LA CULTURA DELL’ETA’ NAPOLEONICA

cartina 1812.JPGL’Europa napoleonica

Situata tra l’età dell’esperienza napoleonica e il 1815, quando, con il congresso di Vienna viene “ripristinato” l’ancient regime, la cultura di quel periodo testimonia a livello europeo le contraddizioni tra ansia di libertà e sua negazione, che proprio il generale corso aveva prodotto.

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Ingres: Napoleone imperatore

Spenti infatti gli echi rivoluzionari, Napoleone era apparso a tutti come colui che avrebbe portato le istanze libertarie nell’intera Europa: il triennio giacobino italiano (1796/1799), le guerre vittoriose contro le varie coalizioni dell’Europa continentale, la trasformazione dapprima come console (1802), poi come imperatore (1804), avevano all’inizio scaldato i cuori europei, vedendo nelle armate francesi l’avanguardia delle istanze rivoluzionarie, per poi subito spegnerle, vivendo la delusione della scoperta della natura dispotica di Napoleone e la ripresa delle forze reazionarie dopo la sconfitta definitiva della Francia a Walerloo (1815). Ma se fu proprio lo stesso a dettare, oltre l’agenda politica europea, la cifra culturale e quindi stilistica entro cui disegnare la sua avventura e tale scelta cadde nel neoclassicismo, per meglio dire un nuovo classicismo entro le cui forme classiche s’inserissero realtà contemporanee, sarà il suo acerrimo nemico, cioé la Prussia a elaborare una nuova sensibilità a cui diamo il nome di preromanticismo.

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David: Giuramento degli Orazi

Napoleone, primo protagonista della nuova Europa, padrone di Francia senza alcuna tradizione dinastica, aveva bisogno di una forma “pubblicitaria” che ne legittimasse il potere. Ecco allora i pittori Jean-Auguste-Dominique Ingres e Jacques-Louis David, dipingerlo in atteggiamenti tipici della storia romana.
D’altra parte l’innamoramento del classico aveva origini lontane, che si possono datare già tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento contro l’estetica barocca ed il vezzoso rococò: la stessa rivoluzione francese aveva esaltato le virtutes e i mores della Roma repubblicana. A ciò si era aggiunta la straordinaria scoperta archeologica di Ercolano e Pompei  tra il 1740 e il 1766 che aveva suscitato entusiasmi nell’intellighenzia europea ed un gusto per l’archeologico e la cultura classica, nonché la scoperta di lettura di palinsesti attraverso reagenti chimici: certo l’estetica classica forniva un’incredibile schermo per la realtà presente, rifugio entro cui vagheggiare un’idea d’immutabilità e perfezione; costituiva inoltre un motivo per esaltare il presente potendosene servire sia nei momenti rivoluzionari (il periodo della repubblica), sia in quelli imperiali (l’età Augustea). Ma tale concezione non era lontana nemmeno nel cosiddetto preromanticismo: l’età antica, infatti, poteva esser vissuta come vagheggiamento di un’età perduta per sempre, vivendo la sua armonia con nostalgia e struggimento. 

Già nella seconda metà del Settecento era diventato fondamentale per gli intellettuali europei venire in Italia ed in Grecia ad osservare le bellezze archeologiche e a trovare ispirazione nell’osservazione di esse. E saranno, tra gli europei, i tedeschi a formulare le linee teoriche della nuova estetica “neoclassica”:

Johann_Winckelmann_1.jpgJohann  Joachim Winckelmann:

JOHANN JOACHIM WINCKELMANN:
LA “QUIETA GRANDEZZA” DEL LAOCOONTE

Infine, la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Così come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata. Quest’anima, nonostante le più atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoonte, e non nel volto solo. Il dolore che si mostra in ogni muscolo e in ogni tendine del corpo e che al solo guardare il ventre convulsamente contratto, senza badare né al viso né ad altre parti, quasi crediamo di sentire in noi stessi, questo dolore, dico, non si esprime affatto con segni di rabbia nel volto o nell’atteggiamento. Il Laocoonte non  grida orribilmente come nel canto di Virgilio: il modo con cui la bocca è aperta, non lo permette; piuttosto ne può uscire un sospiro angoscioso e oppresso come ce lo descriva Sadoleto. Il dolore del corpo e la grandezza dell’anima sono distribuiti con eguale misura per tutto il corpo e sembrano tenersi in equilibrio. Laocoonte soffre ma soffre come il Filottete di Sofocle: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo sopportare il dolore come questo uomo sublime lo sopporta. L’espressione di un’anima così elevata passa di molto le forme della bella natura: l’artista dovette sentire nel suo intimo la potenza spirituale che egli trasmise nel suo marmo.  

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Copia romana del Laocoonte

Il testo di Winckelmann ci conduce ad una duplice considerazione:

  • La connessione tra giudizio estetico e giudizio etico: l’atteggiamento di Laocoonte e dei suoi figli non fanno trasparire una lacerazione interiore, nonostante la situazione; essi, attraverso l’espressione diventano per noi exemplum morale, danno a noi la forza di una sopportazione interiore quale traspare nella perfezione marmorea;
  • L’arte non deve avere più un atteggiamento mimetico verso la natura: deve tendere verso una bellezza estetica e ideale che la natura non possiede.

In Italia la personalità più rappresentativa del neoclassicismo, ad eccezione del Foscolo, è quella di Vincenzo Monti.

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Vincenzo Monti

Nato nel 1754 ad Alfonsine in Romagna, studiò a Ferrara e sin da giovane dimostrò un’ottima capacità verseggiatrice. Nel 1778 è a Roma, dove diventa segretario di un nipote del papa di Pio VI sino al 1797. E’ qui che, assimilando il giudizio negativo della chiesa sulla Rivoluzione Francese, dà alle stampe la Bassvilliana (1793), dive immagina che l’ambasciatore francese a Napoli, Ugo di Basville, ucciso a Roma, sorvoli insieme ad un angelo la Francia, osservando gli orrori della rivoluzione. Abbandonata Roma, si trasferisce a Milano, conquistata da Napoleone l’anno precedente (1796). Qui, capovolgendo ideologia politica, pubblicò l’Inno per l’anniversario del supplizio di Luigi XVI (1799). Alla caduta della Repubblica Cisalpina fugge in Francia, per ritornare a Milano a seguito dell’Imperatore francese dove ottenne incarichi onorevoli quali l’insegnamento all’Università di Pavia. Alla fine dell’avventura napoleonica, con il ritorno degli Austriaci nella capitale lombarda, il nostro, visto l’atteggiamento conciliante del nuovo governo con gli intellettuali, cominciò a cantare i fasti del nuovo regime, ma l’ultimo periodo della sua vita fu funestato dalle critiche letterarie mosse per lo più dalle teorie romantiche che già cominciavano a circolare. Muore nel 1828.

La sua poesia più nota è del 1874:

ODE AL SIGNOR DI MONTGOLFIER

Quando Giason dal Pelio
spinse nel mar gli abeti,
e primo corse a fendere
co’ remi il seno a Teti,

su l’alta poppa intrepido
col fior del sangue acheo
vide la Grecia ascendere
il giovinetto Orfeo.

Stendea le dita eburnee
su la materna lira;
e al tracio suon chetavasi
de’ venti il fischio e l’ira.

Meravigliando accorsero
di Doride le figlie;
Nettuno ai verdi alipedi
lasciò cader le briglie.

Cantava il Vate odrisio
d’Argo la gloria intanto,
e dolce errar sentivasi
su l’alme greche il canto.

O della Senna, ascoltami,
novello Tifi invitto:
vinse i portenti argolici
l’aereo tuo tragitto.

Tentar del mare i vortici
forse è sì gran pensiero,
come occupar de’ fulmini
l’invïolato impero?

Deh! perchè al nostro secolo
non diè propizio il Fato
d’un altro Orfeo la cetera,
se Montgolfier n’ha dato?

Maggior del prode Esonide
surse di Gallia il figlio.
Applaudi, Europa attonita,
al volator naviglio.

Non mai Natura, all’ordine
delle sue leggi intesa,
dalla potenza chimica
soffrì più bella offesa.

Mirabil arte, ond’alzasi
di Sthallio e Black la fama,
pèra lo stolto cinico
che frenesia ti chiama.

De’ corpi entro le viscere
tu l’acre sguardo avventi,
e invan celarsi tentano
gl’indocili elementi.

Dalle tenaci tenebre
la verità traesti,
e delle rauche ipotesi
tregua al furor ponesti.

Brillò Sofia più fulgida
del tuo splendor vestita,
e le sorgenti apparvero,
onde il creato ha vita.

L’igneo terribil aere,
che dentro il suol profondo
pasce i tremuoti, e i cardini
fa vacillar del mondo,

reso innocente or vedilo
da’ marzii corpi uscire,
e già domato ed utile
al domator servire.

Per lui del pondo immemore,
mirabil cosa! in alto
va la materia, e insolito
porta alle nubi assalto.

Il gran prodigio immobili
i riguardanti lassa,
e di terrore un palpito
in ogni cor trapassa.

Tace la terra, e suonano
del ciel le vie deserte:
stan mille volti pallidi,
e mille bocche aperte.

Sorge il diletto e l’estasi
in mezzo allo spavento,
e i piè mal fermi agognano
ir dietro al guardo attento.

Pace e silenzio, o turbini:
deh! non vi prenda sdegno
se umane salme varcano
delle tempeste il regno.

Rattien la neve, o Borea,
che giù dal crin ti cola:
l’etra sereno e libero
cedi a Robert che vola.

Non egli vien d’Orizia
a insidïar le voglie:
costa rimorsi e lacrime
tentar d’un dio la moglie.

Mise Tesèo nei talami
dell’atro Dite il piede:
punillo il Fato, e in Erebo
fra ceppi eterni or siede.

Ma già di Francia il Dedalo
nel mar dell’aure è lunge:
lieve lo porta zeffiro,
e l’occhio appena il giunge.

Fosco di là profondasi
il suol fuggente ai lumi,
e come larve appaiono
città, foreste e fiumi.

Certo la vista orribile
l’alme agghiacciar dovría;
ma di Robert nell’anima
chiusa è al terror la via.

E già l’audace esempio
i più ritrosi acquista;
già cento globi ascendono
del cielo alla conquista.

Umano ardir, pacifica
filosofia sicura,
qual forza mai, qual limite
il tuo poter misura?

Rapisti al ciel le folgori,
che debellate innante
con tronche ali ti caddero,
e ti lambîr le piante.

Frenò guidato il calcolo
dal tuo pensiero ardito
degli astri il moto e l’orbite,
l’Olimpo e l’infinito.

Svelaro il volto incognito
le più rimote stelle,
ed appressar le timide
lor vergini fiammelle.

Del sole i rai dividere,
pesar quest’aria osasti:
la terra, il foco, il pelago,
le fere e l’uom domasti.

Oggi a calcar le nuvole
giunse la tua virtute,
e di natura stettero
le leggi inerti e mute.

Che più ti resta? Infrangere
anche alla morte il telo,
e della vita il nettare
libar con Giove in cielo.

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Illustrazione dell’aerostato inventato dai fratelli Montgolfier

Quando Giasone spinse nel mare le navi e per primo solcò con i remi il mare // i Greci videro salire intrepido sull’alta poppa della nave il giovane Orfeo, insieme col fior fiore degli eroi achei. // Percorreva con dita bianchissime la lira donatagli dalla madre, e al suono si placavano il fischio e la violenza tempestosa dei venti. // Meravigliandosi accorsero le Nereidi, lo stesso Nettuno (per la meraviglia) lasciò cadere le briglie dei verdi cavalli alati. // Intanto il poeta della Tracia (Orfeo) cantava la gloria di Argo, la nave degli Argonauti, e il suo canto si sentiva aleggiare sopra le anime greche. // O nuovo, invincibile nuovo Tifi (nocchiero della nave di Giasone) il tuo viaggio aereo ha vinto la straordinarie imprese degli Argolici. / Solcare il mare tempestoso è forse impresa così grande quanto conquistare il cielo, dominio inviolato dei fulmini? // Ahimé! perché il destino favorevole non ha dato la cetra ad un altro Ordeo, dal momento che ci ha dato il signor Montgolfier? // Più grande di Giasone, sorge il figlio di Francia. Applaudi Europa attonita alla nave volante (aerostato). // Giammai la natura, attenta a far rispettare le sue leggi, soffrì la più bella offesa dall’idrogeno. // Arte meravigliosa (la chimica) per cui s’innalza la fama di Sthal e Black (famosi chimici), muoia l’incredulo che ti chiama follia. // Tu chimica fai penetrare lo sguardo acuto dentro i corpi, ed inutilmente cercano di nascondersi gli elementi che oppongono resistenza. // Dalle oscure tenebre traesti la verità e ponesti fine alle aspre ed interminabili ipotesi scientifiche. // Brillò la Sapienza rivestita del tuo splendore ed apparvero le sorgenti da cui ha origine il creato. // L’idrogeno , terribile gas infiammabile, che nel profondo della terra alimenta i terremoti e facendo vacillare i fondamenti del mondo, // vedilo ora reso innocuo, uscire dal ferro usato per le armi di Marte, è già domato ed utile servire a colui che lo ha domato. // Attraverso lui, la materia dimentica del peso, mirabile cosa!, sale in alto e porta alle nuvole un assalto mai veduto prima. // Lo straordinario prodigio lascia immobili coloro che lo guardano, e un battito di paura trapassa ogni cuore. // La terra tace, risuonano (delle voci di quelli che salgono in pallone) le vie deserte del cielo, stanno mille volti attoniti a riguardare su, stanno mille bocche aperte per la meraviglia. // Nasce un piacere e l’estasi frammisti alla paura, i piedi irrequieti, desiderano andare dietro lo sguardo. // Fate silenzio e offrite la pace, o venti, ah, non vi offendete se corpi umani varcano il cielo. // Trattieni la neve, o Borea, vento freddo del nord,  che ti scende dai capelli, il cielo libero e serene concedi a Robert che vola. // Non viene a insidiare Orizia (sposa di Borea), costa rimorsi e dolore il volere tentare la moglie di un dio. // Teseo mise il piede nel letto nunziale di Plutone re dei morti (tentando di rapire Proserpina): lo punì il fato, rinchiudendolo per l’eternità nel regno dei morti. //  Ma già Robert, Dedalo di Francia, è lontano nel mare celeste, lieve lo sospinge il vento, l’occhio lo segue ormai a fatica. // Da quell’altezza, fuggendo allo sguardo, la terra sembra sprofondare oscura, e come ombre evanescenti appaiono città, foreste e fiumi. // Certamente la vista orribile (della terra vista dall’alto) avrebbe potuto agghiacciare gli animi; ma è chiusa la via al terrore nell’anima di Robert. // E ormai l’audace impresa conquista gli scettici, già cento palloni aerostatici salgono alla conquista del cielo. // Coraggio umano, pacifica e sicura scienza, quale forza, quale limite definisce il tuo potere? // Hai rapito al cielo le folgori (invenzione del parafulmine di Franklin, 1752), che privi di pericolo ti caddero davanti come se avessero le ali troncate, sino ai piedi. // La scoperta della gravitazione universale, guidata dal tuo pensiero audace, misurò il movimento e le orbite dei pianeti, il cielo e l’infinità dello spazio. // Svelarono il volto sconosciuto le più lontane stelle e avvicinarono le loro mai guardate prima luci (grazie al telescopio). // Hai diviso i raggi solari, / hai osato pesare questa stessa aria, hai domato la terra, il fuoco, il mare, gli animali e l’uomo. // Oggi la tua virtù è giunta a calcare le nuvole/ rimasero incapaci e silenziose le leggi della natura. // Cosa più ti resta? Infrangere anche il velo della Morte e bere insieme a Giove il nettare della vita.

bi000278_key_image.jpg  I fratelli Montgolfier

L’ode, composta nel febbraio 1784, prese spunto dal secondo volo aerostatico della storia, avvenuto a Parigi il 1º dicembre 1783. E’ composta da 35 strofe in settenari alternati: il primo ed il terzo sdruccioli, il secondo e quarto piani, mentre lo schema metrico è abcb. E’ un classico esempio di come il neoclassicismo montiano sia scenografico:

  • A livello contenutistico potremo associarla ad una lirica di ascendenza illuministica in cui viene esaltata la scienza;
  • A livello formale emerge un tessuto fortemente classico con riferimenti precisi mitologici e una costruzione ricca di metafore, inversioni, omoteleuti e chi più ne ha più ne metta.

Se dovessimo pertanto analizzare l’ode da un punto di vista letterario potremo dire che essa tuttavia più che un’estetica tardo illuministica, risponde ad una perfetta estetica neoclassica: il protagonista della storia è Orfeo che canta l’impresa di Giasone; quest’ultimo è messo di sottofondo, non appare. Se Orfeo è il cantore dell’impresa del re tessalo, Monti sarà il cantore dell’impresa di Montgolfier. E’ la poesia a dominare, non la scienza, la poesia che si fa interprete della realtà contemporanea. In effetti non vi è in tale ode l’impegno educativo che abbiamo letto in Parini; soltanto un aspetto più che altro scenografico con l’intento, quasi fossimo ancora nel barocco, di stupire, come stupiti sono gli spettatori dell’impresa dei fratelli di Montgolfier.

ALTA LA NOTTE

Alta è la notte, ed in profonda calma 
dorme il mondo sepolto, e in un con esso 
par la procella del mio cor sopita. 
Io balzo fuori delle piume, e guardo; 
e traverso alle nubi, che del vento 
squarcia e sospinge l’iracondo soffio, 
veggo del ciel per gl’interrotti campi 
qua e là deserte scintillar le stelle. 
Oh vaghe stelle! e voi cadrete adunque, 
e verrà tempo che da voi l’Eterno 
ritiri il guardo, e tanti Soli estingua? 
E tu pur anche coll’infranto carro 
rovesciato cadrai, tardo Boote, 
tu degli artici lumi il più gentile? 
Deh, perché mai la fronte or mi discopri, 
e la beata notte mi rimembri, 
che al casto fianco dell’amica assiso 
a’ suoi begli occhi t’insegnai col dito! 
Al chiaror di tue rote ella ridenti 
volgea le luci; ed io per gioia intanto 
a’ suoi ginocchi mi tenea prostrato 
più vago oggetto a contemplar rivolto, 
che d’un tenero cor meglio i sospiri, 
meglio i trasporti meritar sapea. 
Oh rimembranze! oh dolci istanti! io dunque, 
dunque io per sempre v’ho perduti, e vivo? 
e questa è calma di pensier? son questi 
gli addormentati affetti? Ahi, mi deluse 
della notte il silenzio, e della muta 
mesta Natura il tenebroso aspetto! 
Già di nuovo a suonar l’aura comincia 
de’ miei sospiri, ed in più larga vena 
già mi ritorna su le ciglia il pianto.

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La notte è alta e in questa profonda tranquillità dorme il mondo e insieme ad esso sembra placarsi la tempesta del mio cuore. Balzo fuori dal letto e attraverso le nuvole che il vento impetuoso rompe e sospinge, vedo scintillare a tratti le solitarie stelle. Oh belle stelle: verrà il momento in cui i pianeti saranno estinti, non più sostenuti dallo sguardo del Divino? e anche tu, costellazione di Boote (Orsa Maggiore), che ruoti lentamente, cadrai insieme a quella del Grande Carro? Ahi, perchè ora mi mostri l’aspetto e mi ricordi la dolce notte quando, seduto a fianco della casta donna, ti indicai con il dito al suo sguardo. Alla chiarezza delle tue stelle volgeva gli occhi sorridenti; mentre io mi tenevo prostrato ai suoi ginocchi, rivolto in contemplazione di un oggetto più bello che sapeva ricompensare meglio i trasporti e i sospiri di un tenero cuore. Oh ricordi! oh dolci momenti! io dunque vi ho perduti per sempre e nonostante ciò continuo a vivere? E’ questo un calmo pensiero? Sono questi gli affetti placati? Ah, mi ha deluso il silenzio della notte e il tenebroso aspetto della silenziosa e triste natura! Già di nuovo l’aria comincia a risuonare dei miei sospiri e già mi torna sulle ciglia un più abbondante pianto.

La poesia montiana tratta da Pensieri d’amore è una parafrasi delle ultime pagine de I dolori del giovane Werther di Wolfang Goethe. La sua importanza è soprattutto nella suggestione che essa ebbe per la poesia leopardiana che fu capace, con diversa profondità, di prendere espressioni ed inserirle nel suo canto poetico. Ma al di là dell’influenza che il poeta Monti ebbe per la poesia successiva, tale passo indica un certo eclettismo poetico che non riesce a “svelare” un vero e proprio autore, quanto piuttosto un tecnico della poesia che riesce a manipolare suggestioni che giungono dall’Europa.

Insieme e parallela all’esperienza neoclassica, come già detto, si sviluppa una linea di tendenza che in apparenza sembra opporsi ad essa ma che troveremo coesistere in importanti personalità del periodo (come nello stesso Vincenzo Monti). Essa, pur con un termine improprio, viene indicata come preromanticismo: ad essa potremo inserire l’esperienza filosofico/letteraria di Jean Jacques Rousseau, il movimento tedesco dello Sturm und Drang (Impeto e Tempesta), e il nostro Ugo Foscolo.

Per il primo aspetto possiamo indicare come padre di una possibile compenetrazione tra la ragione illuministica e la nuova percezione sentimentale Jean Jacques Rousseau, filosofo svizzero. La sua speculazione può essere semplificata attraverso una critica che egli muove contro la civiltà corruttrice: si tratta cioè di spostare il binomio cultura vs natura verso quest’ultima. Ma per Rousseau privilegiare lo stato di natura contro quello culturale “portava alla valorizzazione del sentire più che dell’intelligenza e della ragione, della spontaneità più che della norma” (Guglielmino). Nel romanzo Giulia o la nuova Eloisa (1761) si narra appunto di un amore contrastato che non può realizzarsi per convenzioni sociali, ma da cui non ci si può allontanare, se non con la morte.

Partiamo da un piccolo passo di questo romanzo che ci illustra emblematicamente come dalle ceneri del pensiero illuminato possa formarsi una nuova sensibilità capace di andare oltre la stretta ragione:

L‘azione si svolge in Svizzera, sulle rive del lago Lemano. Attraverso la corrispondenza tra Julie d’Etanges, il suo precettore Saint Preux e la cugina di Julie, Claire, si delinea la storia di una passione. Saint Preux si è accorto di amare l’allieva e vorrebbe rinunciare all’incarico di precettore: mai infatti il padre di Julie acconsentirà di farle sposare un uomo senza fortuna e senza nobiltà. Ma anche Julie lo ama, invano ammonita dalla saggia Claire. Dopo un tentativo di separazione, Saint Preux si stabilisce a Meillerie, sui monti, di fronte alla cittadina di Julie e i due giovani s’incontrano segretamente. Claire stessa richiama Saint Preux. Un inglese, Lord Bomstom, col quale Saint Preux si è legato di stretta amicizia, cerca di perorare la causa di Julie presso suo padre, la cui razione è però tanta violenta da costringere Saint Preux a partire. Julie, passato qualche tempo, accetta, col consenso di Saint Preux, il marito propostole dal padre, M. de Wolmar, che l’ama da tempo. A Clarens, accanto al marito è serena. Nascono due figli. M. de Wolmar invita Saint Preux a vivere con loro. Dopo una lunga lotta per non soccombere alla passione, Saint Preux parte. Interviene però un incidente: durante una passeggiata il figlio di Julie cade nel lago. La madre si butta nell’acqua, lo salva ma si ammala gravemente. Richiamato da Claire, Saint Preux accorre e, prima di morire, Julie gli chiede di rimanere nella sua casa per occuparsi dell’educazione dei suoi figli.
Jean-Jacques Rousseau: biografia, pensiero e opere | Studenti.it

 

JEAN-JACQUES ROUSSEAU:  SAINT PREUX A MEILLEIRE

Nei violenti trasporti che mi agitano non riesco a star fermo; corro, m’inerpico con ardore, mi slancio negli spogli; percorro a grandi passi tutti i dintorni, e dappertutto trovo nelle cose l’orrore che regna dentro di me. Non c’è più traccia di verde, l’erba è gialla e inaridita, gli alberi spogli, i venti boreali accumulano neve e ghiacci, tutta la natura è morta ai miei occhi, come la speranza in fondo al mio cuore.
Tra le rocce di questo pendio ho scoperto in un rifugio solitario una breve spianata da dove si scorge tutta la felice città che abitate. Figuratevi con che avidità portai gli occhi su quell’amato soggiorno. il primo giorno feci mille sforzi per discernere la vostra casa; ma la grande distanza li rese vani, m’accorsi che l’immaginazione mia illudeva gli occhi affaticati. Corsi dal curato a farmi prestate un telescopio col quale vidi o mi parve di vedere la vostra casa, e da allora passo intere giornate in questo asilo contemplando i muri fortunati che racchiudono la sorgente della mia vita. Nonostante la stagione ci vengo già la mattina e non me ne vado che a notte. Con un fuocherello di foglie e di qualche ramo secco e con il moto riesco a proteggermi dal freddo eccessivo. MI sono così innamorato di questo luogo selvaggio che ci porto persino penna e carta, ora sto scrivendo questa lettera su un macigno che il gelo ha staccato dalla rupe vicina.
Qui o Giulia, il tuo infelice amante gode gli estremi piaceri che forse potrà gustare al mondo. Di qui, attraverso l’aria e muri, ardisce a penetrare segretamente fino alla tua camera. 

Il passo ci rimanda ad una concezione secondo cui la natura viene rivissuta attraverso l’interpretazione di un io: non esiste oggettivamente, ma soggettivamente perché l’io poetico si riflette e trova in essa una comunione e una realizzazione, luogo nel quale conoscersi. Non è un caso che Saint Preux scriva seduto su una pietra guardando la casa dell’amata: lì trova non solo ispirazione, ma una forza quasi primigenia che lo porta a scandagliare se stesso ed il suo sentimento.

La storia del romanzo di Rousseau apre un varco nella cultura europea che, privilegiando il sentimento, mette in luce la difficoltà che esso possa dispiegarsi nella pienezza della sua espressività, ed uno degli aspetti dove questo emerge con più forza è quello dell’impossibilità del rapporto di coppia, vissuto sotto il segno dell’amore e non della convenienza sociale. E’ il tema della nouvelle Eloise (la nuova Eloisa, rivisitazione dell’epistolario dell’amore contrastato tra Abelardo ed Eloisa, appunto), e lo sarà per il romanzo di Goethe, scritto nel periodo della sua gioventù in cui aveva aderito al movimento dello Sturm und Drang, I dolori del giovane Werther:

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Goethe da giovane

Werther anima ardente e appassionata, si innamora di Carlotta, venendo a sapere troppo tardi che essa è già promessa sposa di Alberto, uomo pacato e tranquillo. Questi, pur dubitando dei sentimenti di Werther, lascia che i due si frequentino. Carlotta è via via attratta da Werther, sente di amarlo e si lascia baciare da lui. Incapace di resistere alla passione e disperando di avere Carlotta tutta per sé, Werther finge di dover partire per un breve viaggio e si uccide.   

WERTHER ED ALBERTO

12 agosto

Certamente Alberto è il miglior uomo che esista sotto la volta celeste. Ho avuto ieri con lui una discussione che non dimenticherò. Andai a casa sua per salutarlo, dacché mi è venuta la fantasia di andarmene a cavallo per le montagne, da dove ora ti scrivo, e camminando su e giù per la camera ci caddero sotto gli occhi le sue pistole. «Prestamele per il mio viaggio», gli dissi. «Prendile pure», rispose, «ti prendi la briga di caricarle; io le tengo qui solo pro forma». Ne scelsi una, e lui continuò: «Da quando la mia prudenza mi ha giocato un brutto tiro, non voglio più avere a che fare con quegli aggeggi». Ero curioso di sapere il seguito della storia, e lui proseguì: «Mi trovavo da tre mesi presso un amico, in campagna; avevo un paio di pistole scariche, e facevo sonni tranquilli. Una volta, in un pomeriggio piovoso, ero sfaccendato, e non so come mi saltò in testa che avremmo potuto essere assaliti e le pistole avrebbero potuto esserci necessarie, e che… insomma sai come vanno queste cose. Diedi le armi al servitore per farle pulire e caricare; quello si mise a scherzare con le serve, per spaventarle, e Dio sa come, il colpo partì; dentro la canna c’era ancora la bacchetta che fracassò il pollice della mano destra di una ragazza. Oltre che ad ascoltare gli strilli, dovetti pensare a pagare il chirurgo, e da allora lascio sempre le armi scariche. Mio caro amico, a che serve la prudenza? Non si vede mai il pericolo per intero. Pure…». Ora, tu sai che voglio molto bene ad Alberto, fino però ai suoi pure; non è forse evidente di per sé che ogni regola ammette eccezioni? Ma è così scrupoloso che quando gli sembra di aver detto qualche cosa di troppo azzardato e generico, e non del tutto vero, non la finisce più di definire, modificare, sopprimere o aggiungere, fino a che niente rimane di tutto ciò che ha detto. In questo frangente esagerò la dose… e io finii col non dargli più ascolto, mettendomi a fantasticare: poi con un gesto improvviso mi appoggiai alla fronte la bocca della pistola, al di sopra dell’occhio destro. «Ehi, che cosa ti viene in mente?», esclamò Alberto strappandomi la pistola dalla mano. «Ma è scarica», risposi. «Scarica o no, non è cosa da fare», replicò con impazienza. «Solo al pensare che un uomo possa essere così pazzo da togliersi la vita, mi sento rivoltare…».
«Ma è mai possibile che tutti gli uomini», esclamai, «quando parlano di qualche cosa devono sempre giudicare: è pazza, è savia, è buona, è cattiva? Ma che significato ha tutto ciò? Voi che giudicate, avete prima esaminato attentamente gli inconsci moventi di un’azione? Siete in grado di ricercarne esattamente le cause, e di rendervi conto del perché è avvenuta e del perché doveva avvenire? Se l’aveste fatto, non sareste così pronti nei vostri giudizi!».
«Mi concederai», disse Alberto, «che certe azioni restano degne di biasimo, qualunque sia il motivo che le determina».
Glielo concessi, stringendomi nelle spalle. «Tuttavia», continuai, «vi sono sempre delle eccezioni. È vero che il furto è un delitto; ma l’uomo che ruba per salvare sé e i suoi dal morire di fame, merita pietà o castigo? E chi scaglierà la prima pietra contro il marito che nella sua giusta ira uccide la sua donna infedele e l’indegno seduttore? Oppure contro la fanciulla che in un’ora di ebbrezza cede alle impetuose gioie dell’amore? Perfino le nostre leggi, che pure sono fredde e pedanti, si fanno commuovere e sospendono la punizione!».
«Questa è tutta un’altra questione», replicò Alberto, «perché l’uomo sopraffatto dalla passione perde ogni facoltà di ragionamento ed è da considerare come ubriaco o pazzo».
«O persone ragionevoli!», esclamai sorridendo. «Passione! Ubriacamento! Pazzia! Voi uomini per bene, come rimanete impassibili ed estranei a tutto questo! Rimproverate l’ubriacone, condannate l’insensato, passate loro dinanzi come il sacrificatore, e ringraziate Iddio, come il fariseo, perché non vi ha fatto simili a loro! Più di una volta io mi sono ubriacato, le mie passioni non sono mai tanto lontane dalla follia, ma non mi pento, perché ho imparato, dietro la mia esperienza, a capire che tutti gli uomini fuori del comune che hanno fatto qualcosa di grande, qualcosa di apparentemente impossibile, sono stati in ogni tempo considerati ubriachi o pazzi… Ma anche nella vita d’ogni giorno è intollerabile sentir gridare ogni qualvolta stia per compiersi un’azione libera, nobile e inaspettata: “Quest’uomo è ubriaco, è pazzo”. Vergognatevi, uomini sobri! Vergognatevi, uomini saggi!».
«Ecco di nuovo le tue strane idee!», disse Alberto. «Tu esageri tutte le cose, e questa volta hai senza dubbio torto nel paragonare il suicidio in questione con le grandi imprese, mentre esso può essere considerato nient’altro che una debolezza. Perché è certamente più facile morire che sopportare fermamente una vita penosa».
Ero sul punto di mettere fine alla discussione, perché niente mi esaspera di più che vedere qualcuno controbattermi armato solo di scialbi luoghi comuni, mentre io parlo mettendoci tutto il mio impegno. Tuttavia mi contenni, dal momento che avevo sentito spesso quel tipo di ragionamento e me ne ero altrettanto spesso indignato; risposi perciò piuttosto vivacemente. «Lo chiami una debolezza? Ti prego, non ti lasciare ingannare dall’apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme sotto l’insopportabile giogo di un tiranno, se alla fine si rivolta e spezza le sue catene? O un uomo che nel terrore di vedere la propria casa in preda alle fiamme, sente le sue forze centuplicarsi e solleva agevolmente pesi che a mente calma potrebbe smuovere appena? E uno che nell’ira dell’offesa affronta sei nemici e li vince tutti, vuoi chiamarlo debole? Mio caro, se lo sforzo è la forza, perché l’estremo sforzo dovrebbe essere il suo contrario?». Alberto mi guardò e disse: «Non te la prendere, ma gli esempi che tu adduci non si adattano al caso nostro». «Può darsi», risposi. «Ma è stato spesso osservato che il mio modo di ragionare è a volte alogico. Vediamo dunque se possiamo raffigurarci in un altro modo lo stato d’animo che determina un uomo a disfarsi del fardello dell’esistenza, generalmente gradito. Perché solo quando siamo in grado di comprendere profondamente un sentimento, noi possiamo avere il giusto criterio di parlarne».
«La natura umana», continuai, «ha i suoi limiti; può sopportare gioia, sofferenza o angoscia solo fino a un certo punto, oltre il quale si soccombe. Qui non si tratta di stabilire se uno è debole o forte, ma se è in grado di sopportare la sofferenza che gli è imposta, tanto morale che fisica; e trovo strano definire vile qualcuno perché si è tolto la vita, come troverei inconcepibile chiamare tale chi muore per una febbre maligna».
«Ancora paradossi!», esclamò Alberto.
«Non quanto tu pensi», replicai, «ammetterai che noi chiamiamo mortale la malattia che attacca il nostro organismo in modo tale che le sue forze siano in parte distrutte, e in parte diminuite di attività; sicché la natura non riesce più ad aiutarci, né a riattivare, in alcun modo, il normale corso della vita. Bene, amico mio, applichiamo questo allo spirito. Considera quante impressioni agiscono sull’uomo nella sua limitatezza, quante idee nascono in lui, fino al momento in cui una crescente passione non gli fa perdere ogni limpida facoltà del pensiero, per travolgerlo una volta per tutte. Invano l’uomo distaccato e ragionevole lo considera con compassione, cercando di persuaderlo con ragionamenti. È come il sano che al capezzale di un infermo non può trasfondere in lui la minima parte delle sue forze».
Per Alberto questo ragionamento era troppo generico. Gli rammentai allora di una fanciulla trovata recentemente annegata e gli ripetei la sua storia. «Era una tranquilla creatura, cresciuta nella piccola cerchia delle occupazioni domestiche, nel lavoro scandito giorno dopo giorno, con nessun’altra prospettiva o distrazione che passeggiare a volte la domenica insieme con le sue compagne, nei dintorni della città, abbigliata con ornamenti messi insieme a poco a poco; oppure ballare in occasione delle feste solenni, e chiacchierare a volte con qualche vicina, per ore, vivacemente interessandosi di una lite o di una maldicenza. Improvvisamente la sua ardente giovinezza prova segreti desideri, tentati dalle lusinghe degli uomini. Le sue gioie abituali divengono sempre più insipide, finché alla fine incontra un uomo verso il quale è trascinata senza potersi opporre al sorgente sentimento, e in lui concentra ogni sua speranza; dimentica allora il mondo intero, non sente che lui, non desidera che lui, l’Unico. Non essendo corrotta dai vuoti pensieri di una vanità incostante, vuole legarsi a lui per l’eternità per arrivare a cogliere la felicità che non possiede e godere tutte le gioie a cui aspira. Ripetute promesse coronano le sue speranze, audaci carezze accendono il suo desiderio, dominano completamente la sua anima; è in preda a oscure sensazioni che le fanno presentire tutte le gioie, è esasperata in modo estremo, stende alla fine le braccia per stringere a sé tutto quello che ha desiderato… e il suo amore l’abbandona. Impietrita, preda dell’oscurità, non ha dinanzi nessun avvenire, nessun conforto, nessuna speranza, perché l’ha abbandonata colui nel quale aveva riposto tutta la sua vita. Non vede il vasto mondo che le si stende davanti, né i tanti che potrebbero consolarla di quella perdita; si sente sola, abbandonata da tutti, e cieca, oppressa dall’orribile angoscia del suo cuore, si lascia andare per distruggere le sue pene nella morte che tutto annienta… Vedi, Alberto, questa è la storia di molti esseri! E non ti sembra proprio la stessa cosa della malattia? La natura non trova alcuna via d’uscita dal labirinto delle forze confuse e contrastanti, e l’uomo deve soccombere. Guai a colui che assistendo a simile tragedia può dire: “Che pazza! Se avesse aspettato, se avesse lasciato trascorrere il tempo, la sua disperazione si sarebbe placata, qualcuno sarebbe giunto per consolarla!”. È proprio la stessa cosa che dire: “Che pazzo, è morto di febbre! Se avesse pazientato finché le forze gli fossero tornate, la linfa vitale risanata, il tumulto del suo sangue calmato, oggi sarebbe ancora in vita, e tutto sarebbe andato per il meglio!”».
Alberto, che non trovava appropriato il paragone, mi fece ancora delle obiezioni; e tra l’altro rilevò che io avevo parlato di una semplice fanciulla; ma che lui non riusciva a capire come si potesse scusare un uomo sveglio di mente, e non così limitato, e in grado di avere una più vasta visione del mondo. «Amico mio», esclamai, «l’uomo è uomo, e il po’ di criterio che può avere, ha scarsa importanza quando lo incalza la passione, e si sente spinto ai limiti delle sue forze! Tanto più… Ma ne parleremo un’altra volta», dissi, e presi il cappello. Avevo il cuore gonfio, e ci separammo senza esserci compresi. Come è difficile che gli uomini si comprendano in questo mondo!

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Il suicidio di Werther

Potremo definire questo passo “ragione e sentimento” dove al primo membro inseriremo la figura di Alberto, il razionale, e al secondo Werther; è l’io del giovane che ci dice, attraverso la sua lettura della realtà, come un essere eccezionale non può che essere anti borghese, andare contro le convenzioni che questa classe sociale stava appena edificando. Alberto rappresenta appunto questa idea, il “buon senso”, “la ragione”, questa idea “illuminista” che cerca di cambiare il mondo sulla logica appunto attraverso il “giusto mezzo”; è evidente che per Werther è proprio questa “grettezza” ad uccidere la passionalità, l’alto sentire, che lo distingue e fa sì che egli sia il vero intellettuale, capace cioè di leggere i limiti che proprio “il buon senso” segna, circoscrive in modus vivendi grigio e senza senso. Il Werther è del 1774 e si può dire contemporaneo ad una stessa riflessione che Alfieri aveva svolto nel Sulla tirannide: arrivano ambedue all’esaltazione del suicidio come estrema di libertà, ma se l’astigiano la connota solo agli spiriti eccezionali, Goethe la inserisce anche ad una piccola creatura, che nonostante l’inconsapevolezza culturale della libertà, l’ha cercata in quanto privata dalla passione d’amore.

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James Macpherson

Ma Werther è anche un uomo colto di fine Settecento: la sua passione letteraria ce la conferma in un passo dello stesso libro:

OSSIAN NEL CUORE DI WERTHER

Ossian ha soppiantato Omero nel mio cuore. In che mondo m’introduce questo magnifico poeta! Camminare attraverso la landa, investito da ogni parte dal vento burrascoso che nelle nebbia fluttuanti evoca i fantasmi dei padri in una luce crepuscolare! Udire come viene giù dai monti, nel frastuono del torrente in mezzo al bosco, il flebile lamento degli spiriti nelle loro caverne ed il pianto d’angoscia della fanciulla che si strugge fino a morire presso le quattro pietre coperte di muschio e d’erba che ricoprono il corpo del suo amato, il nobile guerriero caduto! E’ allora che io lo trovo, il bardo grigio che cammina e cerca sulla vasta landa le orme dei suoi padri, e, ahimè, trova le loro tombe, e quindi lamentandosi guarda verso la cara stella del vespero che si nasconde nel mare tumultuoso, e rivivono nell’anima dell’eroe gli antichi tempi quando un raggio benevolo indicava ancora i pericoli che minacciavano i valorosi, e la luna splendeva sopra la loro nave inghirlandata che ritornava dopo la vittoria. 

I canti di Ossian vennero pubblicati dal precettore di scuola James Macpherson, (Scozia, 1736 – 1796). L’autore mise insieme alcuni canti della tradizione gaelica popolare, da lui tradotti, attribuendoli ad un mitico personaggio dell’antichità, Ossian, vissuto nel III secolo d.C. Ad essi aggiunse altri brani di sua invenzione. L’opera ebbe un successo straordinario in tutta Europa, che li considerò autentici: infatti in essi vi erano tutte le istanze che la nuova corrente culturale stava elaborando a partire dalla critica  alla ragione che l’illuminismo aveva imposto.

I° CANTORE

Trista è la notte, tenebrìa s’aduna,
Tingesi il cielo di color di morte:
Qui non si vede nè stella, nè luna,
Che metta il capo fuor dalle sue porte.
Torbido è ‘l lago, e minaccia fortuna,
Odo il vento nel bosco a ruggir forte.
Giù dalla balza va scorrendo il rio
Con roco lamentevol mormorìo.
Su quell’alber colà, sopra quel tufo,
Che copre quella pietra sepolcrale,
Il lungo-urlante ed inamabil gufo
L’aer funesta col canto ferale.
Ve’ ve’:
Fosca forma la piaggia adombra:
Quella è un’ombra:
Striscia, sibila, vola via.
Per questa via
Tosto passar dovrà persona morta:
Quella meteora de’ suoi passi è scorta.
Il can dalla capanna ulula e freme,
Il cervo geme – sul musco del monte,
L’arborea fronte – il vento gli percote;
Spesso ei si scuote – e si ricorca spesso.
Entro d’un fesso – il cavriol s’acquatta,
Tra l’ale appiatta – il francolin la testa.
Teme tempesta – ogni uccello, ogni belva;
Ciascun s’inselva – e sbucar non ardisce;
Solo stridisce – entro una nube ascoso
Gufo odioso;
E la volpe colà da quella pianta
Brulla di fronde
Con orrid’urli a’ suoi strilli risponde.
Palpitante, ansante, tremante
Il peregrin
Va per sterpi, per bronchi, per spine,
Per rovine,
Chè ha smarrito il suo cammin.
Palude di qua,
Dirupi di là,
Teme i sassi, teme le grotte,
Teme l’ombre della notte;
Lungo il ruscello incespicando,
Brancolando
Ei strascina l’incerto suo piè.
Fiaccasi or questa or quella pianta,
Il sasso rotola, il ramo si schianta
L’aride lappole strascica il vento.
Ecco un’ombra, la veggo, la sento;
Trema di tutto, nè so di che.
Notte pregna di nembi e di venti,
Notte gravida d’urli e spaventi!
L’ombre mi volano a fronte e a tergo:
Aprimi, amico, il tuo notturno albergo.

Il falso storico di Macpherson riesce a penetrare profondamente nella mente di un’intera generazione preromantica: Goethe, come si è visto, e tradotto da Melchiorre Cesarotti, Monti e Foscolo per la nostra letteratura; quello che il canto trasmette è completamente virato verso un naturalismo sentimentale capace di toccare corde che la ragione aveva cancellato.

Un paesaggio mitico lo si può ritrovare anche nel passato: le stesse scoperte archeologiche avevano spinto da una parte a riscoprire il gusto dell’antico, dall’altra e considerare l’Ellade come un mondo perduto per sempre, verso cui vagheggiare per poi prendere consapevolezza della decadenza della civiltà contemporanea. 

Ne è un esempio Keats (autore nella cui giovane vita, morì a 26 anni, scrive alcuni capolavori letterari), che, rappresenta il senso di turbamento del presente di contro all’immobilità dell’arte classica è la riaffermazione dell’arte e quindi della bellezza come unica forma per sconfiggere la caducità della vita:

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JOHN KEATS: ODE ON A GRECIAN URN

Thou still unravish’d bride of quietness,
Thou foster-child of silence and slow time,
Sylvan historian, who canst thus express
A flowery tale more sweetly than our rhyme:
What leaf-fring’d legend haunts about thy shape
Of deities or mortals, or of both,
In Tempe or the dales of Arcady?
What men or gods are these? What maidens loth?
What mad pursuit? What struggle to escape?
What pipes and timbrels? What wild ecstasy?

Heard melodies are sweet, but those unheard
Are sweeter; therefore, ye soft pipes, play on;
Not to the sensual ear, but, more endear’d,
Pipe to the spirit ditties of no tone:
Fair youth, beneath the trees, thou canst not leave
Thy song, nor ever can those trees be bare;
Bold Lover, never, never canst thou kiss,
Though winning near the goal yet, do not grieve;
She cannot fade, though thou hast not thy bliss,
For ever wilt thou love, and she be fair!

Ah, happy, happy boughs! that cannot shed
Your leaves, nor ever bid the Spring adieu;
And, happy melodist, unwearied,
For ever piping songs for ever new;
More happy love! more happy, happy love!
For ever warm and still to be enjoy’d,
For ever panting, and for ever young;
All breathing human passion far above,
That leaves a heart high-sorrowful and cloy’d,
A burning forehead, and a parching tongue.

Who are these coming to the sacrifice?
To what green altar, O mysterious priest,
Lead’st thou that heifer lowing at the skies,
And all her silken flanks with garlands drest?
What little town by river or sea shore,
Or mountain-built with peaceful citadel,
Is emptied of this folk, this pious morn?
And, little town, thy streets for evermore
Will silent be; and not a soul to tell
Why thou art desolate, can e’er return.

O Attic shape! Fair attitude! with brede
Of marble men and maidens overwrought,
With forest branches and the trodden weed;
Thou, silent form, dost tease us out of thought
As doth eternity: Cold Pastoral!
When old age shall this generation waste,
Thou shalt remain, in midst of other woe
Than ours, a friend to man, to whom thou say’st,
“Beauty is truth, truth beauty, – that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.

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Roma, cimitero acattolico: tombe di Keats e Severn

Tu, ancora inviolata sposa della quiete, / figlia adottiva del tempo lento e del silenzio, / narratrice silvana, tu che una favola fiorita / racconti, più dolce dei miei versi, / quale intarsiata leggenda di foglie pervade / la tua forma, sono dei o mortali, o entrambi, insieme, a Tempe o in Arcadia? E che uomini sono? Che dei? E le fanciulle ritrose? Qual è la folle ricerca? E la fuga tentata? E i flauti, e i cembali? Quale estasi selvaggia? // Sì, le melodie ascoltate son dolci; ma più dolci / ancora son quelle inascoltate. Su, flauti lievi, / continuate, ma non per l’udito; preziosamente / suonate per lo spirito arie senza suono. / E tu, giovane, bello, non potrai mai finire / il tuo canto sotto quegli alberi che mai saranno spogli; / e tu, amante audace, non potrai mai baciare / lei che ti è così vicino; ma non lamentarti / se la gioia ti sfugge: lei non potrà mai fuggire, / e tu l’amerai per sempre, per sempre così bella. // Ah, rami, rami felici! Non saranno mai sparse / le vostre foglie, e mai diranno addio alla primavera; / e felice anche te, musico mai stanco, / che sempre e sempre nuovi canti avrai; / ma più felice te, amore più felice, / per sempre caldo e ancora da godere, / per sempre ansimante, giovane in eterno. Superiori siete a ogni vivente passione umana / che il cuore addolorato lascia e sazio, / la fronte in fiamme, secca la lingua. // E chi siete voi, che andate al sacrificio? Verso quale verde altare, sacerdote misterioso, conduci la giovenca muggente, i fianchi / morbidi coperti da ghirlande? E quale paese sul mare, o sul fiume, / o inerpicato tra la pace dei monti / ha mai lasciato questa gente in questo sacro mattino? / Silenziose, o paese, le tue strade saranno per sempre, / e mai nessuno tornerà a dire / perché sei stato abbandonato. // Oh, forma attica! Posa leggiadra! con un ricamo / d’uomini e fanciulle nel marmo, coi rami della foresta e le erbe calpestate – tu, forma silenziosa, come l’eternità / tormenti e spezzi la nostra ragione. Fredda pastorale! / Quando l’età avrà devastato questa generazione, / ancora tu ci sarai, eterna, tra nuovi dolori / non più nostri, amica all’uomo, cui dirai “Bellezza è verità, verità bellezza,” – questo solo / sulla terra sapete, ed è quanto basta.

Possiamo dividere l’analisi del testo di Keats in cinque parti:

  • 1 – 14: superiorità dell’immaginazione, suscitata dall’arte rispetto alla realtà;
  • 15 – 43: coincidenza della perfezione con il non accadimento;
  • 44 – 45: impossibilità della ragione di penetrare la bellezza nell’arte;
  • 46 – 48: contrapposizione tra l’eternità della forma e la caducità umana
  • 49 – 50: coincidenza tra etica ed estetica.

Non è un caso, e appunto il testo di Keats ce ne offre piena testimonianza, della nascita di un vero e proprio genere sepolcrale, che vede anche la lirica di Thomas Gray, Elegia scritta in un cimitero di campagna e, per quanto la cultura italiana l’opera foscoliana Dei Sepolcri.

 

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