Justus van Egmont: Cristina di Svezia
L’Arcadia è un movimento letterario, nato nel 1690 e sviluppatosi intorno ad alcuni intellettuali che si riuniscono in un’Accademia, con lo scopo deliberato di continuare quell’attività che essi svolgevano nella casa di Cristina di Svezia, esule a Roma e convertitasi al cattolicesimo. Il nome deriva proprio da uno di questi incontri, avvenuto a seguito della morte della sovrana e, sottolineando l’ambiente di estrema eleganza e raffinatezza cui si dava luogo allo scambiarsi delle esperienze poetiche, un partecipante esclamò che tale ambiente sembrava ricreare l’atmosfera bucolica, così descritta nell’opera del Sannazaro in pieno ‘400, denominata, appunto Arcadia.
Vedremo in seguito, richiamandosi alla poesia bucolica latina e greca e quindi all’autore napoletano dell’Umanesimo, quale fosse l’intento e il clima culturale che tali intellettuali volevano ricreare, ma è importante sottolineare che questo movimento rompe con la tradizione barocca dando vita a qualcosa di nuovo, sebbene la loro novità sia ancora piuttosto timida.
Ma affinché ciò potesse avvenire era necessario che cambiassero le coordinate storiche e culturali dell’intera Europa e che porteranno a considerare il nuovo secolo come l’età della ragione e delle rivoluzioni.
E’ il periodo in cui, terminato il disegno egemonico della Francia con Luigi XIV, si assiste a un equilibrio tra le grandi potenze che porteranno ad una completa revisione dell’aspetto europeo con:
L’Europa dopo il 1714
- la guerra di successione spagnola: al suo termine con il trattato di Utrecht gli Asburgo d’Austria si sostituiscono, quasi completamente, al potere spagnolo in Italia; inoltre la Spagna deve cedere i Paesi Bassi (sempre all’Austria), mentre la Francia perde alcuni territori nella colonia americana a favore dell’Inghilterra;
- la guerra di successione polacca, che, pur non determinando assetti completamente nuovi, ridimensionò il potere asburgico (si pensi alla cessione della Lorena alla Francia)
- la guerra di successione asburgica, che vide l’affermazione nel regno asburgico di Maria Teresa d’Austria, il regno di Napoli affidato a Carlo di Borbone e un allargamento significativo dello Stato Sabaudo.
Tale concezione, forse ancora completamente dinastica dell’Europa, mostrava tuttavia le sue pieghe proprio grazie alla concentrazione della ricchezza nelle mani di una borghesia capitalistica che a livello manifatturiero , mercantile e coloniale, metteva a frutto le sue competenze ed il suo denaro per dar vita a quelle prime forme di razionalizzazione del lavoro che porteranno l’Inghilterra a fondare, proprio in questo secolo, la prima era industriale della storia.
Tale cambiamento avrà, sia come causa che come conseguenza, l’affermazione dell’illuminismo, nuova corrente culturale (sbagliato definirla solo filosofica) che coinvolgerà l’intero scibile umano, mettendo a frutto la grande esperienza del pensiero scientifico seicentesco ed applicandolo ad ogni forma del sapere.
Per tornare alla letteratura italiana si suole dire che il nostro Settecento si può dividere, più o meno in due fasi: la prima, appunto dal 1690, anno di fondazione dell’Accademia dell’Arcadia, l’altra nel 1764 con la pubblicazione del Caffè dei fratelli Verri, con la quale si dà vita ad una letteratura legata all’ideologia illuminata dei philosophes d’oltralpe.
L’Arcadia, propriamente detta, come si sa, prende riferimento dai testi classici e dall’opera di Sannazzaro: già in quest’ultima vengono definiti i contorni entro i quali se ne strutturano i temi: ambiente idealizzato, abitato da pastori lontani da ogni preoccupazione e affanno, vissuto nell’ozio dell’esercizio poetico. I suoi componenti si danno nomi di antichi pastori, si riuniscono in un luogo detto Bosco Parrasio; il presidente dell’Accademia è chiamato custode generale, e il simbolo che la caratterizza è la zampogna del dio dei boschi Pan. Vengono istituiti anche specifici rituali: Gesù Bambino, nato tra pastori, è il loro protettore e il loro statuto viene elaborato in latino arcaico. Tale modello avrà larghissima diffusione sul territorio nazionale: vengono istituite sedi dell’Arcadia nelle città più importanti e viene dato loro il nome di colonie.
Tale espansione avrà una duplice conseguenza:
- omogeneizzazione del gusto e della cultura;
- democratizzazione (tutti sono uguali di fronte alla poesia e all’arte)
Roma: Bosco Parrasio
Il programma vero e proprio dell’Arcadia è di netta opposizione al gusto barocco e una ripresa, attraverso un rinnovamento della poesia italiana, alla ragionevolezza, naturalezza, semplicità d’espressione e limpidezza stilistica; essi infatti si dichiarano i restauratori della poesia italiana (dopo la cosiddetta barbarie del secolo precedente) e cercano, nella loro arte, una attenzione per la realtà e la verità in un linguaggio semplice e diretto, ma al contempo limpido e preciso. Ciò li porta a rivalutare il classicismo che essi giudicano attraverso il concetto d’equilibrio formale e morale.
Edizione del 1757 dell’opera di Zappi
Gli esiti, tuttavia, non sono pienamente coerenti con le intenzioni: pur nell’esigenza di evitare i cosiddetti eccessi barocchi, ne cadono in altri, come l’eccessiva leziosità e falsa leggerezza:
GIAMBATTISTA FELICE ZAPPI
SOGNAI SUL FAR DELL’ALBA
Sognai sul far dell’Alba, e mi parea
ch’io fossi trasformato in cagnoletto;
sognai, che al collo un vago laccio avea,
e una striscia di neve in mezzo al petto.
Era in un particello, ove sedea
Clori di Ninfe in un bel coro eletto:
io d’ella, ella di me, prendeam diletto;
dicea: corri Lesbino, ed io correa.
Seguia: dove lasciasti: ove se ’n gìo,
Tirsi mio, Tirsi tuo, che fa, che fai?
Io gìa latrando, e volea dir: sono io.
inchinò il suo bel labbro al labbro mio:
quando volea baciarmi, io mi svegliai.
All’alba ebbi un sogno nel quale mi sembrava di essermi trasformato in un piccolo cane; sognai di avere intorno al collo un leggero collare e al centro del petto una macchia bianca. In un prato verde, dove era seduta Clori in mezzo a delle ninfe scelte (per bellezza) prendevamo pacere lei di me ed io di lei; diceva, corri Lesbino, e io correvo. Continuava a dire: dove l’ho lasciato, dove va, il Tirsi (nome pastorale del poeta), che fa, tu che fai? Ed io, andavo abbaiando volendo dire: sono io. Mi ricevette nel grembo, io mi alzai sulle due zampe, inchinò il suo volto sul mio volto, volendomi baciare, e a quel punti io mi svegliai.
Louis Michel van Loo: Nobildonna con cagnolino (XVIII sec.)
E’ un sonetto dove si possono misurare i progressi e nel contempo i limiti della nuova poesia d’inizio settecentesco: viene a cessare completamente la “concettosità” e la “metafora continuata” tipica del barocco ed il linguaggio, come il contenuto si fanno più diretti e semplici; d’altra parte saranno proprio questi ad attirare la critica più feroce dei più tardi illuministi: il ricorso a nomi greci come Clori, la donna o Tirsi, il cagnolino e l’atmosfera “galante”, che rende la poesia “vuota”, inutilmente graziosa, priva, quantunque “criticabile”, di una visione del mondo che pur la poetica barocca possedeva: tutto ciò fa dire ad Alessandro Verri che essa sia fastidiosamente “inzuccherata”
Ce ne dà un ulteriore esempio una canzonetta che riprende il famoso Chiare e fresche e dolci acque di Petrarca, dove a far da spia è la ricerca eufonica, ottenuta dalla ripetizione degli accenti ritmici, nonché dall’alternanza tra versi piani e tronchi. Nessun vero sentimento, ma, quasi a sottolineare la continuità pur nella diversità formale con l’edonismo seicentesco.
PAOLO ROLLI
SOLITARIO BOSCO OMBROSO
Solitario bosco ombroso,
a te viene afflitto cor,
per trovar qualche riposo
fra i silenzi in questo orror.
Ogni oggetto ch’altrui piace
Per me lieto più non è:
ho perduta la mia pace,
son io stesso in odio a me.
La mia Fille, il mio bel foco,
dite, o piante è forse qui?
Ahi! La cerco in ogni loco;
eppur so ch’ella partì.
Quante volte, o fronde grate,
la vost’ombra ne coprì!
Corso d’ore sì beate
quanto rapido fuggì!
Dite almeno, amiche fronde,
Se il mio ben più rivedrò:
Ah! Che l’eco mi risponde
E mi par che dica no.
Sento un dolce mormorio;
un sospir forse sarà
un sospir dell’idol mio,
che mi dice tornerà.
Ah! ch’è il suon del rio, che frange
fra quei sassi il fresco umor
e non mormora ma piange
per pietà del mio dolor
Ma se torna, vano e tardo
Il ritorno, oh Dei! sarà;
chè pietoso il dolce sguardo
sul mio cener piangerà
Bosco solitario e ricco d’ombre, un cuore colmo di dolore ti raggiunge per trovare un po’ di sollievo fra i silenzi di questo luogo spaventevole. Tutto ciò che piace agli altri, a me non piace più; ho perduto la mia tranquillità, odio anche me stesso. La mia Fille (nome pastorale femminile), l’oggetto della mia passione, ditemi, vegetazione (del bosco) si è rifugiata qui? Ah, la sto cercando in ogni luogo, so solo per certo che lei si allontanò. Quante volte o alberi a noi gradito, ci avete coperto con le vostre ombre! Tempo così felice, quanto passò velocemente! Ditemi almeno, se mai rivedrò la donna del mio bene; Ah! Ecco l’eco che mi risponde: mi sembra dica di no. Sento un dolce mormorio d’acqua, forse trasmette un sospiro, il sospiro della mia amata che dice: tornerà. Ah! che il sospiro non è che il rumore del ruscello che rompe la sua fresca corrente sulle pietre e non mormora, ma piange per pietà del mio dolore. Ma se torna, oh dei, sarà inutile e tardivo il ritorno, perché i dolci e pietosi occhi piangeranno sulla mie ceneri.
Paolo Rolli
La poesia di Rolli ci mostrerà come gli arcadi non si tirano indietro di fronte ad alcune novità, soprattutto da un punto di vista metrico: spesso cercano, infatti, l’effetto della musicalità in versi più brevi dell’endecasillabo. Ce lo ricorda Wolfang Goethe che afferma di ricordare proprio questa canzonetta, modulata dalla madre durante la sua infanzia.
Ma sarà proprio la musicabilità, che si trasformerà spesso in cantabilità a caratterizzare alcuni capolavori della produzione dell’Arcadia, che nel melodramma di Pietro Metastasio raggiungerà e sarà apprezzato nell’intera Europa.
Pietro Metastasio
Pietro Metastasio
Nato da umile famiglia nel 1692, Pietro Tirabassi si fece notare sin da subito per la sua facilità versificatoria, che impressionò il Gravina, intellettuale tra i fondatori dell’Accademia dell’Arcadia, che mutò il suo nome in Metastasio. Fu mandato in Calabria a studiare il razionalismo cartesiano e quando rientrò Roma, dopo a morte del Gravina, ricevette la sua eredità e si spostò a Napoli per dedicarsi all’arte dell’avvocatura. Non sconosciuto negli ambienti aristocratici per le sue capacità venne invitato a comporre una cantata, Orti esperidi, di cui compose i versi per il compleanno della moglie di Carlo V. L’opera ebbe un successo enorme, grazie anche all’interprete Marianna Bulgarelli, detta la Romanina, con la quale intrecciò una relazione. Grazie a lei fu introdotto nell’ambiente dei musicisti, donando loro dei libretti che sono rimasti, a tutt’oggi, dei veri e propri capolavori del genere, quali la Didone abbandonata ed il Catone in Utica. Lo straordinario riscontro lo portò a Vienna dove perfezionò la sua arte con opere quali la Clemenza di Tito, l’Attilio Regolo. Il successo della sua produzione fu nell’abilità con la quale riuscì ad armonizzare l’esigenza della poesia con quello dello spettacolo. Da qui si può assolutamente comprendere come, per i motivi sopra espressi, ma anche per la sua caratteristica culturale egli non seppe dare profondità alle sue storie.
Della sua perizia poetica, leggiamo il brano più famoso:
LIBERTA’
Grazie agl’inganni tuoi,
al fin respiro, o Nice,
al fin d’un infelice
ebber gli dei pietà:
sento da’ lacci suoi,
sento che l’alma è sciolta;
non sogno questa volta,
non sogno libertà.
Mancò l’antico ardore,
e son tranquillo a segno,
che in me non trova sdegno
per mascherarsi amor.
Non cangio più colore
quando il tuo nome ascolto;
quando ti miro in volto
più non mi batte il cor.
Sogno, ma te non miro
sempre ne’ sogni miei;
mi desto, e tu non sei
il primo mio pensier.
Lungi da te m’aggiro
senza bramarti mai;
son teco, e non mi fai
né pena, né piacer.
Di tua beltà ragiono,
né intenerir mi sento;
i torti miei rammento,
e non mi so sdegnar.
Confuso più non sono
quando mi vieni appresso;
col mio rivale istesso
posso di te parlar.
Volgimi il guardo altero,
parlami in volto umano;
il tuo disprezzo è vano,
è vano il tuo favor;
che più l’usato impero
quei labbri in me non hanno;
quegli occhi più non sanno
la via di questo cor.
Quel, che or m’alletta, o spiace.
se lieto o mesto or sono,
già non è più tuo dono,
già colpa tua non è:
che senza te mi piace
la selva, il colle, il prato;
ogni soggiorno ingrato
m’annoia ancor con te.
Odi, s’io son sincero;
ancor mi sembri bella,
ma non mi sembri quella,
che paragon non ha.
E (non t’offenda il vero)
nel tuo leggiadro aspetto
or vedo alcun difetto,
che mi parea beltà.
Quando lo stral spezzai,
(confesso il mio rossore)
spezzar m’intesi il core,
mi parve di morir.
Ma per uscir di guai,
per non vedersi oppresso,
per racquistar se stesso
tutto si può soffrir.
Nel visco, in cui s’avvenne
quell’augellin talora,
lascia le penne ancora,
ma torna in libertà:
poi le perdute penne
in pochi dì rinnova,
cauto divien per prova
né più tradir si fa.
So che non credi estinto
in me l’incendio antico,
perché sì spesso il dico,
perché tacer non so:
quel naturale istinto,
Nice, a parlar mi sprona,
per cui ciascun ragiona
de’ rischi che passò.
Dopo il crudel cimento
narra i passati sdegni,
di sue ferite i segni
mostra il guerrier così.
Mostra così contento
schiavo, che uscì di pena,
la barbara catena,
che strascinava un dì.
Parlo, ma sol parlando
me soddisfar procuro;
parlo, ma nulla io curo
che tu mi presti fé
parlo, ma non dimando
se approvi i detti miei,
né se tranquilla sei
nel ragionar di me.
Io lascio un’incostante;
tu perdi un cor sincero;
non so di noi primiero
chi s’abbia a consolar.
So che un sì fido amante
non troverà più Nice;
che un’altra ingannatrice
è facile a trovar.
Grazie ai tuoi inganni, alla fine riesco a respirare, o Nice: alla fine gli dei ebbero pietà di un infelice: sento che l’anima si è sciolta dai suoi lacci; questa volta non la sogno, non la sogno la libertà. // La passione che provavo da lungo tempo è andata via e sono a tal punto tranquillo che l’amore non riesce nemmeno a camuffarsi di rabbia. Non impallidisco più a sentire il tuo nome, quando ti guardo in volto, non batte più il mio cuore. // Sogno, ma tu non sei più nei miei sogni; mi sveglio, e tu non sei il mio primo pensiero. Vado in giro lontano da te e non ti desidero; sono con te e non provo né gioia né dispiacere. // Parlo della tua bellezza e non m’intenerisco; ricordo i miei errori e non riesco ad arrabbiarmi: non mi confondo più quando mi segui, posso parlate di te con il mio rivale. // se mi volgi lo sguardo altezzoso o se mi parli in modo gentile, il tuo disprezzo è inutile, come è inutile la tua gentilezza; quelle parole hanno perso l’antico dominio e gli occhi non raggiungono più il mio cuore. // Quello che ora mi spiace o gradisco, se ora sono felice o triste non è un tuo dono, non una tua colpa: perché anche senza te mi piace il bosco, la collina, il prato; ogni luogo spiacevole mi annoia anche se ci sei tu // Ascolta, mi sembri ancora bella, ma non a tal punto da non poter essere paragonata. E (non offenderti se dico il vero) nel tuo grazioso aspetto ora vedo qualche difetto che prima mi sembrava segno di beltà. // Quando fui colpito dalla freccia d’amore (arrossisco a pensarci) capii che il cuore si spezzava, mi sembrò di morire. Ma per uscire dai guai, per non essere oppresso dall’amore, per ritrovare se stesso, è lecito soffrire ogni cosa. // Nel vischio, dove cade talvolta l’uccellino, può lasciare le penne, ma torna in libertà; in seguito le perdute penne ricrescono, diventa guardingo per l’esperienza e non si fa più sorprendere. // So che tu non credi sia estinto l’amore per te, perché lo dico troppo stesso, non so stare zitto: quell’istinto naturale, Nice, mi spinge a parlare, per cui ciascuno parla dei pericoli appena trascorsi: // Dopo la terribile prova narra i passati travagli, così mostra i segni delle ferite un guerriero. Mostra felice l’incivile catena uno schiavo, ottenuta la libertà, che trascinava un giorno. // Parlo, ma solo parlando provo soddisfazione; parlo, ma non m’interessa se tu mi credi o no: parlo, non ti chiedo di approvarmi, né di essere tranquilla quando parli con me. // Io lascio un’incostante , tu perdi un cuore fedele; non so fra noi chi dovrebbe essere consolato per prima. So che un amante così fedele Nice non lo troverà più, che è facile trovare un’altra ingannatrice.
Certo il modo in cui si sviluppano gli esiti dell’arcadia letteraria ci danno il destro per rimarcare ancora una volta la lontananza del grande pensiero europeo che vede, proprio all’inizio del Settecento, i grandi effetti che il pensiero scientifico razionale sta producendo.
Ludovico Antonio Muratori
Della vuotezza del nostro sistema sembra accorgersi il Muratori, uno dei più lucidi pensatori, insieme a Giambattista Vico del primo settecento. Importante è il progetto culturale del primo:
LA REPUBBLICA DELLE LETTERE
Già in alcune di queste celebri adunanze con piacere noi rimiriamo coltivati gli studi della poetica e trattate le regole della lingua italiana con vantaggio certamente dell’una e dell’altra. Più gloriosa fatica hanno impreso altre accademie trattando l’erudizione ecclesiastica, la filosofia sperimentale e morale, la geografia ed altri importantissimi argomenti. […] È detto che singolar profitto potrebbe trarsi da tante accademie sparse per l’Italia, se queste tutte si volgessero a trattar le scienze e l’arti secondo la possa di ciascuno. Aggiugniamo che tutte queste accademie collegate insieme potrebbono costituire una sola accademia e repubblica letteraria, l’oggetto di cui fosse perfezionar le arti e scienze col mostrarne, correggerne gli abusi e coll’insegnarne l’uso vero. Il campo è vastissimo e quasi diciamo infinito; ma diviso in moltissime parti giusta il genio e l’abilità de’ coltori, potrà senza fallo produr nobilissimi frutti e una copiosissima messe. E chi non vede quanta gloria verrebbe alla nostra Italia se tutti i letterati figliuoli d’essa seriamente s’accordassero nel medesimo disegno di promuovere le scienze e l’arti? Ma perché forse parrà a taluno e difficile ed inutile ancora il formare un sol corpo di tante diverse accademie d’Italia, sì perché alcune di queste, se non ridicole, sono certamente debilissime e da non isperarne verun vantaggio al pubblico, e sì eziandio perché non è dicevole che tanti, o novizi, o poetastri, o cervelli fievoli , o sfaccendati, onde ogni accademia suole abbondare, entrino in ischiera e seggano a scranna con uomini veramente scienziati, veterani e famosi in lettere, noi lasciando per ora da parte questa lega di tante accademie, una sola ne proponiamo e più facile e più vicina al segno e non meno utile e gloriosa di quella. Sarebbe questa un’unione, una repubblica, una lega di tutti i più riguardevoli letterati d’Italia, di qualunque condizione e grado e professori di qual si voglia arte liberale o scienza, il cui oggetto fosse la riformazione e l’accrescimento d’esse arti e scienze per benefizio della cattolica religione, per gloria dell’ltalia, per profitto pubblico e privato.
Ora in alcune di queste riunioni osserviamo piacevolmente affrontati temi poetici e di linguistica letteraria con vantaggio sia dell’uni che dell’altra. Fatica più importante, ma per questo di maggior gloria, altre Accademie hanno sviluppato le scienze teologiche, le scienze sperimentali, la morale, la geografia ed altre importantissime conoscenze (…) Vogliamo dire che un eccezionale guadagno si potrebbe trarre se ciascuna di queste accademie, ora sparse per l’intera penisola, si volgessero a sviluppare lo studio delle scienze e delle arti secondo la possibilità di ciascuna di esse. A questo aggiungiamo che se tutte queste Accademie si collegassero insieme a formare una sola Accademia, una Repubblica letteraria, il cui compito fosse quello di portare alla massima conoscenza le arti e la scienza stessa, correggerne gli abusi e insegnare ad utilizzarle con capacità. Il campo su cui operare è vastissimo, potremo dire infinito, ma suddiviso in diverse parti secondo la capacità ed il gusto dei cultori, senza dubbio potrà dare vita a degli importantissimi risultati ed una abbondantissima quantità di risultati. E chi non vede quanta gloria darebbe alla nostra Italia se tutti gli intellettuali si accordassero verso un unico obiettivo, quello di promuovere la scienza e l’arte? Ma forse sembrerà a qualcuno difficile e forse inutile unificare le varie Accademie, ma alcune di queste, se non ridicole, sono certamente assai deboli tanto da non avere alcun vantaggio pubblico; ed anche perché non sembra opportuno che tanti, sia giovinastri o poetastri o ingegni deboli o sfaccendati di cui ogni Accademia abbonda, siedano vicini con veri scienziati, letterari di chiara fama; noi ora, lasciando da parte l’unione di tante Accademia, ne proponiamo una sola, più vicina all’obiettivo e non meno utile o gloriosa delle tante unite. Sarebbe questa un’unione, una repubblica di tutti i più importanti intellettuali d’Italia, di qualunque condizione o stato sociale essi siano, esperti di qualsiasi sapere umanistico o scientifico, il cui fine fosse la revisione profonda, metodologica delle stesse arti e scienze per beneficio della religione cattolica, per la gloria dell’Italia, per un guadagno sia pubblico che privato.
Busto del Muratori al Pincio di Roma
Il Muratori traccia, nella parte non riportata di tale passo una feroce critica alle Accademie arcadiche, vedendo in esse un uso eccessivamente retorico di poesie senza alcuna tensione civile; ma tuttavia un qualcosa di positivo lo avevano ottenuto: un’unità progettuale e linguistica che metteva le basi per una letteratura veramente italiana (tentativo in parte riuscito dall’utilizzo della teoria bembesca, ma rimesso in discussione dal barocco) ed ecco allora che il suo progetto di un’unione che oltre ad essere unicamente poetica diventasse anche piena di contenuti moralmente e religiosamente significative poteva far sorgere una forza propulsiva per il miglioramento della società italiana, la cosiddetta Repubblica delle lettere.
Ben diverso è il discorso di Giambattista Vico, filosofo più che letterato, che, vista la peculiarità del suo pensiero, influenzò maggiormente la generazione preromantica rispetto a quella a lui coeva.
Figlio di una modesta famiglia napoletana fu essenzialmente un autodidatta, che lo portò dapprima a tentare l’attività forense. Ottenne infine la cattedra di Retorica nell’Università di Napoli, con la quale, insieme ad alcune lezioni private, tentò di mantenere la sua numerosa famiglia.
Disegno che ritrae Giambattista Vico
Il suo pensiero cerca di superare lo scientismo galileiano: infatti per lui l’uomo può conoscere solamente ciò di cui è protagonista: quindi non può conoscere la natura, in quanto opera di Dio e non dell’uomo, ma la storia, l’unico prodotto veramente umano. Inoltre la matematica può spiegare molte cose, ma non tutto; le azioni dell’uomo possono essere anche frutto della psicologia (la fantasia). Ciò appare centrale nello sviluppo della sua opera più importante Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, più comunemente conosciuta come Scienza nuova, pubblica postuma per opera del figlio Gaetano, di cui riportiamo un passo:
ALLA BASE DELLO STORICISMO
Ma, in tal densa notte di tenebre ond’è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio: che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princìpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e traccurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini. Il quale stravagante effetto è provenuto da quella miseria, la qual avvertimmo nelle Degnità, della mente umana, la quale, restata immersa e seppellita nel corpo, è naturalmente inchinata a sentire le cose del corpo e dee usare troppo sforzo e fatiga per intendere se medesima, come l’occhio corporale che vede tutti gli obbietti fuori di sé ed ha dello specchio bisogno per vedere se stesso. Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini, perché tali cose ne potranno dare i princìpi universali ed eterni, quali devon essere d’ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano in nazioni. Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consegrate solennità che religioni, matrimoni e sepolture. Ché, per la degnità che “idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principio comune di vero”, dee essere stato dettato a tutte: che da queste tre cose incominciò appo tutte l’umanità, e per ciò si debbano santissimamente custodire da tutte perché ’l mondo non s’infierisca e si rinselvi di nuovo. Perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni e universali per tre primi princìpi di questa Scienza.
Edizione della “Scienza nuova” del 1744
Ma in una così forte oscurità in cui è avvolto il periodo lontanissimo dell’antichità, appare questa luce eterna, che non tramonta mai, delle verità che non si può mettere in discussione: che il mondo della storia è stato certamente fatto dagli uomini, per cui si possono, anzi si devono ricercare i principi dentro le mutazioni della nostra mente. La qual cosa, se ben si riflette, deve suscitare meraviglia che tutti i filosofi si preoccuparono, con serietà, di raggiungere la conoscenza della natura di questo mondo, che, in quanto fatto da Dio, solo lui ne possiede l’intera conoscenza, trascurando di pensare al mondo degli stati, ossia al mondo civile, che, essendo stato fatto dagli uomini, se l’avessero studiato avrebbero ottenuto la scienza degli uomini; l’effetto del loro operare, come abbiamo già detto nel libro delle Dignità, è determinato dalla miseria della mente, la quale immersa e seppellita dal corpo, è naturalmente portata a percepire le cose corporali e deve sforzarsi eccessivamente e faticosamente per capire se stessa, come un occhio che vede ciò che è esterno ad esso, ma per osservare se stesso deve ricorrere allo specchio. Ora dal momento in cui questo mondo fatto di nazioni è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose gli stessi si sono trovati d’accordo in perpetuo e si trovano d’accordo tuttora, perché queste cose potranno fornirci dei principi universali ed eterni, che devono esserci in ogni scienza, sopra le quali ogni scienza nacque e tutte si replicano in ogni stato.
Vediamo come tutte le civiltà sia primitive che civili, molto distanti tra loro e lontanissime nel tempo, custodire queste tre umane tradizioni: ognuna di esse possiede una religione, possiede il rito solenne del matrimonio e seppelliscono i loro morti; né tra le civiltà, sebbene primitive ed incolte, non si celebrino con le più ricercate e consacrate solennità, rituali religiosi, matrimoniali e funerari. Perciò, per la Dignità che afferma “che idee uguali, nate tra popoli sconosciuti tra loro, devono possedere un principio di verità”, deve essere stato dettato a tutte; Che da queste tre cose è nato presso tutte le popolazioni il passaggio dallo stato di ferinità a quello dell’umanità e per questo devono essere tutte conservate in modo santissimo, affinché il mondo non si ricopri di nuovo di animali selvaggi e di foreste. Questo è il motivo per cui abbiamo preso questi tre elementi eterni ed universali come i tre principi primi di questa Scienza.
In questo passo “grazie all’analogia tra la mente e le scienze umane, si può conoscere anche la storia primitiva ricostruendola indirettamente attraverso le leggi immutabili che regolano lo spirito umano nel suo ciclico divenire nel tempo” (Barberi Squarotti). Non ci meraviglia che in un secolo, come quello dell’illuminismo razionale, per definizione antistoricista, possa aver ignorato un pensatore così profondo, ma forse troppo innovatore. Bisognerà aspettare la fine del secolo quando Rousseau e Foscolo lo eleggeranno come proprio maestro.