con l’amministrazione austriaca (in realtà lo scrisse Porta), e malato di gotta, nel 1821.

OFFERTA A DIO

Donna Fabia Fabron de Fabrian
l’eva settada al foeugh sabet passaa
col pader Sigismond ex franzescan,
che intrattant el ghe usava la bontaa 
(intrattanta, s’intend, che el ris coseva)
de scoltagh sto discors che la faseva.

«Ora mai anche mì don Sigismond
convengo appien nella di lei paura
che sia prossima assai la fin del mond,
ché vedo cose di una tal natura,
d’una natura tal, che non ponn dars
che in un mondo assai prossim a disfas.

Congiur, stupri, rapinn, gent contro gent,
fellonii, uccision de Princip Regg, 
Violenz, avanii, sovvertiment
de troni e de moral, beffe, motegg
contro il culto, e perfin contro i natal
del primm Cardin dell’ordine social.

Questi, Don Sigismond, se non son segni
del complemento della profezia,
non lascian certament d’esser li indegni
frutti dell’attual filosofia;
frutti di cui, pur tropp, ebbi a ingoiar
tutto l’amaro, come or vò a narrar.

Essendo ieri venerdì de marz
fui tratta dalla mia divozion
a Sant Cels, e vi andiedi con quell sfarz
che si adice alla nostra condizion;
il mio copè con l’armi, e i lavorin
tanto al domestich quanto al vetturin.

Tutte le porte e i corridoi davanti
al tempio eren pien cepp d’una faragin
de gent che va, che vien, de mendicanti,
de mercadanti de librett, de immagin,
in guisa che, con tanto furugozz,
agio non v’era a scender dai carrozz.

L’imbarazz era tal che in quella appunt
ch’ero già quasi con un piede abbass,
me urtoron contro un pret sì sporch, sì unt
ch’io, per schivarlo e ritirar el pass,
diedi nel legno un sculaccion sì grand
che mi stramazzò in terra di rimand.

Come me rimaness in un frangent
di questa fatta è facil da suppôr:
e donna e damma in mezz a tanta gent
nel decor compromessa e nel pudôr
è più che cert che se non persi i sens
fu don del ciel che mi guardò propens.

E tanto più che appena sòrta in piè
sentii da tutt i band quej mascalzoni
a ciuffolarmi dietro il va via vè!
risa sconc, improperi, atti buffoni,
quasi foss donna a lor egual in rango,
cittadina… merciaja… o simil fango.

Ma, come dissi, quell ciel stess che in cura
m’ebbe mai sempre fino dalla culla,
non lasciò pure in questa congiuntura
de protegerm ad onta del mio nulla,
e nel cuor m’inspirò tanta costanza
quant c’en voleva in simil circostanza.

Fatta maggior de mì, subit impongo
al mio Anselm ch’el tacess, e el me seguiss,
rompo la calca, passo in chiesa, giongo
a’ piedi dell’altar del Crocifiss,
me umilio, me raccolgh, poi a memoria
fò al mio Signor questa giaculatoria:

“Mio caro buon Gesù, che per decreto
dell’infallibil vostra volontà
m’avete fatta nascere nel ceto
distinto della prima nobiltà,
mentre poteva a un minim cenno vostro
nascer plebea, un verme vile, un mostro:

io vi ringrazio che d’un sì gran bene
abbiev ricolma l’umil mia persona,
tant più che essend le gerarchie terrene
simbol di quelle che vi fan corona
godo così di un tal grad ch’è riflession
del grad di Troni e di Dominazion.

Questo favor lunge dall’esaltarm,
come accadrebbe in un cervell leggier,
non serve in cambi che a ramemorarm
la gratitudin mia ed il dover
di seguirvi e imitarvi, specialment
nella clemenza con i delinquent.

Quindi in vantaggio di costor anch’io
v’offro quei preghi, che avii faa voi stess
per i vostri nimici al Padre Iddio:
ah sì abbiate pietà dei lor eccess,
imperciocché ritengh che mi offendesser
senza conoscer cosa si facesser.

Possa st’umile mia rassegnazion
congiuntament ai merit infinitt
della vostra accerbissima passion
espiar le lor colpe, i lor delitt,
condurli al ben, salvar l’anima mia,
glorificarmi in cielo, e così sia.” 

Volendo poi accompagnar col fatt
le parole, onde avesser maggior pes,
e combinare con un po’ d’eclatt
la mortificazion di chi m’ha offes
e l’esempio alle damme da seguir
ne’ contingenti prossimi avvenir,

sorto a un tratt dalla chiesa, e a quej pezzent,
rivolgendem in ton de confidenza,
quanti siete, domando, buona gent?…
siamo ventun, rispondon, Eccellenza!
Caspita! molti, replico,… Ventun?…
Non serve: Anselm?… Degh on quattrin per un.» 

Chi tas la Damma, e chì Don Sigismond
pien come on oeuv de zel de religion,
scoldaa dal son di forzellinn, di tond,
l’eva lì per sfodragh on’orazion,
che se Anselm no interromp con la suppera
vattel a catta che borlanda l’era!

Donna Fabia Fabroni di Fabriano sabato scorso era seduta al fuoco col padre Sigismondo ex francescano che nel frattempo (cioè mentre il riso cuoceva) le usava la bontà di ascoltare il discorso che lei veniva facendo. «Oramai anch’io, don Sigismondo, convengo pienamente nella sua paura che la fine del mondo sia assai vicina, perché vedo le cose di una natura tale che non possono aver luogo se non in un mondo in disfacimento. Congiure, stupri, rapine, popoli contro popoli, fellonie, uccisioni di Principi Regi, violenze, angherie, sovvertimenti di troni e di morale, beffe, motteggi contro il culto e perfino contro i natali del primo Cardine dell’ordine sociale. Questi, don Sigismondo, se non sono segni dell’adempimento della profezia, sono però degni frutti della filosofia attuale, frutti di cui, purtroppo, ebbi a ingoiare tutto l’amaro, come le racconterò. Ieri, essendo venerdì di marzo, dalla mia devozione fui tratta a San Celso, e vi andai con quello sfarzo che si addice alla nostra condizione: il mio coupé con lo stemma, e gli alamari tanto ai domestici quanto al cocchiere. Tutte le porte e i corridoi davanti al tempio erano pieni zeppi di una farragine di gente che va e viene, di mendicanti, di mercatanti di libretti e di immagini così che, con tanto trambusto, non v’era agio per scendere dalle carrozze. L’imbarazzo era tale che proprio mentre avevo già quasi in terra un piede mi spinsero contro un prete così sporco, così unto che io, per schivarlo e ritirare il passo, diedi nella carrozza una sederata tanto grande che di rimando mi fece stramazzare a terra. Come mi rimanessi in un simile frangente è facile da supporre: donna e dama, in mezzo a tanta gente, compromessa nel decoro e nel pudore, è più che certo che se non persi i sensi fu dono del cielo che mi guardò benevolmente. E ciò tanto più che appena sorta in piedi sentii da tutte le parti quei mascalzoni zufolarmi alle spalle il ‘va via vè!’ Risa sconce, improperi, atti di scherno, come se fossi una donna di rango uguale al loro, cittadina, merciaia o simile fango. Tuttavia, come Le ho detto, quel cielo stesso che mi ebbe sempre in cura fino dalla culla anche in questa congiuntura non tralasciò di proteggermi malgrado il mio nessun valore e mi spirò nel cuore tanta costanza quanta ce ne voleva in una simile situazione. Fatta maggiore di me, subito impongo al mio Anselmo che tacesse e mi seguisse: rompo la calca, passo in chiesa, giungo ai piedi dell’altare del Crocefisso, mi umilio, mi raccolgo, poi a memoria faccio al mio Signore questa giaculatoria ‘Mio caro buon Gesù, che per decreto dell’infallibile vostra volontà mi avete fatto nascere nel ceto distinto della prima nobiltà mentre a un minimo cenno vostro potevo nascere plebea, un vile verme, un mostro; io vi ringrazio che abbiate ricolma la mia umile persona di un così grande bene, tanto più che essendo le gerarchie terrene simbolo di quelle che vi fanno corona godo di un grado che è riflessione del grado dei Troni e delle Dominazioni. Tale favore, lungi dall’esaltarmi, come accadrebbe in un cervello leggero, serve invece soltanto a ricordarmi la mia gratitudine e il dovere di seguirvi e imitarvi, soprattutto nella clemenza verso i delinquenti. A pro di costoro quindi anch’io vi offro quelle preghiere, che voi stesso avete fatto a Dio Padre per i nemici vostri: ah sì, abbiate pietà dei loro eccessi, perché ritengo che mi abbiano offesa senza sapere cosa facessero. Che questa umile mia rassegnazione, congiuntamente ai meriti infiniti della vostra acerbissima passione, possa espiare le loro colpe, i loro delitti, condurli al bene, salvare la mia anima, glorificarmi in cielo, e così sia’. Volendo poi accompagnare con i fatti le parole, perché avessero maggior peso, e combinare con un po’ di éclat la mortificazione di chi mi ha offeso e l’esempio da seguire per le dame in futuro, esco rapidamente dalla chiesa e rivolgendomi a quei pezzenti in tono di confidenza: ‘Quanti siete, domando, buona gente? Siamo ventuno, rispondono, Eccellenza! Caspita, molti, replico… ventuno? Non serve: Anselmo? date loro un quattrino per ciascuno’. Qui tace la dama e qui don Sigismondo, pieno come un uovo di zelo di religione, scaldato dal suono delle forchette, dei piatti, era lì lì per sfoderarle un’orazione che, se Anselmo con la zuppiera non l’interrompe, vattelapesca che sproloquio era!

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In questo testo, (schema metrico: sestine di endecasillabi, secondo lo schema ABABCC) uno dei più famosi del Porta, il poeta utilizza la struttura dell’antifrasi del Giorno, seguendo così quella linea lombarda di Parini che è un punto di riferimento importante. Infatti il testo viene illuminato proprio dal sarcasmo messo in luce dalle parole della donna che considera la nobiltà e i privilegi sociali di cui gode come fondati nella volontà stessa di Dio: per lei, le gerarchie terrene sono simbolo e riflesso di quelle celesti. E’ evidente pertanto che tutta la storia che anima i moti risorgimentali è un radicale sovvertimento dell’ordine voluto da Dio, tale da preannunciare la fine del mondo. La nobildonna quando deve parlare di popolo usa  termini quali merciaja… o simil fango e descrivendo l’incidente, la culata contro la carrozza, per evitare di venire a contatto con un prete sudicio, cadendo così a terra, tra l’ilarità generale) utilizza riferimenti evangelici in modo assolutamente blasfemo (perdonali perché non sanno quello che fanno). Il linguaggio è estremamente composito e sperimentale, tanto che si può a buon diritto parlare di pastiche linguistico. La strofa del prologo e quella dell’epilogo, scritte in milanese popolare e schietto, esprimono il punto di vista del poeta, che idealmente associa al suo giudizio il popolo cittadino. In mezzo si colloca il monologo della protagonista, Donna Fabia, il cui modo di esprimersi è una caricatura della lingua dei ceti elevati milanesi, chiamata lingua corrente o parlar finito, forma linguistica intermedia fra dialetto e italiano, che tradisce sia la spontaneità e la sincerità dell’uno, sia la correttezza formale dell’altro. L’uso maldestro e insieme pretenzioso della lingua della nobildonna, che si innalza ulteriormente al momento della preghiera sacrilega, si confà perfettamente alla rappresentazione della sua ignoranza e arrogante superbia.

Giuseppe_Gioachino_Belli.jpgGiuseppe Gioacchino Belli

La vita Giuseppe Gioachino Belli è più movimentata di quella del collega milanese: nasce a Roma nel 1791 da famiglia benestante, ma presto cade in miseria per la morte di peste del padre (1802) e quella della madre (1807). Ha appena sedici anni e si riduce a cercare qualche piccolo impiego ed ospitalità presso i prelati della città. Nel 1816 sposa una donna di dieci anni più grande, che lo aiuterà e lo proteggerà facendogli anche ottenere un lavoro più stabile presso la Curia papale. Rimessosi economicamente viaggia, raggiungendo Venezia, Milano (dove incontra Porta), Firenze che lo avvicina alle idee moderal liberali del Gabinetto Viesseux. La morte della moglie lo riporta a Roma, dove riprende il lavoro interrotto anni prima. A livello letterario la sua attività sembra scindersi in una ufficiale, con poesie disimpegnate e prone al potere costituito ed in una privata nelle poesie delle quali, dalla diffusione ristretta e circoscritta ad amici, attacca il governo e la religione. Alla proclamazione della Repubblica romana (1848), per la sua attività ufficiale cade in sospetto della nuova autorità, tale da portarlo ad assumere un atteggiamento sempre più reazionario, fino alla morte, avvenuta nel 1863.

Il suo itinerario poetico è stato ricostruito a posteriori dalla critica che ha sottolineato come il Belli abbia utilizzato per la sua produzione “il punto di vista” del popolo che appare a volte disincantato, privo di qualsiasi prospettiva futura, foss’anche consolatoria sul piano fideistico, sia arrabbiata, ma impotente contro il potere costituito della Chiesa.

LI PRELATI E LI CARDINALI

Pijete gusto: guarda a uno a uno
tutti li Cardinali e li Prelati;
e vederai che de romani nati
ce ne so ppochi, o nun ce n’è gnisuno.

Nun ze sente che Napoli, Belluno,
Fermo, Fiorenza, Genova, Frascati…
E qualunque città li ppiù affamati
li manna a Roma a cojonà er diggiuno.

Ma ssarìa poco male lo sfamalli:
er pegg’è che de tanti che ce trotteno
li somari sò ppiù de li cavalli.

E Roma, indove viengheno a dà ffonno,
e rinneghino Iddio, rubben’ e ffotteno,
è la stalla e la chiavica der monno.

Togliti la soddisfazione: osserva ad uno ad uno / tutti i cardinali ed i preti, / e vedrai che di quelli nati a Roma / ce ne sono proprio pochi, o addirittura non c’e nessuno. // Non si sente che gente di Napoli, Belluno (Veneti), / Fermo (Marchigiani), Firenze, Genova, Frascati (Laziali) /  ed ogni città manda a Roma / i più affamati, a mangiare ad abbuffarsi // Ma sarebbe poco male sfamarli / il peggio è che di tanti che ci stanno / sono più i somari che i cavalli // e Roma, dove vengono a prendersi tutto / rinnegano Dio, rubano, fottono / è la stalla e la fogna del mondo.

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Domenico Purificato: una litografia tratta dai sonetti del Belli

Il sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE) appartiene a quella vis polemica contro il clero di Roma: qui viene sottolineata la non appartenenza alla città (d’altra parte l’internazionalismo era una caratteristica della Chiesa), ma tale sottolineatura indica proprio lo sguardo un po’ invidioso e rancoroso di chi ritiene che la rovina di Roma sia determinata dal disinteresse della città. Lo sguardo è sarcastico: la metafora equina tra asini e cavalli (non si capisce se il poeta voglia sottolineare la bassezza culturale o morale o, addirittura, ambedue), il climax degli ultimi due versi (bestemmiano, rubano, scopano / stalla, fogna). Il genere potrebbe essere associato all’invettiva di memoriale medievale contro il clero corrotto: ma lì vi era la ricerca di un rinnovamento; qui vi è solo l’esasperazione di un popolo sfruttato e offeso.

ER GIORNO DER GIUDIZZIO

Quattro angioloni co le tromme in bocca
Se metteranno uno pe cantone
A ssonà: poi co ttanto de vocione
Cominceranno a dì: «Fora a chi ttocca».

Allora vierà su una filastrocca
De schertri da la terra a ppecorone,
Pe ripijà ffigura de perzone
Come purcini attorno de la biocca.

E sta biocca sarà Dio benedetto,
Che ne farà du’ parte, bianca, e nera:
Una pe annà in cantina, una sur tetto.

All’urtimo uscirà ‘na sonajera
D’angioli, e, come si ss’annassi a letto,
Smorzeranno li lumi, e bona sera.

Quattro grandi angeli con le trombe in bocca / si metteranno uno per ogni angolo (del mondo) / a suonare: poi con gran vocione / cominceranno a dire: «Sotto a chi tocca». // Allora verrà su una fila / di scheletri dalla terra camminando a carponi / come pecore, per riprendere l’aspetto di persone, / come pulcini attorno alla chioccia. // E questa chioccia sarà Dio benedetto, / che ne farà due parti, bianca e nera: / una per andare in cantina (all’Inferno), una sul tetto (in Paradiso). // Alla fine uscirà un gran numero / di Angeli, e, come se si andasse a letto, / spegneranno le luci, e buona sera.

Gioacchino_belli.JPGStatua del Belli a Trastevere

Il tema de Il giudizio universale riguarda il post mortem e lo fa, come dice Vigolo, “attraverso la dismisura gigantesca e quasi sognata delle fantasie infantili” di un immaginario tipicamente secentesco, come il paesaggio della città belliana, piena di riferimenti del barocco ecclesiale. Tuttavia il poeta romano sposa l’immaginifico delle raffigurazioni con il degrado della cultura triviale e popolare: gli angeli stanno ai quattro cantoni (gioco infantile); gli scheletri vanno a pecoroni, le anime pulcini e Dio una gallina, l’inferno la cantina e il paradiso il tetto. Tutto questo senza alcun sentimento di trascendenza: la chiusa così prosaica di e bona sera, rimanda ad un nichilismo di fondo.

ER CAFFETTIERE FILOSOFO

L’ommini de sto monno sò ll’istesso
Che vvaghi de caffè nner mascinino:
C’uno prima, uno doppo, e un antro appresso,
Tutti cuanti però vvanno a un distino.

Spesso muteno sito, e ccaccia spesso
Er vago grosso er vago piccinino,
E ss’incarzeno, tutti in zu l’ingresso
Der ferro che li sfraggne in porverino.

E ll’ommini accusì vviveno ar monno
Misticati pe mmano de la sorte
Che sse li ggira tutti in tonno in tonno;

E mmovennose oggnuno, o ppiano, o fforte,
Senza capillo mai caleno a ffonno
Pe ccascà nne la gola de la morte.

Gli uomini di questo mondo sono come come / chicchi di caffé nel macinino: / uno prima, uno dopo, e un altro in seguito, / tutti quanti però vanno verso un medesimo destino. // Spesso cambiano posto, e spesso caccia / il chicco grosso quello piccolo, / e s’incalzano tutti nell’imboccatura / del ferro che li riduce in polvere. // E gli uomini in questo modo vivono nel mondo / mescolati per mano della sorte / che se li gira tutti in tondo in tondo; / e muovendosi ognuno, o piano, o forte, / senza mai capirne la ragione calano in fondo / per cadere nella gola della morte.

Anche in questo sonetto troviamo una meditazione sul finis vitae. Se quello precedente illustrava con fantasmagorica fantasia la corte divina, qui i colori si fanno scuri, il macinino ed i chicchi di caffè metafore entrambe dell’inutilità della vita. E’ che tale inutilità è condivisa dall’intera umanità che è qui vista in lotta l’un con l’altro per ottenere un non so che cosa che non servirà a nulla, se è destino finire come polvere (qui la metafora sembra quasi annullarsi). Torniamo al nichilismo puro, un nichilismo su cui stava riflettendo, con esiti letterari e filosofici diversi, Giacomo Leopardi.

Il romanzo in Italia avrà maggiori difficoltà ad imporsi, e questo è certamente causato da due fattori fondamentali:

  • la mancanza di una tradizione;
  • la frammentazione politica e quindi linguistica che non permette il possesso di una lingua media, adatta al genere romanzo;
  • l’assenza di una diffusa classe borghese.

Possiamo dire che i primi tentativi che si fecero in Italia riguardarono il genere storico e derivarono tutti dalla lettura dapprima di Ivanhoe di Walter Scott, che, grazie anche all’apporto degli esuli, diede origine ad un vero e proprio scottismo, ed in seguito dal successo dei Promessi sposi.

D’altra parte, con meno complessità dell’opera manzoniana, il romanzo storico poteva essere piegato a fini patriottici/nazionalistici e quindi possedere quel fine educativo che permetteva loro di rafforzare l’idea risorgimentale. Non per niente i periodi storici sono per D’Azeglio il Rinascimento, per Grossi il Medioevo.

Francesco_Hayez_048-e1484182021865.jpgFrancesco Hayez: Massimo D’Azeglio

Massimo D’Azeglio, nasce da nobile famiglia a Torino, nel 1798. Sin da giovane si lega ai circoli liberali italiani, diventando senatore del regno piemontese dal 1849 al 1852 e infine governatore di Milano nel 1860. Sposa Giulia, figlia di Manzoni, e, culturalmente non è solo autore di opere storiche e autobiografiche, ma anche un discreto pittore.

La sua opera più famosa è Ettore Fieramosca, pubblicato nel 1833, con grande successo.

La vicenda, ambientata durante la guerra tra Francesi e Spagnoli per il dominio su Napoli, ha come fulcro l’episodio della disfida di Barletta, causato dall’insulto di codardia rivolto da un cavaliere francese agli italiani, militanti nell’esercito spagnolo. Al motivo patriottico si affianca il tema amoroso: Ettore Fieramosca ama la bella Ginevra di Monreale, costretta a sposare Grajano d’Asti – combattente per denaro nelle truppe francesi – ed insidiata dal duca di Valentino. Dopo la sfida, che vede vincitori gli italiani e morto Grajano, Fieramosca scopre che Ginevra è stata rapita, violentata e uccisa dal duca, e sparisce misteriosamente, in preda al dolore.

LA DISFIDA

Gli uomini d’arme intanto accoppiatisi combattevano spada a spada, e così due a due dando e ribattendo quei grandissimi colpi, e volteggiandosi intorno scambievolmente per torre il lor vantaggio, venivan dilatando la zuffa serrata dal primo assalto; la polvere cacciata dal vento più non toglieva la vista dei combattenti; si conobbe che l’uomo d’armi scavalcato era Martellin de Lambris. Fanfulla, per disgrazia del Francese, gli si trovò contra, e con quella sua pazza furia, nella quale era pur molta virtù e somma perizia, gli appiccò alla visiera la lancia in modo che lo spinse quant’era lunga a fargli assaggiar s’era soda la terra, e nel fare il bel colpo alzò la voce in modo che s’udì fra tanto strepito, e gridò: «E uno!» poi vedendosi non lontano La Motta che al colpo di Fieramosca avea perduta una staffa, seguitava: «I danari non basteranno… sono pochi i danari…». Ed allargatasi poi la zuffa, disse al vinto: «Tu sei mio prigione…» ma l’altro rimessosi in piè gli rispose d’una stoccata che strisciò sulla corazza lucente del Lodigiano: non era scorso un secondo, e già la spada di Fanfulla era caduta a due mani sull’elmo del suo nemico, il quale sgangherato dalla prima percossa, a stento si resse in piedi; e Fanfulla gliene appoggiò un’altra, e un’altra, ed ogni volta gridava: «Son pochi i danari… son pochi… son pochi…» e lo sforzo del colpo gli faceva pronunziar la parola con quella specie d’appoggiatura che udiamo uscir dal petto degli spaccalegna quando calan l’accetta.
Colui non si potè riavere mai da questa tempesta malgrado i suoi sforzi: venne a terra mezzo stordito, ma non volea perciò sentir parlar di resa; onde Fanfulla, invelenito, gli diede l’ultima, cogliendo il tempo in cui provava a rizzarsi in ginocchio, e lo distese immobile sul sabbione dicendogli: «Sei contento ora?»
Bajardo, visto che colui si sarebbe fatto ammazzare inutilmente, mandò un re d’armi, il quale gettando il suo bastone fra i due guerrieri gridò ad alta voce: «Martellin de Lambris prisonnier.» Corsero alcuni uomini che l’ajutarono alzarsi, e sorreggendolo vennero a presentarlo al signor Prospero.
«Dio ti benedica le mani!» gridò questi al vincitore.
E diede ai suoi sergenti in guardia il barone francese che non volle lasciarsi toglier la barbuta, si gettò a giacere al piede d’una quercia, e vi rimase muto e immobile.
Fanfulla avea voltato il cavallo, e messolo di mezzo galoppo per tornar nella battaglia, guardava intorno ove potesse giovar l’opera sua, e veniva per giuoco facendo in aria colla spada mulinelli, nel quale esercizio avea la più destra e spedita mano dell’esercito.
Dando un’occhiata generale alla zuffa, vedeva che la fortuna non inclinava punto pei nemici, e che gli uomini d’arme italiani facevano molto bene il dovere: allora alzò più che mai il grido, chiamando a nome La Motta, e ricominciando la novella de’ danari son pochi; e queste tre parole le veniva cantando sull’aria d’una canzone che si udiva allora per le strade dai ciechi: onde l’atto del cavalcare in un certo suo modo sbadato e bizzarro, quel giocar di spada tanto mirabile, e pur fatto come scherzando, e ‘l tuono della voce, tutt’insieme dava a quella canzonatura un non so che di così curioso, che persino la seria fisonomia del signor Prospero dovette un momento lasciarsi aprire ad un sorriso.
Nel tempo impiegato a conseguir questa prima vittoria, Ettore Fieramosca aveva bensì colla lancia fatto staffeggiare La Motta, ma non gli era riuscito scavalcarlo. Era d’altra forza, e d’altro valore che il prigioniere di Fanfulla. Fieramosca geloso dell’onore riportato da questo, avea cominciato colla spada a lavorare in modo che lo sprezzatore degli Italiani con tutta la sua virtù a stento potea stargli contra. Le ingiurie profferite da lui la sera della cena, quando avea detto che un uomo d’arme francese non si sarebbe degnato aver un Italiano per ragazzo di stalla, tornarono in mente a Fieramosca; e mentre spesseggiava stoccate e fendenti, schiodando e rompendo l’arnese del suo nemico, e talvolta ferendolo, gli diceva con ischerno: «Almeno la striglia la sappiamo menare? Ajutati, ajutati, che ora son fatti, e non parole.»
Non potè colui sopportar lo scherno, e menò un colpo al capo con tal furia che, non giugnendo Ettore ad opporre lo scudo, tentò ribatterlo colla spada; ma non resse, volò in pezzi, e quella del Francese cadendo sul collarino della corazza lo tagliò netto, e ferì la spalla poco sopra la clavicola. Fieramosca non aspettò il secondo: spintosi sotto, l’abbracciò tentando batterlo in terra; l’altro lasciata la spada pendente, tentava di sferrarsi. Ciò appunto volea Fieramosca: sviluppatosi da lui prima che avesse potuto riprender la spada, dato di sprone al cavallo, lo fece lanciarsi da una parte; ed ebbe tempo di spiccar l’azza che pendea dall’arcione, colla quale tornò addosso all’avversario.
Il buon destriere di Fieramosca ammaestrato ad ogni qualità di battaglia, cominciò, avvertito da un leggier cenno di briglia e di sprone, a rizzarsi come un ariete che voglia cozzare, e far volate avanti, senza mai scostarsi tanto dall’avversario che il suo signore non lo potesse giungere. Vedendolo lavorare con tanta intelligenza, pensava Fieramosca: “Ho pur fatto bene a condurti meco!”. E si portò tanto virtuosamente coll’azza, che venne riacquistando sul Francese il vantaggio che aveva perduto.
La zuffa di questi antagonisti che potean dirsi i migliori delle due parti, se non decideva della somma della battaglia, quasi però avrebbe deciso dell’onore. Sarebbe stato doppio biasimo per La Motta esser vinto, avendo egli manifestato tanto disprezzo pe’ suoi nemici; doppia gloria a Fieramosca il riportarne vittoria. I suoi compagni, conoscendo che egli era atto a tal impresa, si guardarono dal prendervi parte; si guardavano anche i Francesi dal porgere ajuto al loro campione, onde non si dicesse che dopo tanti vanti non gli era bastata la vista di star contra un solo. Perciò, quasi senz’avvedersene, per alcuni minuti restaron tutti dal combattere fissando gli occhi ne’ due guerrieri. In questi pensieri che abbiam accennati produssero un incredibile impegno di vincere, e combattevano con un accanimento, un’attenzione a non commetter errori, un’alacrità a profittar dei vantaggi, che la loro zuffa poteva dirsi un modello dell’artecavalleresca.
Diego Garcia di Paredes, che avea passata la sua vita nei fatti d’arme, pur colpito da maraviglia alla vista di così maestrevole battaglia, non potendo più star alle mosse, si era alzato in piedi; poi, venuto sull’estremo ciglio del greppo che dominava il campo, gli stava guardando avidamente. Veduto da lontano, con quel suo busto gigantesco piantato su due gambe erculee, e colle braccia naturalmente pendenti, pareva immobile al pari d’una statua; ma, ai vicini, il contrarsi de’ muscoli sotto le strette vesti di pelle che portava, lo stringer delle pugna, e più di tutto lo sfavillar degli occhi, palesavano quanto bollisse internamente, e si rodesse di non poter essere ivi altro che spettatore.
I riguardi che impedivano agli altri di turbar questa battaglia, o non vennero in mente, o non furon curati da Fanfulla che, lasciato il signor Prospero, veniva scorrendo pel campo; punse il cavallo, e colla spada in alto si serrò contro La Motta. Se n’avvide Ettore e gli gridò: «Indietro!» ma ciò non bastando, spinse il cavallo in traverso a quello del Lodigiano, e col calcio dell’azza gli diede a man rovescia sul petto onde con poco buon garbo gli fece rattener le briglie: «Basto io per costui, e son di troppo,» gli disse istizzito.
Fu da tutti lodato l’atto cortese verso La Motta fuorché da Fanfulla, che prorompendo in una di quelle esclamazioni italiane che non si possono scrivere  disse, mezzo in collera mezzo in riso: «Hai la lingua nelle mani!»
Voltò il cavallo, e messosi a guisa di pazzo fra i nimici, gli sconvolse senza assalirne nessuno in particolare; e finito così quel momento d’inazione, si rinnovò più calda che mai la battaglia. Fin dal principio, Brancaleone fisso nel suo proposito avea corso la lancia con Grajano d’Asti, e la fortuna si era mostrata uguale fra loro. Venuti alla spada, si mantennero ancora senza deciso vantaggio per nessun de’ due: Brancaleone era forse superiore al suo nemico per robustezza ed anche per maestria, ma il Piemontese era gran giocator di tempo; e chi conosce l’arte dello schermire, sa quanto sia utile questa qualità.
Fra i combattenti dell’altre coppie la vittoria era per tutto in forse, e quantunque la battaglia non durasse che da un’ora e mezzo circa, era stata però tanto ostinata e calda che si poteva facilmente conoscere gli uomini ed i cavalli aver bisogno d’un breve respiro, che venne loro conceduto di comune accordo dai giudici. La tromba ne diede il segno, ed i re d’armi entrando in mezzo spartirono i combattenti.
Quel bisbiglio che udiamo sorger istantaneo nei nostri teatri al calar del sipario dopo uno spettacolo che si sia cattivata l’attenzione degli spettatori, nacque egualmente fra le turbe che circondavano il campo. I cavalieri tornati alla prima ordinanza scavalcarono: chi si traea la barbuta per rinfrescarsi la fronte e tergerne il sudore; chi, trovando l’arnese o la bardatura de’ cavalli guasta in qualche parte, s’ingegnava di racconciarla. I cavalli, scotendo il capo e dimenando le mascelle, cercavan sollievo al dolore cagionato dalle scosse de’ freni. E non sentendo più l’uomo in sella, si piantavan sulle quattro zampe, ed a capo basso davano un crollo prolungato facendo risonare le loro armature. I venditori del contorno trovandosi a polmoni freschi, alzarono più alte le grida, e i due padrini, mossi i cavalli, vennero a trovare i loro guerrieri. Per la prigionia d’uno de’ Francesi, e per trovarsi gli altri malmenati e feriti quasi tutti, fu giudicato da ognuno, gli Italiani aver la meglio; e fra i molti che aveano scommesso per l’una o per l’altra parte, quelli che tenevan pe’ primi cominciavano ad accigliarsi ed a dubitare. Il buon Bajardo aveva troppa esperienza di simili fatti per non accorgersi che le cose voltavan male pe’ suoi. Studiando di non mostrar questo sospetto, gli incoraggiava, li poneva in ordinanza e veniva ricordando ad ognuno le regole dell’arte, i colpi da tentarsi ed il modo di difendersi.
Prospero Colonna che vedeva i suoi avere minor bisogno di riposo per esser meno maltrattati dei nemici, dopo una mezz’ora, domandò che si riprendesse la battaglia, ed i giudici ne fecero dare il cenno. I cavalli, ai quali un ansar frequente facea ancora battere i fianchi, stimolati dallo sprone rialzarono il capo; e si lanciaron di nuovo gli uni contra gli altri. Ormai la vittoria si dovea decidere in pochi momenti: crebbe il silenzio, l’immobilità negli spettatori, l’accanimento e la furia nei combattenti. Le gale del vestire, le penne, gli ornamenti eran volati in brani, o bruttati di polvere e di sangue. Dal fianco di Fieramosca pendeva tagliata da un fendente la sua tracolla azzurra, l’elmo era rimasto nudo e basso, ma egli, ferito soltanto leggermente nel collo, si sentiva gagliardo del resto, e stringeva La Motta col quale si era di nuovo accozzato. Fanfulla avea a fronte Jacques de Guignes. Brancaleone seguitava la sua battaglia con Grajano, avvisando al modo di coglierlo sull’elmo, e gli altri compagni qua e là per il campo si raggiravano accoppiati coi Francesi combattendo la maggior parte coll’azza, e stringendoli mirabilmente.
A un tratto s’alzò un grido fra gli spettatori: tutti, e persino i combattenti, volgendosi per conoscerne la causa, videro che la zuffa tra Brancaleone e Grajano era finita. Questi, curvo sul collo del destriere, coll’elmo ed il cranio aperti pel traverso, perdeva a catinelle il sangue che scorreva nei buchi della visiera sull’arme e giù per le gambe del cavallo, il quale stampava le pedate sanguigne. Rovinò in terra alla fine, e risonò sul suolo come un sacco pieno di ferraglia. Brancaleone alzò l’azza sanguinosa brandendola sul capo, e gridò con voce maschia e terribile: «Viva l’Italia: e così vadano i traditor rinnegati»: ed insuperbito, si cacciò menando a due mani sui nemici che ancora facevan difesa. Ma non durò a lungo il contrasto. La caduta di Grajano parve desse il crollo alla bilancia. Fieramosca accanito per la lunga ed ostinata difesa di La Motta, raddoppiò la forza de’ colpi con tanta rapidità, che lo sconcertò, lo sbalordì, e privato dello scudo, con mezza spada in mano e l’arnese schiodato e rotto, lo percosse sul collo coll’azza di tanta forza, che lo fe’ rannicchiarsi stordito sull’arcione dinnanzi, e quasi smarrita la luce degli occhi.
Prima che si riavesse, Fieramosca, il quale gli stava a destra, buttandosi lo scudo dietro le spalle, l’afferrò colla manca alle corregge che sulla spalla reggono il petto della corazza, e stringendo le cosce, diede di sproni al cavallo. Questi si lanciò avanti, e così il cavaliere francese fu violentemente tratto giù dalla sella. Quando si stese in terra, Fieramosca che avea colto il tempo e s’era buttato da cavallo, gli si trovò sopra colla daga sguainata, ed appuntandogliela alla vista in modo che un poco gli toccava la fronte, gli gridò: «Renditi o sei morto.» Il barone, ancor mezzo fuor di sé, non rispondeva; e questo silenzio potea costargli la vita: gliela salvò Bajardo, gridandolo prigione.
Condotto via La Motta da’ suoi famigli che lo consegnarono al signor Prospero, Fieramosca si voltò per risalire a cavallo: il cavallo era scomparso: girò lo sguardo per la battaglia e vide che Giraut de Forses, essendogli stato morto il suo, aveva tolto il destriere dell’Italiano e stava fra’ suoi facendo ancor testa agli uomini d’arme nemici. Il buon Ettore conobbe che solo e a piedi non avrebbe potuto riaver il cavallo. L’aveva nutrito ed allevato di sua mano, ed addestrato a seguirlo alla voce; onde non si confuse: fattosegli più presso che potè, cominciò a chiamarlo, battendo il piede come era usato di fare quando voleva dargli la biada. Il cavallo si mosse per venire a quel cenno, e volendo il cavaliere contrastargli, prima cominciò ad impennarsi, poi si mise a salti, e senza che colui potesse né opporglisi né governarlo, lo portò suo malgrado fra gli Italiani che, circondatolo, l’ebber prigione senza colpo di spada. Scendendo dal cavallo sul quale tosto saltò Fieramosca, malediceva la sua fortuna; ma questi, resagli per la punta la spada che gli era stata tolta, gli disse: «Fatti con Dio, fratello, piglia le tue armi e torna fra’ tuoi, che i prigioni gli abbiamo per forza d’arme, e non per arti da ciurmadori.»
Il Francese, che ogn’altra cosa s’aspettava, restò molto maravigliato. Pensò un momento, poi rispose: «S’io non m’arrendo alle vostre armi, m’arrendo alla vostra cortesia.» E, presa la sua spada alla metà della lama, andò a deporla a terra avanti al signor Prospero: e fu detto da tutti quelli che lodavano l’atto cortese di Fieramosca, anche il Francese aver operato e parlato saviamente. Per la qual cosa esso solo fu poi rimandato senza che pagasse il riscatto.
La parte francese era scemata di quattro delle sue migliori spade, mentre l’italiana contava ancora i suoi tredici uomini a cavallo: e si poteva facilmente conoscere in qual modo la cosa dovesse andar a finire. Nonostante, i Francesi scavalcati, che erano cinque, si serrarono insieme; ai loro lati si posero due per parte i quattro a cavallo, e così ordinati si disposero a far testa di nuovo agli Italiani, i quali rannodando per la terza volta la loro battaglia, fecero impeto tutt’insieme sugli avversarj.
Non venne in mente ad alcuno che questi vi potessero reggere, ma ammirando tuttavia la costanza e l’arte di quella brava gente, crebbe negli spettatori l’ansiosa curiosità di veder l’esito del loro ultimo disegno; e quasi ad alcuni sapeva male, che con tanto valore dovessero cimentarsi con grandissimo rischio della loro vita ad un giuoco tanto disuguale. Ma per questo non temevano i Francesi: pesti, feriti, coperti di polvere e di sangue, pur offrivan fiero ed onorato spettacolo, stando arditi ad aspettare la rovina che veniva loro addosso di tanti cavalli, e pareva dovesse ridurli in polvere. Si mossero alla fine gl’Italiani, non colla prima celerità, che la stanchezza lo vietava ai cavalli, molti dei quali per le violente scosse dei freni avean la bocca coperta di spuma sanguigna. Alzarono i cavalieri più forte il grido di “Viva Italia!” e malgrado l’instare degli sproni, vennero a ferire d’un galoppo grave e sonante. Nonostante le leggi promulgate al principio, fu tale la smania di curiosità che invase a quel punto gli spettatori, che il cerchio formato da loro all’intorno s’andò progressivamente stringendo. Gli uomini che avean la cura di mantener l’ordine, curiosi più degli altri, anch’essi seguiron quel moto concentrico, come vediamo succedere quando in piazza si caccia il toro, che al principio ognuno sta saldo al suo luogo, ma quando un cane comincia ad attaccarsegli all’orecchio, e poi se n’attacca un altro, e quasi hanno fermato il loro nemico, nessun può più star a segno, crescon le grida, gli schiamazzi, si scioglie l’ordine, ognuno si spinge avanti per veder meglio.
In mezzo alla fila di nuovo schierata degli Italiani s’era posto Fieramosca, il quale aveva il miglior cavallo; ed ai suoi lati, a mano a mano quelli che l’aveano meno stanco, o più corridore; cosicchè nell’andar addosso ai nemici il centro si spinse avanti, figurando un cuneo, del quale Ettore era alla punta. Quest’ordine fu tanto ben mantenuto che, giunto al ferire, sforzò la fila dei Francesi senza che potessero porvi riparo. Qui sorse una nuova zuffa più serrata, più terribile che mai: al numero, al valore, alla perizia degli Italiani s’opponevano sforzi più che umani, disperazione, rabbia del disonore imminente ed inevitabile: i prodi ed infelici Francesi, fra un turbine di polvere, cadevano insanguinati sotto le zampe de’ cavalli, si rialzavano afferrandosi alle staffe, alle briglie de’ vincitori; ricadevano, spinti, maltrattati, calpestati, rotolandosi sotto sopra, mezzo disarmati, cogli arnesi infranti, e pur sempre sforzandosi di riaversi, raccogliendo in terra pezzi di spade, tronchi di lancia, e perfino sassi onde ritardar la sconfitta.
Ettore, il primo, alzò il grido onde lasciasser l’impresa e si rendesser prigioni; ma appena era udito in quel fracasso; o se l’udivano, negavan coi fatti, soffrendo muti quelle orribili percosse; ed ebbri pel furore, seguitavano la mirabil difesa. De’ quattro che eran ancora in sella al principio di questo ultimo scontro, uno era caduto, e si difendeva a piedi; a due erano stati morti i cavalli: il quarto, preso in mezzo, era stato fatto prigione. Sarebbe impossibile il descrivere tutti gli strani accidenti, i colpi, gli atti disperati che accaddero in quegli ultimi momenti, dei quali fra gli spettatori rimase per molti anni una memoria di maraviglia e di orrore.
De Liaye, per dirne uno, fu veduto afferrare a due mani il freno di Capoccio romano, per istracciargli, se potesse, o togliergli la briglia; il cavallo se lo cacciò sotto colle zampate, ma non potè mai farsi lasciar dal Francese, che trascinato pel campo fu condotto in tal modo innanzi al signor Prospero, e ci vollero molti ajuti e molte braccia, tanto era fuor di se stesso, a fargli aprire le mani e porlo fra i prigionieri. Alla fine parve agli Italiani stessi troppo crudel cosa seguitare una simil battaglia; il gridar di Fieramosca fu imitato dagli altri, e tutti insieme sospeso il ferire, venivan dicendo a quei pochi superstiti: «prigioni… prigioni».
Fra il popolo cominciò un bisbiglio, crebbe, e senza che valesse l’opposizione degli araldi, cominciaron voci e poi schiamazzi ed urli onde finisse il combattere, ed i Francesi avesser la vita salva: rotti gli ordini, s’eran stretta la turba intorno ai combattenti, che si trovavano chiusi in un cerchio di trenta o quaranta passi di diametro: chi gridava, chi faceva svolazzar fazzoletti e cappelli, quasi sperando di partir così la battaglia; chi si volgeva ai giudici ed ai padrini. Il signor Prospero fattosi far luogo, e venuto più presso, alzava la voce e il bastone per indurre i Francesi alla resa; Bajardo, anch’esso, per quanto sentisse dolore dell’infelice riuscita de’ suoi, visto esser inutile un maggior contrasto, e pensando che era troppo peccato lo sprecar così il sangue e le vite di que’ valorosi, si spinse avanti, e gridava ai suoi che finissero, e si desser prigioni: ma né la sua, né l’altrui voce non era ascoltata dai vinti, che avendo appena ancora sembianza d’uomini parevan piuttosto demonj, furie scatenate. Scesero alla fine anche i giudici dal tribunale; vennero in mezzo al cerchio, fecero dar nelle trombe e gridar ad alta voce gl’Italiani vincitori: questi allora voller ritirarsi, ma tutto era niente: i loro nemici, che la rabbia, il dolore, le ferite avean inebriati al punto di non capire e non sentir più nulla, seguivano, come tigri che siano strette fra gli avvolgimenti d’un serpente, a ghermirsi come potevano co’ loro avversarj.
Diego Garcia, finalmente, visto che non v’era altro modo, prese partito, e gettandosi alle spalle di Sacet de Jacet, che attaccato con Brancaleone pretendeva strappargli l’azza dalle mani mentre questi era in forse d’appiccargliene un colpo sul capo, ed al certo l’avrebbe fatto cascar morto, l’avvinghiò con quella sua maravigliosa forza, e lo trasse suo malgrado fuor della zuffa. Quest’esempio fu imitato da molti spettatori, e in un momento furon tutti addosso ed attorno ai combattenti; e quantunque ne riportassero qualche percossa, pure, urtandosi, stracciandosi i panni, dopo molto stento e molto tirare, vennero a capo di levar di mezzo que’ cinque o sei uomini mezzo fracassati; e quantunque si dibattessero ancora, e schiumasser di rabbia, pure alla fine li trassero sotto le querce cogli altri prigioni.
La prima cura di Fieramosca, finito appena il combattere, fu gettarsi da cavallo e correre a Grajano d’Asti, che giaceva immobile nel luogo ov’era caduto.
Quando Brancaleone ebbe fatto il bel colpo, il cuor generoso di Ettore non aveva pur potuto difendersi da un primo moto di gioia. Ma nato appena, lo represse un sublime e virtuoso pensiero. Venne a lui, fece scansar la gente che gli stava affollata intorno, e gli s’inginocchiò accanto. Il sangue scorreva ancora dall’ampia ferita, ma lento ed aggrumato: gli sollevò il capo adagio adagio, e con tanta cura, che si sarebbe pensato avesse a salvare il suo più caro amico e giunse a liberarlo dalla barbuta.
Ma l’azza, spaccato il cranio, era entrata nel cervello tre dita: il cavaliere era morto. Ettore con un sospiro, che sorse dal profondo del cuore, depose di nuovo a terra il capo dell’ucciso, e rizzatosi, disse a’ suoi compagni che erano anch’essi venuti a vedere, e più direttamente a Brancaleone: «Codesta tua arme,» ed additava l’azza che quegli teneva in pugno stillante ancora di sangue, «ha compiuta oggi una gran giustizia. Ma come potremmo godere tal vittoria? Il sangue che inzuppa questa terra non è egli sangue italiano? e costui forte e prode in guerra, non avrebbe potuto spargerlo a sua ed a nostra gloria contra i comuni nemici? La tomba di Grajano allora sarebbe stata venerata e gloriosa; la sua memoria, un esempio d’onore. Invece egli giace infame, e sulle sue ceneri peserà la maledizione de’ traditori della patria…» Dopo queste parole tornarono tutti in silenzio e pensosi ai loro cavalli. Il cadavere fu la sera portato a Barletta, ma quando si volle seppellirlo nel sagrato, il popolo, levato a rumore, non lo permise. I becchini lo portarono al passo d’un torrente a due miglia dalla città, cavarono una fossa e ve lo chiusero. D’allora in poi quel luogo fu chiamato il Passo del traditore.

137.jpgEttore Fieramosca in un’edizione del 1848

Risulta evidente da questo passo, che corrisponde più o meno alla fine del romanzo, come l’antecedente letterario più immediato sia Walter Scott e non Manzoni; il duello di Ivanhoe e la disfida di Barletta hanno più punti in comune: l’attenzione per i costumi, il gusto dell’orrido, uno stile indugiante su particolari ottenuto dal punto di vista di chi guarda. Ciò che invece ci piace sottolineare è invece la peculiarità della pagina di D’Azeglio: infatti prima dell’orrido, l’uso del comico nella prima parte, tutto dedicato al personaggio di Fanfulla, con la continua cantilena riguardo i soldi (ricordiamo che, prima della disfida, i cavalieri delle due fazioni dovevano versare una certa somma con cui riscattare i prigionieri: gli italiani la versarono, i francesi per la sicumera di battere gli “imbelli italiani” no); quindi il patetico nell’episodio di Enrico contro l’ucciso rivale in amore Grajano. Ma ancora più importante è il fine: D’Azeglio vuole accendere il lettore d’amor patrio. L’esercito è spagnolo, ma i mercenari italiani combattono in terra d’Italia e l’ultima parte del passo è tutta votata alla propaganda patriottica: il discorso di Enrico sembra maggiormente rivolto, così carico di retorica, ad un traditore della causa risorgimentale più che ad un episodio cinquecentesco. Bisogna inoltre dire che laddove l’ideologia patriottica prevale sul tessuto del romanzo anche la verità storica viene a volte piegata al fine prefissato dall’autore che all’esattezza della fonte.    

Fieramosca38_disfida.jpgScena del film Ettore Fieramosca di Alessandro Blasetti del 1938

Un altro importante romanzo storico è il Marco Visconti di Tommaso Grossi, dove invece è più penetrante l’influenza manzoniana:

La storia, ambientata in Lombardia, nel Trecento, narra l’amore contrastato fra Bice del Balzo e Ottorino Visconti, cugino di Marco, il condottiero, fratello di Galeazzo, che, invaghito della ragazza, ostacola il matrimonio fra i due e solo poco prima di essere ucciso a tradimento si pente delle proprie malefatte. La narrazione di numerosi avvenimenti storici – documentati sulle cronache del tempo, secondo l’esempio manzoniano – si intreccia al racconto delle vicende dei personaggi, inseriti nel paesaggio lombardo, descritto meticolosamente.

 

MORTE, PENTIMENTO E REDENZIONE

Durava da più ore quel faticoso lavoro, quando parve ad alcuno d’udire come una voce lontana che uscisse di sotterra. Marco fa cessare immediatamente ogni rumore: stanno tutti in orecchi… Da lì a qualche tempo la voce si fa intendere un’altra volta; una voce lunga, acuta, come di lamento, che viene da una carbonaia scavata sotto quel primo sotterraneo, tra le più basse fondamenta d’un torrazzo. Su, presto, all’opera tutti quanti; la novella speranza raddoppia la lena: in un momento si sganghera un cancello, si sconquassa, si abbatte un uscio. Marco con una fiaccola in mano entra egli per il primo in un camerotto, fa risaltare una ribalta a fior di terra, e giù per una scaletta a chiocciola fino al fondo della torre divisata. S’avanza palpitando per entro una vasta oscurissima prigione, ode una voce che gli domanda misericordia, vede in un angolo, a canto al muro di fronte, come un’ombra che gli tende le braccia; si precipita verso quella parte; il lume che reca fra le mani rischiara un’ignota figura… Non è Bice altrimenti… è un uomo… Era il Tremacoldo.
Il giullare diede tostamente notizia dell’esser suo, del come essendo capitato in castello per esplorare se ivi fosse nascosta la figlia del conte del Balzo, l’avesser preso, e gettato in quel fondo, donde non isperava omai più di poter uscire a veder lume. Di Bice, nessuna novella.
Rotti i ceppi, il prigioniero fu posto subito in libertà, e Marco, più scoraggiato che mai, comandò che si continuassero le intraprese indagini. Dopo qualche tempo venne giù uno scudiere ad annunziargli che il conte e la contessa del Balzo erano giunti al castello, e domandavano di lui premurosamente. A questa nuova egli impallidì: diede alcuni passi verso la porta come per uscire, per correre ad incontrare quei nuovi ospiti; ma poi tornò indietro, e colla fronte dimessa, colle braccia spenzolate, stette un bel pezzo appoggiato ad un pilastro senza muover parola, senza dar un segno.
Se non che, dal lato opposto a quello in cui Marco era in quei punto, si sentì gridare da più voci in una volta:
«E’ qui! è qui! è trovata! è trovata!» Tutti quanti, gittati gli arnesi, rispondono con un altro grido di gloia, e corrono a precipizio verso quella banda. Il lume di molte faci agitate rischiara mutabilmente le lunghe brune vôlte dell’intricato labirinto.
«E’ ella viva?» domanda Marco di mezzo alla folla degli accorrenti.
«E’ morta,» risponde una voce dal luogo a che tutti erano dirizzati.
Ed ecco venir innanzi un gruppo di gente, e nel mezzo due scudieri che portano pietosamente sulle braccia la figlia del Conte bianca in volto, e cogli occhi chiusi e il capo pendente su d’una spalla. Lauretta la seguiva tutta scapigliata, e sorreggendole con le mani la fronte non cessava dal baciarla, dall’innondarla di lagrime.
Marco, cui erano rimbombate nel cuore le prime voci di speranza e di morte, che vedeva or proceder lento lento quel corteo funebre, e al lume di tante faci raffigurava a poco a poco la bella persona, il bianco volto della giovane portata, non potea persuadersi che quello spettacolo fosse reale: sperava pure d’essere posseduto dall’illusione fantastica d’un sogno; per certificarsene, andava stendendo intorno attonitamente le mani; ed ora palpava le muraglie, ora stringeva per le spalle e per le braccia le persone che s’abbattevano a passargli dinanzi; finalmente, facendosi largo tra la folla che s’aperse tosto per lasciarlo passare, accostossi a Bice, e le pose una palma sulla fronte. Il freddo che gli venne da quel tocco lo riscosse dalla stordigione, dalla stupidità in che era caduto: un tremore crescente gli si diffuse per le membra, il sangue gli rifluì violentemente al volto rigonfiandogli le vene della fronte, dalla quale si vedevano scorrere grosse gocce di sudore.
Così, seguitando a lato a lato la fanciulla, pervenne fino in capo alla scala, per la quale dal sotterraneo s’usciva nel cortiletto. Ivi l’impressione dell’aria aperta, la vista del sole, parvero tornarlo affatto nel sentimento; si ricordò di Ermelinda, la quale stava aspettando; sentì com’ella sarebbe morta di spavento e di dolore, se avesse trovato d’improvviso la figlia a quel modo; e quel pensiero potè restituirgli ad un tratto l’usata forza. Fece segno alla gente che lo seguitava, e che gli era d’intorno, di fermarsi; e con voce sicura, e con un’aria posata, che fece maravigliare tutti quanti, comandò che, spenti i lumi, cessato ogni rumore, la folla si disperdesse tacitamente, e si guardassero bene dal far parola di quanto avean visto laggiù.
Egli, precedendo Lauretta e i due scudieri che portavano Bice, s’avviò in silenzio verso le camere della castellana.
Come la figlia del Conte fu posta su d’un letto a giacere, Marco domandò all’ancella di lei, quando la sua padrona fosse spirata.
«Ell’era ancor viva poco fa,» – rispose Lauretta con voce interrotta dai singhiozzi, «e mi è morta di spavento, fra le braccia, quando sentì rovinar l’uscio della prigione, e credevamo che venissero per assassinarci.»
In questa entra il medico del castello ch’era stato tosto chiamato: guarda, esamina la giacente, le accosta un lume alla bocca… la fiammella par che si pieghi alquanto mossa da un tenue fiato. Lauretta, la castellana, le si affaticano intorno, adoperando ogni argomento per riaverla: a poco a poco le si ridesta il battito del cuore, le rinvengono i polsi; il calore della vita torna a diffondersi per le membra… Ma le forze sono consunte di lunga mano dai patimenti, dalle angosce, dallo spavento durato: le entrò una febbre ardente… Potrà ella giugnere a veder il domani?
Marco, che all’improvvisa gioia del trovarla viva s’era sentito rapire fuor di sé stesso, a questo annunzio abbassò desolatamente il capo, e disse in cuor suo: “Ecco adempite le parole del profeta;” poscia col volto e coll’atto di un uomo che non ha più nulla da temere o da sperare a questo mondo, avvicinossi alla moglie del Pelagrua, ed interrogolla intorno ad Ottorino.
La donna, che da certe parole dette da Lodrisio in sua presenza sospettava che lo sposo di Bice fosse rinchiuso nel castello di Binasco, comunicò a Marco quel suo sospetto, e questi risolvette di mettersi subito sulle tracce del trafugato. Uscì dunque dalla camera dell’inferma, presso la quale volle che per allora non rimanesse che la sua ancella, affinché la poveretta che andava sempre più ricuperando gli spiriti, nel momento che sarebbe tornata in sé, non avesse a vedersi d’intorno altro volto che quel volto soave e fidato.
«Ora andate a chiamar la madre di Bice,» disse poscia alla castellana, «ditele che preghi… che preghi anche per me.»
Ciò detto, discese precipitosamente nella corte, lasciò alcuni ordini al giudice del luogo, ed uscì a cavallo dal ponte levatoio, che si rialzò subito dietro le sue spalle.
La camera entro cui Bice era stata portata dava su d’uno spiano che stendevasi innanzi al castello dalla parte d’oriente. Il sole già alto entrando per una finestra, in faccia alla quale era collocato il letto su ch’ella posava, diffondea sul suo volto un chiarore, che ne faceva risaltar la pallidezza e lo sfinimento mortale. Al primo rinvenire, la fanciulla apriva gli occhi, e li richiudeva tostamente, portandovi una mano per difenderli dalla luce, dolorosa in quel primo incontro, dopo le lunghe ore passate nella più fitta oscurità del carcere da cui era stata tolta.
L’ancella chiuse subito le imposte; poi tornata a sedersi a canto alla padrona, l’abbracciava piangendo, e chiamandola per nome. Ella sentì I’impressione di quelle lagrime, riconobbe quella voce, ed aprendo un’altra volta gli occhi, la stette guardando qualche tempo come smemorata, e poi disse:
«Sei tu, Lauretta?»
«Sì, son io, non abbiate sospetto di nulla; siamo liberate, state di buon animo.»
Ma ella, che non apprendeva ancor bene il senso delle parole, domandava paurosamente:
«Dove sono iti quei manigoldi?… Hanno pur fracassato l’uscio della prigione, ho pur intese le lor grida, e sentiti i colpi dei loro pugnali nella persona… Oh dimmi, non m’hanno dunque uccisa?… mi pareva d’esser morta, e che mi portassero a seppellire in mezzo a tanta gente, con tanti lumi d’intorno… Era notte; e come s’è fatto giorno chiaro in un tratto? e dove siamo noi adesso?»
«Siamo nelle camere della nostra buona castellana; siamo libere, vi dico; è stato lo stesso Marco che è venuto…»
Il suono di quel nome terribile fu come il tocco d’un ferro rovente, che fa risentire un tramortito. Bice balzò a sedere sul letto, e diceva: «Fuggiamo! fuggiamo! nascondimi, salvami, salvami per pietà!»
«Oh no, Dio! tranquillatevi: Marco non è qui; e poi, state sicura, non entrerà in queste camere persona che voi non vogliate… Siamo libere, torno a dirvi; e, sapete la buona nuova che v’ho a dare? Vostra madre è giunta.»
«Mia madre?»
«Sì, vostra madre, e tosto che siate riavuta tanto da poter sopportare la via, torneremo a casa insieme con lei.»
«Oh! non volermi ingannare ancora! non ti ricordi quante volte me l’hai detto che sarebbe venuta? e poi?…»
«Ma ora ella è qui, vi dico, è qui, e la vedrete quando che sia!»
«No, no, mia cara, la tua pietà è troppo crudele; no, che non la vedrò più; l’ho domandata tante volte al Signore questa grazia, con tante lagrime, con tanta fiducia!… Egli non m’ha voluta esaudire!… Ed ora… sarebbe troppo tardi.»
«Ah figlia mia!» gridò in quella Ermelinda con una voce mezzo spenta dall’angoscia. Trattenuta essa dal medico nella camera vicina, perché lo spavento della prima gioia non desse un troppo grande scrollo alle forze affralite dell’inferma, di là aveva sentito ogni sua parola; e non potendo più reggere all’impeto dell’affetto s’era precipitata fra le braccia di lei.
Bice chinò il capo sull’omero della madre, e stettero lungamente strette insieme in silenzio.
Fu la prima Ermelinda a sciogliersi da quel nodo soave, e pur doloroso; e ponendo una mano sul capo della figlia: «Ora statti riposata;» le diceva, «vedi, io son qui con te, per non abbandonarti mai più: staremo sempre insieme, sempre, sempre; sì, cara, cara la mia povera Bice! Tutti i guai sono finiti, non pensar più che a cose liete, pensa a tua madre che è qui con te, che non ti si staccherà mai più da canto.»
Bice obbedì, posò un istante il capo sui guanciali; ma non potendo frenarsi, lo rilevò subitamente, e alzando un’altra volta le braccia le intrecciò intorno al collo della madre; e siccome, questa resisteva pure mollemente, ed accennava sgomentita che cessasse:
«No.» diceva la figliuola, «no, lasciate ch’io sfoghi il desiderio di tanti giorni, di tante notti dolorose: lasciatemi godere questa consolazione, lasciate che m’innebrii d’una dolcezza che sarà l’ultima della mia vita.»
«Per carità, rimettiti in calma: tanto commovimento… così sfinita come sei!…»
«Ah! no,» replicava Bice, «credetemi, non me ne può venir altro che bene, provo un sollievo… lasciate, lasciatemi;» e stringendola, e baciandole il volto, e innondandola di calde lagrime, non faceva che ripetere con un gemito d’amore: «Oh madre mia! oh cara madre!»
Ermelinda, vinta alla fine da quel sentimento che tutto soverchia, si abbandonò fra le braccia della figlia, e piangendo anch’essa, le ricambiava i baci e le carezze che ne ricevea. Era uno spettacolo di pietà, ma d’una pietà consolante, d’una pietà tutta piena di letizia, di pace, e, dirò pure, di riverenza, il vedere le due infelici mescere insieme le lagrime, non saziarsi dallo stare negli amplessi, dal ripetersi il loro mutuo amore, i loro lunghi tormenti nel tempo che erano state divise.
«Sai che è qui anche tuo padre?» disse Ermelinda, tosto che si fu quietata tanto da poter profferire le parole.
«Perchè non viene?» rispose la fanciulla, serenandosi in volto di nuova gioia.
Fu chiamato il Conte, il quale entrò con un’aria tra il commosso e lo spaventato. Ma quando vide la figlia tanto smagrita, così svenuta, staccare un braccio dal collo della madre, e stenderlo amorosamente verso di lui, la codardia fu vinta dalla pietà, né gli rimase più altro affetto fuor quello di padre. Corse a lei, ed abbracciandole il capo, le disse tutto intenerito: «Tu stai male, figlia mia.»
«Oh! no, ora che sono co’ miei cari parenti sto bene, sto troppo bene… Ma, e Ottorino?…»
Il Conte strinse le labbra, come chi inghiotta una medicina amara, e per quanto si facesse forza non potè a meno di lasciarsi scappare queste parole:
«Oh! per l’amor di Dio! chi vai tu a nominare adesso! in questo luogo!»
«Non è egli il mio sposo?» rispose la fanciulla con un atto che sapeva pure d’un certo qual risentimento; quindi volgendosi con maggior tenerezza alla madre: «E’ egli vivo? posso io sperare di vederlo?»
«Oh! sì, il Signore ce l’avrà serbato,» disse Ermelinda. «A quel che mi disse la castellana, egli debb’essere a Binasco; e lo stesso Marco è partito di qui per cercar di lui, per condurtelo tosto che l’abbia trovato.»
«Marco!» esclamarono ad una voce il padre e la figliuola, colpiti ambedue da una diversa maraviglia, da un diverso terrore.
«Si, Marco Visconti,» ripeté la donna: e qui si fece a narrare il colloquio ch’ella avea avuto seco la notte antecedente; disgravò il Visconte d’ogni enormità non sua; disse del profondo dolore di lui per quella parte di colpa che avea avuta nel principio; certificò la sua risoluzione di riparare colla propria vita, ove fosse stato d’uopo, ogni sconcio che n’era venuto in seguito; fece parola della cresciuta sua benevolenza verso Ottorino, né peritossi pure di confessare l’amor di lui verso Bice, ora che quell’amore, purificato dai rimorsi e dal pentimento, erasi mutato in una carità ossequiosa ed espiatrice; infine parlò tanto a commendazione, non che a discolpa, di quell’uomo, che poté togliere ogni ombra di sospetto, ogni traccia di rancore dall’animo tanto del marito che della figlia.
Quest’ultima, che avea cominciato ad ascoltare con ansietà paurosa, alla fine del discorso levò gli occhi al cielo, e stringendo le palme esclamò: «Il Signore gli perdoni!» poi volgendosi un’altra volta alla madre: «M’avete detto ch’egli è uscito per cercar d’Ottorino, è vero?… Credete voi che possa giungere a tempo a vedermi?»
«Ah, non dir cosi, figlia mia!» sclamò Ermelinda con voce di dolce e accorato rimprovero: «senti, cara, la vita e la morte stanno nelle mani d’un Signore misericordioso… egli non vorrà… per pietà di noi…» e si tacque.
Bice prese una mano di sua madre e gliela baciò: né l’una osava dare, né l’altra chiedere, parole di speranza, d’una speranza che nessuna d’esse avea in cuore.
Per tutto quel giorno il male venne sempre più acquistando rovinosamente di forza su quel corpo troppo affievolito e rotto per potergli durar contro.
La fanciulla, obbedendo alle prescrizioni del medico avvalorate dalle più strette preghiere della madre, stavasi coricata quietamente e in silenzio, accontentandosi d’affissare di continuo quella sua cara a piè del letto, dove s’era posta a sedere, e di seguitarla cogli occhi ogni volta che per qualche necessità tramutavasi da luogo a luogo.
A piè del letto medesimo, in compagnia di Ermelinda, stava seduta anche l’ancella, l’amorosa Lauretta, la quale, per quanto fosse stata pregata da tutti, e da Bice principalmente, non avea mai voluto abbandonar quella camera, per andare a prender un po’ di riposo, di cui doveva aver tanta necessità, dopo le dure vigilie delle notti antecedenti. Ella narrava interrottamente e sotto voce alla madre la storia dei mali che avea patiti insieme colla sua giovane padrona, da che erano state condotte a Rosate, fino a quel giorno; le perfidie, gli spaventi, con che si era tentato di svolger Bice dalla fede data al suo sposo, di aggirarla per farla rinunziare a lui, perché avesse a piegarsi a veder di buon occhio quel terribile uomo, che esse credevano l’autore di tutta quella persecuzione; né tacque in fine la carità usata ad esse dalla castellana, che in quanto la sua strettezza, ed il sospetto, in cui il marito vivea continuamente di lei, glielo consentivano, non avea lasciato mai di sovvenirle di opportuni avvisi, di consigli, e d’ogni sorta di consolazione. Ermelinda, commossa da quel racconto, gettava a quando a quando uno sguardo compassionevole sulla figlia che avea patito tanto; ed ella che si accorgeva troppo bene di che fosse tutto quel lungo ragionare. le rispondeva con un sorriso pieno d’amore.
Quel riposo però, quella quiete, veniva talvolta turbata da qualche rumore che si sentiva in castello: Bice si faceva tosto intenta, una lieve fiamma le saliva sul volto, e domandava alla madre: «E’ giunto?…» L’interrogata usciva tosto dalla camera, e rientrava dopo qualche tempo, dicendo di no, ed aggiugnendo sempre qualche parola di consolazione e di speranza.
Verso sera, l’inferma, che si sentiva sempre più grave, chiese d’un confessore: stette a lungo con un vecchio Benedettino che fu chiamato ad assisterla, poscia volle tornar a vedere i suoi parenti.
«Senti, figlia mia,» le disse il padre, «Ottorino non è ancor giunto, ma l’aspettiamo prima che sia giorno.»
Ella si conturbò tutta, e rispose: «Ottorino! il mio sposo! il mio caro sposo!… Oh, se il Signore m’avesse fatto tanta grazia!… se avessi potuto vederlo prima di morire!»
«Via, offritelo a Lui,» disse il pio monaco, «offritelo a Lui che ve l’avea dato; e adorate l’eterno consiglio di giustizia e di pietà, che accetta questo sacrificio del cuore ad espiazione delle vostre colpe, a rimedio dell’anima vostra.»
La poveretta congiunse le palme, e levò gli occhi al cielo in atto di viva sì, ma dolorosa rassegnazione; ma Ermelinda, posandole una mano sul capo: «Oh figlia mia!» esclamava, oh cara la mia figlia! ch’io t’abbia dunque a perdere! che mi rimane a questo mondo senza di te, ch’eri il mio conforto, la mia sola consolazione!»
La fanciulla chinò il capo, e pianse: dopo un momento ripigliava singhiozzando:
«Consolazione! avete detto? e che consolazione avete mai avuta da questa miserabile, che colla sua protervia ha seminato tante spine sul sentiero della vostra vita?… Oh cara madre! io non ve ne chieggo perdono, perché so che mi avete già perdonato tutto; e voi pure, padre mio, e voi pure m’avete perdonato, è vero?»
Ermelinda e il Conte soffocati dal pianto non potevano formar parola: stettero tutti qualche tempo in silenzio. Intanto l’ancella, dopo aver porto all’inferma non so che bevanda ristoratrice, erasi adagiata sulla seggiola a canto al letto, e vinta dalla stanchezza e dal disagio a poco a poco chinava il capo sulle coltri e s’addormentava. Bice, che se ne accorse, senza rimuovere una mano che le tenea su d’una spalla, accennò con l’altra agli astanti che stessero zitti, che si guardassero da ogni strepito; ella medesima ricambiando di tanto in tanto qualche parola col confessore, abbassò la voce, quantunque per sé stessa già mezzo spenta, e il pio monaco intenerito da quella gentile sollecitudine fece altrettanto. Dapprima, ad ogni poco ella si faceva acconciar le coltri o i guanciali; ora voleva rilevarsi, ora mutar fianco, come sogliono gl’infermi che non sanno trovar requie in nessun lato; ma adesso sforzavasi di star quieta nella giacitura in cui si trovava, osando a mala pena di trarre il fiato per paura di non destare quella sua cara, nel cui volto abbassava gli occhi, e teneali intesi in atto d’amorosa compiacenza.
Quando Lauretta si destò, cominciava a spuntar l’alba, e vedevasi la fiammella d’una lucerna posta a canto al letto impallidire al primo chiarore ch’entrava dalla vetriera di fronte.
La svegliata volse intorno gli occhi attoniti, non sapendo in quel subito dove si fosse, se non che venne ad incontrarli in quelli di Bice, la quale schiudendole un riso pieno di dolcezza: «Sei qui con me,» le disse: «sei colla tua cara Bice.» L’altra abbassò il volto, dolente e vergognoso che la fralezza delle membra avesse potuto farle obliare per qualche tempo la sua diletta padrona in quello stremo. Ma questa, che indovinò l’animo dell’amorosa compagna, seppe consolarnela tosto coll’imporre a lei sola ogni minuto servigio di che le facesse mestieri, col ricevere graziosamente tutte quelle amorevolezze, ch’essa con sottile, raddoppiata sollecitudine, le veniva profondendo.
Verso un’ora di sole disse di sentirsi stanca e di voler riposare; si coricò, chiuse gli occhi, e da lì a qualche tempo prese sonno; un sonno lento ed affannato: ma tutto ad un tratto fu vista riscuotersi come in sussulto, levò il capo dai guanciali, e tosto vi ricadde; un sudor freddo le corse sul volto, cessò l’anelito, i polsi sparirono; e fu uno spavento generale, chè tutti la credettero spirata. Non era stata però che una strettezza passeggiera di cuore, un deliquio da cui si riebbe in breve, e vedendosi d’intorno i suoi cari che si disperavano:
«Di che piangete?» disse, «ecco, ch’io sono ancora con voi.»
Tutti le si strinsero d’intorno, ed essa, dopo aver ripreso un po’ di lena, rivolta alla madre: «Però,» continuava, «sento che la vita mi fugge, e l’ora è vicina; or via, siate forte, e accogliete l’ultime mie parole, l’ultimo voto dell’anima mia.»
Si trasse di dito un anello, e lo porgeva a lei dicendo: «Mi fu dato da Ottorino alla presenza vostra; simbolo di un nodo che dovea durar poco quaggiù, ma che verrà rinnovato in paradiso… Se vi è concesso di rivederlo, rimettetelo nelle sue mani, che me lo mostrerà un giorno… E ditegli insieme, che in questo solenne momento, tremando d’avermi fra poco a trovar sola nelle mani del Signore, l’ho pregato d’una cosa, pel bene che mi ha voluto, per la sua, per la mia salute eterna, l’ho pregato che non domandi ragione ad alcuno di quel tanto che ho patito quaggiù.»
Riposò un momento, quindi accennando con un lieve moto del capo l’ancella che stavasi a piè del letto: «Io non ve la raccomando: l’avete sempre avuta negli occhi e nel cuore; ma dopo tutto quello che ha patito per me, come mi sarebbe stata una sorella, così sia per voi una figlia… Ella vi sarà più sottomessa di questa… che avete amata troppo.» E volgendosi a Lauretta: «Mi prometti?…»
«Ah! sì,» rispose l’interrogata, «non l’abbandonerò mai finché avrò vita, starò sempre con lei; tutta, tutta per lei.»
Allora sentendosi mancar le forze si tacque. Stette lungo tempo come sopita, alla fine schiuse lentamente gli occhi, li volse alla finestra d’onde entrava il sole, e mormorò fra sé stessa: «Oh le mie care montagne!»
La madre le si fece più dappresso, ed ella movendo a fatica la voce sempre più fioca e vacillante, profferì interrottamente queste parole: «Là, nel camposanto di Limonta, in quella cappelletta… dove giace il mio povero fratello… vi abbiam pregato … e pianto insieme tante volte… Ch’io riposi presso di lui … vi tornerete sola a pregare, a piangere per ambedue… Mi verrà il suffragio di quella buona gente… Salutateli tutti per me… e la povera Marta, che ha un figlio anch’essa in quel santo luogo…»
La madre più coi cenni che colla voce, impedita dal pianto, l’assicurò che avrebbe fatto ogni suo desiderio. Allora il monaco, accorgendosi come non rimanessero all’inferma che pochi istanti di vita, si pose la stola, la benedisse, e cominciò a recitar sopra di lei le orazioni degli agonizzanti. Tutti s’inginocchiarono intorno al letto, e vi rispondevano singhiozzando. Bice anch’essa, quando con un fioco articolar di voci, quando col chinar lento e divoto del capo, mostrava di prender parte agli affetti espressi da quelle sante parole: il suo volto placido e sereno rendeva testimonianza della pace di quell’anima pia, che fra i dolori della morte pregustava il gaudio d’un’altra vita.
Ma tutto ad un tratto l’augusta quiete che regnava là dentro, vien rotta da un fragore di passi concitati che salgono la scala: tutti gli sguardi si rivolgono verso l’uscio; la castellana levandosi in piedi si fa incontro a due persone che vi si affacciano, e ricambia alcune parole; l’uno dei vegnenti si ferma sul limitare, ma l’altro avventandosi nella camera si precipita ginocchione a piè del letto, ne stringe e bacia le coltri, e le innonda di lagrime.
Ermelinda, il Conte, Lauretta, conobbero tosto Ottorino; gli altri l’indovinarono.
Il giovane arrivava allora allora dal castello di Binasco in compagnia di quell’uomo, in nome del quale v’era stato tenuto prigione, e che era corso in persona a liberarlo.
La morente, scossa da quel subito trambusto, aperse languidamente gli occhi, e senza essersi potuta accorgere del sopravvenuto, chè gli altri standole d’intorno gliene toglievan la vista, domandò che fosse.
«Rendete lode a Dio,» sclamò il confessore intenerito, «avete accettata dalle sue mani l’amarezza, l’avete accettata con pace, con riconoscenza; accettate collo stesso animo la gioia che ora vi vuol dare, e tanto quella che questa vi sarà attribuita a merito.»
«Che?… Ottorino?…» disse l’agonizzante facendo un ultimo sforzo per profferire quel nome.
«Sì, il vostro sposo,» ripetè il sacerdote, e accostatosi al giovane, lo fece levare in piedi e lo condusse presso di lei. Bice gli fissò in volto gli occhi lampeggianti d’un raggio che stava per ispegnersi, e gli stese una mano, sulla quale egli chinò la faccia tramutata, ma non più lagrimosa. Dopo un istante, la moribonda ritrasse dolcemente a sè quella mano; e mostrandola al suo sposo, accennava nello stesso tempo la madre, e s’affannava per dir qualcosa senza poter mai profferire distintamente le parole. Il monaco indovinò il suo desiderio, e vôlto al giovane: «Vuol dirvi dell’anello nuziale ch’essa ha dato alla madre, e che riceverete da lei.» Il volto di Bice si animò tutto d’un sorriso, accennando di sì. Allora Ermelinda si trasse tostamente di dito quell’anello, e lo porse ad Ottorino, il quale baciollo e disse: «Verrà meco nel sepolcro.»
«E una preghiera vi ha legato la vostra sposa,» seguitava a dirgli il sacerdote, «che deponghiate, se mai l’aveste nel cuore, ogni pensiero di vendicarla. La vendetta appartiene al Signore.»
Ella tenea fissi ansiosamente gli occhi nel volto del giovane, il quale stavasi a capo basso e non rispondea parola; ma il confessore, prendendo l’irresoluto per un braccio: «Or via,» gli domandò con voce grave e severa, «lo promettete? lo promettete a questa vostra sposa, che sull’ultimo passo tra la vita e la morte, fra il tempo e l’eternità, ve lo domanda come una grazia, ve lo impone come un debito, in nome di quel Dio innanzi al quale ella sta per comparire?»
«Sì, lo prometto,» rispose Ottorino, dando in uno scoppio di pianto. Bice lo ringraziò con uno sguardo pieno d’angelica dolcezza, che mostrava chiaramente come non le restasse più nulla da desiderare a questo mondo.
Allora il sacerdote fe’ cenno agli astanti; i quali tornarono a inginocchiarsi, ed ei riprese le preghiere interrotte. Solo in un momento di sospensione e di silenzio universale, l’agonizzante parve accorgersi d’un suono represso di singhiozzi, che veniva dalla camera vicina, e levò uno sguardo lento in volto alla madre, come domandandole che cosa fosse: questa abbassò il viso fra le mani, ché non le reggeva il cuore di profferire un nome; ma il sacerdote curvandosi sulla moribonda le disse sottovoce: «Pregate anche per lui, principalmente per lui: è Marco Visconti.» La pia chinò soavemente il capo ad accennare che già lo faceva, e non fu più vista rilevarlo: era spirata.

mil37-1 2.jpegTommaso Grossi

Il romanzo di Tommaso Grossi è del 1834 e l’autore mostra di conoscere molto bene il romanzo manzoniano che viene pubblicato nella sua edizione nel 1827. Ispirandosi alla trama dei Promessi sposi e alla figura dell’Innominato – personaggio simile a Marco Visconti che si pente, alla fine della storia, delle proprie azioni – Grossi segue il modello del romanzo storico di impostazione manzoniana inserendo, però, anche elementi patetici, tragici e avventurosi tratti dalla scuola di Scott. Il brano proposto vede affiancati il tono misterioso e avventuroso che avvolge la descrizione del castello e dei suoi sotterranei e carceri in cui i due amanti sono rinchiusi e quello sentimentale e patetico della scena finale, quando Ottorino ritrova Bice in punto di morte e giura di rinunciare a vendicare la sorte subita, confidando nella giustizia divina. Ma l’accentuazione di quest’ultimo aspetto fa di questo romanzo un punto di riferimento piuttosto importante per il prosieguo del romanzo d’appendice che al di là degli esiti letterari diventa decisivo come termometro della alfabetizzazione del pubblico italiano. Tale tipologia romanzesca sarà operativa soprattutto all’indomani dell’Unità d’Italia. 

147066.jpgFilm Mario Bonnard: Marco Visconti (1940)

Se mai dovessimo scorgere un’evoluzione nel genere di romanzo storico, dovremmo leggerlo nell’opera di Ippolito Nievo la cui opera, come dice efficacemente il critico Vincenzo Mengaldo, potrebbe definirsi come un “romanzo storico del presente”.

Ippolito Nievo nasce a Padova nel 1831. Studia nella città veneta legge, ma rimane affascinato, sin dalla più giovane età dalle idee mazziniane. Svolge un’intensa attività politica che lo porta a partecipare all’avventura garibaldina. Dopo Calatafimi e Palermo, rimane in città, dove svolge l’attività di sovrintendente. Di ritorno dalla Sicilia con i documenti amministrativi della spedizione, muore in mare per un naufragio della nave “Ettore” su cui si era imbarcato. Era il 1861.

15_01_18-06_00_45-s6f6a0a6498cbe7a8b419ab0d86020c8.jpgIppolito Nievo

L’opera di cui ci occupiamo è Confessioni di un italiano (conosciute anche come Confessioni di un ottuagenario) scritte, in modo anche piuttosto veloce, tra il 1578 e il 1579, ma pubblicate postume nel 1867.

La vicenda s’immagina narrata dal protagonista quando è ormai più che ottuagenario e copre le vicende che vanno dal 1775 al 1885. Carlo Altoviti, allevato da uno zio, il conte di Fratta, si innamora ancora adolescente della cugina, la Pisana. A padova, dove va a studiare, Carlo è infiammato da ardori patriottici e liberali: la Pisana, che ha sposato un nobile, vecchio e ricchissimo, un po’ perché malconsigliata, un po’ per far dispetto a Carlo, lo raggiunge. Bizzarra, volubile, appassionata, gli resta accanto a Napoli, dove il giovane partecipa ai moti della Repubblica Partenopea, a Genova assediata, a Bologna. Qui lo abbandona, ma per tornare da lui a Venezia, quando egli si ammala, curandolo con abnegazione. Caduto Napoleone, Carlo partecipa ai moti liberali e viene arrestato: è condannato ai lavori forzati e nel carcere perde la vista. Commutata la pena nell’esilio, si reca a Londra, accompagnato dalla Pisana che arriva a mendicare per aiutarlo. A Londra Carlo incontra un amico, valentissimo medico, che gli ridona la vista; ma la Pisana, ormai gravemente ammalata, muore.

LA PISANA

La Pisana era una bimba vispa, irrequieta, permalosetta, dai begli occhioni castani e dai lunghissimi capelli, che a tre anni conosceva già certe sue arti da donnetta per invaghire di sé, e avrebbe dato ragione a color che sostengono le donne non esser mai bambine, ma nascer donne belle e fatte, col germe in corpo di tutti i vezzi e di tutte le malizie possibili. Non era sera che prima di coricarmi io non mi curvassi sulla culla della fanciulletta per contemplarla lunga pezza; ed ella stava là coi suoi occhioni chiusi e con un braccino sporgente dalle coltri e l’altro arrotondato sopra la fronte come un bel angelino addormentato. Ma mentre io mi deliziava di vederla bella a quel modo, ecco ch’ella socchiudeva gli occhi e balzava a sedere sul letto dandomi dei grandi scappellotti e godendo avermi corbellato col far le viste di dormire. Queste cose avvenivano quando la Faustina voltava l’occhio, o si dimenticava del precetto avuto; poiché del resto la Contessa le aveva raccomandato di tenermi alla debita distanza dalla sua puttina, e di non lasciarmi prender con lei eccessiva confidenza. Per me c’erano i figliuoli di Fulgenzio, i quali mi erano abbominevoli più ancora del padre loro, e non tralasciava mai occasione di far loro dispetti; massime perché essi si affaccendavano di spifferare al fattore che mi aveano veduto dar un bacio alla contessina Pisana, o portarmela in braccio dalla greppia delle pecore fino alla riva della peschiera. Peraltro la fanciulletta non si curava al pari di me delle altrui osservazioni, e seguitava a volermi bene, e cercava farsi servire da me nelle sue piccole occorrenze piuttostoché dalla Faustina o dalla Rosa, che era l’altra cameriera, o la donna di chiave che or si direbbe guardarobbiera. Io era felice e superbo di trovar finalmente una creatura cui poteva credermi utile; e prendeva un certo piglio d’importanza quando diceva a Martino: «Dammi un bel pezzo di spago che debbo portarlo alla Pisana!» Cosí la chiamava con lui; perché con tutti gli altri non osava nominarla se non chiamandola la Contessina. Queste contentezze peraltro non erano senza tormento poiché pur troppo si verifica così nell’infanzia come nell’altre età il proverbio, che non fiorisce rosa senza spine. Quando capitavano al castello signori del vicinato coi loro ragazzini ben vestiti e azzimati, e con collaretti stoccati e berrettini colla piuma, la Pisana lasciava da un canto me per far con essi la vezzosa; e io prendeva un broncio da non dire a vederla far passettini e torcer il collo come la gru, e incantarli colla sua chiaccolina dolce e disinvolta. Correva allora allo specchio della Faustina a farmi bello anch’io; ma ahimè che pur troppo m’accorgeva di non potervi riescire. Aveva la pelle nera e affumicata come quella delle aringhe, le spalle mal composte, il naso pieno di graffiature e di macchie, i capelli scapigliati e irti intorno alle tempie come le spine d’un istrice e la coda scapigliata come quella d’un merlo strappato dalle vischiate. Indarno mi martorizzava il cranio col pettine sporgendo anche la lingua per lo sforzo e lo studio grandissimo che ci metteva; quei capelli petulanti si raddrizzavano tantosto più ruvidi che mai. Una volta mi saltò il ticchio di ungerli come vedeva fare alla Faustina; ma la fatalità volle che sbagliassi boccetta e invece di olio mi versai sul capo un vasetto d’ammoniaca ch’essa teneva per le convulsioni, e che mi lasciò intorno per tutta la settimana un profumo di letamaio da rivoltar lo stomaco. Insomma nelle mie prime vanità fui ben disgraziato e anziché rendermi aggradevole alla piccina, e stoglierla dal civettare coi nuovi ospiti, porgeva a lei e a costoro materia di riso, ed a me nuovo argomento di arrabbiare e anche quasi d’avvilirmi. Gli è vero che partiti i forestieri la Pisana tornava a compiacersi di farmi da padroncina, ma il malumore di cotali infedeltà tardava a dissiparsi, e senza sapermene liberare, trovava troppo varii i suoi capricci, e un po’ anche dura la sua tirannia. Ella non ci badava, la cattivella. Avea forse odorato la pasta di cui era fatto, e raddoppiava le angherie ed io la sommissione e l’affetto; poiché in alcuni esseri la devozione a chi li tormenta è anco maggiore della gratitudine per chi li rende felici. Io non so se sian buoni o cattivi, sapienti o minchioni cotali esseri; so che io ne sono un esemplare; e che la mia sorte tal quale è l’ho dovuta trascinare per tutti questi lunghi anni di vita. La mia coscienza non è malcontenta né del modo né degli effetti; e contenta lei contenti tutti; almeno a casa mia.
Devo peraltro confessare a onor del vero che per quanto volubile, civettuola e crudele si mostrasse la Pisana fin dai tenerissimi anni, ella non mancò mai d’una certa generosità; qual sarebbe d’una regina che dopo aver schiaffeggiato e avvilito per bene un troppo ardito vagheggino, intercedesse in suo favore presso il re suo marito. A volte mi baciuzzava come il suo cagnolino, ed entrava con me nelle maggiori confidenze; poco dopo mi metteva a far da cavallo percotendo con un vincastro senza riguardo giù per la nuca e traverso alle guancie; ma quando sopraggiungeva la Rosa od il fattore ad interrompere i nostri comuni trastulli che erano, come dissi, contro la volontà della Contessa, ella strepitava, pestava i piedi, gridava che voleva bene a me solo più che a tutti gli altri, che voleva stare con me e via via; finché dimenandosi e strillando fra le braccia di chi la portava, i suoi gridari si ammutivano dinanzi al tavolino della mamma. Quelle smanie, lo confesso, erano il solo premio della mia abnegazione, benché dappoi spesse volte ho pensato che l’era più orgoglio ed ostinazione che amore per me. Ma non mescoliamo i giudizi temerari dell’età provetta colle illusioni purissime dell’infanzia.

Il brano ci presenta uno dei ritratti femminili più giustamente celebrati, e tale capacità è tutta nell’adottare il punto di vista di Carlino il quale ci descrive La Pisana a partire dalla sua soggezione rispetto a lei; quindi, attraverso il suo filtro in questo caso da adolescente innamorato, esclude a priori ogni atteggiamento moralistico o pedagogico. L’autore infatti non esprime giudizi e se è lo stesso Carlino (alter ego, chiaramente di Ippolito) a non esprimerli è lo stesso lettore che se ne deve esentare. Iltutto è aiutato anche da una forma lessicale assolutamente nuova, i cui linguaggi vengono mescolati con elementi vernacolari veneti e lombardi, registri a volte aulici a volte colloquiali, termini presi dalla tradizione culturale toscana: insomma un anti purismo assai lontano dal progetto linguistico manzoniano.

Le_confessioni_d'un_italiano.jpgManoscritto del romanzo

Tuttavia è l’intero progetto di Nievo ad essere interessante: egli è pienamente convinto che una storia individuale ha senso se si lascia catturare e quindi fluisce con i grandi avvenimenti; la vita di Carlino e de La Pisana è sì una grande storia d’amore ma tale storia si vivifica nel momento in cui partecipa alle azioni, alle scelte politiche, alle ideologie. Nievo va oltre il manzonismo di Renzo e Lucia (persone semplici è vero, che si stagliano nel palcoscenico secentesco) e fa dei suoi protagonisti delle figure vive, attori protagonisti nel palco sette/ottocentesco. E’ evidente che tale posizione trasformi il romanzo anche in un perfetto Bildungsrosman (romanzo di formazione) ottenuto attraverso un racconto che si muove continuamente tra presente e passato (Carlino che vive, Carlino che ricorda e giudica). Un ultimo aspetto che ci dice come NIevo abbia meditato sull’ideologia di Rousseau, facendo della vita campagnola e della giovinezza un eden perduto rispetto alla corruzione della città. E’ per tutto questo che l’opera di Nievo è di fondamentale importanza, come ponte di passaggio tra il Romanticismo ed il Verismo.

22737611199_2.jpgIllustrazione di un’edizione de Confessioni di un italiano (I capitolo)

Altro genere che avrà un ruolo determinante nell’ispirare ideali risorgimentali è quello memorialistico. Anche qui il riferimento è nelle opere settecentesche (si pensi a Goldoni ed Alfieri), ma se in esse il punto di riferimento è individualistico, qui l’io diventa espressione di un movimento. Gli scrittori romantici che adottano tale genere sia prima dell’unità, come Pellico e Settembrini, sia dopo come Abba, sembra siano pienamente consapevoli del loro ruolo di testimonianza di uomini inseriti in un processo storico, quale appunto quello risorgimentale, capitale per gli avvenimenti politici cui aderiscono.

Tra le opere maggiormente lette e la cui lettura proseguirà, con intento edificante, fino agli anni Cinquanta, vi è Le mie prigioni di Silvio Pellico.

3801359bb2e0427f8ffb5666767399e1-1.jpgSilvio Pellico, nasce a Saluzzo nel 1789. Completa gli studi a Lione, presso un ricco parente e acquisisce una buona cultura francese. Si stabilisce poi a Milano dove incontra Foscolo e Monti e fra gli stranieri la Staël, Stendhal e Byron. Ottiene un vero e proprio trionfo con la Francesca da Rimini, rappresentata nel 1815. Inseritosi nei circoli romantici, precettore in casa del conte Lambertenghi, è uno dei più assidui collaboratori del Conciliatore. Introdotto nella Carboneria, il 13 ottobre 1820 viene arrestato e poi processato e condannato a morte, ma la pena viene commutata a quindici anni di “carcere duro”, da scontare nella fortezza dello Spielberg, in Moravia. Nel 1830 è graziato e torna a Torino, dove vive come bibliotecario dei marchesi Barolo, adeguandosi alla mentalità reazionaria e bigotta di quell’ambiente. Muore nel 1854.  

IL CARCERIERE SCHILLER

Maroncelli ed io fummo condotti in un corridoio sotterraneo, dove ci s’apersero due tenebrose stanze non contigue. Ciascuno di noi fu chiuso nel suo covile.
Acerbissima cosa, dopo aver già detto addio a tanti oggetti, quando non si è più che in due amici, egualmente sventurati, ah sì! acerbissima cosa è il dividersi! Maroncelli nel lasciarmi, vedeami infermo, e compiangeva in me un uomo ch’ei probabilmente non vedrebbe mai più: io compiangea in lui un fiore splendido di salute, rapito forse per sempre alla luce vitale del sole. E quel fiore infatti oh come appassì! Rivide un giorno la luce, ma oh in quale stato!
Allorchè mi trovai solo in quell’orrido antro, e intesi serrarsi i catenacci, e distinsi al barlume che discendeva da alto finestruolo, il nudo pancone datomi per letto ed un enorme catena al muro, m’assisi fremente su quel letto, e presa quella catena, ne misurai la lunghezza, pensando fosse destinata per me. Mezz’ora dappoi, ecco stridere le chiavi; la porta s’apre: il capo-carceriere mi portava una brocca d’acqua.
«Questo è per bere,» disse con voce burbera; «e domattina porterò la pagnotta.»
«Grazie, buon uomo.»
«Non sono buono,» riprese.
«Peggio per voi,» gli dissi sdegnato. «E questa catena,» soggiunsi, «è forse per me?»
«Sì, signore, se mai ella non fosse quieta, se infuriasse, se dicesse insolenze. Ma se sarà ragionevole, non le porremo altro, che una catena a’ piedi. Il fabbro la sta apparecchiando.»
Ei passeggiava lentamente su e giù, agitando quel villano mazzo di grosse chiavi, ed io con occhio irato mirava la sua gigantesca, magra, vecchia persona; e, ad onta de’ lineamenti non volgari del suo volto, tutto in lui mi sembrava l’espressione odiosissima d’un brutale rigore!
Oh come gli uomini sono ingiusti, giudicando dall’apparenza, e secondo le loro superbe prevenzioni! Colui ch’io m’immaginava agitasse allegramente le chiavi, per farmi sentire la sua trista podestà, colui ch’io riputava impudente per lunga consuetudine d’incrudelire, volgea pensieri di compassione, e certamente non parlava a quel modo con accento burbero, se non per nascondere questo sentimento. Avrebbe voluto nasconderlo, a fine di non parer debole, e per timore ch’io ne fossi indegno; ma nello stesso tempo supponendo che forse io era più infelice che iniquo, avrebbe desiderato di palesarmelo.
Nojato della sua presenza, e più della sua aria da padrone, stimai opportuno d’umiliarlo, dicendogli imperiosamente, quasi a servitore:
«Datemi da bere.»
Ei mi guardò, e parea significare: “Arrogante! qui bisogna divezzarsi dal comandare.”
Ma tacque, chinò la sua lunga schiena, prese in terra la brocca, e me la porse. M’avvidi pigliandola, ch’ei tremava, e attribuendo quel tremito alla sua vecchiezza, un misto di pietà e di reverenza temperò il mio orgoglio.
«Quanti anni avete?» gli dissi con voce amorevole.
«Settantaquattro, signore: ho già veduto molte sventure e mie ed altrui.»
Questo cenno sulle sventure sue ed altrui fu accompagnato da nuovo tremito, nell’atto ch’ei ripigliava la brocca; e dubitai fosse effetto, non della sola età, ma d’un certo nobile perturbamento. Siffatto dubbio cancellò dall’anima mia l’odio che il suo primo aspetto m’aveva impresso.
«Come vi chiamate?» gli dissi.
«La fortuna, signore, si burlò di me, dandomi il nome d’un grand’uomo. Mi chiamo Schiller.»
Indi in poche parole mi narrò qual fosse il suo paese, quale l’origine, quali le guerre vedute, e le ferite riportate.
Era svizzero, di famiglia contadina: avea militato contro a’ Turchi sotto il general Laudon a’ tempi di Maria Teresa e di Giuseppe II, indi in tutte le guerre dell’Austria contro alla Francia, sino alla caduta di Napoleone.
Quando d’un uomo che giudicammo dapprima cattivo, concepiamo migliore opinione, allora, badando al suo viso, alla sua voce, a’ suoi modi, ci pare di scoprire evidenti segni d’onestà. È questa scoperta una realtà? Io la sospetto illusione. Questo stesso viso, quella stessa voce, quegli stessi modi ci pareano, poc’anzi, evidenti segni di bricconeria. S’è mutato il nostro giudizio sulle qualità morali, e tosto mutano le conclusioni della nostra scienza fisionomica. Quante facce veneriamo perchè sappiamo che appartennero a valentuomini, le quali non ci sembrerebbero punto atte ad ispirare venerazione se fossero appartenute ad altri mortali! E così viceversa. Ho riso una volta d’una signora che vedendo un’immagine di Catilina, e confondendolo con Collatino, sognava di scorgervi il sublime dolore di Collatino per la morte di Lucrezia. Eppure siffatte illusioni sono comuni.
Non già che non vi sieno facce di buoni, le quali portano benissimo impresso il carattere di bontà, e non vi sieno facce di ribaldi che portano benissimo impresso quello di ribalderia; ma sostengo che molte havvene di dubbia espressione.
Insomma, entratomi alquanto in grazia il vecchio Schiller, lo guardai più attentamente di prima, e non mi dispiacque più. A dir vero, nel suo favellare, in mezzo a certa rozzezza, eranvi anche tratti d’anima gentile.
«Caporale qual sono,» diceva egli, «m’è toccato per luogo di riposo il tristo ufficio di carceriere: e Dio sa, se non mi costa assai più rincrescimento che il rischiare la vita in battaglia!»
Mi pentii di avergli dimandato con alterigia da bere. «Mio caro Schiller,» gli dissi, stringendogli la mano, «voi lo negate indarno, io conosco che siete buono, e poichè sono caduto in quest’avversità, ringrazio il Cielo di avermi dato voi per guardiano.»
Egli ascoltò le mie parole, scosse il capo, indi rispose, fregandosi la fronte, come uomo che ha un pensiero molesto: «Io sono cattivo, o signore; mi fecero prestare un giuramento, a cui non mancherò mai. Sono obbligato a trattare tutti i prigionieri senza riguardo alla loro condizione, senza indulgenza, senza concessione d’abusi, e tanto più i prigionieri di stato. L’Imperatore sa quello che fa; io debbo obbedirgli.
«Voi siete un brav’uomo, ed io rispetterò ciò che riputate debito di coscienza. Chi opera per sincera coscienza può errare, ma è puro innanzi a Dio.»
«Povero signore! abbia pazienza, e mi compatisca. Sarò ferreo ne’ miei doveri, ma il cuore… il cuore è pieno di rammarico di non poter sollevare gl’infelici. Questa è la cosa ch’io volea dirle.»
Ambi eravamo commossi. Mi supplicò d’essere quieto, di non andare in furore, come fanno spesso i condannati, di non costringerlo a trattarmi duramente.
Prese poscia un accento ruvido, quasi per celarmi una parte della sua pietà, e disse: «Or bisogna ch’io me ne vada.»
Poi tornò indietro, chiedendomi da quanto tempo io tossissi così miseramente com’io faceva, e scagliò una grossa maledizione contro il medico, perchè non veniva in quella sera stessa a visitarmi.
«Ella ha una febbre da cavallo,» soggiunse; «io me ne intendo. Avrebbe d’uopo almeno d’un pagliericcio, ma finchè il medico non l’ha ordinato, non possiamo darglielo.»
Uscì, richiuse la porta, ed io mi sdrajai sulle dure tavole, febbricitante sì, e con forte dolore di petto, ma meno fremente, meno nemico degli uomini, meno lontano da Dio.
A sera venne il soprintendente, accompagnato da Schiller, da un altro caporale e da due soldati, per fare una perquisizione.
Tre perquisizioni quotidiane erano prescritte: una a mattina, una a sera, una a mezzanotte. Visitavano ogni angolo della prigione, ogni minuzia; indi gl’inferiori uscivano, ed il soprintendente (che mattina e sera non mancava mai) si fermava a conversare alquanto con me.
La prima volta che vidi quel drappello, uno strano pensiero mi venne. Ignaro ancora di quei molesti usi, e delirante dalla febbre, immaginai che mi movessero contro per trucidarmi, e afferrai la lunga catena che mi stava vicino, per rompere la faccia al primo che mi s’appressasse.
«Che fa ella?» disse il soprintendente. «Non veniamo per farle alcun male. Questa è una visita di formalità a tutte le carceri, a fine di assicurarci che nulla siavi d’irregolare.»
Io esitava; ma quando vidi Schiller avanzarsi verso me e tendermi amicamente la mano, il suo aspetto paterno m’ispirò fiducia: lasciai andare la catena, e presi quella mano fra le mie.
«Oh come arde!» diss’egli al soprintendente. «Si potesse almeno dargli un pagliericcio!»
Pronunciò queste parole con espressione di sì vero, affettuoso cordoglio, che ne fui intenerito.
Il soprintendente mi tastò il polso, mi compianse: era uomo di gentili maniere, ma non osava prendersi alcun arbitrio.
«Qui tutto è rigore anche per me,» diss’egli. «Se non eseguisco alla lettera ciò ch’è prescritto, rischio d’essere sbalzato dal mio impiego.»
Schiller allungava le labbra, ed avrei scommesso, ch’ei pensava tra sé: “S’io fossi soprintendente, non porterei la paura fino a quel grado; né il prendersi un arbitrio così giustificato dal bisogno, e così innocuo alla monarchia, potrebbe mai riputarsi gran fallo.”
Quando fui solo, il mio cuore, da qualche tempo incapace di profondo sentimento religioso, s’intenerì e pregò. Era una preghiera di benedizioni sul capo di Schiller; ed io soggiungeva a Dio: «Fa ch’io discerna pure negli altri qualche dote che loro m’affezioni; io accetto tutti i tormenti del carcere, ma deh, ch’io ami! deh, liberami dal tormento d’odiare i miei simili!.
A mezzanotte udii molti passi nel corridoio. Le chiavi stridono, la porta s’apre. È il caporale con due guardie, per la visita.
«Dov’è il mio vecchio Schiller?» diss’io con desiderio. Ei s’era fermato nel corridoio.
«Son qua, son qua,» rispose.
E venuto presso al tavolaccio, tornò a tastarmi il polso, chinandosi inquieto a guardarmi, come un padre sul letto del figliuolo infermo.
«Ed or che me ne ricordo, dimani è giovedì!» borbottava egli; «pur troppo giovedì!»
«E che volete dire con ciò?»
«Che il medico non suol venire, se non le mattina del lunedì, del mercoledì e del venerdì, e che dimani pur troppo non verrà.»
«Non v’inquietate per ciò.»
«Ch’io non m’inquieti, ch’io non m’inquieti! In tutta la città non si parla d’altro che dell’arrivo di lor signori: il medico non può ignorarlo. Perché diavolo non ha fatto lo sforzo straordinario di venire una volta di più?»
«Chi sa che non venga dimani, sebben sia giovedì?»
Il vecchio non disse altro; ma mi serrò la mano con forza bestiale, e quasi da storpiarmi. Benchè mi facesse male, n’ebbi piacere. Simile al piacere che prova un innamorato, se avviene che la sua diletta, ballando, gli pesti un piede: griderebbe quasi dal dolore, ma, invece, le sorride, e s’estima beato.

Silvio_Pellico_allo_Spielberg.jpg“In uno stile misurato e dimesso, privo di enfasi e di toni patetici, l’autore offre in questo episodio, uno dei più celebri de Le mie prigioni, un esempio del processo di trasformazione da lui vissuto in carcere. I ruoli sociali separano Pellico dal suo carceriere e, soprattutto, lo sdegno e l’odio, impediscono all’autore di cogliere l’umanità di Shiller. Per questo motivo il centro ideologico dell’episodio, e che vale come chiave di lettura dell’intera opera, consiste nella preghiera con cui Pellico si rivolge a Dio affinché lo liberi dal tormento di odiare il suo prossimo e l’aiuti a scoprire l’altrui umanità.”
(De Caprio / Giovanardi).

Sentenza_di_condono_della_pena_di_morte_per_Silvio_Pellico,_Pietro_Maroncelli_Giovanni_Canova_-_Venezia_-_21-02-1822_-_manifesto_su_carta.jpegSentenza di condono per Pietro Maroncelli e Silvio Pellico

Sembra quasi che il 1848 segni una forte linea di demarcazione tra il romanzo scritto prima e quello successivo. La spinta propulsiva del romanzo storico o anche quella di tipo memorialistico pubblicata tra gli anni ’20 e ’40 aveva come funzione quella pedagogica che ben poteva essere riassunta nel detto manzoniano “l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo.” Il fallimento di tale moto, porta lo stesso romanzo a riflettere su stesso e ad indagare la realtà senza il filtro della storia o della memoria. 

A tale scopo sembra interessante il tentativo di Niccolò Tommaseo, che nasce nel 1802 a Sebenico in Dalmazia da famiglia veneta. Giovane si trasferisce prima a Milano poi a Firenze. Qui nell’Antologia di Viesseux scrive un articolo antiaustriaco che lo costringe all’esilio. Si rifugia a Parigi dove entra in contatto con i fuoriusciti italiani. Qui scrive alcune sue opere tra le quali Fede e bellezza, che terminerà quando torna a Venezia. Nel 1847 viene arrestato dopo aver tenuto un discorso sulla libertà di stampa; liberato l’anno successivo (1848), partecipa al governo veneto, battendosi per la non unificazione con il Piemonte e per la guerra in Austria. Battuta la repubblica si rifugia a Corfù, poi nel ’54 raggiunge Torino e nel ’59 Firenze. Gli ultimi anni sono funestati dalla ciecità. Muore a Firenze nel 1874, repubblicano convinto che rifiuta la cittadinanza italiana. 

Il romanzo si avvale di una tecnica mista di rievocazioni dell’uno e dell’altro protagonista, pagine di diario, narrazione in terza persona. La vicenda è povera di avvenimenti, mentre abbondano le confessioni e gli sfoghi sentimentali. Giovanni e Maria si sono conoscuiuti a Quimper; i due si confidano il loro passato, le esperienze amorose di cui furono ora vittime ora colpevoli; dopo aver superato contrasti e tentazioni, si sposano. Anche nel matrimonio continuano a confidarsi ogni più piccolo moto dell’animo. Poi Giovanni si batte in un duello con un francese che ha insultato l’Italia; ferito, guarisce, ma per vedersi morire tra le braccia, consunta dalla tisi, Maria. 

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LA MORTE DI MARIA

Una notte di dicembre fredda e piovosa (eran le undici sonate, e il fuoco del caminetto già spento), Maria pregata, non voleva smettere prima di finire il lavoro. Giovanni le si accosta quasi supplichevole: e stava per baciarla in fronte, quando s’accorge di non so che rosso sul volto suo più pallido e più soavemente mesto che mai. Mentre guarda spaventato, Maria ritira in fretta la pezzuola che aveva sul grembiule; egli trepidando gliela prende, la trova intrisa di sangue, e mette un grido. «Non è nulla.» «Da quando?» «Dall’altr’ieri. Oh per carità non vi spaventate.» Egli cadeva abbattuto sopra una seggiola; e Maria l’abbracciava sollecita come fa madre figliuolo pericolante. Solevano (tale fin dal primo era il patto) dormire divisi: che da questo reciproco rispetto, conducevole insieme a virtù e a libertà, a sanità e a pulizia, credevano giovarsi l’amore. Ma quella sera ell’era sì ghiaccia, ed egli sì intimorito, e sì diffidente del silenzio di lei, che pregò di posarlesi accanto. E nell’impeto del dolore innamorato congiunsero labbro a labbro; e con ardore più abbandonato ma con anima monda riprovarono nuove le gioie note: ed egli le disse parole d’amore quali ella non aveva sentite, misera, mai […]. Un’imagine or lontana or presente, velata dalla speranza, ma pur terribile, gli stava dinanzi; e avvelenava la dolcezza, e la faceva correre più veemente, penetrar più profonda. Parevagli d’abbracciare una donna condannata a morire, e la stringeva a sé come per rattenere l’angelo suo fuggente. Ma dell’affannarla col tremito dell’amore sentiva rimorso, e ristava a un tratto: ed essa con dolce voce lo chiamava confortando, e parlava degli anni avvenire. Così passarono tutta la notte: e mentr’ella s’addormentava, semi aperte le labbra rosseggianti, e con sul pallido viso la pace di persona consolata; Giovanni pensava: “Dio buono! difficil cosa anco i puri affetti esercitare con animo puro. Quante memorie vietate, fin ne’ concessi abbracciamenti! Perdono, o terribile Iddio dell’amore severo! Non mi punite: non togliete a me questa ch’è ormai conglutinata con l’anima mia!”. […] Il male ripigliava con furia: le febbri talvolta la levavan di sé; e nel delirio vedeva cose pietose, e quando liete, ch’erano più di tutte pietose a sentire. La notte del dì ventun di dicembre vaneggiò lungamente. “… Mi manca il respiro. E una volta mi pareva sì poca cosa quest’erta. Non è costì la chiesetta dell’Annunziata, e Bastia colaggiù? Inginocchiamoci. Questo ramoscello d’ulivo chi ce l’arà messo all’inferriata così? Una donna di quelle che si rammentano il Paoli. Vo’ serbarne una foglia. E gli allori della tomba d’Arquà? L’ho veduta io. Come bello il grande avvallar di que’ colli, che Dio destinava a consolazione d’un’anima pentita! Ma un fiume ci manca. La Brenta vorrei qui; e non tutte, ma qualche allegra palazzina delle allegre sue rive. La Brenta mi piace: le grandi correnti del Po mi spaventano. I’ amo il grande nel lieto, io mesta. Ferrara mi piace, città serena e solinga. Ve’ ve’, Giovanni, un ponte dell’Adige che accavalcia il Po; e la collina gaia di fronte: e un altro ponte, e un altro ancora. Ma non è questa, Verona? Come presto siam giunti! Son pur liete le città della povera Italia! Non posso più. Sediamo su questa gradinata: io sono inferma; m’è lecito a me. Nel duomo d’Imola un giorno pregai ginocchioni sopra una gradinata così. I’ ero bella allora, dicevano: e adesso! Ma dentro rea, e irrequieta. Quanto soffersi! E quella notte a Mantova nel sotterraneo di sant’Andrea, quanto piansi! Ma non è Pesaro, quella? Quelle statue che biancheggiano sotto gli alberi… Che? non son cerri codesti. Oh l’aveste veduta, quella ragazzina di Pescia, come parlava soavemente! con dinnanzi un fascio di legne di cerro, nuda i piè: pur bellina! – Ah il mio petto! Preghiamo Dio che mi dia pazienza. Non mi reggo ritta. Poserò la fronte da un lato di quest’altare. Che dice lassù? A Cristo… poi una parola scancellata. Povera me, non ci veggo più. Ma le sculture sono del Cividale: le riconosco. Oh Giovanni, compratemi un quadrettino di Frate Angelico: piccolo, purché di lui. Vi ricordate di quell’Annunziata che vidimo a Nantes? L’angelo come pudico, com’angelica in viso Maria, bruna, gracile, veneranda! L’angelo, le mani al petto, ella giunte e commesse, vestita di rosso pallido, d’azzurro pallido, e il fondo, un rosso più vivo: leggeva. E all’angelo era verde il manto e parte dell’ali, e sopra volante una colomba candida in raggi d’oro. Son pur gentili le creature dell’uomo che crede in Dio!” Qui la lingua impedita dava suoni confusi: e Maria nello sforzo si riscoteva ansimando.
Il dì ventidue peggiorò. Tornando frettoloso Giovanni da chiamare il medico, sulla piazza l’arresta una fila di bambini che, condotti da’ buoni fratelli delle scuole cristiane, uscivano da messa a due a due, con le braccia un sull’altro raccolte al petto, vispi, modesti, i be’ capelli giù per le spalle, e più gentili i più poveretti. S’impazientiva egli dell’intoppo, preparato da Dio per dargli luogo d’imbattersi col buon prete di Pontcroix, che in quel punto uscì di chiesa, e primo lo vide, e lo salutò con gioia, perché nulla sapeva del male di lei. Giovanni lo pregò di venire; e perché il prete dubitava: «venite. La consolerà rivedere chi le ha fatto del bene. E anch’a voi farà bene il vederla in tale stato. La lo conosce il suo stato. Parlatele senza tema di spaurirla: l’offendereste, se no».
Maria nel vederlo alzò il braccio e la voce come persona sana, e brillò ne’ begli occhi languidi. Egli tacito e conturbato le si pose di fronte appiè del letto, gli occhi abbassati levando or a lei ora al crocefisso, e cominciò: «Maria, un’altra volta io vi vidi languente, e vi consolai parlando del nostro buon Dio. Egli solo sa se voi siate destinata a più lungo patire: ma il patire v’ha già da gran tempo preparata alla morte. Terribile parola all’anima degli spensierati, non a coloro che l’hanno tante volte invocata nel pianto. Il più gran dolore di chi muore amato, è il dolore de’ cari che restano: ma con essi rimane Iddio. Duro mistero all’amore umano, ma certo come la morte: la vostra partita, o sorella, per quelli che v’amano sarà il meglio. Ringraziate Iddio delle consolazioni c’ha sparse sull’afflitta vostra vita; pensate agli errori commessi; e doletevene con amorosa fiducia nell’instancabile Amore. Offrite in espiazione le pene dell’ultimo sacrifizio: offritele per coloro che muoiono in quest’istante a migliaia su tutte le regioni della terra, più infelici e men disposti di voi; per que’ che rimangono a tribolare e a peccare, per que’ che nascono e nasceranno; per le nazioni intere ch’hanno terribilmente affannata vita e agonia lunga anch’esse. Noi di quaggiù pregheremo che, giunta presto in luogo di luce, ci assistiate di lassù, e c’insegniate la via. Se le consolazioni umane non fossero poca cosa ai pensieri di Dio, e se voi già nol sapeste, vi direi che, finch’io vivo, Giovanni il vostro marito, averà in Bretagna un fratello; che a me vederlo e meritare il su’ affetto, sarà consolazione desiderata: direi che morite benedetta, o Maria…».

19018571624.jpgFede e bellezza (1840)

Ci troviamo di fronte ad una delle ultime pagine del tesrto di Tommaseo, dove ci viene descritto il lungo delirio di Maria. Tale episodio se da una parte richiama la figura dell’Ermengarda di manzoniana memoria, non lesino l’apporto della conoscenza del romanzo francese (nello specifico Volupté di Saint-Beuve), nonché di alcune eroine epiche o tragiche. Quello che interessa è qui l’ibridismo linguistico di Tommaseo: voci antiche, calchi dal latino, vocaboli in uso, ma soprattutto quasi un “anticipo” del flusso di coscienza. 

Tuttavia quello che vogliamo sottolineare è che il tentativo di Tommaseo di riprendere il romanzo “realista” che in Francia vedeva i capolavori di Stendhal e Balzac, ma tale tentativo non riesce a partorire un’opera che possa pareggiare, per importanza, sul piano europeo, il capolavoro manzoniano. 

UGO FOSCOLO

foscolo-orig.jpegFrançois-Xavier Fabre: Ritratto di Ugo Foscolo (1807)

Biografia

Ugo Foscolo, battezzato con il nome Niccolò Ugo, nasce nell’isola greca di Zante nel 1778. Il padre, Andrea, è un medico veneziano, mentre la madre è greca, Diamantina Spathis. Ancora bambino, si reca a Spalato, insieme alla famiglia, nella quale riceve i primi rudimenti culturali nel seminario della città. Dopo la morte del padre, avvenuta quando lui aveva appena dieci anni, viene rimandato dai parenti ellenici, mentre la madre raggiunge Venezia. Si recherà, quasi non conoscendo l’italiano, dalla genitrice nel 1792 e nella città lagunare, pur nelle difficoltà economiche, approfondisce da solo gli studi classici e le letture di autori moderni, affacciandosi, pur ragazzo, negli ambienti intellettuali veneziani e dando prova di sé con quelli che potremo definire “abbozzi” letterari. Frequenta i salotti aristocratici in compagnia di altri scrittori, fra cui quello di Isabella Teotochi Albrizzi, che sarà la prima di una lunga serie di amori.

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La casa veneziana di Foscolo

Foscolo si getta a capofitto anche nella vita politica e civile, mostrando simpatia per le idee democratiche e rivoluzionarie che provenivano dalla Francia e, sul piano culturale, progetta un vero e proprio Piano di studi, da lui redatto nel 1796, all’interno del quale troviamo l’ideazione di  un romanzo Laura, lettere (il primo abbozzo di Jacopo Ortis). All’arrivo di Napoleone, trasformata l’Italia del nord in repubbliche, dapprima, sospetto al governo veneziano, si rifugia nei colli Euganei, ma al ritorno nella città lagunare fece rappresentare il Tieste (1797) tragedia di stile alferiano piena di accenti libertari. Il successo che le arrise mise ancor di più in sospetto Foscolo che, raggiunta Bologna si arruola nell’esercito della Repubblica Cisalpina; e in questa città che scrisse l’ode A Bonaparte liberatore. Nel frattempo anche Venezia viene conquistata dal generale corso: tornato nella sua città liberata, viene chiamato a svolgere l’incarico di segretario della municipalità, ma proprio durante il suo servizio si rende conto dell’ambiguità del generale francese.  
Nel 1797, con il trattato di Campoformio, Napoleone cedeva Venezia all’Austria in cambio di Milano. Deluso dal generale corso, esilia nella città lombarda, dove frequenta grandi autori, fra cui Parini e Monti. Collabora quindi alla redazione del Monitore italiano, giornale che promuove una visione patriottica e libertaria per l’Italia. Costretto il giornale alla chiusura, si rifugia nuovamente a Bologna. Comincia a pubblicare, senza portarlo a conclusione, il romanzo Le ultime lettere di Jacopo Ortis (edizione del 1798 o anche detta edizione Sassoli). Quando le truppe austro-russe scendono in Italia (a seguito della campagna d’Egitto di Napoleone) Foscolo si arruola con l’esercito francese, combattendo dapprima a Bologna e rimanendone ferito, quindi trasferendosi a Genova, per difendere la repubblica; qui nasce l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. Tra il 1801 ed il 1803, rimasto all’interno dell’esercito francese, compie vari incarichi: si ritrova dapprima a Firenze, dove vive una travolgente passione per Isabella Roncioni; torna a Milano dove nasce un nuovo amore per Antonietta Fagnani, ma è un periodo estremamente fecondo a livello culturale: corregge l’Ortis e pubblica un volume che raccoglie la sua produzione poetica che contiene alcuni suoi capolavori come la seconda ode All’amica risanata e i celeberrimi sonetti In morte del fratello Giovanni, A Zacinto, Alla sera.
Foscolo decide quindi di arruolarsi nell’esercito che avrebbe dovuto sbarcare in Inghilterra ed in terra francese si dedicherà a traduzioni, fra cui il Viaggio sentimentale di Sterne. E’ in questa occasione che Foscolo si ritroverà padre di Mary, che egli chiamerà col nome di Floriana. Tornato a Milano, nel Regno d’Italia, dà alle stampe il suo capolavoro I Sepolcri. Nominato professore presso l’università di Pavia, il Foscolo tiene la prolusione inaugurale Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, ma la cattedra verrà soppressa. Scrive l’Ajace, tragedia di stampo alfieriano, ma accusato dalla polizia di aver voluto rappresentare dietro le spoglie del tiranno greco, la figura di Napoleone, viene invitato ad allontanarsi dalla città.
Quindi Foscolo lascia di nuovo Milano e si rifugia a Firenze, dove sembra trovare una maggiore serenità, testimoniata dal progetto di lavoro su Le Grazie, elaborandone  il nucleo fondamentale.
Alla caduta di Napoleone, Foscolo si rifiuta di collaborare con il governo austriaco restaurato, si rifugia dapprima in Svizzera, ma ricercato dalla polizia, si rifugia in Inghilterra, tra le braccia della figlia Floriana. Si isola sempre più, circondato da debiti. Muore nel 1827 in un sobborgo di Londra. Dopo il raggiungimento dell’unità le sue ossa verranno trasferite a Firenze, a Santa Croce.

Personalità

La vita del Foscolo e la sua ideologia si può dire sia figlia di tre elementi, storici e letterari, che la forgiarono:

  1. il ’700, col suo illuminismo;
  2. la fine del secolo con la Rivoluzione Francese e l’avventura napoleonica, nonché con il neoclassicismo e le personalità di Parini e Alfieri;
  3. e il primo ’800, con la cultura nordica europea e sturmundraghiana.

Tuttavia egli riuscì, nonostante le diverse influenze a costruirsi una vera e propria individualità, assolutamente nuova nell’Italia di allora, che fece di lui una persona talmente eccezionale da costituire, sin da quando era in vita, un vero e proprio mito, fortemente operante per gli intellettuali immediatamente successivi.

Egli infatti, con il suo amore per la libertà e l’odio cocente per chi non la rispetta, le sue avventure sentimentali (molte le donne del Foscolo), il gioco, i debiti, ci offre il primo esempio di biografia romantica, sostanziata in quel “genio e sregolatezza” che è tipico dell’intellettuale europeo. Si direbbe che il corso dell’esperienza foscoliana abbia qualcosa di provvisorio, di non definito, che insomma, nonostante la sua formazione illuministica, egli ubbidisca maggiormente all’istinto più che alla ragione, ma forse questo non corrisponderebbe alla realtà. La sua capacità invece è nel dominio, attraverso la parola poetica, di tutte le sue pulsioni. Egli, infatti, riesce, a volte più a volte meno, a dominare quello “spirto guerrier ch’entro (gli) rugge” entro un’armonia, un equilibrio, un ordine intellettuale e morale tipico del nostro autore, che lo stessa retorica classica, nonché l’esperienza alfieriana, gli avevano insegnato. Ed è proprio in questo dominio delle passioni nella pagina scritta che il Foscolo incontra la cultura europea, di cui assimila gli aspetti più congeniali del suo tempo, senza rinnegare il neoclassicismo di cui il nostro autore fa parte. Insomma nel Foscolo c’è l’esigenza di riempire quel vuoto fra mondo reale (romanticismo) e mondo ideale (neoclassicismo), inserendo fra essi tutto il suo sentire e il suo modo di percepire il mondo circostante. Ma per far questo è necessario liberarsi dallo statuto dell’intellettuale asservito al potere, per questo Foscolo deve vivere del suo lavoro: scrive sui giornali, insegna, fa il critico letterario e via dicendo.

Il romanzo

Il genere “romanzo” cui attende Foscolo è quello epistolare. Esso ebbe, all’inizio dell’Ottocento, vasta eco grazie anche ai successi internazionali dell’opera di Rousseau, la Nouvelle Eloise (1761) nella quale, attraverso lettere di vari personaggi, si ripercorreva la storia di un amore sfortunato, e, soprattutto I dolori del giovane Werther di Goethe del 1776, in cui si racconta l’impossibilità  da parte di Werther d’amare Lotte, già promessa ad Albert e che si conclude con un suicidio.

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Le ultime lettere di Jacopo Ortis, modellata in gran parte su quella goethiana, è la prima opera tipicamente foscoliana: esce per la prima volta nel 1798 col titolo Vera storia di due amanti infelici, ma l’opera è solo in parte del Foscolo; costretto ad interromperla, viene proseguita, per volere dell’editore, da Angelo Sassoli. Nel 1802 esce il romanzo terminato dal Foscolo, che poi lo corregge nel 1816-1817.

Il romanzo è in forma epistolare: dopo che Venezia è stata ceduta da Napoleone all’Austria, Jacopo Ortis si rifugia, deluso, presso i colli Euganei, dove incontra Teresa e se ne innamora; ma il padre di lei l’ha già promessa al ricco Odoardo. Quindi il giovane amareggiato per l’infelice amore e braccato dalla polizia si spinge in diverse città d’Italia, dapprima a Firenze, dove visita i sepolcri di Santa Croce, a Milano, dove incontra il Parini e a Ravenna, dove s’inchina di fronte alla tomba di Dante; disperato torna nel Veneto: rivede Teresa ormai sposa, saluta la madre e si uccide.

Il romanzo si apre con un invito da parte dell’amico di Jacopo al lettore:

AL LETTORE

Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consecrare alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la sua sepoltura. E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell’eroismo di cui non sono eglino stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto.

Lorenzo Alderani

Già da questa premessa si può capire la struttura che sottende il romanzo: esso infatti contiene solo le lettere di Jacopo e non quelle di risposta dello stesso Lorenzo; ciò serve a disegnare una biografia eroica, modellata su quella di Alfieri, dalla quale soltanto coloro che possiedono lo stesso “alto sentire”, potranno trarre “esempio e conforto”.

LA DELUSIONE POLITICA

Dai Colli Euganei, 11 Ottobre 1797

Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo: quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur troppo, noi stessi Italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’Italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.

Il testo “nazionalizza” il romanzo epistolare in senso patriottico. In esso infatti il tema politico è presente sia sul piano personale (l’esilio) sia su quello più generale delle lotte fratricide. La lettera si apre con la delusione, provata dal protagonista (e quindi da Ugo) per il trattato di Campoformio, continua con il “tradimento” politico e si chiude con l’idea di morte. Si potrebbe quasi dire che alla “morte” della patria nell’incipit, corrisponda il vagheggiamento della morte dell’eroe, quasi a instaurare un rapporto tra Jacopo e patria. A questo tema si lega quella tomba “lagrimata”, che a sua volta è strettamente connesso con quello di patria: tema sviluppato, in seguito nella produzione poetica.

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Andrea Appiani: Ritratto di Ugo Foscolo da giovane (1802)

LA LETTERATURA

18 Ottobre 1797

Michele mi ha recato il Plutarco, e te ne ringrazio. Mi disse che con altra occasione m’invierai qualche altro libro; per ora basta. Col divino Plutarco potrò consolarmi de’ delitti e delle sciagure dell’umanità volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati dell’umano genere sovrastano a tanti secoli e a tante genti. Temo per altro che spogliandoli della magnificenza storica e della riverenza per l’antichità, non avrò assai da lodarmi né degli antichi, né de’ moderni, né di me stesso – umana razza!

Di fronte alla delusione politica, Jacopo cerca conforto nella letteratura e più espressamente nella lettura delle biografie plutarchiane, che tanto avevano affascinato anche Alfieri. Egli, come il suo predecessore ricerca in esse il lato eroico, ma sottolinea anche che, spogliandoli della loro magnificenza, resa loro dall’antichità, possa scoprirne le bassezze umane, approdando così verso un crudo pessimismo. D’altra parte tale posizione può essergli stata suggerita dallo stesso Napoleone, dapprima lodato per aver liberato la patria quindi odiato per averla ceduta all’Austria.

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Isabella Teotochi Albrizzi: Una delle tante donna amate da Foscolo

L’AMORE

26 Ottobre 1797

La ho veduta, o Lorenzo, la “divina fanciulla”; e te ne ringrazio. La trovai seduta miniando il proprio ritratto. Si rizzò salutandomi come s’ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore che andasse a cercar di suo padre. Egli non si sperava, mi diss’ella, che voi sareste venuto; sarà per la campagna; né starà molto a tornare. Una ragazzina le corse fra le ginocchia dicendole non so che all’orecchio. E’ un amico di Lorenzo, le rispose Teresa, è quello che il babbo andò a trovare l’altr’jeri. Tornò frattanto il signor T***: m’accoglieva famigliarmente, ringraziandomi che io mi fossi sovvenuto di lui. Teresa intanto, prendendo per mano la sua sorellina, partiva. Vedete, mi diss’egli, additandomi le sue figliuole che uscivano dalla stanza; eccoci tutti. Proferì, parmi, queste parole come se volesse farmi sentire che gli mancava sua moglie. Non la nominò. Si ciarlò lunga pezza. Mentr’io stava per congedarmi, tornò Teresa: Non siamo tanto lontani, mi disse; venite qualche sera a veglia con noi. Io tornava a casa col cuore in festa. – Che? lo spettacolo della bellezza basta forse ad addormentare in noi tristi mortali tutti i dolori? vedi per me una sorgente di vita: unica certo, e chi sa! fatale. Ma se io sono predestinato ad avere l’anima perpetuamente in tempesta, non è tutt’uno? 

Altra consolazione l’amore e la bellezza femminile. La lettera in cui ci viene presentata Teresa, si può suddividere in due parti: la prima presenta il ritratto della ragazza nel suo ambiente familiare, che sembra qui visto con nostalgia da parte dell’esule; l’altra la tempesta interiore che la “bellezza” può procurare in un animo romanticamente passionale come quello di Jacopo. E’ come se il Foscolo voglia già sottolineare il dualismo che gli rode l’anima: da una parte un ritratto dolce, scandito da gesti “leggiadri” (il disegno, la sorellina che le corre in grembo, il padre che le osserva con amore) dall’altra il fato (“fatale”, dice nell’ultima proposizione) quasi a prefigurare già un destino di morte.

In un’altra lettera, infatti, ci viene presentato Odoardo, il promesso sposo di Teresa, che, pur avendo le piccole qualità “borghesi”, amate dal sig. T***, manca proprio di quella passionalità che costituisce il fulcro del sentire ortisiano; quindi appare al protagonista come freddo, incapace di vero amore, dilettante nei giudizi letterari; insomma un vero e proprio alter-ego del protagonista.

Nella consapevolezza dell’impossibilità dell’amore per Teresa, Jacopo lascia i colli, e vaga in diverse città. Tra queste peregrinazioni importante è l’arrivo a Milano, dove incontra il vecchio Giuseppe Parini:

L’INCONTRO COL PARINI

Milano, 4 dicembre 1798

Ier sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli: egli si sosteneva da una parte sul mio braccio, dall’altra sul suo bastone: e talora guardava gli storpii suoi piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua infermità, e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava. S’assise sopra uno di que’ sedili ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch’io m’abbia mai conosciuto; e d’altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria: e fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite: tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione; non più la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l’amor figliale… e poi mi tesseva gli annali recenti e i delitti di tanti uomicciattoli ch’io degnerei di nominare se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d’animo non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque gli vedano presso il patibolo… – Ma ladroncelli, tremanti, saccenti… più onesto insomma è tacerne. – A quelle parole io m’infiammava di un sovrumano furore, e sorgeva gridando: ché non si tenta? morremo? ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore. – Egli mi guardò attonito: gli occhi miei in quel dubbio chiarore scintillavano spaventosi, e il mio dimesso e pallido aspetto si rialzò con un’aria minaccevole; io taceva, ma si sentiva ancora un fremito rumoreggiare cupamente dentro il mio petto. E ripresi: non avremo salute mai? ah se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte, servirebbero così vilmente? Il Parini non apria bocca, ma stringendomi il braccio mi guardava ogni ora più fisso. Poi mi trasse come accennandomi perch’io tornassi a sedermi: e pensi tu, proruppe, che s’io discernessi un barlume di libertà, mi perderei ad onta della mia inferma vecchiaia in questi vani lamenti? o giovine degno di un altro secolo, se non puoi spegnere quel tuo ardore fatale ché non lo volgi ad altre passioni? Allora io guardai nel passato… allora io mi volgeva avidamente al futuro, ma io errava sempre nel vano e le mie braccia tornavano deluse senza pur poter mai stringere nulla e conobbi tutta la disperazione del mio stato. Narrai a quel grande Italiano la storia delle mie passioni, e gli dipinsi Teresa come uno di que’ genii celesti i quali par che discendano ad illuminare la stanza tenebrosa di questa vita. E alle mie parole e al mio pianto, il vecchio pietoso più volte sospirò dal cuore profondo. No, io gli dissi, non veggo più che il sepolcro: ho una madre tenera e benefica; spesso mi sembrò di vederla calcare tremando le mie pedate e seguirmi fino a sommo il monte, donde io stava per diruparmi, e mentre era quasi con tutto il corpo abbandonato nell’aria … ella afferravami per la falda delle vesti, e mi ritraeva, ed io volgendomi non udiva più che il suo pianto. Pure… s’ella sapesse tutti i feroci miei mali implorerebbe ella stessa dal cielo il termine degli ansiosi miei giorni. Ma l’unica fiamma vitale che anima ancora questo travagliato mio corpo è la speranza di tentare la libertà della patria. – Egli sorrise mestamente, e poiché s’accorse che la mia voce infiochiva, e i miei sguardi si abbassavano immoti sul suolo, ricominciò: forse questo tuo furore di gloria potrebbe trarti a difficili imprese, ma… credimi, la fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia, due quarti alla sorte, e l’altro quarto a’ loro delitti. Ma se ti reputi bastevolmente fortunato e crudele per aspirare a questa gloria, pensi tu che i tempi te ne porgano i mezzi? i gemiti di tutte le età, e questo giogo della nostra patria non ti hanno per anco insegnato che non si dee aspettare libertà dallo straniero? chiunque s’intrica nelle faccende di un paese conquistato non ritrae che il pubblico danno, e la propria infamia. Quando e doveri e diritti stanno sulla punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù. E allora? avrai tu la fama e il valore di Annibale che profugo cercava nell’universo un nemico al popolo Romano? – Né ti sarà dato di essere giusto impunemente. Un giovine dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d’ingegno come sei tu, sarà sempre o l’ordigno del fazioso, o la vittima del potente. E dove tu nelle pubbliche cose possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, oh! tu sarai altamente laudato, ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia; la tua prigione sarà abbandonata da’ tuoi amici, e il tuo sepolcro degnato appena di un secreto sospiro. – Ma poniamo che tu superando e la prepotenza degli stranieri, e la malignità de’ tuoi concittadini, e la corruzione de’ tempi, potessi aspirare al tuo intento… di’? spargerai tutto il sangue col quale conviene nutrire una nascente repubblica? arderai le tue case con le faci della guerra civile? unirai col terrore i partiti? spegnerai con la morte le opinioni? adeguerai con le stragi le fortune? ma se tu cadi tra via, vediti esecrato dagli uni come demagogo, dagli altri come tiranno. Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti: giudica, più che dall’intento, dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l’onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi, conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre. E ciò sia. Potrai tu allora inorgoglito dalla sterminata fortuna reprimere in te la passione del supremo potere che ti sarà fomentata e dal sentimento della tua superiorità, e dalla conoscenza del comune avvilimento? I mortali sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni, naturalmente ciechi. Intento tu allora a puntellare il tuo trono, di filosofo saresti fatto tiranno, e per pochi anni di possanza e di tremore avresti perduta la tua pace, e confuso il tuo nome fra la immensa turba dei despoti. – Ti avanza ancora un seggio fra i capitani il quale si afferra per mezzo di un ardire feroce, di una avidità che rapisce per profondere, e spesso di una viltà, per cui si lambe la mano che t’aita a salire. Ma… – o figliuolo! l’umanità geme al nascere di un conquistatore e non ha per conforto se non la speme di sorridere su la sua bara. – Tacque; ed io dopo lunghissimo silenzio esclamai: O Cocceo Nerva! tu almeno sapevi morire incontaminato. – Il vecchio mi guardò… Se se tu né speri, né temi fuori di questo mondo… – e mi stringeva la mano – ma io…! – Alzò gli occhi al cielo, e quella severa sua fisonomia si raddolciva di un soave conforto, come s’ei lassù contemplasse tutte le sue speranze. – Intesi un calpestio che s’avanzava verso di noi; e poi travidi gente fra’ tigli; ci rizzammo, ed io l’accompagnai sino alle sue stanze.

Due sono i numi tutelari del letterato Foscolo: Parini e Alfieri. Il suo alter-ego Ortis non riuscirà ad incontrare l’astigiano, chiuso nella sua proverbiale misantropia, ma troverà il civile Parini, ormai vecchio, ritratto qui come il poeta stesso si era descritto ne La caduta, malfermo e claudicante. Foscolo apprezza così tanto questi due intellettuali, da trasformarli non in coloro che chiudono il secolo, ma in coloro che, interpreti della poesia civile e della libertà, s’incarnano nello stesso suo animo. E non importa se tale interpretazione non risponda alla “realtà” storica: il primo non avrebbe certamente fremuto per amor dell’Italia, il secondo non avrebbe condiviso il senso titanico di libertà con gente incapace di alto sentire (necessaria nella lotta per ottenere una libertà politica). Si è che l’autore veneziano li idealizza, incarnando il loro sentire (la poesia come compito civile ed il rigore morale per Parini, ripresa del lessico e dello stile di Alfieri) e rendendolo così foscoliano.

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LETTERA DA VENTIMIGLIA

Ventimiglia, 19 e 20 Febbraro 1799

I tuoi confini, o Italia, sono questi; ma sono tutto dì sormontati d’ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? – Ov’è l’antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ognor memorando la libertà, e la gloria degli avi le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse un giorno che uniti perdendo e le sostanze, e l’intelletto, e la voce sarem fatti simili agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati come i miseri negri, e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe e disseppellire, e disperdere al vento le ceneri di que’ Grandi per annientarne le ignude memorie, – poiché oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dell’antico letargo.
Così grido quando io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano e rivolgendomi intorno io cerco nè trovo più la mia patria. Ma poi dico: pare che gli uomini sieno i fabbri delle proprie sciagure, ma le sciagure derivano dall’ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente ai destini. Noi argomentiamo sugli eventi di pochi secoli: che sono eglino nell’immenso spazio del tempo? Pari alle stagioni della nostra vita mortale pajono talvolta gravi di straordinarie vicende, le quali pur sono comuni e necessarj effetti del tutto. L’universo si controbilancia. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell’altra. Io guardando da queste Alpi l’Italia piango e fremo, e invoco contro agl’invasori vendetta; ma la mia voce si perde tra il fremito di tanti popoli trapassati, quando i romani rapivano il mondo; cercavano oltre i mari e i deserti nuovi imperi da devastare, manomettevano gl’Iddìi de’ vinti, incatenavano principi e popoli liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i lor ferri li ritorceano contro le proprie viscere. Così gli Israeliti trucidavano i pacifici abitatori di Canaan, e i Babilonesi poi strascinarono nella schiavitù i sacerdoti, le madri, e i figliuoli del popolo di Giuda. Così Alessandro rovesciò l’Impero di Babilonia; e dopo avere arsa passando tutta la terra, si crucciava che non vi fosse un altro universo. Cosi gli Spartani tre volte smantellarono Messene e tre volte cacciarono dalla Grecia i Messeni che pur Greci erano e della stessa religione e nipoti de’ medesimi antenati. Così sbranavansi gli antichi Italiani finché furono ingojati dalla fortuna di Roma. Ma in pochissimi secoli la regina del mondo divenne preda de’ Cesari , de’ Neroni, de’ Costantini, de’ Vandali, e dei Papi. Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il cielo dell’America, o quanto sangue d’innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall’oceano portato a contaminare d’infamia le nostre spiagge! ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno lo loro età. Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dinanzi vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco. Il mondo è una foresta di belve. La fame, i diluvj , e la peste sono nella natura come la sterilità di un campo che prepara l’abbondanza per l’anno vegnente: e chi sa? Fors’anche le sciagure di questo globo apparecchiano la felicità di un altro.
Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve. I governi impongono giustizia: ma potrebbero eglino imporla se per regnare non l’avessero prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente alle forche chi per fame invola del pane. Onde quando la forza ha rotti tutti gli altrui diritti, per serbarli poscia a se stessa inganna i mortali con le apparenze del giusto, finché un’altra forza non la distrugga. Eccoti il mondo, e gli uomini. Sorgono frattanto d’ora in ora alcuni più arditi mortali; prima derisi come frenetici, e sovente come malfattori, decapitati: che se poi vengono patrocinati dalla fortuna ch’essi credono lor propria, ma che in somma non è che il moto prepotente delle cose, allora sono obbediti e temuti, e dopo morte deificati. Questa è la razza degli eroi, de’ capisette, e de’ fondatori delle nazioni i quali dal loro orgoglio e dalla stupidità de’ volghi si stimano saliti tant’alto per proprio valore; e sono cieche ruote dell’oriuolo. Quando una rivoluzione nel globo è matura, necessariamente vi sono gli uomini che la incominciano, e che fanno de’ loro teschj sgabello al trono di chi la compie. E perché l’umana schiatta non trova né felicità né giustizia sopra la terra, crea gli Dei protettori della debolezza e cerca premj futuri del pianto presente. Ma gli Dei si vestirono in tutti i secoli delle armi de’ conquistatori: e opprimono le genti con le passioni, i furori, e le astuzie di chi vuole regnare.
Lorenzo, sai tu dove vive ancora la vera virtù? in noi pochi deboli e sventurati; in noi, che dopo avere sperimentati tutti gli errori, e sentiti tutti i guai della vita, sappiamo compiangerli e soccorrerli. Tu o Compassione, sei la sola virtù! tutte le altre sono virtù usuraje.
Ma mentre io guardo dall’alto le follie e le fatali sciagure della umanità, non mi sento forse tutte le passioni e la debolezza ed il pianto, soli elementi dell’uomo? Non sospiro ogni dì la mia patria? Non dico a me lagrimando: Tu hai una madre e un amico – tu ami – te aspetta una turba di miseri, a cui se’ caro, e che forse sperano in te – dove fuggi? anche nelle terre straniere ti perseguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la morte: qui cadrai forse, e niuno avrà compassione di te; e tu senti pure nel tuo misero petto il piacere di essere compianto. Abbandonato da tutti, non chiedi tu ajuto dal Cielo? non t’ascolta; eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore torna involontario a lui – va, prostrati; ma all’are domestiche.
O natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati, e ci consideri come i vermi e gl’insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che vivano? Ma se tu ci hai dotati del funesto istinto della vita sì che il mortale non cada sotto la soma delle tue infermità ed ubbidisca irrepugnabilmente a tutte le tue leggi, perché poi darci questo dono ancor più funesto della ragione? Noi tocchiamo con mano tutte le nostre calamità ignorando sempre il modo di ristorarle.
Perché dunque io fuggo? e in quali lontane contrade io vado a perdermi? dove mai troverò gli uomini diversi dagli uomini? O non presento io forse i disastri, le infermità, e la indigenza che fuori della mia patria mi aspettano? – Ah no! Io tornerò a voi, o sacre terre, che prime udiste i miei vagiti, dove tante volte ho riposato queste mie membra affaticate, dove ho trovato nella oscurità e nella pace i miei pochi diletti, dove nel dolore ho confidato i miei pianti. Poiché tutto è vestito di tristezza per me, se null’altro posso ancora sperare che il sonno eterno della morte – voi sole, o mie selve, udirete il mio ultimo lamento, e voi sole coprirete con le vostre ombre pacifiche il mio freddo cadavere. Mi piangeranno quegli infelici che sono compagni delle mie disgrazie – e se le passioni vivono dopo il sepolcro, il mio spirito doloroso sarà confortato da’ sospiri di quella celeste fanciulla ch’io credeva nata per me, ma che gl’interessi degli uomini e il mio destino feroce mi hanno strappata dal petto.

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Ventimiglia

E’ questo uno dei passi più importanti dell’intero romanzo; all’inizio si coglie fortemente il tema patriottico, che se anche riprende una suggestione letteraria petrarchesca (Ben provide Natura al nostro stato, quando de l’Alpi schermo pose fra noi et la tedesca rabbia), la valorizza contrapponendo la pochezza degli italiani e la grandiosità della natura che protegge, naturalmente, il nostro territorio. Segue poi una riflessione sulla storia, anch’essa di origine vichiana, in cui sottolinea la ciclicità e la forza bruta che la sovrasta. Questa forza bruta è ritenuta virtù quando si raggiunge il potere, a cui si piegano le leggi e la religione, fatte solo per confermare il potere stesso (si noti il pessimismo storico foscoliano, di contro all’ottimismo illuminista); da ultimo la definizione di vera virtù, che è quella di chi non persegue il potere, ma di chi, con dolore, sa esprimersi con “nuda voce”, cioè con la poesia disarmata, portatrice di pace. Questa frattura fra “virtù falsa” e “virtù vera” non può che risolversi nell’esilio: non un esilio del corpo, ma un esilio dell’anima, che coincide con la morte nella propria patria.

Il romanzo foscoliano, come già detto, si pone subito a fianco della grande letteratura europea, ma pur riprendo le suggestioni, soprattutto goethiane, lo personalizza. Infatti se l’autore tedesco, scrivendo una storia simile, denuncia l’impossibilità dell’uomo di vivere secondo le regole della natura (tema fortemente illuminato) privando l’uomo dell’amore, il Foscolo personalizza e quindi nazionalizza subito la sua materia: infatti vi è una precisa rispondenza tra i dati biografici e politici dell’autore stesso e il protagonista del suo romanzo. Ciò comporta un soggettivismo narrativo che spesso si traduce, nella pagina foscoliana, in un tono lirico e/o oratorio più che in un vero e proprio tono narrativo. Ciò è dovuto, soprattutto, dalla mancanza del genere romanzo nella nostra letteratura, che farà sì che il nostro debba necessariamente “inventarsi” una lingua, che non può, in una formazione classica come quella dell’autore, fare a meno della tradizione poetica italiana. Come si è già detto al tema di amore/morte, presente nei romanzi europei, si aggiunge quello politico. Il romanzo, infatti, nasce da una doppia delusione: la cessione di Venezia all’Austria e il vano amore per Teresa: delusione quindi di un uomo che si era costruito un ideale politico e sentimentale, puntualmente contraddetto dalla realtà. All’interno di questa struttura tutti i temi della produzione foscoliana: il valore della tomba, il culto della patria, della poesia e della libertà, che saranno poi ripresi e sviluppati in maniera diversa e più matura dal Foscolo maggiore.

La produzione poetica

Ne Le Odi, che riprendono il genere che il Parini aveva utilizzato per la sua produzione poetica, vediamo l’affermarsi di due miti che costituiscono punti fermi nell’evoluzione poetica e psicologica del nostro:

  • l’esistenza della divinità femminile non negata all’uomo che mitiga la delusione sentimentale e politica
  • la bellezza nella quale l’uomo s’immerge alla ricerca di un conforto.

Nella prima di esse (A Luigia Pallavicini caduta da cavallo), scritta nel 1800, si racconta appunto di un incidente accaduto alla contessa, che, sbalzata dal cavallo, aveva riportato ferite nel volto; il poeta augura alla donna di poter ritornare alla bellezza che la renderà simile a una dea; nella seconda (All’amica risanata) tale bellezza risulterà immortalata dalla poesia, dove si determina il mito della poesia eternatrice.

ALL’AMICA RISANATA

Qual dagli antri marini
l’astro più caro a Venere
co’ rugiadosi crini
fra le fuggenti tenebre
appare, e il suo vïaggio
orna col lume dell’eterno raggio;

sorgon così tue dive
membra dall’egro talamo,
e in te beltà rivive,
l’aurea beltate ond’ebbero
ristoro unico a’ mali
le nate a vaneggiar menti mortali.

Fiorir sul caro viso
veggo la rosa, tornano
i grandi occhi al sorriso
insidïando; e vegliano
per te in novelli pianti
trepide madri, e sospettose amanti.

Le Ore che dianzi meste
ministre eran de’ farmachi,
oggi l’indica veste
e i monili cui gemmano
effigïati Dei
inclito studio di scalpelli achei,

e i candidi coturni
e gli amuleti recano,
onde a’ cori notturni
te, Dea, mirando obliano
i garzoni le danze,
te principio d’affanni e di speranze:

o quando l’arpa adorni
e co’ novelli numeri
e co’ molli contorni
delle forme che facile
bisso seconda, e intanto
fra il basso sospirar vola il tuo canto

più periglioso; o quando
balli disegni, e l’agile
corpo all’aure fidando,
ignoti vezzi sfuggono
dai manti, e dal negletto
velo scomposto sul sommosso petto.

All’agitarti, lente
cascan le trecce, nitide
per ambrosia recente,
mal fide all’aureo pettine
e alla rosea ghirlanda
che or con l’alma salute April ti manda.

Così ancelle d’Amore

a te d’intorno volano
invidïate l’Ore.
Meste le Grazie mirino
chi la beltà fugace
ti membra, e il giorno dell’eterna pace.

Mortale guidatrice
d’oceanine vergini,
la parrasia pendice
tenea la casta Artemide,
e fea terror di cervi
lungi fischiar d’arco cidonio i nervi.

Lei predicò la fama
Olimpia prole; pavido
Diva il mondo la chiama,
e le sacrò l’elisio
soglio, ed il certo telo,
e i monti, e il carro della luna in cielo.

Are così a Bellona,
un tempo invitta amazzone,
die’ il vocale Elicona;
ella il cimiero e l’egida
or contro l’Anglia avara
e le cavalle ed il furor prepara.

E quella a cui di sacro
mirto te veggo cingere
devota il simolacro,
che presiede marmoreo
agli arcani tuoi Lari
ove a me sol sacerdotessa appari,

Regina fu, Citera

e Cipro ove perpetua
odora primavera
regnò beata, e l’isole
che col selvoso dorso
rompono agli Euri e al grande Ionio il corso.

Ebbi in quel mar la culla,
ivi erra ignudo spirito
di Faon la fanciulla,
e se il notturno zeffiro
blando sui flutti spira,
suonano i liti un lamentar di lira:

ond’io, pien del nativo
Aër sacro, su l’itala
grave cetra derivo
per te le corde eolie,
e avrai divina i voti
fra gl’inni miei delle insubri nipoti.

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Antonietta Fagnani Arese

Come dalle profondità del mare, la stella più cara al pianeta di Venere appare (Lucifero) fra le tenebre che scompaiono con i suoi raggi, che sembrano capelli bagnati e abbellisce il suo cammino con i raggi dell’eterno sole, // così il tuo corpo divino si alza dal letto della malattia e in te la bellezza rivive, l’aura bellezza da cui soltanto ebbero conforto gli uomini, nati per fantasticare. // Vedo rifiorire nel tuo viso il colore roseo, torna il sorriso nei tuoi grandi occhi ammaliatori e nuovamente le madri timorose per i loro figli  e le innamorate gelose si preoccupano ricominciando a piangere. // Le Ore che fino a poco fa erano le tristi amministratrici di medicine, oggi invece portano la veste indiana (di seta) e le collane in cui risplendono Dei effigiati, illustre lavoro di scultori greci, // gli stivaletti bianchi e i portafortuna per cui i giovanotti guardando te, o Dea, causa di affanno e di speranza, dimenticano le danze: // o quando adorni l’ arpa e con nuove melodie e con le morbide curve del tuo corpo che il bisso asseconda con facilità e intanto il tuo canto fra il sommesso mormorio vola // più pericoloso oppure quando disegni figure di ballo e affidando all’ aria il tuo corpo agile, bellezze sconosciute sfuggono dai vestiti e dal velo trascurato, scoprendo il petto ondeggiante. // Mentre ti muovi cadono le morbide trecce, lucide per l’ ambrosia recente, malamente trattenute dal pettine d’oro e dalla ghirlanda di rose che aprile ti dona, insieme alla salute. // Così le Ore, serve dell’amore, volano intorno a te invidiata, ma le Grazie guardino male colui che ti ricorda che la bellezza fugge e chi ti ricorda il giorno della morte. // La casta Artemide (Diana), nella sua vita mortale, guidatrice di ninfe dell’Oceano, abitava il monte Parrasio e faceva fischiare da lontano, per terrore dei cervi, i nervi dell’ arco di Cidone (Creta). // La poesia l’ha proclamata figlia degli Dei, il mondo spaventato la chiamava Dea e le ha consacrato il trono dei campi elisi, la freccia che non sbaglia e il carro della luna in cielo. // Allo stesso modo la poesia ha consacrato altri altari, a Bellona, amazzone un tempo, adesso ella prepara l’elmo, le cavalle e l’ ira guerresca contro l’ Inghilterra. // E quella dea (Venere) la cui statua di marmo ti vedo cingere devotamente in una corona di mirto affinché protegga le tue stanze segrete dove appari solo a me come sacerdotessa, // fu regina che regnò felice su Cipro e Citera, che godono di un perenne clima mite e che con le loro montagne ricoperte di boschi frangono il corso dei venti del mar Ionio. // Io sono nato in quel mare; qui vagabonda nudo lo spirito della fanciulla di Faona, Saffo, e se il venticello notturno spira dolcemente sulle onde, le spiagge suonano lamenti di lira: // perciò io, pieno della nativa sacra ispirazione traduco in poesia italiana per cui anche tu divinizzata, grazie ai miei versi, avrai l’ammirazione devota delle nipoti.

L’Ode si può suddividere in quattro parti: nella prima Foscolo esalta la bellezza esteriore della donna nei suoi atti consueti o cerimoniosi, quindi, nella parte centrale crea il collegamento tra poesia e bellezza: la sua presenza suscita invidia nelle altre donne e le divinità dell’amore guardino male chi le ricorda che la sua bellezza fugge via; segue la terza parte, caratterizzata dalla descrizione di tre divinità, sottolineando il loro aspetto mortale; conclude dicendo che, grazie alla sua poesia, anche lei diventerà una divinità perché la sua bellezza non morirà mai.

E’ quest’ultimo il tema dominante dell’intera ode: se infatti nella prima aveva cantato la bellezza, capace di consolare, qui si esalta la poesia, capace d’eternarla. Tale concetto s’esprime in forme eleganti, dal forte sapore neoclassico, con richiami lessicali e formali alla tradizione poetica italiana: tuttavia in questo tessuto formale Foscolo v’inserisce il tema del vagheggiamento d’una bellezza eterna, il senso della poesia come portatrice universale di valori, che supera il concetto del “puro” neoclassicismo, che tendeva alla forma perfetta e immutabile in sé, come unico valore per la poesia (si prenda, ad esempio, l’ode Alla Musa di Parini).

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Foscolo nel 1799

I Sonetti sono 12, di cui 8 “minori” e 4 “maggiori”. Se  quelli cosiddetti minori rappresentano un po’ la versione poetica del romanzo, in cui l’autobiografismo non riesce a diventare valore universale, questo non succede ne Alla Musa, In morte del fratello Giovanni, A Zacinto, Alla sera che riescono a presentare in nota dolente la meditazione sulla sorte dell’uomo.

DI SE STESSO

Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto.

Perché dal dì ch’empia licenza e Marte
vestivan me del lor sanguineo manto,
cieca è la mente e guasto il core, ed arte
l’umana strage, arte è in me fatta, e vanto.

Che se pur sorge di morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di gloria, e carità di figlio.

Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.

Non so più colui che ero; gran parte di me è morta: / quel che mi resta è solo struggimento e pianto. / E il mirto (simbolo dell’amore) è secco, e le foglie d’alloro (simbolo di gloria poetica), primo incentivo alla mia poesia giovanile, sono avvizzite. // Perché dal giorno in cui un’empia licenza (l’anarchia rivoluzionaria) e Marte (la guerra) / mi rivestirono del loro manto di sangue, / la mia mente è diventata cieca, e guasto il cuore, e l’uccidere / altri uomini è diventato per me mestiere e vanto // Che se anche mi viene il pensiero di morte, / da questo proposito crudele mi distolgono, / l’ardente desiderio di gloria e l’affetto di figlio. / Così schiavo di me stesso, e d’altri, e del destino, / so qual è la cosa migliore di fare ma mi aggrappo a quella peggiore / e so invocare la morte ma non so darmela.

Questo sonetto, di cui non si conosce esattamente l’anno di composizione, fa parte comunque di quelli cosiddetti minori. A collocarlo tra il 1798 ed il 1800 non è soltanto l’insistita personalizzazione che rimanda all’autobiografismo ortisiano, ma anche la classica struttura del sonetto che presenta una perfetta rispondenza: ad ogni stanza corrisponde un periodo in sé concluso. In tale testo l’io emerge sin dal primo verso, mettendo in risalto un passato (presumibilmente felice) contro un presente, fatto di “languore e pianto”. Continua proprio nella prima stanza a parlare di disillusione e come nell’Ortis essa appare duplice: se qui è sentimentale e poetica, nel romanzo è sentimentale e politica. Nella seconda stanza appare invece il tema della guerra, a cui si aggiunge quello dell'”uccisione dei fratelli”, che inaugura in qualche modo, un tema caro agli uomini del nostro Risorgimento. Conclude quindi con il tema della morte, agognato ma non esplicitato, al contrario del suo personaggio (ci piace sottolineare l’identità tra conosco il meglio ed al peggior mi appiglio ed il verso petrarchesco et veggio il meglio, et al peggior m’appiglio).

Certo più universali ci appaiono i “sonetti” cosiddetti maggiori:

in Alla sera troviamo la corrispondenza tra paesaggio naturale e stato d’animo:

 ALLA SERA

Forse perché della fatal quïete
tu sei l’imago a me sì cara vieni
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquïete

tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

Forse perché tu assomigli (sei l’immagine) alla morte (la quiete voluta del fato), a me giungi così gradita, o Sera. Sia quando le nubi estive e le dolci brezze ti accompagnano festose, // sia quando porti sulla terra dal cielo pieno di neve le lunghe e paurose notti invernali, sempre giungi invocata, e penetri nelle più profonde vie del mio cuore in modo soave. // Mi fai immaginare con la mente le orme che giungono alla morte definitiva, e nel frattempo fugge questo tempo malvagio e s’accompagnano con lui la folla // delle preoccupazioni per le quali egli si consuma insieme a me; e mentre io osservo la tua tranquillità, si assopisce in me quello spirito combattivo che mi ruggisce dentro.

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Ippolito Caffi: Venezia al tramonto

In questo sonetto, posto da Foscolo all’inizio della sua raccolta, appare evidente il rapporto tra l’ora del crepuscolo e la morte. Il poeta, infatti, “universalizza” la materia con l’avverbio di tempo “sempre”: non si tratta di un momento, ma, viceversa dell’eterna poesia che sa “cantare/percepire” la natura. Se ciò porterebbe Foscolo all’interno di un raffinato neoclassicismo, egli lo supera in quanto la stessa natura non è che la proiezione di uno stato d’animo che riesce a intuire nell’oscurità la morte e nel crepuscolo la “serena attesa” di essa, nel momento in cui la realtà storica e personale si presenta a lui caotica, tale da suscitargli “rabbia” quasi incontrollabile. Tutto ciò è tessuto con una evidente novità ritmica che unisce, attraverso arditi enjambement le due quartine e le due terzine, senza dimenticare l’ormai classica allitterazione in “r” dell’ultimo verso. Infatti la poesia è ben distinta in due momenti: se infatti la descrizione dell’io del poeta di fronte alla natura è di estatica comunione, la seconda diventa dinamica e i pensieri dell’autore sembrano prevalere sulla contemplazione, facendo diventare la sera un mezzo che lo porta all’infinito nulla e quindi a quella pace interiore che combatte contro il suo ribollente spirito. 

In A Zacinto, l’universalità della poesia viene raggiunta dalla perfezione classica del sonetto e dai riferimenti verso miti rivissuti all’interno dell’animo del Foscolo.

A ZACINTO

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

Io non toccherò più le rive sacre (della mia patria), dove trascorsi la mia fanciullezza, Zante mia, che ti specchi nel mare del mare greco dal quale nacque la dea // Venere che rese, coll’atto della sua nascita, quelle isole (che la circondano) fertili, per cui non passò sotto silenzio il tuo clima e la tua vegetazione il famoso verso di Omero // che cantò il mare fatale e lo straordinario esilio di Ulisse, che reso bello per la fama e la sventura baciò, infine, la sua petrosa Itaca. // Tu non avrai altro che il canto di tuo figlio, o mia madre terra; il destino ci ha prescritto una sepoltura senza lacrime.

In questo sonetto si fa più chiara la matrice “classica” di Foscolo: l’isola greca, Venere, Omero e Ulisse sono i termini “forti” di cui egli ci parla. Ma vediamo più attentamente i fitti parallelismi che egli utilizza con questi termini:

  • L’isola greca e Venere appaiono ambedue come proiezioni “materne” e culturali: Venere, rendendo rigogliosa l’isola, ne ha permesso la lingua e la cultura;
  • Omero è il poeta che ha cantato, nell’Odissea, l’esilio di Ulisse; Foscolo è colui che canta il suo esilio;
  • Ulisse ha baciato la sua petrosa Itaca; Foscolo è colui che profetizza il suo seppellimento fuori dalla terra d’origine e quindi senza lacrime.

A livello ritmico la poesia è caratterizzata da due momenti; la prima occupa due terzi del componimento, dove prevale lì elemento descrittivo reso in forma classica. Si notino nelle tre stanze iniziali i tre monosillabi ad aprire il primo verso quasi a voler accentuare l’impossibilità; quindi il suo progredire attraverso una serie di enjambement che uniscono tra loro le stanze, rompendo strutturalmente la forma del sonetto. Ci piace ancora sottolineare una serie di rime nel 2°, 4°, 6° e 8°, tutte terminanti con -acque, a voler rimarcare l’orgogliosa provenienza del mare, mare a cui faranno riferimenti le figure d’Omero e Ulisse che proprio sul mare ambienta parte della sua Odissea. L’ultima strofa rappresenta l’amara riflessione del poeta sul proprio destino: il termine prescrive viene qui utilizzato come negazione, allo stesso modo di illacrimato (apax foscoliano) e cui ci rimandano entrambi al  né più mai dell’incipit del sonetto.

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Monumento a Ugo Foscolo nell’isola di Zante

In In morte del fratello Giovanni la morte del fratello viene rivissuta attraverso un classico della poesia latina, ma non vi è un semplice “rifacimento”  ma un “rivivere” il dolore, pertanto quest’ultimo è universale.

IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentil anni caduto.

 La madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e se da lunge i miei tetti saluto,

 sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quiete.

 Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l’ ossa mie rendete
allora al petto della madre mesta.

Un giorno, se io non sarò sempre costretto a fuggire tra popoli stranieri, mi vedrai seduto sulla tua tomba, o mio fratello, piangendo la tua morte precoce. // Mia madre, ora sola, trascinando la sua tarda età, parla di me con il tuo cenere muto; ma io, tendo verso voi le mie mani deluse (per l’esilio) e  se da lontano saluto la mia patria, percepisco un destino avverso e le profonde preoccupazioni che si presentarono al tuo vivere come una tempesta, e prego anch’io, nel tuo porto (morte) l’eterno riposo. // Soltanto questo, di tante speranze, oggi a me resta! Stranieri, restituite allora fra le braccia della triste madre le mie ossa.

E’ chiaro, in questo sonetto, il riferimento al carme 101 del Liber catulliano: infatti il primo verso riprende il Multa per gentes et multa per aequora vectus, così come si può notare il rovesciamento tra la mutam cinerem al femminile per Catullo (naturalmente cinis è maschile in latino) e il muto cenere foscoliano (naturalmente cenere è femminile in italiano). Certo i riferimenti puntuali non possono che sottolineare il mito della poesia eternatrice: il dolore catulliano si riflette nel dolore foscoliano che attraverso un diverso codice linguistico, ma con l’utilizzo di traduzioni lessicali può esprimere lo stesso concetto rendendolo eterno. E’ evidente tuttavia la personalizzazione e nel contempo l’allontanamento della materia:

  • Il fratello Giovanni si era realmente suicidato per debiti di gioco ed era seppellito a Venezia (personalizzazione);
  • Riuso di Catullo con intento diverso: riti funebri per il poeta latino, impossibilità di piangere il fratello per Foscolo (allontanamento).

Tornano in questo sonetto i temi della tomba illacrimata, della morte, della madre, della patria: tutto ciò a significare come l’intera opera poetica (Odi e Sonetti) sia mossa da un’identica ispirazione che, in Foscolo, si muove tra neoclassicismo e preromanticismo.

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Dei Sepolcri

Dopo queste prove il Foscolo tace per quattro anni, dedicandosi a studi e traduzioni. Ora si tratta di raccogliere tutti i temi precedentemente affrontati e dar loro forma in un’opera unitaria. Tale sarà il carme Dei Sepolcri, nato da un decreto napoleonico che vietava il seppellimento entro le mura cittadine. Per comodità divideremo il carme di 295 versi in più parti per capirne appieno il significato.

Prologo (vv 1-15):

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove più il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d’erbe famiglia e d’animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l’ore future,
né da te, dolce amico, udrò più il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né più nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell’amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?

E’ forse la morte meno crudele se (posta) all’ombra dei cipressi e dentro le tombe confortate dal pianto? Quando il Sole non alimenterà più per me tutto il mondo vegetale e animale, e quando prive di illusioni davanti a me non ci saranno più ore, né ascolterò più il verso e la triste armonia che lo governa da te, dolce amico Pindemonte, né mi parlerà più l’ispirazione poetica e l’amore, unico ristoro a questa vita raminga, quale sarebbe il ristoro di una tomba che distingua le mie ossa dalle infinite che la morte distribuisce in terra e in mare?

Vi sono qui due domande retoriche nelle quali fortemente si sente l’influsso dell’ideologia illuminista foscoliana. Tuttavia basta ben guardare come la risposta negativa sia intessuta nel suo dettato da termini che non rimandano, soprattutto nell’aggettivazione a qualcosa che non risulti inanimato e freddo come la morte, ma viceversa riguardi la vita.

Sopravvivenza della morte grazie al ricordo (vv. 16-40):

Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
tutte cose l’obblio nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l’illusion che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto,
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.

Purtroppo è vero, Pindemonte! Anche la speranza, ultima dea (ultima a lasciare gli dei e l’uomo), abbandona i sepolcri, e la dimenticanza nella sua oscurità avvolge tutto; e la forza instancabile della natura le fiacca con il suo eterno movimento; e il tempo trasforma l’uomo e le sue tombe, l’ultimo atteggiamento e le cose restanti del cielo e della terra. Ma perché prima del tempo l’uomo mortale si priverà dell’illusione che, pur morto, lo trattiene sulla soglia della morte? Egli non vive anche sottoterra, quando non vedrà più la luce del giorno, se può risvegliarla attraverso il culto nella mente dei suoi cari? Divina è questa corrispondenza di sentimenti amorosi, è una dote divina negli uomini; e spesso grazie a lei noi viviamo con l’amico morto e lui vive con noi, a patto che la terra che lo fece nascere e crescere, offrendo l’approdo (della morte) nella sua terra, renda inviolabili le spoglie dalle intemperie atmosferiche e dal sacrilegio degli uomini e conservi una tomba il nome ed un albero amico, odoroso di fiori, consoli con dolci ombre le ceneri del mondo.

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Ippolito Pindemonte, a cui Foscolo dedica il carme “Dei Sepolcri”

Riprendendo la “concezione naturalistica della natura” di Lavoisier (“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”) Foscolo offre una risposta negativa alle sue domande precedenti da un punto di fisico. Tuttavia, proprio attraverso la particella avversativa “ma” del verso 23, il nostro ci offre una diversa prospettiva, tutta sentimentale, in cui ribadisce, come nel romanzo e nei sonetti, l’importanza della tomba da un punto di vista laico.

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L’importanza dell’amore per il ricordo (vv. 41-50): 

Sol chi non lascia eredità d’affetti
poca gioja ha dell’urna; e se pur mira
dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
fra ’l compianto de’ templi acherantei
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d’Iddio; ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.

Soltanto a chi non lascia eredità di sentimenti non importa nulla della tomba; e se pure crede dopo la morte, vedrà la sua anima vagare fra i lamenti dei templi d’Acheronte o cercare rifugio sotto le grandi ali del perdono divino; ma lascerà le sue ceneri alle ortiche di una terra deserta, dove non vi sarà nessuna donna che preghi né un viandante solitario che possa udire il richiamo che la Natura ci manda dalla tomba.

Vengono qui riproposte l’importanza di una vita sotto il segno di un “significato sentimentale” che ancora non raggiunge l’eroismo e l’ateismo, “non cinico, ma certamente critico”, di chi nega la possibilità di una speranza di una sopravvivenza in terra a chi si affida solamente sul piano del peccato/redenzione e non su un piano civile.

Elogio dell’insepolto Parini (vv. 51-90):

Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
contende. E senza tomba giace il tuo
sacerdote, o Talia, che a te cantando
nel suo povero tetto educò un lauro
con lungo amore, e t’appendea corone;
e tu gli ornavi del tuo riso i canti
che il lombardo pungean Sardanapalo
cui solo è dolce il muggito de’ buoi
che dagli antri abduani e dal Ticino
lo fan d’ozj beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
spirar l’ambrosia, indizio del tuo Nume,
fra queste piante ov’io siedo e sospiro
il mio tetto materno. E tu venivi
e sorridevi a lui sotto quel tiglio
ch’or con dimesse frondi va fremendo
perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio
cui già di calma era cortese e d’ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
vagolando. ove dorma il sacro capo
del tuo Parini? A lui non ombre pose
tra le sue mura la città, lasciva
d’evirati cantori allettatrice,
non pietra, non parola; e forse l’ossa
col mozzo capo g’’insanguina il ladro
che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
la derelitta cagna ramingando
su le fosse, e famelica ululando;
e uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,
l’ùpupa, e svolazzar su per le croci
sparse per la funerea campagna,
e l’immonda accusar col luttuoso
singulto i rai di che son pie le stelle
alle obbliate sepolture. Indarno
sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
non sorge fiore, ove non sia d’umane
lodi onorato e d’amoroso pianto.

Eppure la nuova legge dell’editto di Saint-Cloud per il volere napoleonico (che vieta il seppellimento all’interno delle mura cittadine e nega il nome sulle tombe dei morti secondo il concetto illuministico dell’uguaglianza degli uomini nella nascita e nella morte) fa sì che le tombe siano poste fuori dagli sguardi che provano pietà per i morti e sottrae loro il nome sulle tombe. Ed è morto senza tomba il tuo sacerdote, o Talia, musa della commedia e della satira, che offrendo a te il suo canto, nella sua povera casa, ti offrì con lunga dedizione l’alloro e ti donò corone; e tu gli fornivi il riso con cui intesseva i versi con cui satireggiava il nobile milanese (Sardanapalo, mitico re assiro, simbolo della dissolutezza e corruzione)  a cui piace il muggito dei buoi che stanno nelle stalle dell’Adda e del Ticino che gli permettono di vivere di rendita. O bella Musa, dove sei? Non percepisco il profumo dell’ambrosia, indizio della tua presenza fra questi alberi (nel giardino Orientale di Milano, dove pure nell’Ortis incontrerà il vecchio Parini), dove sto e ripenso con nostalgia alla mia patria. E tu, o dea Talia, giungevi e gli sorridevi sotto quel tiglio che adesso, con i rami abbassati, è sdegnato e turbato perché non ricopre le urne del vecchio poeta al quale era stata gentile per il ristoro e la frescura. Forse tu osservi, vagando, fra le tombe popolari, dove riposi il sacro capo del tuo Parini? A lui la città, così dissoluta da attrarre poeti effeminati, non diede un luogo riposato, una tomba, un epitaffio; e forse un ladro, colla testa mozzata per scontare i suoi delitti, gli sporca le ossa con il suo sangue. Senti una cagna che vaga sulle fosse, ululando affamata, ed vedi svolazzare un ùpupa, uscita da un teschio, dove si era rifugiata per fuggire la luce della luna, per la terra lugubre, e l’immondo animale (che si ciba dei resti umani) accusare con il suo funebre singhiozzo i raggi delle pietose stelle sulle tombe dimenticate. Inutilmente chiedi rugiada alla triste notte per il tuo poeta. Ahimè! Sui morti non sorge alcun fiore che non sia onorato con lodi umane ed un pianto d’amore.

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Lapide pariniana nella Biblioteca di Brera

Questo passo, a livello ideologico, si richiama apertamente alla profonda stima che il Foscolo provò per il poeta milanese, già manifestata in una celeberrima pagina dell’Ortis; ciò che lega le due figure può essere sintetizzato soprattutto in due punti:

  • Il senso civile della poesia, una poesia che interviene sul reale per trasformarlo (concetto illuministico);
  • Il culto per la poesia ed il bello stile che garantisce al dettato poetico la sua “bellezza” ed eternità (concetto neoclassico).

Tuttavia questi elementi vengono espressi attraverso la cultura preromantica, più espressamente il gusto del lugubre, presente nella poesia ossianica di Macpherson, presente in Italia grazie alla traduzione di Cesarotti, di cui Foscolo fu un lettore attento. Bisogna notare che per l’uccello nominato dal poeta, lo stesso incorse nell’errore di considerarlo notturno e feroce, mentre nella realtà è un dolcissimo uccellino diurno, tanto che Montale poté così ironizzare: Upupa, ilare uccello calunniato dai poeti.

La tomba inizio di civiltà e patriottismo (vv. 91-150):

 Dal dì che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi
all’etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
ed are a’ figli; e uscian quindi i responsi
de’ domestici Lari, e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
religion che con diversi riti
le virtù patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d’anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
fean pavimento; né agl’incensi avvolto
de’ cadaveri il lezzo i supplicanti
contaminò; né le città fur meste
d’effigiati scheletri: le madri
balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
nude le braccia su l’amato capo
del lor caro lattante onde nol desti
il gemer lungo di persona morta
chiedente la venal prece agli eredi
dal santuario. Ma cipressi e cedri
di puri effluvj i zefiri impregnando
perenne verde protendean su l’urne
per memoria perenne, e preziosi
vasi accogliean le lacrime votive.
Rapian gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte,
perché gli occhi dell’uom cercan morendo
il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
amaranti educavano e viole
su la funebre zolla; e chi sedea
a libar latte e a raccontar sue pene
ai cari estinti, una fragranza intorno
sentia qual d’aura de’ beati Elisi.
Pietosa insania, che fa cari gli orti
de’ suburbani avelli alle britanne
vergini dove le conduce amore
della perduta madre, ove elementi
pregaro i Genj del ritorno al prode
che tronca fe’ la trionfata nave
del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d’inclite geste
e sien ministri al vivere civile
l’opulenza e il tremore, inutil pompa,
e inaugurate immagini dell’Orco
sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno,
nelle adulate reggie ha sepoltura
già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
morte apparecchi riposato albergo,
ove una volta la fortuna cessi
dalle vendette, e l’amistà raccolga
non di tesori eredità, ma caldi
sensi e di liberal carme l’esempio.

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Processione verso la cattedrale di Saint Paul per il funerale di Nelson

Dal giorno che sono stati istituiti il matrimonio, la giustizia ed il culto per la tomba, (questi) fecero sì che uomini selvaggi provassero pietà per se stessi e per gli altri, si allontanavano i morti, che la Natura destina ad altra vita, alle intemperie e agli animali selvaggi. Le tombe erano testimonianza di gloria ed altari per i figli, ed uscivano da qui le predizioni degli dei domestici e si temeva il giuramento fatto sulla cenere dei morti: tradizione che, con riti diversi, tramandò le virtù della patria ed il sentimento d’amore. Non sempre le pietre tombali costituivano il pavimento delle Chiese, né l’odore acre dei cadaveri, mescolato con gli incensi, contaminò i fedeli; né le città furono rattristate da scheletri dipinti sui muri: le madri si alzano spaventate dal sonno e rivolgono le braccia nude sul capo amato del loro caro bambino affinché non lo svegli il lungo lamento di una persona morta che dalla tomba chiede una preghiera prezzolata agli eredi. Ma cipressi e cedri, mescolando il vento con i loro puri profumi, procuravano alla vegetazione un eterno verde ad imperitura memoria e preziosi vasi (dove si conservava l’unguento e i profumi) raccoglievano le lacrime di chi pregava. Gli amici rubavano una scintilla al Sole (le lampade per i defunti) per illuminare il buio, perché gli occhi dell’uomo cercano, morendo, la luce del Sole e tutti esalano l’ultimo respiro rivolti a Lui. Le fontane versando acque pure facevano crescere amaranti dai fiori rossi e viole sulle tombe terrene; e chi sedeva su di esse a bere latte o a raccontare i suoi tormenti ai cari estinti, sentiva intorno a sé un’aria pura come quella dei beati Elisi. Pietosa pazzia, che rende cari i giardini cimiteriali periferici alle giovani inglesi dove sono condotte dall’amore per la madre, e dove, clementi, pregano gli dei protettori della patria per il ritorno dell’eroe Nelson che fece tagliare l’albero maestro della sconfitta nave napoleonica e ci fece la bara. Ma dove non esiste la passione di gesta gloriose e siano ministri alla vita pubblica la ricchezza e la vigliaccheria, sorgono statue e templi marmorei e inutili opere sfarzose, nefaste immagini dell’Inferno. Ormai gli intellettuali, i possidenti ed i nobili, che costituiscono il decoro del bel regno italico, possiede le sue sepolture già nella reggia, e unica loro lode lo stemma di famiglia. Per me la morte prepari un luogo isolato, dove una volta per tutte il destino cessi le sue vendette, e gli amici raccolgano una non ricca eredità ma l’esempio di una travolgente passione e di una poesia civile.

Questo passo si può dividere in più sequenze:

  • La concezione della morte, dell’amore e della giustizia ha fatto nascere la civiltà, sancendo per ciascuno di essi l’istituzione della tomba, del matrimonio e della giustizia;
  • Il culto dei morti nella civiltà romana, come esempio del rispetto dei vivi per i morti;
  • Il culto della morte nella civiltà medievale, esempio negativo del terrore, mostrato attraverso la “forzata” protezione di una madre per il figlio;
  • Il culto della morte nella civiltà inglese, nei giardini sepolcrali posti fuori città, dove le vergini piangono le loro madri. Viene ripreso il concetto dei morti dell’antichità: le civiltà incorrotte e civili, mantengono vivo il culto dei morti;
  • Accenno sulle virtù civili della morte: Nelson si costruisce la tomba con l’albero maestro della nave conquistata (atto eroico)
  • Di nuovo inadeguatezza del culto funereo per le civiltà illiberali: qui è presa di mira Milano, capitale del Regno d’Italia napoleonico;
  • Esempio solitario del suo valore per la tomba e del suo compito: poeta povero, ma dal forte sentimento civile.

Si può notare nelle microsequenze qui presentate come il Foscolo lavori per opposizioni e trapassi arditi, coll’intento di forzare la mente del lettore ad un ragionamento poetico, ma che la cui poeticità sta anche nella ragione delle sue affermazioni.

I grandi uomini a Santa Croce e il culto della poesia (vv. 151-212):

A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
E santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta. lo quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande,
che temprando lo scettro a’ regnatori,
gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;
e l’arca di colui che, nuovo Olimpo
alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide
sotto l’etereo padiglion rotarsi
più mondi, e il Sole irradiarli immoto,
onde all’Anglo che tanta ala vi stese
sgombrò primo le vie del firmarnento;
te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe’ lavacri
che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell’äer tuo veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d’oliveti
mille di fiori al ciel mandano incensi:
e tu prima, Firenze, udivi il carme
che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
e tu i cari parenti e l’idioma
desti a quel dolce di Calliope labbro
che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
d’un velo candidissimo adornando,
rendea nel grembo a Venere Celeste.
Ma più beata ché in un tempio accolte
serbi l’itale glorie, uniche forse
da che le mal vietate Alpi e l’alterna
onnipotenza delle umane sorti
armi e sostanze t’invadeano ed are
e patria e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
intelletti rifulga ed all’Italia,
quindi trarrem gli auspicj. E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a’ patrii Numi, errava muto
ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
desioso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l’austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno, e l’ossa
fremono amor di patria. Ah sì! da quella
religiosa pace un Nume parla:
e nutria contro a’ Persi in Maratona
ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
la virtù greca e l’ira. Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l’Eubèa,
vedea per l’ampia oscurità scintille
balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche

d’armi ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
silenzj si spandea lungo ne’ campi
di falangi un tumulto e un suon di tube,
e un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

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Santa Croce: La tomba di Galilei

Le urne dei coraggiosi suscitano l’animo forte a compiere azioni egregie, o Pindemonte, e rendono bella e sacra il luogo che le accoglie per il pellegrino. Io quando vidi la tomba di quel grande (Machiavelli) che, temprando lo scettro dei regnanti mostra gli orpelli e alla gente svela quanto il suo potere grondi di lacrime e di sangue; e (quando vidi) la tomba di colui (Michelangelo) che  edificò e pitturò la Cappella Sistina a Roma, e la tomba di colui (Galilei) che capì che nel cielo ruotavano più cieli ed il sole mandava loro i suoi raggi rimanendo immoto, intuizione da cui l’inglese Newton costruì le proprie teorie liberando così le vie dell’universo. Te beata Firenze, gridai, per la tua aria piena di vita e per i fiumi che l’Appennino dalle sue cime versa su di te! Felice per il tuo clima la Luna riveste con la sua luce limpidissima i tuoi colli, in festa per la vendemmia, e le valli popolate di case e di oliveti esalano in cielo profumi di mille fiori: e tu per prima, o Firenze, hai ascoltato la poesia che alleviò la rabbia dell’esiliato ghibellino Dante e tu i cari genitori e la lingua hai dato a quel dolce poeta della poesia lirica (la musa Calliope) che, ricoprendo con un velo bianchissimo l’amore sensuale nella poesia greca e romana, lo ha restituito al grembo candido dell’amore divino; ma sei ancora più beata perché conservi nella chiesa di Santa Croce le glorie intellettuali italiane, forse le uniche (che ci sono rimaste) dal momento che le mal difese Alpi e il potere che ineluttabilmente è passato ad altre forze per la sua ciclicità ti hanno invaso e ti hanno preso le armi, le ricchezze, gli altari e, tranne la memoria, tutto. Perché laddove rispenda una speranza di gloria alle menti coraggiose e all’Italia, proprio da questi ultimi trarremo il presagio del riscatto. E a questi altari venne spesso Vittorio Alfieri ad ispirarsi. Arrabbiato contro gli dei della patria, vagava silenzioso dove il fiume Arno è più deserto, osservando desideroso il terreno ed il cielo; e dopo, quando nessun vivente poteva alleviargli le sue preoccupazioni qui si fermava, austero, avendo nello sguardo il pallore della morte e della speranza.  Con questi spiriti magnanimi abita ora eternamente e le sue ossa ancora vibrano per amor di patria. Ah, sì! Dal silenzio religioso della tomba parla un dio, che nutrì i Greci contro i Persiani nella battaglia di Maratona la virtù greca e la rabbia, dove poi la civile Atene consacrò tombe ai suoi eroi. Il marinaio che è passato sul mare sotto l’isola Eubea ha visto lampeggiare sotto l’ampia oscurità il brillare delle luci sugli elmi e delle spade che cozzavano fra loro, i roghi fumare per il fumo del legno, sagome guerriere con le armi rilucenti cercare la battaglia, e al terrore dei notturni silenzi si spandeva lungo la campagna il rumore caotico delle falangi e il suono di trombe, l’incalzare dei cavalli in corsa che scalpitavano sopra gli elmi dei moribondi ed il pianto, e gli inni di vittoria e infine il canto della morte.

E’ fortemente evidente in questo passo da una parte il senso della poesia civile foscoliana, dall’altro la tradizione poetica entro la quale il suo magistero si struttura. Egli infatti è convinto che la “patria” italiana non possa che generarsi dagli intellettuali che in questa lingua hanno scritto e su cui l’Europa stessa ha fatto affidamento (si veda l’episodio tra da Galilei e Newton sottolineato con un complemento figurato di moto da luogo ad indicare il punto di partenza (Italia) e quello d’arrivo (Inghilterra). Ma questo costituisce il vero problema ed il classicismo di fondo foscoliano, che tuttavia non può, che con orrore, vedere la patria inglese superare di gran lunga la propria. Ecco allora che la tomba serve a rinfocolare coraggio, ad offrire un forte sentimento patriottico e liberale, quale lui può offrire, come appunto sottolinea nell’ultima parte della sequenza.      

Dalla tomba alla poesia, dalla poesia all’eternità (vv. 213-295):

Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna
oltre l’isole egèe, d’antichi fatti
certo udisti suonar dell’Ellesponto
i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode retèe l’armi d’Achille
Sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi
giusta di glorie dispensiera è morte;
né senno astuto, né favor di regi
all’Itaco le spoglie ardue serbava,
ché alla poppa raminga le ritolse
l’onda incitata dagl’inferni Dei.

E me che i tempi ed il desio d’onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplée fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Tròade inseminata
eterno splende a’ peregrini un loco
eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio
onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
talami e il regno della Giulia gente.
Però che quando Elettra udì la Parca
che lei dalle vitali aure del giorno
chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
mandò il voto supremo: E se, diceva,
a te fur care le mie chiome e il viso
e le dolci vigilie, e non mi assente
premio miglior la volontà de’ fati,
la morta amica almen guarda dal cielo
onde d’Elettra tua resti la fama.
Così orando moriva. E ne gemea
L’Olimpio; e l’immortal capo accennando
piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
cenere d’Ilo; ivi l’iliache donne
sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
da’ lor mariti l’imminente fato;
ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le fea parlar di Troja il dì mortale,
venne, e all’ombre cantò carme amoroso,
e guidava i nepoti, e l’amoroso
apprendeva lamento ai giovinetti.
E dicea sospirando: Oh, se mai d’Argo,
ove al Tidide e di Laerte al figlio
pascerete i cavalli, a voi permetta
ritorno il cielo, invan la patria vostra
cercherete! Le mura opra di Febo
sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di Troja avranno stanza
in queste tombe; chè de’ Numi è dono
servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi che le nuore
piantan di Priamo, e crescerete ahi presto!
Di vedovili lagrime innaffiati,
proteggete i miei padri: e chi la scure
asterrà pio dalle devote frondi
men si dorrà di consanguinei lutti
e santamente toccherà l’altare.
Proteggete i miei padri. Un dì vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far più bello l’ultimo trofeo
ai fatati Pelidi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.
 

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Statua raffigurante Omero

Felice tu, o Ippolito, che nella gioventù hai percorso il vasto mare sotto la guida dei venti! E se il pilota t’indirizzò oltre le isole egee, hai certamente udito dalle rive dell’Ellesponto gli episodi antichi ed il rumore cupo del mare che portava verso le rive del promontorio Reteo (vicino Troia) le armi di Achille sopra la tomba di Aiace: per gli eroi la morte è una giusta dispensatrice di gloria: né il senno astuto di Ulisse (a cui era stato ingiustamente attribuito lo scudo di Achille)  né l’accondiscendenza dei re greci gli conservarono le difficili armi, perché alla nave errante le ritolse il mare eccitato dagli dei degl’Inferi. E le Muse, che animano il pensiero umano, chiamino me ad evocare gli eroi del tempo passato, me che il tempo ed il desiderio d’onore fanno fuggire in esilio. Le Muse, abitatrici del monte Pimpla, siedono custodi dei sepolcri e, sebbene il tempo li spazzi via con le sue ali distruttrici, rendono felici con la loro poesia i deserti e così la poesia vince il silenzio di mille secoli. Ed oggi nella Troade (dove sorgeva Troia) deserta, rispende per i viaggiatori un luogo eterno, eterno per la ninfa Elettra, moglie di Zeus, a cui diede figlio Dardano da cui nacque la città di Troia e Assaraco padre di Priamo che ebbe cinquanta figli da cui derivò a sua volta la stirpe di Roma. Perciò quando Elettra venne chiamata dalle Parche (la morte) per raggiungere l’armonia dell’Eliso, elevò la sua suprema preghiera a Giove e diceva: «Se mai ti furono graditi i miei capelli, il mio volto e i dolci atti d’amore, e se il destino non mi negherà il divenire dea, proteggi dal cielo la tua amica morta tanto che alla tua Elettra resti perlomeno la fama». Così pregando moriva. E se ne dispiaceva l’intero Olimpo, e il capo immortale di Giove, muovendolo, faceva cadere dai capelli l’ambrosia, rendendo sacro il corpo della Ninfa e la sua tomba. Su di essa venne sepolto Erittonio, suo nipote, e le ceneri del giusto Ilo, padre d’Anchise; qui le donne troiane scioglievano i loro capelli, inutilmente, purtroppo, cercando d’allontanare dai loro destini il destino futuro; qui venne la profetessa Cassandra, quando Apollo nel suo petto le faceva predire il destino mortale di Troia e cantò ai defunti un canto profetico e portava con sé i discendenti affinché apprendessero il suo amoroso canto e, con sospiri, diceva: «Oh, se mai il cielo vi permetta di ritornare da Argo dove avrete pascolato i cavalli dei greci Diomede (Titide) ed Ulisse (figlio di Laerte), inutilmente ricercherete la vostra patria! Le mura, opera di Apollo, saranno completamente incenerite. Ma gli dei troiani risiederanno in queste tombe, perché è un dono del loro spirito divino conservare un grande nome nelle miserie. E voi palme e cipressi che le nuore di Priamo ora piantano, crescete presto! Innaffiati dalle lacrime delle vedove, proteggete i miei cari morti: e colui il quale si asterrà di colpire con la scure queste piante meno dovrà dolersi dei  morti familiari e potrà toccare sacramente gli altari degli dei. Proteggete i miei padri. Un giorno vedrete un povero cieco, Omero, vagare intorno alle antichissime ombre e brancolando addentrarsi nelle tombe, abbracciare le urne ed interrogarli. Risuoneranno le cavità segrete, e racconterà di come Troia sia stata abbattuta due volte e due volte sia risorta (così si racconta nel mito) più splendida sulle sue rovine per rendere più bella l’ultima vittoria ai Greci vincitori per volere degli dei. Il sacro poeta, rasserenando quelle anime addolorate con il suo canto, renderà eterni i nomi dei principi greci per tutte le ere che abbraccia il padre Oceano. E tu, troiano Ettore, avrai l’onore dei pianti dove sarà considerato sacro e compianto il sangue versato per la patria, finché il sole risplenderà sulle sciagure degli uomini».

L’innalzamento del linguaggio costituisce la vera e propria caratteristica di questa sequenza, e tale innalzamento non può che nascere dalla classicità attraverso un  ragionamento che sia dimostrativo dell’assunto dell’intero carme, quanto di tutto il percorso poetico del poeta veneziano:

  • Le tombe suscitano il ricordo (Pindemonte viaggiatore in Grecia);
  • Nelle tombe di Maratona giacciono eroi (Aiace, Achille e Ettore);
  • Le vite eroiche danno vita alla poesia (le Muse abitatrici in Grecia);
  • La Grecia, attraverso Enea, sta alla base della civiltà Romana e quindi di quella nazionale;
  • Cassandra (il cui destino era quello di predire la verità a cui nessuno credeva) vede il disastro della guerra iliaca;
  • La guerra produce morti e tombe interrogate da Omero;
  • Le tombe, in quanto materia, scompaiono;
  • La poesia omerica, il cui portato linguistico, poetico e valoriale, vivrà per sempre;
  • La poesia in quanto “raccontatrice” di vite e morti eroiche, vincerà, infine, la morte “naturale” dell’uomo.

Il carme or ora letto rappresenta, a detta di molti critici, il capolavoro foscoliano. Ci sembra tuttavia corretto, ora, definirlo retoricamente: si definisce carme (dal latino carmen) un canto poetico di carattere religioso, il cui stile, nel corso del tempo, tende sempre a rimanere elevato e latineggiante e che, nel suo contenuto, si rifà al genere lirico in quanto riguarda la contemporaneità e al genere epico in quanto presenta episodi del passato. Il metro è di endecasillabi sciolti anch’esso legato all’epica e alla lirica (è il verso in cui Monti, un letterato contemporaneo di Foscolo, traduce l’Iliade e scrive i Pensieri d’amore). Inoltre non dobbiamo dimenticare che lo stesso carme è concepito in forma epistolare, come risposta a Ippolito Pindemonte che di fronte all’editto di Saint Claud napoleonico andava componendo I cimiteri d’ispirazione cattolica.

L’importanza dell’opera va ricercata soprattutto in due punti:

  • Il suo inserimento, come in parte era già avvenuto nel romanzo, nella letteratura sepolcrale europea (si pensi al già citato Macpherson e Thomas Gray, in Inghilterra);
  • Nell’aver riassunto e in qualche modo rivendicato il ruolo fondamentale della memoria in un processo civile e libertario.

Infatti I Sepolcri costituiscono una sorta di vademecum per chi dovrà lottare patriotticamente per la patria, ma tale lotta può avvenire soltanto attraverso il recupero memoriale dei grandi personaggi italiani, che in quanto grandi si sono formati attraverso l’acquisizione e la consapevolezza della cultura classica, per cui il compito del poeta veneziano sarà quello di emularli attraverso un linguaggio altrettanto classico e alto. Per questo polemizza con l’abate francese Guillond che reputa l’opera poco sentimentale e troppo erudita. Per lui i trapassi non devono essere “spiegati”, ma “immaginati” come fossero quadri, affinché il lettore possa penetrarli a fondo e capirli.

Per questo, insieme al romanzo, questo carme verrà reputato dai patrioti italiani dell’Ottocento come l’esempio più alto di poesia civile.

Le Grazie

Le Grazie, ultima opera incompiuta di Foscolo, nascono da un profondo mutamento storico che vede una vera e propria involuzione nell’imperialismo napoleonico, e quindi un vero e proprio allontanamento dai problemi politici che avevano caratterizzato, viceversa, il carme.

E’ un’opera incompiuta, che doveva essere composta da tre inni, sui quali egli lavorerà per circa un ventennio, non giungendo mai a dar loro una for-ma definitiva. La struttura il poeta la descrive così:

  • Primo inno dedicato a Venere. Si canta, da un punto di vista metastorico, la bellezza del creato;
  • Secondo inno dedicato a Vesta. Si elogia, attraverso la dea del focolare, l’amore domestico;
  • Terzo inno, dedicato a Pallade, s’incentra sulla sapienza e quindi sul compito della cultura.

IL VELO DELLE GRAZIE

Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;
e nel mezzo del velo ardita balli,
canti fra ’l coro delle sue speranze
Giovinezza: percote a spessi tocchi
antico un plettro il Tempo; e la danzante
discende un clivo onde nessun risale.
Le Grazie a’ piedi suoi destano fiori,
a fiorir sue ghirlande: e quando il biondo
crin t’abbandoni e perderai ‘l tuo nome,
vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno
l’urna funerea spireranno odore.
Or mesci, amabil Dea, nivee le fila;
e ad un lato del velo Espero sorga
dal lavor di tue dita; escono errando
fra l’ombre e i raggi fuor d’un mirteo bosco
due tortorelle mormorando ai baci;
mirale occulto un rosignuol, e ascolta
silenzïoso, e poi canta imenei:
fuggono quelle vereconde al bosco.
Mesci, madre dei fior, lauri alle fila;
e sul contrario lato erri co’ specchi
dell’alba il sogno; e mandi alle pupille
sopite del guerrier miseri i volti
della madre e del padre allor che all’are
recan lagrime e voti; e quei si desta,
e i prigionieri suoi guarda e sospira.
Mesci, o Flora gentile, oro alle fila;
e il destro lembo istoriato esulti
d’un festante convito: il Genio in volta
prime coroni agli esuli le tazze.
Or libera e la gioia, ilare il biasmo,
e candida è la lode. A parte siede
bello il silenzio arguto in viso e accenna
che non fuggano i motti oltre le soglie.
Mesci cerulea Dea, mesci le fila;
e pinta il lembo estremo abbia una donna
che con l’ombre i silenzi unica veglia;
nutre una lampa su la culla, e teme
non i vagiti del suo primo infante
sien presagi di morte; e in quell’errore
non manda a tutto il cielo altro che pianti
beata! ancor non sa come agli infanti
provido è il sonno eterno, e que’ vagiti
presagi son di dolorosa vita.

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Felice Casorati: Le Grazie di Foscolo

(La musa Erato della poesia corale inizia il canto e la Grazia Flora, seguendola, ricama un velo): “Mescola, dea profumata, fili risa e in mezzo ad essi balli la coraggiosa Giovinezza cantando le sue speranze: il tempo suona con rapidi tocchi l’antica lira, e scende per un pendio su cui nessuno risale. Le Grazie al suo passaggio fanno nascere fiori con cui adornano le sue ghirlande, e quando spariranno i capelli biondi e non avrai più il tuo nome, quei fiori vivranno, o Giovinezza, e manderanno un dolce odore intorno alla tua urna. Me-scola, odorosa dea, fili bianchi come neve, e lateralmente sul velo sorga dalle tue dita la stella della sera, Espero; escono in volo fra la penombra da un bosco di mirto due tortorelle tubando per amore, li guarda, nascosto, un usignolo, e li ascolta silenzioso e poi canta inni nunziali e quelle, vergognose, si rifugiano nel bosco. Mescola, madre dei fiori, le foglie del lauro e sul lato opposto vaghi il sogno mattiniero con gli specchi, in modo da trasmettere al guerriero addormentato i volti preoccupati della madre e del padre quando offrono agli altari i loro dolore e le loro preghiere; allora si sveglia e osserva sospirando i suoi prigionieri. Mescola, o Flora gentile, oro alla trama, in modo che il margine destro sia ricamato di un festoso banchetto: il Genio dell’ospitalità dapprima infiori le tazze degli esuli. Ora è libera la gioia, senza cattiveria il biasimo, e sincera a lode. In disparte vigila il Silenzio, con viso arguto e osserva affinché le parole non vadano oltre il dovuto. Mescola fili azzurri, o Dea, e nel lembo estremo appaia una donna, che sola veglia nell’oscurità e nel silenzio: tiene acceso una luce sulla culla e teme che i vagiti del suo primo figlio siano presentimento di morte, e in questo errore non fa che invocare il cielo con pianto. Beata! Ancora non conosce come ai fanciulli sia provvidenziale la morte e quei vagiti siano presentimento di vita dolorosa.

Questo brano fa parte del terzo inno, in cui si racconta come Minerva cacci via gli uomini immeritevoli dei doni di Giove e, dopo essersi schierata con gli eserciti portatori di valori di giustizia, si rifugi in un’isola per tessere un velo.

Potremmo leggere questa parte come una proiezione dell’ultimo periodo foscoliano:

  • il ritirarsi di Minerva in un isola sembra rimandare sia alla sua nascita, quanto all’esilio in cui egli è costretto a vivere;
  • l’essersi dapprima schierata con gli eserciti, può alludere all’impegno politico di Foscolo;
  • Il tessere il velo, invece, al raggiungimento definitivo verso la poesia, ultimo approdo cui rifugiarsi contro la delusione della storia.

LA CULTURA DELL’ETA’ NAPOLEONICA

cartina 1812.JPGL’Europa napoleonica

Situata tra l’età dell’esperienza napoleonica e il 1815, quando, con il congresso di Vienna viene “ripristinato” l’ancient regime, la cultura di quel periodo testimonia a livello europeo le contraddizioni tra ansia di libertà e sua negazione, che proprio il generale corso aveva prodotto.

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Ingres: Napoleone imperatore

Spenti infatti gli echi rivoluzionari, Napoleone era apparso a tutti come colui che avrebbe portato le istanze libertarie nell’intera Europa: il triennio giacobino italiano (1796/1799), le guerre vittoriose contro le varie coalizioni dell’Europa continentale, la trasformazione dapprima come console (1802), poi come imperatore (1804), avevano all’inizio scaldato i cuori europei, vedendo nelle armate francesi l’avanguardia delle istanze rivoluzionarie, per poi subito spegnerle, vivendo la delusione della scoperta della natura dispotica di Napoleone e la ripresa delle forze reazionarie dopo la sconfitta definitiva della Francia a Walerloo (1815). Ma se fu proprio lo stesso a dettare, oltre l’agenda politica europea, la cifra culturale e quindi stilistica entro cui disegnare la sua avventura e tale scelta cadde nel neoclassicismo, per meglio dire un nuovo classicismo entro le cui forme classiche s’inserissero realtà contemporanee, sarà il suo acerrimo nemico, cioé la Prussia a elaborare una nuova sensibilità a cui diamo il nome di preromanticismo.

Jacques-Louis_David,_Le_Serment_des_Horaces.jpg

David: Giuramento degli Orazi

Napoleone, primo protagonista della nuova Europa, padrone di Francia senza alcuna tradizione dinastica, aveva bisogno di una forma “pubblicitaria” che ne legittimasse il potere. Ecco allora i pittori Jean-Auguste-Dominique Ingres e Jacques-Louis David, dipingerlo in atteggiamenti tipici della storia romana.
D’altra parte l’innamoramento del classico aveva origini lontane, che si possono datare già tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento contro l’estetica barocca ed il vezzoso rococò: la stessa rivoluzione francese aveva esaltato le virtutes e i mores della Roma repubblicana. A ciò si era aggiunta la straordinaria scoperta archeologica di Ercolano e Pompei  tra il 1740 e il 1766 che aveva suscitato entusiasmi nell’intellighenzia europea ed un gusto per l’archeologico e la cultura classica, nonché la scoperta di lettura di palinsesti attraverso reagenti chimici: certo l’estetica classica forniva un’incredibile schermo per la realtà presente, rifugio entro cui vagheggiare un’idea d’immutabilità e perfezione; costituiva inoltre un motivo per esaltare il presente potendosene servire sia nei momenti rivoluzionari (il periodo della repubblica), sia in quelli imperiali (l’età Augustea). Ma tale concezione non era lontana nemmeno nel cosiddetto preromanticismo: l’età antica, infatti, poteva esser vissuta come vagheggiamento di un’età perduta per sempre, vivendo la sua armonia con nostalgia e struggimento. 

Già nella seconda metà del Settecento era diventato fondamentale per gli intellettuali europei venire in Italia ed in Grecia ad osservare le bellezze archeologiche e a trovare ispirazione nell’osservazione di esse. E saranno, tra gli europei, i tedeschi a formulare le linee teoriche della nuova estetica “neoclassica”:

Johann_Winckelmann_1.jpgJohann  Joachim Winckelmann:

JOHANN JOACHIM WINCKELMANN:
LA “QUIETA GRANDEZZA” DEL LAOCOONTE

Infine, la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Così come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata. Quest’anima, nonostante le più atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoonte, e non nel volto solo. Il dolore che si mostra in ogni muscolo e in ogni tendine del corpo e che al solo guardare il ventre convulsamente contratto, senza badare né al viso né ad altre parti, quasi crediamo di sentire in noi stessi, questo dolore, dico, non si esprime affatto con segni di rabbia nel volto o nell’atteggiamento. Il Laocoonte non  grida orribilmente come nel canto di Virgilio: il modo con cui la bocca è aperta, non lo permette; piuttosto ne può uscire un sospiro angoscioso e oppresso come ce lo descriva Sadoleto. Il dolore del corpo e la grandezza dell’anima sono distribuiti con eguale misura per tutto il corpo e sembrano tenersi in equilibrio. Laocoonte soffre ma soffre come il Filottete di Sofocle: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo sopportare il dolore come questo uomo sublime lo sopporta. L’espressione di un’anima così elevata passa di molto le forme della bella natura: l’artista dovette sentire nel suo intimo la potenza spirituale che egli trasmise nel suo marmo.  

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Copia romana del Laocoonte

Il testo di Winckelmann ci conduce ad una duplice considerazione:

  • La connessione tra giudizio estetico e giudizio etico: l’atteggiamento di Laocoonte e dei suoi figli non fanno trasparire una lacerazione interiore, nonostante la situazione; essi, attraverso l’espressione diventano per noi exemplum morale, danno a noi la forza di una sopportazione interiore quale traspare nella perfezione marmorea;
  • L’arte non deve avere più un atteggiamento mimetico verso la natura: deve tendere verso una bellezza estetica e ideale che la natura non possiede.

In Italia la personalità più rappresentativa del neoclassicismo, ad eccezione del Foscolo, è quella di Vincenzo Monti.

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Vincenzo Monti

Nato nel 1754 ad Alfonsine in Romagna, studiò a Ferrara e sin da giovane dimostrò un’ottima capacità verseggiatrice. Nel 1778 è a Roma, dove diventa segretario di un nipote del papa di Pio VI sino al 1797. E’ qui che, assimilando il giudizio negativo della chiesa sulla Rivoluzione Francese, dà alle stampe la Bassvilliana (1793), dive immagina che l’ambasciatore francese a Napoli, Ugo di Basville, ucciso a Roma, sorvoli insieme ad un angelo la Francia, osservando gli orrori della rivoluzione. Abbandonata Roma, si trasferisce a Milano, conquistata da Napoleone l’anno precedente (1796). Qui, capovolgendo ideologia politica, pubblicò l’Inno per l’anniversario del supplizio di Luigi XVI (1799). Alla caduta della Repubblica Cisalpina fugge in Francia, per ritornare a Milano a seguito dell’Imperatore francese dove ottenne incarichi onorevoli quali l’insegnamento all’Università di Pavia. Alla fine dell’avventura napoleonica, con il ritorno degli Austriaci nella capitale lombarda, il nostro, visto l’atteggiamento conciliante del nuovo governo con gli intellettuali, cominciò a cantare i fasti del nuovo regime, ma l’ultimo periodo della sua vita fu funestato dalle critiche letterarie mosse per lo più dalle teorie romantiche che già cominciavano a circolare. Muore nel 1828.

La sua poesia più nota è del 1874:

ODE AL SIGNOR DI MONTGOLFIER

Quando Giason dal Pelio
spinse nel mar gli abeti,
e primo corse a fendere
co’ remi il seno a Teti,

su l’alta poppa intrepido
col fior del sangue acheo
vide la Grecia ascendere
il giovinetto Orfeo.

Stendea le dita eburnee
su la materna lira;
e al tracio suon chetavasi
de’ venti il fischio e l’ira.

Meravigliando accorsero
di Doride le figlie;
Nettuno ai verdi alipedi
lasciò cader le briglie.

Cantava il Vate odrisio
d’Argo la gloria intanto,
e dolce errar sentivasi
su l’alme greche il canto.

O della Senna, ascoltami,
novello Tifi invitto:
vinse i portenti argolici
l’aereo tuo tragitto.

Tentar del mare i vortici
forse è sì gran pensiero,
come occupar de’ fulmini
l’invïolato impero?

Deh! perchè al nostro secolo
non diè propizio il Fato
d’un altro Orfeo la cetera,
se Montgolfier n’ha dato?

Maggior del prode Esonide
surse di Gallia il figlio.
Applaudi, Europa attonita,
al volator naviglio.

Non mai Natura, all’ordine
delle sue leggi intesa,
dalla potenza chimica
soffrì più bella offesa.

Mirabil arte, ond’alzasi
di Sthallio e Black la fama,
pèra lo stolto cinico
che frenesia ti chiama.

De’ corpi entro le viscere
tu l’acre sguardo avventi,
e invan celarsi tentano
gl’indocili elementi.

Dalle tenaci tenebre
la verità traesti,
e delle rauche ipotesi
tregua al furor ponesti.

Brillò Sofia più fulgida
del tuo splendor vestita,
e le sorgenti apparvero,
onde il creato ha vita.

L’igneo terribil aere,
che dentro il suol profondo
pasce i tremuoti, e i cardini
fa vacillar del mondo,

reso innocente or vedilo
da’ marzii corpi uscire,
e già domato ed utile
al domator servire.

Per lui del pondo immemore,
mirabil cosa! in alto
va la materia, e insolito
porta alle nubi assalto.

Il gran prodigio immobili
i riguardanti lassa,
e di terrore un palpito
in ogni cor trapassa.

Tace la terra, e suonano
del ciel le vie deserte:
stan mille volti pallidi,
e mille bocche aperte.

Sorge il diletto e l’estasi
in mezzo allo spavento,
e i piè mal fermi agognano
ir dietro al guardo attento.

Pace e silenzio, o turbini:
deh! non vi prenda sdegno
se umane salme varcano
delle tempeste il regno.

Rattien la neve, o Borea,
che giù dal crin ti cola:
l’etra sereno e libero
cedi a Robert che vola.

Non egli vien d’Orizia
a insidïar le voglie:
costa rimorsi e lacrime
tentar d’un dio la moglie.

Mise Tesèo nei talami
dell’atro Dite il piede:
punillo il Fato, e in Erebo
fra ceppi eterni or siede.

Ma già di Francia il Dedalo
nel mar dell’aure è lunge:
lieve lo porta zeffiro,
e l’occhio appena il giunge.

Fosco di là profondasi
il suol fuggente ai lumi,
e come larve appaiono
città, foreste e fiumi.

Certo la vista orribile
l’alme agghiacciar dovría;
ma di Robert nell’anima
chiusa è al terror la via.

E già l’audace esempio
i più ritrosi acquista;
già cento globi ascendono
del cielo alla conquista.

Umano ardir, pacifica
filosofia sicura,
qual forza mai, qual limite
il tuo poter misura?

Rapisti al ciel le folgori,
che debellate innante
con tronche ali ti caddero,
e ti lambîr le piante.

Frenò guidato il calcolo
dal tuo pensiero ardito
degli astri il moto e l’orbite,
l’Olimpo e l’infinito.

Svelaro il volto incognito
le più rimote stelle,
ed appressar le timide
lor vergini fiammelle.

Del sole i rai dividere,
pesar quest’aria osasti:
la terra, il foco, il pelago,
le fere e l’uom domasti.

Oggi a calcar le nuvole
giunse la tua virtute,
e di natura stettero
le leggi inerti e mute.

Che più ti resta? Infrangere
anche alla morte il telo,
e della vita il nettare
libar con Giove in cielo.

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Illustrazione dell’aerostato inventato dai fratelli Montgolfier

Quando Giasone spinse nel mare le navi e per primo solcò con i remi il mare // i Greci videro salire intrepido sull’alta poppa della nave il giovane Orfeo, insieme col fior fiore degli eroi achei. // Percorreva con dita bianchissime la lira donatagli dalla madre, e al suono si placavano il fischio e la violenza tempestosa dei venti. // Meravigliandosi accorsero le Nereidi, lo stesso Nettuno (per la meraviglia) lasciò cadere le briglie dei verdi cavalli alati. // Intanto il poeta della Tracia (Orfeo) cantava la gloria di Argo, la nave degli Argonauti, e il suo canto si sentiva aleggiare sopra le anime greche. // O nuovo, invincibile nuovo Tifi (nocchiero della nave di Giasone) il tuo viaggio aereo ha vinto la straordinarie imprese degli Argolici. / Solcare il mare tempestoso è forse impresa così grande quanto conquistare il cielo, dominio inviolato dei fulmini? // Ahimé! perché il destino favorevole non ha dato la cetra ad un altro Ordeo, dal momento che ci ha dato il signor Montgolfier? // Più grande di Giasone, sorge il figlio di Francia. Applaudi Europa attonita alla nave volante (aerostato). // Giammai la natura, attenta a far rispettare le sue leggi, soffrì la più bella offesa dall’idrogeno. // Arte meravigliosa (la chimica) per cui s’innalza la fama di Sthal e Black (famosi chimici), muoia l’incredulo che ti chiama follia. // Tu chimica fai penetrare lo sguardo acuto dentro i corpi, ed inutilmente cercano di nascondersi gli elementi che oppongono resistenza. // Dalle oscure tenebre traesti la verità e ponesti fine alle aspre ed interminabili ipotesi scientifiche. // Brillò la Sapienza rivestita del tuo splendore ed apparvero le sorgenti da cui ha origine il creato. // L’idrogeno , terribile gas infiammabile, che nel profondo della terra alimenta i terremoti e facendo vacillare i fondamenti del mondo, // vedilo ora reso innocuo, uscire dal ferro usato per le armi di Marte, è già domato ed utile servire a colui che lo ha domato. // Attraverso lui, la materia dimentica del peso, mirabile cosa!, sale in alto e porta alle nuvole un assalto mai veduto prima. // Lo straordinario prodigio lascia immobili coloro che lo guardano, e un battito di paura trapassa ogni cuore. // La terra tace, risuonano (delle voci di quelli che salgono in pallone) le vie deserte del cielo, stanno mille volti attoniti a riguardare su, stanno mille bocche aperte per la meraviglia. // Nasce un piacere e l’estasi frammisti alla paura, i piedi irrequieti, desiderano andare dietro lo sguardo. // Fate silenzio e offrite la pace, o venti, ah, non vi offendete se corpi umani varcano il cielo. // Trattieni la neve, o Borea, vento freddo del nord,  che ti scende dai capelli, il cielo libero e serene concedi a Robert che vola. // Non viene a insidiare Orizia (sposa di Borea), costa rimorsi e dolore il volere tentare la moglie di un dio. // Teseo mise il piede nel letto nunziale di Plutone re dei morti (tentando di rapire Proserpina): lo punì il fato, rinchiudendolo per l’eternità nel regno dei morti. //  Ma già Robert, Dedalo di Francia, è lontano nel mare celeste, lieve lo sospinge il vento, l’occhio lo segue ormai a fatica. // Da quell’altezza, fuggendo allo sguardo, la terra sembra sprofondare oscura, e come ombre evanescenti appaiono città, foreste e fiumi. // Certamente la vista orribile (della terra vista dall’alto) avrebbe potuto agghiacciare gli animi; ma è chiusa la via al terrore nell’anima di Robert. // E ormai l’audace impresa conquista gli scettici, già cento palloni aerostatici salgono alla conquista del cielo. // Coraggio umano, pacifica e sicura scienza, quale forza, quale limite definisce il tuo potere? // Hai rapito al cielo le folgori (invenzione del parafulmine di Franklin, 1752), che privi di pericolo ti caddero davanti come se avessero le ali troncate, sino ai piedi. // La scoperta della gravitazione universale, guidata dal tuo pensiero audace, misurò il movimento e le orbite dei pianeti, il cielo e l’infinità dello spazio. // Svelarono il volto sconosciuto le più lontane stelle e avvicinarono le loro mai guardate prima luci (grazie al telescopio). // Hai diviso i raggi solari, / hai osato pesare questa stessa aria, hai domato la terra, il fuoco, il mare, gli animali e l’uomo. // Oggi la tua virtù è giunta a calcare le nuvole/ rimasero incapaci e silenziose le leggi della natura. // Cosa più ti resta? Infrangere anche il velo della Morte e bere insieme a Giove il nettare della vita.

bi000278_key_image.jpg  I fratelli Montgolfier

L’ode, composta nel febbraio 1784, prese spunto dal secondo volo aerostatico della storia, avvenuto a Parigi il 1º dicembre 1783. E’ composta da 35 strofe in settenari alternati: il primo ed il terzo sdruccioli, il secondo e quarto piani, mentre lo schema metrico è abcb. E’ un classico esempio di come il neoclassicismo montiano sia scenografico:

  • A livello contenutistico potremo associarla ad una lirica di ascendenza illuministica in cui viene esaltata la scienza;
  • A livello formale emerge un tessuto fortemente classico con riferimenti precisi mitologici e una costruzione ricca di metafore, inversioni, omoteleuti e chi più ne ha più ne metta.

Se dovessimo pertanto analizzare l’ode da un punto di vista letterario potremo dire che essa tuttavia più che un’estetica tardo illuministica, risponde ad una perfetta estetica neoclassica: il protagonista della storia è Orfeo che canta l’impresa di Giasone; quest’ultimo è messo di sottofondo, non appare. Se Orfeo è il cantore dell’impresa del re tessalo, Monti sarà il cantore dell’impresa di Montgolfier. E’ la poesia a dominare, non la scienza, la poesia che si fa interprete della realtà contemporanea. In effetti non vi è in tale ode l’impegno educativo che abbiamo letto in Parini; soltanto un aspetto più che altro scenografico con l’intento, quasi fossimo ancora nel barocco, di stupire, come stupiti sono gli spettatori dell’impresa dei fratelli di Montgolfier.

ALTA LA NOTTE

Alta è la notte, ed in profonda calma 
dorme il mondo sepolto, e in un con esso 
par la procella del mio cor sopita. 
Io balzo fuori delle piume, e guardo; 
e traverso alle nubi, che del vento 
squarcia e sospinge l’iracondo soffio, 
veggo del ciel per gl’interrotti campi 
qua e là deserte scintillar le stelle. 
Oh vaghe stelle! e voi cadrete adunque, 
e verrà tempo che da voi l’Eterno 
ritiri il guardo, e tanti Soli estingua? 
E tu pur anche coll’infranto carro 
rovesciato cadrai, tardo Boote, 
tu degli artici lumi il più gentile? 
Deh, perché mai la fronte or mi discopri, 
e la beata notte mi rimembri, 
che al casto fianco dell’amica assiso 
a’ suoi begli occhi t’insegnai col dito! 
Al chiaror di tue rote ella ridenti 
volgea le luci; ed io per gioia intanto 
a’ suoi ginocchi mi tenea prostrato 
più vago oggetto a contemplar rivolto, 
che d’un tenero cor meglio i sospiri, 
meglio i trasporti meritar sapea. 
Oh rimembranze! oh dolci istanti! io dunque, 
dunque io per sempre v’ho perduti, e vivo? 
e questa è calma di pensier? son questi 
gli addormentati affetti? Ahi, mi deluse 
della notte il silenzio, e della muta 
mesta Natura il tenebroso aspetto! 
Già di nuovo a suonar l’aura comincia 
de’ miei sospiri, ed in più larga vena 
già mi ritorna su le ciglia il pianto.

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La notte è alta e in questa profonda tranquillità dorme il mondo e insieme ad esso sembra placarsi la tempesta del mio cuore. Balzo fuori dal letto e attraverso le nuvole che il vento impetuoso rompe e sospinge, vedo scintillare a tratti le solitarie stelle. Oh belle stelle: verrà il momento in cui i pianeti saranno estinti, non più sostenuti dallo sguardo del Divino? e anche tu, costellazione di Boote (Orsa Maggiore), che ruoti lentamente, cadrai insieme a quella del Grande Carro? Ahi, perchè ora mi mostri l’aspetto e mi ricordi la dolce notte quando, seduto a fianco della casta donna, ti indicai con il dito al suo sguardo. Alla chiarezza delle tue stelle volgeva gli occhi sorridenti; mentre io mi tenevo prostrato ai suoi ginocchi, rivolto in contemplazione di un oggetto più bello che sapeva ricompensare meglio i trasporti e i sospiri di un tenero cuore. Oh ricordi! oh dolci momenti! io dunque vi ho perduti per sempre e nonostante ciò continuo a vivere? E’ questo un calmo pensiero? Sono questi gli affetti placati? Ah, mi ha deluso il silenzio della notte e il tenebroso aspetto della silenziosa e triste natura! Già di nuovo l’aria comincia a risuonare dei miei sospiri e già mi torna sulle ciglia un più abbondante pianto.

La poesia montiana tratta da Pensieri d’amore è una parafrasi delle ultime pagine de I dolori del giovane Werther di Wolfang Goethe. La sua importanza è soprattutto nella suggestione che essa ebbe per la poesia leopardiana che fu capace, con diversa profondità, di prendere espressioni ed inserirle nel suo canto poetico. Ma al di là dell’influenza che il poeta Monti ebbe per la poesia successiva, tale passo indica un certo eclettismo poetico che non riesce a “svelare” un vero e proprio autore, quanto piuttosto un tecnico della poesia che riesce a manipolare suggestioni che giungono dall’Europa.

Insieme e parallela all’esperienza neoclassica, come già detto, si sviluppa una linea di tendenza che in apparenza sembra opporsi ad essa ma che troveremo coesistere in importanti personalità del periodo (come nello stesso Vincenzo Monti). Essa, pur con un termine improprio, viene indicata come preromanticismo: ad essa potremo inserire l’esperienza filosofico/letteraria di Jean Jacques Rousseau, il movimento tedesco dello Sturm und Drang (Impeto e Tempesta), e il nostro Ugo Foscolo.

Per il primo aspetto possiamo indicare come padre di una possibile compenetrazione tra la ragione illuministica e la nuova percezione sentimentale Jean Jacques Rousseau, filosofo svizzero. La sua speculazione può essere semplificata attraverso una critica che egli muove contro la civiltà corruttrice: si tratta cioè di spostare il binomio cultura vs natura verso quest’ultima. Ma per Rousseau privilegiare lo stato di natura contro quello culturale “portava alla valorizzazione del sentire più che dell’intelligenza e della ragione, della spontaneità più che della norma” (Guglielmino). Nel romanzo Giulia o la nuova Eloisa (1761) si narra appunto di un amore contrastato che non può realizzarsi per convenzioni sociali, ma da cui non ci si può allontanare, se non con la morte.

Partiamo da un piccolo passo di questo romanzo che ci illustra emblematicamente come dalle ceneri del pensiero illuminato possa formarsi una nuova sensibilità capace di andare oltre la stretta ragione:

L‘azione si svolge in Svizzera, sulle rive del lago Lemano. Attraverso la corrispondenza tra Julie d’Etanges, il suo precettore Saint Preux e la cugina di Julie, Claire, si delinea la storia di una passione. Saint Preux si è accorto di amare l’allieva e vorrebbe rinunciare all’incarico di precettore: mai infatti il padre di Julie acconsentirà di farle sposare un uomo senza fortuna e senza nobiltà. Ma anche Julie lo ama, invano ammonita dalla saggia Claire. Dopo un tentativo di separazione, Saint Preux si stabilisce a Meillerie, sui monti, di fronte alla cittadina di Julie e i due giovani s’incontrano segretamente. Claire stessa richiama Saint Preux. Un inglese, Lord Bomstom, col quale Saint Preux si è legato di stretta amicizia, cerca di perorare la causa di Julie presso suo padre, la cui razione è però tanta violenta da costringere Saint Preux a partire. Julie, passato qualche tempo, accetta, col consenso di Saint Preux, il marito propostole dal padre, M. de Wolmar, che l’ama da tempo. A Clarens, accanto al marito è serena. Nascono due figli. M. de Wolmar invita Saint Preux a vivere con loro. Dopo una lunga lotta per non soccombere alla passione, Saint Preux parte. Interviene però un incidente: durante una passeggiata il figlio di Julie cade nel lago. La madre si butta nell’acqua, lo salva ma si ammala gravemente. Richiamato da Claire, Saint Preux accorre e, prima di morire, Julie gli chiede di rimanere nella sua casa per occuparsi dell’educazione dei suoi figli.
Jean-Jacques Rousseau: biografia, pensiero e opere | Studenti.it

 

JEAN-JACQUES ROUSSEAU:  SAINT PREUX A MEILLEIRE

Nei violenti trasporti che mi agitano non riesco a star fermo; corro, m’inerpico con ardore, mi slancio negli spogli; percorro a grandi passi tutti i dintorni, e dappertutto trovo nelle cose l’orrore che regna dentro di me. Non c’è più traccia di verde, l’erba è gialla e inaridita, gli alberi spogli, i venti boreali accumulano neve e ghiacci, tutta la natura è morta ai miei occhi, come la speranza in fondo al mio cuore.
Tra le rocce di questo pendio ho scoperto in un rifugio solitario una breve spianata da dove si scorge tutta la felice città che abitate. Figuratevi con che avidità portai gli occhi su quell’amato soggiorno. il primo giorno feci mille sforzi per discernere la vostra casa; ma la grande distanza li rese vani, m’accorsi che l’immaginazione mia illudeva gli occhi affaticati. Corsi dal curato a farmi prestate un telescopio col quale vidi o mi parve di vedere la vostra casa, e da allora passo intere giornate in questo asilo contemplando i muri fortunati che racchiudono la sorgente della mia vita. Nonostante la stagione ci vengo già la mattina e non me ne vado che a notte. Con un fuocherello di foglie e di qualche ramo secco e con il moto riesco a proteggermi dal freddo eccessivo. MI sono così innamorato di questo luogo selvaggio che ci porto persino penna e carta, ora sto scrivendo questa lettera su un macigno che il gelo ha staccato dalla rupe vicina.
Qui o Giulia, il tuo infelice amante gode gli estremi piaceri che forse potrà gustare al mondo. Di qui, attraverso l’aria e muri, ardisce a penetrare segretamente fino alla tua camera. 

Il passo ci rimanda ad una concezione secondo cui la natura viene rivissuta attraverso l’interpretazione di un io: non esiste oggettivamente, ma soggettivamente perché l’io poetico si riflette e trova in essa una comunione e una realizzazione, luogo nel quale conoscersi. Non è un caso che Saint Preux scriva seduto su una pietra guardando la casa dell’amata: lì trova non solo ispirazione, ma una forza quasi primigenia che lo porta a scandagliare se stesso ed il suo sentimento.

La storia del romanzo di Rousseau apre un varco nella cultura europea che, privilegiando il sentimento, mette in luce la difficoltà che esso possa dispiegarsi nella pienezza della sua espressività, ed uno degli aspetti dove questo emerge con più forza è quello dell’impossibilità del rapporto di coppia, vissuto sotto il segno dell’amore e non della convenienza sociale. E’ il tema della nouvelle Eloise (la nuova Eloisa, rivisitazione dell’epistolario dell’amore contrastato tra Abelardo ed Eloisa, appunto), e lo sarà per il romanzo di Goethe, scritto nel periodo della sua gioventù in cui aveva aderito al movimento dello Sturm und Drang, I dolori del giovane Werther:

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Goethe da giovane

Werther anima ardente e appassionata, si innamora di Carlotta, venendo a sapere troppo tardi che essa è già promessa sposa di Alberto, uomo pacato e tranquillo. Questi, pur dubitando dei sentimenti di Werther, lascia che i due si frequentino. Carlotta è via via attratta da Werther, sente di amarlo e si lascia baciare da lui. Incapace di resistere alla passione e disperando di avere Carlotta tutta per sé, Werther finge di dover partire per un breve viaggio e si uccide.   

WERTHER ED ALBERTO

12 agosto

Certamente Alberto è il miglior uomo che esista sotto la volta celeste. Ho avuto ieri con lui una discussione che non dimenticherò. Andai a casa sua per salutarlo, dacché mi è venuta la fantasia di andarmene a cavallo per le montagne, da dove ora ti scrivo, e camminando su e giù per la camera ci caddero sotto gli occhi le sue pistole. «Prestamele per il mio viaggio», gli dissi. «Prendile pure», rispose, «ti prendi la briga di caricarle; io le tengo qui solo pro forma». Ne scelsi una, e lui continuò: «Da quando la mia prudenza mi ha giocato un brutto tiro, non voglio più avere a che fare con quegli aggeggi». Ero curioso di sapere il seguito della storia, e lui proseguì: «Mi trovavo da tre mesi presso un amico, in campagna; avevo un paio di pistole scariche, e facevo sonni tranquilli. Una volta, in un pomeriggio piovoso, ero sfaccendato, e non so come mi saltò in testa che avremmo potuto essere assaliti e le pistole avrebbero potuto esserci necessarie, e che… insomma sai come vanno queste cose. Diedi le armi al servitore per farle pulire e caricare; quello si mise a scherzare con le serve, per spaventarle, e Dio sa come, il colpo partì; dentro la canna c’era ancora la bacchetta che fracassò il pollice della mano destra di una ragazza. Oltre che ad ascoltare gli strilli, dovetti pensare a pagare il chirurgo, e da allora lascio sempre le armi scariche. Mio caro amico, a che serve la prudenza? Non si vede mai il pericolo per intero. Pure…». Ora, tu sai che voglio molto bene ad Alberto, fino però ai suoi pure; non è forse evidente di per sé che ogni regola ammette eccezioni? Ma è così scrupoloso che quando gli sembra di aver detto qualche cosa di troppo azzardato e generico, e non del tutto vero, non la finisce più di definire, modificare, sopprimere o aggiungere, fino a che niente rimane di tutto ciò che ha detto. In questo frangente esagerò la dose… e io finii col non dargli più ascolto, mettendomi a fantasticare: poi con un gesto improvviso mi appoggiai alla fronte la bocca della pistola, al di sopra dell’occhio destro. «Ehi, che cosa ti viene in mente?», esclamò Alberto strappandomi la pistola dalla mano. «Ma è scarica», risposi. «Scarica o no, non è cosa da fare», replicò con impazienza. «Solo al pensare che un uomo possa essere così pazzo da togliersi la vita, mi sento rivoltare…».
«Ma è mai possibile che tutti gli uomini», esclamai, «quando parlano di qualche cosa devono sempre giudicare: è pazza, è savia, è buona, è cattiva? Ma che significato ha tutto ciò? Voi che giudicate, avete prima esaminato attentamente gli inconsci moventi di un’azione? Siete in grado di ricercarne esattamente le cause, e di rendervi conto del perché è avvenuta e del perché doveva avvenire? Se l’aveste fatto, non sareste così pronti nei vostri giudizi!».
«Mi concederai», disse Alberto, «che certe azioni restano degne di biasimo, qualunque sia il motivo che le determina».
Glielo concessi, stringendomi nelle spalle. «Tuttavia», continuai, «vi sono sempre delle eccezioni. È vero che il furto è un delitto; ma l’uomo che ruba per salvare sé e i suoi dal morire di fame, merita pietà o castigo? E chi scaglierà la prima pietra contro il marito che nella sua giusta ira uccide la sua donna infedele e l’indegno seduttore? Oppure contro la fanciulla che in un’ora di ebbrezza cede alle impetuose gioie dell’amore? Perfino le nostre leggi, che pure sono fredde e pedanti, si fanno commuovere e sospendono la punizione!».
«Questa è tutta un’altra questione», replicò Alberto, «perché l’uomo sopraffatto dalla passione perde ogni facoltà di ragionamento ed è da considerare come ubriaco o pazzo».
«O persone ragionevoli!», esclamai sorridendo. «Passione! Ubriacamento! Pazzia! Voi uomini per bene, come rimanete impassibili ed estranei a tutto questo! Rimproverate l’ubriacone, condannate l’insensato, passate loro dinanzi come il sacrificatore, e ringraziate Iddio, come il fariseo, perché non vi ha fatto simili a loro! Più di una volta io mi sono ubriacato, le mie passioni non sono mai tanto lontane dalla follia, ma non mi pento, perché ho imparato, dietro la mia esperienza, a capire che tutti gli uomini fuori del comune che hanno fatto qualcosa di grande, qualcosa di apparentemente impossibile, sono stati in ogni tempo considerati ubriachi o pazzi… Ma anche nella vita d’ogni giorno è intollerabile sentir gridare ogni qualvolta stia per compiersi un’azione libera, nobile e inaspettata: “Quest’uomo è ubriaco, è pazzo”. Vergognatevi, uomini sobri! Vergognatevi, uomini saggi!».
«Ecco di nuovo le tue strane idee!», disse Alberto. «Tu esageri tutte le cose, e questa volta hai senza dubbio torto nel paragonare il suicidio in questione con le grandi imprese, mentre esso può essere considerato nient’altro che una debolezza. Perché è certamente più facile morire che sopportare fermamente una vita penosa».
Ero sul punto di mettere fine alla discussione, perché niente mi esaspera di più che vedere qualcuno controbattermi armato solo di scialbi luoghi comuni, mentre io parlo mettendoci tutto il mio impegno. Tuttavia mi contenni, dal momento che avevo sentito spesso quel tipo di ragionamento e me ne ero altrettanto spesso indignato; risposi perciò piuttosto vivacemente. «Lo chiami una debolezza? Ti prego, non ti lasciare ingannare dall’apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme sotto l’insopportabile giogo di un tiranno, se alla fine si rivolta e spezza le sue catene? O un uomo che nel terrore di vedere la propria casa in preda alle fiamme, sente le sue forze centuplicarsi e solleva agevolmente pesi che a mente calma potrebbe smuovere appena? E uno che nell’ira dell’offesa affronta sei nemici e li vince tutti, vuoi chiamarlo debole? Mio caro, se lo sforzo è la forza, perché l’estremo sforzo dovrebbe essere il suo contrario?». Alberto mi guardò e disse: «Non te la prendere, ma gli esempi che tu adduci non si adattano al caso nostro». «Può darsi», risposi. «Ma è stato spesso osservato che il mio modo di ragionare è a volte alogico. Vediamo dunque se possiamo raffigurarci in un altro modo lo stato d’animo che determina un uomo a disfarsi del fardello dell’esistenza, generalmente gradito. Perché solo quando siamo in grado di comprendere profondamente un sentimento, noi possiamo avere il giusto criterio di parlarne».
«La natura umana», continuai, «ha i suoi limiti; può sopportare gioia, sofferenza o angoscia solo fino a un certo punto, oltre il quale si soccombe. Qui non si tratta di stabilire se uno è debole o forte, ma se è in grado di sopportare la sofferenza che gli è imposta, tanto morale che fisica; e trovo strano definire vile qualcuno perché si è tolto la vita, come troverei inconcepibile chiamare tale chi muore per una febbre maligna».
«Ancora paradossi!», esclamò Alberto.
«Non quanto tu pensi», replicai, «ammetterai che noi chiamiamo mortale la malattia che attacca il nostro organismo in modo tale che le sue forze siano in parte distrutte, e in parte diminuite di attività; sicché la natura non riesce più ad aiutarci, né a riattivare, in alcun modo, il normale corso della vita. Bene, amico mio, applichiamo questo allo spirito. Considera quante impressioni agiscono sull’uomo nella sua limitatezza, quante idee nascono in lui, fino al momento in cui una crescente passione non gli fa perdere ogni limpida facoltà del pensiero, per travolgerlo una volta per tutte. Invano l’uomo distaccato e ragionevole lo considera con compassione, cercando di persuaderlo con ragionamenti. È come il sano che al capezzale di un infermo non può trasfondere in lui la minima parte delle sue forze».
Per Alberto questo ragionamento era troppo generico. Gli rammentai allora di una fanciulla trovata recentemente annegata e gli ripetei la sua storia. «Era una tranquilla creatura, cresciuta nella piccola cerchia delle occupazioni domestiche, nel lavoro scandito giorno dopo giorno, con nessun’altra prospettiva o distrazione che passeggiare a volte la domenica insieme con le sue compagne, nei dintorni della città, abbigliata con ornamenti messi insieme a poco a poco; oppure ballare in occasione delle feste solenni, e chiacchierare a volte con qualche vicina, per ore, vivacemente interessandosi di una lite o di una maldicenza. Improvvisamente la sua ardente giovinezza prova segreti desideri, tentati dalle lusinghe degli uomini. Le sue gioie abituali divengono sempre più insipide, finché alla fine incontra un uomo verso il quale è trascinata senza potersi opporre al sorgente sentimento, e in lui concentra ogni sua speranza; dimentica allora il mondo intero, non sente che lui, non desidera che lui, l’Unico. Non essendo corrotta dai vuoti pensieri di una vanità incostante, vuole legarsi a lui per l’eternità per arrivare a cogliere la felicità che non possiede e godere tutte le gioie a cui aspira. Ripetute promesse coronano le sue speranze, audaci carezze accendono il suo desiderio, dominano completamente la sua anima; è in preda a oscure sensazioni che le fanno presentire tutte le gioie, è esasperata in modo estremo, stende alla fine le braccia per stringere a sé tutto quello che ha desiderato… e il suo amore l’abbandona. Impietrita, preda dell’oscurità, non ha dinanzi nessun avvenire, nessun conforto, nessuna speranza, perché l’ha abbandonata colui nel quale aveva riposto tutta la sua vita. Non vede il vasto mondo che le si stende davanti, né i tanti che potrebbero consolarla di quella perdita; si sente sola, abbandonata da tutti, e cieca, oppressa dall’orribile angoscia del suo cuore, si lascia andare per distruggere le sue pene nella morte che tutto annienta… Vedi, Alberto, questa è la storia di molti esseri! E non ti sembra proprio la stessa cosa della malattia? La natura non trova alcuna via d’uscita dal labirinto delle forze confuse e contrastanti, e l’uomo deve soccombere. Guai a colui che assistendo a simile tragedia può dire: “Che pazza! Se avesse aspettato, se avesse lasciato trascorrere il tempo, la sua disperazione si sarebbe placata, qualcuno sarebbe giunto per consolarla!”. È proprio la stessa cosa che dire: “Che pazzo, è morto di febbre! Se avesse pazientato finché le forze gli fossero tornate, la linfa vitale risanata, il tumulto del suo sangue calmato, oggi sarebbe ancora in vita, e tutto sarebbe andato per il meglio!”».
Alberto, che non trovava appropriato il paragone, mi fece ancora delle obiezioni; e tra l’altro rilevò che io avevo parlato di una semplice fanciulla; ma che lui non riusciva a capire come si potesse scusare un uomo sveglio di mente, e non così limitato, e in grado di avere una più vasta visione del mondo. «Amico mio», esclamai, «l’uomo è uomo, e il po’ di criterio che può avere, ha scarsa importanza quando lo incalza la passione, e si sente spinto ai limiti delle sue forze! Tanto più… Ma ne parleremo un’altra volta», dissi, e presi il cappello. Avevo il cuore gonfio, e ci separammo senza esserci compresi. Come è difficile che gli uomini si comprendano in questo mondo!

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Il suicidio di Werther

Potremo definire questo passo “ragione e sentimento” dove al primo membro inseriremo la figura di Alberto, il razionale, e al secondo Werther; è l’io del giovane che ci dice, attraverso la sua lettura della realtà, come un essere eccezionale non può che essere anti borghese, andare contro le convenzioni che questa classe sociale stava appena edificando. Alberto rappresenta appunto questa idea, il “buon senso”, “la ragione”, questa idea “illuminista” che cerca di cambiare il mondo sulla logica appunto attraverso il “giusto mezzo”; è evidente che per Werther è proprio questa “grettezza” ad uccidere la passionalità, l’alto sentire, che lo distingue e fa sì che egli sia il vero intellettuale, capace cioè di leggere i limiti che proprio “il buon senso” segna, circoscrive in modus vivendi grigio e senza senso. Il Werther è del 1774 e si può dire contemporaneo ad una stessa riflessione che Alfieri aveva svolto nel Sulla tirannide: arrivano ambedue all’esaltazione del suicidio come estrema di libertà, ma se l’astigiano la connota solo agli spiriti eccezionali, Goethe la inserisce anche ad una piccola creatura, che nonostante l’inconsapevolezza culturale della libertà, l’ha cercata in quanto privata dalla passione d’amore.

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James Macpherson

Ma Werther è anche un uomo colto di fine Settecento: la sua passione letteraria ce la conferma in un passo dello stesso libro:

OSSIAN NEL CUORE DI WERTHER

Ossian ha soppiantato Omero nel mio cuore. In che mondo m’introduce questo magnifico poeta! Camminare attraverso la landa, investito da ogni parte dal vento burrascoso che nelle nebbia fluttuanti evoca i fantasmi dei padri in una luce crepuscolare! Udire come viene giù dai monti, nel frastuono del torrente in mezzo al bosco, il flebile lamento degli spiriti nelle loro caverne ed il pianto d’angoscia della fanciulla che si strugge fino a morire presso le quattro pietre coperte di muschio e d’erba che ricoprono il corpo del suo amato, il nobile guerriero caduto! E’ allora che io lo trovo, il bardo grigio che cammina e cerca sulla vasta landa le orme dei suoi padri, e, ahimè, trova le loro tombe, e quindi lamentandosi guarda verso la cara stella del vespero che si nasconde nel mare tumultuoso, e rivivono nell’anima dell’eroe gli antichi tempi quando un raggio benevolo indicava ancora i pericoli che minacciavano i valorosi, e la luna splendeva sopra la loro nave inghirlandata che ritornava dopo la vittoria. 

I canti di Ossian vennero pubblicati dal precettore di scuola James Macpherson, (Scozia, 1736 – 1796). L’autore mise insieme alcuni canti della tradizione gaelica popolare, da lui tradotti, attribuendoli ad un mitico personaggio dell’antichità, Ossian, vissuto nel III secolo d.C. Ad essi aggiunse altri brani di sua invenzione. L’opera ebbe un successo straordinario in tutta Europa, che li considerò autentici: infatti in essi vi erano tutte le istanze che la nuova corrente culturale stava elaborando a partire dalla critica  alla ragione che l’illuminismo aveva imposto.

I° CANTORE

Trista è la notte, tenebrìa s’aduna,
Tingesi il cielo di color di morte:
Qui non si vede nè stella, nè luna,
Che metta il capo fuor dalle sue porte.
Torbido è ‘l lago, e minaccia fortuna,
Odo il vento nel bosco a ruggir forte.
Giù dalla balza va scorrendo il rio
Con roco lamentevol mormorìo.
Su quell’alber colà, sopra quel tufo,
Che copre quella pietra sepolcrale,
Il lungo-urlante ed inamabil gufo
L’aer funesta col canto ferale.
Ve’ ve’:
Fosca forma la piaggia adombra:
Quella è un’ombra:
Striscia, sibila, vola via.
Per questa via
Tosto passar dovrà persona morta:
Quella meteora de’ suoi passi è scorta.
Il can dalla capanna ulula e freme,
Il cervo geme – sul musco del monte,
L’arborea fronte – il vento gli percote;
Spesso ei si scuote – e si ricorca spesso.
Entro d’un fesso – il cavriol s’acquatta,
Tra l’ale appiatta – il francolin la testa.
Teme tempesta – ogni uccello, ogni belva;
Ciascun s’inselva – e sbucar non ardisce;
Solo stridisce – entro una nube ascoso
Gufo odioso;
E la volpe colà da quella pianta
Brulla di fronde
Con orrid’urli a’ suoi strilli risponde.
Palpitante, ansante, tremante
Il peregrin
Va per sterpi, per bronchi, per spine,
Per rovine,
Chè ha smarrito il suo cammin.
Palude di qua,
Dirupi di là,
Teme i sassi, teme le grotte,
Teme l’ombre della notte;
Lungo il ruscello incespicando,
Brancolando
Ei strascina l’incerto suo piè.
Fiaccasi or questa or quella pianta,
Il sasso rotola, il ramo si schianta
L’aride lappole strascica il vento.
Ecco un’ombra, la veggo, la sento;
Trema di tutto, nè so di che.
Notte pregna di nembi e di venti,
Notte gravida d’urli e spaventi!
L’ombre mi volano a fronte e a tergo:
Aprimi, amico, il tuo notturno albergo.

Il falso storico di Macpherson riesce a penetrare profondamente nella mente di un’intera generazione preromantica: Goethe, come si è visto, e tradotto da Melchiorre Cesarotti, Monti e Foscolo per la nostra letteratura; quello che il canto trasmette è completamente virato verso un naturalismo sentimentale capace di toccare corde che la ragione aveva cancellato.

Un paesaggio mitico lo si può ritrovare anche nel passato: le stesse scoperte archeologiche avevano spinto da una parte a riscoprire il gusto dell’antico, dall’altra e considerare l’Ellade come un mondo perduto per sempre, verso cui vagheggiare per poi prendere consapevolezza della decadenza della civiltà contemporanea. 

Ne è un esempio Keats (autore nella cui giovane vita, morì a 26 anni, scrive alcuni capolavori letterari), che, rappresenta il senso di turbamento del presente di contro all’immobilità dell’arte classica è la riaffermazione dell’arte e quindi della bellezza come unica forma per sconfiggere la caducità della vita:

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JOHN KEATS: ODE ON A GRECIAN URN

Thou still unravish’d bride of quietness,
Thou foster-child of silence and slow time,
Sylvan historian, who canst thus express
A flowery tale more sweetly than our rhyme:
What leaf-fring’d legend haunts about thy shape
Of deities or mortals, or of both,
In Tempe or the dales of Arcady?
What men or gods are these? What maidens loth?
What mad pursuit? What struggle to escape?
What pipes and timbrels? What wild ecstasy?

Heard melodies are sweet, but those unheard
Are sweeter; therefore, ye soft pipes, play on;
Not to the sensual ear, but, more endear’d,
Pipe to the spirit ditties of no tone:
Fair youth, beneath the trees, thou canst not leave
Thy song, nor ever can those trees be bare;
Bold Lover, never, never canst thou kiss,
Though winning near the goal yet, do not grieve;
She cannot fade, though thou hast not thy bliss,
For ever wilt thou love, and she be fair!

Ah, happy, happy boughs! that cannot shed
Your leaves, nor ever bid the Spring adieu;
And, happy melodist, unwearied,
For ever piping songs for ever new;
More happy love! more happy, happy love!
For ever warm and still to be enjoy’d,
For ever panting, and for ever young;
All breathing human passion far above,
That leaves a heart high-sorrowful and cloy’d,
A burning forehead, and a parching tongue.

Who are these coming to the sacrifice?
To what green altar, O mysterious priest,
Lead’st thou that heifer lowing at the skies,
And all her silken flanks with garlands drest?
What little town by river or sea shore,
Or mountain-built with peaceful citadel,
Is emptied of this folk, this pious morn?
And, little town, thy streets for evermore
Will silent be; and not a soul to tell
Why thou art desolate, can e’er return.

O Attic shape! Fair attitude! with brede
Of marble men and maidens overwrought,
With forest branches and the trodden weed;
Thou, silent form, dost tease us out of thought
As doth eternity: Cold Pastoral!
When old age shall this generation waste,
Thou shalt remain, in midst of other woe
Than ours, a friend to man, to whom thou say’st,
“Beauty is truth, truth beauty, – that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.

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Roma, cimitero acattolico: tombe di Keats e Severn

Tu, ancora inviolata sposa della quiete, / figlia adottiva del tempo lento e del silenzio, / narratrice silvana, tu che una favola fiorita / racconti, più dolce dei miei versi, / quale intarsiata leggenda di foglie pervade / la tua forma, sono dei o mortali, o entrambi, insieme, a Tempe o in Arcadia? E che uomini sono? Che dei? E le fanciulle ritrose? Qual è la folle ricerca? E la fuga tentata? E i flauti, e i cembali? Quale estasi selvaggia? // Sì, le melodie ascoltate son dolci; ma più dolci / ancora son quelle inascoltate. Su, flauti lievi, / continuate, ma non per l’udito; preziosamente / suonate per lo spirito arie senza suono. / E tu, giovane, bello, non potrai mai finire / il tuo canto sotto quegli alberi che mai saranno spogli; / e tu, amante audace, non potrai mai baciare / lei che ti è così vicino; ma non lamentarti / se la gioia ti sfugge: lei non potrà mai fuggire, / e tu l’amerai per sempre, per sempre così bella. // Ah, rami, rami felici! Non saranno mai sparse / le vostre foglie, e mai diranno addio alla primavera; / e felice anche te, musico mai stanco, / che sempre e sempre nuovi canti avrai; / ma più felice te, amore più felice, / per sempre caldo e ancora da godere, / per sempre ansimante, giovane in eterno. Superiori siete a ogni vivente passione umana / che il cuore addolorato lascia e sazio, / la fronte in fiamme, secca la lingua. // E chi siete voi, che andate al sacrificio? Verso quale verde altare, sacerdote misterioso, conduci la giovenca muggente, i fianchi / morbidi coperti da ghirlande? E quale paese sul mare, o sul fiume, / o inerpicato tra la pace dei monti / ha mai lasciato questa gente in questo sacro mattino? / Silenziose, o paese, le tue strade saranno per sempre, / e mai nessuno tornerà a dire / perché sei stato abbandonato. // Oh, forma attica! Posa leggiadra! con un ricamo / d’uomini e fanciulle nel marmo, coi rami della foresta e le erbe calpestate – tu, forma silenziosa, come l’eternità / tormenti e spezzi la nostra ragione. Fredda pastorale! / Quando l’età avrà devastato questa generazione, / ancora tu ci sarai, eterna, tra nuovi dolori / non più nostri, amica all’uomo, cui dirai “Bellezza è verità, verità bellezza,” – questo solo / sulla terra sapete, ed è quanto basta.

Possiamo dividere l’analisi del testo di Keats in cinque parti:

  • 1 – 14: superiorità dell’immaginazione, suscitata dall’arte rispetto alla realtà;
  • 15 – 43: coincidenza della perfezione con il non accadimento;
  • 44 – 45: impossibilità della ragione di penetrare la bellezza nell’arte;
  • 46 – 48: contrapposizione tra l’eternità della forma e la caducità umana
  • 49 – 50: coincidenza tra etica ed estetica.

Non è un caso, e appunto il testo di Keats ce ne offre piena testimonianza, della nascita di un vero e proprio genere sepolcrale, che vede anche la lirica di Thomas Gray, Elegia scritta in un cimitero di campagna e, per quanto la cultura italiana l’opera foscoliana Dei Sepolcri.

 

DECADENTISMO

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Il Decadentismo trova il suo nome dal titolo di una rivista artistico-letterario fondata da Anatole Baju per ospitare la nuova poesia simbolista e che così recita: “L’uomo moderno è un blasé. Raffinamento dei desideri, delle sensazioni, dei gusti, del lusso, dei piaceri, nevrosi, isteria, ipnotismo, morfinomania, ciarlataneria scientifica, schopenhauerismo a oltranza, questi sono i prodromi dell’evoluzione della società”.

Tale movimento rappresenta un fenomeno letterario complesso che trova la sua origine nella disillusione che la scienza possa spiegare la totalità della realtà ed i meccanismi che stanno alla base del vivere umano.

Non dobbiamo dimenticare, d’altra parte, che esso convive, sebbene in apparenza in modo secondario, con il Positivismo, ma sarà proprio quando tale ideologia entrerà in crisi, che la nuova ideologia troverà la forza per affermarsi. E la crisi arriverà sia per motivi, diremo così, strutturali, sia per motivi che, partendo dal primato della scienza stessa, la metteranno in crisi. Era infatti lo stesso sapere filosofico/scientifico che, specializzandosi sempre più, era arrivato a mettere in discussione le sue metodologie, scardinando le coordinate spazio-temporali che avevano sorretto ogni forma di conoscenza e d’indagine sulla realtà e mettendo in crisi i metodi con cui, fino ad allora, erano stati condotti gli studi sull’uomo.

I pensatori che attuarono, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, un cambiamento nel pensiero occidentale furono tra gli scienziati Albert Einstein, Max Planck e Sigmund Freud e tra i filosofi Friedrich Nietzsche e Henry Bergson.

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Albert Einstein

Albert Einstein (1879-1955) elabora, ad inizio secolo, la teoria della relatività, mentre Max Planck (1858-1947) quella dei quanti; ambedue sconvolgono i tradizionali parametri di interpretazione del mondo: spazio e tempo non sono più verità assolute, valide in sé in quanto espressione della realtà oggettiva, ma categorie strumentali relative, dipendenti dai sistemi di riferimento prescelti. Nella nuova fisica di Einstein spazio e tempo costituiscono una struttura unica che è sempre in stretta relazione con le masse in essa presenti (ciò che siamo abituati a concepire come entità a sé stanti – come il tempo, lo spazio o la materia – in realtà sono soltanto aspetti o dimensioni dell’energia, la cui essenza, peraltro, non è stata ancora del tutto chiarita. Questo comporta, tra l’altro, che la misura di quelle particolari manifestazioni dell’energia che noi siamo soliti chiamare spazio, tempo o materia, non potrà mai avere un valore assoluto, ma differente a seconda della maggiore o minore quantità di energia da cui esse dipendono). 

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Max Planck

In sostanza sia Einstein che Planck dimostravano che anche le scienze cosiddette esatte (matematica, fisica e geometria) si fondano su presupposti convenzionali e relativi.

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Sigmund Freud

Ripercussioni ancora più importanti sulla cultura del Novecento ha avuto la messa a punto, all’inizio del secolo, di un metodo di indagine interiore, detto psicoanalisi, per la cura delle malattie psichiche. L’inventore di questo metodo è stato Sigmund Freud (1856-1939), neurologo viennese di origini ebraiche, il quale, muovendo dallo studio clinico dell’isteria, elaborò una teoria complessiva delle nevrosi e dei disturbi della psiche in genere.

All’origine di tali disturbi egli individuò il mancato equilibrio tra tre livelli della vita psichica dell’individuo: Es, Io, Super-Io:

  • L’Es corrisponde alle pulsioni e agli istinti più profondi, alle paure e ai traumi che risiedono nell’inconscio e che la coscienza ha accettato e ha censurato (rimosso).
  • Il Super-Io è invece l’insieme delle regole e degli insegnamenti che, fin dall’infanzia, ci vengono impartiti; il Super-Io, in altre parole, corrisponde alle norme morali e svolge di solito una funzione repressiva nei confronti dell’Io.
  • L’Io è la parte cosciente, che mira a raggiungere l’equilibrio con l’ambiente che lo circonda esercitando una funzione di mediazione tra l’Es e il Super-Io. Compito dell’analista è ristabilire tale equilibrio, quando l’individuo non è più in grado di farlo autonomamente, decodificando l’inconscio; via d’accesso all’inconscio sono per Freud i sogni, popolati di immagini che possono rivelare i processi più segreti della vita psichica, quelli che la ragione tenta di smascherare.

Gli scritti di Freud, avvertiti all’epoca come contrari alla morale comune e rivoluzionari per la loro portata teorica, influenzarono profondamente la cultura del Novecento in particolare per la separazione tra lato cosciente e incosciente della psiche umana, per l’importanza riconosciuta alle pulsioni dell’Io profondo (per es. quelle erotiche) e per il significato rivelatore dei sogni, dei lapsus e degli atti mancati.

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Un’altra immagine di Sigmund Freud

La psicanalisi, mettendo in dubbio l’idea umanistica del primato della volontà e della ragione sugli istinti, ha avuto la forza di mandare in frantumi la visione unitaria e ottimistica dell’uomo (padrone di sé e del proprio destino) propria dei secoli precedenti (dall’Umanesimo al Romanticismo e al Positivismo). Il dato sconvolgente e innovativo è che l’agire umano appare condizionato non solo dalle logiche consapevoli e razionali, ma anche da uno strato profondo e oscuro dell’io – che Freud definisce inconscio – nel quale si sedimentano impulsi e tensioni normalmente repressi dalle convenzioni sociali e dalla morale.

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Friedrich Nietzsche a Torino

Friedrich Nietzsche (1844-1900) elabora innanzitutto la teoria del nichilismo (elaborando in forma filosofica quanto già espresso da Turgenev e dal contemporaneo Dostoevskij), che nega l’universalità e l’assolutezza di qualsiasi valore e di qualsiasi verità; per Nietzsche – e sta qui la profonda differenza rispetto al modello interpretativo del mondo proposto dal Positivismo – il “fatto”, il dato “positivo”, certo e analizzabile con gli strumenti dell’indagine scientifica, non esisterebbe più; la verità oggettiva ed esclusiva (quello che Nietzsche chiama “Dio”) sarebbe “morta”, lasciando il posto a tante possibili verità o interpretazioni del fatto stesso, tutte relative e provvisorie.

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Friedrich Nietzsche, Lou Salomé e Paul Ree

Alla luce di questa concezione, anche la morale rivela il proprio carattere falso e illusorio: per Nietzsche non esistono infatti né un sistema etico cui dover fare stabilmente riferimento, né modelli di comportamento universalmente validi; in secondo luogo, in Così parlo Zarathustra (1883-1885) egli elabora la teoria dell’Uebermensch, di una nuova umanità che sia in grado di superare (ueber= oltre) la vecchia oppressa da un sistema di valori e di verità superati, la cui universale validità è stata annientata; “l’oltre uomo” o “oltre umanità” (Mensch in tedesco assume anche questo significato) è per Nietzsche l’uomo nuovo, libero dai condizionamenti della morale comune, l’uomo che si impegna a realizzare totalmente se stesso, superando gli ostacoli, morali e ideologici, che possono reprimere i suoi desideri e le sue aspirazioni; infine, nella Nascita della tragedia, egli pone in risalto la contrapposizione tra lo spirito apollineo che simboleggia la razionalità, il dominio degli impulsi vitali e l’arido intellettualismo (controllo delle passioni, distacco dall’immediatezza della vita, dominio degli istinti, calma, serenità, compostezza), e lo spirito dionisiaco o volontà di potenza che è invece la tendenza opposta, ovvero la propensione all’ebbrezza vitalistica, all’istintività corporale e naturale, all’ebbrezza, e il desiderio di agire, sia in ambito pratico sia in quello artistico e creativo, anche contro le convenzioni sociali, con il solo obiettivo di realizzare le proprie aspirazioni (lo spirito dionisiaco incarna la parte istintuale, violenta e sfrenata dell’animo umano).

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Henry Bergson

Secondo il filosofo francese Henry Bergson il concetto di tempo non può esaurirsi nella nozione meccanicistica e deterministica proposta dal Positivismo. Centrale nel suo pensiero è l’idea del tempo che sfugge alle “matematiche”, cioè alla misurazione oggettiva, matematica; egli si oppone cioè alla tradizionale concezione con la quale la scienza aveva rappresentato il tempo, concepito come successione di istanti omogenei, oggettivamente misurabili e quantificabili. Il filosofo elaborò la definizione di tempo come “durata pura”: si tratta del tempo connaturato alla vita della coscienza, per la quale la durata è fluire continuo, movimento e molteplicità. Nel tempo come durata tutti gli istanti coesistono e si sovrappongono in un fluire continuo, in un continuum che non li annienta ma li conserva (nella nostra memoria si sovrappongono continuamente immagini del passato lontano e recente insieme e al contempo del presente che stiamo vivendo e del futuro che stiamo progettando: il tempo è una dimensione interiore, una durata, un continuum in cui convivono le tre dimensioni di passato, presente e futuro). E’ una concezione soggettiva del tempo che ebbe grande influsso sulla narrativa del Novecento. L’altro aspetto della filosofia bergsoniana che influenzò notevolmente la letteratura e l’arte di questo periodo riguarda il processo conoscitivo che risolve attraverso l’intuizione (dunque attraverso l’irrazionale), la sola che consente una conoscenza profonda della realtà.

Le teorie di Einstein, di Bergson e di Freud, al di là del loro contributo scientifico e le speculazioni filosofiche di Nietzsche e di Bergson sconvolgono completamente il sapere classico che si era orientato nel distacco tra l’io ed il mondo, distacco necessario per conoscerlo; ora questo distacco non è più possibile, il mondo non è più conoscibile attraverso le categorie spazio/temporali, me “soggettivamente” in quanto questo stesso mondo è entrato dentro di noi e solo noi possiamo scavarne il vero senso attraverso processi intuitivi ed irrazionali. E’ evidente che tale situazione culturale mette in crisi la fiducia nel sapere scientifico che era stato alla base del Positivismo, ma è proprio nella sua massima affermazione che mostra le sue pieghe, in quanto, delegando l’arte ad interpretazione di un qualcosa d’altro da se stessa, aveva costretto alcuni intellettuali francesi a ridiscutere la funzione del fare arte e dell’essere poeta in una società in cui “tutto è già scritto nel rapporto causa-effetto” (saranno costoro i Simbolisti).

D’altra parte bisogna ricordare che la storia “politica” dell’Europa stessa aveva decretato la fine di questa spinta propulsiva che l’aveva portata a ridisegnare i propri confini e ad affermare il concetto di unità “patriottica” attraverso la formazione della Grecia, sin dal 1830 e poi quella italiana e germanica.

Questo cambiamento, riassumendo in modo estremamente sintetico, si può definire attraverso tre processi:

  • progresso tecnologico e scientifico (fra cui anche quello medico): aumento demografico e “modernizzazione” delle città: gas elettrico, le prime macchine, telegrafo, fotografia. Ciò porta ad una forte urbanizzazione cui risponde una netta divisione, all’interno di essa, tra le classi sociali: l’esplosione della Comune di Parigi nel 1871 è la risposta di questa situazione; inoltre dall’ultimo ventennio del secolo fino allo scoppio della grande guerra nasce il fenomeno della belle epoque.

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Immagine di gruppo con Guardie Nazionali e membri della Comune a Parigi (1871)

  • Sempre alla fine dell’Ottocento si assiste ad una decelerazione economica dovuta alla libera circolazione che porta ad un eccesso di beni, aumentato anche dall’affacciarsi, in modo piuttosto “prepotente” dell’economia degli Stati Uniti. Ciò conduce gli Stati ad una sorta di protezionismo e al bisogno di cercare “materie prime” a prezzi concorrenziali. Inizia la colonizzazione dell’Africa e dell’Asia che trova in prima linea la Francia e l’Inghilterra (anche l’Italia cercherà di entrare nel gioco);

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Schiavi scortati in Africa

  • Quanto detto sinora porta di conseguenza ad una politica imperialista che si trasforma, diremo quasi automaticamente, in nazionalismo ed autoritarismo. A dare la stura a tale ideologia è certamente il cancelliere tedesco Otto von Bismark (1815-1898) che trasforma la Germania in una potente macchina statale e militare, accentuando la conflittualità con la Francia.

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Otto von Bismarck

  • Anche l’Italia cerca, in modo minore, d’imporsi a livello autoritario: Francesco Crispi (1818-1901) alimenta il mito della forte nazione. Perso il potere dopo la sconfitta di Adua, l’Italia viene attraversata da forti scontri sociali come dei Fasci siciliani (1894) o con il durissimo scontro avvenuto a tra scioperanti e l’esercito governativo a Milano nel 1898). Il Novecento si apre con l’assassinio da parte dell’anarchico Gaetano Bresci con l’assassinio di re Umberto I a Modena: Il governo passa a Giovanni Giolitti che con alterne fortune lo manterrà fino alla soglia della prima guerra mondiale.

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Achille Beltrami: Assassinio Di Umberto I a Monza (1900)
(Disegno per “La Domenica del Corriere”)

SIMBOLISMO ED ESTETISMO

Simbolismo

Il simbolismo nasce in Francia negli ultimi due decenni dell’Ottocento, e a farlo nascere è, come sarà poi d’abitudine per la maggior parte della letteratura Novecentesca, un Manifesto:

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Paul Gaugin : Ritratto di Jean Moréas 

JEAN MORÉAS: DA IL “MANIFESTO DEL SIMBOLISMO”

Già ci è occorso di proporre la denominazione di Simbolismo, reputandola l’unica adatta a designare con ragione la presente tendenza in arte dello spirito creatore. Riteniamo che codesta denominazione possa esser conservata. S’è detto, all’inizio di questo articolo, che le evoluzioni dell’arte presentano un carattere ciclico estremamente complicato da divergenze; così, per seguire l’esatta filiazione della nuova scuola, bisognerebbe risalire fino a certi poemi di Alfred de Vigny, fino a Shakespeare, fino ai mistici, e più distante ancora. Problemi, questi, che richiederebbero un volume intero di commenti. […]
Nemica della didattica, della declamazione, del falso sensibilismo, della descrizione oggettiva, la poesia simbolista cerca di: rivestire l’Idea d’una forma sensibile che però non si porrebbe come scopo a se stessa ma che, pur servendo ad esprimere l’idea, resterebbe soggetto. L’Idea, dal canto suo, non deve affatto lasciarsi scorgere priva dei sontuosi paludamenti delle analogie esterne, carattere essenziale dell’arte simbolista essendo il non andare mai fino alla concezione dell’Idea in sé. Così, in quest’arte, le immagini della natura, le azioni degli esseri umani, tutti i fenomeni concreti, non potrebbero trovare manifestazione, trattandosi di apparenze sensibili destinate a rappresentare, invece, le loro affinità esoteriche con le Idee primordiali.

Jean Moréas, Le Symbolisme, Le Figaro, 18.IX.1886

Nel Manifesto di Jean Moréas si possono cogliere due aspetti fondamentali:

  • il richiamo a poeti che, partendo dalla linea del misticismo medioevale fino al poeta francese romantico Alfred de Vigny, sono lontani dalla linea realista che faceva perno sia al “positivismo” che al “naturalismo”;
  • la poesia simbolista descrive un oggetto concreto non come fine, ma come mezzo per rappresentare un’Idea, che non possiede altri mezzi che il dato sensibile per essere rappresentata.

E’ evidente che tale poetica prenda spunto dal Romanticismo, da quel filone che potremmo definire “mistico” e che conviva come sensibilità, con il lato “realista” del romanticismo stesso; è altrettanto evidente che dietro l’ideologia del simbolismo vi sia il “rimprovero” verso il positivismo e il naturalismo, con la loro pretesa di spiegare tutto il reale attraverso l’uso della parola, non accorgendosi che essa, in quanto umana, è limitata, e non può cogliere gli aspetti, per così dire, che travalicano questa realtà (aspetti metafisici o inconsci).

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Charles Baudelaire

La teorizzazione del simbolismo segue la produzione poetica di colui che ne è considerato il padre dagli stessi poeti di fine Ottocento, Charles Baudelaire.

Nato nel 1821 da una famiglia borghese, sin dall’adolescenza ebbe un tormentatissimo rapporto con la madre che, rimasta presto vedova, si risposò con un ufficiale dal carattere chiuso ed austero. L’avversione verso il patrigno gli fece abbandonare la casa e cominciò a fare una vita solitaria e sregolata. Viaggiò in Oriente e tornò dopo aver ottenuto parte dell’eredità paterna. Cominciò a frequentare i circoli letterari e a fare uso di droghe e di alcol, tanto che gli stessi genitori lo interdirono. E’ un momento poco felice della sua vita ma è proprio in questo periodo che pubblica i Fiori del male (1855), che suscitò sin da subito vasto clamore e scandalo per i benpensanti. L’opera venne in parte censurata, e, oltre a dover pagare una somma di ammenda, fu anche costretto a sostituire poesie che erano considerate “scandalose”. Si mise a scrivere prose per alcune riviste (pubblicate in seguito come Poemetti in prosa). Ma intanto la sua malattia, contratta sin da giovane età, si aggrava portandolo ad una precoce morte nel 1867.

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Progetto di frontespizio per “Le fleurs du mal”

Il suo capolavoro è la raccolta poetica Les fleurs du mal (I fiori del male), pubblicata in tre edizioni: 1855, 1857 e, ultima, 1861, composta da 126 liriche. Alla sua morte gli amici approntano un ulteriore edizione aggiungendovi altre poesie, raggiungendo così la somma di 151 testi poetici. E’ questa un’opera organica divisa in sei sezioni: la prima Spleen e Ideale in cui alla “bruttezza” della quotidianità egli oppone l’idea dell’“Ideale” nella bellezza dell’arte, dell’amore, della purezza; seguono le sezioni Quadri parigini, Il vino, I fiori del male in cui il poeta cerca di fuggire dallo spleen che lo attanaglia. Al fallimento di questi tentativi non rimane che la Rivolta (quinta sezione) in cui avviene la contestazione verso la mediocrità e l’impossibilità di sfuggire da essa, a cui fa seguito La morte (ultima sezione) che si disegna come viaggio verso un futuro utopico.

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L’ALBATRO

«Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers.

Il pene les ont-ils déposés sur les planches,
Que ces rois de l’azur, maladroits et honteux,
Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches
Comme des avirons traîner à côté d’eux.

Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!
Lui, naguère si beau, qu’il est comique et laid!
L’un agace son bec avec un brûle-gueule,
L’autre mime, en boitant, l’infirme qui volait!

Le Poète est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l’archer ;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l’empêchent de marcher.

Spesso, per divertirsi, i marinai // catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari, // indolenti compagni di viaggio delle navi // in lieve corsa sugli abissi amari. // L’hanno appena posato sulla tolda // e già il re dell’azzurro, maldestro e vergognoso, // pietosamente accanto a sé strascina // come fossero remi le grandi ali bianche. // Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato! // E comico e brutto, lui prima così bello! // Chi gli mette una pipa sotto il becco, // chi imita, zoppicando, lo storpio che volava! // Il Poeta è come lui, principe delle nubi // che sta con l’uragano e ride degli arcieri; // esule in terra fra gli scherni, impediscono // che cammini le sue ali di gigante.

Fa parte della prima sezione (la più lunga) ed è posta come seconda dell’intera raccolta, a sottolineare la condizione di poeta. Essa è nettamente divisa in due: se infatti nelle prime tre strofe troviamo la descrizione dell’uccello, grandioso nei cieli, goffo in terra, nell’ultima la metafora si fa palese e all’irrisione dei marinai, corrisponde quella della borghesia rispetto al poeta. E’ l’atteggiamento già presente nella sezione: è pur vero che forse l’albatro non prova, di fronte alle beffe degli uomini di mare un vero e proprio ennui, ma certo libero di volare con le sue grandi ali egli tocca l’Ideal , le vette del pensiero. E’ che Baudelaire, più profondamente degli italiani suoi imitatori, in primis gli scapigliati, non può ignorare che forse le altezze celesti non interessano più e che non solo il popolo può schernire le bellezze della poesia, ma che anche la poesia non sa più parlare loro in quanto non ne ha imparato il linguaggio.

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Gustave Courbet: Ritratto di Baudelaire

Maggiore complessità interpretativa ha la poesia Corrispondenze:

CORRISPONDENZE

La Nature est un temple où de vivants piliers
laissent parfois sortir de confuses paroles;
l’homme y passe à travers des forêts de symboles
qui l’observent avec des regards familiers.

Comme de longs échos qui de loin se confondent
dans une ténébreuse et profonde unité,
vaste comme la nuit et comme la clarté,
les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,
doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
– et d’autres, corrompus, riches et triomphants,

ayant l’expansion des choses infinies,
comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens,
qui chantent les transports de l’esprit et des sens.

La Natura è un tempio dove incerte parole / mormorano pilastri che son vivi, / una foresta di simboli che l’uomo / attraversa nel raggio dei loro sguardi familiari. // Come echi che a lungo e da lontano / tendono a un’unità profonda e buia / grande come le tenebre o la luce / i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi. // Profumi freschi come la pelle d’un bambino, / vellutati come l’oboe e verdi come i prati, / altri d’una corrotta, trionfante ricchezza // che tende a propagarsi senza fine – così // l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino / a commentare le dolcezze estreme dello spirito e dei sensi.

Al topos della metafora della natura come qualcosa di sacro (Tempio) risponde la novità di un mistero profondo delle incerte parole, foreste di simboli che condividiamo con lei, in quanto familiare. Il suo profondo entra cioè in contatto col nostro profondo. La sacralità della natura è descritta come misteriosa unità che tutto richiama in un unico linguaggio che il poeta deve cogliere. A tale scopo il testo presenta significative sinestesie (Profumi di carne, mente e sensi) che rimandano a profonde analogie all’interno di un’unità della percezione che ne sottolinea l’incredibile modernità dai cui si è abbeverata, grazie a lui, l’intero percorso poetico del Novecento.

Sempre dalla prima parte della raccolta, Baudelaire, dopo aver descritto il poeta ne L’albatro e la sua funzione nel cogliere il mistero della natura, in Corrispondenze, passa ora a definire cosa egli intenda per Spleen:

SPLEEN

Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l’horizon embrassant tout le cercle
Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits;
Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l’Espérance, comme une chauve-souris,
S’en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris;
Quand la pluie étalant ses immenses traînées
D’une vaste prison imite les barreaux,
Et qu’un peuple muet d’infâmes araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,
Des cloches tout à coup sautent avec furie
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
Qui se mettent à geindre opiniâtrément.

Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme; l’Espoir,
Vaincu, pleure, et l’Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.

Quando, come un coperchio, il cielo basso e greve /  schiaccia l’anima che geme nel suo tedio infinito, / e in un unico cerchio stringendo l’orizzonte /  fa del giorno una tristezza più nera della notte; / quando la terra si muta in un’umida segreta / dove, timido pipistrello, la Speranza / sbatte le ali contro i muri e batte con la testa / nel soffitto marcito; / quando le strisce immense della pioggia / d’una vasta prigione sembrano le inferriate / e muto, ripugnante un popolo di ragni / dentro i nostri cervelli dispone le sue reti, / furiose a un tratto esplodono campane / e un urlo tremendo lanciano verso il cielo, / così simile al gemere ostinato / d’anime senza pace né dimora. // Senza tamburi, senza musica, dei lunghi funerali / sfilano lentamente nel mio cuore: Speranza / piange disfatta e Angoscia, dispotica e sinistra, / pianta sul mio cranio riverso la sua bandiera nera.

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Il testo nell’originale francese è composto da versi alessandrini (doppio settenario) a rima alternata, con la parola Quand e la congiunzione Et in anafora.

Il poeta spiega lo spleen esistenziale attraverso similitudini: cielo / coperchio; terra / cella umida; pipistrello / speranza; pioggia / prigione; a queste si aggiungono le metafore dei ragni e le campane, uno metafora dei pensieri distruttivi e l’altro di spiriti erranti. L’ultima immagine disegna la vittoria dell’angoscia (metaforizzata come un lungo funerale) che pianta il suo vessillo di vittoria nella mente del poeta.

Tutta la poesia gioca su immagini che trasportano la realtà di una giornata parigina all’interno di una camera in un vissuto, in cui l’io la reinterpreta come momento in cui l’Ideal viene schiacciato dallo spleen, da questa sensazione intraducibile che indica insieme angoscia, disperazione, malinconia, insomma una vera e propria “malattia dell’anima”. L’opposizione cielo / terra non disegna come nell’Albatro, un luogo puro contro uno “prosaico”: qui il cielo partecipa con il suo peso sulla psiche del poeta, la cui mente e pervasa da “neri” pensieri che impediscono alle speranze di spiccare il volo (i pipistrelli che sbattono sui muri). E’ che tale sensazione Baudelaire la risolve con un nitore poetico oserei dire classico, che, tuttavia, riesce a “sporcare” con parole non poetiche “coperchio”, “cranio” che tuttavia, proprio perché isolate nel tessuto linguistico prendono forza ad indicare lo schiacciamento psichico dell’animo del poeta.

Ancora dalla prima parte della raccolta un altro topos dell’ispirazione baudelairiana il viaggio:

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Jeanne Duval: la donna amata da Baudelaire

INVITO AL VIAGGIO

Mon enfant, ma soeur,
Songe à la douceur
D’aller là-bas vivre ensemble!
Aimer à loisir,
Aimer et mourir

Au pays qui te ressemble!
Les soleils mouillés

De ces ciels brouillés
Pour mon esprit ont les charmes
Si mystérieux
De tes traîtres yeux,
Brillant à travers leurs larmes.

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Des meubles luisants,
Polis par les ans,
Décoreraient notre chambre;
Les plus rares fleurs
Mêlant leurs odeurs
Aux vagues senteurs de l’ambre,
Les riches plafonds,
Les miroirs profonds,
La splendeur orientale,
Tout y parlerait
À l’âme en secret
Sa douce langue natale.

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Vois sur ces canaux
Dormir ces vaisseaux
Dont l’humeur est vagabonde;
C’est pour assouvir
Ton moindre désir
Qu’ils viennent du bout du monde.
Les soleils couchants
Revêtent les champs,
Les canaux, la ville entière,
D’hyacinthe et d’or;
Le monde s’endort
Dans une chaude lumière.

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Sorella mia, mio bene, / che dolce noi due insieme, / pensa, vivere là! / Amare a sazietà, / amare e morire / nel paese che tanto ti somiglia! / I soli infradiciati / di quei cieli imbronciati / hanno per il mio cuore / il misterioso incanto / dei tuoi occhi insidiosi / che brillano nel pianto. // Là non c’è nulla che non sia beltà, / ordine e lusso, calma e voluttà. // Mobili luccicanti / che gli anni han levigato / orneranno la stanza; / i più rari tra i fiori / che ai sentori dell’ambra / mischiano i loro odori, / i soffitti sontuosi, / le profonde specchiere, l’orientale / splendore, tutto là / con segreta dolcezza / al cuore parlerà / la sua lingua natale. //  Là non c’è nulla che non sia beltà, / ordine e lusso, calma e voluttà. // Vedi su quei canali / dormire bastimenti / d’animo vagabondo, / qui a soddisfare i minimi / tuoi desideri accorsi / dai confini del mondo. / Nel giacinto e nell’oro / avvolgono i calanti / soli canali e campi / e l’intera città / il mondo trova pace / in una calda luce. // Là non c’è nulla che non sia beltà / ordine e lusso, calma e voluttà.

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Thomas Couture, Baudelaire et la Président Sabatier, 1850

“Sogno di un viaggio” sarebbe forse il titolo più adatto a tale lirica, giustificato da quel “songe” (in italiano “ci pensi”) in cui il poeta ci porta in un altrove, dove immagina di stare con la sua donna. Infatti nella prima strofa la luce velata riflette i suoi umidi occhi, nella seconda la rara vegetazione rimanda ad un luogo intimo in cui consumare i frutti dell’amore e nell’ultima i vascelli dormienti al porto, il desiderio ormai consumato.

E’ l’analogia a dominare in questo canto, dove le parole chiave bellezza, lusso, calma e voluttà, ripetute nei tre refrains sembrano suggerire un luogo sognato, non esistente, edenico/edonistico insieme, dove si mescolano abilmente, grazie proprio al rapporto analogico tra le parole piacere, bellezza ed erotismo, termini che saranno fatti propri in seguito dall’estetismo decadente.

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Ritratto di Charles Baudelaire di Émile Deroy, 1844

Ma la capacità del poeta si può misurare anche in alcuni testi tratti da Quadri parigini, come il famoso I ciechi:

LES AVEUGLES 

Contemple-les, mon âme; ils sont vraiment affreux!
Pareils aux mannequins; vaguement ridicules;
Terribles, singuliers comme les somnambules;
Dardant on ne sait où leurs globes ténébreux.

Leurs yeux, d’où la divine étincelle est partie,
Comme s’ils regardaient au loin, restent levés
Au ciel; on ne les voit jamais vers les pavés
Pencher rêveusement leur tête appesantie.

Ils traversent ainsi le noir illimité,
Ce frère du silence éternel. Ô cité!
Pendant qu’autour de nous tu chantes, ris et beugles,

Éprise du plaisir jusqu’à l’atrocité,
Vois! je me traîne aussi! mais, plus qu’eux hébété,
Je dis: Que cherchent-ils au Ciel, tous ces aveugles?

Anima mia, contemplali: sono orribili! / Sembrano manichini, vagamente ridicoli, / terribili, strani come i sonnambuli, / che dardeggiano chissà dove i globi tenebrosi. // Quegli occhi, da cui è svanita la scintilla divina, // restano levati verso il cielo, come se guardassero / lontano; non si vedono mai chini / verso terra, pensosi, con la testa appesantita. // Attraversano così il buio infinito, / fratello del silenzio eterno. Guarda, / città che intorno a noi canti, ridi e strepiti! // Città amante del piacere fino all’atrocità, / guarda! Mi trascino anch’io, inebetito più di loro, / e dico: Ma che cercano in Cielo tutti questi ciechi?

Il sonetto del poeta francese si può dividere in due sequenze: la prima corrispondente alle due quartine descrive la condizione dei non vedenti, la seconda, riflessiva fa sì che il poeta si confonda con loro.

Anche tale visione può ripercorrere quella dell’albatro: il cielo verso cui le palle di vuoto rivolgono lo sguardo, stanno quasi a simboleggiare lo sguardo visionario, puro del poeta; il selciato, come la tolda della nave simboleggia la terra insignificante, il vivere borghese, senza ideali. Ecco allora che il poeta si sente vicino: ma c’è più disperazione qui, nel trascinarsi, nel vivere alla ricerca di qualcosa d’irraggiungibile in una speranza racchiusa da chi non può vedere.

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Gustave Courber: Paul Verlaine

Ma far nascere ufficialmente il simbolismo è Paul Verlaine (1844-1896). Egli, sulla scorta di Baudelaire, dà vita sia biograficamente che intellettualmente al nuovo “modo” di essere poeta nella società borghese. Si dà, sin da diciottenne, all’alcool, aggravando poi il vizio del bere dopo la morte del padre. Venticinquenne s’innamora della giovanissima Mathilde de Fleurville, che sposerà l’anno seguente e dalla quale avrà un figlio. Ma ciò non lo allontanerà dalla bottiglia, anzi, l’aggraverà con la nascita di un torbido rapporto con Rimbaud. Infatti, il giovanissimo poeta manda a lui otto poesie e dall’amicizia che ne deriva ne nacque un rapporto omosessuale, aggravato dalla gelosia di Verlaine, che per essa arriverà quasi ad ucciderlo con un colpo di pistola (che non avrà il suo effetto) e a mandare a monte il suo matrimonio. Verrà incarcerato per questo motivo per due anni: uscitone tenterà di riavvicinarsi ad una vita “normale” e votata alla religione, ma morirà ad appena a 52 anni per una polmonite.

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Fantin-Latour: Paul Verlaine e Arthur Rimbaud

Da ciò che si è appena detto risulta evidente che, a livello biografico, Verlaine rifiuta le regole borghesi offrendo a questi ultimi il suo scandalo d’essere poeta che vive “intensamente” la “sregolatezza” della sua esistenza. Non soltanto offre se stesso come icona del suo nuovo modo d’essere, ma se ne fa caposcuola pubblicando la raccolta Poeti maledetti nel 1884 (su cui pubblicherà lo stesso Rimbaud). La “sregolatezza” della sua vita ha origine nel dissidio tra “saggezza” e “malinconia”, che il poeta non riesce a risolvere sul piano fideistico (il suo rapporto con Dio sarà tormentato ed irrisolto), ma si scioglierà in una poesia che trascende e supera i limiti del reale. E questo vale per la maggior parte delle sue raccolte, fra cui ricordiamo i giovanili Poemi saturnini e Feste galanti; dopo l’incontro con Rimbaud Romanze senza parole e Cose lontane, cose recenti, da cui traiamo la poesia che è considerata l’emblema del simbolismo:

ARTE POETICA

De la musique avant toute chose,
Et pour cela préfère l’Impair
Plus vague et plus soluble dans l’air,
Sans rien en lui qui pèse ou qui pose.

Il faut aussi que tu n’ailles point
Choisir tes mots sans quelque méprise:
Rien de plus cher que la chanson grise
Où l’Indécis au Précis se joint.

C’est de beaux yeux derrière des voiles.
C’est le grand jour tremblant de midi.
C’est, par un ciel d’automne attiédi.
Le bleu fouillis des claires étoiles!

Car nous voulons la Nuance encor,
Pas la Couleur, rien que la nuance!
Oh! la nuance seule fi ance
Le rêve au rêve et la fl ûte au cor!

Fuis du plus loin la Pointe assassine,
L’Esprit cruel et la Rire impur.
Qui font pleurer les yeux de l’Azur,
Et tout cet ail de basse cuisine!

Prends l’éloquence et tords-lui son cou!
Tu feras bien, en train d’énergie,
De rendre un peu la Rime assagie.
Si l’on n’y veille, elle ira jusqu’où?

O qui dira les torts de la Rime?
Quel enfant sourd ou quel nègre fou
Nous a forgé ce bijou d’un sou
Qui sonne creux et faux sous la lime?

De la musique encore et toujours!
Que ton vers soit la chose envolée
Qu’on sent qui fuit d’une âme en allée
Vers d’autres cieux à d’autres amours.

Que ton vers soit la bonne aventure
Éparse au vent crispé du matin
Qui va fleurant la menthe et le thym…
Et tout le reste est littérature.

Verlaine_k_t.jpgPierre Bazin: Ritratto di Paul Verlaine

La musica prima di tutto / e dunque scegli il metro dispari / più vago e più lieve, / niente in lui di maestoso e greve. // Occorre inoltre che tu scelga / le parole con qualche imprecisione: / nulla di più amato del canto ambiguo / dove all’esatto si unisce l’incerto. // Son gli occhi belli dietro alle velette, // l’immenso dì che vibra a mezzogiorno, / e per un cielo d’autunno intepidito / l’azzurro opaco delle chiare stelle! // Perché ancora bramiamo sfumature, / sfumatura soltanto, non colore! / Oh! lo sfumato soltanto accompagna / il sogno al sogno e il corno al flauto! // Fuggi più che puoi il Frizzo assassino, / il crudele Motteggio e il Riso impuro / che fanno lacrimare l’occhio dell’Azzurro, / e tutto quest’aglio di bassa cucina! // Prendi l’eloquenza e torcigli il collo! / Bene farai, se con ogni energia / farai la Rima un poco più assennata. / A non controllarla, fin dove potrà andare? // O chi dirà i difetti della Rima? / che bambino stonato, o negro folle / ci ha fuso questo gioiello da un soldo / che suona vuoto e falso sotto la lima? // E musica, ancora, e per sempre! / Sia in tuo verso qualcosa che svola, / si senta che fugge da un’anima in viaggio / verso altri cieli e verso altri amori. // Sia il tuo verso la buona avventura / spanta al vento frizzante del mattino / che fa fiorire la menta ed il timo… / Il resto è soltanto letteratura.

E’ questa la poesia, scritta in carcere nel 1882 e pubblicata due anni dopo, che per i critici apre la stagione dei simbolisti. Verlaine, infatti, depura la poesia da ogni elemento contingente, identificandosi con la “cultura” che, sciogliendosi nell’ineffabilità della musica, finirà per riflettere se stessa. Egli rifiuta ogni aspetto intellettualistico, retorico (vedi il disprezzo della rima) per sottolineare la necessità di una poesia che s’allontani da ogni realistica precisione e cerchi come segno la vacuità e la leggerezza che marchi la differenziazione dal grigiore della quotidianità.

LANGUORE

Je suis l’Empire à la fin de la décadence,
Qui regarde passer les grands Barbares blancs
En composant des acrostiches indolents
D’un style d’or où la langueur du soleil danse.

L’âme seulette a mal au coeur d’un ennui dense.
Là-bas on dit qu’il est de longs combats sanglants.
O n’y pouvoir, étant si faible aux voeux si lents,
O n’y vouloir fleurir un peu cette existence!

O n’y vouloir, ô n’y pouvoir mourir un peu!
Ah ! tout est bu ! Bathylle, as-tu fini de rire?
Ah ! tout est bu, tout est mangé ! Plus rien à dire!

Seul, un poème un peu niais qu’on jette au feu,
Seul, un esclave un peu coureur qui vous néglige,
Seul, un ennui d’on ne sait quoi qui vous afflige!

Io sono l’Impero alla fine della decadenza, / che guarda passare i grandi barbari bianchi / componendo acrostici indolenti dove danza / il languore del sole in uno stile d’oro. // Soletta l’anima soffre di noia densa al cuore. / Laggiù, si dice, infuriano lunghe battaglie cruente. / Oh non potervi, debole e così lento ai propositi, / oh non volervi far fiorire un po’ di quest’essenza! // Oh non volervi, non potervi un po’ morire! / Ah, tutto è bevuto! Non ridi più, Batillo? / Tutto è bevuto, tutto è mangiato! / Niente più da dire! // Solo, un poema un po’ fatuo che si getta alle fiamme, / solo, uno schiavo un po’ frivolo che vi dimentica, / solo un tedio di non so che attaccato all’anima!

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Eugene Carrier: Ritratto di Verlaine

Anche questa appare essere una poesia manifesto: in essa vi è il senso della decadenza, cantato sin dalla prima strofa. Questa sensazione, che il poeta definisce Langueur (Languore), è rivolta contro una società opulenta che non sa più cantare o lo fa con retorica che sa ormai di vecchio e di stantio (grandi barbari bianchi componendo acrostici indolenti dove danza il languore del sole in uno stile d’oro). Solo lontano si combatte per la grandezza dell’Impero, mentre qui, dove egli immagina d’essere – un palazzo nobiliare di Parigi – coglie soltanto l’abbondanza di ricchi banchetti, dove, rivolgendosi a Betillo (mimo della cerchia di Mecenate) (tutto è bevuto, tutto è mangiato) egli percepisce che non c’è più niente da dire.

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Arthur Rimbaud

Arthur Rimbaud (1854–1891) fa un passo ulteriore rispetto a Verlaine. Se si deve parlare di “poeta maledetto” è a lui che bisogna far riferimento. Scappa sin da giovane età più volte da casa e viaggia, senza un soldo e a piedi, per l’Europa, sin da quando aveva sedici anni. Rimpatriato d’ufficio, va a Parigi, dove conosce Verlaine; finita la relazione con lui, fa altri pellegrinaggi. A ventisette chiude con la letteratura e con la vita parigina: va in Africa, si fa mercante (dicono anche di armi), finché muore, consumato da una cancrena al ginocchio dovuta forse alle sifilide, ad appena 36 anni.

Se Verlaine si pone come un sacerdote mistico teso ad individuare l’armonia musicale, Rimbaud si fa “veggente”. Egli infatti va alla ricerca dell’ignoto, attraverso la “sregolatezza di tutti i sensi”. Per lui che, come il suo amico/amante Verlaine, fa della sua vita un percorso che lo conduce verso l’abisso dell’esistere (fuga da casa, droghe, sperimentazione dell’abietto – cuoco, trafficante d’armi in Africa ecc.) la poesia deve iniziare là dove finisce la realtà ed inizia l’ignoto. L’immagine, infatti, si offre alla sua anima “smisurata” ed egli la rimanda attraverso una parola che acquista così il suo valore fonosimbolico.

Si pensi alla poesia Voyelles (Vocali):

VOCALI

A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles,
Je dirai quelque jour vos naissances latentes:
A, noir corset velu des mouches éclatantes
Qui bombinent autour des puanteurs cruelles,

golfes d’ombre; E, candeurs des vapeurs et des tentes,
lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons d’ombelles;
I, pourpres, sang craché, rire des lèvres belles
dans la colère ou les ivresses pénitentes;

U, cycles, vibrement divins des mers virides,
paix des pâtis semés d’animaux, paix des rides
que l’alchimie imprime aux grands fronts studieux;

O, suprême Clairon plein des strideurs étranges,
silences traversés des Mondes et des Anges:
– O l’Oméga, rayon violet de Ses Yeux!

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Arthur Rimbaud in un disegno di Pablo Picasso

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, / io dirò un giorno i vostri ascosi nascimenti: / A, nero vello al corpo delle mosche lucenti / che ronzano al di sopra dei crudeli fetori, // golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende, // lance di ghiaccio, bianchi re, brividi di umbelle; / I, porpore, rigurgito di sangue, labbra belle / Che ridono di collera, di ebbrezze penitenti; // U, cicli, vibrazioni sacre dei mari verdi, / quiete di bestie ai campi, e quiete di ampie rughe / che l’alchimia imprime alle fronti studiose. / O, la suprema Tromba piena di stridi strani, / silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi: / – O, l’Omega, ed il raggio violetto dei Suoi Occhi!

Vocali viene scritto nel 1871, quando Rimbaud ha appena diciassette anni, non per niente a livello retorico il sonetto è semplice, costruito sulla paratassi e sull’elenco (ad ogni vocale un immagine). Eppure tale poesia può essere considerata soprattutto per la sua oscurità un testo esemplarmente moderno, quasi novecentesco. La sua oscurità deriva dal fatto che ogni vocale è associata a una serie di immagini del tutto arbitrarie. Il sonetto dunque è intraducibile, nel senso che non può essere trascritto in una “versione in prosa”, cioè non può essere parafrasato, come è possibile fare quasi sempre con la poesia dell’Ottocento.

Questa poesia, infatti pur prendendo il lessico e la sintassi dalla lingua comune, costruisce frasi che, razionalmente, appaiono prive di senso. Insomma, questa e altre poesie di Rimbaud parlano un linguaggio radicalmente soggettivo, irriducibile al linguaggio degli altri, e quindi incomprensibile ai profani.

Questo deriva dalla sua concezione di poeta “veggente”: «Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sgretolamento di tutti i sensi. […] Egli giunge infatti all’ignoto!», scrive in una lettera ad un amico sempre nel 1871. Per Rimbaud cioè, partendo comunque dal Romanticismo, il poeta diventa creatura superiore, non tanto per un dono di natura, ma per una sorta di esercizio personale, di applicazione profonda e dolorosa, che gli fa vivere esperienze ignote alla gente comune e forma in lui una nuova sensibilità, lo dota di una nuova vista e di un nuovo linguaggio. Secondo Rimbaud il poeta è una sorta di profeta: ampliando e sconvolgendo le sue capacità sensoriali, infatti, egli acquisisce il dono della visionarietà. Questa qualità eccezionale gli permette di accedere all’ignoto e di descriverlo, di vedere ciò che è invisibile ai “sensi” normali e di dire ciò che non è dicibile con la lingua ordinaria. E ciò che è indicibile si può risolvere solo facendo ricorso alla sinestesia: “sinestetica è la mossa fondamentale sulla quale è costruito l’intero sonetto, basata sull’associazione di una vocale (nello stesso tempo un suono e una forma grafica, che stimolano l’udito e la vista) a un colore e poi a una serie di immagini che mescolano esperienze e percezioni diverse. Ma sinestetico in senso più generale è l’occhio di Rimbaud, un occhio che distingue, ma associa, confonde, sintetizza” (Marco Santagata)

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Jacques Bienvenu: Rimbaud convalescente a Bruxelles (dopo che Verlaine gli ha sparato, colpendolo in una mano)

Ma forse la poesia più famosa di Rimbaud è il Le bateau ivre (Battello ebbro):

IL BATTELLO EBBRO

Comme je descendais des Fleuves impassibles,
Je ne me sentis plus guidé par les haleurs:
Des Peaux-Rouges criards les avaient pris pour cibles,
Les ayant cloués nus aux poteaux de couleurs.

J’étais insoucieux de tous les équipages,
Porteur de blés flamands ou de cotons anglais.
Quand avec mes haleurs ont fini ces tapages,
Les Fleuves m’ont laissé descendre où je voulais.

Dans les clapotements furieux des marées,
Moi, l’autre hiver, plus sourd que les cerveaux d’enfants,
Je courus! Et les Péninsules démarrées
N’ont pas subi tohu-bohus plus triomphants.

La tempête a béni mes éveils maritimes.
Plus léger qu’un bouchon j’ai dansé sur les flots
Qu’on appelle rouleurs éternels de victimes,
Dix nuits, sans regretter l’oeil niais des falots!

Plus douce qu’aux enfants la chair des pommes sures,
L’eau verte pénétra ma coque de sapin
Et des taches de vins bleus et des vomissures
Me lava, dispersant gouvernail et grappin.

Et dès lors, je me suis baigné dans le Poème
De la Mer, infusé d’astres, et lactescent,
Dévorant les azurs verts; où, flottaison blême
Et ravie, un noyé pensif parfois descend;

Où, teignant tout à coup les bleuités, délires
Et rhythmes lents sous les rutilements du jour,
Plus fortes que l’alcool, plus vastes que nos lyres,
Fermentent les roussers amères de l’amour!

Je sais les cieux crevant en élairs, et les trômbes
Et les ressacs et les courants: je sais le soir,
L’Aube exaltée ainsi qu’un peuple de colombes,
Et j’ai vu quelquefois ce que l’homme a cru voir!

J’ai vu le soleil bas, taché d’horreurs mystiques,
Illuminant de longs figements violets,
Pareils à des acteurs de drames très antiques
Les flots roulant au loin leurs frissons de volets!

J’ai rêvé la nuit verte aux neiges éblouies,
Baiser montant aux yeux des mers avec lenteurs,
La circulation des sèves inouïes,
Et l’éveil jaune et bleu des phosphores chanteurs!

J’ai suivi, des mois pleins, pareille aux vacheries
Hystériques, la houle à l’assaut des récifs,
Sans songer que les pieds lumineux des Maries
Pussent forcer le mufle aux Océans poussifs!

J’ai heurté, savez-vous, d’incroyables Florides
Mêlant aux fleurs des yeux de panthères à peaux
D’hommes! Des arcs-en-ciel tendus comme des brides
Sous l’horizon des mers, à de glauques troupeaux!

J’ai vu fermenter les marais énormes, nasses
Où pourrit dans les joncs tout un Léviathan!
Des écroulements d’eaux au milieu des bonaces,
Et les lointains vers les gouffres cataractant!

Glaciers, soleils d’argent, flots nacreux, cieux de braises!
Échouages hideux au fond des golfes bruns
Où les serpents géants dévorés des punaises
Choient, des arbres tordus, avec de noirs parfums

J’aurais voulu montrer aux enfants ces dorades
Du flot bleu, ces poissons d’or, ces poissons chantants.
– Des écumes de fleurs ont bercé mes dérades
Et d’ineffables vents m’ont ailé par instants.

Parfois, martyr lassé des pôles et des zones,
La mer dont le sanglot faisait mon roulis doux
Montait vers moi ses fleurs d’ombre aux ventouses jaunes
Et je restais, ainsi qu’une femme à genoux…

Presque ile, ballottant sur mes bords les querelles
Et les fientes d’oiseaux clabaudeurs aux yeux blonds.
Et je voguais, lorsqu’à travers mes liens frêles
Des noyés descendaient dormir, à reculons!

Or moi, bateau perdu sous les cheveux des anses,
Jeté par l’ouragan dans l’éther sans oiseau,
Moi dont les Monitors et les voiliers des Hanses
N’auraient pas repêché la carcasse ivre d’eau;

Libre, fumant, monté de brumes violettes,
Moi qui trouais le ciel rougeoyant comme un mur
Qui porte, confiture exquise aux bons poètes,
Des lichens de soleil et des morves d’azur;

Qui courais, taché de lunules électriques,
Planche folle, escorté des hippocampes noirs
Quand les juillets faisaient crouler à coups de triques
Les cieux ultramarins aux ardents entonnoirs;

Moi qui tremblais, sentant geindre à cinquante lieues
Le rut des Béhémots et les Maelstroms épais,
Fileur éternel des immobilités bleues,
Je regrette l’Europe aux anciens parapets!

J’ai vu des archipels sidéraux! et des îles
Dont les cieux délirants sont ouverts au vogueur:
Est-ce en ces nuits sans fonds que tu dors et t’exiles,
Milion d’oiseaux d’or, ô future Vigueur

Mais, vrai, j’ai trop pleuré! Les Aubes sont navrantes.
Toute lune est atroce et tout soleil amer:
L’âcre amour m’a gonflé de torpeurs enivrantes.
O que ma quille éclate! O qué j’aille à la mer!

Si je désire une eau d’Europe, c’est la flache
Noire et froide où vers le crépuscule embaumé
Un enfant accroupi plein de tristesses, lâche
Un bateau frêle comme un papillon de mai.

Je ne puis plus, baigné de vos langueurs, ô lames,
Enlever leur sillage aux porteurs de cotons,
Ni traverser l’orgueil des drapeaux et des flammes,
Ni nager sous les yeux horribles des pontons.

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Locandina del film “Poeti dell’Inferno”

Mentre scendevo lungo Fiumi impassibili, / non mi sentii più guidato dai trainanti. / Dei Pellirosse chiassosi li avevano presi a bersaglio / e inchiodati nudi ai pali variopinti. // La sorte d’ogni equipaggio mi era indifferente, / recavo grano fiammingo e cotone inglese. / Quando con i trainanti ebbe fine il clamore, / discesi per quei fiumi a mio talento. // Nel furibondo sciabordio delle maree, lo scorso / Inverno, io, più sordo che cervelli di bimbi, / io corsi! E le penisole disormeggiate / non subirono mai scompigli più trionfali. // La tempesta ha benedetto i miei risvegli marittimi. / Più leggero d’un sughero ho danzato sui flutti / – che chiamano eterni avvolgitori di vittime – / dieci notti, senza rimpiangere l’occhio ebete dei fari! // Più dolce che ai fanciulli la polpa delle mele acerbe, / l’acqua verde penetrò il mio scafo d’abete / e dalle macchie di vini bluastri e dai vomiti / mi lavò, disperdendo ancora e timone. // E da allora mi trovai immerso nel poema / del mare intriso d’astri, e lattescente, / divorando i cerulei verdi; ove, fluttuazione livida / ed estatica, a volte, scende un annegato pensoso / dove, tingendo a un tratto le  azzurrità, deliri / e ritmi lenti nel giorno rutilante, / più forti dell’alcool, più vasti delle nostre lire, / fermentano gli amari rossori dell’amore! // Io so i cieli scoppianti in lampi e le trombe / e le risacche e le correnti; so la sera, / l’alba esaltata come un popolo di colombe, / e ho visto talvolta ciò che l’uomo credette di vedere. // Ho visto il sole basso, maculato di mistici orrori, / illuminare di lunghe coagulazioni violette, / simili ad attori di drammi antichissimi, / i flutti rotolanti lontano i loro brividi d’imposte. // Ho sognato la notte verde dalle nevi abbagliate, / bacio che lentamente saliva agli occhi dei mari, / la circolazione delle linfe inaudite / e il giallo-azzurro risveglio dei fòsfori canori. // Per mesi ho seguito, simile a mandrie di vacche / isteriche, il maroso all’assalto degli scogli, / senza pensare che i piedi luminosi delle Marie / potessero forzare il muso agli oceani bolsi. // Ho urtato, sapete? Contro incredibili Floride / che mischiano ai fiori occhi di pantere dalla pelle / umana! Arcobaleni tesi come briglie, / sotto l’orizzonte dei mari, a glauchi armenti. // Ho visto fermentare le paludi enormi, nasse / dove imputridisce tra i giunchi tutto un Leviatano! / Crolli d’acque in mezzo alle bonacce / e le lontananze sprofondanti verso gli abissi! // Ghiacciai, soli d’argento, onde madreperlàcee, cieli di bragia, / orridi incagli in fondo ai golfi bruni / dove serpenti giganti divorati da cimici / cadon dagli alberi contorti con neri profumi! // Avrei voluto mostrare ai fanciulli quelle orate / del flutto azzurro, quei pesci d’oro, quei pesci canori. / – Schiume di fiori han benedetto le mie fughe / E venti ineffabili m’han dato, a tratti, le ali. //  Talora, martire stanco dei poli e delle zone, / il mare, il cui singhiozzo addolciva il mio rullio, / alzava verso di me i suoi fiori d’ombra dalle ventose gialle / e io restavo come una donna in ginocchio, // penisola sballottante, sui miei bordi i litigi / e gli escrementi d’uccelli chiassosi dagli occhi biondi, e vogavo, mentre attraverso i miei fragili cavi / annegati scendevano, a ritroso, a dormire… // ora io, battello perduto sotto i capelli delle anse, / scagliato dall’uragano nell’etere senza uccelli, / io, di cui i Monitori e i velieri delle Anse // non avrebbero ripescata la carcassa ebbra d’acqua; // libero, fumante, montato da nebbie violàcee, / io che foravo il cielo rosseggiante come un muro / che porti, confettura squisita per i buoni poeti, / licheni di sole e mocci d’azzurro; // io che correvo macchiato di lùnule elettriche, / tavola folle, scortato dai neri ippocampi, / quando i lugli facevano crollare a randellate / i cieli oltremarini negli imbuti ardenti; //  io che tremavo, sentendo gemere a cinquanta leghe / la foia dei Béhemot e dei Maelstrom densi, / eterno scorridore delle immobilità azzurre, // io rimpiango l’Europa dai vecchi parapetti. // Ho visto arcipelaghi siderali! E isole / i cui deliranti cieli sono aperti al vogatore: /  – forse in quelle notti senza fondo tu dormi e t’esilii, / milione d’uccelli d’oro, o futuro Vigore? – // Ma, davvero, ho troppo pianto. Le albe sono strazianti, / ogni luna è atroce ed ogni sole amaro. / L’acre amore m’ha gonfiato di torpori inebrianti. / Oh, esploda la mia chiglia! Oh, ch’io m’inabissi nel mare! // Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera / nera e fredda dove, nel crepuscolo odoroso, / un bimbo accovacciato, e pieno di tristezza, vara / un battello fragile come una farfalla di maggio. // Non posso più, o onde, bagnato dai vostri languori, / inseguire la scia dei portatori di cotone, / né fendere l’orgoglio delle bandiere e delle fiamme, / o nuotare sotto gli occhi orribili dei pontoni.

La poesia si potrebbe dividere in tre sequenze ben precise:

  • stanze 1-5: il poeta/battello descrive la discesa; infatti i bardotti, addetti al traino del battello sono stati catturati dai pellerossa, ed il battello carico di cotone inglese e grano fiammingo, viene lasciato alla deriva, sconquassandosi e ballando sui flutti, dove risiedono corpi di vittime; i flutti del mare, oltrepassando i fianchi, gli lavano le macchie di vino e di vomito;
  • stanze 6-22: inizia il poema del mare, visionario, in cui il battello/poeta si perde in immagini: questi versi vendono suggeriti dalla libertà assoluta, dall’avventura, dall’inaudito: orrori violacei, fosfori canori, ghiacciai, soli d’argento, fiori che nascono dagli occhi di pantere; il poeta è immerso in un viaggio onirico;
  • strofe 23-28: Il sogno lo ha troppo inebriato e rimpiange l’Europa dai parapetti antichi, ma subito dopo, quasi pentendosene, vorrebbe riprendere il folle volo (direbbe Dante), e conclude con un grido di autodistruzione. Ma l’Europa non gli offre che disillusione, e se vuole riimmergersi in un sogno, quello che trova ora è una nera pozzanghera.

E’ evidente che in una poesia come questa, che a livello interpretativo non è tanto diversa da Voyalles, non ci si può aspettare una possibilità di comprensione letterale. Anzi si può dire che forse Le bateau ivre radicalizzi la tecnica analogica da evitare qualsiasi possibilità per il lettore da cercarne un significato. Già dall’inizio il fatto stesso d’identificarsi con il battello, di sentirsi in balia di un fiume impazzito, ma di “antropomorfizzarlo” a farle percepire il non percepibile (orrori mistici, linfe inaudite, fiori dagli occhi di pantere e via dicendo). A noi non rimane che seguire il flusso immaginifico, reso ancora più affascinante dalla sonorità che egli sa dare alla lingua francese. Certo il finale è come chiuso in una disillusione totale, in cui egli non può più essere altro che da sé: non può più nuotare sotto gli occhi orribili dei pontoni (oblò di una nave).

Per concludere il percorso su Rimbaud ci piace avvicinarsi ad un testo più “intimo” come appunto Les poètes de sept ans. E’ un testo che sicuramente precede la poetica visionaria sia di Voyalles che del Bateau ivre: tuttavia la sua straordinaria bellezza sta nello mescolarsi di elementi autobiografici (con tutte le idiosincrasie e le aspettative) con quelli che preannunciano la poesia posteriore di Rimbaud:
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Valentine Hugo: Disegno per la poesia di Rimbaud

LES POÈTES DE SEPT ANS

Et la Mère, fermant le livre du devoir,
S’en allait satisfaite et très fière sans voir,
Dans les yeux bleus et sous le front plein d’éminences,
L’âme de son enfant livrée aux répugnances.
Tout le jour il suait d’obéissance; très
Intelligent ; pourtant des tics noirs, quelques traits,
Semblaient prouver en lui d’âcres hypocrisies.
Dans l’ombre des couloirs aux tentures moisies,
En passant il tirait la langue, les deux poings
À l’aine, et dans ses yeux fermés voyait des points.
Une porte s’ouvrait sur le soir ; à la lampe
On le voyait, là-haut, qui râlait sur la rampe,
Sous un golfe de jour pendant du toit. L’été
Surtout, vaincu, stupide, il était entêté
À se renfermer dans la fraîcheur des latrines:
Il pensait là, tranquille et livrant ses narines.
Quand, lavé des odeurs du jour, le jardinet
Derrière la maison, en hiver, s’illunait,
Gisant au pied d’un mur, enterré dans la marne
Et pour des visions écrasant son œil darne,
Il écoutait grouiller les galeux espaliers.
Pitié! Ces enfants seuls étaient ses familiers
Qui, chétifs, fronts nus, œil déteignant sur la joue,
Cachant de maigres doigts jaunes et noirs de boue,
Sous des habits puant la foire et tout vieillots,
Conversaient avec la douceur des idiots!
Et si, l’ayant surpris à des pitiés immondes,
Sa mère s’effrayait ; les tendresses profondes,
De l’enfant se jetaient sur cet étonnement.
C’était bon. Elle avait le bleu regard, — qui ment!
À sept ans, il faisait des romans, sur la vie
Du grand désert, où luit la Liberté ravie,
Forêts, soleils, rios, savanes ! – Il s’aidait
De journaux illustrés où, rouge, il regardait
Des Espagnoles rire et des Italiennes.
Quand venait, l’œil brun, folle, en robes d’indiennes,
– Huit ans, – la fille des ouvriers d’à côté,
La petite brutale, et qu’elle avait sauté,
Dans un coin, sur son dos, en secouant ses tresses,
Et qu’il était sous elle, il lui mordait les fesses,
Car elle ne portait jamais de pantalons;
– Et, par elle meurtri des poings et des talons
Remportait les saveurs de sa peau dans sa chambre,
Il craignait les blafards dimanches de décembre,
Où, pommadé, sur un guéridon d’acajou,
Il lisait une Bible à la tranche vert-chou ;
Des rêves l’oppressaient chaque nuit dans l’alcôve.
Il n’aimait pas Dieu ; mais les hommes, qu’au soir fauve,
Noirs, en blouse, il voyait rentrer dans le faubourg
Où les crieurs, en trois roulements de tambour
Font autour des édits rire et gronder les foules.
– Il rêvait la prairie amoureuse, où des houles
Lumineuses, parfums sains, pubescence d’or,
Font leur remuement calme et prennent leur essor!
Et comme il savourait surtout les sombres choses,
Quand, dans la chambre nue aux persiennes closes,
Haute et bleue, âcrement prise d’humidité,
Il lisait son roman sans cesse médité,
Plein de lourds ciels ocreux et de forêts noyées,
De fleurs de chair aux bois sidérals déployées,
Vertige, écroulements, déroutes et pitié!
– Tandis que se faisait la rumeur du quartier,
En bas, – seul, et couché sur des pièces de toile
Écrue, et pressentant violemment la voile!

E la Madre, chiudendo il libro del dovere, se ne andava, soddisfatta e fiera senza vedere negli occhi azzurri e sotto la fronte prominente, l’anima del suo bambino zeppa di ripugnanze. Tutto il giorno sudava obbedienza; molto intelligente eppure i neri tics, le manìe, rivelavano in lui acerbe ipocrisie. Nei corridoi bui dai parati ammuffiti, lui passava con la lingua fuori, coi pugni sull’inguine, e vedeva punti dentro gli occhi chiusi. Una porta si apriva nella sera: sotto la lampada lo scoprivano lassù, sulla ringhiera, a rantolare sotto un golfo di luce appeso al tetto. Soprattutto d’estate, àtono, vinto, si ostinava a rinchiudersi nella frescura delle latrine: là pensava tranquillo saziando le narici. Quando, lavato dagli odori del giorno, l’orto dietro la casa, d’inverno, si riempiva della luce della luna steso ai piedi d’un muro, sepolto nella marna, spremendo visioni dal suo occhio intontito, ascoltava il brusio delle marce spalliere. Pietà! Era amico soltanto di quei bambini scarni che, a fronti nude, occhi stinti sulle guance, celando magre dita nere e gialle di fango, sotto vesti vecchiotte puzzolenti di sciolta, conversavano con la dolcezza degli idioti! E se, nel sorprenderlo in pietà immonde, la madre si spaventava; le tenerezze, profonde del bambino balzavano su quello stupore. Era bello. Lei aveva lo sguardo azzurro, che mentiva! A sette anni, faceva romanzi sulla vita del vasto deserto, dove splende la libertà rapita, soli, foreste, savane, rive! – Si aiutava con i giornali illustrati in cui, rosso, guardava ridere le Spagnole e le Italiane. Quando, pazza, occhi bruni, grembiulino d’indiana, – otto anni, – veniva la bambina degli operai vicini, la piccola selvaggia, scotendo le trecce, in un angolo, gli saltava a cavalcioni, lui standole di sotto le addentava le natiche, perché non portava mai le mutandine; e, pestato da lei coi pugni e coi calcagni, si portava i sapori della sua pelle in camera. Odiava le domeniche squallide, a dicembre, in cui, impomatato, su un tavolino di mogano leggeva una Bibbia dal dorso verde-cavolo. Nel letto ogni notte era oppresso dai sogni. Non amava Dio; ma gli uomini che, la sera fulva, vedeva rientrare neri, in camiciotto, al sobborgo dove i banditori al rullo dei tamburi fanno rumoreggiare e ridere ai proclami le folle. – Sognava le praterie piene d’amore, dove ondate di luce, sani profumi, pubescenze dorate, calmamente si espandono e prendono il volo! E come assaporava le cose misteriose quando, nella stanza nuda con le persiane chiuse, alta e azzurra, satura di umidi afrori, leggeva il suo romanzo sempre rimeditato, pieno di grevi cieli color ocra e foreste affogate, fiori di carne esplosi ai boschi siderali, vertigine, scoscendimenti, disfatte, pietà! – Mentre avevano inizio i rumori del quartiere, giù in basso – da solo, e steso su una pezza di tela grezza, e presentendo con violenza la vela!

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Busto di Rimbaud realizzato nella sua città natale

La poesia di Rimbaud sembra riflettere sull’essere poeta, più precisamente sul suo essere poeta, che sin da piccolo si proietta in una situazione antiborghese. La Madre rappresenta appunto la borghesia, madre fiera del figlio, ma che non si accorge che lui è attratto dalla miseria dei bimbi (occhi colmi di ripugnanze). Il giovane poeta è ipocritamente obbediente: da solo faceva boccacce verso il mondo perbenista; non per niente l’ispirazione la cerca nei luoghi isolati e addirittura nei cessi. Se la madre lo vedeva con i bambini cenciosi, lui scopriva, con occhi mentitori, lo stupore che la stessa madre provava. Sogna, con i romanzi illustrati, quelle visioni africane che tanta parte avranno sulla sua vita, vive onanisticamente il sesso, giocando in modo impudico con la figlia degli operai. E ancora la desacralizzazione dei valori (la Bibbia con copertina verde-cavolo, costretto a leggerla sul tavolo di mogano) e la voglia di sognare e immaginare mondi irreali, che da lì a poco, sarebbero esplosi con tutta la loro violenza nei profetici suoi versi.

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Auguste Renoir: Stéphane Mallarmé

Ancora un passo ulteriore ce lo offre Stéphane Mallarmé (1842-1899). Egli non vive in modo disordinato come i suoi solidali colleghi (è un semplice professore d’inglese, sposato, che vive una vita ritirata e senza clamori), ma approfondisce in modo netto l’impossibilità della parola di rimandarci ad un frammento oppure ad un tutto decifrabile. La sua poesia si fa pertanto orfica, incomprensibile ai più, in cui il lettore diventa soggetto attivo d’una personale ed individuale interpretazione. Come in questo testo del 1883 Quand l’ombre menaça:

QUANDO L’OMBRA MINACCIO’

Quand l’ombre menaça de la fatale loi
Tel vieux Rêve, désir et mal de mes vertèbres,
Affligé de périr sous les plafonds funèbres
Il a ployé son aile indubitable en moi.

Luxe, ô salle d’ébène où, pour séduire un roi
Se tordent dans leur mort des guirlandes célèbres,
Vous n’êtes qu’un orgueil menti par les ténèbres
Aux yeux du solitaire ébloui de sa foi.

Oui, je sais qu’au lointain de cette nuit, la Terre
Jette d’un grand éclat l’insolite mystère
Sous les siècles hideux qui l’obscurcissent moins.

L’espace à soi pareil qu’il s’accroisse ou se nie
Roule dans cet ennui des feux vils pour témoins
Que s’est d’un astre en fête allumé le génie.

Quando minacciò l’ombra della legge ineluttabile / un vecchio Sogno, alle vertebre desiderio e ferita, / sotto le volte funebri affranto di perire / esso in me la sua ala ripiegò indubitabile. // Lusso! Salotto d’ebano, dove a sedurre un re / nella morte si torcono celebrate ghirlande, / non siete che superba mentita dalle tenebre / per chi dalla sua fede, solitario, è abbagliato. // Sì, io so che al largo di questa notte la Terra / d’un gran falò proietta l’insolito mistero / di fra i secoli sordi che l’oscurano meno. // Lo spazio eguale a sé, che si neghi o che s’accresca // in questa noia rotea vili fuochi che attestino / l’accendersi del genio, luce da un astro in festa.

Potremo definirla una poesia “spirituale” dove nelle quartine i verbi al passato segnano quasi l’annichilimento nel poter trovare fede nella poesia: tale incapacità viene poi segnata anche a livello coloristico (volte funebri, ebano, tenebre) a cui rispondono le terzine con i verbi al presente ed un guizzo di luce (falò, luce di un astro in festa). E’ nell’interpretazione forse più banale, l’idea che la poesia sia in grado di cogliere il mistero, diventando creatrice e trionfando fra i secoli sordi, raggiungendo lo scopo più profondo della poesia simbolista.

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Pagina originale di Mallarmé

Ma il suo capolavoro è Un colpo di dadi non abolirà mai caso, in cui scompone la forma poesia destrutturandola in parole solitarie in una pagina divisa in cui il bianco predomina. Il testo poetico è “visivo”: le parole non sono più poste in versi, ma compongono un “disegno” attraverso i diversi caratteri topografici. Esse cadono, come fa il caso, nella pagina, a dimostrazione dell’impossibilità di una razionalità della realtà, guidata dalla pura e semplice casualità (anticipa in questo modo le soluzioni formali della poesia futurista).

Estetismo
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Dandismo del XIX secolo

Ad offrirci un collegamento tra l’estetismo, che appare nelle opere narrative di Walter Pater, Joris-Karl Huysmans ed Oscar Wilde (e, naturalmente, il nostro Gabriele D’Annunzio) ed il simbolismo poetico, sarà Charles Baudelaire in uno scritto in cui recensendo l’opera del pittore Costantin Guys, ci dà la definizione di dandy:

BAUDELAIRE: da “SCRITTI SULL’ARTE”

Questi esseri non hanno altro stato che quello di coltivare l’idea del bello nella propria persona, di soddisfare le proprie passioni, di sentire e di pensare. Posseggono cosi, a loro piacere e in larga misura, il tempo e il denaro, senza di che la fantasia, ridotta allo stato di un sogno vago e passeggero, non può di solito tradursi in azione. (…) Essa è prima di tutto l’ardente bisogno di crearsi un’originalità, entro i limiti esteriori delle convenzioni sociali. È una specie di culto di sé, che può sopravvivere alla ricerca della felicità da trovare nell’altro, a esempio, nella donna; e che può sopravvivere persino a tutto ciò cui si dà il nome di illusioni. È il piacere di stupire e la soddisfazione orgogliosa di non essere mai stupiti. Un dandy può essere un uomo cinico, può essere un uomo che soffre, ma anche in questo caso, egli sa sorridere come lo Spartano addentato dalla volpe (…) Questi uomini possono farsi chiamare raffinati, favolosi, magnifici, leoni o dandy, ma tutti vengono da una stessa origine; partecipano del medesimo carattere di opposizione e di rivolta; sono rappresentanti di ciò che vi è di migliore nell’orgoglio umano, del bisogno, troppo raro negli uomini di oggi, di combattere e distruggere la volgarità.

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Jean-Louis Forain: Ritratto di Joris-Karl Huysmans

Se il dandy è colui che con la propria vita estremamente raffinata ed elegante s’oppone alla mediocrità dello spento borghese (il positivista animato dallo spirito del progresso, che a volte si traduce dallo spirito del denaro), l’Estetismo è l’atteggiamento che lo contraddistingue, facendo della bellezza l’essenza stessa della propria vita. E’ da tale spirito che parte Joris-Karl Huysmans (1848-1907), che nel romanzo À rebours, in italiano Controcorrente o A ritroso, pubblicato nel 1884, individua la tipologia dell’esteta decadente:

Jean Des Esseintes, ultimo discendente di una nobile famiglia, è un trentenne anemico e nevrastenico. Votato sin dalla gioventù alle dilettazioni estetiche decide, dopo aver cercato invano nel vizio soddisfazioni alla sua inquietudine, di ritirarsi dalla vita reale. In provincia, a Fontenay-aux-Roses, si crea un rifugio rispondente ai suoi gusti: pareti decorate con stoffe rare, finestre ornate di vetri gotici, mobili fastosi, quadri caratterizzati da un fantastico morboso, piante rarissime che imitano quelle finte. La biblioteca fa larga parte ai testi della decadenza latina, Petronio e Apuleio, e ai mistici di tutte le epoche; ma anche alla letteratura moderna, Mallarmé, Baudelaire, Verlaine. In questo stravagante e paradossale ambiente, posto sotto il segno dell’artificio, Des Esseintes comincia col rievocare come in sogno le proprie esperienze, poi, in preda a veri e propri incubi, è assalito da una grave forma di nevrosi. Costretto, per guarire, a rinunciare al suo isolamento, implora il miracoloso soccorso del Dio dei cristiani: le sue tendenze verso l’artificio forse non erano altro che slanci verso un ideale, verso una beatitudine lontana.

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Illustrazioni per À rebours

NELLA STANZA DI DES ESSEINTES

Non c’erano, secondo lui, che due modi d’arredare la camera da letto: o se ne faceva un’eccitante alcova, un luogo di dilettazioni notturne; oppure un ambiente di solitudine e di riposo, un ritiro propizio alla meditazione, una specie di oratorio.
Nel primo caso lo stile Luigi XV s’imponeva ai raffinati, agli individui, in particolare, esauriti da erotismi cerebrali. Solo il Settecento ha saputo infatti circondare la donna di un’atmosfera viziosa, dare al mobilio la grazia delle sue curve, comunicare al legno, al rame – con l’’ondularlo e torcerlo – qualche cosa dei suoi atteggiamenti, dei suoi spasimi nel piacere, drogando il languore dolciastro della bionda, mediante una decorazione vivace e chiara; attenuando il sapido della bruna con tappezzerie blande, acquose, quasi sciape. Una camera di questo genere egli l’aveva avuta a Parigi. Vi aveva allogato un vasto letto bianco laccato, che costituiva un piccante di più, una depravazione di vecchio libertino che nitrisce davanti alla finta innocenza, all’ipocrito pudore delle minorenni di Greuze, che s’impenna davanti al fittizio candore d’un letto sporcaccione che sa di bimba e d’adolescente.
Nell’altro caso – il solo adottabile adesso che intendeva romperla con gli eccitanti ricordi del passato – della camera bisognava fare una cella; ma allora sorgeva un mucchio di difficoltà, visto che non poteva, lui almeno, rassegnarsi all’austero squallore dei ritiri di penitenza e di preghiera.
A forza di esaminare il problema d’ogni lato, venne a concludere che la soluzione non poteva essere che questa: con oggetto fastosi aggeggiare un ambiente triste; o piuttosto, mantenendo alla stanza il carattere di squallore, dargli nell’insieme una specie di eleganza e distinzione; fsare il contrario di ciò che fa il teatro; dove tessuti andanti la pretendono a stoffe costose e di lusso; ottenere l’effetto opposto, servendosi di magnifiche stoffe che dessero l’impressione di cenci; allestire insomma una camera che avesse l’aria di una cella di un certosino, ma, beninteso, solo l’aria.
Ecco come fece. Per imitare l’intonaco color ocra, il giallo amministrativo e clericale, fece parare i muri di seta zafferano; per mantenere lo zoccolo color cioccolato, solito in tali ambienti, rivestì le pareti d’assiti di un violetto, incupito d’amaranto.
L’effetto era incoraggiante: ricordava benissimo, non esaminato da vicino, l’urtante rigidità del modello che seguiva trasformandolo.
Il soffitto fu a sua volta tappezzato da bianco crudo, in modo da simulare il gesso, senza averne, tuttavia gli striduli lucori. Quanto a quello che doveva essere un gelido pavimento della cella, gli fu facile ottenerlo grazie ad un tappeto rosso a quadri; le lacune biancastre, lasciate qua e là di proposito nella lana, simulavano assai bene il logorio prodotto da scarpe e da sandali.
Ammobiliò la stanza d’un lettuccio di ferro, d’un falso giaciglio di cenobita, messo insieme da vecchi ferri battuti e bruniti; lo nobilitavano, alla testa ed ai piedi, folti fregi: tulipani in pieno sboccio intrecciati a pampini, provenienti dalla superba ringhiera di un antico palazzo.
Come tavolino da notte adottò un antico inginocchiatoio, che poteva celare un vaso e sul quale posava un eucologio. In faccia, appoggiò alla parete un banco da fabbricieri, sormontato da un alto baldacchino, lavorato a traforo, guarnito di tarsie corali. I candelabri chiesastici li fornì di candele di cera vergine; se le procurava da una Ditta specializzata in oggetti sacri; per la candela stearica come per il petrolio, il gaz, l’acetilene e tutti insomma i mezzi moderni d’illuminazione, così vistosi e brutali, egli nutriva una spiccata avversione.
Destandosi all’alba o prima d’addormentarsi, poteva contemplare, senza neanche alzare il capo dall’origliere il suo Theotocopuli; l’atroce colore del Cristo castigava il sorriso della seta gialla, la richiamava a maggiore serietà. E Des Esseintes si credeva allora a cento miglia da Parigi, lontano dal mondo, seppellito in fondo ad un chiostro.
E in fin dei conti l’illusione non era difficile: era forse molto diversa da quella d’un frate la vita che conduceva?
Della vita conventuale aveva i vantaggi senza subirne gli incovenienti: che sono la disciplina soldatesca, la poca cura della persona, la sporcizia, la vita in comune con altri, la monotonia del non far niente.
Come s’era fatto della cella una camera riscaldata e provvista di comodi, così s’era reso la vita tranquilla, dolce, libera, occupata e piena di benessere.
Non meno d’un eremita, egli era maturo per l’isolamento, affranto della vita, più nulla attendeva da essa. Non meno d’un monaco, sentiva un’immensa stanchezza, il bisogno di raccogliersi, il desiderio di non aver più nulla in comune col prossimo; composto, ai suoi occhi, di profittatori e d’imbecilli.
Insomma, sebbene non sentisse alcuna vocazione per quello stato di grazia, nutriva una vera simpatia per il frate che si chiude in un convento, per il monaco perseguitato da un’astiosa società, che non gli perdona né il sacrosanto disprezzo che egli ha per essa, né la volontà che egli professa di riscattare, d’espiare col silenzio, la sempre crescente sfacciataggine dei suoi vaniloqui stupidi o assurdi.

La stanza diventa lo specchio del modo d’essere di Des Esseintes: infatti arredarla risponde al suo bisogno di solitudine che è meditazione e fuga dalla mediocrità. Ma è anche ricerca di estrema sofisticatezza che equivale in lui nel gusto dell’artificio, cioè del rendere il falso più vero del vero. Des Esseintes più che un tardo romantico che cerca nella raffinatezza l’Ideale, sembra più un amante del barocco in cui la rappresentazione artistica diventa l’unica realtà. Per il francese non si tratta di fare un’altra realtà, purché artefatta, ma viceversa di fare dell’ideale di bellezza il proprio modo d’essere e di vivere. E’ la bellezza è nel nascondersi e nello scoprire dove essa si nasconde: infatti tutto è falsamente modesto, ma a guardar bene, tutto è estremamente elegante, rarefatto. Se vi è un punto di contatto fra la stanza costruita come fosse di un frate certosino e la sua vita raffinata e contro il modo di concepire la vita in modo borghese, che per Huysmans equivale in modo positivista.

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Parigi fine ‘800

LA DISPERATA SOLITUDINE

Inutile illudersi: nessuna proda, nessuna rada s’offriva allo sguardo, cui sperar d’approdare.
Che sarebbe di lui a Parigi, dove non contava né parenti né amici? Nulla più lo legava a quel sobborgo di Saint-Germain, sbriciolantesi in polvere per decrepitezza, tremante di marasma senile, vuota reliquia del passato superstite ad una società che gli ribolliva d’intorno. E che cosa d’altronde poteva esserci di comune tra lui e quella borghesia che s’era fatta a poco a poco, profittando per arricchirsi di tutti i disastri, suscitando catastrofi pur d’imporre il rispetto dei suoi misfatti e delle sue ruberie?
Dopo quell’aristocrazia del sangue, era oggi la volta dell’aristocrazia del danaro. Oggi su tutto imperava la Bottega, trionfava il dispotismo di rue du Sentier, spadroneggiava il mercante, vanitoso e truffatore per istinto, limitato e venale di animo.
Con meno scrupoli e maggiore codardia della nobiltà spogliata e del clero decaduto, la borghesia si appropriava delle due caste la frivola ostentazione e l’effimera prosopopea, avvilendole entrambe col suo manco di creanza; convertendo i difetti di quelle in ipocriti vizi. Autoritaria e sorniona, bassa e vigliacca, essa infieriva senza pietà contro l’eterna necessaria sua vittima, il popolino, cui pure aveva di sua mano tolta la museruola e che aveva appostato perché saltasse alla gola delle vecchie caste.
Ormai era cosa fatta. Ormai che il servizio lo aveva reso, la plebe era stata salassata per misura d’igiene sino all’ultima goccia: e il borghese rassicurato spadroneggiava allegramente, armato del suo danaro, forte della sua contagiosa stupidità.
Conseguenza della sua salita al potere, era stata la mortificazione d’ogni intelligenza, la fine di ogni probità, la morte d’ogni arte. Gli artisti umiliati, s’eran buttati ginocchioni a divorar di baci i fetidi piedi dei grandi sensali e dei vili satrapi, delle cui elemosine campavano.
Nella pittura, era un dilagare d’invertebrate scempiaggini, nella letteratura, il trionfo dello stile più piatto, delle idee più evirate. Come avrebbe infatti potuto fare a meno d’onorabilità l’affarista imbroglione? di virtù, il filibustiere che dava la caccia ad una dote pel figlio, mentre si rifiutava di sborsare quella della figlia? di amor celeste, il volterriano che accusava il clero di violenze carnali, mentre lui andava in stanze equivoche ad annusare, ipocritamente stupidamente acqua sporca di catinelle, sciapo pepe di sottane sporche?
Era insomma la galera in grande dell’America trapiantata nel nostro continente; era l’inguaribile incommensurabile pacchianeria del finanziere e del nuovo arrivato che splendeva, abbietto sole, sulla città idolatra che vomitava, ventre a terra, laidi cantici davanti all’empio tabernacolo delle Banche.
“E crolla dunque una buona volta, Società! Crepa dunque, barbogio mondo!” uscì a gridare Des Esseintes, stomacato dallo spettacolo che evocava.
Lo sfogo lo liberò dall’incubo.
“Ah” fece. “E dire che tutto questo non è un sogno! che davvero sto per rientrare nel pigia pigia di questo mondo turpe e servile!”
Non gli serviva richiamare a mente, per confortarsi, le consolanti massime di Schopenauer, ripetersi il doloroso assioma di Pascal: “Quando l’anima si mira intorno, nulla scorge che non la affligga.” Quelle parole echeggiavano ora in lui come suoni privi di senso, la sua angoscia le sbriciolava, toglieva loro ogni significato, ogni virtù di sollievo, ogni efficacia, ogni dolcezza.
S’accorgeva insomma che le conclusioni cui giungeva il pessimismo erano anch’esse impotenti a consolarlo; che solo l’impossibile fede in un’altra vita avrebbe potuto dargli la pace.
Tentava di trincerarsi nell’apatia, faceva sforzi per rassegnarsi: tentativi che spazzava ogni volta via un impeto d’ira, come foglie l’uragano.
Inutile dissimularsi la realtà. Più nulla, più nulla restava in piedi: tutto giaceva a terra; come già a Clamart, la borghesia mangiava a crepapelle su un tovagliolo di carta imbandito sulle ginocchia, sotto le maestose rovine della Chiesa, diventata luogo d’appuntamenti, cumulo di macerie, insozzato da turpi lazzi, da facezie oscene. Che forse a dimostrare una buona volta che esisteva, il tremendo Iddio della Genesi e il pallido Dischiodato del Golgota erano in procinto di scatenare i mai più visti cataclismi? Stavano per riaccendere le piogge di fuoco che arsero un tempo le genti reprobe, le città morte? oppure la marea di fango avrebbe continuato a salire, a coprire della sua pestilenza questo vecchio mondo dove non attecchivano più che sementi d’iniquità, dove non lussureggiavan più che messi di obbrobrio?
Ad un tratto la porta di casa venne spalancata; laggiù, nel suo vano, uomini s’inquadrarono, che avevan le guance rase, una moschetta sotto il labbro inferiore, un berrettaccio per copricapo. Maneggiavano casse, trasportavano mobili. Quindi la porta si richiuse alle spalle del domestico, carico di pacchi e di libri.
Des Esseintes s’afflosciò su una sedia.
“Tra due giorni sarò a Parigi. Confessiamocelo: tutto è finito. Come in un maremoto, i flutti della umana mediocrità arrivano al cielo. Un momento ancora e inghiottiranno il porticciolo di cui io stesso apro le dighe. Ah che mi manca il coraggio! ah che il cuore mi si impenna!
Signore, abbiate pietà del cristiano che dubita, dell’incredulo che vorrebbe credere, del forzato della vita che s’imbarca solo nella notte, sotto un cielo che non rischiaran più i consolanti fari dell’antica speranza!”

In questo passo “la polemica contro la volgarità borghese, contro la mercificazione di ogni prodotto artistico e il volgare appiattimento del gusto tocca un livello di rancorosa violenza. Ma è anche vero che Huysmans tocca il fondo del solipsismo e ne sente la precarietà: la disperazione di vivere sotto un cielo che non rischiaran più i consolanti fari dell’antica speranza, l’ansia di un superamento del dell’individualismo decadente sono evidentissime nelle ultime righe. Qualche anno dopo Huysmans si convertiva al cristianesimo, dando così ragione al suo contemporaneo Barbey d’Aubervilly che aveva scritto: Dopo un tal libro non resta all’autore che scegliere tra spararsi una rivoltellata o gettarsi ai piedi della Croce. (Guglielmino)

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Oscar Wilde

L’altro grande autore dell’estetismo europeo è l’inglese Oscar Wilde (1854-1900). Esteta, eccentrico, ricercato nei salotti inglesi e francesi. Viaggiatore in Europa conosce Costance Lloyd che sposa nel 1884 e dalla quale ha due figli. Per loro scriverà Il principe felice ed altre storie. Separatosi dalla moglie comincia una relazione con Alfred Douglas, figlio di un marchese. Quest’ultimo intenterà un processo contro Oscar Wilde per omosessualità, che fece molto scalpore. Lo scrittore venne condannato per due anni e. dopo esserne uscito, verrà rifiutato da tutti coloro che precedentemente lo avevano acclamato. Si rifugia in Francia dove, in miseria, dedito all’alcol e per una malattia venerea contratta in gioventù, muore ad appena 55 anni.

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Wilde con la moglie e il primo figlio

Wilde è uno scrittore piuttosto versatile, famoso per le sue opere teatrali, tra cui ricordiamo Lady Windermere’s Fan (Il ventaglio di Lady Windermere) (1892); The Importance of Being Earnest (L’importanza di chiamarsi Ernesto) (1895) e Salomé (in francese) (1893).

Per la prosa si ricordano, oltre le fiabe del principe felice (1888), altri racconti raccolti nel volume Lord Arthur Savile’s Crime and Other Stories (1891) (che contiene anche Il fantasma di Canterville);

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Oscar Wilde e Alfred Douglas

Ma il suo capolavoro è soprattutto The picture of Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray) (1891):

Il pittore Basil Hallward ha ritratto il giovane Dorian Gray, di eccezionale bellezza. Dorian, ossessionato dall’idea di invecchiare e perdere la sua avvenenza, ottiene, grazie a un sortilegio, che ogni segno che il passare del tempo e i vizi gli potrebbero lasciare sul viso, compaiano solo sul ritratto. Avido di piaceri e influenzato dal suo cinico compagno Henry Wotton, si abbandona allora agli eccessi più sfrenati, senza che alcuna traccia della sua abiezione alteri la perfezione e la freschezza del suo viso. E poiché Hallward gli rimprovera tanta vergogna, lo uccide. Ma a questo punto il volto spaventevole del ritratto diventa l’atto di accusa più spietato per Dorian, che in un impeto di disperazione lo squarcia con una pugnalata. Ma è lui a cadere morto: le fattezze dei ritratto tornano ad essere quelle del Dorian giovane e puro di un tempo, mentre a terra giace un vecchio osceno e disgustoso.

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Lowell Gilmore in un film del 1945 tratto dall’opera di Wilde

Per anni, Dorian Gray non riuscì a liberarsi dall’influenza di questo libro. O forse sarebbe più preciso dire che non cercò mai di liberarsene. Si procurò da Parigi non meno di nove copie in carta di lusso della prima edizione, e le fece rilegare in colori diversi, affinché potessero adattarsi ai suoi vari stati d’animo e alle fantasie mutevoli di una natura su cui gli sembrava, delle volte, d’aver perduto interamente il controllo. L’eroe, il meraviglioso giovane parigino, in cui i temperamenti romantico e scientifico erano così stranamente miscelati, divenne per lui una specie di tipo che prefigurava se stesso. e, veramente, l’intero libro gli parve contenere la storia della sua propria vita, scritta prima che l’avesse vissuta.
In un punto fu più fortunato del fantastico eroe del romanzo. Non conobbe mai – né infatti ebbe mai modo di conoscere – quel terrore un po’ grottesco per gli specchi, le superfici levigate di metallo e l’acqua stagnante che invase il giovane parigino così presto nella sua vita, e che era causato dall’improvviso decadimento di una bellezza che un tempo, apparentemente, era stata notevole. Con gioia quasi crudele – e forse in quasi ogni gioia, come di certo in ogni piacere, la crudeltà ha il suo posto – era solito leggere la parte finale del libro, con il suo racconto davvero tragico, anche se piuttosto eccessivo nell’enfasi, del dolore e della disperazione di uno che aveva perso in sé ciò che in altri, e nel mondo, aveva più caramente apprezzato.
Perché la meravigliosa avvenenza che aveva tanto affascinato Basil Hallward, e molti altri oltre a lui, pareva non abbandonarlo mai. Persino quelli che avevano sentito le peggiori cose sul suo conto – e ogni tanto strane indiscrezioni sul suo stile di vita circolavano per Londra e diventavano oggetto di pettegolezzo nei club – non riuscivano a credere a niente di infamante quando lo vedevano. Aveva sempre l’aspetto di uno che si era conservato incontaminato dal mondo. Gli uomini che parlavano in modo volgare si zittivano appena Dorian entrava nella stanza. Nella purezza del suo viso c’era qualcosa che li rimproverava. La sua semplice presenza sembrava rammentargli il ricordo dell’innocenza che loro avevano sporcato. Si chiedevano come una creatura così incantevole e graziosa avesse potuto sfuggire la macchia di un’epoca che era insieme sordida e sensuale.
Spesso, tornando a casa da una di quelle misteriose e prolungate assenze che davano adito a certe strane congetture tra quelli che erano suoi amici, o pensavano di esserlo, saliva quatto quatto fino alla stanza chiusa, apriva la porta con la chiave da cui non si separava mai, e restava in piedi, con uno specchio, di fronte al ritratto che Basil Hallward gli aveva dipinto, guardando ora il volto malvagio e invecchiato sulla tela, ora il bel viso giovane che gli rideva dallo specchio lucido. La nettezza stessa del contrasto ravvivava il suo senso del piacere. Si innamorava sempre più della sua bellezza, e sempre più s’interessava alla corruzione della sua anima. Esaminava con cura minuziosa, e talvolta con un godimento mostruoso e terribile, le linee orrende che solcavano la fronte rugosa o avanzavano lentamente intorno alla bocca carnosa e sensuale, chiedendosi a volte cosa fosse più orribile, i segni del peccato o quelli dell’età. Metteva le sue bianche mani accanto alle mani ruvide e gonfie del ritratto, e sorrideva. Sbeffeggiava il corpo deforme e le membra cascanti.
In effetti, c’erano dei momenti, la sera, in cui, giacendo insonne nella sua camera delicatamente profumata, o nella sordida stanza della piccola taverna vicina ai Docks che frequentava di solito sotto falso nome e camuffato, rifletteva sulla rovina che aveva arrecato alla sua anima con una pietà tanto più acuta in quanto puramente egoista. Ma momenti come questi erano rari. Quella curiosità per la vita che Lord Henry aveva suscitato per primo in lui, quando sedettero insieme nel giardino del loro amico, sembrava aumentare con la gratificazione. Più conosceva, più desiderava conoscere. Aveva appetiti folli che divenivano più famelici appena venivano alimentati.
Eppure non era veramente spericolato, almeno nei suoi rapporti sociali. Una o due volte al mese durante l’inverno, e ogni mercoledì sera nella stagione mondana, apriva all’alta società la sua splendida casa e invitava i concertisti più famosi del momento per deliziare gli ospiti con le meraviglie della loro arte. Le sue cene per pochi intimi, alla cui preparazione Lord Henry lo assisteva sempre, erano famose sia per la selezione scrupolosa degli invitati, che per il gusto squisito mostrato nella decorazione della tavola, con la sua sottile disposizione sinfonica di fiori esotici, le tovaglie ricamate e i piatti antichi d’oro e d’argento. Ed erano in molti, specie tra i più giovani, che vedevano, o credevano di vedere in Dorian Gray l’autentica realizzazione di un ideale che avevano spesso sognato quand’erano a Eton o Oxford, un ideale che doveva accordare qualcosa della vera cultura dello studioso con tutta la grazia, la distinzione e i modi perfetti di un cittadino del mondo. A loro Dorian appariva uno della schiera di quelli che Dante descrive come coloro che hanno cercato di “rendersi perfetti con l’adorazione del bello”. Come Gautier, egli era uno per cui “il mondo visibile esisteva”.  
E, certamente, secondo lui la vita stessa era la prima, la più grande di tutte le arti, quella per cui tutte le altre non erano che una preparazione. La moda, grazie alla quale ciò che è realmente fantastico diventa per un momento universale, e il dandismo che, a modo suo, è un tentativo di far valere l’assoluta modernità della bellezza, avevano, naturalmente, il loro fascino per lui. Il suo modo di vestire e gli stili particolari che di tanto in tanto esibiva, influenzavano notevolmente i giovani raffinati dei balli di Mayfair e alle finestre dei club Pall Mall, che lo copiavano in tutto ciò che faceva e cercavano di riprodurre il fascino accidentale delle sue graziose stravaganze, anche se lui le considerava di poco conto.
Infatti, mentre era fin troppo pronto ad accettare la posizione che gli fu offerta quasi immediatamente raggiunta la maggiore età, e trovava, anzi, un sottile piacere al pensiero di poter davvero diventare per la Londra del suo tempo ciò che per la Roma imperiale di Nerone era stato una volta l’autore del Satyricon, tuttavia in fondo al cuore desiderava essere qualcosa di più di un semplice arbiter elegantiarum, da consultarsi su come si indossa un gioiello, si fa il nodo alla cravatta o si tiene il bastone a passeggio. Lui cercava di elaborare un nuovo schema di vita con una sua filosofia ragionata e i suoi principi ordinati, e che avrebbe trovato nella spiritualizzazione dei sensi la sua più alta realizzazione.
Il culto dei sensi è stato spesso, e a buon diritto, denigrato, perché gli uomini provavano un istinto naturale di terrore nei confronti delle passioni e delle sensazioni che sembrano più forti di loro e che sono consci di condividere con le forme d’esistenza meno organizzate. Ma a Dorian Gray sembrava che la vera natura dei sensi non fosse mai stata compresa, e che i sensi erano rimasti selvaggi e animaleschi solo perché il mondo aveva cercato di sottometterli per fame o ucciderli con la sofferenza, invece di puntare a farne degli elementi di una nuova spiritualità, la cui caratteristica dominante dovesse essere un istinto raffinato per la bellezza. A considerare il cammino dell’uomo nella storia, era assillato da un sentimento di perdita. A quanto si era rinunciato! E lo scopo era così minimo! C’erano state rinunce folli e intenzionali, forme mostruose di autotortura e di autonegazione, la cui origine era la paura e il cui risultato era una degradazione infinitamente più terribile di quella degradazione fantastica dalla quale, nella loro ignoranza, avevano cercato di sfuggire; la Natura, nella sua meravigliosa ironia, spingeva l’anacoreta a nutrirsi insieme agli animali selvaggi del deserto e dava all’eremita le bestie dei campi come compagni.
Sì: ci sarebbe stato, come Lord Henry aveva profetizzato, un nuovo edonismo che avrebbe ricreato la vita salvandola da quel severo e brutto puritanesimo che ai giorni nostri sta avendo la sua curiosa ripresa. Di certo, avrebbe avuto al suo servizio l’intelletto, ma non avrebbe mai accettato alcuna teoria o sistema che comportasse il sacrificio di una qualsiasi forma di esperienza appassionata. Difatti, il suo scopo sarebbe stata l’esperienza stessa e non i frutti dell’esperienza, dolci o amari che fossero. Sarebbe stato ignaro dell’ascetismo che mortifica i sensi, come della volgare dissolutezza che li ottunde. Ma avrebbe insegnato all’uomo a concentrarsi sugli attimi di una vita che è già di sé un attimo.

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Locandina di un film recente sempre tratto dal libro di Wilde

Il passo ci fa capire l’influenza che il romanzo di Huysmans ebbe in Europa: il personaggio di Wilde né è soggiogato, ma, nonostante ciò è superiore: se Des Esseintes odia gli specchi e quindi odia vedere su di sé il trascorrere degli anni, questo a Dorian non accade e l’immagine che vede di sé gli dà l’idea d’essere superiore, una potenza che gli permette l’impunità, nonostante egli voglia sperimentare il vizio, anch’esso come forma di totalità di una vita costruita sull’eccezionalità. Infatti la bellezza per Dorian Gray si deve ottenere con un raffinamento del piacere, perché non basta essere dandy, cioè maestro indiscusso di bellezza, ma conoscere e conoscere lo porta a superare ogni inibizione. E tale “filosofia” in qualche modo compiace anche Wilde che non riesce a staccarsi completamente dal personaggio, nonostante qualche (necessario, in epoca vittoriana) drastico giudizio, che mal nasconde l’approvazione verso il comportamento del suo giovane eroe.

 

GIOVANNI VERGA

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Giovanni Verga

Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840, da Giovan Battista, nobile e agiato proprietario agrario di cultura liberale e da Caterina di Mauro, di famiglia borghese. La sua prima formazione avviene nella scuola privata di Antonino Abate che lo avvicina ai valori patriottici rafforzati in parte da letture sulla poesia risorgimentale e dal valore civile. Non ottiene una forte formazione filologica, quanto piuttosto sulla letteratura contemporanea: tra queste predilige quella francese diventando un appassionato lettore di Eugéne Sue e di Alexander Dumas père e fils (tutti riconducibili al romanzo storico e popolare). Questa cultura viene riportata nei suoi primi tentativi letterati come Amore e patria (scritto tra i 16 e i 17 anni, rimasto inedito), I carbonari della montagna pubblicato a proprie spese nel 1861; Sulle lagune, pubblicato in rivista nel 1863. Più che opere minori si potrebbe parlare di una prima esperienza verghiana, che quasi nulla ci dice dell’autore futuro, ma che mostra sin da giovane la voglia d’esprimersi, pur richiamandosi ad autori dei feuilletons francesi, e da altri facenti parte di un romanticismo minore mescolato a tentativi di letteratura popolare (ci viene in mente Francesco Domenico Guerrazzi, prolifico autori di racconti e romanzi apparsi sia in volume che nei giornali dell’epoca). Nel 1858 si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, che poi abbandona per far parte della Guardia Nazionale, sorta per evitare disordini dopo l’arrivo di Garibaldi in città. Sempre a Catania, fonda, insieme ad alcuni amici, la rivista “Roma degli italiani”.

Nel 1865 decide di trasferirsi a Firenze, allora capitale d’Italia: di questa città sente l’attrazione per la vita mondana che vi si conduce, per gli intellettuali che vi risiedono e che comincia a frequentare, tra i quali ci piace ricordare l’eccentrico Vittorio Imbriani e, amicizia più determinante, Luigi Capuana. Scrive Una peccatrice (1866), in cui, dietro la storia di Pietro Brusio si nasconde in realtà Verga stesso, e Storia di una capinera, uscito dapprima a puntate su una rivista e poi definitivamente in volume nel 1871, che ottiene un clamoroso successo e gli apre le porte a prospettive più ampie.

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Romanzo epistolare in cui la protagonista scrive ad una amica. All’inizio Maria accetta senza reticenze la scelta della matrigna di entrare in convento; ma un’epidemia di colera la costringe ad uscire e a tornare, per un certo periodo di tempo, in famiglia. Qui assapora le gioie della casa, la libertà e il sentimento d’amore per un giovane che frequenta la sua casa. Passato il colera, Maria deve rientrare in convento. Qui verrà a sapere che l’uomo di cui era innamorata sposerà la sorella. Ciò la getta in indicibile strazio e dolore che non riesce a reprimere e che la porterà in breve alla morte. 

IL VOTO MONACALE

M’avevano abbigliata da sposa, col velo, la corona, i fiori; m’avevano detto ch’ero bella. Dio mel perdoni!… io ne fui contenta soltanto per lui che mi avrebbe veduta così!… M’affacciarono alla grata della chiesa. Tu mi vedesti; io non vidi nessuno; vidi una nube di incenso, un brulichìo, molte torce che ardevano; udii l’organo che suonava. Poi chiusero la cortina, mi spogliarono di quei begli abiti, mi tolsero il velo, i fiori, mi vestirono della tonaca senza che me ne avvedessi. Io non udivo, non vedevo nulla… lasciavo fare, ma tremavo talmente che i miei denti scricchiolavano gli uni contro gli altri. Pensavo alla bella veste da sposa di mia sorella, alla cerimonia cui ella aveva dovuto assistere senza provare lo sgomento che allora m’invadeva. La cortina fu riaperta. Tutta quella gente era ancora lì, guardava, ascoltava, con un’avida curiosità che mi agghiacciava di inesplicabile terrore. Mi sciolsero i capelli e me li sentii cadere fin sulle mani che tenevo giunte; li raccolsero tutti in pugno… e allora si udì uno stridere d’acciario… mi parve che mi cogliesse il ribrezzo della febbre, ma era quella sensazione di fresco che provai sul collo allorché quella cosa fredda s’introdusse fra il volume delle mie chiome; del resto non aveva che un’idea confusa di quanto accadeva. Vidi mio padre che piangeva. Perché piangeva? Vidi mia madre, Giuditta, Gigi… Accanto a Giuditta c’era un’altra persona ch’era pallida pallida e mi guardava cogli occhi spalancati. In quel punto lo stridere di quel a cosa agghiacciata mi parve che superasse il canto dei preti, il suono dell’organo, i singhiozzi di mio padre. I capelli mi cadevano da tutte le parti a ricci, a treccie intere… e le lagrime mi cadevano dagli occhi… Allora l’organo si fece mesto, le campane parvemi che piangessero. Mi stesero sul cataletto, mi coprirono colla coltre dei trapassati. Tutte quelle figure nere mi circondarono; mi guardavano, pallide, impassibili come spettri, salmodiando, colle torcie in mano. La cortina si rinchiuse. In chiesa si udì lo scalpiccìo di tutta quella gente che se ne andava… Tutti mi abbandonavano… anche mio padre… Gli spettri mi abbracciavano, mi baciavano, avevano le labbra fredde e sorridevano senza far rumore. 

La lettera descrive all’amica Marianna il momento in cui Maria si veste della tonaca monacale. Ed è normale, per un lettore, richiamare alla memoria la figura di Gertrude, di manzoniana memoria. E’ evidente che se lo scrittore lombardo è interessato non solo al gesto riprovevole in sé, ma alla situazione politica e sociale del Seicento che lo avevano determinato, Verga rimanga ancorato a stilemi tardo romantici o per meglio dire scapigliati proprio nell’uso dell’io narrante. L’insistenza dei puntini di sospensione, la ricerca del patetico nella lentezza gestuale della protagonista, la turba che l’osserva che sembra costituire un’aurea sepolcrale e l’ultima frase che sembra ripresa da un romanzo di Tarchetti, pone Verga tra gli scrittori “popolari” al pubblico femminile, ma non sappiamo dire quanto consapevolmente. D’altra parte è lui stesso che non vuole dare una lettura sociologica al suo romanzo.

Il successo di Storia di una capinera, lo spinge a trasferirsi a Milano, dove frequenta gli ambienti della Scapigliatura. Testimonianza dell’adesione alla critica sociale del movimento milanese ce la offre l’introduzione al romanzo Eva, edito a Milano nel (1873):

Enrico Lanti è un giovane pittore che si innamora di Eva, una bellissima ballerina, ricca di fascino e di mistero, pur essendo consapevole che il suo sogno d’amore è irrealizzabile. Il sogno viceversa si avvera: Eva, conosciutolo, si innamora e abbandona il teatro per andare a vivere con lui. La monotona vita quotidiana, sulla quale pesano tra l’altro le difficoltà economiche, logora però l’iniziale passione: i due si separano ed Eva diventa l’amante del facoltoso conte Silvani. Enrico non si rassegna alla realtà e una sera, durante un veglione a teatro, abbraccia e bacia Eva. Nell’inevitabile duello che ne deriva il conte perde la vita. Enrico torna presso la famiglia in Sicilia e dopo pochi mesi, logorato da questo inestinguibile e fatale amore, muore.

INTRODUZIONE AD “EVA”

Eccovi una narrazione – sogno o storia poco importa – ma vera, com’è stata o come potrebbe essere, senza rettorica e senza ipocrisie. Voi ci troverete qualche cosa di voi che vi appartiene, ch’è il frutto delle vostre passioni, e se sentite di dover chiudere il libro allorché si avvicina vostra figlia – voi che non osate scoprirvi il seno dinanzi a lei se non alla presenza di duemila spettatori e alla luce del gas, o voi che, pur lacerando i guanti nell’applaudire le ballerine, avete il buon senso di supporre che ella non scorga scintillare l’ardore dei vostri desideri nelle lenti del vostro occhialetto tanto meglio per voi, che rispettate ancora qualche cosa. Però non maledite l’arte ch’è la manifestazione dei vostri gusti. I greci innamorati ci lasciarono la statua di Venere; noi lasceremo il cancan litografato sugli scatolini dei fiammiferi. Non discutiamo nemmeno sulle proporzioni; l’arte allora era una civiltà, oggi è un lusso: anzi un lusso da scioperati. La civiltà è il benessere, e in fondo ad esso, quand’è esclusivo come oggi, non ci troverete altro, se avete il coraggio e la buona fede di seguire la logica, che il godimento materiale. In tutta la “serietà” di cui siamo invasi, e nell’antipatia per tutto ciò che non è positivo – mettiamo pure l’arte scioperata – non c’è infine che la tavola e la donna. Viviamo in un’atmosfera di Banche e di Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è l’esuberanza di tal vita. Non accusate l’arte, che ha il solo torto di aver più cuore di voi, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create, – voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore e l’onore là dove voi non lasciate che la borsa, – voi che fate scricchiolare allegramente i vostri stivalini inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono dolori sconosciuti, che l’arte raccoglie e che vi getta in faccia.

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Toulouse Lautrec: Manifesto

Ma a tale Introduzione non succede il romanzo. Non sappiamo quali precise letture lo abbiano preceduto, ma sentiamo “spruzzati” qua e là riferimenti alla contemporanea letteratura francese (torna in mente la Nanà di Zola). Certo è che, come nel primo romanzo, anche qui il protagonista è un artista. Lì un romanziere, qui un pittore, il cui oggetto è sempre una donna “impossibile” che s’uccide per amore o fa morire per amore e chiudono ambedue con il ritorno in Sicilia, terra che non conosce la “corruzione” della civiltà e in cui rifugiarsi, scappare dalla “modernità”. Ma nel patetico racconto le Banche e di Imprese industriali dove sono? la febbre dei piaceri è l’esuberanza di tal vita più che criticata sembra agognata. Tuttavia qualcosa di nuovo nell’animo di Verga c’è e lo riprende proprio dallo spirito scapigliato: la ricerca della verità. Eccovi una narrazione – sogno o storia poco importa – ma vera, com’è stata o come potrebbe essere, senza rettorica e senza ipocrisie.

Gli altri due romanzi scritti nel periodo milanese sono Tigre reale ed Eros, ambedue del 1875. Il primo continua ad insistere su ambienti mondani e storie d’amore patetiche.

Nella prima un diplomatico e una contessa russa, cui sembra che il narratore, moralisticamente, prenda la distanza; nel secondo un marchese, di cui si racconta la fallimentare vita, fatta di amori e tradimenti (anche se in quest’ultimo percepiamo una maggiore capacità artistica, certamente non ancora matura, ma migliore rispetto alle opere precedenti).

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Raccoglitrice di olive pittura di Roberto Rimini

Nedda del 1874 sembra rappresenti una “conversione” letteraria: racconta infatti la storia di una povera raccoglitrice di olive, che ha una madre gravemente malata e che s’innamora di Janu, un giovane del suo paese che è stato a lavorare a Catania. La madre muore e fra Nedda e Janu nasce un rapporto passionale e gioioso, ma che non porta alla felicità. La giovane infatti mostra presto i segni infamanti di una gravidanza prematrimoniale e, come se non bastasse, Janu si ammala di malaria e tuttavia, per affrettare le nozze, non rinuncia a lavorare. Cade  però da un ulivo e muore tra le braccia di Nedda. La fanciulla rimane sola: abbandonata, disprezzata, sfruttata; presto le muore anche la figlioletta che ha avuto da Janu e in cui Nedda aveva riposto tutte le speranze per raggiungere una felicità che, ovviamente,  non arriva.

NEDDA

Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione. Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi, erano diventate grossolane, senza esser robuste. Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi nei terreni che si andavano dissodando; o portava dei carichi in città per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi inferiori al còmpito dell’uomo. La vendemmia, la messe, la raccolta delle olive per lei erano delle feste, dei giorni di baldoria, un passatempo, anziché una fatica. E’ vero bensì che fruttavano appena la metà di una buona giornata estiva da manovale, la quale dava bravi soldi! I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza muliebre. L’immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un’aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l’aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza. – Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. – E dei suoi fratelli in Eva bastava che le rimanesse quel tanto che occorreva per comprenderne gli ordini, e per prestar loro i più umili, i più duri servigi.

Se il racconto mostra una realtà non più alto borghese, non cambia lo stile. La descrizione della protagonista ce ne offre un piccolo esempio: la narrazione è di uno scrittore onnisciente che osserva la figura e l’autore emerge nella scelta dello sguardo: si osservi il commento Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana, dove si sottolinea il giudizio “morale” dello sfruttamento; Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, descrizione ancora abituata alle fattezze di una femme fatale, più che di una raccoglitrice d’olive. Tuttavia non bisogna tralasciare il nuovo interesse di Verga per il motivo economico dello sfruttamento, per il reale stato di abbandono delle classi povere del sud, e per l’affacciarsi del tema “positivistico” dell’ereditarietà Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. 

Nedda fa parte di una raccolta Primavera del 1877, in cui sono inserite novelle che ondeggiano tra temi antichi di amori impossibili, motivi etnografici, come in La coda del diavolo, e storie patetiche, come nel caso, appunto della povera ragazza siciliana.

Ma la vera svolta verghiana avviene nel 1880 con la raccolta di novelle Vita dei campi. Quest’opera presenta otto racconti, tutti d’ambiente siciliano, nel quale Verga s’immerge nel mondo contadino, non attraverso i singoli personaggi, ma in una più generale “contadinità”, cioè nel carattere “elementare” dei sentimenti che assume valore archetipico in una società preindustriale. Il sentimento che vi domina è l’amore come sentimento universale, che cancella ogni forma di sovrastruttura o patetismo, come era presentato, appunto, nei cosiddetti “romanzi mondani”. Si veda Fantasticheria, in cui all’amore patetico di una gentildonna della nobiltà si contrappone l’amore per la terra dei poveri marinai siciliani:

FANTASTICHERIA

Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: «Vorrei starci un mese laggiù!»
Noi vi ritornammo, e vi passammo non un mese, ma quarantott’ore; i terrazzani che spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci sareste rimasta un par d’anni. La mattina del terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e dell’azzurro, e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione, e gingillandovi impaziente colla catenella della vostra boccettina da odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che non spuntava mai. In quelle quarantott’ore facemmo tutto ciò che si può fare ad Aci-Trezza: passeggiammo nella polvere della strada, e ci arrampicammo sugli scogli; col pretesto di imparare a remare vi faceste sotto il guanto delle bollicine che rubavano i baci; passammo sul mare una notte romanticissima, gettando le reti tanto per far qualche cosa che a’ barcaiuoli potesse parer meritevole di buscarsi dei reumatismi, e l’alba ci sorprese in cima al fariglione – un’alba modesta e pallida, che ho ancora dinanzi agli occhi, striata di larghi riflessi violetti, sul mare di un verde cupo, raccolta come una carezza su quel gruppetto di casucce che dormivano quasi raggomitolate sulla riva, mentre in cima allo scoglio, sul cielo trasparente e limpido, si stampava netta la vostra figurina, colle linee sapienti che vi metteva la vostra sarta, e il profilo fine ed elegante che ci mettevate voi. – Avevate un vestitino grigio che sembrava fatto apposta per intonare coi colori dell’alba. – Un bel quadretto davvero! e si indovinava che lo sapeste anche voi, dal modo in cui vi modellaste nel vostro scialletto, e sorrideste coi grandi occhioni sbarrati e stanchi a quello strano spettacolo, e a quell’altra stranezza di trovarvici anche voi presente. Che cosa avveniva nella vostra testolina allora, di faccia al sole nascente? Gli domandaste forse in qual altro emisfero vi avrebbe ritrovata fra un mese? Diceste soltanto ingenuamente: «Non capisco come si possa vivere qui tutta la vita».
Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po’ di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi, incastonati nell’azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Così poco basta, perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch’esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli.
E’ una cosa singolare; ma forse non è male che sia così – per voi, e per tutti gli altri come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori, “gente di mare”, dicono essi, come altri direbbe “gente di toga”, i quali hanno la pelle più dura del pane che mangiano – quando ne mangiano – giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti… Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato. In quei giorni c’è folla sull’uscio dell’osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo.
Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, che davvero si crederebbe non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché.
Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita dall’altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà.
Noi siamo stati amicissimi, ve ne rammentate? e mi avete chiesto di dedicarvi qualche pagina. Perché? à quoi bon? come dite voi. Che cosa potrà valere quel che scrivo per chi vi conosce? e per chi non vi conosce che cosa siete voi? Tant’è, mi son rammentato del vostro capriccio, un giorno che ho rivisto quella povera donna cui solevate far l’elemosina col pretesto di comperar le sue arance messe in fila sul panchettino dinanzi all’uscio. Ora il panchettino non c’è più; hanno tagliato il nespolo del cortile, e la casa ha una finestra nuova. La donna sola non aveva mutato, stava un po’ più in là a stender la mano ai carrettieri, accoccolata sul mucchietto di sassi che barricano il vecchio Posto della guardia nazionale; ed io, girellando, col sigaro in bocca, ho pensato che anche lei, così povera com’è, vi aveva vista passare, bianca e superba.
Non andate in collera se mi son rammentato di voi in tal modo, e a questo proposito. Oltre i lieti ricordi che mi avete lasciati, ne ho cento altri, vaghi, confusi, disparati, raccolti qua e là, non so più dove; -forse alcuni son ricordi di sogni fatti ad occhi aperti; e nel guazzabuglio che facevano nella mia mente, mentre io passava per quella viuzza dove son passate tante cose liete e dolorose, la mantellina di quella donnicciola freddolosa, accoccolata, poneva un non so che di triste, e mi faceva pensare a voi, sazia di tutto, perfino dell’adulazione che getta ai vostri piedi il giornale di moda, citandovi spesso in capo alla cronaca elegante – sazia così, da inventare il capriccio di vedere il vostro nome sulle pagine di un libro.
Quando scriverò il libro, forse non ci penserete più; intanto i ricordi che vi mando, così lontani da voi, in ogni senso, da voi inebbriata di feste e di fiori, vi faranno l’effetto di una brezza deliziosa, in mezzo alle veglie ardenti del vostro eterno carnevale. Il giorno in cui ritornerete laggiù, se pur vi ritornerete, e siederemo accanto un’altra volta, a spinger sassi col piede, e fantasie col pensiero, parleremo forse di quelle altre ebbrezze che ha la vita altrove. Potete anche immaginare che il mio pensiero siasi raccolto in quel cantuccio ignorato del mondo, perché il vostro piede vi si è posato, – o per distogliere i miei occhi dal luccichìo che vi segue dappertutto, sia di gemme o di febbri – oppure perché vi ho cercata inutilmente per tutti i luoghi che la moda fa lieti. Vedete quindi che siete sempre al primo posto, qui come al teatro!
Vi ricordate anche di quel vecchietto che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza, perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù, all’ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro.
Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa, egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero, vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia “sotto le sue tegole”, tanto che quando lo portarono via piangeva, guaiolando come fanno i vecchi. Egli era vissuto sempre fra quei quattro sassi, e di faccia a quel mare bello e traditore, col quale dové lottare ogni giorno per trarre da esso tanto da campare la vita e non lasciargli le ossa; eppure in quei momenti in cui si godeva cheto cheto la sua “occhiata di sole” accoccolato sulla pedagna della barca, coi ginocchi fra le braccia, non avrebbe voltato la testa per vedervi, ed avreste cercato invano in quelli occhi attoniti il riflesso più superbo della vostra bellezza; come quando tante fronti altere s’inchinano a farvi ala nei saloni splendenti, e vi specchiate negli occhi invidiosi delle vostre migliori amiche.
La vita è ricca, come vedete, nella sua inesauribile varietà; e voi potete godervi senza scrupoli quella parte di ricchezza che è toccata a voi, a modo vostro. Quella ragazza, per esempio, che faceva capolino dietro i vasi di basilico, quando il fruscìo della vostra veste metteva in rivoluzione la viuzza, se vedeva un altro viso notissimo alla finestra di faccia, sorrideva come se fosse stata vestita di seta anch’essa. Chi sa quali povere gioie sognava su quel davanzale, dietro quel basilico odoroso, cogli occhi intenti in quell’altra casa coronata di tralci di vite? E il riso dei suoi occhi non sarebbe andato a finire in lagrime amare, là, nella città grande, lontana dai sassi che l’avevano vista nascere e la conoscevano, se il suo nonno non fosse morto all’ospedale, e suo padre non si fosse annegato, e tutta la sua famiglia non fosse stata dispersa da un colpo di vento che vi aveva soffiato sopra – un colpo di vento funesto, che avea trasportato uno dei suoi fratelli fin nelle carceri di Pantelleria – “nei guai!” come dicono laggiù.
Miglior sorte toccò a quelli che morirono; a Lissa l’uno, il più grande, quello che vi sembrava un David di rame, ritto colla sua fiocina in pugno, e illuminato bruscamente dalla fiamma dell’ellera. Grande e grosso com’era, si faceva di brace anch’esso quando gli fissaste in volto i vostri occhi arditi; nondimeno è morto da buon marinaio, sulla verga di trinchetto, fermo al sartiame, levando in alto il berretto, e salutando un’ultima volta la bandiera col suo maschio e selvaggio grido d’isolano; l’altro, quell’uomo che sull’isolotto non osava toccarvi il piede per liberarlo dal lacciuolo teso ai conigli, nel quale v’eravate impigliata da stordita che siete, si perdé in una fosca notte d’inverno, solo, fra i cavalloni scatenati, quando fra la barca e il lido, dove stavano ad aspettarlo i suoi, andando di qua e di là come pazzi, c’erano sessanta miglia di tenebre e di tempesta. Voi non avreste potuto immaginare di qual disperato e tetro coraggio fosse capace per lottare contro tal morte quell’uomo che lasciavasi intimidire dal capolavoro del vostro calzolaio.
Meglio per loro che son morti, e non “mangiano il pane del re”, come quel poveretto che è rimasto a Pantelleria, o quell’altro pane che mangia la sorella, e non vanno attorno come la donna delle arance, a viver della grazia di Dio – una grazia assai magra ad Aci-Trezza. Quelli almeno non hanno più bisogno di nulla! lo disse anche il ragazzo dell’ostessa, l’ultima volta che andò all’ospedale per chieder del vecchio e portargli di nascosto di quelle chiocciole stufate che son così buone a succiare per chi non ha più denti, e trovò il letto vuoto, colle coperte belle e distese, sicché sgattaiolando nella corte, andò a piantarsi dinanzi a una porta tutta brandelli di cartacce, sbirciando dal buco della chiave una gran sala vuota, sonora e fredda anche di estate, e l’estremità di una lunga tavola di marmo, su cui era buttato un lenzuolo, greve e rigido. E pensando che quelli là almeno non avevano più bisogno di nulla, si mise a succiare ad una ad una le chiocciole che non servivano più, per passare il tempo. Voi, stringendovi al petto il manicotto di volpe azzurra, vi rammenterete con piacere che gli avete dato cento lire, al povero vecchio.
Ora rimangono quei monellucci che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arance; rimangono a ronzare attorno alla mendica, e brancicarle le vesti come se ci avesse sotto del pane, a raccattar torsi di cavolo, bucce d’arance e mozziconi di sigari, tutte quelle cose che si lasciano cadere per via, ma che pure devono avere ancora qualche valore, poiché c’è della povera gente che ci campa su; ci campa anzi così bene, che quei pezzentelli paffuti e affamati cresceranno in mezzo al fango e alla polvere della strada, e si faranno grandi e grossi come il loro babbo e come il loro nonno, e popoleranno Aci-Trezza di altri pezzentelli, i quali tireranno allegramente la vita coi denti più a lungo che potranno, come il vecchio nonno, senza desiderare altro, solo pregando Iddio di chiudere gli occhi là dove li hanno aperti, in mano del medico del paese che viene tutti i giorni sull’asinello, come Gesù, ad aiutare la buona gente che se ne va.
«Insomma l’ideale dell’ostrica!» direte voi. – Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano – forse pel quarto d’ora – cose serissime e rispettabilissime anch’esse. Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. – Sembrami che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente.
Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: – che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. – E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d’interesse. Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.

Eppure non è soltanto l’amore per la terra il centro ideologico della novella che, non a caso, è posta come prima dell’intera raccolta, acquisendo così il valore di racconto programmatico. In primo luogo, ancora non vi è la cancellazione dell’autore ed il personaggio della gentildonna è ripreso fortemente dalle opere precedenti. La contrapposizione, tuttavia, tra lei ed il mondo dei pescatori è netta e si struttura come incapacità di qualsiasi forma di dialogo, quasi a configurarsi come “pittoresco” per la dama e “quotidiano” per la popolazione. L’intervento economico è chiarito sin dall’inizio basta non possedere centomila lire di entrata, di contro alla miseria, che rende appetibile ciò che “normalmente” si getta per strada. Le spiegazioni che ci offre Verga sono:

  1. sociologica e potrebbe riassumersi nel concetto di ciclicità dell’esistenza;
  2. filosofica con il darwinismo, che fa sì che il più forte vinca sul più debole che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui;
  3. letteraria, coll’esigenza dell’immedesimazione che toglie la visione superiore dello scrittore onnisciente e si fa piccola fino a cancellarsi all’interno della comunità descritta.

L’elemento forte, quello che distingue ideologicamente l’intera novella, è l’“ideale dell’ostrica”, rafforzato dal darwinismo sopra accennato; questo concetto sembra tuttavia caratterizzare in Verga una visione pessimistica della realtà che, politicamente, andrà a strutturarsi in un conservatorismo politico. Qui sembra quasi dirci che qualsiasi cambiamento sociale porterà ad una sconfitta personale e questa ideologia sarà rafforzata soprattutto nei suoi due romanzi maggiori. Per ultimo Fantasticheria ci presenta, anche se in filigrana, i personaggi principali de I Malavoglia.

Un’altra pagina programmatica ne Vita dei campi la troviamo nella novella L’amante di Gramigna che presenta, in un quadretto siciliano, un innamoramento per fama; ma estremamente importante, per la poetica di Verga è l’Introduzione che l’autore stesso vi inserisce, indirizzata allo scrittore e amico Salvatore Farina:

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Scena del film di Carlo Lizzani “L’amante di Gramigna”

INTRODUZIONE A “L’AMANTE DI GRAMIGNA” 

A Salvatore Farina

Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico – un documento umano, come dicono oggi – interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditorî, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, – e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno “i fatti diversi”?
Intanto io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più umana delle opere d’arte, si raggiungerà allorché l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e che l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore; che essa non serbi nelle sue forme viventi alcuna impronta della mente in cui germogliò, alcuna ombra dell’occhio che la intravvide, alcuna traccia delle labbra che ne mormorarono le prime parole come il “fiat” creatore; ch’essa stia per ragion propria, pel solo fatto che è come dev’essere, ed è necessario che sia, palpitante di vita ed immutabile al pari di una statua di bronzo, di cui l’autore abbia avuto il coraggio divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale.

Pagina fondamentale, in cui quello che emerge è l’ottica attraverso la quale l’autore deve sviluppare il racconto o, per dirla “positivisticamente”, il documento umano. Se bisogna fare del romanzo, la più completa e la più umana delle opere d’arte, è necessario che lo scrittore e l’elaborazione narrativa scompaiano creando una specie di fusione mimetica tra il processo creativo e le passioni raccontate. Ciò comporta un duplice processo che riguarda dapprima il lettore, che non deve rendersi conto della presenza dell’autore, quindi di quest’ultimo che, pur essendoci, deve far di tutto per scomparire.

Dall’intera introduzione possiamo isolare tre essenziali concetti:

  • l’essenzialità del racconto che deve ritrarre avvenimenti e meccanismi psicologici all’interno di esso;
  • abolizione dello scrittore onnisciente e affermazione del principio dell’impersonalità;
  • consonanza tra stile e materia;

Tuttavia percepiamo anche una distanza dal naturalismo francese, infatti Verga parla ancora del mistero con cui le passioni umane si sviluppano. Compito del narratore è registrarle fedelmente, regredendo in esse (assumendo la mentalità, il linguaggio, la società che circonda il personaggio); non vi è l’intento, come quello dello scienziato/scrittore teorizzato da Zola, che descrive per elaborare una diagnosi e quindi  dar la possibilità di guarigione, ma solo quella di riportare fedelmente il “fatto umano”. 

Il capolavoro di Vita dei campi è Rosso Malpelo:

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Lavoratori in miniera

ROSSO MALPELO

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi; nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e lordo di rena rossa, ché la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a rupulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Caverna, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano “la cava di Malpelo”, e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava.
Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell’ingrottato, e dacché non serviva più, e s’era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: «Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre».
Invece nemmen suo padre ci morì nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericoloso nelle cave, e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare l’avvocato.
Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c’era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava: «Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata!» e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto – il cottimante!
Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio; ed il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! ohi anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: «Tirati indietro» oppure: «Sta’ attento! Sta’ attento se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa!» Tutt’a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un rumore sordo e soffocato, come fa la rena allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.
L’ingegnere che dirigeva i lavori della cava si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo, che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti come avesse la terzana. L’ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell’e arrivato in Paradiso, andò quasi pewr scarico di coscienza con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana.
Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare di mastro Bestia!
Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia e urlava, come una bestia davvero.
«To’!» – disse infine uno. «E’ Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso? Se non fosse stato Malpelo non sarebbe passata liscia…» 
Malpelo, non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.
Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrava negli orecchi, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, come se non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano la quale dà loro il pane e le botte, magari. Ma l’asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: «Così creperai più presto!»
Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: «Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché ei non faceva così!» E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: «E’ stato lui, per trentacinque tarì! – E un’altra volta, dietro allo Sciancato: – E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!»
Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sembrava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: «To’, Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello!»
O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: «Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu!» Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva dire a Ranocchio: «L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi».
Oppure: «Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso».
Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’ di uno che l’avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. «La rena è traditora», diceva a Ranocchio sottovoce; «somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui».
Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: «Taci, pulcino!» e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: «Lasciami fare; io sono più forte di te». Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: «Io ci sono avvezzo».
Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliel’aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui; già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: «A che giova? Sono malpelo!» e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di bieco orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.
Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa se si scoprendolo sull’uscio in quell’arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se avesse visto che razza di cognato gli toccava sorbirsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Adunque, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia a sassate alle povere lucertole, le quali non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.
La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto e cencioso e lercio com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d’ingresso è verticale, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.
Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena, – o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; – o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava a Ranocchio del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all’infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.
Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici asserissero che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall’altra.
Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto stentar molto a morire, perché il pilastro gli si era piegato in arco addosso, e l’aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt’ora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte. «Proprio come suo figlio Malpelo!» ripeteva lo sciancato «ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là». Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.
Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno e “di carne battezzata”. La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne aveva volute di scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.
Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no; suo padre li ha resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni.
In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. «Così si fa,» brontolava Malpelo; «gli arnesi che non servono più, si buttano lontano». Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. «Vedi quella cagna nera,» gli diceva, «che non ha paura delle tue sassate; non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole!» Adesso non soffriva più, l’asino grigio, e se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le ossa bianche e i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in corpo un po’ di vigore quando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch’esso quando piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: “Non più! Non più!”. Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.
La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto era tutta scavata dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c’era entrato coi capelli neri, e n’era uscito coi capelli bianchi, e un altro cui s’era spenta la torcia aveva invano gridato aiuto ma nessuno poteva udirlo. «Egli solo ode le sue stesse grida!» diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva.
«Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma io sono Malpelo, e se io non torno più, nessuno mi cercherà».
Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la lava, ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente – perché allora la sciara sembra più bella e desolata. “Per noi che siamo fatti per vivere sotterra,” pensava Malpelo, “dovrebbe essere buio sempre e dapertutto”. La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava: “Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perché non può andare a trovarli”.
Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava, perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.
«Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti» gli diceva «e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei morti».
Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. «Chi te l’ha detto?» domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma.
Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. «Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella».
E dopo averci pensato un po’: «Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io».
Da lì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo “non ne avrebbe fatto osso duro” a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue; allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse: «Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro!»
Intanto Ranocchio non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre e alcune volte sembrava soffocasse, e la sera poi non c’era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati come se volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava: «E’ meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi!» E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.
Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.
Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta e sembrava che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui perché non aveva mai avuto timore di perderlo.
Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali; anche la sorella si era maritata e avevano chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.
Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per degli anni e degli anni. Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista.
Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci coi suoi piedi. «Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione?» domandò Malpelo.
«Perché non sono malpelo come te!» rispose lo Sciancato. «Ma non temere, che tu ci andrai! E ci lascerai le ossa!»
Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che si riteneva comunicasse col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma se non era vero, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo, per tutto l’oro del mondo.
Ma Malpelo non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tutto l’oro del mondo: sua madre si era rimaritata e se n’era andata a stare a Cifali, e sua sorella s’era maritata anch’essa. La porta di casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo padre appese al chiodo; perciò gli commettevano sempre i lavori più pericolosi, e le imprese più arrischiate, e s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non avevano certamente per lui. Quando lo mandarono per quella esplorazione si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo; ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.

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Bimbo in miniera

L’analisi del racconto può procedere attraverso la divisione dello stesso in sequenze:

  • Presentazione di Malpelo: il racconto inizia con la regressione dell’autore e la conseguente cancellazione dello scrittore onnisciente; la voce che ci presenta Malpelo è quella popolare così come popolare è il rapporto di causa effetto che si istituisce: Malpelo = colore dei capelli = cattiveria del personaggio; il fatto che egli sia conosciuto soltanto con il soprannome significa che egli è un isolato da se stesso e dalla stessa comunità che non ne conosce il vero nome. Tale isolamento è rafforzato dal fatto che anche la madre lo indichi col nome di Malpelo. D’altra parte il rapporto del ragazzo con la famiglia è inesistente; esce dalla miniera il sabato sera e, se lo aspettano, lo fanno per ricevere la paga settimanale. Di Malpelo ci viene detto che è sempre cencioso e sporco, ma anche l’aspetto ha un so che di zoomorfo (non per niente è figlio mastro Misciu Bestia); il fatto che abbia i capelli rossi, lo mette subito in relazione con la rena rossa della miniera. E’ talmente forte l’identificazione che la miniera prende il suo nome, a dispetto della rabbia del padrone.
  • Morte del padre: come detto precedentemente Malpelo e mastro Misciu Bestia sono associati a immagini zoomorfe: il papà infatti è un buon asino da basto, che lavora per impiegare il denaro guadagnato per gli acquisti della famiglia; quando anche a Malpelo verrà affidato un lavoro straordinario lo farà per la ricerca. Importante in questa sequenza la figura del direttore: egli sta vedendo l’Amleto. L’episodio e la citazione sembrano marginali, ma così non sono; ambedue dopo la morte del padre cercano la loro identità. Malpelo, nell’uscire illeso e nello scavare a mani nude, sanguinolente, viene definito dalla pelle dura come i gatti, ed i gatti, nella tradizione popolare sono associati ai diavoli.
  • Il ritorno nell’inferno della cava: qui Malpelo (il diavolo) si mette in contatto con l’inferno (la cava); è talmente spinto nella ricerca che rifiuta il cibo, gettandolo ai cani.
  • Il rapporto con Ranocchio: il rapporto con il povero ragazzino, apprendista minatore, si profila subito come pedagogico; egli gli insegna che la natura e la storia rispondono solo alla legge del più forte, a tale scopo basti l’esempio dell’asino con gli uomini e della cava con suo padre. Ma tale rapporto pedagogico si configura anche come rapporto paterno: Malpelo offre protezione a Malocchio, si leva il pane dalla bocca per lui e lo chiama “bestia” (Bestia che non sei altro!) come il nome di suo padre.
  • La vita fuori della cava: Malpelo esce dalla cava il sabato e trascorre il tempo fuori da essa fino a domenica sera. Ma questo periodo non è caratterizzato da un ritorno in famiglia. Il parallelismo che si instaura tra il cane cacciato a sassate dal paese e lui mandato via di casa ci fa capire il senso d’isolamento che caratterizza entrambi; nel rapporto zoomorfo che Malpelo instaura con altri animali il passo è illuminante: cane che sembra un lupo, occhi da gattaccio; ma all’interno della miniera è un asino, è la miniera rimane il solo suo ambiente.
  • Il ritrovamento di Mastro Misciu: al ritrovamento del corpo il microcosmo minerario risponde in maniera opposta: i compagni di lavoro pensano alla sua sistemazione, Malpelo non vi partecipa perché non accetta la sua morte. Si concentra, simbolicamente, sugli oggetti che sono appartenuti al genitore, facendo dei pantaloni paterni, sentiti al tatto, una metafora delle carezze paterne. Il pensiero della morte si riaffaccia in lui quando muore il “grigio”: la vita è solo sopravvivenza, intorno alla quale ogni bisogno primario ruota; la morte come fatto positivo e cancellazione di ogni sofferenza (sembra riprendere Leopardi).
  • La sciara: la sciara è la distesa di detriti lavici e quindi il magma sotterraneo riapparso sulla terra. Se è quindi il sotterraneo che riemerge, non ha alcuna differenza con quello che c’è sotto, la cava. Il suo essere nera, rimanda al colore infernale, vissuto come assoluto, cui fanno compagnia i pipistrelli, topi con le ali, come di Malpelo a Ranocchio. La vita nella sciara è una non vita, isolamento e morte, il corpo del grigio ed è la memoria di chi si è perso nelle gallerie e non è più tornato. La sequenza si chiude con una riflessione filosofica: il paradiso è non esiste, come dice Ranocchio; se raccoglie i buoni ed il padre, ch’era buono, non c’è, ma sta sotto terra, vuol dire negare qualsiasi forma d’esistenza dopo la morte ed una concezione meccanicistica della vita, sebbene totalmente inconsapevole.
  • La malattia di Ranocchio: Quando muore Ranocchio cessa anche quella funzione paterna che Malpelo aveva assunto con lui. Viene pertanto richiamata la sua solitudine che lo porta alla considerazione che la vita e sofferenza, la morte lo scioglimento di essa. Considerazione già fatta, ma ora esplicitata dalla morte dell’amico e dalla visione del “grigio” nella sciara.
  • Epilogo: la sequenza inizia con una prolessi, anticipando la morte di Malpelo nella cava; ma la sua morte è diversa da quella di Mastro Misciu: quest’ultima avviene per motivi economici, per Malpelo si struttura come esplorazione, che nel suo animo semplice sembra indicare ricerca della propria identità. Riprendendo l’episodio dell’Amleto, anche quest’ultimo sente la Danimarca come una prigione, anch’esso vuole ricercare se stesso, anche se questo potrebbe significare la morte. Questo fa sì che il personaggio esca dalla storia e tale uscita è testimoniata dalla presenza all’interno della cava “immaginata” dai minatori, che lo trasformano, da personaggio miserrimo, in un vero e proprio mito. 

LA LUPA

Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano.
Al villaggio la chiamavano “la Lupa” perché non era sazia giammai – di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all’altare di Santa Agrippina. Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. – Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l’anima per lei.
Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l’avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio.
Una volta la Lupa si innamorò di un bel ragazzo che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro, ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Ma colui seguitava a mietere tranquillamente col naso sui manipoli, e le diceva: «O che avete, gnà Pina?»
Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la Lupa affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando: «Che volete, gnà Pina?»
Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell’aia, stanchi della lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna
nera: «Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te!»
«Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella, rispose Nanni ridendo». La Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andò, né più comparve nell’aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano l’olio, perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo scricchiolìo del torchio non la faceva dormire tutta notte.
«Prendi il sacco delle ulive», disse alla figliuola, «e vieni con me».
Nanni spingeva colla pala le ulive sotto la macina, e gridava ohi! alla mula perché non si arrestasse. «La vuoi mia figlia Maricchia?» gli domandò la gnà Pina. «Cosa gli date a vostra figlia Maricchia?» rispose Nanni. «Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io le dò la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po’ di pagliericcio». «Se è così se ne può parlare a Natale, disse Nanni» Nanni era tutto unto e sudicio dell’olio e delle ulive messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua madre l’afferrò pe’ capelli, davanti al focolare, e le disse co’ denti stretti: «Se non lo pigli ti ammazzo!»
La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non andava più in qua e in là; non si metteva più sull’uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l’abitino della Madonna per segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni,
e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana. “In quell’ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona”, la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell’afa, lontan lontano, verso l’Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull’orizzonte.
«Svegliati!» disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. «Svegliati, ché ti ho portato il vino per rinfrescarti la gola».
Nanni spalancò gli occhi imbambolati, fra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani.
«No! non ne va in volta femmina buona nell’ora fra vespero e nona!» singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l’erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. «Andatevene! Andatevene! non ci venite più nell’aia!»
Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone.
Ma nell’aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla; e quando
tardava a venire, nell’ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in
cima alla viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte; – e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta: «Andatevene! andatevene! Non ci tornate più nell’aia!»
Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch’essa, quando la vedeva tornare da’ campi pallida e muta ogni volta. «Scellerata! le diceva. «Mamma scellerata!»
«Taci!»
«Ladra! ladra!»
«Taci!»
«Andrò dal brigadiere, andrò!»
«Vacci!»
E ci andò davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché adesso l’amava anche lei quel marito che le avevano dato per forza, unto e sudicio dalle ulive messe a fermentare.
Il brigadiere fece chiamare Nanni, e lo minacciò della galera, e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò scolparsi. È la tentazione! diceva; è la tentazione dell’inferno! si buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera.
«Per carità, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! fatemi ammazzare, mandatemi in prigione; non me la lasciate veder più, mai! mai!»
«No! rispose però la Lupa al brigadiere. Io mi son riserbato un cantuccio
della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia. Non voglio andarmene!»
Poco dopo, Nanni s’ebbe nel petto un calcio dal mulo e fu per morire; ma il parroco ricusò di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se ne andò, e suo genero allora si poté preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; si confessò con tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel tempo, prima che il diavolo tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell’anima e nel corpo quando fu guarito. «Lasciatemi stare!» diceva alla Lupa; «per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me…»
Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne’ suoi gli facevano perdere l’anima ed il corpo. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall’incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza, e poi, come la Lupa tornava a tentarlo:
«Sentite! le disse, non ci venite più nell’aia, perché se tornate a cercarmi,
com’è vero Iddio, vi ammazzo!»
«Ammazzami», rispose la Lupa, «ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci».
Ei come la scorse da lontano, in mezzo a’ seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall’olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri.
«Ah! malanno all’anima vostra!» balbettò Nanni.

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Scena del film di Alberto Lattuada “La lupa” con Anna Magnani e Osaldo Parenti 

Anche la Lupa come Malpelo ha qualcosa di ferino e quindi è un’isolata all’interno del consorzio sociale; la sua animalità tuttavia è tutta nella sessualità, la quale viene vissuta al di là di qualsiasi convenzione, rispondendo solo ad un appetito che non conosce né regole né relazioni. Non solo ha rovinato molti uomini, tra cui quel santo del parroco, ma addirittura ruba il marito alla figlia, a cui l’aveva dato proprio per averlo vicino. E’ talmente assatanata da essere, come dice il nome stesso, associata al diavolo ed è per questo che intorno a lei girano superstizioni, a volte riferite con detti popolari (l’uso della lingua è più vicino al parlato di quanto fosse in Malpelo). A livello stilistico il ritmo narrativo si presenta veloce, ellittico. Anche questa storia ha qualcosa di mitico: in Malpelo si dà il mito nel non ritrovamento, nel perdersi all’interno della cava, in la Lupa nell’assenza di ambiente: terra, natura, ciclicità del raccolto, ma non vi è altro, non vi è paese, non vi sono persone. Ed è un mito che resiste anche nella morte: ad essere sconfitto è Nanni, che di fronte a lei non può che emettere un debole borbottio.

I Malavoglia

Ad un anno dalla pubblicazione delle novelle Vita dai campi, Verga dà vita al suo capolavoro:

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Gente di Acitrezza

I Toscano, detti “Malavoglia”, pescatori di Aci Trezza, posseggono una casa e una barca, la “Provvidenza”. Padron ‘Ntoni, il vecchio capofamiglia, padre di Bastianazzo che a sua volta ha cinque figli, compra un carico di lupini da vendere altrove; ma la barca fa naufragio, Bastianazzo muore e i lupini vanno perduti; per i Malavoglia è l’inizio di una lunga serie di sventure. Per pagare il debito bisogna vendere la casa (“la casa del nespolo”); Luca, il secondo genito di Bastianazzo, cade nella battaglia di Lissa e anche la vedova, Maruzza, muore vittima del colera. Sotto i colpi della sorte avversa, i giovani non resistono: ‘Ntoni, il figlio maggiore di Bastianazzo, comincia a frequentare cattive compagnie, si da’ al contrabbando e finisce in galera, e anche la sorella più piccola, Lia, compromessa per le voci che circolano su una sua presunta relazione con don Michele, il brigadiere delle guardie doganali, fugge di casa e scompare (si saprà poi che è diventata una prostituta); mentre la sorella maggiore, Mena, a causa delle difficoltà economiche non potrà sposarsi con compare Alfio. Con la morte di padron ‘Ntoni la famiglia è smembrata; ‘Ntoni lascerà il paese per andare lontano. Resterà, per riscattare la casa del nespolo e continuare il mestiere del nonno, il più giovane dei fratelli, Alessi.

PREFAZIONE AI MALAVOGLIA

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei “Malavoglia” non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, “Mastro-don Gesualdo”, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella “Duchessa de Leyra”; e ambizione nell’“Onorevole Scipioni”, per arrivare all’“Uomo di lusso”, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee. Perché la riproduzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale.
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e  febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale, alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani.
“I Malavoglia”, “Mastro-don Gesualdo”, la “Duchessa de Leyra”, l’“Onorevole Scipioni”, l’ “Uomo di lusso”, sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione – dall’umile pescatore al nuovo arricchito – alla intrusa nelle alte classi – all’uomo dall’ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini; di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge – all’artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.
Milano, 19 gennaio, 1881 

Il passo rivela un elemento non toccato dalle novelle: potremo dire che la riflessione verghiana in questo progetto narrativo, è concentrata sul divenire storico, su quel “progresso”, perno su cui ruota la filosofia positivista; qui egli definisce il “progresso” come una “fiumana”, termine che indica una forza che travolge ogni cosa, contro la quale non ci si può opporre. E’ per questo che il suo impeto abbatte ogni forma umana, dalla più semplice alla più elevata. Anzi, il nostro sembra quasi dirci che pur nella disperazione, forse la condizione più felice sia quella miserrima dei pescatori di Aci Trezza. Potremo dire, come in Fantasticheria, che essi, come l’ostrica, hanno avuto ancora la possibilità di starsene attaccati sullo scoglio, come farà Alessi, ma non appena gli si offre la possibilità di superare il limite loro concesso dalla “storia”, si perdono; non per niente estremamente più tragico è l’esito del Mastro, dove domina la più nera solitudine e lo scherno.

Non è da tacere il tentativo da parte di Verga di fare un ciclo, secondo la moda dapprima balzacchiana poi confermata da Zola; il titolo che voleva dare ad esso era I Vinti, a confermare che non c’era, nel suo disegno, alcuno che potesse scampare al determinismo della storia e a rafforzare la sua idea sul progresso antitetica rispetto al naturalismo francese.

LA FAMIGLIA MALAVOGLIA
(cap. 1)

Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ‘Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla. Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron ‘Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso – un pugno che sembrava fatto di legno di noce – Per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro. Diceva pure: – Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo.
E la famigliuola di padron ‘Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant’ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città; e così grande e grosso com’era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «soffiati il naso» tanto che s’era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pigliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: ‘Ntoni il maggiore, un bighellone di vent’anni, che si buscava tutt’ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l’equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant’Agata» perché stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. – Alla domenica, quando entravano in chiesa, l’uno dietro l’altro, pareva una processione. Padron ‘Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi: «Perché il motto degli antichi mai mentì»: – «Senza pilota barca non cammina» – «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» – oppure – «Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» – «Contentati di quel che t’ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose.
Ecco perché la casa del nespolo prosperava, e padron ‘Ntoni passava per testa quadra, al punto che a Trezza l’avrebbero fatto consigliere comunale, se don Silvestro, il segretario, il quale la sapeva lunga, non avesse predicato che era un codino marcio, un reazionario di quelli che proteggono i Borboni, e che cospirava pel ritorno di Franceschello, onde poter spadroneggiare nel villaggio, come spadroneggiava in casa propria.
Padron ‘Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschello, e badava agli affari suoi, e soleva dire: «Chi ha carico di casa non può dormire quando vuole» perché «chi comanda ha da dar conto».

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Mena e Lia

Sin dall’inizio Verga ci immerge all’interno della storia narrata attraverso la scomparsa dello scrittore onnisciente. I Malavoglia si presentano da sé senza bisogno di alcuna introduzione. La “veridicità” del racconto viene poi amplificata dal parlare formulario di Padron ‘Ntoni: l’uso ripetuto dei proverbi, che rappresentano per lui la saggezza popolare, ci rimandano ad un tempo mitico, immutabile, come immutabile è il perno attorno al quale ruota l’intera famiglia: “la casa del nespolo” che viene a simboleggiare l’unità familiare, sottolineata dalla metafora delle dita della mano. Si affaccia in questa pagina, inoltre, l’uso dell’indiretto libero: quando nell’ultimo periodo l’autore fa proprio il pensiero del personaggio. Tale circolarità mitica verrà interrotta dall’arrivo della storia: il servizio militare all’indomani dell’unità d’Italia.

MENA
(cap. 2)

Maruzza udendo suonare un’ora di notte era rientrata in casa lesta lesta, per stendere la tovaglia sul deschetto; le comari a poco a poco si erano diradate, e come il paese stesso andava addormentandosi, si udiva il mare che russava lì vicino, in fondo alla straduccia, e ogni tanto sbuffava, come uno che si volti e rivolti pel letto. Soltanto laggiù all’osteria, dove si vedeva il lumicino rosso, continuava il baccano, e si udiva il vociare di Rocco Spatu il quale faceva festa tutti i giorni.
«Compare Rocco ha il cuore contento», disse dopo un pezzetto dalla sua finestra Alfio Mosca, che pareva non ci fosse più nessuno.
«Oh siete ancora là, compare Alfio!» rispose Mena, la quale era rimasta sul ballatoio ad aspettare il nonno.
«Sì, sono qua, comare Mena; sto qua a mangiarmi la minestra; perché quando vi vedo tutti a tavola, col lume, mi pare di non esser tanto solo, che va via anche l’appetito».
«Non ce l’avete il cuore contento voi?»
«Eh! ci vogliono tante cose per avere il cuore contento!»
Mena non rispose nulla, e dopo un altro po’ di silenzio compare Alfio soggiunse: «Domani vado alla città per un carico di sale».
«Che ci andate poi per i Morti?» domandò Mena.
«Dio lo sa, quest’anno quelle quattro noci son tutte fradicie.
«Compare Alfio ci va per cercarsi la moglie alla città», rispose la Nunziata dall’uscio dirimpetto.
«Che è vero?» domandò Mena.
«Eh, comare Mena, se non dovessi far altro, al mio paese ce n’è delle ragazze come dico io, senza andare a cercarle lontano»
«Guardate quante stelle che ammiccano lassù!» rispose Mena dopo un pezzetto. «Ei dicono che sono le anime del Purgatorio che se ne vanno in Paradiso».
«Sentite», le disse Alfio dopo che ebbe guardate le stelle anche lui; «voi che siete sant’Agata, se vi sognate un terno buono, ditelo a me, che ci giuocherò la camicia, e allora potrò pensarci a prender moglie…»
«Buona sera!» rispose Mena.
Le stelle ammiccavano più forte, quasi s’accendessero, e i tre re scintillavano sui fariglioni colle braccia in croce, come Sant’Andrea. Il mare russava in fondo alla stradicciuola, adagio adagio, e a lunghi intervalli si udiva il rumore di qualche carro che passava nel buio, sobbalzando sui sassi, e andava pel mondo il quale è tanto grande che se uno potesse camminare e camminare sempre, giorno e notte, non arriverebbe mai, e c’era pure della gente che andava pel mondo a quell’ora, e non sapeva nulla di compar Alfio, né della Provvidenza che era in mare, né della festa dei Morti; – così pensava Mena sul ballatoio aspettando il nonno.

Nel II capitolo del romanzo vengono presentati i vari componenti del paese, i piccoli proprietari, che si riuniscono in piazza sui gradini della chiesa, i notabili, che si ritrovano nella farmacia, dove discutono di politica, e quello dei paesani e degli uomini, il cui punto di ritrovo è l’osteria. Le donne sono in strada. Il capitolo si chiude col momento lirico di Mena ed Alfio. Quest’ultimo fa capire a Mena che al ritorno dal paese la vorrebbe sposare, ma Mena lo invita a contemplare il paesaggio. Tutto viene antropomorfizzato: le stelle ammiccano, il mare russa. Il divagare di Mena è figlio dell’ansia per il padre in mare: sembra quasi presagire la forza della natura sulla piccolezza dell’uomo e sul suo agire e quindi sulla storia; e sarà proprio la natura a sopraffare l’azione di Bastianazzo:

LA TRAGEDIA
(cap. 3)

Dopo la mezzanotte il vento s’era messo a fare il diavolo, come se sul tetto ci fossero tutti i gatti del paese, e a scuotere le imposte. Il mare si udiva muggire attorno ai fariglioni che pareva ci fossero riuniti i buoi della fiera di sant’Alfio, e il giorno era apparso nero peggio dell’anima di Giuda. Insomma una brutta domenica di settembre, di quel settembre traditore che vi lascia andare un colpo di mare fra capo e collo, come una schioppettata fra i fichidindia. Le barche del villaggio erano tirate sulla spiaggia, e bene ammarrate alle grosse pietre sotto il lavatoio; perciò i monelli si divertivano a vociare e fischiare quando si vedeva passare in lontananza qualche vela sbrindellata, in mezzo al vento e alla nebbia, che pareva ci avesse il diavolo in poppa; le donne invece si facevano la croce, quasi vedessero cogli occhi la povera gente che vi era dentro.
Maruzza la Longa non diceva nulla, com’era giusto, ma non poteva star ferma un momento, e andava sempre di qua e di là, per la casa e pel cortile, che pareva una gallina quando sta per far l’uovo. Gli uomini erano all’osteria, e nella bottega di Pizzuto, o sotto la tettoia del beccaio, a veder piovere, col naso in aria. Sulla riva c’era soltanto padron ‘Ntoni, per quel carico di lupini che vi aveva in mare colla Provvidenza e suo figlio Bastianazzo per giunta, e il figlio della Locca, il quale non aveva nulla da perdere lui, e in mare non ci aveva altro che suo fratello Menico, nella barca dei lupini. Padron Fortunato Cipolla, mentre gli facevano la barba, nella bottega di Pizzuto, diceva che non avrebbe dato due baiocchi di Bastianazzo e di Menico della Locca, colla Provvidenza e il carico dei lupini.
«Adesso tutti vogliono fare i negozianti, per arricchire!» diceva stringendosi nelle spalle; «e poi quando hanno perso la mula vanno cercando la cavezza.»
Nella bottega di suor Mariangela la Santuzza c’era folla: quell’ubbriacone di Rocco Spatu, il quale vociava e sputava per dieci; compare Tino Piedipapera, mastro Turi Zuppiddu, compare Mangiacarrubbe, don Michele il brigadiere delle guardie doganali, coi calzoni dentro gli stivali, e la pistola appesa sul ventre, quasi dovesse andare a caccia di contrabbandieri con quel tempaccio, e compare Mariano Cinghialenta. Quell’elefante di mastro Turi Zuppiddu andava distribuendo per ischerzo agli amici dei pugni che avrebbero accoppato un bue, come se ci avesse ancora in mano la malabestia di calafato, e allora compare Cinghialenta si metteva a gridare e bestemmiare, per far vedere che era uomo di fegato e carrettiere.
Lo zio Santoro, raggomitolato sotto quel po’ di tettoia, davanti all’uscio, aspettava colla mano stesa che passasse qualcheduno per chiedere la carità. «Tra tutte e due, padre e figlia», disse compare Turi Zuppiddu, «devono buscarne dei bei soldi, con una giornata come questa, e tanta gente che viene all’osteria.»
«Bastianazzo Malavoglia sta peggio di lui, a quest’ora», rispose Piedipapera, «e mastro Cirino ha un bel suonare la messa; ma i Malavoglia non ci vanno oggi in chiesa; sono in collera con Domeneddio, per quel carico di lupini che ci hanno in mare.»
Il vento faceva volare le gonnelle e le foglie secche, sicché Vanni Pizzuto col rasoio in aria, teneva pel naso quelli a cui faceva la barba, per voltarsi a guardare chi passava, e si metteva il pugno sul fianco, coi capelli arricciati e lustri come la seta; e lo speziale se ne stava sull’uscio della sua bottega, sotto quel cappellaccio che sembrava avesse il paracqua in testa, fingendo aver discorsi grossi con don Silvestro il segretario, perché sua moglie non lo mandasse in chiesa per forza; e rideva del sotterfugio, fra i peli della barbona, ammiccando alle ragazze che sgambettavano nelle pozzanghere.
(…)
Ciascuno non poteva a meno di pensare che quell’acqua e quel vento erano tutt’oro per i Cipolla; così vanno le cose di questo mondo, che i Cipolla, adesso che avevano la paranza bene ammarrata, si fregavano le mani vedendo la burrasca; mentre i Malavoglia diventavano bianchi e si strappavano i capelli, per quel carico di lupini che avevano preso a credenza dallo zio Crocifisso Campana di legno.
«Volete che ve la dica?» saltò su la Vespa; «la vera disgrazia è toccata allo zio Crocifisso che ha dato i lupini a credenza. “Chi fa credenza senza pegno, perde l’amico, la roba e l’ingegno”.
Lo zio Crocifisso se ne stava ginocchioni a piè dell’altare dell’Addolorata, con tanto di rosario in mano, e intuonava le strofette con una voce di naso che avrebbe toccato il cuore a satanasso in persona. Fra un’avemaria e l’altra si parlava del negozio dei lupini, e della Provvidenza che era in mare, e della Longa che rimaneva con cinque figliuoli. «Al giorno d’oggi», disse padron Cipolla, stringendosi nelle spalle, «nessuno è contento del suo stato e vuol pigliare il cielo a pugni.»
«Il fatto è», conchiuse compare Zuppiddu, «che sarà una brutta giornata pei Malavoglia».
(…)
Sull’imbrunire comare Maruzza coi suoi figlioletti era andata ad aspettare sulla sciara, d’onde si scopriva un bel pezzo di mare, e udendolo urlare a quel modo trasaliva e si grattava il capo senza dir nulla. La piccina piangeva, e quei poveretti, dimenticati sulla sciara, a quell’ora, parevano le anime del purgatorio. Il piangere della bambina le faceva male allo stomaco, alla povera donna, le sembrava quasi un malaugurio; non sapeva che inventare per tranquillarla, e le cantava le canzonette colla voce tremola che sapeva di lagrime anche essa. Le comari, mentre tornavano dall’osteria coll’orciolino dell’olio, o col fiaschetto del vino, si fermavano a barattare qualche parola con la Longa senza aver l’aria di nulla, e qualche amico di suo marito Bastianazzo, compar Cipolla, per esempio, o compare Mangiacarrubbe, passando dalla sciara per dare un’occhiata verso il mare, e vedere di che umore si addormentasse il vecchio brontolone, andavano a domandare a comare la Longa di suo marito, e stavano un tantino a farle compagnia, fumandole in silenzio la pipa sotto il naso, o parlando sottovoce fra di loro. La poveretta, sgomenta da quelle attenzioni insolite, li guardava in faccia sbigottita, e si stringeva al petto la bimba, come se volessero rubargliela. Finalmente il più duro o il più compassionevole la prese per un braccio e la condusse a casa. Ella si lasciava condurre, e badava a ripetere: «Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria!» I figliuoli la seguivano aggrappandosi alla gonnella, quasi avessero paura che rubassero qualcosa anche a loro. Mentre passavano dinanzi all’osteria, tutti gli avventori si affacciarono sulla porta, in mezzo al gran fumo, e tacquero per vederla passare come fosse già una cosa curiosa.
«Requiem eternam», biascicava sottovoce lo zio Santoro, quel povero Bastianazzo mi faceva sempre la carità, quando padron ‘Ntoni gli lasciava qualche soldo in tasca.
La poveretta che non sapeva di essere vedova, balbettava: «Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria!» Dinanzi al ballatoio della sua casa c’era un gruppo di vicine che l’aspettavano, e cicalavano a voce bassa fra di loro. Come la videro da lontano, comare Piedipapera e la cugina Anna le vennero incontro, colle mani sul ventre, senza dir nulla. Allora ella si cacciò le unghie nei capelli con uno strido disperato e corse a rintanarsi in casa.
«Che disgrazia!» dicevano sulla via. «E la barca era carica! Più di quarant’onze di lupini!»

In questi passi del terzo capitolo si coglie la dinamica che intercorre il mondo dei Malavoglia e quello del paese. Il primo appare un mondo legato ai valori antichi dell’onestà e della dedizione al lavoro; il secondo, i paesani, vedono il mondo solo solo l’ottica del profitto: si percepisce, grazie anche al discorso indiretto libero, che per loro la disgrazia è nel “naufragio” dell’affare: sia per frate Cipolla, che ha prestato ad usura il carico di lupini, sia per padron ’Ntoni che aveva fatto un investimento a questo punto fallimentare. Il problema è che i mondi non si incontrano e, da parte dei più, c’è fraintendimento, per cui ogni azione dei Malavoglia, fosse questa legata alla loro concezione della vita, viene travisata e vista con l’unica ottica che il paese conosce. Circonda l’intero passo il concetto di fatalità, tipico, come già visto, della cultura siciliana. Il paese sembra guardare con estremo distacco all’evento in sé, quello che accade è destino che accada, l’uomo non ha la forza d’opporsi, ci dicono i personaggi del paese; ma lo stesso diceva Mena alla fine del capitolo precedente.

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Mena e Lia sugli scogli scrutano il mare

RITRATTO DELLO ZIO CROCIFISSO
(cap. 4)

Il peggio era che i lupini li avevano presi a credenza, e lo zio Crocifisso non si contentava di “buone parole e mele fradicie”, per questo lo chiamavano Campana di legno, perché non ci sentiva di quell’orecchio, quando lo volevano pagare con delle chiacchiere, e’ diceva che “alla credenza ci si pensa”.
Egli era un buon diavolaccio, e viveva imprestando agli amici, non faceva altro mestiere, che per questo stava in piazza tutto il giorno, colle mani nelle tasche, o addossato al muro della chiesa, con quel giubbone tutto lacero che non gli avreste dato un baiocco; ma aveva denari sin che ne volevano, e se qualcheduno andava a chiedergli dodici tarì glieli prestava subito, col pegno, perché “chi fa credenza senza pegno, perde l’amico, la roba e l’ingegno” a patto di averli restituiti la domenica, d’argento e colle colonne, che ci era un carlino dippiù, com’era giusto, perché “coll’interesse non c’è amicizia”. Comprava anche la pesca tutta in una volta, con ribasso, e quando il povero diavolo che l’aveva fatta aveva bisogno subito di denari, ma dovevano pesargliela colle sue bilancie, le quali erano false come Giuda, dicevano quelli che non erano mai contenti, ed hanno un braccio lungo e l’altro corto, come san Francesco; e anticipava anche la spesa per la ciurma, se volevano, e prendeva soltanto il denaro anticipato, e un rotolo di pane a testa, e mezzo quartuccio di vino, e non voleva altro, ché era cristiano e di quel che faceva in questo mondo avrebbe dovuto dar conto a Dio. Insomma era la provvidenza per quelli che erano in angustie, e aveva anche inventato cento modi di render servigio al prossimo, e senza essere uomo di mare aveva barche, e attrezzi, e ogni cosa, per quelli che non ne avevano, e li prestava, contentandosi di prendere un terzo della pesca, più la parte della barca, che contava come un uomo della ciurma, e quella degli attrezzi, se volevano prestati anche gli attrezzi, e finiva che la barca si mangiava tutto il guadagno, tanto che la chiamavano la barca del diavolo – e quando gli dicevano perché non ci andasse lui a rischiare la pelle come tutti gli altri, che si pappava il meglio della pesca senza pericolo, rispondeva: «Bravo! e se in mare mi capita una disgrazia, Dio liberi, che ci lascio le ossa, chi me li fa gli affari miei?» Egli badava agli affari suoi, ed avrebbe prestato anche la camicia; ma poi voleva esser pagato, senza tanti cristi; ed era inutile stargli a contare ragioni, perché era sordo, e per di più era scarso di cervello, e non sapeva dir altro che “Quel che è di patto non è d’inganno”, oppure “Al giorno che promise si conosce il buon pagatore”.
Ora i suoi nemici gli ridevano sotto il naso, a motivo di quei lupini che se l’era mangiati il diavolo; e gli toccava anche recitare il deprofundis per l’anima di Bastianazzo, quando si facevano le esequie, insieme con gli altri confratelli della Buona Morte, colla testa nel sacco.
I vetri della chiesetta scintillavano, e il mare era liscio e lucente, talché non pareva più quello che gli aveva rubato il marito alla Longa; perciò i confratelli avevano fretta di spicciarsi, e di andarsene ognuno pei propri affari, ora che il tempo s’era rimesso al buono.
Stavolta i Malavoglia erano là, seduti sulle calcagna, davanti al cataletto, e lavavano il pavimento dal gran piangere, come se il morto fosse davvero fra quelle quattro tavole, coi suoi lupini al collo, che lo zio Crocifisso gli aveva dati a credenza, perché aveva sempre conosciuto padron ‘Ntoni per galantuomo; ma se volevano truffargli la sua roba, col pretesto che Bastianazzo s’era annegato, la truffavano a Cristo, com’è vero Dio! ché quello era un credito sacrosanto come l’ostia consacrata, e quelle cinquecento lire ei l’appendeva ai piedi di Gesù crocifisso; ma santo diavolone! padron ‘Ntoni sarebbe andato in galera! La legge c’era anche a Trezza!

La descrizione della figura dell’usuraio rappresenta un chiaro atteggiamento verghiano di “eclissi dell’autore”: a leggerlo è la concezione del paese; nel giro di un paragrafo dapprima lo chiama “campana di legno” perché non vuol sentirci per quanto riguarda il riscatto dei debiti; dall’altro “buon diavolaccio, viveva imprestando agli amici”; mano mano che la descrizione va avanti tali contraddizioni continuano ad emergere notiamo che da una parte il paese sottolinea la sua avidità nel commercio marino, dall’altra ne testimonia la necessità per chi vive in angustie. E’, come già detto, tutto ridotto all’economicità. Ce ne rendiamo conto anche all’interno della chiesa durante le esequie di Bastianazzo: il pensiero di un possibile rifiuto di resa del credito da parte dei Malavoglia viene visto come una bestemmia fatta al Signore, non rendendosi conto che a bestemmiare è proprio lui che “sacralizza” l’usura . Il suo nome, poi, cos’ legato al messaggio cristiano è, come spesso in Verga, usato in antifrasi: Crocifisso allo stesso modo in cui lui crocifigge i suoi creditori.

L’ABBANDONO DELLA CASA DEL NESPOLO
(cap. 9)

Il povero vecchio non aveva il coraggio di dire alla nuora che dovevano andarsene colle buone dalla casa del nespolo, dopo tanto tempo che ci erano stati, e pareva che fosse come andarsene dal paese, espatriare, o come quelli che erano partiti per ritornare, e non erano tornati più, che ancora c’era lì il letto di Luca, e il chiodo dove Bastianazzo appendeva il giubbone. Ma infine bisognava sgomberare con tutte quelle povere masserizie, e levarle dal loro posto, che ognuna lasciava il segno dov’era stata, e la casa senza di esse non sembrava più quella. La roba la trasportarono di notte, nella casuccia del beccaio che avevano presa in affitto, come se non si sapesse in paese che la casa del nespolo oramai era di Piedipapera, e loro dovevano sgomberarla, ma almeno nessuno li vedeva colla roba in collo. Quando il vecchio staccava un chiodo, o toglieva da un cantuccio un deschetto che soleva star lì di casa, faceva una scrollatina di capo. Poi si misero a sedere sui pagliericci ch’erano ammonticchiati nel mezzo della camera, per riposarsi un po’, e guardavano di qua e di là se avessero dimenticato qualche cosa; però il nonno si alzò tosto ed uscì nel cortile, all’aria aperta. Ma anche lì c’era della paglia sparsa per ogni dove, dei cocci di stoviglie, delle nasse sfasciate, e in un canto il nespolo, e la vite in pampini sull’uscio. «Andiamo via! diceva egli. Andiamo via, ragazzi. Tanto, oggi o domani!…» e non si muoveva. Maruzza guardava la porta del cortile dalla quale erano usciti Luca e Bastianazzo, e la stradicciuola per la quale il figlio suo se ne era andato coi calzoni rimboccati, mentre pioveva, e non l’aveva visto più sotto il paracqua d’incerata. Anche la finestra di compare Alfio Mosca era chiusa, e la vite pendeva dal muro del cortile che ognuno passando ci dava una strappata. Ciascuno aveva qualche cosa da guardare in quella casa, e il vecchio, nell’andarsene posò di nascosto la mano sulla porta sconquassata, dove lo zio Crocifisso aveva detto che ci sarebbero voluti due chiodi e un bel pezzo di legno.

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La casa del nespolo

Lo zio Crocifisso era venuto a dare un’occhiata insieme a Piedipapera, e parlavano a voce alta nelle stanze vuote, dove le parole si udivano come se fossero in chiesa. Compare Tino non aveva potuto durarla a campare d’aria sino a quel giorno, e aveva dovuto rivendere ogni cosa allo zio Crocifisso, per riavere i suoi denari.
«Che volete, compare Malavoglia?» gli diceva passandogli il braccio attorno al collo. «Lo sapete che sono un povero diavolo, e cinquecento lire mi fanno! Se voi foste stato ricco ve l’avrei venduta a voi». Ma padron ‘Ntoni non poteva soffrire di andare così per la casa, col braccio di Piedipapera al collo. Ora lo zio Crocifisso ci era venuto col falegname e col muratore, e ogni sorta di gente che scorrazzavano di qua e di là per le stanze come fossero in piazza, e dicevano: «Qui ci vogliono dei mattoni, qui ci vuole un travicello nuovo, qui c’è da rifare l’imposta», come se fossero i padroni; e dicevano anche che si doveva imbiancarla per farla sembrare tutt’altra.
Lo zio Crocifisso andava scopando coi piedi la paglia e i cocci, e raccolse anche da terra un pezzo di cappello che era stato di Bastianazzo, e lo buttò nell’orto, dove avrebbe servito all’ingrasso. Il nespolo intanto stormiva ancora, adagio adagio, e le ghirlande di margherite, ormai vizze, erano tuttora appese all’uscio e le finestre, come ce le avevano messe a Pasqua delle Rose.
La Vespa era venuta a vedere anche lei, colla calzetta al collo, e frugava per ogni dove, ora che era roba di suo zio. Il “sangue non è acqua” andava dicendo forte, perché udisse anche il sordo. A me mi sta nel cuore la roba di mio zio, come a lui deve stare a cuore la mia chiusa. Lo zio Crocifisso lasciava dire e non udiva, ora che dirimpetto si vedeva la porta di compare Alfio con tanto di catenaccio. «Adesso che alla porta di compare Alfio c’è il catenaccio, vi metterete il cuore in pace, e lo crederete che non penso a lui!» diceva la Vespa all’orecchio dello zio Crocifisso. «Io ci ho il cuore in pace! rispondeva lui: sta tranquilla».
D’allora in poi i Malavoglia non osarono mostrarsi per le strade né in chiesa la domenica, e andavano sino ad Aci Castello per la messa, e nessuno li salutava più, nemmeno padron Cipolla, il quale andava dicendo: «Questa partaccia a me non la doveva fare padron ‘Ntoni. Questo si chiama gabbare il prossimo, se ci aveva fatto mettere la mano di sua nuora nel debito dei lupini!» «Tale e quale come dice mia moglie!» aggiungeva mastro Zuppiddu. «Dice che dei Malavoglia adesso non ne vogliono nemmeno i cani»

L’abbandono della casa del nespolo viene vissuta dai Malavoglia come fatto vergognoso, di notte senza che li veda nessuno. I gesti del vecchio, che ad ogni atto di sgombero scrolla il capo e infine, come se il peso della “sventura” gli pesasse all’improvviso, ordina, quasi, di andarsene via al più presto è l’unico momento lirico, incastonato così ad una vera profanazione di ciò che per padron ’Ntoni era un luogo sacro. La legge dell’economia pervade ancora, in modo prepotente, le azioni. Zio Crocifisso vi entra da padrone, la desacralizza letteralmente (parlavano a voce alta nelle stanze vuote, dove le parole si udivano come se fossero in chiesa), e cancella la storia, i ricordi, i sentimenti con un gesto brutale, definitivo (raccolse anche da terra un pezzo di cappello che era stato di Bastianazzo, e lo buttò nell’orto, dove avrebbe servito all’ingrasso).

IL VECCHIO ED IL NUOVO
(cap. 11)

Ma d’allora in poi non pensava ad altro che a quella vita senza pensieri e senza fatica che facevano gli altri; e la sera, per non sentire quelle chiacchiere senza sugo, si metteva sull’uscio colle spalle al muro, a guardare la gente che passava, e digerirsi la sua mala sorte; almeno così si riposava pel giorno dopo, che si tornava da capo a far la stessa cosa, al pari dell’asino di compare Mosca, il quale come vedeva prendere il basto gonfiava la schiena aspettando che lo bardassero! «Carne d’asino!» borbottava; «ecco cosa siamo! Carne da lavoro!» E si vedeva chiaro che era stanco di quella vitaccia, e voleva andarsene a far fortuna, come gli altri; tanto che sua madre, poveretta, l’accarezzava sulle spalle, e l’accarezzava pure col tono della voce, e cogli occhi pieni di lagrime, guardandolo fisso per leggergli dentro e toccargli il cuore. Ma ei diceva di no, che sarebbe stato meglio per lui e per loro; e quando tornava poi sarebbero stati tutti allegri. La povera donna non chiudeva occhio in tutta la notte, e inzuppava di lagrime il guanciale. Infine il nonno se ne accorse, e chiamò il nipote fuori dell’uscio, accanto alla cappelletta, per domandargli cosa avesse.
«Orsù, che c’è di nuovo? dillo a tuo nonno, dillo!»
‘Ntoni si stringeva nelle spalle; ma il vecchio seguitava ad accennare di sì col capo, e sputava, e si grattava il capo cercando le parole.
«Sì, sì, qualcosa ce l’hai in testa, ragazzo mio! Qualcosa che non c’era prima. “Chi va coi zoppi, all’anno zoppica”.
«C’è che sono un povero diavolo! ecco cosa c’è!»
«Bè! che novità! e non lo sapevi? Sei quel che è stato tuo padre, e quel ch’è stato tuo nonno! “Più ricco è in terra chi meno desidera”. “Meglio contentarsi che lamentarsi”.
«Bella consolazione!»
Questa volta il vecchio trovò subito le parole, perché si sentiva il cuore sulle labbra: «Almeno non lo dire davanti a tua madre»
«Mia madre… Era meglio che non mi avesse partorito, mia madre!»
«Sì», accennava padron ‘Ntoni, «sì! meglio che non t’avesse partorito, se oggi dovevi parlare in tal modo».
‘Ntoni per un po’ non seppe che dire: «Ebbene!» esclamò poi, «lo faccio per lei, per voi, e per tutti. Voglio farla ricca, mia madre! ecco cosa voglio. Adesso ci arrabattiamo colla casa e colla dote di Mena; poi crescerà Lia, e un po’ che le annate andranno scarse staremo sempre nella miseria. Non voglio più farla questa vita. Voglio cambiar stato, io e tutti voi. Voglio che siamo ricchi, la mamma, voi, Mena, Alessi e tutti». Padron ‘Ntoni spalancò tanto d’occhi, e andava ruminando quelle parole, come per poterle mandar giù. «Ricchi!» diceva, «ricchi! e che faremo quando saremo ricchi?»
‘Ntoni si grattò il capo, e si mise a cercare anche lui cosa avrebbero fatto. «Faremo quel che fanno gli altri… Non faremo nulla, non faremo!… Andremo a stare in città, a non far nulla, e a mangiare pasta e carne tutti i giorni».
«Va, va a starci tu in città. Per me io voglio morire dove son nato»; e pensando alla casa dove era nato, e che non era più sua si lasciò cadere la testa sul petto.
«Tu sei un ragazzo, e non lo sai!… non lo sai!… Vedrai cos’è quando non potrai più dormire nel tuo letto; e il sole non entrerà più dalla tua finestra!… Lo vedrai! te lo dico io che son vecchio!» Il poveraccio tossiva che pareva soffocasse, col dorso curvo, e dimenava tristamente il capo: «“Ad ogni uccello, suo nido è bello”. Vedi quelle passere? le vedi? Hanno fatto il nido sempre colà, e torneranno a farcelo, e non vogliono andarsene».
«Io non sono una passera. Io non sono una bestia come loro!» rispondeva ‘Ntoni. «Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l’asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo, sempre a girar la ruota; io non voglio morir di fame in un cantuccio, o finire in bocca ai pescicani».
«Ringrazia Dio piuttosto, che t’ha fatto nascer qui; e guardati dall’andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono. Chi cambia la vecchia per la nuova, peggio trova”. Tu hai paura del lavoro, hai paura della povertà; ed io che non ho più né le tue braccia né la tua salute non ho paura, vedi! “Il buon pilota si prova alle burrasche”. Tu hai paura di dover guadagnare il pane che mangi; ecco cos’hai! Quando la buon’anima di tuo nonno mi lasciò la Provvidenza e cinque bocche da sfamare, io era più giovane di te, e non aveva paura; ed ho fatto il mio dovere senza brontolare; e lo faccio ancora; e prego Iddio di aiutarmi a farlo sempre sinché ci avrò gli occhi aperti, come l’ha fatto tuo padre, e tuo fratello Luca, benedetto! che non ha avuto paura di andare a fare il suo dovere. Tua madre l’ha fatto anche lei il suo dovere, povera femminuccia, nascosta fra quelle quattro mura; e tu non sai quante lagrime ha pianto, e quante ne piange ora che vuoi andartene; che la mattina tua sorella trova il lenzuolo tutto fradicio! E nondimeno sta zitta e non dice di queste cose che ti vengono in mente; e ha lavorato, e si è aiutata come una povera formica anche lei; non ha fatto altro, tutta la sua vita, prima che le toccasse di piangere tanto, fin da quando ti dava la poppa, e quando non sapevi ancora abbottonarti le brache, che allora non ti era venuta in mente la tentazione di muovere le gambe, e andartene pel mondo come uno zingaro».
In conclusione ‘Ntoni si mise a piangere come un bambino, perché in fondo quel ragazzo il cuore ce l’aveva buono come il pane; ma il giorno dopo tornò da capo. La mattina si lasciava caricare svogliatamente degli arnesi, e se ne andava al mare brontolando: «Tale e quale l’asino di compare Alfio! come fa giorno allungo il collo per vedere se vengono a mettermi il basto».

Fino adesso nel romanzo abbiamo incontrato due tipologie romanzesche: da un lato i paesani, legati al profitto, umanamente disinteressati alle vicende altrui, gretti e meschini; dall’altra l’onestà di padron ‘Ntoni. Ora, nella narrazione, appare in modo ancor più violento del primo la storia. Essa dapprima aveva portato ‘Ntoni fuori dal paese, nella grande città, a Napoli, a fare il soldato, e, nel bene o nel male, aveva installato in lui, la “malattia” del cambiamento; poi Luca, che invece la storia se l’è preso, morendo per una guerra per lui lontana e senza senso. Ora la “malattia” di ‘Ntoni esplode, come una metastasi impazzita: è bastato l’arrivo in paese di due contrabbandieri, soldi facili si direbbe, per gravare su di lui l’insopportabilità di una vita sempre uguale e la voglia di fuggire. Ecco allora che si mettono in campo due visioni del mondo antitetiche: il conservatorismo del nonno e il ribellismo del nipote, il mondo statico di padron ‘Ntoni e il mondo dinamico di ‘Ntoni.

Se ci fossimo trovati di fronte ad un romanzo zoliano, molto probabilmente l’idea di uno sviluppo positivo, il tentativo di uscire da una condizione per migliorare la propria vita, sarebbe stato positivo. Per il conservatore Verga no: il ribellismo di ‘Ntoni non ha prospettive; la ricchezza è uguale alla scioperatezza, ad una condizione malata di essa; si è che Verga non vede prospettive, la sua storia è storia di fallimenti, non di progresso. Ma ciò non vuol dire che sia possibile ripristinare il passato:

IL RITORNO DI ALFIO
(cap. 15)

Alfio Mosca, mentre guidava il mulo, andava raccontando alla Nunziata come e dove avesse vista la Lia, ch’era tutta Sant’Agata, e ancora non gli pareva vero a lui stesso che l’avesse vista coi suoi occhi, tanto che la voce gli mancava nella gola, mentre ne parlava per ingannare la noia, lungo la strada polverosa. – Ah Nunziata! chi l’avrebbe detto, quando stavamo a chiacchierare da un uscio all’altro, e c’era la luna, e i vicini discorrevano lì davanti, e si udiva colpettare tutto il giorno quel telaio di Sant’Agata, e quelle galline che la conoscevano soltanto all’aprire che faceva il rastrello, e la Longa che la chiamava pel cortile, che ogni cosa si udiva da casa mia come se fosse stato proprio là dentro! Povera Longa! Adesso, vedi, che ci ho il mulo, e ogni cosa come desideravo, che se fosse venuto a dirmelo l’angelo del cielo non ci avrei creduto, adesso penso sempre a quelle sere là, quando udivo la voce di voialtre, mentre governavo l’asino, e vedevo il lume nella casa del nespolo, che ora è chiusa, e quando son tornato non ho trovato più niente di quel che avevo lasciato, e comare Mena non mi è parsa più quella. Uno che se ne va dal paese è meglio non ci torni più. Vedi, ora penso pure a quel povero asino che ha lavorato con me tanto tempo, e andava sempre, sole o pioggia, col capo basso e le orecchie larghe. Adesso chissà dove lo cacciano, e con quali carichi, e per quali strade, colle orecchie più basse ancora, ché anch’egli fiuta col naso la terra che deve raccoglierlo, come si fa vecchio, povera bestia! Padron ‘Ntoni, disteso sulla materassa, non udiva nulla, e ci avevano messo sul carro una coperta colle canne, sicché sembrava che portassero un morto. «Per lui è meglio che non oda più nulla», seguitava compare Alfio. «L’angustia di ‘Ntoni già l’ha sentita, e un giorno o l’altro gli toccherebbe anche di sentire come è andata a finire la Lia.»
(…)
Giacché tutti si maritavano, Alfio Mosca avrebbe voluto prendersi comare Mena, che nessuno la voleva più, dacché la casa dei Malavoglia s’era sfasciata, e compar Alfio avrebbe potuto dirsi un bel partito per lei, col mulo che ci aveva; così la domenica ruminava fra di sé tutte le ragioni per farsi animo, mentre stava accanto a lei, seduto davanti alla casa, colle spalle al muro, a sminuzzare gli sterpolini della siepe per ingannare il tempo. Anche lei guardava la gente che passava, e così facevano festa la domenica: «Se voi mi volete ancora, comare Mena», disse finalmente, «io per me son qua.»
La povera Mena non si fece neppur rossa, sentendo che compare Alfio aveva indovinato che ella lo voleva, quando stavano per darla a Brasi Cipolla, tanto le pareva che quel tempo fosse lontano, ed ella stessa non si sentiva più quella.«Ora sono vecchia, compare Alfio», rispose, «e non mi marito più.»
«Se voi siete vecchia, anch’io sono vecchio, ché avevo degli anni più di voi, quando stavamo a chiacchierare dalla finestra, e mi pare che sia stato ieri, tanto m’è rimasto in cuore. Ma devono esser passati più di otto anni. E ora quando si sarà maritato vostro fratello Alessi, voi restate in mezzo alla strada.»
Mena si strinse nelle spalle, perché era avvezza a fare la volontà di Dio, come la cugina Anna; e compare Alfio, vedendo così, riprese: «Allora vuol dire che non mi volete bene, comare Mena, e scusatemi se vi ho detto che vi avrei sposata. Lo so che voi siete nata meglio di me, e siete figlia di padroni; ma ora non avete più nulla, e se si marita vostro fratello Alessi, rimarrete in mezzo alla strada. Io ci ho il mulo e il mio carro, e il pane non ve lo farei mancare giammai, comare Mena. Ora perdonatemi la libertà!»
«Non mi avete offesa, no, compare Alfio; e vi avrei detto di sì anche quando avevamo la Provvidenza e la casa del nespolo, se i miei parenti avessero voluto, che Dio sa quel che ci avevo in cuore quando ve ne siete andato alla Bicocca col carro dell’asino, e mi pare ancora di vedere quel lume nella stalla, e voi che mettevate tutta la vostra roba sul carretto, nel cortile; vi rammentate?»
«Sì, che mi rammento! Allora perché non mi dite di sì, ora che non avete più nulla, e ci ho il mulo invece dell’asino al carretto, e i vostri parenti non potrebbero dir di no?»
«Ora non son più da maritare;» tornava a dire Mena col viso basso, e sminuzzando gli sterpolini della siepe anche lei. «Ho 26 anni, ed è passato il tempo di maritarmi.»
«No, che non è questo il motivo per cui non volete dirmi di sì!» ripeteva compar Alfio col viso basso come lei. «Il motivo non volete dirmelo!»
E così rimanevano in silenzio a sminuzzare sterpolini senza guardarsi in faccia. Dopo egli si alzava per andarsene, colle spalle grosse e il mento sul petto. Mena lo accompagnava cogli occhi finché poteva vederlo, e poi guardava al muro dirimpetto e sospirava. Come aveva detto Alfio Mosca, Alessi s’era tolta in moglie la Nunziata, e aveva riscattata la casa del nespolo.
«Io non son da maritare», aveva tornato a dire la Mena; «maritati tu che sei da maritare ancora;» e così ella era salita nella soffitta della casa del nespolo, come le casseruole vecchie, e s’era messo il cuore in pace, aspettando i figliuoli della Nunziata per far la mamma. Ci avevano pure le galline nel pollaio, e il vitello nella stalla, e la legna e il mangime sotto la tettoia, e le reti e ogni sorta di attrezzi appesi, il tutto come aveva detto padron ‘Ntoni; e la Nunziata aveva ripiantato nell’orto i broccoli ed i cavoli, con quelle braccia delicate che non si sapeva come ci fosse passata tanta tela da imbiancare, e come avesse fatti quei marmocchi grassi e rossi che la Mena si portava in collo pel vicinato, quasi li avesse messi al mondo lei, quando faceva la mamma. Compare Mosca scrollava il capo, mentre la vedeva passare, e si voltava dall’altra parte, colle spalle grosse. «A me non mi avete creduto degno di quest’onore!» le disse alfine quando non ne poté più, col cuore più grosso delle spalle. «Io non ero degno di sentirmi dir di sì!»
«No, compar Alfio!» rispose Mena la quale si sentiva spuntare le lagrime. «Per quest’anima pura che tengo sulle braccia! Non è per questo motivo. Ma io non son più da maritare.»
«Perché non siete più da maritare, comare Mena?»
«No! no!» – ripeteva comare Mena, che quasi piangeva. «Non me lo fate dire, compar Alfio! Non mi fate parlare! Ora se io mi maritassi, la gente tornerebbe a parlare di mia sorella Lia, giacché nessuno oserebbe prendersela una Malavoglia, dopo quello che è successo. Voi pel primo ve ne pentireste. Lasciatemi stare, che non sono da maritare, e mettetevi il cuore in pace.
«Avete ragione, comare Mena!» rispose compare Mosca; «a questo non ci avevo mai pensato. Maledetta la sorte che ha fatto nascere tanti guai! Così compare Alfio si mise il cuore in pace, e Mena seguitò a portare in braccio i suoi nipoti, quasi ci avesse il cuore in pace anche lei, e a spazzare la soffitta, per quando fossero tornati gli altri, che c’erano nati anche loro, – come se fossero stati in viaggio per tornare! – diceva Piedipapera.

Il ritorno di Alfio è giocato sul ricordo: il piano del ricordo che vuole rimettere in gioco nel presente, la Mena di ieri e la Mena di oggi. Anche qui, come nel passo precedente, le loro figure rimandano ad una sorte di pudore sentimentale, che può diventare “sfacciataggine” di compare Alfio, una “sfacciataggine” tuttavia che non offende, determinata dal sentimento che non è mai cambiato nei confronti della nipote di padron ‘Ntoni. Ma il passato non può tornare. Uno che se ne va dal paese è meglio che non torni più, dice Alfio; le cose cambiano ed anche i sentimenti escono sconfitti. La storia ha cambiato le situazioni, non esiste più circolarità.

IL RITORNO DI ‘NTONI
(cap. 15)

Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l’uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò ad aprire, non riconobbe ‘Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato, coperto di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato, e si fu messo a sedere in un cantuccio, non osavano quasi fargli festa. Ei non sembrava più quello, e andava guardando in giro le pareti, come non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, ché non l’aveva conosciuto mai. Gli misero fra le gambe la scodella, perché aveva fame e sete, ed egli mangiò in silenzio la minestra che gli diedero, come non avesse visto grazia di Dio da otto giorni, col naso nel piatto; ma gli altri non avevano fame, tanto avevano il cuore serrato. Poi ‘Ntoni, quando si fu sfamato e riposato alquanto, prese la sua sporta e si alzò per andarsene. Alessi non osava dirgli nulla, tanto suo fratello era mutato. Ma al vedergli riprendere la sporta, si sentì balzare il cuore dal petto, e Mena gli disse tutta smarrita: «Te ne vai?»
«Sì!» rispose ‘Ntoni.
«E dove vai?» chiese Alessi.
«Non lo so. Venni per vedervi. Ma dacché son qui la minestra mi è andata tutta in veleno. Per altro qui non posso starci, ché tutti mi conoscono, e perciò son venuto di sera. Andrò lontano, dove troverò da buscarmi il pane, e nessuno saprà chi sono.»
Gli altri non osavano fiatare, perché ci avevano il cuore stretto in una morsa, e capivano che egli faceva bene a dir così. ‘Ntoni continuava a guardare dappertutto, e stava sulla porta, e non sapeva risolversi ad andarsene.
«Ve lo farò sapere dove sarò;» disse infine, e come fu nel cortile, sotto il nespolo, che era scuro, disse anche: «E il nonno?»
Alessi non rispose; ‘Ntoni tacque anche lui, e dopo un pezzetto: «E la Lia che non l’ho vista?»
E siccome aspettava inutilmente la risposta, aggiunse colla voce tremante, quasi avesse freddo: «E’ morta anche lei?» Alessi non rispose nemmeno; allora ‘Ntoni che era sotto il nespolo, colla sporta in mano, fece per sedersi, poiché le gambe gli tremavano, ma si rizzò di botto, balbettando: «Addio addio! Lo vedete che devo andarmene?»
Prima d’andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto come prima; ma adesso, a lui che gli era bastato l’animo di lasciarla, e di dare una coltellata a don Michele, e di starsene nei guai, non gli bastava l’animo di passare da una camera all’altra se non glielo dicevano. Alessi che gli vide negli occhi il desiderio, lo fece entrare nella stalla, col pretesto del vitello che aveva comperato la Nunziata, ed era grasso e lucente; e in un canto c’era pure la chioccia coi pulcini; poi lo condusse in cucina, dove avevano fatto il forno nuovo, e nella camera accanto, che vi dormiva la Mena coi bambini della Nunziata, e pareva che li avesse fatti lei. ‘Ntoni guardava ogni cosa, e approvava col capo, e diceva: «Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il vitello; qui c’erano le chioccie, e qui dormivano le ragazze, quando c’era anche quell’altra…»
Ma allora non aggiunse altro, e stette zitto a guardare intorno, cogli occhi lustri. In quel momento passava la Mangiacarrubbe, che andava sgridando Brasi Cipolla per la strada, e ‘Ntoni disse: «Questa qui l’ha trovato il marito; ed ora, quando avranno finito di quistionare, andranno a dormire nella loro casa.»
Gli altri stettero zitti, e per tutto il paese era un gran silenzio, soltanto si udiva sbattere ancora qualche porta che si chiudeva; e Alessi a quelle parole si fece coraggio per dirgli: «Se volessi anche tu ci hai la tua casa. Di là c’è apposta il letto per te.»
«No!» rispose ‘Ntoni. «Io devo andarmene. Là c’era il letto della mamma, che lei inzuppava tutto di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la sera, mentre si salavano le acciughe? e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la Lia, tutti lì, al chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una famiglia? Anch’io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo andarmene.»
In quel momento parlava cogli occhi fissi a terra, e il capo rannicchiato nelle spalle. Allora Alessi gli buttò le braccia al collo. «Addio,» ripeté ‘Ntoni. «Vedi che avevo ragione d’andarmene! qui non posso starci. Addio, perdonatemi tutti.»
E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese. Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai fariglioni, perché il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico. Allora ‘Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa, e sedette sul muricciuolo della vigna di massaro Filippo. Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero, e ascoltando il mare che gli brontolava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch’ei conosceva, e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le strade buie. Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardare i Tre Re che luccicavano, e la Puddara che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia. A poco a poco il mare cominciò a farsi bianco, e i Tre Re ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad una nelle vie scure, cogli usci chiusi, che si conoscevano tutte, e solo davanti alla bottega di Pizzuto c’era il lumicino, e Rocco Spatu colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava. «Fra poco lo zio Santoro aprirà la porta, pensò ‘Ntoni, e si accoccolerà sull’uscio a cominciare la sua giornata anche lui.» Tornò a guardare il mare, che s’era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta e disse: «Ora è tempo d’andarmene, perché fra poco comincierà a passar gente. Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu.»

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‘Ntoni

Dopo il ritorno di Alfio, il ritorno di ‘Ntoni. Poche righe separano le due azioni: poche righe lo stesso concetto. C’è sconfitta, ma questa volta non è sentimentale, e di un’intera vita. Se per Alfio la sconfitta è un dire addio a Mena, ma è un ritorno diverso, in cui lui è più ricco, sia dentro che fuori e comprende le leggi che sovrintendono alla comunità, ‘Ntoni è totalmente sconfitto. La galera lo ha escluso definitivamente, lo ha reso “inaccettabile” soprattutto a lui stesso, gli ha fatto capire l’errore di un sogno e il duro prezzo che è costretto a pagare. Il ricordo non lo aiuta, anzi esacerba il suo rimpianto e lo porta alla considerazione della vanità delle cose. Solo la natura, sempre uguale a se stessa, sembra resistere agli effetti della storia: il mare che brontola, l’alba, i Tre Re; gli altri, come Rocco Spatu che è il primo a svegliarsi, ricominceranno a lavorare e a arrabbattarsi, comunque inutilmente. Quanta tristezza nell’addio di ‘Ntoni, quanta verità, e quanta poesia nella scarsezza lessicale verghiana!

I Malavoglia, come detto, è un romanzo pubblicato nel 1881, ad un anno di distanza dalle novelle di Vita dei campi. La genesi ci porta nel 1874, dove al suo editore Treves prospetta un “bozzetto marinaresco” dal titolo Padron ‘Ntoni. Tuttavia bisogna aspettare ancora sei anni, con il passaggio al mondo rurale in Nedda, perché Verga trovasse infine l’intero materiale per dar vita al romanzo.
Non c’è differenza stilistica, né diversità ideologica tra le novelle ed I Malavoglia: ne è testimonianza Fantasticheria, che apre Vita dei campi: vengono qui descritti personaggi che faranno parte del romanzo. Ciò vuol dire che la composizione delle due opere avviene contemporaneamente.

Per l’analisi dell’opera partiamo dalla presentazione dei personaggi: questa non è mai analitica e descrittiva, ma statica, dettata dalle stesse azioni degli stessi e registrata da un narratore interno.
I personaggi vengono distribuiti in due categorie in modo parallelo ed antitetico:

  • i Malavoglia ed il paese: i primi legati ai valori della laboriosità ed onestà; i secondi rappresentano invece un mondo dominato dal denaro e l’affermazione sociale; Verga nella descrizione dei due non prende alcuna parte. La grettezza rimane tale, dall’inizio alla fine. Ma anche padron ‘Ntoni non è salvato, con la sua cocciutaggine per la “religione della famiglia” porta quest’ultima alla rovina;
  • All’interno della famiglia: padron ‘Ntoni con Mena e Alessi e, dall’altra parte ‘Ntoni e Lia. I primi agiscono all’interno di un conflitto tra loro ed il destino e ciò che esso prepara loro (tempeste, morte); i secondi un conflitto con se stessi che si esplica attraverso l’insofferenza e i limiti imposti dalla famiglia e la voglia di scappare di realizzare se stessi in un futuro nebuloso dai contorni indefiniti. Anche qui Verga non si schiera; ancora padron ‘Ntoni che non sa che opporre al nipote stanco proverbi “immobili”, che non riesce a capire il movimento storico e rimane abbrancato a qualcosa che non esiste più. Ma anche ‘Ntoni ci offre soltanto la sua negatività: non è “progresso sociale” il suo, vuole portare l’idea del paese nel mondo col mito del denaro, per diventar ricco e non fare niente.

In Verga nulla si muove ed il suo pessimismo è totale.

Lo spazio dei Malavoglia è uno spazio limitato: i gradini della chiesa, la bottega, la farmacia e l’osteria; per le donne la strada. dove s’incontrano per pettegolare. Al di là di questo tutto è lontano, fosse Lissa, Napoli, oppure Catania. Più che lontano è più esatto dire che sia esterno. Qui Verga pone un’altra volta l’antinomia: l’interno il paese è il luogo dove i meccanismi sono conosciuti e quindi sicuri; l’esterno rappresenta invece il pericolo, l’ignoto (dove appunto finiscono sia ‘Ntoni che Lia).

Un ultimo discorso lo merita lo stile e la lingua usata per I Malavoglia: si è già parlato della scomparsa dello scrittore onnisciente, ora si tratta di sottolineare la distanza che vi è tra il purismo linguistico manzoniano e la scelta verghiana: si tratta infatti di una scelta nuova, quella di un italiano parlato dai siciliani colti con influenze del parlato (si può citare ad esempio l’uso del che subordinante che traduce il ca siciliano).
Per quanto attiene al discorso indiretto libero si tratta di una tecnica in cui spariscono i verba dicendi con l’infinitiva e si assume, nella narrazione, senza soluzione di continuità, il pensiero del personaggio che si assimila a quello dell’autore.
Ancora l’uso insistito dei proverbi, che vogliono rendere una saggezza popolare, mitica e senza tempo (ricordiamo la ricerca scrupolosa su di essi fatto su testi di studio di folclore siciliano).

*le immagini poste per “I Malavoglia” sono tratte dal film di Luchino Visconti La terra trema del 1948 ispirato al romanzo verghiano.

Anche il secondo romanzo verghiano viene preceduta da una raccolta di 12 racconti, a cui l’autore siciliano dà il titolo di Novelle rusticane (1883): in questa si fa più cupo il suo pessimismo. I protagonisti, infatti, non sono più i miseri pescatori o icontadini di Vita dei campi, ma reverendi, proprietari terrieri amministratori, chi, in qualche modo, stava arrancando attraverso la scala sociale. Qualcuno di essi, pur diventando ricchissimo, non muta affatto pelle, come Mazzarò:

LA ROBA

Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: «Qui di chi è?» sentiva rispondersi: «Di Mazzarò.» E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembravano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: «E qui?» «Di Mazzarò.» E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo6 , accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: «Di Mazzarò.» Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandrie di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. «Tutta roba di Mazzarò». Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. – Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo. Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga – dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto.
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva quattordici ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: «Curviamoci, ragazzi!» Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il danaro tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte doveva mutar strada, e cedere il passo.
Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. “Costui vuol essere rubato per forza!” diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: “Chi è minchione, se ne stia a casa”; – “la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare”. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la mèsse, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non rimase altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: «Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te».
Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più i calci nel di dietro.
«Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò!» diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina di mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, o voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini41, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sicché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se la chiappava – per un pezzo di pane. – E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo e l’asinello, che non avevano da mangiare.
«Lo vedete, quel che mangio io?» rispondeva lui, «pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba.» E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: «Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle?» E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro, diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed essere meglio del re, ché il re non può né venderla, né dire ch’è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, con il mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: “Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente!” Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: «Roba mia, vientene con me!»

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Illustrazione della novella “La roba”

La novella si struttura intorno al dato economico: è la roba, nuova dea cui Mazzarò è devoto sacerdote. Sembra che tale novella esemplifichi un po’ il personaggio descritto nei Malavoglia, quello di Zio Crocefisso (non è un caso che essa appaia in rivista nel 1880); ma è altrettanto indice della volontà dello scrittore nel descrivere una tipologia umana realmente esistente. Si tratta di rendere visibile il concetto del possesso, e qui Verga lo renda esplicito attraverso non solo la descrizione di Mazzarò, la sua pancia e il suo cappello, ma nei lenti gesti che scandiscono un lavorio tutto teso all’accumulo, tanto da diventare compulsivo. E’ per questo che la novella da “tragedia” umana, alla fine vira sul grottesco; Mazzarò per rincorrere la roba, diventa pazzo.

LIBERTA’

Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!»
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei “galantuomini”, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
«A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!» Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. «A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima!» «A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero!» «A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente!» «A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!»
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! «Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!»
Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. «Perché? perché mi ammazzate?» «Anche tu! al diavolo!» Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. «Abbasso i cappelli! Viva la libertà!» «Te’! tu pure!» Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. «Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale!» La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e riempiva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. – Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse – lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia – don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. «Paolo! Paolo!» Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello. Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: «Neddu! Neddu!» Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e tremava come una foglia. – Un altro gridò: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!»
Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! – Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. – «Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta!» «Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente!» «Te’! Te’!» Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure! La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. «Viva la libertà!» E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. «I campieri dopo!» «I campieri dopo!» Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata – e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: «Mamà! mamà!» Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo capestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.
E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi.
Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.
Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. – Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! – Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. – Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! – Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! – Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! – E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? – Ladro tu e ladro io -. Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! – Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa.
Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo «ahi!» ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: «Sta tranquilla che non ne esce più». Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci.
Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia – ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. «Voi come vi chiamate?» E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: «Sul mio onore e sulla mia coscienza!…»
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: «Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la liberta!…»

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Illustrazione per la novella “Libertà”

I fatti raccontati in questa novella sono veri e si riferiscono alle vicende risorgimentali accadute dopo l’arrivo di Garibaldi in Sicilia. Ci troviamo, nella realtà storica a Bronte, paese sull’Etna, dove il generale, appena sbarcato, fece promessa ai contadini di una divisione delle terre demaniali e di un generale miglioramento della condizione di vita dei contadini. Nella realtà tale miglioramento non si ebbe e scoppiarono delle rivolte in varie località, ma soprattutto a Bronte, dove vi era riconosciuto un avvocato socialista, Niccolò Lombardini. Tuttavia la rivolta sfuggì di mano ai vari partiti politici, trasformandosi in un eccidio. Nino Bixio, comandato dallo stesso Garibaldi, intervenne, riportando l’ordine in modo cruento: fece fucilare, tra cui lo stesso Lombardo, i più “facinorosi”, negando loro qualsiasi forma di regolare processo.

La novella si riferisce a questo episodio, ma ci dice anche qualcosa di più: l’eliminazione di una qualsiasi guida nel racconto verghiano, induce lo stesso a raccontarci una folla irrazionale, che uccide, quasi, per il solo gusto d’ammazzare. A descrivere il sommossa popolare, Verga indugia in una lunga macrosequenza, isolando le azioni più efferate. Diverso l’atteggiamento dello scrittore verso Ninio Bixio, a disegnarci quasi un buon padre, che rimbocca le coperte ai suoi soldati, ma che si rivela, anche un determinato, nonché spietato esecutore di morte. E’ che in Verga non c’è pietà per nessuno, la storia stritola, al di là della voglia di cambiarla.

D’altra parte tutto nasce da un’incomprensione: la libertà garibaldina era una libertà politica; quella contadina una libertà da millenni di soprusi: i due linguaggi non si parlano, così come ci viene chiarito dall’ultima riga del racconto.

Mastro-don Gesualdo è il secondo romanzo “verista” verghiano, cui il nostro lavorò dal 1882 al 1889.

L’azione si svolge a Vizzini, centro agricolo del catanese, tra il 1820 e il 1848, un periodo segnato da rivolte politiche e sociali. Il manovale “Mastro” Gesualdo è diventato “don” a forza di lavoro e sacrifici. Dopo la ricchezza, la sua promozione sociale dovrebbe essere sancita dal matrimonio che lo imparenta a una famiglia nobile seppure economicamente rovinata: sposa Bianca Trao, ma non per questo è accolto nel suo mondo. La moglie, del resto, non lo ama e quando lo ha sposato era già incinta, i seguito a una relazione col ricco cugino Ninì Rubiera, che la madre di questi aveva impedito si concludesse il matrimonio. Nasce Isabella, che da grande si vergognerà delle umili origini del padre putativo e sposerà, anche lei come la madre, per “riparare”, un duca squattrinato e dissipatore della dote e dei beni del suocero. Il romanzo si conclude con la scena della morte in solitudine del protagonista, relegato in una stanza del palazzo ducale a Palermo, abbandonato dalla figlia e irriso dai servitori.

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Immagine di Copertina per il “Mastro don Gesualdo”

L’INCENDIO
(I, 1)

Suonava la messa dell’alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossa, perché era piovuto da tre giorni, e nei seminati ci si affondava fino a mezza gamba. Tutt’a un tratto, nel silenzio, s’udì un rovinìo, la campanella squillante di Sant’Agata che chiamava aiuto, usci e finestre che sbattevano, la gente che scappava fuori in camicia, gridando:
«Terremoto! San Gregorio Magno!»
Era ancora buio. Lontano, nell’ampia distesa nera dell’Alìa, ammiccava soltanto un lume di carbonai, e più a sinistra la stella del mattino, sopra un nuvolone basso che tagliava l’alba nel lungo altipiano del Paradiso. Per tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere basso, giunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l’allarme anch’esso; poi la campana fessa di San Vito; l’altra della chiesa madre, più lontano; quella di Sant’Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una dopo l’altra s’erano svegliate pure le campanelle dei monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano, Santa Teresa: uno scampanìo generale che correva sui tetti spaventato, nelle tenebre.
«No! no! È il fuoco!… Fuoco in casa Trao!… San Giovanni Battista!»
Gli uomini accorrevano vociando, colle brache in mano. Le donne mettevano il lume alla finestra: tutto il paese, sulla collina, che formicolava di lumi, come fosse il giovedì sera, quando suonano le due ore di notte: una cosa da far rizzare i capelli in testa, chi avesse visto da lontano.
«Don Diego! Don Ferdinando!» si udiva chiamare in fondo alla piazzetta; e uno che bussava al portone con un sasso.
Dalla salita verso la Piazza Grande, e dagli altri vicoletti, arrivava sempre gente: un calpestìo continuo di scarponi grossi sull’acciottolato; di tanto in tanto un nome gridato da lontano; e insieme quel bussare insistente al portone in fondo alla piazzetta di Sant’Agata, e quella voce che chiamava:
«Don Diego! Don Ferdinando! Che siete tutti morti?»
Dal palazzo dei Trao, al di sopra del cornicione sdentato, si vedevano salire infatti, nell’alba che cominciava a schiarire, globi di fumo denso, a ondate, sparsi di faville. E pioveva dall’alto un riverbero rossastro, che accendeva le facce ansiose dei vicini raccolti dinanzi al portone sconquassato, col naso in aria. Tutt’a un tratto si udì sbatacchiare una finestra, e una vocetta stridula che gridava di lassù:
«Aiuto!… ladri!… Cristiani, aiuto!»
«Il fuoco! Avete il fuoco in casa! Aprite, don Ferdinando!»
«Diego! Diego!»
Dietro alla faccia stralunata di don Ferdinando Trao apparve allora alla finestra il berretto da notte sudicio e i capelli grigi svolazzanti di don Diego. Si udì la voce rauca del tisico che strillava anch’esso:
«Aiuto!… Abbiamo i ladri in casa! Aiuto!»
«Ma che ladri!… Cosa verrebbero a fare lassù?» sghignazzò uno nella folla.
«Bianca! Bianca! Aiuto! aiuto!»
Giunse in quel punto trafelato Nanni l’Orbo, giurando d’averli visti lui i ladri, in casa Trao.
«Con questi occhi!… Uno che voleva scappare dalla finestra di donna Bianca, e s’è cacciato dentro un’altra volta, al vedere accorrer gente!…»
«Brucia il palazzo, capite? Se ne va in fiamme tutto il quartiere! Ci ho accanto la mia casa, perdio!» Si mise a vociare mastro-don Gesualdo Motta. Gli altri intanto, spingendo, facendo leva al portone, riuscirono a penetrare nel cortile, ad uno ad uno, coll’erba sino a mezza gamba, vociando, schiamazzando, armati di secchie, di brocche piene d’acqua; compare Cosimo colla scure da far legna; don Luca il sagrestano che voleva dar di mano alle campane un’altra volta, per chiamare all’armi; Pelagatti così com’era corso, al primo allarme, col pistolone arrugginito ch’era andato a scavar di sotto allo strame.
Dal cortile non si vedeva ancora il fuoco. Soltanto, di tratto in tratto, come spirava il maestrale, passavano al di sopra delle gronde ondate di fumo, che si sperdevano dietro il muro a secco del giardinetto, fra i rami dei mandorli in fiore. Sotto la tettoia cadente erano accatastate delle fascine; e in fondo, ritta contro la casa del vicino Motta, dell’altra legna grossa: assi d’impalcati, correntoni fradici, una trave di palmento che non si era mai potuta vendere.
«Peggio dell’esca, vedete!» sbraitava mastro-don Gesualdo.» «Roba da fare andare in aria tutto il quartiere!… santo e santissimo!… E me la mettono poi contro il mio muro; perché loro non hanno nulla da perdere, santo e santissimo!…»
In cima alla scala, don Ferdinando, infagottato in una vecchia palandrana, con un fazzolettaccio legato in testa, la barba lunga di otto giorni, gli occhi grigiastri e stralunati, che sembravano quelli di un pazzo in quella faccia incartapecorita di asmatico, ripeteva come un’anatra:
«Di qua! di qua!»
Ma nessuno osava avventurarsi su per la scala che traballava. Una vera bicocca quella casa: i muri rotti, scalcinati, corrosi; delle fenditure che scendevano dal cornicione sino a terra; le finestre sgangherate e senza vetri; lo stemma logoro, scantonato, appeso ad un uncino arrugginito, al di sopra della porta. Mastro-don Gesualdo voleva prima buttar fuori sulla piazza tutta quella legna accatastata nel cortile.
«Ci vorrà un mese!» rispose Pelagatti il quale stava a guardare sbadigliando, col pistolone in mano.
«Santo e santissimo! Contro il mio muro è accatastata!… Volete sentirla, sì o no?»
Giacalone diceva piuttosto di abbattere la tettoia; don Luca il sagrestano assicurò che pel momento non c’era pericolo: una torre di Babele!
Erano accorsi anche altri vicini. Santo Motta colle mani in tasca, il faccione gioviale e la barzelletta sempre pronta. Speranza, sua sorella, verde dalla bile, strizzando il seno vizzo in bocca al lattante, sputando veleno contro i Trao: «Signori miei… guardate un po’!… Ci abbiamo i magazzini qui accanto!» E se la prendeva anche con suo marito Burgio, ch’era lì in maniche di camicia: «Voi non dite nulla! State lì come un allocco! Cosa siete venuto a fare dunque?»
Mastro-don Gesualdo si slanciò il primo urlando su per la scala. Gli altri dietro come tanti leoni per gli stanzoni scuri e vuoti. A ogni passo un esercito di topi che spaventavano la gente. «Badate! badate! Ora sta per rovinare il solaio!» Nanni l’Orbo che ce l’aveva sempre con quello della finestra, vociando ogni volta: «Eccolo! eccolo!» E nella biblioteca, la quale cascava a pezzi, fu a un pelo d’ammazzare il sagrestano col pistolone di Pelagatti. Si udiva sempre nel buio la voce chioccia di don Ferdinando il quale chiamava: «Bianca! Bianca!» E don Diego che bussava e tempestava dietro un uscio, fermando pel vestito ognuno che passava strillando anche lui: «Bianca! mia sorella!..»
«Che scherzate?» rispose mastro-don Gesualdo rosso come un pomodoro, liberandosi con una strappata. «Ci ho la mia casa accanto, capite: Se ne va in fiamme tutto il quartiere!»
Era un correre a precipizio nel palazzo smantellato; donne che portavano acqua; ragazzi che si rincorrevano schiamazzando in mezzo a quella confusione, come fosse una festa; curiosi che girandolavano a bocca aperta, strappando i brandelli di stoffa che pendevano ancora dalle pareti, toccando gli intagli degli stipiti, vociando per udir l’eco degli stanzoni vuoti, levando il naso in aria ad osservare le dorature degli stucchi, e i ritratti di famiglia: tutti quei Trao affumicati che sembravano sgranare gli occhi al vedere tanta marmaglia in casa loro. Un va e vieni che faceva ballare il pavimento.

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Casa di Mastro don Gesualdo a Vizzini

Anche questo romanzo, come I Malavoglia, comincia in medias res: un incendio in casa Trao, due vecchi nobili, morti di fame, cui è scoppiato un incendio dentro casa, un’inesistente Bianca, (nel balcone con l’amante, che viene scambiato per ladro) e soprattutto Gesualdo, citato con nome e cognome. In pochi tratti, con un’ottima costruzione narrativa, ci viene detto l’essenziale: soprattutto riguardo Gesualdo: il sottolineare la sua “proprietà” a rischio incendio ci fa intravedere come stia attento alle sua “roba” e come al contempo, già appaiano ben delinate le figure di contorno, Sante e Speranza, fratelli di Gesualdo.

GESUALDO E DIODATA
(I,4)

Allorché finalmente Gesualdo arrivò alla Canziria, erano circa due ore di notte. La porta della fattoria era aperta. Diodata aspettava dormicchiando sulla soglia. Massaro Carmine, il camparo, era steso bocconi sull’aia, collo schioppo fra le gambe; Brasi Camauro e Nanni l’Orbo erano spulezzati di qua e di là, come fanno i cani la notte, quando sentono la femmina nelle vicinanze; e i cani soltanto davano il benvenuto al padrone, abbaiando intorno alla fattoria.
«Ehi? non c’è nessuno? Roba senza padrone, quando manco io!»
Diodata, svegliata all’improvviso, andava cercando il lume tastoni, ancora assonnata. Lo zio Carmine, fregandosi gli occhi, colla bocca contratta dai sbadigli, cercava delle scuse.
«Ah!… sia lodato Dio! Voi ve la dormite da un canto, Diodata dall’altro, al buio!… Cosa facevi al buio?… aspettavi qualcheduno?… Brasi Camauro oppure Nanni l’Orbo?…»
La ragazza ricevette la sfuriata a capo chino, e intanto accendeva lesta lesta il fuoco, mentre il suo padrone continuava a sfogarsi, lì fuori, all’oscuro, e passava in rivista i buoi legati ai pioli intorno all’aia. Il camparo mogio mogio gli andava dietro per rispondere al caso: «Gnorsì, Pelorosso sta un po’ meglio; gli ho dato la gramigna per rinfrescarlo. La Bianchetta ora mi fa la svogliata anch’essa… Bisognerebbe mutar di pascolo… tutto il bestiame… Il mal d’occhio, sissignore! Io dico ch’è passato di qui qualcheduno che portava il malocchio!… Ho seminato perfino i pani di San Giovanni nel pascolo… Le pecore stanno bene, grazie a Dio… e il raccolto pure… Nanni l’Orbo? Laggiù a Passanitello, dietro le gonnelle di quella strega… Un giorno o l’altro se ne torna a casa colle gambe rotte, com’è vero Dio!… e Brasi Camauro anch’esso, per amor di quattro spighe… »
Diodata gridò dall’uscio ch’era pronto. «Se non avete altro da comandarmi, vossignoria, vado a buttarmi giù un momento…»
Come Dio volle finalmente, dopo un digiuno di ventiquattr’ore, don Gesualdo poté mettersi a tavola, seduto di faccia all’uscio, in maniche di camicia, le maniche rimboccate al disopra dei gomiti, coi piedi indolenziti nelle vecchie ciabatte ch’erano anch’esse una grazia di Dio. La ragazza gli aveva apparecchiata una minestra di fave novelle, con una cipolla in mezzo, quattr’ova fresche, e due pomidori ch’era andata a cogliere tastoni dietro la casa. Le ova friggevano nel tegame, il fiasco pieno davanti; dall’uscio entrava un venticello fresco ch’era un piacere, insieme al trillare dei grilli, e all’odore dei covoni nell’aia: – il suo raccolto lì, sotto gli occhi, la mula che abboccava anch’essa avidamente nella bica dell’orzo, povera bestia – un manipolo ogni strappata! Giù per la china, di tanto in tanto, si udiva nel chiuso il campanaccio della mandra; e i buoi accovacciati attorno all’aia, legati ai cestoni colmi di fieno, sollevavano allora il capo pigro, soffiando, e si vedeva correre nel buio il luccichìo dei loro occhi sonnolenti, come una processione di lucciole che dileguava.Gesualdo posando il fiasco mise un sospirone, e appoggiò i gomiti sul deschetto:
«Tu non mangi?… Cos’hai?»
Diodata stava zitta in un cantuccio, seduta su di un barile, e le passò negli occhi, a quelle parole, un sorriso di cane accarezzato.
«Devi aver fame anche tu. Mangia! mangia!»
Essa mise la scodella sulle ginocchia, e si fece il segno della croce prima di cominciare, poi disse: «Benedicite a vossignoria!»
Mangiava adagio adagio, colla persona curva e il capo chino. Aveva una massa di capelli morbidi e fini, malgrado le brinate ed il vento aspro della montagna: dei capelli di gente ricca, e degli occhi castagni, al pari dei capelli, timidi e dolci: de’ begli occhi di cane carezzevoli e pazienti, che si ostinavano a farsi voler bene, come tutto il viso supplichevole anch’esso. Un viso su cui erano passati gli stenti, la fame, le percosse, le carezze brutali; limandolo, solcandolo, rodendolo; lasciandovi l’arsura del solleone, le rughe precoci dei giorni senza pane, il lividore delle notti stanche – gli occhi soli ancora giovani, in fondo a quelle occhiaie livide. Così raggomitolata sembrava proprio una ragazzetta, al busto esile e svelto, alla nuca che mostrava la pelle bianca dove il sole non aveva bruciato. Le mani, annerite, erano piccole e scarne: delle povere mani pel suo duro mestiere!…
«Mangia, mangia. Devi essere stanca tu pure!…»
Ella sorrise, tutta contenta, senza alzare gli occhi. Il padrone le porse anche il fiasco: «Te’, bevi! non aver suggezione!»
Diodata, ancora un po’ esitante, si pulì la bocca col dorso della mano, e s’attaccò al fiasco arrovesciando il capo all’indietro. Il vino, generoso e caldo, le si vedeva scendere quasi a ogni sorso nella gola color d’ambra; il seno ancora giovane e fermo sembrava gonfiarsi. Il padrone allora si mise a ridere.
«Brava, brava! Come suoni bene la trombetta!…»
Sorrise anch’essa, pulendosi la bocca un’altra volta col dorso della mano, tutta rossa.
«Tanta salute a vossignoria!»
Egli uscì fuori a prendere il fresco. Si mise a sedere su di un covone, accanto all’uscio, colle spalle al muro, le mani penzoloni fra le gambe. La luna doveva essere già alta, dietro il monte, verso Francofonte. Tutta la pianura di Passanitello, allo sbocco della valle, era illuminata da un chiarore d’alba. A poco a poco, al dilagar di quel chiarore, anche nella costa cominciarono a spuntare i covoni raccolti in mucchi, come tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si movevano per la china, e a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grosso, mentre scendeva passo passo verso il torrente. Di tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello più fresco dalla parte di ponente, e per tutta la lunghezza della valle udivasi lo stormire delle messi ancora in piedi. Nell’aia la bica alta e ancora scura sembrava coronata d’argento, e nell’ombra si accennavano confusamente altri covoni in mucchi; ruminava altro bestiame; un’altra striscia d’argento lunga si posava in cima al tetto del magazzino, che diventava immenso nel buio.
«Eh? Diodata? Dormi, marmotta?…»
«Nossignore, no!…»
Essa comparve tutta arruffata e spalancando a forza gli occhi assonnati. Si mise a scopare colle mani dinanzi all’uscio, buttando via le frasche, carponi, fregandosi gli occhi di tanto in tanto per non lasciarsi vincere dal sonno, col mento rilassato, le gambe fiacche.
«Dormivi!… Se te l’ho detto che dormivi!…»
E le assestò uno scapaccione come carezza.
Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! Ragazzetto… gli sembrava di tornarci ancora, quando portava il gesso dalla fornace di suo padre, a Donferrante! Quante volte l’aveva fatta quella strada di Licodia, dietro gli asinelli che cascavano per via e morivano alle volte sotto il carico! Quanto piangere e chiamar santi e cristiani in aiuto! Mastro Nunzio allora suonava il deprofundis sulla schiena del figliuolo, con la funicella stessa della soma… Erano dieci o dodici tarì che gli cascavano di tasca ogni asino morto al poveruomo! – Carico di famiglia! Santo che gli faceva mangiare i gomiti sin d’allora; Speranza che cominciava a voler marito; la mamma con le febbri, tredici mesi dell’anno!… – Più colpi di funicella che pane! – Poi quando il Mascalise, suo zio, lo condusse seco manovale, a cercar fortuna… Il padre non voleva, perché aveva la sua superbia anche lui, come uno che era stato sempre padrone, alla fornace, e gli cuoceva di vedere il sangue suo al comando altrui. – Ci vollero sette anni prima che gli perdonasse, e fu quando finalmente Gesualdo arrivò a pigliare il primo appalto per conto suo… la fabbrica del Molinazzo… Circa duecento salme di gesso che andarono via dalla fornace al prezzo che volle mastro Nunzio… e la dote di Speranza anche, perché la ragazza non poteva più stare in casa… – E le dispute allorché cominciò a speculare sulla campagna!… – Mastro Nunzio non voleva saperne… Diceva che non era il mestiere in cui erano nati. “Fa l’arte che sai!” – Ma poi, quando il figliuolo lo condusse a veder le terre che aveva comprato, lì proprio, alla Canziria, non finiva di misurarle in lungo e in largo, povero vecchio, a gran passi, come avesse nelle gambe la canna dell’agrimensore… E ordinava “bisogna far questo e quest’altro” per usare del suo diritto, e non confessare che suo figlio potesse aver la testa più fine della sua. – La madre non ci arrivò a provare quella consolazione, poveretta. Morì raccomandando a tutti Santo, che era stato sempre il suo prediletto e Speranza carica di famiglia com’era stata lei… – un figliuolo ogni anno… – Tutti sulle spalle di Gesualdo, giacché lui guadagnava per tutti. Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva passate delle giornate dure e delle notti senza chiuder occhio! Vent’anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come si mettesse. – Quante avemarie, e di quelle proprio che devono andar lassù, per la pioggia e pel bel tempo! – Tanta carne al fuoco! tanti pensieri, tante inquietudini, tante fatiche!… La coltura dei fondi, il commercio delle derrate, il rischio delle terre prese in affitto, le speculazioni del cognato Burgio che non ne indovinava una e rovesciava tutto il danno sulle spalle di lui!… – Mastro Nunzio che si ostinava ad arrischiare cogli appalti il denaro del figliuolo, per provare che era il padrone in casa sua!… – Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell’aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all’ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. – Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro; mai un’ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi in barba sua all’osteria! – trovando a casa poi ogni volta il viso arcigno di Speranza, o le querimonie del cognato, o il piagnucolìo dei ragazzi – le liti fra tutti loro quando gli affari non andavano bene. – Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fare il suo interesse. – Nel paese non un solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. – Dover celare sempre la febbre dei guadagni, la botta di una mala notizia, l’impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusa, l’occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di ogni giorno; le ambagi per dire soltanto “vi saluto”; le strette di mano inquiete, coll’orecchio teso; la lotta coi sorrisi falsi, o coi visi arrossati dall’ira, spumanti bava e minacce – la notte sempre inquieta, il domani sempre grave di speranza o di timore…
«Ci hai lavorato, anche tu, nella roba del tuo padrone!… Hai le spalle grosse anche tu… povera Diodata!…»
Essa, vedendosi rivolta la parola, si accostò tutta contenta e gli si accovacciò ai piedi, su di un sasso, col viso bianco di luna, il mento sui ginocchi, in un gomitolo. Passava il tintinnìo dei campanacci, il calpestìo greve e lento per la distesa del bestiame che scendeva al torrente, dei muggiti gravi e come sonnolenti, le voci dei guardiani che lo guidavano e si spandevano lontane, nell’aria sonora. La luna ora discesa sino all’aia, stampava delle ombre nere in un albore freddo; disegnava l’ombra vagante dei cani di guardia che avevano fiutato il bestiame; la massa inerte del camparo, steso bocconi «Nanni l’Orbo, eh?… o Brasi Camauro? Chi dei due ti sta dietro la gonnella?» riprese don Gesualdo che era in vena di scherzare.
Diodata sorrise: «Nossignore!… nessuno!…»
Ma il padrone ci si divertiva: «Sì, sì!… l’uno o l’altro… o tutti e due insieme!… Lo saprò!… Ti sorprenderò con loro nel vallone, qualche volta!…»
Essa sorrideva sempre allo stesso modo, di quel sorriso dolce e contento, allo scherzo del padrone che sembrava le illuminasse il viso, affinato dal chiarore molle: gli occhi come due stelle; le belle trecce allentate sul collo; la bocca un po’ larga e tumida, ma giovane e fresca.
Il padrone stette un momento a guardarla così, sorridendo anch’esso, e le diede un altro scapaccione affettuoso.
«Questa non è roba per quel briccone di Brasi, o per Nanni l’Orbo! no!…»
«Oh, gesummaria!…» esclamò essa facendosi la croce.
«Lo so, lo so. Dico per ischerzo, bestia!…»
Tacque un altro po’ ancora, e poi soggiunse: «Sei una buona ragazza!… buona e fedele! vigilante sugli interessi del padrone, sei stata sempre…
«Il padrone mi ha dato il pane», rispose essa semplicemente. «Sarei una birbona…»
«Lo so! lo so!… poveretta!… per questo t’ho voluto bene!»
A poco a poco, seduto al fresco, dopo cena, con quel bel chiaro di luna, si lasciava andare alla tenerezza dei ricordi. «Povera Diodata! Ci hai lavorato anche tu!… Ne abbiamo passati dei brutti giorni!… Sempre all’erta, come il tuo padrone! Sempre colle mani attorno… a far qualche cosa! Sempre l’occhio attento sulla mia roba!… Fedele come un cane!… Ce n’è voluto, sì, a far questa roba!..».
Tacque un momento intenerito. Poi riprese, dopo un pezzetto, cambiando tono:
«Sai? Vogliono che prenda moglie.»
La ragazza non rispose; egli non badandoci, seguitò:
«Per avere un appoggio… Per far lega coi pezzi grossi del paese… Senza di loro non si fa nulla!… Vogliono farmi imparentare con loro… per l’appoggio del parentado, capisci?… Per non averli tutti contro, all’occasione… Eh? che te ne pare?»
Ella tacque ancora un momento col viso nelle mani. Poi rispose, con un tono di voce che andò a rimescolargli il sangue a lui pure:
«Vossignoria siete il padrone…»
«Lo so, lo so… Ne discorro adesso per chiacchierare… perché mi sei affezionata… Ancora non ci penso… ma un giorno o l’altro bisogna pure andarci a cascare… Per chi ho lavorato infine?… Non ho figliuoli…»
Allora le vide il viso, rivolto a terra, pallido pallido e tutto bagnato.
«Perché piangi, bestia?»
«Niente, vossignoria!… Così!… Non ci badate…»
«Cosa t’eri messa in capo, di’?»
«Niente, niente, don Gesualdo…»
«Santo e santissimo! Santo e santissimo!» prese a gridare lui sbuffando per l’aia. Il camparo al rumore levò il capo sonnacchioso e domandò:
«Che c’è?… S’è slegata la mula? Devo alzarmi?…»
«No, no, dormite, zio Carmine.»
Diodata gli andava dietro passo passo, con voce umile e sottomessa:
«Perché v’arrabbiate, vossignoria?… Cosa vi ho detto?..».
«M’arrabbio colla mia sorte!… Guai e seccature da per tutto… dove vado!… Anche tu, adesso!… col piagnisteo!… Bestia!… Credi che, se mai, ti lascerei in mezzo a una strada… senza soccorsi?…»
«Nossignore… non è per me… Pensavo a quei poveri innocenti…»
«Anche quest’altra?… Che ci vuoi fare! Così va il mondo!… Poiché v’è il comune che ci pensa!… Deve mantenerli il comune a spese sue… coi denari di tutti!… Pago anch’io!… So io ogni volta che vo dall’esattore!…»
Si grattò il capo un istante, e riprese:
«Vedi, ciascuno viene al mondo colla sua stella… Tu stessa hai forse avuto il padre o la madre ad aiutarti? Sei venuta al mondo da te, come Dio manda l’erba e le piante che nessuno ha seminato. Sei venuta al mondo come dice il tuo nome… Diodata! Vuol dire di nessuno!… E magari sei forse figlia di barone, e i tuoi fratelli adesso mangiano galline e piccioni! Il Signore c’è per tutti! Hai trovato da vivere anche tu!… E la mia roba?… me l’hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono? Ciascuno porta il suo destino!… Io ho il fatto mio, grazie a Dio, e mio fratello non ha nulla…»
In tal modo seguitava a brontolare, passeggiando per l’aia, su e giù dinanzi la porta. Poscia vedendo che la ragazza piangeva ancora, cheta cheta per non infastidirlo, le tornò a sedere allato di nuovo, rabbonito.
«Che vuoi? Non si può far sempre quel che si desidera. Non sono più padrone… come quando ero un povero diavolo senza nulla… Ora ci ho tanta roba da lasciare… Non posso andare a cercar gli eredi di qua e di là, per la strada… o negli ospizi dei trovatelli. Vuol dire che i figliuoli che avrò poi, se Dio m’aiuta, saranno nati sotto la buona stella!…»
«Vossignoria siete il padrone…»
Egli ci pensò un po’ su, perché quel discorso lo punzecchiava ancora peggio di una vespa, e tornò a dire:
«Anche tu… non hai avuto né padre né madre… Eppure cosa t’è mancato, di’?»
«Nulla, grazie a Dio!»
«Il Signore c’è per tutti… Non ti lascerei in mezzo a una strada, ti dico!… La coscienza mi dice di no… Ti cercherei un marito..».
«Oh… quanto a me… don Gesualdo!..».
«Sì, sì, bisogna maritarti!… Sei giovane, non puoi rimaner così… Non ti lascerei senza un appoggio… Ti troverei un buon giovane, un galantuomo… Nanni l’Orbo, guarda! Ti darei la dote…»
«Il Signore ve lo renda…»
«Son cristiano! son galantuomo! Poi te lo meriti. Dove andresti a finire altrimenti?… Penserò a tutto io. Ho tanti pensieri pel capo!… e questo cogli altri!… Sai che ti voglio bene. Il marito si trova subito. Sei giovane… una bella giovane… Sì, sì, bella!… lascia dire a me che lo so! Roba fine!… sangue di barone sei, di certo!…»
Ora la pigliava su di un altro tono, col risolino furbo e le mani che gli pizzicavano. Le stringeva con due dita il ganascino. Le sollevava a forza il capo, che ella si ostinava a tener basso per nascondere le lagrime.
«Già per ora son discorsi in aria… Il bene che voglio a te non lo voglio a nessuno, guarda!… Su quel capo adesso, sciocca!… sciocca che sei!…»
Come vide che seguitava a piangere, testarda, scappò a bestemmiare di nuovo, simile a un vitello infuriato.
«Santo e santissimo! Sorte maledetta!… Sempre guai e piagnistei!…»

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Riduzione teatrale del Mastro don-Gesualdo: qui una scena tra il protagonista e Diodata

Il passo si può dividere in tre sequenze:

  • Gesualdo in fattoria: dopo una faticosa giornata, Gesualdo torna al suo nido, dove vi è un vecchio, che gli controlla la roba e una contadina, la sua serva-amante. Sin dall’inizio si comprende come solo questo sia il “nido” degli affetti, in quel guardare, insieme al vecchio fattore, la quotidianità dello svolgersi della natura, che pure gli offre la “roba”, senza rabbia, senza ansia; così come lo sguardo pieno d’amore che le rivolge, sentendola vicina nel sentimento; la condivisione del pasto lo sancisce, la fatica condivisa per lui lo conferma;
  • I ricordi di Gesualdo che lo disegnano come un “self made man”;: fiuto degli affari, accettazione del rischio, operosità, sopportazione dei disagi. Tutta questa è stata la vita di Gesualdo, scandita continuamente da una corsa affannosa, dal mettere toppe da una famiglia che dipendeva (vista l’insipienza del fratello e del cognato) da lui, la gelosia paterna e, per di più, il subire un amore di secondo grado da parte della povera madre, che stravedeva per il figlio piccolo. Interessante di questo passo è la tecnica: tutto viene visto attraverso una focalizzazione interna, un, potrebbe anche dirsi, discorso indiretto libero interiore o anticipazione del monologo interiore;
  • Il rimpianto di non poter scegliersi la vita: anche qui si sancisce una sconfitta, sottolineata dalle lacrime di Diodata. Il pessimismo verghiano è all’origine della vita: si nasce dove vuole il destino e si cresce, chi più o chi meno fortunato, senza possibilità di scelta. Ma lui il destino se lo è costruito, contro tutti, ma è solo e sarà solo: il suo bestemmiare finale rassomiglia proprio a una non accettazione di ciò che è diventato.

L’ASTA
(II,1)

«Tre onze e quindici!… Uno!… due!…»
«Quattr’onze!» replicò don Gesualdo impassibile.
Il barone Zacco si alzò, rosso come se gli pigliasse un accidente. Annaspò alquanto per cercare il cappello, e fece per andarsene. Ma giunto sulla soglia tornò indietro a precipizio, colla schiuma alla bocca, quasi fuori di sé, gridando:
«Quattro e quindici!…»
E si fermò ansante dinanzi alla scrivania dei giurati, fulminando il suo contradittore cogli occhi accesi. Don Filippo Margarone, Peperito e gli altri del Municipio che presiedevano all’asta delle terre comunali, si parlarono all’orecchio fra di loro. Don Gesualdo tirò su una presa, seguitando a fare tranquillamente i suoi conti nel taccuino che teneva aperto sulle ginocchia. Indi alzò il capo, e ribatté con voce calma:
«Cinque onze!»
Il barone diventò a un tratto come un cencio lavato. Si soffiò il naso; calcò il cappello in testa, e poi infilò l’uscio, sbraitando:
«Ah!… quand’è così!… giacch’è un puntiglio!… una personalità!… Buon giorno a chi resta!»
I giurati si agitavano sulle loro sedie quasi avessero la colica. Il canonico Lupi si alzò di botto, e corse a dire una parola all’orecchio di don Gesualdo, passandogli un braccio al collo.
«Nossignore», rispose ad alta voce costui. «Non ho di queste sciocchezze… Fo i miei interessi, e nulla più.»
Nel pubblico che assisteva all’asta corse un mormorìo. Tutti gli altri concorrenti si erano tirati indietro, sgomenti, cacciando fuori tanto di lingua. Allora si alzò in piedi il baronello Rubiera, pettoruto, lisciandosi la barba scarsa, senza badare ai segni che gli faceva da lontano don Filippo, e lasciò cadere la sua offerta, coll’aria addormentata di uno che non gliene importa nulla del denaro:
«Cinque onze e sei!… Dico io!…»
«Per l’amor di Dio», gli soffiò nelle orecchie il notaro Neri tirandolo per la falda. «Signor barone, non facciamo pazzie!…»
«Cinque onze e sei!» replicò il baronello senza dar retta, guardando in giro trionfante.
«Cinque e quindici.»
Don Ninì si fece rosso, e aprì la bocca per replicare; ma il notaro gliela chiuse con la mano. Margarone stimò giunto il momento di assumere l’aria presidenziale.
«Don Gesualdo!… Qui non stiamo per scherzare!… Avrete denari… non dico di no… ma è una bella somma… per uno che sino a ieri l’altro portava i sassi sulle spalle… sia detto senza offendervi… Onestamente… “Guardami quel che sono, e non quello che fui” dice il proverbio… Ma il comune vuole la sua garanzia. Pensateci bene!… Sono circa cinquecento salme… Fanno… fanno…» E si mise gli occhiali, scrivendo cifre sopra cifre.
«So quello che fanno», rispose ridendo mastro-don Gesualdo. «Ci ho pensato portando i sassi sulle spalle… Ah! signor don Filippo, non sapete che soddisfazione, essere arrivato sin qui, faccia a faccia con vossignoria e con tutti questi altri padroni miei, a dire ciascuno le sue ragioni, e fare il suo interesse!»
Don Filippo posò gli occhiali sullo scartafaccio; volse un’occhiata stupefatta ai suoi colleghi a destra e a sinistra, e tacque rimminchionito. Nella folla che pigiavasi all’uscio nacque un tafferuglio. Mastro Nunzio Motta voleva entrare a ogni costo, e andare a mettere le mani addosso al suo figliuolo che buttava così i denari. Burgio stentava a frenarlo. Margarone suonò il campanello per intimar silenzio.
«Va bene!… va benissimo!… Ma intanto la legge dice…»
Come seguitava a tartagliare, quella faccia gialla di Canali gli suggerì la risposta, fingendo di soffiarsi il naso.
«Sicuro!… Chi garantisce per voi?… La legge dice…»
«Mi garantisco da me», rispose don Gesualdo posando sulla scrivania un sacco di doppie che cavò fuori dalla cacciatora.
A quel suono tutti spalancarono gli occhi. Don Filippo ammutolì.
«Signori miei!…» strillò il barone Zacco rientrando infuriato. «Signori miei!… guardate un po’! a che siam giunti!…»
«Cinque e quindici!» replicò don Gesualdo tirando un’altra presa. «Offro cinque onze e quindici tarì a salma per la gabella delle terre comunali. Continuate l’asta, signor don Filippo.»
Il baronello Rubiera scattò su come una molla, con tutto il sangue al viso. Non l’avrebbero tenuto neppure le catene.
«A sei onze!» balbettò fuori di sé. «Fo l’offerta di sei onze a salma.»
«Portatelo fuori! Portatelo via!» strillò don Filippo alzandosi a metà. Alcuni battevano le mani. Ma don Ninì ostinavasi, pallido come la sua camicia adesso.
«Sissignore! a sei onze la salma! Scrivete la mia offerta, segretario!»
«Alto!» gridò il notaro levando tutte e due le mani in aria. «Per la legalità dell’offerta!… fo le mie riserve!…»
E si precipitò sul baronello, come s’accapigliassero. Lì, nel vano del balcone, faccia a faccia, cogli occhi fuori dell’orbita, soffiandogli in viso l’alito infuocato:
«Signor barone!… quando volete buttare il denaro dalla finestra!… andate a giuocare a carte!… giuocatevi il denaro di tasca vostra soltanto!…»

L’accaparramento delle terre comunali da parte dei notabili, con la complicità dei funzionari, era una prassi che si svolgeva da tempi immemorabili: il loro possesso voleva poi dire poi subaffittarle e quindi guadagnarci. Gesualdo vuole acquistarle tutte ed imporre invece un vero e proprio monopolio. E’ certo che tale mossa risponde a fini economici, ma nell’economia del romanzo essa va inserirsi in un episodio fondamentale: precedentemente i notabili avevano palesemente snobbato il suo matrimonio con Bianca Trao; vincerli sul piano economico, buttando loro in faccia la sua ricchezza diventa una vera e propria rivalsa e sottolineare che, d’ora in poi, dovranno fare i conti con lui. Tutto ciò e anche sottolineato dal ritmo narrativo con cui Verga descrive la scena: da una parte gli atteggiamenti sconnessi della nobiltà, che si vede sfidata, ma non sembra possedere un’efficace risposta, dall’altra, la calma serafica di Gesualdo, che col suo atteggiamento distaccato, sembra li irrida profondamente.

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Mastro don Gesualdo in una vecchia riduzione televisiva (1964)

LA MORTE DI GESUALDO
(IV,5)

Un giorno venne a fargli visita l’amministratore del duca, officioso, tutto gentilezze come il suo padrone quando apparecchiavasi a dare la botta. S’informò della salute; gli fece le condoglianze per la malattia che tirava in lungo. Capiva bene, lui, un uomo d’affari come don Gesualdo… che dissesto… quanti danni… le conseguenze… un’azienda così vasta… senza nessuno che potesse occuparsene sul serio… Infine offrì d’incaricarsene lui… per l’interesse che portava alla casa… alla signora duchessa… Del signor duca era buon servo da tanti anni… Sicché prendeva a cuore anche gli interessi di don Gesualdo. Proponeva d’alleggerirlo d’ogni carico… finché si sarebbe guarito… se credeva… investendolo per procura…
A misura che colui sputava fuori il veleno, don Gesualdo andava scomponendosi in viso. Non fiatava, stava ad ascoltarlo, cogli occhi bene aperti, e intanto ruminava come trarsi d’impiccio. A un tratto si mise a urlare e ad agitarsi quasi fosse colto di nuovo dalla colica, quasi fosse giunta l’ultima sua ora, e non udisse e non potesse più parlare. Balbettò solo, smaniando:
«Chiamatemi mia figlia! Voglio veder mia figlia!»
Ma appena accorse lei, spaventata egli non aggiunse altro. Si chiuse in sé stesso a pensare come uscire dal malo passo, torvo, diffidente, voltandosi in là per non lasciarsi scappare qualche occhiata che lo tradisse. Soltanto ne piantò una lunga lunga addosso a quel galantuomo che se ne andava rimminchionito. Infine, a poco a poco, finse di calmarsi. Bisognava giuocar d’astuzia per uscire da quelle grinfie. Cominciò a far segno di sì e di sì col capo, fissando gli occhi amorevoli in volto alla figliuola allibbita, col sorriso paterno, il fare bonario;
«Sì… voglio darvi in mano tutto il fatto mio… per alleggerirmi il carico… Mi farete piacere anzi… nello stato in cui sono… Voglio spogliarmi di tutto… Già ho poco da vivere… Rimandatemi a casa mia per fare la procura… la donazione… tutto ciò che vorrete… Lì conosco il notaro… so dove metter le mani… Ma prima rimandatemi a casa mia… Tutto quello che vorrete, poi!…»
«Ah, babbo, babbo!» esclamò Isabella colle lagrime agli occhi.
Ma egli sentivasi morire di giorno in giorno. Non poteva più muoversi. Sembravagli che gli mancassero le forze d’alzarsi dal letto e andarsene via perché gli toglievano il denaro, il sangue delle vene, per tenerlo sottomano, prigioniero. Sbuffava, smaniava, urlava di dolore e di collera. E poi ricadeva sfinito, minaccioso, colla schiuma alla bocca, sospettando di tutto, spiando prima le mani del cameriere se beveva un bicchiere d’acqua, guardando ciascuno negli occhi per scoprire la verità, per leggervi la sua sentenza, costretto a ricorrere agli artifizii per sapere qualcosa di quel che gli premeva.
«Chiamatemi quell’uomo dell’altra volta… Portatemi le carte da firmare… E’ giusto, ci ho pensato su. Bisogna incaricare qualcuno dei miei interessi, finchè guarisco…»
Ma adesso coloro non avevano fretta; gli promettevano sempre, dall’oggi al domani. Lo stesso duca si strinse nelle spalle: come a dire che non serviva più. Un terrore più grande, più vicino, della morte lo colse a quell’indifferenza. Insisteva, voleva disporre della sua roba, come per attaccarsi alla vita, per far atto d’energia e di volontà. Voleva far testamento, per dimostrare a sé stesso ch’era tuttora il padrone. Il duca finalmente, per chetarlo, gli disse che non occorreva, poiché non c’erano altri eredi… Isabella era figlia unica…
«Ah?…» rispose lui. «Non occorre… è figlia unica?…»
E tornò a ricoricarsi, lugubre. Avrebbe voluto rispondergli che ce n’erano ancora, degli eredi nati prima di lei, sangue suo stesso. Gli nascevano dei rimorsi, colla bile. Faceva dei brutti sogni, delle brutte facce pallide e irose gli apparivano la notte; delle voci, degli scossoni lo facevano svegliare di soprassalto, in un mare di sudore, col cuore che martellava forte. Tanti pensieri gli venivano adesso, tanti ricordi, tante persone gli sfilavano dinanzi: Bianca, Diodata, degli altri ancora: quelli non l’avrebbero lasciato morire senza aiuto! Volle un altro consulto, i migliori medici. Ci dovevano essere dei medici pel suo male, a saperli trovare, a pagarli bene. Il denaro l’aveva guadagnato apposta, lui! Al suo paese gli avevano fatto credere che rassegnandosi a lasciarsi aprire il ventre… Ebbene, sì, sì!
Aspettava il consulto, il giorno fissato, sin dalla mattina, raso e pettinato, seduto nel letto, colla faccia color di terra, ma fermo e risoluto. Ora voleva vederci chiaro nei fatti suoi. «Parlate liberamente, signori miei. Tutto ciò che si deve fare si farà!»
Gli batteva un po’ il cuore. Sentiva un formicolìo come di spasimo anticipato tra i capelli. Ma era pronto a tutto; quasi scoprivasi il ventre, perchè si servissero pure. Se un albero ha la cancrena addosso, cos’è infine? Si taglia il ramo! Adesso invece i medici non volevano neppure operarlo. Avevano degli scrupoli, dei ma e dei se. Si guardavano fra di loro e biasciavano mezze parole. Uno temeva la responsabilità; un altro osservò che non era più il caso… oramai… Il più vecchio, una faccia di malaugurio che vi faceva morire prima del tempo, com’è vero Dio, s’era messo già a confortare la famiglia, dicendo che sarebbe stato inutile anche prima, con un male di quella sorta…
«Ah…» rispose don Gesualdo, fattosi rauco a un tratto. «Ah… Ho inteso…»
E si lasciò scivolare pian piano giù disteso nel letto, trafelato. Non aggiunse altro, per allora. Stette zitto a lasciarli finire di discorrere. Soltanto voleva sapere s’era venuto il momento di pensare ai casi suoi. Non c’era più da scherzare adesso! Aveva tanti interessi gravi da lasciare sistemati… «Taci! taci!» borbottò rivolto alla figliuola che gli piangeva allato. Colla faccia cadaverica, cogli occhi simili a due chiodi in fondo alle orbite livide, aspettava la risposta che gli dovevano, infine. Non c’era da scherzare!
«No, no… C’è tempo. Simili malattie durano anni e anni… Però… certo… premunirsi… sistemare gli affari a tempo… non sarebbe male…»
«Ho inteso», ripeté don Gesualdo col naso fra le coperte. «Vi ringrazio, signori miei.»
Un nuvolo gli calò sulla faccia e vi rimase. Una specie di rancore, qualcosa che gli faceva tremare le mani e la voce, e trapelava dagli occhi socchiusi. Fece segno al genero di fermarsi; lo chiamò dinanzi al letto, a quattr’occhi, da solo a solo.
«Finalmente… questo notaro… verrà, sì o no? Devo far testamento… Ho degli scrupoli di coscienza… Sissignore!… Sono il padrone, sì o no?… Ah… ah… stai ad ascoltare anche tu?…»
Isabella andò a buttarsi ginocchioni ai piedi del letto, col viso fra le materasse, singhiozzando e disperandosi. Il genero lo chetava dall’altra parte. «Ma sì, ma sì, quando vorrete, come vorrete. Non c’è bisogno di far delle scene… Ecco in che stato avete messo la vostra figliuola!…»
«Va bene!» seguitò a borbottare lui. «Va bene! Ho capito!»
E volse le spalle, tal quale suo padre, buon’anima. Appena fu solo cominciò a muggire come un bue, col naso al muro. Ma poi se veniva gente, stava zitto. Covava dentro di sé il male e l’amarezza. Lasciava passare i giorni. Pensava ad allungarseli piuttosto, a guadagnare almeno quelli, uno dopo l’altro, così come venivano, pazienza! Finché c’è fiato c’è vita. A misura che il fiato gli andava mancando, a poco a poco, acconciavasi pure ai suoi guai; ci faceva il callo. Lui aveva le spalle grosse, e avrebbe tirato in lungo, mercé la sua pelle dura. Alle volte provava anche una certa soddisfazione, fra sé e sé, sotto il lenzuolo, pensando al viso che avrebbero fatto il signor duca e tutti quanti, al vedere che lui aveva la pelle dura. Era arrivato ad affezionarsi ai suoi malanni, li ascoltava, li accarezzava, voleva sentirseli lì, con lui, per tirare innanzi. I parenti ci avevano fatto il callo anch’essi; avevano saputo che quella malattia durava anni ed anni, e s’erano acchetati. Così va il mondo, pur troppo, che passato il primo bollore, ciascuno tira innanzi per la sua via e bada agli affari propri. Non si lamentava neppure; non diceva nulla, da villano malizioso, per non sprecare il fiato, per non lasciarsi sfuggire quel che non voleva dire; solamente gli scappavano di tanto in tanto delle occhiate che significavano assai, al veder la figliuola che gli veniva dinanzi con quella faccia desolata, e poi teneva il sacco al marito, e lo incarcerava lì, sotto i suoi occhi, col pretesto dell’affezione, per covarselo, pel timore che non gli giuocasse qualche tiro nel testamento. Indovinava che teneva degli altri guai nascosti, lei, e alle volte aveva la testa altrove, mentre suo padre stava colla morte sul capo. Si rodeva dentro, a misura che peggiorava; il sangue era diventato tutto un veleno; ostinavasi sempre più, taciturno, implacabile, col viso al muro, rispondendo solo coi grugniti, come una bestia.
Finalmente si persuase ch’era giunta l’ora, e s’apparecchiò a morire da buon cristiano. Isabella era venuta subito a tenergli compagnia. Egli fece forza coi gomiti, e si rizzò a sedere sul letto. «Senti», le disse, «ascolta…»
Era turbato in viso, ma parlava calmo. Teneva gli occhi fissi sulla figliuola, e accennava col capo. Essa gli prese la mano e scoppiò a singhiozzare.
«Taci», riprese, finiscila. Se cominciamo così non si fa nulla.
Ansimava perchè aveva il fiato corto, ed anche per l’emozione. Guardava intorno, sospettoso, e seguitava ad accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato. Ella pure volse verso l’uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano scarna, e trinciò una croce in aria, per significare ch’era finita, e perdonava a tutti, prima d’andarsene.
«Senti… Ho da parlarti… intanto che siamo soli…»
Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle mani erranti che l’accarezzavano. L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente, senza dire una parola. Di lì a un po’ riprese:
«Ti dico di sì. Non sono un ragazzo… Non perdiamo tempo inutilmente.» Poi gli venne una tenerezza. «Ti dispiace, eh?… ti dispiace a te pure?…»
La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi, s’erano fatti più dolci, e qualcosa gli tremava sulle labbra. «Ti ho voluto bene… anch’io… quanto ho potuto… come ho potuto… Quando uno fa quello che può…»
Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fissa per vedere se voleva lei pure, e l’abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei capelli fini.
«Non ti fo male, di’?… come quand’eri bambina?…»
Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza e di passione, quei sospetti odiosi che dei bricconi, nelle questioni d’interessi, avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli indietro, e cambiò discorso.
«Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso…»
Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per chiudere gli occhi.
«Ma no, parliamone!» insisteva lui. «Sono discorsi serii. Non ho tempo da perdere adesso». Il viso gli si andava oscurando, il rancore antico gli corruscava negli occhi. «Allora vuol dire che non te ne importa nulla… come a tuo marito…»
Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto, cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori che gli avevano dati, lei e suo marito, con tutti quei debiti… Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla: «Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!… quando tuo marito torna a proporti di firmare delle carte!… Lui non sa cosa vuol dire!» Spiegava quel che gli erano costati, quei poderi, l’Alìa, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava come erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco, le terre seminative, i pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue in viso, gli spuntavano le lagrime agli occhi:
«Mangalavite, sai… la conosci anche tu… ci sei stata con tua madre… Quaranta salme di terreni, tutti alberati!… ti rammenti… i belli aranci?… anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca, negli ultimi giorni!… 300 migliaia l’anno, ne davano! Circa 300 onze! E la Salonia… dei seminati d’oro… della terra che fa miracoli… benedetto sia tuo nonno che vi lasciò le ossa!…»
Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino.
«Basta», – disse poi. «Ho da dirti un’altra cosa… Senti…»
La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l’effetto che avrebbe fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino che esitava e cercava le parole.
«Senti!… Ho degli scrupoli di coscienza… Vorrei lasciare qualche legato a delle persone verso cui ho degli obblighi… Poca cosa… Non sarà molto per te che sei ricca… Farai conto di essere una regalìa che tuo padre ti domanda… in punto di morte… se ho fatto qualcosa anch’io per te…»
«Ah, babbo, babbo!… che parole!» singhiozzò Isabella.
«Lo farai, eh? lo farai?… anche se tuo marito non volesse…»
Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se l’avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui quell’altro segreto, quell’altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola. E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi in sè, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare Motta, com’essa era Trao, diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia, e non aggiunse altro.
«Ora fammi chiamare un prete», terminò con un altro tono di voce. «Voglio fare i miei conti con Domeneddio.»
Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio. Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte, peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella canzone che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c’era.
«Mia figlia!» borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la sua. «Chiamatemi mia figlia!»
«Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla», rispose il domestico, e tornò a coricarsi.
Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce.
«Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo adesso? Vuol passar mattana! Che cerca?»
Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto.
«Ohi! ohi! Che facciamo adesso?» balbettò grattandosi il capo.
Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s’affacciò a prendere una boccata d’aria, fumando.
Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra.
«Mattinata, eh, don Leopoldo?»
«E nottata pure!» rispose il cameriere sbadigliando. «M’è toccato a me questo regalo!»
L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio.
«Ah… così… alla chetichella?…» osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l’androne.
Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto.
«Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica… E neanche lui… non vi mette più le mani addosso di sicuro…»
«Zitto, scomunicato!… No, ho paura, poveretto…» Ha cessato di penare.
«Ed io pure», soggiunse don Leopoldo.
Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano – uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. – Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi… Basta, dei morti non si parla.
«Si vede com’era nato…» osservò gravemente il cocchiere maggiore. «Guardate che mani!»
«Già, son le mani che hanno fatto la pappa!… Vedete cos’è nascer fortunati… Intanto vi muore nella battista come un principe!…»
«Allora», disse il portinaio, «devo andare a chiudere il portone?»
«Sicuro, eh! E’ roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa.»

Abbiamo già parlato della similarità tra Mazzarò e Gesualdo: per ambedue esiste solo la “religione della roba” e la separazione da essa è qualcosa che prima o poi i due personaggi dovevano affrontare; il primo lo fa in modo grottesco, nel secondo, invece, Verga utilizza un vero e proprio stile tragico. Gesualdo è estraneo in casa della figlia, come è estraneo alla figlia stessa. Il genero vuole soltanto profittare dei suoi beni. L’accumulo della “roba” gli ha estraniato qualsiasi affetto e da vecchio, sul punto di morte, questo senso di colpa sembra quasi voglia espiarlo. Ma è un attimo: il pensiero torna alla roba e alla paura ce il genero gliela porti via per pagare i suoi immensi debiti. E’ che la roba è lui, in questo processo d’identificazione vedere la figlia non difendere la roba paterna è come voler dire non difendere il padre stesso. Ma è abbastanza palese, dagli atteggiamenti di Isabella, quanta difficoltà abbia nel riuscire ad amare un padre che era stato odiato dalla madre e quindi da lei.

Muore tra la servitù, solo, regredendo da dove è partito e sancendo una sconfitta totale, simile nella loro diversità: Mazzarò la distrugge perché non può portarla con sé, Gesualdo la vede distruggere. Per Verga non esiste alcuna possibilità per evitare la sconfitta.

Il Mastro-don Gesualdo, rappresenta il secondo romanzo del ciclo de I Vinti ed è diviso in quattro parti: ascesa, successo, declino e sconfitta. Tutta la vicenda, quindi, ruota intorno a Gesualdo, facendo così sparire la coralità che era stata invece tipica de I Malavoglia. Cambia anche il tempo storico, a cavallo delle grandi rivoluzioni del ’48 e quindi anche in questa vicenda la storia entra a turbare il destino del personaggio: l’ascesa della borghesia e il conseguente degradare della nobiltà.

Il personaggio di Gesualdo è dominato dal “demone” della roba, da lui si fa trasportare e per lui rinuncia ad ogni forma di accettazione sociale: è odiato perché è diventato ricco; è odiato dalla moglie, perché è stata costretta a sposarlo proprio per la sua ricchezza e che lui ha a sua volta sposato per scalare la scala sociale; è odiato dalla figlia perché non gli ha permesso un matrimonio d’amore. Gesualdo è condannato alla solitudine. Tale condizione della vita non può che ricrearsi nella morte.

La storia di un personaggio e non di un intero paese spinge Verga a mutare la tecnica narrativa: non più una “regressione” quanto una presa di distanza critica sull’oggetto narrato, che non elude, talvolta, una presa di posizione da parte del narratore che spesso coincide con quella popolare; una maggiore “verità” la ottiene anche attraverso un numero piuttosto alto di dialoghi.

In altre parole potremo dire che il Mastro-don Gesualdo è un romanzo più tradizionale de I Malavoglia, ma dalla stessa capacità d’impatto per la cultura italiana ed europea, tanto da poter degnamente figurare tra i grandi romanzi della seconda metà dell’Ottocento.

Opere tarde

Oltre i quattro capolavori, che potremo definire “rusticani” Verga continuerà a scrivere, ma tutte le ultime opere sono considerate dalla critica inferiori al periodo maggiormente creativo dell’artista siciliano. Tali opere sono i racconti riuniti nelle seguenti raccolte:

  • Per le vie (1883)
  • Drammi intimi (1884)
  • Vagabondaggio (1887)
  • I ricordi del Capitano d’Arce (1891)
  • Don Candeloro & C. (1894)

In tutte queste novelle Verga mescola ambienti ancora siciliani con quelli milanesi (soprattutto nella prima di esse, in cui si sofferma sui diseredati urbani), ma già dalla seconda ricominciano ad apparire storie mondane psicologiche che ci riportano ai soliti difetti dei primi romanzi.

Così è anche il romanzo Il marito di Elena (1882), dove il nostro non prosegue affatto il ciclo dei Vinti (abbiamo solo un capitolo e mezzo de La Duchessa di Leyra), ma crea un opera assolutamente involutiva rispetto ai romanzi maggiori, ripetendo schemi e situazioni già toccati nei cosiddetti romanzi mondani.

 

 

IL VERISMO

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Pelizza da Volpedo: Il quarto stato (1901)

In Italia il naturalismo viene importato da Luigi Capuana, narratore siciliano ed assumerà caratteristiche proprie inserito in una realtà differente da quella dei paesi già industrializzati. E lo fa con una recensione nel Fanfulla della Domenica ai Malavoglia, l’opera maggiore di Verga:

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Luigi Capuana

RECENSIONE AI MALAVOGLIA

Il Balzac, il gran padre del romanzo moderno, ha i suoi predecessori ai quali sta, forse, meno attaccato che i suoi successori non stiano a lui. Il Flaubert, i De Goncourt, lo Zola che hanno fatto e che fanno altro se non svolger meglio, ridurre a maggior perfezione quelle parti della forma del romanzo rimaste nella Comédie humaine in uno stato incipiente o imperfetto? Il naturalismo, i famosi documenti umani non sono una trovata dello Zola. Bisogna non aver letto la prefazione del Balzac al suo immenso monumento per credere che il trasportare nel romanzo il metodo della storia naturale sia una novità strana e pericolosa. Senza dubbio l’elemento scientifico s’infiltra nel romanzo contemporaneo e lo trasforma più pesantemente, con più coscienza, nei lavori del Flaubert, dei De Goncourt e dello Zola; ma la vera novità non istà in questo. Né stà nella pretesa di un romanzo sperimentale, bandiera che lo Zola inalbera arditamente, a sonori colpi di grancassa, per attirar la folla che altrimenti passerebbe via, senza fermarsi, com’egli confessava francamente al De Amicis. Un’opera d’arte non può assimilarsi un concetto scientifico che alla propria maniera, secondo la sua natura d’opera d’arte. Se il romanzo non dovesse far altro che della fisiologia o della patologia, o della psicologia comparata in azione, […] il guadagno non sarebbe né grande né bello. Il positivismo, il naturalismo esercitano una vera e radicale influenza nel romanzo contemporaneo, ma soltanto nella forma e tal influenza si traduce nella perfetta impersonalità di quest’opera d’arte. Tutto il resto, per l’arte, è una cosa molto secondaria, e dovrebbe esser tale anche nei giudizii che si pronunziano intorno ai lavori rappresentanti, più o meno efficaci, della nuova formula artistica. (…)
Nei romanzi del Balzac, questo sparire dell’autore avviene ad intervalli. Egli si mescola ogni po’ all’azione, spiega, descrive, torna addietro, fa delle lunghe divagazioni prima di lasciar i suoi personaggi a dibattersi soli soli colle loro passioni, col loro carattere, colle potenti influenze del lor tempo e dei luoghi; e l’onnipotenza del suo genio non si mostra mai così intera come quando le sue creature rimangon libere, abbandonate ai loro istinti, alla loro tragica fatalità. I suoi successori intervengono assai meno di lui nell’azione o non intervengono affatto. Si può dire che la loro opera d’arte si faccia da sé, piuttosto che la faccian loro. E questo semplicissimo cambiamento ha già prodotto una rivoluzione che il volgo dei lettori difficilmente sarà nel caso d’apprezzare nel suo giusto valore.
I Malavoglia si rannodano agli ultimissimi anelli di questa catena dell’arte. L’evoluzione del Verga è completa. Egli è uscito dalla vaporosità della sua prima maniera e si è afferrato alla realtà, solidamente. Questi Malavoglia e la sua Vita dei campi saranno un terribile e salutare corrosivo nella nostra bislacca letteratura. Lasciateli fare e vedrete. Se avranno poi la consacrazione (e se la meritano) d’una traduzione francese, eserciteranno un’influenza anche in una sfera più larga e conteranno per qualche cosa nella storia generale dell’arte. Giacché finora nemmeno lo Zola ha toccato una cima così alta in quell’impersonalità ch’è l’ideale dell’opera d’arte moderna. C’è voluto, senza dubbio, un’immensa dose di coraggio, per rinunziare così arditamente ad ogni più piccolo artificio, ad ogni minimo orpello rettorico e in faccia a questa nostra Italia che la rettorica allaga nelle arti, nella politica, nella religione, dappertutto. Ma non c’è voluto meno talento per rendere vive quelle povere creature di pescatori, quegli uomini elementari attaccati, come le ostriche, ai neri scogli di lava della riva di Trezza. Padron ‘Ntoni, Mena, la Santuzza, lo zio Crocifisso, lo zio Santoro, Piedipapera, ecc., sono creazioni che debbono essere un po’ sbalordite di trovarsi a vivere dentro la morta atmosfera della nostra stalattitica letteratura. (…)
Un romanzo come questo non si riassume. È un congegno di piccoli particolari, allo stesso modo della vita, organicamente innestati insieme. L’interesse che ispira non è quello volgare, triviale del come finira? ma un interesse concentrato che vi prende a poco a poco, con un’emozione di tristezza dinanzi a tanta miseria, dinanzi  a quella lotta per la vita, qui osservata nel suo primo stadio quasi animale, e che l’autore s’accinge a studiare nelle classi superiori con una serie di romanzi legati insieme dal titolo complessivo: I Vinti. L’originalità il Verga l’ha trovata dapprima nel suo soggetto, poi nel metodo impersonale portato fino alle sue estreme conseguenze. Quei pescatori sono dei veri pescatori siciliani, anzi di Trezza, e non rassomigliano a nessuno dei personaggi d’altri romanzi. Non è improbabile che il Verga si possa sentir accusare di minore originalità quando il suo soggetto lo condurrà fra la borghesia e le alte classi delle grandi città, perché allora le differenze dei caratteri e delle passioni appariranno meno spiccate; ed è bene notarlo fin da ora.

La pagina è interessante perché ci offre la distanza che Capuana istituisce tra la produzione positivistica letteraria francese e la letteratura verista italiana. Innanzitutto egli intuisce come la produzione di Zola abbia radici sin da Balzac; quasi a dire che l’unica novità portata dall’autore di Germinal sia solo quello di rendere più “oggettiva” l’opera d’arte. Quindi sottolinea sin da subito che non è l’ideologia a fare dell’opera d’arte un’opera innovativa, ma il modo in cui è scritta. Insomma la novità della nuova cultura dev’essere soprattutto estetica e quindi non può riguardare il contenuto (a cui dev’essere data la liceità di descrivere il deforme) ma il grado dell’impersonalità raggiunta di modo che l’“opera d’arte si faccia da sé”.

Ciò è dovuto dal fatto che i romanzi europei si situano laddove l’industrializzazione è forte, e quindi la rappresentazione del reale è soprattutto urbana, dove avvengono i cambiamenti e le tensioni sociali. Per questo i protagonisti dei romanzi inglesi e francesi di questo periodo saranno operai o minatori (Germinale, L’Assomoir di Zola; Oliver Twist, Tempi difficili di Dickens).

Necessariamente diversa è la situazione italiana dove il paesaggio agrario è ancora dominante e le grandi città del Nord non possono competere con le capitali europee.

Quando la cultura positivista s’affaccia in Italia assume, per ciò che riguarda la letteratura, il nome di Verismo. Se per ottenere come dice Capuana il massimo dell’impersonalità devo osservare la realtà, essa non potrà essere che frammentata nelle varie situazioni regionali, dove maggiore è il disagio della unificazione (si pensi all’episodio del brigantaggio) né potrà essere urbana dal momento che le nostre città, a livello d’industrializzazione sono in netto ritardo rispetto alle varie capitali europee.

I nostri maggiori scrittori veristi sono meridionali. Fra questi bisogna citare il fondatore di tale movimento, Luigi Capuana (1839-1915), che si dimostra anche eccellente scrittore. Scrive varie novelle, i romanzi Giacinta (1879) e Il marchese di Roccaverdina, ritenuto il suo capolavoro (pubblicato nel 1901, ma frutto di una ventennale elaborazione):

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1° edizione originale de “Il marchese di Roccaverdina”

La vicenda, ambientata nella campagna siciliana, ruota intorno all’aristocratico proprietario terriero che vive solitario nella casa avita, accudito dalla vecchia governante che gli fa da madre. Il marchese è tormentato da complessi problemi psicologici in seguito a un lunga, cruciale esperienza amorosa con una donna del popolo, Agrippina Solmo. Per uscire da una situazione insostenibile il marchese aveva allontanato l’amante, ingiungendole di sposare il suo factotum Rocco Criscione, ma obbligando anche entrambi, con un giuramento, a restare sposi solo di nome. Il romanzo inizia con le indagini sull’assassinio di Rocco, trovato ucciso da una fucilata, e si sviluppa in un crescendo di rivelazioni che costituiscono a poco a poco gli antefatti della storia. Il momento culminante di questo processo giunge con la confessione del marchese a don Silvio la Ciura, prete in fama di santità, di essere lui stesso il responsabile del delitto. La confessione non porta tuttavia al marchese la pace sperata, sia perché continuerà a temere fino alla morte del prete che questi si lasci sfuggire il segreto, sia perché non ha ottenuto l’assoluzione rifiutando di costituirsi per scagionare l’innocente cacciatore Neli Casaccio, messo in prigione come colpevole del delitto. Di qui inizia la caduta del protagonista in sempre più frequenti crisi di paura e di rimorso. Sul già precario equilibrio del marchese, infine, esercitano una deleteria risonanza anche le vicende di altri personaggi di contorno, come il suicidio di un piccolo proprietario costretto a vendergli il suo fondo o le disgrazie della famiglia di Neli Casaccio, ormai morto in carcere. Non riuscendo più a reggere il peso dei laceranti conflitti interiori il marchese cede alla follia.

 

I TORMENTI DEL MARCHESE

Quantunque, il giorno dopo, mamma Grazia lo avesse avvertito ch’ella aveva già dato aria al mezzanino, lasciando la chiave nella serratura dell’uscio perché dalla scala interna nessuno passava, il marchese non era disceso a ricercare le vecchie scritture. Fatte attaccare le mule alla carrozza, era partito per Margitello. Titta, il cocchiere, si meravigliava di vedere il padrone rannicchiato in fondo alla carrozza chiusa, e insolitamente silenzioso. Aveva tentato, ma inutilmente, di fargli dire qualcosa. «Ci vuole la pioggia! Guardi, voscenza; non un filo d’erba.» La pianura si estendeva da ogni lato, con terreni riarsi dal sole e screpolati, con aride piante di spino irte sui margini dello stradone… E si era alla fine di ottobre! Qua e là, un paio di buoi attaccati all’aratro si sforzavano di rompere le zolle indurite, procedendo lenti per la resistenza che incontravano. Qualche asino, un mulo, una cavalla col puledro dietro, pascolavano, legati a una lunga fune, o con pastoie ai piedi davanti, tra le poche stoppie non ancora abbruciate. «Quest’anno la paglia rincarirà. Non vi sarà altro per le povere bestie!» La carrozza, lasciato lo stradone provinciale, aveva infilato, a sinistra, la carraia di Margitello, tra due siepi di fichi d’India contorti, polverosi, coi fiori appassiti su le spinose foglie magre e quasi gialle per mancanza di umore. Le mule trottavano, sollevando nembi di polvere e facendo sobbalzare la carrozza su le ineguaglianze del suolo. A un certo punto, le ruote avevano urtato in un mucchio di sassi che ingombrava metà della carraia. «Qui accadde la disgrazia!», disse Titta. Quel mucchio di sassi indicava il posto dove era stato trovato il cadavere di Rocco Criscione, con la testa fracassata dalla palla tiratagli quasi a bruciapelo dalla siepe accanto. Chi era passato di là in quei giorni vi avea buttato un sasso, recitando un requiem, perché tutti si rammentassero del cristiano colà ammazzato e dicessero una preghiera in suffragio di quell’anima andata all’altro mondo senza confessione e senza sacramenti. Così il mucchio era diventato alto e largo in forma di piccola piramide. Ma neppure questa volta Titta sentì rispondersi niente; e frustò le mule, pensando a quel che sarebbe avvenuto a Margitello dove nessuno si attendeva l’arrivo del padrone. Stormi di piccioni domestici, usciti alla pastura, si levavano a volo dai lati della carraia al rumore dei sonagli delle mule e delle ruote della carrozza, che ora correva su la ghiaia sparsa sul terreno a poca distanza dalla casina. Si scorgevano il recinto della corte e le finestre chiuse, a traverso gli alberi di eucalipti che la circondavano da ogni parte. Contrariamente alle previsioni di Titta, il massaio e i garzoni l’avevano passata liscia. Il marchese avea visitato la dispensa, le stalle delle vacche, il fieno, la pagliera; aveva ispezionato minutamente gli aratri di nuovo modello fatti venire da Milano l’anno avanti, la cantina, le stanze di abitazione dei contadini, seguito dal massaio che gli andava dietro, timoroso di qualche lavata di capo; e non aveva fiatato neppure quando allo stesso massaio era parso opportuno scusarsi per un oggetto fuori posto, per un ingombro che avrebbe dovuto essere evitato, per qualche arnese buttato là trascuratamente, guasto e non riparato. Poi il marchese era salito, solo, nelle stanze superiori; e il massaio, dalla corte, gli vedeva spalancare le finestre, lo sentiva passare da una stanza all’altra, aprire e chiudere cassetti di tavolini e di cassettoni, armadii, spostare seggiole e sbattere usci. Due o tre volte, il marchese si era affacciato ora da una ora da un’altra finestra, quasi volesse chiamare qualcuno. Invece, avea dato lunghe occhiate lontano e attorno, per la campagna, o al cielo che sembrava di bronzo, limpido, senza un fiocco di nuvole da dieci mesi, infocato dal sole che bruciava come di piena estate. Tre ore dopo, egli era disceso giù aveva ordinato a Titta di riattaccare le mule, ed era ripartito senza dare nessuna disposizione, senza mostrarsi scontento né soddisfatto. A mezza strada della carraia di Margitello, là dove era il pezzo di terreno di compare Santi Dimauro, che aveva dovuto venderlo per forza, per evitarsi guai, il marchese, scorgendo dallo sportello il vecchio contadino seduto su un sasso rasente la siepe dei fichi d’India, coi gomiti appuntati su le ginocchia e il mento tra le mani, avea ordinato a Titta di fermare le mule. Compare Santi rizzò la testa, e salutò il marchese sollevando con una mano la parte anteriore del berretto bianco, di cotone. «Voscenza benedica!» «Che fate qui?», gli domandò il marchese. «Niente, eccellenza. Trovandomi al mulino, ho voluto dare uno sguardo…» «Rimpiangete ancora questi quattro sassi?» «Il mio cuore è sempre qua! Verrò a morirvi un giorno o l’altro.» «E avete faccia di lagnarvi, dopo che ve li ho pagati settant’onze?» Il vecchio si strinse nelle spalle, e riprese la sua positura. «Montate in serpe con Titta», soggiunse il marchese. «Grazie, voscenza. Ho lasciato l’asino al mulino; vo’ a riprenderlo, con la farina.» Titta si era voltato per convincersi se il padrone avesse parlato sul serio invitando compare Santi a montare in serpe, tanto gli era parsa straordinaria la cosa; ma la sua curiosità rimase insoddisfatta. Il marchese gli accennò con la mano di tirar via, e le mule si rimisero al trotto al primo schiocco di frusta. Lungo la ripida salita, Titta avea risparmiato le povere bestie. Alla svoltata della Cappelletta però, da dove lo stradone comincia a salire dolcemente, egli faceva riprendere il trotto; e pel movimento a sbalzi, i sonagli delle testiere squillavano all’ombra degli ulivi e dei mandorli che sporgevano dietro i ciglioni le chiome grige e verdognole tra cui stridevano alcune cicale ritardatarie, illuse forse dal persistente caldo che l’estate durasse ancora. «Che c’è?», domandò il marchese all’improvviso arrestarsi della carrozza. E, affacciatosi allo sportello, vide l’avvocato don Aquilante, con le lunghe gambe penzoloni dal parapetto di un ponticello, il cappellone di feltro nero, a larghe falde, che gli riparava dal sole, come un ombrello, la faccia sbarbata, con la grossa canna d’India tenuta ferma da una mano sul paracarro sottostante. Don Aquilante socchiuse gli occhi, scosse la testa con l’abituale movimento, portò l’altra mano allo stomaco, quasi volesse reggere la cintura rilasciata dei calzoni, e scese dal parapetto, aggrottando le sopracciglia, stringendo le labbra con l’aria di un uomo importunatamente disturbato. «Qui, con questo sole?», disse il marchese aprendo lo sportello della carrozza. Don Aquilante fece soltanto una mossa che voleva significare: se sapeste! e, accettando l’invito espressogli con un gesto, montò accanto al marchese. Le mule ripartirono al trotto. «Qui, con questo sole?», tornò quegli a domandare. «Voi siete scettico… Non importa!… Vi convincerete un giorno o l’altro!», rispose don Aquilante. Il marchese sentì corrersi un brivido per tutta la persona. Pure fece il bravo, sorrise; e quantunque avesse pregato don Aquilante di non più riparlargli di quelle cose, ed ora ne sentisse più che mai invincibile terrore, provò un impeto di sfida per vincere la sensazione che gli sembrava puerile in quel punto, all’aria aperta e con tutta quella luce. «Ah! Venite a cercare gli Spiriti fin qui?» «L’ho seguito a dieci passi di distanza, senza potere raggiungerlo. Ora è agitato; comincia ad aver coscienza della sua nuova condizione… Voi non potete intendere; siete fuori della verità, tra la caligine dei pregiudizi religiosi.» «Ebbene?», balbettò il marchese. «Un giorno vi persuaderete, finalmente, che io non sono un allucinato, né un pazzo. Vi sono persone», soggiunse con severo accento, «che posseggono facoltà speciali per vedere quel che gli altri non vedono, per udire quel che gli altri non odono. Per esse, il mondo degli uomini e quello degli Spiriti non sono due mondi distinti e diversi. Tutti i santi hanno avuto questa gran facoltà. Non occorre, però, di essere un santo
per ottenerla. Particolari circostanze possono accordarla a un meschino avvocato come me…» «E non vi è riuscito a raggiungerlo!», disse il marchese, con accento che avrebbe voluto essere ironico e tradiva intanto l’ansia da cui era turbato. «Si è fermato presso il ponticello ed è rimasto un istante in ascolto; poi, tutt’a un tratto, udito lo strepito dei sonagli delle mule e il rumore delle ruote della vostra carrozza che saliva per la rampa sottostante, si è precipitato giù pel ciglione dirimpetto. Evidentemente, ha voluto evitare d’incontrarsi con voi.» «Perché?» «Ve l’ho detto. Egli comincia ad aver coscienza della nuova condizione. In questo caso, tutto quel che rammenta la vita ispira orrore. E’ il più penoso dell’altra esistenza. Rocco che già si accorge di non essere più vivo…» Il marchese non osava d’interromperlo, né osava di domandarsi se colui che gli parlava in quel modo avesse smarrito il senno o fosse ancora in pieno possesso della ragione. A furia di udirlo discorrere di queste stramberie, come il marchese soleva chiamarle, si sentiva attratto da esse, non ostante che da qualche tempo in qua gli ispirassero una gran paura del misterioso ignoto, a dispetto del suo scetticismo e delle sue credenze religiose. E l’Inferno? E il Paradiso? E il Purgatorio? Don Aquilante li spiegava a modo suo; ma la Chiesa non dice che si tratta di cose diaboliche? Titta aveva spinte le mule al gran trotto, per fare una bella entrata in paese con schiocchi di frusta, gran tintinnio di sonagli e rumore di ruote; e questo distrasse il marchese dal torbido rimescolio di riflessioni e di terrori che gli passava per la mente mentre don Aquilante parlava. Rimescolio di riflessioni e di terrori che lo riprendeva però appena posto il piede in quelle stanze deserte dove non si udiva altro di vivente all’infuori dello strasciar delle ciabatte di mamma Grazia e del borbottio dei suoi rosarii, quando essa non aveva niente da fare. «Ho lasciato la chiave nella serratura dell’uscio», gli rammentò mamma Grazia. E il marchese, per occuparsi di qualche cosa, quantunque veramente non avesse nessuna vecchia scrittura da ricercare, scendeva giù nel mezzanino. Mamma Grazia aveva dato aria a quei due stanzoni, ma il tanfo di rinchiuso prendeva alla gola ciò non ostante. Larghe amache di ragnateli pendevano dagli angoli del soffitto. Un denso strato di polvere copriva i pochi vecchi mobili sfasciati, le casse, le tavole rotte che ingombravano la prima stanza e vi si distinguevano appena, perché essa prendeva luce da l’altra che rispondeva su la via. Entrato quasi diffidente, arricciando il naso pel forte puzzo di muffa, strizzando gli occhi per vedervi, il marchese si era fermato più volte a fine di raccapezzarsi. Tutta roba da buttar via! Era là fin da quando viveva il marchese grande. Nessuno aveva mai pensato di fare un bel repulisti; lo avrebbe fatto fare lui e subito. Ma pur pensando a questo, tornavano a frullargli nella testa le parole di don Aquilante, quasi qualcuno gliele ripetesse sommessamente dall’angolo più riposto del cervello: «Ha voluto evitare di scontrarsi con voi! Comincia ad aver coscienza della sua condizione!». Ormai! Che doveva importargli delle stramberie dell’avvocato?… Ma se fosse vero? Eh, via!… Ma, infine, se fosse vero?… E si arrestò con un senso di puerile paura, appena passata la soglia dell’altra stanza. La stessa angosciosa impressione di una volta, di molti e molti anni addietro! Allora aveva otto o nove anni. Ma allora il lenzuolo che avvolgeva il corpo di Cristo in croce, di grandezza naturale, appeso alla parete di sinistra, non era ridotto a brandelli dalle tignuole; e non si affacciavano dagli strappi quasi intera la testa coronata di spine e inchinata su una spalla, né le mani rattrappite, né i ginocchi piegati e sanguinolenti, né i piedi sovrapposti e squarciati dal grosso chiodo che li configgeva nel legno. La vista di quel corpo umano, che il lenzuolo modellava avvolgendolo, lo aveva talmente impaurito da bambino, ch’egli si era aggrappato al nonno, al marchese grande, da cui era stato condotto là, ora non si rammentava più perché; e i suoi strilli avevano fatto accorrere mamma Grazia e la marchesa nuova non ancora assalita dalla paralisi. Il nonno aveva tentato di convincerlo che quello era Gesù Crocifisso, e che non ne doveva aver paura; ed era salito sulla cassapanca sottostante per togliere gli spilli dal lenzuolo e fargli vedere il Signore messo in croce dai Giudei, del quale la mamma gli aveva raccontato la storia della passione e morte, un venerdì santo, prima di farlo assistere nella chiesa di Sant’Isidoro alla sacra cerimonia della Deposizione. Anche quella volta egli aveva strillato dalla paura, come altri bimbi suoi pari; e mamma Grazia era stata costretta a portarlo via in collo facendosi largo a stento tra la folla delle donne accalcate nella chiesa quasi buia, e singhiozzanti e piangenti, mentre un prete picchiava con un martello sul legno della croce per sconficcare i chiodi del Crocifisso, e una tromba squillava così malinconicamente che sembrava piangesse anch’essa. Questi ricordi gli eran passati, come un baleno, davanti agli occhi della mente; e intanto la paura di bambino si riproduceva in lui ugualmente intensa, anzi raddoppiata dalla circostanza che il vecchio lenzuolo, ridotto in brandelli, rendeva più terrificante quella figura di grandezza naturale, che sembrava lo guardasse con gli occhi semispenti e volesse muovere le livide labbra contratte dalla suprema convulsione dell’agonia. Quanti minuti non aveva avuto forza e coraggio d’inoltrarsi né di tornare addietro? Quando poté vincersi e dominarsi, aveva le mani diacce e il cuore che gli batteva forte. E non riusciva a formarsi un’esatta idea del tempo trascorso. S’impose però, facendosi violenza, di fissare il Crocifisso, anzi di accostarsi ad esso. E soltanto dopo che si sentì un po’ tranquillo, uscì dallo stanzone, indugiò un istante nell’altro, e chiuse l’uscio a chiave. Ma nel salire le scale gli sembrava che quegli occhi semispenti continuassero a guardarlo a traverso la spessezza dei muri, e che quelle livide labbra contratte dalla suprema convulsione dell’agonia si agitassero, forse, per gridargli dietro qualche terribile parola!

Il passo riportato ci presenta l’inizio del tormento del marchese e per coglierne la piena valenza narrativa è necessario ricordare che il lettore non sa ancora nulla. Ciò permette allo stesso di cogliere quegli indizi che condurranno poi, nel capitolo successivo, alla piena confessione dell’omicidio da parte del marchese. Tutto il brano è costruito con grande sapienza narrativa:

  • il marchese vaga per la sua proprietà mostrandosi, innaturalmente, indifferente a tutto ciò che gli accade intorno. Si inizia a percepire che qualcosa non va;
  • l’attraversamento del luogo in cui è avvenuto l’assassinio acuisce il senso di disagio del marchese che sente il peso della sua coscienza gravargli sempre di più, come le pietre che ricoprono quel corpo senza requie.
  • L’incontro con l’avvocato Aquilante, che gli svela di essere in contatto con le persone morte: l’incredulità “razionale” del marchese di frange difronte all’immenso senso di colpa che lo attanaglia.
  • Ritorno a casa, la crisi diventa “palpabile”: potrebbe sciogliersi, ma ancora non lo fa; il suo stato sociale gli dà quasi la garanzia dell’impunibilità.

Ma perché tale romanzo può essere iscritto nella narrativa verista? Capuana, per il suo secondo romanzo, riprende il tema della follia e lo fa derivare da quello che potremo definire l’ambiente. Ma non riesce ad evitare elementi che potremo definire ulteriori, come alcune simbologie (si pensi alle pietre e al peso sulla coscienza o al ricordo del Cristo). Il suo verismo allora è tutto nella “sparizione” dell’autore; il suo narrare è frutto dell’osservazione sia del paesaggio che dell’animo del protagonista che parlano all’autore senza alcuna mediazione.

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Federico De Roberto

L’altro grande autore è Federico De Roberto (1861-1927); nato a Napoli, ma vissuto sin dalla fanciullezza a Catania dove morì. Si avvicinò, durante una sua permanenza a Milano a Capuana e Verga con i quali condivise la teoria dell’impersonalità per l’arte. Si mostra da subito interessato alla fisiologia dei sentimenti, soprattutto quello amoroso, determinando un notevole interesse per la psicologia dei personaggi. Questo gli sarà fortemente utile quando, tornato a Catania decise di dar vita ad un ciclo di romanzi per descrivere le vicende di una potente famiglia siciliana gli Uzeda. Tale ciclo vedrà la realizzazione del suo capolavoro I Viceré (1894) cui seguirà L’imperio, pubblicato postumo nel 1929.

cdfcda0801cb44ceda71f5b2166c726b210.jpgIl Monastero dei Benedettini e il Palazzo Biscari

Se fosse stato più accorto, avrebbe preso con le buone la vecchia, senza rinunziare, beninteso, a nessuna delle proprie ambizioni. L’ostinazione, la durezza di cui aveva dato prova anche con lei erano sciocche, degne d’un Uzeda stravagante, non dell’onorevole di Francalanza, dell’uomo nuovo che egli voleva essere. E arrivando in casa della vecchia, in quella casa dov’era venuto tante volte bambino, a veder gli stemmi, a udire le storie dei Viceré, ad abbeverarsi d’albagia aristocratica, un muto sorriso gli spuntò sulle labbra. Se gli elettori avessero saputo?
«Come sta la zia?» chiese alla cameriera, una faccia nuova.
«Così così…» rispose la donna, guardando curiosamente quel signore sconosciuto.
«Ditele che il principe suo nipote vorrebbe vederla.»
La vecchia era capace di non riceverlo; egli aspettava la risposta con una certa ansietà. Donna Ferdinanda, udendo che c’era di là Consalvo, rispose alla cameriera, con voce arrochita dal raffreddore: «Lascialo entrare.» Ella aveva saputo gli ultimi vituperi commessi dal nipote, la parlata in pubblico come un cavadenti, i princìpi di casta sconfessati, l’inno alla libertà e alla democrazia, il palazzo Francalanza invaso dalla folla dei mascalzoni, Baldassarre ammesso alla tavola del principe che prima aveva servito: Lucrezia le aveva narrato ogni cosa, per vendicarsi, per rovinare Consalvo, per portargli via l’eredità. E donna Ferdinanda aveva sentito rimescolarsi il vecchio sangue degli Uzeda, dallo sdegno, dall’ira; ma adesso era ammalata, l’egoismo della vecchiaia e dell’infermità temperava i suoi bollori. E Consalvo veniva a trovarla; dunque s’umiliava, le dava questa soddisfazione negatale per tanto tempo. Poi, nonostante le apostasie e i vituperi, egli era tuttavia il principe di Francalanza… Il capo della casa, il suo protetto d’una volta… «Lascialo entrare…»
Egli le andò incontro premurosamente, si chinò sul lettuccio di ferro, quello di tant’anni addietro, e domandò: «Zia, come sta?»
Ella fece solo un gesto ambiguo col capo.
«Ha febbre? Mi lasci sentire il polso… No, soltanto un po’ di calore. Che cosa ha preso? Ha chiamato un dottore?»
«I dottori sono altrettanti asini,» gli rispose brevemente, voltandosi con la faccia contro il muro.
«Vostra Eccellenza ha ragione… sanno ben poco… ma qualcosa più di noi sanno pure… Perché non curarsi in principio?»
La vecchia rispose con uno scoppio di tosse cavernosa che finì con uno scaracchio giallastro. «Ha la tosse e non prende nulla! Le porterò io certe pastiglie che sono davvero miracolose. Mi promette di prenderle?»
Donna Ferdinanda fece il solito cenno col capo.
«Io non sapevo nulla, altrimenti sarei venuto prima. M’hanno detto che Vostra Eccellenza stava poco bene a momenti, in casa Radalì… Sa che mia sorella è andata oggi a vedere la Serva di Dio, quella di cui si narrano tante cose? E’ andata col Vicario, lei solamente ha avuto il permesso. Pare che sia un favore insigne… Vostra Eccellenza crede a tutto ciò che si narra?»
Non ebbe risposta. Pur continuò a parlare, comprendendo che alla vecchia doveva far piacere udir chiacchiere e notizie, vedersi qualcuno vicino.
«Io, col rispetto dovuto, non ne credo niente. E’ forse peccato? Lo stesso San Tommaso volle vedere e toccare, prima di credere… ed era santo!… Ma francamente, certe storie!… Teresa adesso è infatuata… Basta, ciascuno ha da vedersela con la propria coscienza… E la zia Lucrezia che l’ha con me? Che cosa voleva che io facessi?… Mi va sparlando per ogni dove, quasi fossi l’ultimo degli uomini…»
La vecchia non fiatava, gli voltava le spalle.
«Tutto pel grande amore del marito improvvisamente divampatole in petto!… Prima dichiarava ridicoli gli atteggiamenti di Giulente,» non lo chiamava zio sapendo di farle piacere, «adesso sono tutti infami coloro che non l’hanno sostenuto!»
Un nuovo scoppio di tosse fece soffiare la vecchia come un mantice. Quando calmossi, ella disse con voce affannata, ma con accento di amaro disprezzo: «Tempi obbrobriosi!… Razza degenere!»
La botta era diretta anche a lui. Consalvo tacque un poco, a capo chino, ma con un sorriso di beffa sulle labbra, poiché la vecchia non poteva vederlo. Poi, fiocamente, con tono d’umiltà, riprese: «Forse Vostra Eccellenza l’ha anche con me… Se ho fatto qualcosa che le è dispiaciuta, gliene chiedo perdono… Ma la mia coscienza non mi rimprovera nulla… Vostra Eccellenza non può dolersi che uno del suo nome sia di nuovo tra i primi del paese… Forse le duole il mezzo col quale questo risultato s’è raggiunto… Creda che duole a me prima che a lei… Ma noi non scegliamo il tempo nel quale veniamo al mondo; lo troviamo com’è, e com’è dobbiamo accettarlo. Del resto, se è vero che oggi non si sta molto bene, forse che prima si stava d’incanto?»
Non una sillaba di risposta.
«Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l’età nostra, né io le dirò che tutto vada per il meglio; ma è certo che il passato par molte volte bello solo perché è passato… L’importante è non lasciarsi sopraffare… Io mi rammento che nel Sessantuno, quando lo zio duca fu eletto la prima volta deputato, mio padre mi disse: “Vedi? Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento.” Vostra Eccellenza sa che io non andai molto d’accordo con la felice memoria; ma egli disse allora una cosa che m’è parsa e mi pare molto giusta… Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo… La differenza è più di nome che di fatto… Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano stinchi di santo. E un uomo solo che tiene nelle proprie mani le redini del mondo e si considera investito d’un potere divino e d’ogni suo capriccio fa legge è più difficile da guadagnare e da serbar propizio che non il gregge umano, numeroso ma per natura servile… E poi, e poi il mutamento è più apparente che reale. Anche i Viceré d’un tempo dovevano propiziarsi la folla; se no, erano ambasciatori che andavano a reclamare a Madrid, che ne ottenevano dalla Corte il richiamo… o anche la testa!… Le avranno forse detto che un’elezione adesso costa quattrini; ma si rammenti quel che dice il Mugnòs del Viceré Lopez Ximenes, che dovette offrire trentamila scudi al Re Ferdinando per restare al proprio posto… e ci rimise i quattrini! In verità, aveva ragione Salomone quando diceva che non c’è niente di nuovo sotto il sole! Tutti si lagnano della corruzione presente e negano fiducia al sistema elettorale, perché i voti si comprano. Ma sa Vostra Eccellenza che cosa narra Svetonio, celebre scrittore dell’antichità? Narra che Augusto, nei giorni dei comizi, distribuiva mille sesterzi a testa alle tribù di cui faceva parte, perché non prendessero nulla dai candidati!…» Egli diceva queste cose anche per se stesso, per affermarsi nella giustezza delle proprie vedute; ma, poiché la vecchia non si muoveva, pensò che forse s’era assopita e che egli parlava al muro. S’alzò, quindi, per vedere: donna Ferdinanda aveva gli occhi spalancati. Egli continuò, passeggiando per la camera: «La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento. Ora che tutti parlano di democrazia, sa qual è il libro più cercato alla biblioteca dell’Università, dove io mi reco qualche volta per i miei studi? L’Araldo sicolo dello zio don Eugenio, felice memoria. Dal tanto maneggiarlo, ne hanno sciupato tre volte la legatura! E consideri un poco: prima, ad esser nobile, uno godeva grandi prerogative, privilegi, immunità, esenzioni di molta importanza. Adesso, se tutto ciò è finito, se la nobiltà è una cosa puramente ideale e nondimeno tutti la cercano, non vuol forse dire che il suo valore e il suo prestigio sono cresciuti?… In politica, Vostra Eccellenza ha serbato fede ai Borboni, e questo suo sentimento è certo rispettabilissimo, considerandoli come i sovrani legittimi… Ma la legittimità loro da che dipende? Dal fatto che sono stati sul trono per più di cento anni… Di qui a ottant’anni Vostra Eccellenza riconoscerebbe dunque come legittimi anche i Savoia… Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gl’interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l’ha travolta… Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!…»
Travolto dalla foga oratoria, nel tripudio del recente trionfo, col bisogno di giustificarsi agli occhi propri, di rimettersi nelle buone grazie della vecchia, egli improvvisava un altro discorso, il vero, la confutazione di quello tenuto dinanzi alla canaglia, e la vecchia stava ad ascoltarlo, senza più tossire, soggiogata all’eloquenza del nipote, divertita e quasi cullata da quella recitazione enfatica e teatrale.
«Si rammenta Vostra Eccellenza le letture del Mugnòs?…» continuava Consalvo. «Orbene, imaginiamo che quello storico sia ancora in vita e voglia mettere a giorno il suo Teatro genologico al capitolo: Della famiglia Uzeda. Che cosa direbbe? Direbbe press’a poco: “Don Gafpare Vzeda”,» egli pronunziò f la s e v la u, «”fu promosso ai maggiori carichi, in quel travolgimento del nostro Regno che passò dal Re don Francesco II di Borbone al Re don Vittorio Emanuele II di Savoia. Fu egli deputato al Nazional Parlamento di Torino, Fiorenza e Roma, et ultimamente dal Re don Umberto have stato sublimato con singolar dispaccio al carico di senatore. Don Consalvo de Uzeda, VIII prencipe di Francalanza, tenne poter di sindaco della sua città nativa, indi deputato al Parlamento di Roma et in prosieguo…”»
Tacque un poco, chiudendo gli occhi: si vedeva già al banco dei ministri, a Montecitorio; poi riprese: «Questo direbbe il Mugnòs redivivo; questo diranno con altre parole i futuri storici della nostra casa. Gli antichi Uzeda erano commendatori di San Giacomo, ora hanno la commenda della Corona d’Italia. E’ una cosa diversa, ma non per colpa loro! E Vostra Eccellenza li giudica degeneri! Scusi, perché?»
La vecchia non rispose.
«Fisicamente, sì; il nostro sangue è impoverito; eppure ciò non impedisce a molti dei nostri di arrivare sani e vegeti all’invidiabile età di Vostra Eccellenza!… Al morale, essi sono spesso cocciuti, stravaganti, bislacchi, talvolta…» voleva aggiungere «pazzi» ma passò oltre. «Non stanno in pace tra loro, si dilaniano continuamente. Ma Vostra Eccellenza pensi al passato! Si rammenti quel Blasco Uzeda, “cognominato nella lingua siciliana Sciarra, che nel tosco idioma Rissa diremmo”; si rammenti di quell’altro Artale Uzeda, cognominato Sconza, cioè Guasta!… Io e mio padre non siamo andati d’accordo, ed egli mi diseredò; ma il Viceré Ximenes imprigionò suo figlio, lo fece condannare a morte… Vostra Eccellenza vede che sotto qualche aspetto è bene che i tempi siano mutati!… E rammenti la fellonia dei figli di Artale ; rammenti tutte le liti tra parenti, pei beni confiscati, per le doti delle femmine… Con questo, non intendo giustificare ciò che accade ora. Noi siamo troppo volubili e troppo cocciuti ad un tempo. Guardiamo la zia Chiara, prima capace di morire piuttosto che di sposare il marchese, poi un’anima in due corpi con lui, poi in guerra ad oltranza. Guardiamo la zia Lucrezia che, viceversa, fece pazzie per sposare Giulente, poi lo disprezzò come un servo, e adesso è tutta una cosa con lui, fino al punto di far la guerra a me e di spingerlo al ridicolo del fiasco elettorale! Guardiamo, in un altro senso, la stessa Teresa. Per obbedienza filiale, per farsi dar della santa, sposò chi non amava, affrettò la pazzia ed il suicidio del povero Giovannino; e adesso va ad inginocchiarsi tutti i giorni nella cappella della Beata Ximena, dove arde la lampada accesa per la salute del povero cugino! E la Beata Ximena che cosa fu se non una divina cocciuta? Io stesso, il giorno che mi proposi di mutar vita, non vissi se non per prepararmi alla nuova. Ma la storia della nostra famiglia è piena di simili conversioni repentine, di simili ostinazioni nel bene e nel male… Io farei veramente divertire Vostra Eccellenza, scrivendole tutta la cronaca contemporanea con lo stile degli antichi autori: Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa.»

Pagina straordinaria, questa, di cui si ricorderà con altrettanta capacità, un altro grande siciliano, Tomasi di Lampedusa, quando scriverà Il gattopardo (1958). Il brano si presenta sin da subito come un gran pezzo di oratoria, in cui Consalvo illustra alla vecchia malata (quasi rappresentasse il vecchio mondo in dissoluzione) la nuova realtà parlamentare, sottolineando come essa, al di là della forma liberal democratica, sia “scatola vuota” in cui inserire i poteri che sempre lo hanno esercitato. La famiglia, la razza è sempre la stessa. E ciò che dice Consalvo alla vecchia zia è lo stesso che direbbe in un’orazione politica. Perché di una vera è propria orazione si tratta a cui assiste dapprima diffidente ma poi divertita la rappresentante più eminente della famiglia Uzeda.

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Matilde Serao

La terza scrittrice meridionale è Matilde Serao (1856-1927), la cui figura di romanziera, a ragione associata al feuilleton (Le virtù di Cecchina, Fior di passione), non ci fa dimenticare che fu una tra le più influenti firme del giornalismo italiano del secondo Ottocento, e che fu la prima donna ad essere fondatrice e direttrice di un giornale, Il mattino di Napoli (1888), in cui riuscì a portare le prestigiose firme di Carducci e D’Annunzio.

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Una delle prime copie de “Il Mattino”

Ed è proprio la “verve” giornalistica e di denuncia quella che caratterizza la prosa della Serao, come si può vedere nel romanzo Il ventre di Napoli, che riecheggia, nel titolo, l’opera di enorme successo del francese Eugene Sue Il ventre di Parigi.

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Una vecchia copia de “Il ventre di Napoli”

BISOGNA SVENTRARE NAPOLI

Efficace la frase, Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata per racconti di miserie. Ma il governo doveva sapere l’altra parte; il governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore, quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s’impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perché siete ministro?

* * *

Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne avrete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani istessi che vi conducevano, non conoscono tutti i quartieri bassi. La via dei Mercanti, l’avete percorsa tutta? Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello: le case altissime la immergono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v’è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell’olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio. Da questa via partono tante altre viottole, che portano i nomi delle arti: la Zabatteria, i Coltellai, gli Spadari, i Taffettanari, i Materassari, e via di seguito. Sono, queste viottole – questa è la sola differenza – molto più strette dei Mercanti, ma egualmente sporche e oscure; e ognuna puzza in modo diverso: di cuoio vecchio, di piombo fuso, di acido nitrico, di acido solforico. Varie strade conducono dall’alto al quartiere di Porto: sono ripidissime, strette, mal selciate. La via di Mezzocannone è popolata tutta di tintori: in fondo a ogni bottega bruna, arde un fuoco vivo sotto una grossa caldaia nera, dove gli uomini seminudi agitano una miscela fumante; sulla porta si asciugano dei cenci rossi e violetti; sulle selci disgiunte, cola sempre una feccia di tintura multicolore. Un’altra strada, le così dette Gradelle di Santa Barbara, ha anche la sua originalità: da una parte e dall’altra abitano femmine disgraziate, che ne hanno fatto un loro dominio, e, per ozio di infelici disoccupate, nel giorno, e per cupo odio contro l’uomo, buttano dalla finestra, su chi passa, buccie di fichi, di cocomero, spazzatura, torsoli di spighe. e tutto resta, su questi gradini, così che la gente pulita non osa passarvi più. Vi è un’altra strada, che dietro l’educandato di San Marcellino, conduce a Portanova, dove i Mercanti finiscono e cominciano i Lanzieri: veramente non è una strada, è un angiporto, una specie di canale nero, che passa sotto due archi e dove pare raccolta tutta la immondizia di un villaggio africano. Ivi, a un certo punto, non si può procedere oltre: il terreno è lubrico e lo stomaco spasima.

* * *

In sezione Vicaria, vi siete stato? Sopra tutte le strade che la traversano, una sola è pulita, la via del Duomo: tutte le altre sono rappresentazioni della vecchia Napoli, affogate, brune, con le case puntellate, che cadono per vecchiaia. Vi è un vicolo del Sole, detto così perché il sole non vi entra mai; vi è un vicolo del Settimo Cielo, appunto per l’altitudine di una strisciolina di cielo, che apparisce fra le altissime e antiche case. Attorno alla piazzetta dei SS. Apostoli vi sono tre o quattro stradette; Grotta della Marra, Santa Maria a Vertecœli, vicolo della Campana, dove vive una popolazione magra e pallida, appestata dalla fabbrica di tabacco che è lì, appestata dalla propria sudiceria; e tutti i dintorni di Castelcapuano, di questa grande e storica Vicaria, sembrano proprio il suo ambiente, vale a dire putridume materiale e morale, su cui sorge l’estremo portato di questa società povera e necessariamente corrotta: la galera. La sezione Mercato? Ah, già: quella storica, dove Masaniello ha fatto la rivoluzione, dove hanno tagliato il capo a Corradino di Svevia; sì, sì, ne hanno parlato drammaturghi e poeti. Se ne traversa un lembo, venendo in carrozza, dalla Ferrovia, ma si esce subito alla Marina. Al diavolo la poesia e il dramma! In sezione Mercato, niuna strada è pulita; pare che da anni non ci passi mai lo spazzino; ed è forse la sporcizia di un giorno. Ivi è il Lavinaio, la grande fonte, dove si lavano i cenci luridi della vecchia e povera Napoli: il Lavinaio, che è il grande ruscello, dove il luridume viene a detergersi superficialmente; tanto che per insultare bonariamente un napoletano, sul proprio napoletanesimo, gli si dice. – Sei proprio del Lavinaio. Nella sezione Mercato, vi sono i sette vicoli della Duchesca, in uno dei quali, ho letto un dispaccio, vi sono stati in un’ora trenta casi; vi è il vicolo del Cavalcatoio; vi è il vicolo di Sant’Arcangelo a Baiano. Io sono una donna e non posso dirvi che sieno queste strade, poichè ivi l’abbiezione diventa così profonda, così miseranda, la natura umana si degrada talmente, che vengono alla faccia le fiamme della vergogna.

* * *

Sventrare Napoli? Credete che basterà? Vi lusingate che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli? Vedrete, vedrete, quando gli studi, per questa santa opera di redenzione, saranno compiuti, quale verità fulgidissima risulterà: bisogna rifare. Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi le case che sono lesionate dalla umidità, dove al pianterreno vi è il fango e all’ultimo piano si brucia nell’estate e si gela nell’inverno; dove le scale sono ricettacoli d’immondizie; nei cui pozzi, da cui si attinge acqua così penosamente, vanno a cadere tutti i rifiuti umani e tutti gli animali morti; e che hanno tutto un pot-bouille, una cosidettavinella, una corticina interna in cui le serve buttano tutto; il cui sistema di latrine, quando ci sono, resiste a qualunque disinfezione. Voi non potrete lasciare in piedi le case, nelle cui piccole stanze sono agglomerate mai meno di quattro persone, dove vi sono galline e piccioni, gatti sfiancati e cani lebbrosi; case in cui si cucina in uno stambugio, si mangia nella stanza da letto e si muore nella medesima stanza, dove altri dormono e mangiano, case, i cui sottoscala, pure abitati da gente umana, rassomigliano agli antichi, ora aboliti, carceri criminali della Vicaria, sotto il livello del suolo. Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi i cavalcavia che congiungono le case; nè quelle ignobili costruzioni di legno che si sospendono a certe muraglie di case, nè quei portoncini angusti, nè vicoli ciechi, nè quegli angiporti, nè quei supportici; voi non potrete lasciare in piedi i fondaci. Voi non potrete lasciare in piedi certe case dove al primo piano è un’agenzia di pegni, al secondo si affittano camere a studenti, al terzo si fabbricano i fuochi artificiali: certe altre dove al pianterreno vi è un bigliardo, al primo piano un albergo dove si pagano tre soldi per notte, al secondo una raccolta di poverette, al terzo un deposito di cenci. Per distruggere la corruzione materiale e quella morale, per rifare la salute e la coscienza a quella povera gente, per insegnare loro come si vive – essi sanno morire, come avete visto! – per dir loro che essi sono fratelli nostri, che noi li amiamo efficacemente, che vogliamo salvarli, non basta sventrare Napoli: bisogna quasi tutta rifarla.

Il ventre di Napoli è costituito da una serie di “reportage” che la scrittrice napoletano pubblicò in nove puntate sulla rivista Capitan Fracassa a partire dal 1884. L’aspetto che vi domina è quello dell’articolo di denuncia a seguito dell’infelice espressione di Depretis “Bisogna sventrare Napoli” in quel tempo preda di un’epidemia di colera determinata soprattutto dalla scarsità d’igiene nei quartieri popolari.

La denuncia non lesina, tuttavia, dalla descrizione “oggettiva” delle strade napoletane dove emergono figure di vecchie povertà, dove non entra il sole e dove femmine disgraziate, sfruttate dai tenutari delle case chiuse, imparano come sia duro e caro il prezzo da pagare per vivere.

Tutto questo viene reso attraverso uno stile in cui predomina il nome e l’aggettivo piuttosto che l’azione, come fosse un accumulo di roba che fermenta e suscita un odore insopportabile. E’ il cibo marcio a diventare il fulcro “ideologico” della Serao, il ventre di Napoli che lei scrive con piglio di denuncia. E che denuncia sia è scritto a chiare lettere sin dall’incipit: il governo ha il dovere di sapere e, sapendo, conoscendo, toccando con mano, porre dei rimedi per il miglioramento delle condizioni popolari.

 
 

GIOSUE CARDUCCI

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Giosue Carducci

Giosue Carducci (senza accento, così come lo stesso si firmava) nasce a Valdicastello, in Versilia nel 1835. Suo padre era un medico condotto, di idee liberali (partecipò ai moti del ’31), dal carattere impetuoso e a volte violento. Mite e dolce la madre, Ildegarda Colli, di cui conservò sempre un affettuoso pensiero. Nel 1839 la famiglia si trasferisce in Maremma, cantata in seguito, con accenti nostalgici e vitalistici, come appare nella celeberrima Traversando la Maremma toscana. La sua prima formazione avviene sotto la guida paterna, che lo spinge verso valori risorgimentali e libertari e quindi, anche alla letteratura romantica, che di quei valori era portavoce. Ma la sua formazione comprende anche una lettura attenta della storia di Roma che gli ispirò il forte valore per la libertas repubblicana, che egli vide poi riconfermata nella più recente storia della Rivoluzione Francese cantata nei sonetti del Ça ira.
La famiglia subì, per motivi politici riguardanti il padre, un nuovo trasferimento in Toscana. Qui, nella città di Firenze, riprende gli studi presso gli Scolopi, dando un maggior ordine alla sua formazione. Al termine della preparazione superiore si iscrive a Lettere presso la Normale di Pisa, dove si laurea nel 1856 con una tesi sulla cavalleria medievale.
In questa città entra in contatto con gli “Amici Pedanti”, con cui rivendica la ripresa della classicità, contro le “mollezze” dei poeti tardo romantici. Ma la sua critica si rivolge anche contro Manzoni, che insegna, a suo dire, la “vile rassegnazione” ammantata da un provvidenzialismo divino che non permette all’eroe virile d’esprimere appieno la sua libertà.
Dopo la laurea si dedica all’insegnamento e alle pubblicazione delle sue prime opere poetiche. Ma la sua vita riceve il primo tragico colpo: il suicidio del fratello Dante (1857), avvenuto il giorno successivo ad un violento alterco con il padre e la morte, di un solo anno successiva, dello stesso (1858).
Ciò fa sì che il poeta si chiuda, quasi a cercare conforto e sicurezza affettiva, nel cerchio di affetti familiari: sposa la cugina Elvira Menicucci, che gli darà quattro figli e pubblica le due prime raccolte poetiche Rime (1857) e Juvenilia (1860).

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L’aula dell’università di Bologna dove Carducci svolse la sua attività di docente

E’ proprio nell’anno della pubblicazione del suo secondo libro che viene nominato professore di Letteratura Italiana presso l’università di Bologna. E’ in questo periodo, che potremo indicare tra il 1860 ed il 1870, che il Carducci matura un atteggiamento di critica verso la politica del neonato stato italiano per:

  • la poca lungimiranza, priva d’ideali, che guida le prime esperienze del governo postunitario;
  • le irrisolte questioni veneta e romana, in seguito ottenute con poca gloria per la nostra patria;
  • la convenzione di Settembre del 1864, che sembrava volesse rinunciare alla presa di Roma;
  • l’arresto di Garibaldi, mito delle lotte risorgimentali.

Nel 1862 si iscrive alla Massoneria, che lo mette in contatto con gli ambienti repubblicani e anticlericali e sempre in questo periodo di tempo, allarga i suoi interessi culturali, leggendo e rivalutando il romanticismo, soprattutto d’origine non italiana come il francese Hugo ed il tedesco Heine.
Si avvicina anche al Positivismo e alla loro idea di progresso ed egli, collegandola al suo rifiuto della Chiesa, lo testimonia in uno scritto del 1863, non certo fra i migliori, Inno a Satana. Compone anche un terzo libro di raccolte, Levia gravia, che vedrà le stampe nel 1868.

Il 1870 è un anno difficile per lui: gli muore a solo 3 anni il figlioletto Dante e l’amata madre. Dopo due anni inizia una relazione con una donna sposata, Carolina Cristofori Piva, con la quale scambierà numerose lettere, fonti inesauribili per studiare l’evoluzione ideologica e poetica di Carducci.
Un altro anno capitale per la sua biografia è il 1878, anno in cui incontra i sovrani, in visita a Bologna. Le calde parole di Umberto e di Margherita gli scaldano il cuore e mitigano il suo repubblicanesimo.

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La regina Margherita di Savoia

L’avvicinamento alla monarchia provoca una forte protesta tra i rivoluzionari, ma il suo cambiamento trova ragione nella delusione per la politica trasformista di Depretis e la paura della Comune parigina; di fronte ad una paura che tali motivi potessero essere disgregatrici, Carducci vede ora la monarchia come fonte di coesione nazionale.
Sono del 1883 le poesie del Ça ira, che inneggiano ancora la Rivoluzione Francese, ma il suo atteggiamento politico sta seguendo l’iter dell’onorevole Crispi: partiti ambedue dal socialismo, approderanno alla monarchia e all’avventura coloniale dell’Italia.
Questo percorso lo porterà a diventare poeta vate, cioè rappresentante ufficiale dell’ideologia italica, e ciò verrà confermato con l’elezione a senatore del Regno.
Nonostante questo il suo carattere s’incupisce: sempre più gretto gli appare l’orizzonte politico, finisce anche il rapporto con Carolina e sente gli anni pesare. Ma forse è proprio questo a determinare i suoi migliori esiti poetici, Odi barbare (pubblicate nel 1887 e riviste sino al 1889) e Rime nuove (1887).
Negli anni seguenti i fatti salienti continuano ad essere l’insegnamento universitario e la relazione con Annie Vivanti, giovane poetessa, di 31 anni più giovane di lui.
S’ammala: un attacco di paralisi lo colpisce al braccio, scrive stanche poesie ormai vuote e retoriche che riunisce alle due raccolte precedenti ripubblicando il tutto con il titolo Rime e ritmi (1899).
Nel 1906, l’accademia di Svezia lo insignisce con il premio Nobel alla letteratura e l’anno seguente muore.

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Il premio Nobel del 1906

L’itinerario poetico

La prima produzione carducciana è forse, per noi lettori contemporanei, la più caduca. Essa comprende i testi che vanno dai giovanili versi del 1857 sino al 1871 e comprende le raccolte Rime, Juvenilia e Levia Gravia. Oltre a rappresentare l’apprendistato poetico di Carducci, prevale in esse l’insegnamento classicista degli “Amici pedanti” e una vis polemica contro il governo che fa della magniloquenza retorica la sua cifra stilistica.

Delle prime due raccolte poetiche è forse da ricordare, sebbene sia considerata dai più piuttosto “brutta”, l’Inno a Satana che, se da una parte può apparentare il nostro all’anticlericalismo scapigliato, dall’altro testimonia il suo avvicinamento al Positivismo, di cui il treno diventa simbolo. Ne riportiamo un breve estratto:

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Immagine di un treno

INNO A SATANA
(vv.169-200)

Un bello e orribile
mostro si sferra,
corre gli oceani,
corre la terra:

corusco e fumido

come i vulcani,
i monti supera,
divora i piani;

sorvola i baratri;

poi si nasconde
per antri incogniti,
per vie profonde;

ed esce; e indomito

di lido in lido
come di turbine
manda il suo grido,

come di turbine
l’alito spande:
ei passa, o popoli,
Satana il grande.

Passa benefico
di loco in loco
su l’infrenabile
carro del foco.

Salute, o Satana,
o ribellione,
o forza vindice
de la ragione!

Sacri a te salgano
gl’incensi e i voti!
Hai vinto il Geova
de i sacerdoti.

La macchina a vapore, marchingegno bello e terribile si slancia, percorre in mari e la terra: // fiammeggiante e fumante come i vulcani, oltrepassa le montagne, corre tra le pianure; // passa sopra le voragini, poi si nasconde in grotte segrete, in gallerie profonde; // poi esce e, indomabile, emette il suo suono come quello di una tempesta di spiaggia in spiaggia, spande il suo vento come quello di una tempesta: egli passa, o popoli, il grande Satana. // Passa benefico di luogo in luogo su un carro di fuoco che non si può fermare. // Ti saluto, o Satana, o ribellione, o forza vendicatrice della ragione. // Salgano a te i sacri incensi e i buoni propositi! Hai sconfitto il Dio che predicano i sacerdoti!

Ci piace ricordare che il testo del ’63 sarà pubblicato solo due anni dopo e si potrebbe (almeno per i contemporanei era) considerare una risposta diretta e polemica contro il Sillabo di Pio IX che rinnegava ogni forma di modernità. Il tono ribelle e battagliero contrappone la figura di Satana (si pensi a dell’Anticristo è l’ora di Praga) alla mediocre ed accomodante filosofia del “quieto vivere” post-unitaria e, soprattutto, alle ingerenze clericali e agli oscurantismi di fede. Satana quindi diviene il principio libertario, il portatore naturale di un messaggio vitalistico, che può liberare l’uomo dal giogo delle credenze e dei dogmatismi. Coniugando dissenso politico e critica ideologica, l’Inno (composto da duecento versi distribuiti in cinquanta quartine di quinari a schema ritmico ABCB, secondo la schema del “brindisi”, e cioè di un componimento poetico da recitarsi a tavola, e in maniera estemporanea) sviluppa allora un’invocazione alla scienza e al progresso.

Più matura l’altra sua raccolta poetica Giambi ed epodi, che comprende versi scritti a partire dal 1867. Come dice lo stesso titolo scelto, esse costituiscono il punto più alto della sua vis polemica contro gli ingloriosi sviluppi dell’Italia. E’, se così si può dire, una poesia corposa, realistica, ricca di spunti classici (Archiloco ed Orazio) e reminiscenze patriottiche di tipo romantico. Non mancano in essa ricordi di un passato glorioso recente, come la stessa Rivoluzione francese, di cui canta i grandi ideali di libertà cui la stessa Francia ora, con Napoleone III in accordo con Pio IX, sembra voler abdicare del tutto.

Più importanti è certamente meglio riuscite le due raccolte Rime nuove e Odi barbare, la cui composizione coincide con quella precedente (come a voler sottolineare come l’ispirazione gagliarda ed eroica e quella più malinconica ed intimista, coincidano). La differenza è soprattutto metrica, come Carducci sottolinea nella scelta del titolo (Rime nuove, versificazione secondo la tradizione italiana; Odi barbare, applicazione della metrica quantitativa latina alla qualitativa italiana, nata quest’ultima, per la suggestione proveniente dal Parnasse francese). D’altra parte la morte del figlio e della madre, la fine della relazione con la sua Lina, non possono che lasciare un’ombra sull’animo del poeta stesso. I temi tra le due raccolte sono simili, ma segnano un netto passaggio rispetto alle altre precedenti: ad una vis polemica contro il presente si sostituisce ora un ripiegamento, vissuto con malinconia, come per la morte del figlio, cantata in Rime nuove in due celeberrime poesie:

FUNERE MERSIT ACERBO

O tu che dormi là su la fiorita
collina tósca, e ti sta il padre a canto;
non hai tra l’erbe del sepolcro udita
pur ora una gentil voce di pianto?

E’ il fanciulletto mio, che a la romita
tua porta batte: ei che nel grande e santo
nome te rinnovava, anch’ei la vita
fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.

Ahi no! giocava per le pinte aiole,
e arriso pur di visïon leggiadre
l’ombra l’avvolse, ed a le fredde e sole

vostre rive lo spinse. Oh, giú ne l’adre
sedi accoglilo tu, ché al dolce sole
ei volge il capo ed a chiamar la madre.

O tu (dice il poeta, rivolgendosi al fratello Dante) che riposi là sulla fiorita collina toscana di S. Maria a Monte, e accanto a te sta sepolto nostro padre, non hai poco fa udito tra l’erbe del sepolcro una soave voce di pianto? // E’ il mio fanciulletto, che batte alla tua solitaria porta: egli che nel nome glorioso e venerato rinnovava la tua ideale presenza sulla terra, anch’egli fugge la vita, o fratello, che a te fu così tormentosa. // Ma, ahimè!, a lui la vita non era affatto amara: giocava tra le aiole variopinte di fiori, e mentre era allietato da fantasie graziose, la morte lo avvolse e lo spinse alle vostre rive fredde e solitarie.// Oh, accoglilo tu giù, nelle buie dimore dell’oltretomba, perché egli non vuole entrare e volge il capo al dolce sole ed a chiamar la madre.

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Un melograno in fiore

PIANTO ANTICO

L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fiori

nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora,
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,

sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol piú ti rallegra
né ti risveglia amor.

L’albero verso il quale orientavi la tua manina, il melograno dalle verdi foglie e dai rossi fiori, nel silenzioso e solitario orto, è nuovamente germogliato e l’estate lo matura con il suo calore e la sua luce. Tu figlio di questo povero corpo, invecchiato e sciupato dal tempo, tu unico dono di questa mia vita inutile, giaci nella fredda terra di un camposanto, non potrai più vedere la luce del sole, ne godere dell’amore.

Le due poesie riguardano, allo stesso modo, la morte del figlioletto Dante, avvenuta nel novembre del 1870. La prima di esse sembra essere stata scritta nel giorno della perdita, come riporta il testo autografo in cui compare la data, ma se così fosse non possiamo che ammirare la compostezza, lui così enfatico e magniloquente, con la quale risolve il suo dolore. Sin dall’inizio le reminiscenze classiche lo aiutano: il titolo, infatti, ripreso da un verso virgiliano in cui si narra dell’incontro di Enea con i bambini morti, potremo tradurlo con “travolse con una morte prematura”; quindi la costruzione del sonetto in cui l’“io” viene assolutamente cancellato e vengono richiamati le figure andate via, il padre, ma soprattutto il fratello, di cui il bambino ripete il nome. Ma le scelte lessicali sono di Giosue, “romita porta”, “l’ombra avvolse” e in ultimo le terzine che ci riportano in mente Foscolo con le aiuole assolate, e con l’immagine del morente che cerca, con l’ultimo sguardo il sole, a cui aggiunge la figura materna a sottolineare maggior pathos; certamente le numerose reminiscenze letterarie offrono a lui la moderazione con cui esprimere la sofferenza.

Dell’anno successivo è Pianto antico, composta da quattro strofe di settenari; la struttura si può definire bipartita: nella prima emergono elementi di vita, lo stesso melograno, cui il fanciullo volgeva la mano, è accompagnato da immagini coloristiche, fiori vermigli, rinverdire. Tra la prima parte e la seconda il sole (luce e calor). Quindi la morte con immagini luttuose, terra inaridita, inutile vita, terra fredda/ negra. Si è che per Carducci vita/morte, luce/buio, non possono che essere intrecciati.

Nella stessa raccolta troviamo anche la rievocazione del passato:

IL COMUNE RUSTICO

O che tra faggi e abeti erma su i campi
smeraldini la fredda orma si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero

che tace, o noci de la Carnia, addio!

Erra tra i vostri rami il pensier mio
sognando l’ombre d’un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
diavoli goffi con bizzarre streghe,
ma del comun la rustica virtù

accampata a l’opaca ampia frescura

veggo ne la stagion de la pastura
dopo la messa il giorno de la festa.
Il consol dice, e poste ha pria le mani
sopra i santi segnacoli cristiani:
«Ecco,io parto fra voi quella foresta

d’abeti e pini ove al confin nereggia.

E voi trarrete la mugghiante greggia
e la belante a quelle cime là.
E voi,se l’unno o se lo slavo invade,
eccovi,o figlio,l’aste,ecco le spade,
morrete per la vostra libertà.»

Un fremito d’orgoglio empieva i petti,

ergea le bionde teste; e de gli eletti
in su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
invocavan la Madre alma de’cieli.
Con la man tesa il console seguiva.

«Questo,al nome di Cristo e di Maria,
ordino e voglio che nel popol sia.»
A man levata il popol dicea Sì.
E le rosse giovenche di su ’l prato
vedean passare il piccolo senato,
brillando su gli abeti il mezzodì.

Sia che la vostra fredda ombra si imprima solitaria sui campi verdi tra faggi e abeti al sole puro e leggero del mattino, sia che incupisca immobile nel giorno morente sulle ville disseminate intorno alla chiesa che prega o al cimitero // che tace, o noci della Carnia, addio! Vaga tra i vostri rami il mio pensiero sognando i fantasmi di un tempo che fu. (Io) non vedo paure di morti e diavoli goffi con streghe bizzarre in conciliaboli ma il valore campagnolo del comune riunito // nell’ampia freschezza ombrosa durante la stagione del pascolo il giorno della festa dopo la messa. Il console dice, e ha prima posto le mani sopra le sante insegne cristiane: « Ecco, io divido fra voi quella foresta di abeti e pini verso l’estremità in cui (essa) infoltisce. E voi condurrete la mandria muggente a quelle alture là. E voi, se l’unno o se lo slavo ,eccovi, o figli, le lance, ecco le spade, morrete per la nostra libertà.» // Un brivido d’orgoglio riempiva gli animi, innalzava le bionde teste; e il grande sole batteva sulle fronti dei prescelti. Ma le donne piangenti sotto i veli invocavano la Madre protettrice dei cieli. Con la mano resa il console proseguiva: // «Questo ordino e voglio nel nome di Cristo e della Madonna» e il popolo, sollevati le mani, diceva sì. E i rossi buoi vedevano passare il piccolo senato, mentre il sole brillava a mezzogiorno.

Contro una certa letteratura romantica e post/romantica che vedeva il medioevo come momento narrativamente (e quindi ideologicamente) votato al “noir” e all’intrigo, Carducci lo disegna solare e pieno d’energia. Questa rievocazione, nata dopo un periodo di villeggiatura in Carnia nel 1887, più che mettere in contrapposizione età presente e passata, sembra richiamare in lui i maschi propositi e l’anelito, mai sopito, per i valori rinascimentali, con linguaggio ampio e sostenuto. Ma proprio qui possiamo misurare la caducità della poesia carducciana: sembra infatti predominare la maniera al vero sentire, disegnando immagini stereotipate e quindi banali (che tanto piacquero alla retorica fascista): il console a braccia levate, i contadini biondi e forti, le donne velate.

Sempre qui vengono sviluppati anche ricordi personali:

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La nebbia agli irti colli

SAN MARTINO

La nebbia a gl’irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l’aspro odor dei vini
l’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando
sta il cacciator fischiando
su l’uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar.

La nebbia sale sui colli privi di vegetazione mentre pioviggina e, a causa del vento di maestrale, il mare è rumoroso e molto mosso e produce una schiuma bianca; // ma lungo le strade del paesino, l’odore pungente del vino nelle botti in cui fermenta rallegra le anime.// Lo spiedo gira sulla legna infuocata scricchiolando; il cacciatore fischiando sta sulla porta a osservare attentamente // tra le nubi rossastre gli stormi di uccelli migratori neri, che sono come i pensieri malinconici dell’esiliato alla sera.

Poesia, scritta nel 1883, celeberrima e forse svalutata dall’abuso che se n’è fatto, a partire dall’obbligo di mandarla a memoria in età infantile, rimane un bel quadretto espressionistico che sembra richiamarci alla contemporanea poesia dei macchiaioli. La poesia si apre con un immagine autunnale, in cui le forze della natura, contrariamente alle immagini virili, appaiono avvolte dalla nebbia. Al centro due quartine in cui appare una gioia quotidiana, introdotta infatti dall’avversativo “ma”, dove emerge la convivialità, riassunta nel vino e nello spiedo, per poi chiudere con un immagine che sembra richiamare la prima, in cui gli “uccelli neri” dei pensieri, si riaffacciano, ma per poi migrare nella sera. La duplicità del verbo migrare può suggerire una diversa interpretazione del testo: da una parte può significare “i neri uccelli dei pensieri che volano al tramonto somigliano a malinconici pensieri vagabondi, suscitati dalla sera” (Baldi) o “uccelli neri rappresentano i pensieri, soprattutto funebri, che volano lontano per una riacquisita serenità”. Al di là dell’interpretazione, quel che conta è la capacità impressionistica di disegnare un paesaggio come riflessione e il persistere di un modo di osservare la realtà che riguarda, in Carducci, più l’occhio che la mente.

Le Odi barbare, come già detto, sono versi sperimentali, in cui il poeta mostra la sua perizia nel volgere il verso latino alla metrica italiana. Ma al di là del fatto tecnico, anche questa raccolta partecipa sia dei difetti che dei pregi che abbiamo riscontrato nella poesia carducciana.

Per i difetti, resi ancor più evidenti dal modello baudelairiano (Parfum exotique) cui Carducci s’ispira, presentiamo Fantasia:

FANTASIA

Tu parli; e, de la voce a la molle aura
lenta cedendo, si abbandona l’anima
del tuo parlar su l’onde carezzevoli,
e a strane plaghe naviga.

Naviga in un tepor di sole occiduo

ridente a le cerulee solitudini:
tra cielo e mar candidi augelli volano,
isole verdi passano,

e i templi su le cime ardui lampeggiano
di candor pario ne l’occaso roseo,
ed i cipressi de la riva fremono,
e i mirti densi odorano.

Erra lungi l’odor su le salse aure
e si mesce al cantar lento de’ nauti,
mentre una nave in vista al porto ammaina
le rosse vele placida.

Veggo fanciulle scender da l’acropoli
in ordin lungo; ed han bei pepli candidi,
serti hanno al capo, in man rami di lauro,
tendon le braccia e cantano.

Piantata l’asta in su l’arena patria,
a terra salta un uom ne l’armi splendido:
è forse Alceo da le battaglie reduce
a le vergini lesbie?

Tu parli (a Lidia) e l’anima mia cedendo dolcemente alla molle aura, si lascia attraversare dai suoni carezzevoli delle tue parole e naviga con la fantasia verso terre straniere. // Naviga nel tepore del sole al tramonto, che sembra sorridere alle azzurre e deserte distese opposte del cielo: in alto fra cielo e mare volano i bianchi gabbiani, passano isole verdi di vegetazione, // e i templi alti sulle cime dei monti risplendono per il loro bianco marmo di Paro alla luce fosca del tramonto, ed i cipressi della riva sussurrano al vento e i mirti folti emanano odore. // L’odore dei mirti si diffonde nell’aria marina dal sapore di salsedine e si mescola col canto lento dei marinai, mentre una nave, entrando nel porto, ammaina le rosse vele tranquillamente perché essa non è più scossa dalle onde del mare. // Vedo fanciulle scendere dall’acropoli in fila lunga ed ordinata; e indossano bei pepli bianchi, hanno ghirlande al capo, in mano rami d’alloro, tendono le braccia e cantano (per onorare il ritorno di un guerriero).  // Piantata l’asta sulla spiaggia della patria, salta a terra dalla nave un uomo splendidamente armato: è forse Alceo che ritorna vittorioso dalle battaglie alle fanciulle di Lesbo?

La differenza tra il poeta francese ed il nostro si evidenzia palesemente. Il “tu” iniziale, infatti è riferito a Lidia (il nome “oraziano” della Piva, appassionata del poeta francese) a cui dedica la poesia come segno di pace dopo un piccolo bisticcio. Le parole lo riportano, fantasticamente, ad un tramonto in un isola greca, in cui si affacciano marinai greci, accolte da fanciulle che tendono le braccia e cantano. Fra i marinai il guerriero Alceo, ricevuto da vergini graziose. E’ vero che anche in Baudelaire un profumo risveglia immagini di purezza classica, ma in lui aleggia una sensualità già dal senso scelto, l’odore, dall’oggetto da cui tale odore promana, il “seno ardente” e quindi tutta la languidezza della vegetazione. In Carducci permane solo un riferimento classico, che svela in lui la nostalgia non della purezza classica, ma dei valori classici, quelli della guerra e dell’amore rappresentati da Alceo/Carducci.

Per i pregi, forse la più bella poesia carducciana e certamente uno dei vertici della lirica italiana del secondo Ottocento é:

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Stazione notturno

ALLA STAZIONE IN UNA MATTINA D’AUTUNNO

Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!

Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri fóschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?

Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli annidài,
gl’istanti gioiti e i ricordi.

Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.

E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.

Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.

Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.

O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!

Fremea la vita nel tepid’aere,

fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso

in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.

Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.

Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.

Meglio a chi ’l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.

Oh quei lampioni della stazione, come si inseguono pigri e monotoni laggiù dietro gli alberi in mezzo ai rami gocciolanti di pioggia, proiettando sul fango una luce così debole da sembrare che stiano sbadigliando! // La vaporiera lì vicino fischia emettendo un rumore ora lieve, ora forte, ora pungente.  Il cielo nuvoloso e la mattinata autunnale stanno intorno come se fossero un grande fantasma. // Dove va, a che cosa si dirige questa gente silenziosa e avvolta nei mantelli che corre verso i convogli scuri del treno? Verso quali dolori sconosciuti o sofferenze per una speranza lontana? // Lidia, tu, pensierosa, il biglietto porgi al taglio secco del controllore, e contemporaneamente offri al tempo opprimente gli anni della giovinezza e i momenti felici e i ricordi. // Vanno e vengono lungo il treno scuro,  incappucciati in impermeabili neri i vigili, come se fossero ombre; hanno una lanterna che emette poca luce e mazze di ferro: e i freni di ferro // provati restituiscono un triste e lungo botto: in fondo all’anima a questo rumore corrisponde, come se fosse un’eco, un’angoscia dolorosa, che sembra una fitta. // E gli sportelli sbattuti quando vengono chiusi sembrano offese: sembra una presa in giro l’ultimo invito a salire che risuona veloce: a pioggia rumoreggia fitta sui vetri. // Già la locomotiva, simile a un mostro, consapevole dell’energia che ha dentro la sua struttura metallica emette sbuffi di vapore, trema, ansima, apre i suoi occhi di fuoco; getta attraverso il buio il suo potentissimo fischio che lancia una sfida allo spazio. // Parte il mostro crudele; trainando le carrozze in modo orribile, sbattendo le ali e si porta via il mio amore.  Ahimè il viso pallido e il bel velo scompaiono nell’oscurità mentre mi saluta. // Oh viso dolce con un pallore rosato, oh occhi lucenti come stelle portatori di pace, o fronte bianca e pura, dolcemente incastonata tra ricci voluminosi! // Palpitava la vita nell’aria tiepida, palpitava l’estate quando (gli occhi e il volto della donna) mi sorrisero e il sole di giugno, di inizio estate si compiaceva di baciare con la sua luminosità // la morbida guancia tra i riflessi dei capelli castani: i miei sogni, più belli anche del sole, circondavano la delicata figura della donna come se fossero un’aureola. // Ora sotto la pioggia tra la nebbia torno a casa e vorrei confondermi con loro; traballo come se fossi ubriaco, e mi tocco per assicurarmi di non essere anch’io dunque un fantasma. // Oh, come foglie che cadono molto fredde, continue, silenziose, pesanti sull’anima! Io credo che ovunque, in tutto il mondo, eternamente sia soltanto novembre. // Per chi ha perduto il senso della vita è meglio questa oscurità, è meglio questa nebbia, io voglio, voglio fortemente cullarmi in una noia che duri per sempre.

In questo testo non mancano parole ed immagini auliche, così come non mancano parole ed immagini realistiche, ma qui vengono fuse con straordinaria capacità offrendoci nella trama testuale un vero e proprio riflesso di stato d’animo dal sapore baudelairiano. Già la prima immagine risulta essere impressionistica, con quei fanali che “sbadigliano” la luce sul fango; il cielo plumbeo, scuro, i carri foschi, anneriti e ancora i neri vigili. E quindi la parola tedio, lo “spleen”, ma qui lo spleen si fa quasi singulto. Quindi il treno, un tempo cantato come singolo di progresso (Inno a Satana), ora descritto con terrore, capace di portar via l’amata. E poi, con un topos carducciano, dall’immagine reale il ricordo, solare a ricordare la nascita dell’amore. Ma la poesia torna a cantare il presente, la caligine, il dolore che lo rende come un ubriaco, la percezione che tutto è dolore, e, quasi leopardianamente rovesciando il perdersi nell’immensità, qui il perdersi si configura sempre in un infinito tedio.