RINASCIMENTO

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Heinrich Petri, Sebastian Münster, “Italia”, 1538

I termini Umanesimo e Rinascimento trovano a livello critico letterario una difficile determinazione in quanto gli elementi emersi durante il secolo XV trovano la piena affermazione nella prima metà del Cinquecento.
Più semplice, a veder bene, è tale demarcazione se dovessimo soffermarci solamente sugli avvenimenti storici, infatti la scoperta dell’America del 1492, la fine della libertà italiana e la lotta per il predominio in Europa tra Francia e Spagna (con la conseguente cancellazione di ogni idea imperiale), la riforma protestante (la perdita della centralità politico e culturale della chiesa) segnano quella che gli storici indicano come “età moderna”.

Per limitarci al nostro paese, che, è bene ricordarlo, continua ad essere egemone e punto di riferimento per gli intellettuali europei,  con il termine Rinascimento s’intende quel periodo storico-culturale compreso tra il 1494 ed il 1559, caratterizzato a livello politico dalla perdita dell’indipendenza degli Stati della nostra penisola e a livello artistico con il fiorire di tutte le arti verso vette che saranno in seguito difficilmente raggiungibili. Storicamente la politica dell’equilibrio fra i vari Stati italiani, perseguita da Lorenzo il Magnifico, se da una parte garantì una cinquantina di anni di pace nella nostra penisola, dall’altra la cristallizzò su formule che ormai apparivano superate nel resto d’Europa. Infatti la Francia, la Spagna e l’Inghilterra si evolvevano verso forme di vere e proprie entità nazionali, mentre, come già detto, la politica d’equilibrio negava a qualsiasi stato italiano un allargamento tale da potersi contrapporre alle conquiste “nazionali” del resto d’Europa. Ciò determinò, sin dal 1494, un’invasione nei nostri territori da parte dapprima di Carlo VIII; in seguito, nel 1499, da Luigi XII, ambedue re francesi. La facilità con la quale i due sovrani percorsero l’Italia, convinse la Spagna ad intervenire anch’essa, determinando un cinquantennio di guerre fra il paese transalpino e quello iberico che devastarono e procurarono una profonda ferita nei territori italiani.File:Francesco granacci, entrata di Carlo VIII a Firenze.jpg - Wikipedia

Francesco Granacci, Entrata di Carlo VIII a Firenze (1494)

Veri e propri protagonisti della storia cinquecentesca furono soprattutto i paesi della penisola iberica, Spagna e Portogallo, che ormai strutturatisi come veri e propri stati sovrani, poterono raccogliere ingenti capitali per finanziare le imprese coloniali che lasciarono l’America del centro-sud in mano agli spagnoli (ad eccezione del Brasile, portoghese). Ma il vero sovrano che sotto il suo scettro guidò quasi l’intera Europa fu Carlo V. Erede per parte di madre della Spagna e dei suoi relativi possessi (Sardegna, Sicilia, regno di Napoli e i territori americani), per linea paterna ereditò tutti i possedimenti asburgici. Nemico di Carlo V, perché accerchiato da tanta potenza, fu il francese Francesco I, che tuttavia non riuscì a scardinare la forza dell’imperatore ispano-asburgico. Vinse l’imperatore e la guerra si concluse soltanto nel 1559 con la pace di Cateau-Cambrésis, che sancì, infine, il predominio spagnolo nella penisola. Persero così l’indipendenza il Regno di Napoli e il Ducato di Milano che dapprima in mano francese finirono sotto il dominio spagnolo. Altri Stati conservarono la loro libertà, ma la pagarono a caro prezzo limitando la loro autonomia politica fin dove i due contendenti maggiori potevano permetterlo. Anche lo Stato della Chiesa, dopo aver cercato di “barcamenarsi” fra i due rivali, dovette capitolare al predominio spagnolo (ci piace ricordare qui il cosiddetto sacco di Roma del 1527 – a memoria di quello di Alarico e Genserico – compiuto dai lanzinecchi, soldati asburgici, che misero a ferro e a fuoco la città, mentre il papa, impotente, guardava le ferite inferte nella capitale della sacralità da una finestra di Castel Sant’Angelo). La stessa Repubblica di Venezia cessò le sue velleità espansionistiche e si limitò a controllare il proprio territorio, anche a causa dell’avanzata turca, che dopo aver debellato l’Impero d’Oriente (1473), minacciava l’Europa cristiana, cancellando le “stazioni” commerciali nel Baltico, fonte di lauti guadagni per la città lagunare. Tutto questo denota la perdita di centralità dell’Italia all’interno della politica europea, avvenuta soprattutto per due fatti fondamentali: la scoperta dell’America (1492) che sposta l’asse del commercio europeo dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico e la riforma protestante, promossa dal teologo tedesco Martin Lutero, (1517) che tolse al Papato il controllo ed i tributi di larghe fasce di credenti.

Tiziano, l'imperatore Carlo V a Mühlberg > ArtesplorandoTiziano: Ritratto di Carlo V d’Asburgo

La cultura rinascimentale

Culturalmente la situazione su descritta non determinò un indebolimento della tradizione italiana come la più importante dell’Europa; anzi, se così si può dire, i nostri intellettuali diedero vita ad una stagione prodigiosa che a livello artistico portò a risultati eccezionali: se nel ‘400 Leonardo aveva posto la figura al centro della natura, ma tuttavia armonicamente inserita in essa, come nella Gioconda, Michelangelo con il Giudizio Universale ed il David e Raffaello mostrano in tutta evidenza la tensione dell’uomo verso la ricerca della perfezione; negli affreschi e nei marmi del primo, tutti gli arti mostrano la tensione nervosa, la lotta del soggetto per affermare se stesso; nella Scuola di Atene raffaellesca, la tensione intellettuale di Leonardo e quella morale di Michelangelo si fondono in un tutt’uno di maggiore spiritualità, che pone l’uomo al centro della creazione divina e l’orgoglio dello stesso per questa centralità.

Sul piano letterario si evince, al di là degli esiti straordinari che in questa età verranno raggiunti, l’esigenza di contrapporre una certezza, che potesse in qualche modo contrapporsi al disordine della storia: nasce cioè la trattatistica che spiega il modo di scrivere o di governare in cui l’uomo del Rinascimento deve riconoscersi.

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Tiziano: Ritratto di Pietro Bembo (1539)

Per primo non sembra inopportuno richiamarsi al veneziano Pietro Bembo autore delle Prose della vulgar lingua. Nato nella città lagunare nel 1470 apprese, come gran parte degli intellettuali d’allora, in modo approfondito la cultura classica, ma, cosa rivoluzionaria per il suo tempo, curò l’edizione filologica dei classici italiani, Dante e Petrarca per le prestigiose edizioni a stampa di Manuzio. Si affaccia nella letteratura con il prosimetro sull’amore di stampo neoplatonico: gli Asolani.

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Pietro Bembo: Gli Asolani, dedicati a Lucrezia Borgia (edizione conservata in Francia)

Alla ricerca di una sistemazione all’interno di una corte signorile dove poter proseguire gli studi, abbandonata Venezia, si recò dapprima ad Urbino, dove rimase dal 1506 al 1512, per trasferirsi in seguito a Roma, dove divenne segretario del papa Leone X. Nonostante il suo esercizio all’interno dello Stato ecclesiastico lo facesse un intellettuale votato al latino, non tralasciò l’esercizio dell’uso del volgare pubblicando il suo capolavoro nel 1525 e, dopo cinque anni, la seconda edizione degli Asolani e le fondamentali Rime, che aprirono la via alla lirica petrarchesca. Divenuto cardinale nel 1539, onusto di gloria letteraria, si riconciliò con la sua patria e divenne storiografo ufficiale della Repubblica veneta. Muore a Roma nel 1547.

Il lavoro più importante di Bembo è costituito dalle Prose della volgar lingua del 1525, trattato a forma di dialogo – com’era uso nella filosofia classica – nel quale s’incontrano Carlo Bembo, fratello e portavoce delle tesi di Pietro Bembo, basate sul principio dell’imitazione dei grandi trecentisti, Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa; Giuliano de’ Medici, nell’epoca in cui è ambientato il dialogo, duca di Nembours, che si fa portavoce della teoria del fiorentino allora in uso; Federigo Fregoso, umanista e futuro cardinale, che vede nell’intera tradizione volgare un modello da seguire ed infine Ercole Strozzi, umanista che propone l’uso del latino.

LA SUPREMAZIA DEL FIORENTINO SUGLI ALTRI VOLGARI 
(I,15)

«E’ adunque la fiorentina lingua» disse lo Strozza «più gentile e più vaga, messer Carlo, della vostra?»
«E’ senza dubbio alcuno», rispose egli «né mi ritrarrò io, messer Ercole, di confessare a voi quello che mio fratello a ciascuno ha confessato, in quella lingua più tosto che in questa dettando e commentando».
«Ma perché è», rispose lo Strozza «che quella lingua più gentile sia che la vostra?»
Allora disse mio fratello: «Egli si potrebbe dire in questa sentenza, messer Ercole, molte cose; perciò che primieramente si veggono le toscane voci miglior suono avere, che non hanno le viniziane, più dolce, più vago, più ispedito, più vivo; né elle tronche si vede che sieno e mancanti, come si può di buona parte delle nostre vedere, le quali niuna lettera raddoppiano giamai. Oltre a questo, hanno il loro cominciamento più proprio, hanno il mezzo più ordinato, hanno più soave e più dilicato il fine, né sono così sciolte, così languide; alle regole hanno più risguardo, a’ tempi, a’ numeri, agli articoli, alle persone. Molte guise del dire usano i toscani uomini, piene di giudicio, piene di vaghezza, molte grate e dolci figure che non usiam noi, le quali cose quanto adornano, non bisogna che venga in quistione. Ma io non voglio dire ora, se non questo: che la nostra lingua, scrittor di prosa che si legga e tenga per mano ordinatamente, non ha ella alcuno; di verso, senza fallo, molti pochi; uno de’ quali più in pregio è stato a’ suoi tempi, o pure a’ nostri, per le maniere del canto, col quale egli mandò fuori le sue canzoni, che per quella della scrittura, le quali canzoni dal sopranome di lui sono poi state dette e ora si dicono le Giustiniane . E se il Cosmico è stato letto già, e ora si legge, è forse perciò che egli non ha in tutto composto vinizianamente, anzi s’è egli dal suo natìo parlare più che mezzanamente discostato. La qual povertà e mancamento di scrittori, istimo essere avenuto perciò che nello scrivere la lingua non sodisfà, posta, dico, nelle carte tale quale ella è nel popolo ragionando e favellando, e pigliarla dalle scritture non si può, ché degni e accettati scrittori noi, come io dissi, non abbiamo. Là dove la toscana e nel parlare è vaga e nelle scritture si legge ordinatissima, con ciò sia cosa che ella, da molti suoi scrittori di tempo in tempo indirizzata, è ora in guisa e regolata e gentile, che oggimai poco disiderare si può più oltra, massimamente veggendosi quello, che non è meno che altro da disiderare che vi sia, e ciò è che allei copia e ampiezza non mancano. La qual cosa scorgere si può per questo, che ella, e alle quantunque alte e gravi materie dà bastevolmente voci che le spongono, niente meno che si dia la latina, e alle basse e leggiere altresì; a’ quali due stremi quando si sodisfà, non è da dubitare che al mezzano stato si manchi. Anzi alcuna volta eziandio piú abondevole si potrebbe per aventura dire che ella fosse. Perciò che rivolgendo ogni cosa, con qual voce i latini dicano quello che da’ toscani molto usatamente valore è detto, non troverete. E perciò che tanto sono le lingue belle e buone più e meno l’una dell’altra, quanto elle più o meno hanno illustri e onorati scrittori, sicuramente dire si può, messer Ercole, la fiorentina lingua essere non solamente della mia, che senza contesa la si mette innanzi, ma ancora di tutte l’altre volgari, che a nostro conoscimento pervengono, di gran lunga primiera».

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Edizione delle “Prose della vulgar lingua” pubblicata a Napoli nel 1714

«E’ dunque il fiorentino», disse Ercole Strozzi (scrittore esclusivamente latino), più gentile e più elegante, signor Carlo  (Bembo, fratello e qui portavoce delle idee di Pietro) del vostro veneziano?»
«Certamente», gli rispose «e non esiterò a confessarvi quello che mio fratello Pietro ha confessato a tutti, scegliendo di scrivere in fiorentino piuttosto che in veneziano».
«Ma perché», riprese Strozzi, «quella lingua è più gentile della vostra?».
Allora disse mio fratello: «Signor Ercole, si potrebbero addurre molti argomenti, dal momento che, principalmente, si vede che le parole toscane hanno un miglior suono rispetto alle veneziane, più dolce, più leggiadro, più sciolto, più vivace; né nel toscano mancano i troncamenti delle sillabe finali, fenomeno invece assai frequente nel veneziano insieme all’uso di consonanti non raddoppiate. Oltre a questo hanno le sillabe inizianti delle parole derivanti da quelle latine, le sillabe centrali poste in modo armonioso e la stessa fine (della parola) più dolce e delicata, né sono così allentate, né così languide. Hanno maggior rispetto della morfologia, rispetto al tempo (verbale), al singolare e al plurale, agli articoli e al maschile e al femminile. I toscani usano molti modi di dire, pieni di avvedutezza, molto gradevoli e piene di ornamenti (stilistici) che noi non abbiamo e non occorre notare quanto simili abbellimenti contribuiscano ad adornare la lingua. Ma non voglio dire altro se non questo: che non c’è alcun scrittore di prosa che venga letto e che sia conosciuto, di versi, senza dubbio, molto pochi; uno dei quali è stato più apprezzato ai suoi tempi ed anche ai nostri, per la musica, più che per la lingua usata, le cui canzoni, dal suo nome sono dette e ancora si dicono Giustiniane. E se (il poeta padovano) Cosmico è stato letto e lo è ancora e forse determinato dal fatto che egli non ha scritto in veneziano, anzi egli si è decisamente, scrivendo, allontanato dalla lingua natia. La mancanza o la povertà di scrittori credo dipenda dal fatto che la lingua parlata nei discorsi o nei ragionamenti dal popolo non rende trasportata tale e quale nella pagina scritta e non si può derivarla dagli scritti, mancando del tutto scrittori degni e accettabili, come già detto. Al contrario la toscana è nell’uso piacevole e si legge nelle scritture in modo grammaticalmente corretto; questo perché essa, modellata dall’uso che ne fecero nel tempo molti scrittori, si presenta ora regolare ed armonica, tanto che oggi non si potrebbe quasi desiderare di più; e questo soprattutto osservando l’abbondanza di vocaboli propria del toscano e la loro ampiezza di significato, la qual cosa è importante non meno di altre. Questo si può vedere da ciò, che il toscano sebbene possieda sufficienti vocaboli per esprimere cose profonde e importanti non meno del latino, possiede anche sufficienti voci per le cose superficiali e meno serie, e se è capace di rendere con completezza questi due estremi saprà dare, senza manchevolezza, voce alle cose che si trovano a metà tra le due. Anzi, talvolta può persino possedere più varietà di espressione del latino, infatti ricercando accuratamente in latino ciò che in toscano è il significato di valore non lo troverete. Dal momento che le lingue sono belle ed efficaci (da utilizzare) tanto più esse hanno più o meno scrittori illustri e pieni d’onore, certamente si può dire, signor Ercole, che la lingua fiorentina è di gran lunga la principale non dico solamente del veneziano, che senza alcuna discussione la precede, ma anche di tutti gli altri volgari che conosciamo.      

Il passo su riportato appartiene ad un dibattito, piuttosto acceso all’inizio del Cinquecento, sulla lingua letteraria da utilizzare nelle opere. E’ evidente che tale questione nasce alla luce dell’allargamento della produzione letteraria e la necessità di trovare una lingua comune che permetta una lettura che vada al di là del municipio, come avveniva nel Trecento, ma anche ancora nell’Umanesimo, se il problema non si era posto nel ‘400, dove l’opera forse più rappresentativa del secolo, l’Orlando innamorato, nata al di fuori delle mura toscane, è pieno di idiotismi vernacolari.

Il Bembo s’inserisce nel dibattito, confutando la teoria di altri notevoli intellettuali, fra i quali ricordiamo il Castiglione che proponeva l’uso della lingua di Roma, perché proprio nella città del papa convergevano le più alte intellettualità, pertanto la mediazione tra di esse avrebbe fornito l’exemplum princeps linguistico. 

Per Bembo una lingua, per essere valida, non deve essere parlata, ma deve possedere una tradizione letteraria, l’unica che, in quanto scritta, possiede una grammatica studiabile e quindi riproponibile, fornendo un modello a cui tutti possono attingere. 

PETRARCA E BOCCACCIO OTTIMI MODELLI
(II,2; 9)

(…) Vennero appresso a Dante, anzi pure con esso lui, ma allui sopravissero, messer Cino, vago e gentil poeta e sopra tutto amoroso e dolce, ma nel vero di molto minore spirito, e Dino Frescobaldi, poeta a quel tempo assai famoso ancora egli, e Iacopo Alaghieri, figliuol di Dante, molto, non solamente del padre, ma ancora di costui minore e men chiaro. Seguì a costoro il Petrarca, nel quale uno tutte le grazie della volgar poesia raccolte. Furono altresì molti prosatori tra quelli tempi, de’ quali tutti Giovan Villani, che al tempo di Dante fu e la istoria fiorentina scrisse, non è da sprezzare; e molto meno Pietro Crescenzo bolognese, di costui più antico, a nome del quale dodici libri delle bisogne del contado, in volgare fiorentino scritti, per mano si tengono. E alcuni di quelli ancora che in verso scrissero, medesimamente scrissero in prosa, sì come fu Guido Giudice di Messina, e Dante istesso e degli altri. Ma ciascun di loro vinto e superato fu dal Boccaccio, e questi medesimo da sé stesso; con ciò sia cosa che tra molte composizioni sue tanto ciascuna fu migliore, quanto ella nacque dalla fanciullezza di lui più lontana. Il qual Boccaccio, come che in verso altresì molte cose componesse, nondimeno assai apertamente si conosce che egli solamente nacque alle prose. Sono dopo questi stati, nell’una facultà e nell’altra, molti scrittori. Vedesi tuttavolta che il grande crescere della lingua a questi due, al Petrarca e al Boccaccio, solamente pervenne; da indi innanzi, non che passar più oltre, ma pure a questi termini giugnere ancora niuno s’è veduto. Il che senza dubbio a vergogna del nostro secolo si trarrà; nel quale, essendosi la latina lingua in tanto purgata dalla ruggine degl’indotti secoli per adietro stati, che ella oggimai l’antico suo splendore e vaghezza ha ripresa, non pare che ragionevolmente questa lingua, la quale a comperazione di quella di poco nata dire si può, così tosto si debba essere fermata, per non ir più innanzi. Per la qual cosa io per me conforto i nostri uomini, che si diano allo scrivere volgarmente, poscia che ella nostra lingua è, sì come nelle raccontate cose, nel primo libro raccolte, si disse. Perciò che con quale lingua scrivere più convenevolmente si può e più agevolmente, che con quella con la quale ragioniamo?
(…)
Ma come che sia, venendo al fatto, dico che egli si potrebbe considerare, quanto alcuna composizione meriti loda o non meriti, ancora per questa via: che perciò che due parti sono quelle che fanno bella ogni scrittura, la gravità e la piacevolezza; e le cose poi, che empiono e compiono queste due parti, son tre, il suono, il numero, la variazione, dico che di queste tre cose aver si dee risguardo partitamente, ciascuna delle quali all’una e all’altra giova delle due primiere che io dissi. E affine che voi meglio queste due medesime parti conosciate, come e quanto sono differenti tra loro, sotto la gravità ripongo l’onestà, la dignità, la maestà, la magnificenza, la grandezza, e le loro somiglianti; sotto la piacevolezza ristringo la grazia, la soavità, la vaghezza, la dolcezza, gli scherzi, i giuochi, e se altro è di questa maniera. Perciò che egli può molto bene alcuna composizione essere piacevole e non grave, e allo ‘ncontro alcuna altra potrà grave essere, senza piacevolezza; sí come aviene delle composizioni di messer Cino e di Dante, ché tra quelle di Dante molte son gravi, senza piacevolezza, e tra quelle di messer Cino molte sono piacevoli, senza gravità. Non dico già tuttavolta, che in quelle medesime che io gravi chiamo, non vi sia qualche voce ancora piacevole, e in quelle che dico essere piacevoli, alcun’altra non se ne legga scritta gravemente, ma dico per la gran parte. Sí come se io dicessi eziandio che in alcune parti delle composizioni loro né gravità né piacevolezza vi si vede alcuna, direi ciò avenire per lo piú, e non perché in quelle medesime parti niuna voce o grave o piacevole non si leggesse. Dove il Petrarca l’una e l’altra di queste parti empié maravigliosamente, in maniera che scegliere non si può, in quale delle due egli fosse maggior maestro.

Dopo Dante, ed alcuni insieme a lui, ma gli sopravvissero, ci furono Cino da Pistoia, poeta piacevole e gentile e soprattutto poeta d’amore e dal verso armonioso, ma, in vero, molto inferiore per capacità di spirito (a Dante) e Dino Frescobaldi, allora al tempo di Dante poeta molto famoso e Iacopo Alighieri , figlio di Dante, di molto inferiore e famoso del padre. Dopo di loro venne Petrarca, nella cui poesia si scorgono tutta la bellezza della precedente. Ci furono, inoltre molti prosatori in quei tempi, tra cui Giovanni Villani, che visse al tempo di Dante e scrisse la storia di Firenze, che non è da disprezzare, e lo è ancor meno il bolognese Pietro Crescenzo, antecedente al VIllani, che portò in toscano (dal latino) un trattato sui bisogni della campagna (attribuzione errata da parte di Bembo) che ancora si leggono. Ci sono poi autori che scrissero in versi ed in prosa, tra cui Guido delle Colonne, giudice di Messina, Dante stesso ed altri. Ma tutti furono vinti e superati da Giovanni Boccaccio e questo da se stesso; in quanto tra le molte composizioni, furono migliori quelle che scrisse nella maturità. Lo stesso Boccaccio, sebbene avesse scritto molte opere in versi, si sa palesemente quanto sia votato per la prosa. Tuttavia si vede che il rapido progresso della lingua condusse a Petrarca e a Boccaccio e poi si arrestò, in quanto dopo di loro non si è visto nessuno che li abbia superati e neppure raggiunti, il che è avvenuto per la vergogna del nostro secolo, che ha visto il progresso della lingua latina ritornata ormai all’antico splendore, non è ragionevole pensare che la lingua volgare, tanto più giovane di quella, debba essersi fermata, così da non poter progredire. Perciò cerco di spronare agli scrittori di adesso, di comporre le loro opere in volgare, dal momento che è la nostra lingua, così come si è detto precedentemente nel primo libro. Per cui con quale più conveniente si può scrivere se non nella lingua nella quale svolgiamo i nostri ragionamenti?
(…)
Ma in qualunque modo stiano le cose, venendo al punto, dico che bisognerebbe considerare se un componimento  sia meritevole o meno di un plauso, secondo criteri estetici, dal momento che sono due i criteri che rendono bella ogni tipo di scritto, la compostezza e la piacevolezza, e le cose che queste due contengono sono tre: il suono, il numero e la variazione; affermo che di queste ultime tre bisogna parlare separatamente poiché ciascuna di esse giova alle prime due ricordate prima. E affinché voi conosciate in modo migliore le due parti, come sono diverse tra loro, sotto la compostezza metto l’onestà, la dignità, la maestà, la magnificenza e la grandezza e tutto ciò che somiglia loro; sotto la piacevolezza metto la grazia, la leggerezza, la bellezza, la dolcezza, gli scherzi ed i giochi e ciò che a questa può apparentarsi. Per cui può capitare che una composizione sia piacevole e non grave e viceversa, così come avviene in quelle di Cino da Pistoia che sono piacevoli ma non gravi o di Dante che sono sostenute ma non piacevoli. Non voglio dire che non esistono poesie in cui se via piacevolezza non vi sia gravità e viceversa, ma dico che la maggior parte di esse appartengono o all’una o all’altra cosa. Come se io dicessi altresì che in alcune parti delle loro composizioni non trovassi né gravità né piacevolezza, lo direi perché per la maggior parte son così e non perché in esse manchi la parola grave o piacevole. In questa stessa cosa operò perfettamente il Petrarca in maniera che non si può scegliere dove operi meglio, se in gravità o in piacevolezza, perché seppe operare splendidamente in ambedue. 

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Medaglione con il ritratto di Pietro Bembo

La pagina bembiana ci offre un chiaro esempio di quello che si suol definire il “classicismo rinascimentale”. Cominciamo col dire che la capacità critica bembiana si concentra soprattutto sul fatto stilistico e non contenutistico. Il Boccaccio, infatti, sembra aver portato alle estreme conseguenze l’iter cronologico della lingua toscana, pervenendo con essa, a livello prosastico, alla maggiore perfezione sino allora possibile per la lingua volgare; il Petrarca per la poesia raggiunge l’armonia (termine chiave per l’intera cultura rinascimentale) tra la sublimità del testo e l’euritmia che lo sottende: tale capacità va valutata esteticamente, oserei dire, formalmente. Aspetti fonici, ritmici, quantitativi, la variatio per evitare la monotonia sono elementi fondamentali con i quali giudicare l’opera d’arte.

Ma tali modelli sono soprattutto importanti perché, in quanto formali, sono replicabili: il classicismo rinascimentale si basa sulla capacità non solo di emulare ma di eguagliare i grandi classici e questo avviene linguisticamente. Il ‘400 aveva riportato a dignità letteraria il latino, togliendogli di dosso le scorie spurie del latino medievale; si trattava ora di portare alla stessa dignità il volgare. Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa avevano posto un termine dal quale ripartire, ricorrendo alla loro capacità estetica, per produrre opere dall’alto valore culturale. 

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Cranach il Giovane: ritratto di Pietro Bembo 

Lo stesso Bembo mise in pratica la sua concezione poetica da lui elaborata nelle Prose pubblicando le Rime (1535), testo di un’importanza fondamentale per l’affermazione del petrarchismo europeo. Portiamo ad esempio il sonetto proemiale: 

PIANSI E CANTAI LO STRATIO
(I)

Piansi et cantai lo stratio et l’aspra guerra,
ch’i’ ebbi a sostener molti et molt’anni,
et la cagion di così lunghi affanni,
cose prima non mai vedute in terra.

Dive, per cui s’apre Helicona et serra,
use far a la morte illustri inganni,
date a lo stil, che nacque de’ miei danni,
viver quand’io sarò spento e sotterra.

Ché potranno talhor gli amanti accorti,
queste rime leggendo, al van desio
ritoglier l’alme col mio duro exempio;

et quella strada, ch’a buon fine porti,
scorger da l’altre, et quanto adorar Dio
solo si dee nel mondo, ch’è suo tempio.

Piansi e cantai il dolore e la dura battaglia (d’amore) che dovetti affrontare per moltissimi anni ed il motivo di così prolungati tormenti, cose prima mai viste sulla terra. // Dee, per le quali si apre e si chiude la fonte dell’Elicona, abituate a tessere illustri inganni alla morte, date al mio stile, che è nato dal mio dolore, la possibilità di vivere, anche quando sarò morto. // Perché potranno talvolta gli amanti avveduti, leggendo queste rime, grazie al mio doloroso esempio, sottrarre le (loro) anime all’irraggiungibile desiderio // e vedere tra le altre strade quella che conduce al buon fine e quanto si deve adorare solamente Dio nel mondo, che è il suo tempio. 

Il tema è quello del ricordo doloroso d’amore (Piansi et cantai lo stratio et l’aspra guerra, / ch’i’ ebbi a sostener molti et molt’anni), e nell’incipit del poeta troviamo il richiamo lessicale petrarchesco (piango e ragiono); così come lo troviamo nell’ultimo verso (solo si dee nel mondo contro quanto piace al mondo). Ma se l’uso delle parole è fortemente debitore dell’autore aretino, ben diverso è il fine dell’opera: in Voi ch’ascoltate di rime sparse tutto è svolto in interiore hominis in cui si sottolinea la vacuità del desiderio e la vergogna verso se stessi; qui invece tutto si svolge in modo esterno da se stessi, sia quando invoca le Muse per rendere la sua poesia imperitura sia quando la sua poesia diventa avvertimento per gli amanti affinché sappiano scegliere la via verso il Signore. 

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Raffaello Sanzio: Ritratto di Baldassare Castiglione (1515)

Altro grande intellettuale rinascimentale, che si muove sempre all’interno della trattatistica e che nel suo libro fondamentale per la cultura dell’epoca tratta temi, potremmo dire, di carattere morale, è Baldassarre Castiglione. Egli nasce nel 1478 da una famiglia nobiliare imparentata con i Gonzaga di Mantova in un paese vicino alla città lombarda. Approfondisce gli studi classici a Milano. Poi dal 1499 dapprima nella signoria natia e quindi ad Urbino presso il duca di Montefeltro, a cui succede Francesco della Rovere, nipote del papa Giulio II, si dà alla vita cortigiana, svolgendo per i signori attività diplomatiche presso i re di Francia e d’Inghilterra. Nel 1513 con l’elezione al soglio papale di Leone X (1513) si trasferisce a Roma, come ambasciatore del Della Rovere, ma alla sua deposizione voluta da papa ed il ritorno di quest’ultimo a Mantova, il Castiglione lo segue. Qui, dopo aver rotto i rapporti con il suo signore, si riavvicina ai Gonzaga che lo rimandano a Roma presso Clemente VII, papa dal 1523. Mandato a Madrid per intessere relazioni con l’Impero Spagnolo, fu accusato di non aver saputo cogliere l’intenzione di Carlo d’Asburgo di mettere a fuoco la città di Roma (sacco di Roma, 1527). Caduto in disgrazia si trattenne in Spagna, morendo a Toledo nel 1529.

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Tiziano: Francesco Maria della Rovere

Il capolavoro del Castiglione è Il Cortegiano pubblicato l’anno precedente la morte. E’ un dialogo, secondo la trattatistica classica ed umanista, ma qui, composto in forma nuova: infatti non vi è un personaggio che fa la parte di colui che tenta di convincere gli altri interlocutori e che di solito è il portatore della visione dell’autore, ma tutti i dialoganti cooperano nella descrizione dei compiti del perfetto cortigiano.

L’opera, nella quale s’immagina il dialogo nella corte d’Urbino nel 1506, è divisa in quattro libri:

  1. Ludovico di Canossa delinea l’aspetto fisico e morale e, nell’ambito dell’affettazione, affronta il problema della lingua;
  2. Federigo Fregoso affronta i modi in cui le qualità del cortigiano debbano realizzarsi, ispirandosi al concetto di “onore” e “lode”. Quindi il Bibbiena parla delle facezie (motti arguti, amenità) da esplicarsi all’interno della corte;
  3. Giuliano de’ Medici parla della “cortigiana” difendendola dalle accuse misogene in cui era avvolta;
  4. Ottaviano Fregoso illustra quali debbono essere i rapporti tra principe e cortegiano, mente Pietro Bembo sviluppa il tema dell’amore platonico. 

NOBILTA’ E CORTIGIANERIA
(I, XIV)

«Voglio adunque che questo nostro cortegiano sia nato nobile e di generosa famiglia; perché molto men si disdice ad un ignobile mancar di far operazioni virtuose, che ad uno nobile, il qual se desvia dal camino dei sui antecessori, macula il nome della famiglia e non solamente non acquista, ma perde il già acquistato; perché la nobiltà è quasi una chiara lampa, che manifesta e fa veder l’opere bone e le male ed accende e sprona alla virtú cosí col timor d’infamia, come ancor con la speranza di laude; e non scoprendo questo splendor di nobiltà l’opere degli ignobili, essi mancano dello stimulo e del timore di quella infamia, né par loro d’esser obligati passar più avanti di quello che fatto abbiano i sui antecessori; ed ai nobili par biasimo non giunger almeno al termine da’ sui primi mostratogli. Però intervien quasi sempre che e nelle arme e nelle altre virtuose operazioni gli omini piú segnalati sono nobili perché la natura in ogni cosa ha insito quello occulto seme, che porge una certa forza e proprietà del suo principio a tutto quello che da esso deriva ed a sé lo fa simile; come non solamente vedemo nelle razze de’ cavalli e d’altri animali, ma ancor negli alberi, i rampolli dei quali quasi sempre s’assimigliano al tronco; e se qualche volta degenerano, procede dal mal agricultore. E cosí intervien degli omini, i quali, se di bona crianza sono cultivati, quasi sempre son simili a quelli d’onde procedono e spesso migliorano; ma se manca loro chi gli curi bene, divengono come selvatichi, né mai si maturano. Vero è che, o sia per favor delle stelle, o di natura, nascono alcuni accompagnati da tante grazie, che par che non siano nati, ma che un qualche dio con le proprie mani formati gli abbia ed ornati de tutti i beni dell’animo e del corpo; sí come ancor molti si veggono tanto inetti e sgarbati, che non si po credere se non che la natura per dispetto o per ludibrio produtti gli abbia al mondo. Questi sí come per assidua diligenzia e bona crianza poco frutto per lo piú delle volte posson fare, cosí quegli altri con poca fatica vengon in colmo di summa eccellenzia. E per darvi un esempio, vedete il signor don Ippolito da Este cardinal di Ferrara, il quale tanto di felicità ha portato dal nascere suo, che la persona, lo aspetto, le parole e tutti i sui movimenti sono talmente di questa grazia composti ed accommodati, che tra i piú antichi prelati, avvenga che sia giovane, rappresenta una tanto grave autorità, che piú presto pare atto ad insegnare, che bisognoso d’imparare; medesimamente, nel conversare con omini e con donne d’ogni qualità, nel giocare, nel ridere e nel motteggiare tiene una certa dolcezza e cosí graziosi costumi, che forza è che ciascun che gli parla o pur lo vede gli resti perpetuamente affezionato. Ma, tornando al proposito nostro, dico che tra questa eccellente grazia e quella insensata sciocchezza si trova ancora il mezzo; e posson quei che non son da natura cosí perfettamente dotati, con studio e fatica limare e correggere in gran parte i diffetti naturali. Il cortegiano, adunque, oltre alla nobiltà, voglio che sia in questa parte fortunato, ed abbia da natura non solamente lo ingegno e bella forma di persona e di volto, ma una certa grazia e, come si dice, un sangue, che lo faccia al primo aspetto a chiunque lo vede grato ed amabile; e sia questo un ornamento che componga e compagni tutte le operazioni sue e prometta nella fronte quel tale esser degno del commerzio e grazia d’ogni gran signore».

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Banchetto rinascimentale all’aperto

«Voglio dunque che questo nostro cortigiano sia di discendenza nobiliare e di famiglia onorata; perché un comportamento non ispirato alla virtù è più facilmente tollerato in una persona di basso stato sociale che non in un nobile, che se si allontana dal cammino dei suoi antenati, macchia il nome della famiglia e solamente non acquista (in lode), ma perde quello che aveva ottenuto; perché la nobiltà è come una luce che rende manifeste e fa vedere le cose buone e quelle cattive e fa da sprone alla virtù, sia con il timore d’infamia quanto con la speranza di lode. Questa luce, non splendendo nelle opere delle persone comuni, viene loro meno lo stimolo ed il timore d’infami, né per essi è d’obbligo superare le condizioni dei loro antenati, mentre ai nobili parrebbe vergognoso non raggiungere almeno il livello (di fama, virtù ed onore) raggiunto dai loro predecessori. Per questo accade sempre che nelle armi e nelle altre azioni virtuose gli uomini più in vista sono nobili, perché la natura ha posto in ogni seme una forza o proprietà nascosta che tutto ciò che da esso proviene lo fa simile, così come vediamo nelle razze dei cavalli e di altri animali, ma anche negli alberi, i cui germogli hanno lo stesso tipo di tronco e se qualche volta degenerano è colpa di chi ha seminato. Lo stesso accade agli uomini che se sono cresciuti con buoni costumi, quasi sempre somigliano alla famiglia di provenienza e spesso la migliorano, ma se viene meno colui che si prenda cura di loro diventano come rozzi e non si educano più. E’ pur vero che, sia per volontà del cielo o della natura, vi sono degli uomini accompagnati da tante virtù che pare non siano nati, ma plasmati da qualche dio che li abbia forniti di ogni bene dell’anima e del corpo, così come molti altri se ne vedono tanto incapaci quanto sgraziati che viene quasi da pensare che la natura li abbia creati per dispetto o per scherno. Questi ultimi così con poco successo possono essere educati alla compostezza e alla buona creanza, mentre i primi con poca fatica raggiungono il culmine della massima eccellenza. Guardate, ad esempio, il signor Ippolito d’Este, cardinale di Ferrara che ha ricevuto dalla stirpe di cui è nato tanto di felicità che la persona, l’aspetto, le parole e tutti i suoi atti sono a tal punto composti e accordati, che tra i anziani prelati, sebbene sia egli giovane, rappresenta una tanto rilevante autorità, che sembra piuttosto in grado d’insegnare che d’imparare; allo stesso modo nel conversare con uomini e con donne d’ogni stato sociale, nel giocare, nel ridere, nel discorrere con ironia, ha un modo così elegante e aggraziato che è inevitabile che chiunque gli parla e lo vede gli rimane affezionato. Ma tornando al nostro discorso, affermo che tra questa eccellente grazia e quella rozzezza senza senso, si trova una via di mezzo e possono coloro che non sono stati così dotati dalla natura correggere in gran parte i difetti naturali con studio e fatica. Pertanto ritengo indispensabile che un cortigiano, oltre all’essere nobile, sia da questo punto di vista fortunato tanto da avere dalla natura non solo l’intelligenza e un aspetto gradevole, ma anche una certa grazia e, come si dice, un umore affidabile che lo renda alla prima impressione per chi lo vede piacevole e amabile e sia questo un ornamento che accompagni tutte le sue operazioni e fin dall’aspetto esteriore garantisca che quel cortigiano è degno della compagnia e dei favori del suo signore»    

Il discorso di Castiglione ci conduce ad un passaggio cruciale circa il concetto di nobiltà: se nell’età comunale tale “nobiltà” si era affrancata dall’essere di sangue per diventare una dote intellettuale che distingueva l’uomo gentile da quello villano, tra il Quattrocento ed il Cinquecento tale concetto cambia e tale mutamento è frutto della società signorile entro la quale Castiglione stesso s’inserisce. Se è pur vero che l’essere nobili non basta a possedere la “grazia” e pur vero che fornisce quel quid in più che permette di raggiungerla. E’ che nella corte essere un nobile è già di per sé una qualità che sta all’uomo saperla raffinare con la consapevolezza della sua discendenza e delle possibilità che la sua condizione gli offre.

LA SPREZZATURA
(I, XXVI)

«Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fosse, transformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, governandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia ne’ verdi prati sempre tra l’erbe va carpendo i fiori, cosí il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que’ che a lui parerà che la tenghino e da ciascun quella parte che piú sarà laudevole; e non far come un amico nostro, che voi tutti conoscete, che si pensava esser molto simile al re Ferrando minore d’Aragona, né in altro avea posto cura d’imitarlo, che nel spesso alzare il capo, torzendo una parte della bocca, il qual costume il re avea contratto cosí da infirmità. E di questi molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che sian simili a un grand’omo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella che in colui è sola viciosa. Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato. E ricordomi io già aver letto esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e più tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che ’l studio e l’arte; la qual se fosse stata conosciuta, aría dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella ingannati. Vedete adunque come il mostrar l’arte ed un cosí intento studio levi la grazia d’ogni cosa. Qual di voi è che non rida quando il nostro messer Pierpaulo danza alla foggia sua, con que’ saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi? Qual occhio è così cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata desinvoltura (ché nei movimenti del corpo molti così la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar più ad ogni altra cosa che a quello, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare?»

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Maestro di danza rinascimentale

Chi dunque vorrà essere un buon discepolo, oltre a fare le cose bene, deve sempre porre la massima attenzione per rendersi simile al maestro e, se fosse possibile, trasformarsi in lui. E quando ha la sensazione di aver raggiunto lo scopo, è molto utile osservare diversi uomini che fanno la professione (del cortigiano) e comportandosi con gran giudizio, che sempre lo deve guidare, per scegliere tra i loro comportamenti, or da uno ora da un altro, vari utili atteggiamenti. Come l’ape nei prati verdi va succhiando il nettare di fiore in fiore, così il nostro cortigiano dovrà rubare questa grazia da chi gli sembra ne abbia di più e da ciascuno di essi quella che gli parrà più lodevole; e non comportarsi come un nostro amico, che voi tutti conoscete,  che pensava di rendersi molto simile a Fernando II d’Aragona, re di Napoli e non in altro aveva posto l’attenzione se non in quella di alzare la testa, torcendo in parte la bocca, la cui torsione il re aveva contratto da una malattia. E si trovano molti di quelli che pensano di farsi molto apprezzare purché si rendano simili ad un grand’uomo in qualcosa, e spesso si attaccano a quella cosa che in quella personalità, sola, è un difetto. Ma avendo io spesse volte pensato dove nasca questa grazia, lasciando da parte quelli che l’hanno ricevuta dalla natura, ho trovato una regola universale che mi pare valida per quanto riguarda questo argomento e cioè fuggire quanto più si può, come se ci trovassimo di fronte ad un ruvidissmo e pericoloso scoglio, in tutte le cose umane che si fanno o si dicono dall’affettazione e per dir forse qualcosa di nuovo, usare in ogni cosa una certa “sprezzatura” che nasconda l’arte e dimostri che ciò che si fa e si dice venga fatto nasca senza fatica e quasi senza pensarvi. Secondo me da questo deriva la grazia, perché tutti sanno quanta difficoltà ci sia nelle cose rare e ben fatte e quanta meraviglia susciti se svolte con facilità; al contrario lo sforzare e, come si dice, tirar per i capelli dà vita ad una goffa disarmonia e fa reputare poco ogni cosa, per quanto grande possa essere. Perciò si può dire che appare vera arte quella che non sembra essere arte e che si deve porre ogni studio nel nasconderla perché, se evidente, toglie tutto il pregio e produce disistima verso l’uomo che la fa. E ricordo di aver letto che ci sono stati grandissimi oratori  i quali, tra le loro capacità, inserivano anche quella di non avere alcuna conoscenza di letteratura e dissimulando di conoscerla mostravano che le loro orazioni erano semplicissime (senza alcun ornamento) e piuttosto nate dalla naturalità (del dire) e dalla realtà dei fatti, piuttosto che dallo studio e dall’arte retorica; cosa che se si fosse saputa  avrebbe istillato nella gente il dubbio  di essere ingannati. Vedete dunque come il mostrare l’arte ed una così intensa cura tolga grazia da ogni cosa. Chi vi è di voi che non rida quando il nostro signor Pierpaolo danza secondo la sua maniera, con quei saltelli e quelle gambe rigide in punta di piedi, senza muovere la testa, come se fosse fatto di legno, con tanta attenzione, che sembra stia contando i passi? Chi è così cieco da non vedere in questo la goffaggine dell’affettazione? e (chi invece vede) la grazia in molti uomini e donne qui presenti, di quella naturalezza disinvolta (che nei loro movimenti molti così la chiamano) nel parlare o ridere o adeguarsi nel muovere le mani, mostrando di non dar peso a ciò che fanno e di pensare ad ogni altra cosa più che a quello, facendo credere e chi li vede quasi di non sapere né poter sbagliare? 

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Edizione antica del “Cortegiano”

Questo passo è fondamentale perché ci aiuta a capire un aspetto fondamentale di un cambiamento culturale che sarà precorritore della nuova cultura che si svilupperà nella seconda metà del Cinquecento. Il concetto di “grazia”, infatti, come sviluppato dallo stesso Castiglione non è derivato, ma frutto di un processo pedagogico “terreno”. Cerco di spiegarmi meglio: nella cultura del primo umanesimo essa poteva essere assimilata ad un processo metafisico per cui se la possiede è perché innata nell’uomo. Castiglione invece ne fa un qualcosa di esterno, verificabile, piena di connotati completamente raggiungibili attraverso studio e applicazione. “Ciò significa spostare in qualche modo il discorso dall’ideale al reale, dalla teoria alla prassi, dall’astrazione metafisica (il modello platonico delle idee) alla concretezza pedagogica (il modello aristotelico delle virtù che si possono apprendere ed effettivamente esercitare) (Grosser)”. 

Alla grazia Castiglione associa il concetto della naturalezza: se la grazia come dono di Dio è di per sé una naturale perfezione, la grazia acquisita con studio e fatica deve tendere alla perfezione simulando la naturalezza: ciò è quello che Castiglione chiama “sprezzatura”.  

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Pontormo: Ritratto di Giovanni Della Casa (1541)

Opera minore rispetto alle due precedenti, ma iscritta sempre all’interno della trattatistica e di notevole successo è il Galateo, opera di Giovanni Della Casa. Nato a Firenze e formatosi a Bologna, il nostro ebbe una vita piuttosto movimentata, fatta di amicizie (fra le quali ricordiamo quella con Pietro Bembo) e di legazioni. Dal 1537 iniziò la carriera ecclesiastica che lo portò a Venezia, dove partecipò all’azione repressiva della Chiesa contro il nascente riformismo luterano e istituì l’Index librorum prohibitorum. Se con Paolo III la sua posizione all’interno della Chiesa fu di una certa rilevanza, con il suo successore, Giulio III, il Della Casa venne in parte emarginato, quindi si ritirò a Treviso, dove si diede ad un’intensa attività letteraria. Salito al soglio Paolo IV, venne reintegrato e chiamato a Roma, dove divenne segretario di Stato, ma morì l’anno successivo (1556).

Il Della Casa è un autore piuttosto prolifico: di lui abbiamo eleganti scritture latine, orazioni, un ricco epistolario, componimenti berneschi d’argomento osceno e rime petrarchesche.

Il suo libro di maggior successo è il Galateo ovvero dei costumi, dedicato a Galeazzo Florimonte (Galatheus è il nome latino di Galeazzo) ed è stato composto tra il 1550 e il 1552. Vi si finge che un illetterato si accinga a d ammaestrare un suo giovinetto alle buone maniere, dando per scontato il presupposto etico.

IL RISPETTO PER LE REGOLE
(I,II)

Con ciò sia cosa che tu incominci pur ora quel viaggio del quale io ho la maggior parte, sì come tu vedi, fornito, cioè questa vita mortale, amandoti io assai, come io fo, ho proposto meco medesimo di venirti mostrando quando un luogo e quando altro, dove io, come colui che gli ho sperimentati, temo che tu, caminando per essa, possi agevolmente o cadere, o come che sia, errare: acciò che tu, ammaestrato da me, possi tenere la diritta via con la salute dell’anima tua e con laude et onore della tua orrevole e nobile famiglia. E perciò che la tua tenera età non sarebbe sufficiente a ricevere più prencipali e più sottili ammaestramenti, riserbandogli a più convenevol tempo, io incomincerò da quello che per aventura potrebbe a molti parer frivolo: cioè quello che io stimo che si convenga di fare per potere, in comunicando et in usando con le genti, essere costumato e piacevole e di bella maniera: il che non di meno è o virtù o cosa a virtù somigliante. E come che l’esser liberale o constante o magnanimo sia per sé sanza alcun fallo più laudabil cosa e maggiore che non è l’essere avenente e costumato, non di meno forse che la dolcezza de’ costumi e la convenevolezza de’ modi e delle maniere e delle parole giovano non meno a’ possessori di esse che la grandezza dell’animo e la sicurezza altresì a’ loro possessori non fanno: perciò che queste si convengono essercitare ogni dì molte volte, essendo a ciascuno necessario di usare con gli altri uomini ogni dì et ogni dì favellare con esso loro; ma la giustitia, la fortezza e le altre virtù più nobili e maggiori si pongono in opera più di rado; né il largo et il magnanimo è astretto di operare ad ogni ora magnificamente, anzi non è chi possa ciò fare in alcun modo molto spesso; e gli animosi uomini e sicuri similmente rade volte sono constretti a dimostrare il valore e la virtù loro con opera. Adunque, quanto quelle di grandezza e quasi di peso vincono queste, tanto queste in numero et in ispessezza avanzano quelle: e potre’ ti, se egli stesse bene di farlo, nominare di molti, i quali, essendo per altro di poca stima, sono stati, e tuttavia sono, apprezzati assai per cagion della loro piacevole e gratiosa maniera solamente; dalla quale aiutati e sollevati, sono pervenuti ad altissimi gradi, lasciandosi lunghissimo spatio adietro coloro che erano dotati di quelle più nobili e più chiare virtù che io ho dette. E come i piacevoli modi e gentili hanno forza di eccitare la benivolenza di coloro co’ quali noi viviamo, così per lo contrario i zotichi e rozzi incitano altrui ad odio et a disprezzo di noi. Per la qual cosa, quantunque niuna pena abbiano ordinata le leggi alla spiacevolezza et alla rozzezza de’ costumi (sì come a quel peccato che loro è paruto leggieri, e certo egli non è grave), noi veggiamo non di meno che la natura istessa ce ne castiga con aspra disciplina, privandoci per questa cagione del consortio e della benivolenza degli uomini: e certo, come i peccati gravi più nuocono, così questo leggieri più noia o noia almeno più spesso; e sì come gli uomini temono le fiere salvatiche e di alcuni piccioli animali, come le zanzare sono e le mosche, niuno timore hanno, e non di meno, per la continua noia che eglino ricevono da loro, più spesso si ramaricano di questi che di quelli non fanno, così adiviene che il più delle persone odia altrettanto gli spiacevoli uomini et i rincrescevoli quanto i malvagi, o più. Per la qual cosa niuno può dubitare che a chiunque si dispone di vivere non per le solitudini o ne’ romitorii, ma nelle città e tra gli uomini, non sia utilissima cosa il sapere essere ne’ suoi costumi e nelle sue maniere gratioso e piacevole; sanza che le altre virtù hanno mestiero di più arredi, i quali mancando, esse nulla o poco adoperano; dove questa, sanza altro patrimonio, è ricca e possente, sì come quella che consiste in parole et in atti solamente. Il che acciò che tu più agevolmente apprenda di fare, dèi sapere che a te convien temperare et ordinare i tuoi modi non secondo il tuo arbitrio, ma secondo il piacer di coloro co’ quali tu usi, et a quello indirizzargli; e ciò si vuol fare mezzanamente, perciò che chi si diletta di troppo secondare il piacere altrui nella conversatione e nella usanza, pare più tosto buffone o giucolare, o per aventura lusinghiero, che costumato gentiluomo. Sì come, per lo contrario, chi di piacere o di dispiacere altrui non si dà alcun pensiero è zotico e scostumato e disavenente. Adunque, con ciò sia che le nostre maniere sieno allora dilettevoli, quando noi abbiamo risguardo all’altrui e non al nostro diletto, se noi investigheremo quali sono quelle cose che dilettano generalmente il più degli uomini, e quali quelle che noiano, potremo agevolmente trovare quali modi siano da schifarsi nel vivere con esso loro e quali siano da eleggersi. Diciamo adunque che ciascun atto che è di noia ad alcuno de’ sensi, e ciò che è contrario all’appetito, et oltre a ciò quello che rappresenta alla imaginatione cose male da lei gradite, e similmente ciò che lo ‘ntelletto have a schifo, spiace e non si dèe fare.

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Edizione del Galateo del 1940

Poiché è giunto il momento in cui tu cominci il viaggio della vita che io, come puoi vedere,  ho già per la maggior parte compiuto, volendoti molto bene (si pensa possa essere suo nipote, Annibale Ruccellai) mi sono riproposto di mostrarti alcune circostanze  in cui io, avendole già sperimentate, temo tu possa incapparvi e sbagliare nell’affrontarle, affinché tu, con il mio insegnamento, possa mantenere la giusta direzione con la salvezza della tua anima e con lode ed onore della tua onorata e nobile famiglia. Dal momento in cui la tua giovinezza non è ancora sufficiente per apprendere i più importanti e profondi insegnamenti, riservandoli ad un tempo più opportuno, inizierò da quelli, per alcuni frivoli, che io credo si debba tenere, nella comunicazione e nella relazione tra persone, per apparire costumato, piacevole e di buone maniere, che pur non essendo propriamente virtù di molto gli si avvicina. E benché essere generosi e fermi nelle decisioni e di elevati costumi sia di per sé, senza dubbio, cosa più lodevole e importante che non essere di bella persona e di buoni modi, nondimeno la dolcezza nel comportarsi e usare modi e atteggiamenti convenevoli  sono utili a costoro alla stessa maniera in cui la grandezza d’animo e la fermezza lo siano per chi ce l’abbia; perché queste cose sono esercitate continuamente, essendo la pratica dell’incontrarsi e del conversare con gli altri necessaria, mentre le virtù più nobili e più grandi vengono messe in opera più raramente; e nemmeno uomini liberali e generosi  sono costretti a dimostrare continuamente tutta la loro magnificenza, anzi non c’è la possibilità di poterla mettere in opera spesso  e quelli forti e coraggiosi  allo stesso modo non possano mettere in atto continuamente tutta la loro virtù. Quindi quanto le virtù più nobili vincono per importanza e gravità quelle del buon comportamento, quanto quest’ultime vincono le prime per numero e frequenza. Potrei, se fosse lecito, nominare molti uomini che essendo di per se stessi poco meritevoli, sono stati e sono ancora molto apprezzati per via della loro piacevole e gradevole presenza, dalla quale aiutati ed innalzati a più alto grado, hanno lasciato indietro quelli che  possedevano le già nominate grandi virtù e allo stesso modo come i modi piacevoli e gentili hanno la forza di stimolare la benevolenza di quelli con cui viviamo e la sgarbatezza ed il comportamento inadeguato spingono gli altri all’odio e al disprezzo; per cui, benché le legge non prevedano pene per la sregolatezza e la maleducazione dei comportamenti (una colpa che è parsa di di poco rilievo ed è certo non grave), tuttavia vediamo come la stessa natura ce li fa scontare duramente allontanandoci, a causa loro, dalla partecipazione sociale e dalla disponibilità delle persone. Naturalmente come i peccati più gravi nuocciono maggiormente, così questi più veniali danno fastidio e recano più spesso insofferenza; allo stesso modo gli uomini temono di più gli animali selvatici, mentre dei piccoli insetti, come le zanzare e le mosche non hanno paura; ma per la numerosità più spesso si lamentano di loro, come per gli uomini che odiano quelli dai costumi spiacevoli e riprovevoli piuttosto di quelli dai costumi malvagi. Perciò nessuno deve dubitare, a meno che non decida di vivere da solo o in un monastero, ma in città, in mezzo ad altri uomini, che il sapere essere gentile e costumato, senza aggiungere altro, servirebbe a poco; mentre questa capacità, senza bisogno di altri valori, s’impone di per sé, in quanto consiste solo di parole e comportamenti.
Affinché tu apprenda più agevolmente il comportamento (da tenere), devi sapere che ti conviene moderare e gestire le tue maniere non secondo la tua volontà ma secondo il piacere di coloro con i quali ti relazioni e finalizzarli a loro; e ciò si può ottenere con misura, senza esagerare, perché chi si presta esageratamente ad assecondare il piacere altrui nel conversare e nello stare con lui, sembra piuttosto un buffone o un saltimbanco o quasi lusingatore piuttosto che un educato gentiluomo. Allo stesso   modo, al contrario, chi non si preoccupa per nulla del piacere o dispiacere altrui è uno zotico, scostumato e sgradevole. Infine, affinché le nostre maniere siano nei momenti opportuni piacevoli, quando noi abbiamo rispetto dell’altro e non per piacere nostro, se noi investigassimo quali sono le cose che generalmente piacciono di più agli uomini e quali quelli che più li infastidiscono, potremo facilmente trovare quali modi siano da evitarsi e quali da preferirsi nel rapportarsi con loro. Diciamo dunque che ciascun atto che è poco stimolante ed è contrario al desiderio e tutto ciò che rappresenta all’immaginazione cose estremamente sgradite e allo stesso modo ciò che l’intelletto ritiene odioso , spiace e non si deve fare.

La prospettiva del libro del Della Casa è fortemente didascalica: sin dalle prime righe egli, pur assimilandosi ad un vecchio idiota, si assume il compito d’ammaestrare il giovane di buna famiglia a comportarsi in modo adeguato. Come il più alto Cortegiano, anche il Galateo passa da un prospettiva teorica ad una pratica, ma se nel primo l’anelito morale è ancora presente nella ricerca della “grazia”, qui tutto si riduce ad una forma che non ha alcun valore dentro di sé. Infatti ci si deve comportare secondo le aspettative di colui con il quale si instaura una relazione: questo vuol dire abdicare a qualsiasi forma inerente all’individuo interno per combaciare in modo acritico alle attese dell’individuo che si ha di fronte; per meglio dire, racchiudere nella forma delle buone maniere il vuoto del proprio io che trova forma in una serie di sterili gesti e atteggiamenti che rendono elegante l’uomo. Il Della Casa sottolinea spesso questo aspetto: l’uomo geniale e d’altissime virtù è poco amato, l’uomo con poche attitudini positive è circondato dall’amore di molti. Il giudizio degli altri diventa metro fondamentale entro cui misurare il grado di piacevolezza all’interno della società.

Come abbiamo già visto a proposito del Bembo, durante il Cinquecento prende forma un’importante produzione poetica, tutta segnata dall’insegnamento dell’intellettuale veneziano che fa del Petrarca il modello inimitabile. Molti gli intellettuali che si cimentano nella produzione di sonetti, ma fra essi ci piace ricordare il più grande artista del  Cinquecento, Michelangelo Buonarroti, che, tra le altre, inserisce nelle sue rime la tensione artistica che contraddistingue la sua insuperabile arte scultorea e pittorica:

NON HA L’OTTIMO ARTISTA ALCUN CONCETTO

Non ha l’ottimo artista alcun concetto
c’un marmo solo in sé non circonscriva
col suo superchio, e solo a quello arriva
la man che ubbidisce all’intelletto.

Il mal ch’io fuggo, e ’l ben ch’io mi prometto,
in te, donna leggiadra, altera e diva,
tal si nasconde; e perch’io più non viva,
contraria ho l’arte al disïato effetto.

Amor dunque non ha, né tua beltate
o durezza o fortuna o gran disdegno,
del mio mal colpa, o mio destino o sorte;

se dentro del tuo cor morte e pietate
porti in un tempo, e che ’l mio basso ingegno
non sappia, ardendo, trarne altro che morte.

L’ottimo scultore non concepisce un’idea che il solo marmo non contenga già in sé, con la parte superflua, e la mano riesce a raggiungerla solo se ubbidisce al pensiero. // Il male che io fuggo, e il bene che cerco, si nascondono così in te, donna leggiadra, altera e divina; ma la mia arte non giunge all’effetto desiderato perché io non possa continuare a vivere. // Dunque non ne hanno colpa né Amore, né la bellezza, né la durezza (del cuore), né la fortuna né lo sdegno, o il mio destino o la sorte; // se nel tuo cuore porti nello stesso tempo la morte e la pietà, e la mia inadeguata capacità non sappia, pur ardendo, trarne che la morte.

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Michelangelo: Ritratto di Vittoria Colonna

Il sonetto, dedicato a Vittoria Colonna, ci offre un quadro inusuale di Michelangelo (lui stesso definisce la sua produzione poetica “cosa sciocca”) ma vediamo in esso un interessante concetto che fa del poeta un petrarchista “sui generis”. Il tappeto fonico del testo ci rimanda più all’asprezza “petrosa” dantesca, con il ricorso insistito alla durezza di suoni (l’incontro di quattro consonanti “nscr”, nella seconda strofe in forma chiasmatica tra il primo e il quarto verso il “prometto” con il “contraria” e si potrebbe continuare – l’insistito uso della “r” nell’ultimo verso”) ma anche alla dittologia del poeta aretino (“il mal… e il ben, v. 5; morte e pietate v. 11). Tuttavia quello che qui è emerge è ancora il neoplatonismo fiorentino, figlio dell’Umanesimo di quella città: vengono qui messe a paragone le potenzialità dell’arte e quelle dell’amore: l’artista che ha il compito d’estrarre dalla materia l’idea di bellezza, così come l’amante quello all’interno della donna; se il primo è possibile grazie alla mano, il secondo va incontro al fallimento: al posto del bene dentro di lei coglie la morte e il senso di peccato.

Altro importante aspetto del petrarchismo cinquecentesco è la poesia femminile. Nel 1559 venne dato alle stampe un libro Rime diverse di alcune nobilissime e virtuosissime donne, a dimostrazione, forse per la prima volta nella poesia italiana, dell’alto grado letterario raggiunto anche da chi fino ad allora era stato “oggetto” del fare letterario. Sono due le tipologie di donne di cui possediamo il loro canzoniere: le nobildonne, animatrici nella corte della vita culturale e le cortigiane. che dispongono di un largo spettro di competenze culturali – musica, danza, canto e poesia – con cui intrattenere il loro protettore.

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Girolamo Muziano: Ritratto di Vittoria Colonna (1530)

La prima di loro che ricordiamo è Vittoria Colonna (dedicataria del sonetto presentato prima di Buonarroti) di antica e nobile famiglia romana. Andò in sposa al marchese di Pescara Ferrante d’Avalos, soldato nell’esercito di Carlo V. Alla sua morte la poetessa si consacra alla sua memoria, cercando conforto in pratiche religiose che l’avvicineranno sempre più ad una profonda tensione spirituale. Il suo Canzoniere, diviso come quello di Petrarca in vita e in morte dell’amato marito, troviamo nella prima parte poesie d’argomento amoroso, nella seconda poesie spirituali. Da esso traiamo un sonetto:

NELLA LUCE DEL SOGNO

Quando ’l gran lume appar nell’ Oriente,
che ’l negro manto della notte sgombra,
e dalla terra il gelo, e la fredd’ ombra
dissolve, e scaccia col suo raggio ardente;

dell’ usate mie pene alquanto lente,
per l’ inganno del sonno, allor m’ ingombra,
ond’ ogni mio piacer risolve in ombra,
quando da ciascun lato ha l’ altre spente.

O viver mio nojoso, o avversa sorte!
cerco l’ oscurità, fuggo la luce,
odio la vita ognor, bramo la morte.

Quel, ch’ agli occhi altrui nuoce, a’ miei riluce,
perchè chiudendo lor, s’ apron le porte
alla cagion, ch’ al mio Sol mi conduce.

Quando il Sole nasce ad Oriente, che allontana il nero manto della notte (l’oscurità) e che dissolve il gelo e scaccia l’ombra fredda dalla terra col suo raggio luminoso // mi grava di nuovo delle pene abituali che il sonno aveva alquanto alleviato, per cui ogni mia gioia tramuta in pena quando da ogni parte le altre ombre ha portato via (quelle della notte). // Oh vivere mio angoscioso, oh sorte avversa! Cerco l’oscurità fuggendo la luce, ho in odio la vita e desidero sempre la morte. // Quello che (la notte) agli occhi degli altri dà fastidio per me, invece, splende perché chiudendoli (gli occhi) si aprono le porte del sonno, mezzo che mi conduce al mio amato consorte (Sole).

Nella poesia della Colonna ripercorriamo il dualismo petrarchesco che oppone la notte alla luce solare che fa da metafora alla vita e alla morte: infatti nel sonno la poetessa dimentica gli affanni derivati dall’amore per l’uomo che ormai non c’è più, mentre il giorno li rende vividi, procurando dolore; l’opposizione pertanto non è solo interiore ma riguarda l’intera umanità: la gioia del Sole (simbolo di Dio) di contro alla buia notte, piena di pericoli e misteri. Ma la Colonna sa sciogliere tale opposizione in un anelito religioso: se la notte equivale alla morte e all’annullamento di sé ella la invoca, in quanto le apre le porte dove potrà riabbracciare l’amore morto che costituisce il suo vivificante sole.

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Disegno raffigurante Gaspara Stampa

Altra grande poetessa rinascimentale è Gaspara Stampa. Nasce a Padova nel 1523, figlia di un musicista, che la lascerà presto orfana. Fu probabilmente una cortigiana e visse una vita libera ed elegante, innamorandosi del conte Collatino di Collalto, con cui ebbe una burrascosa relazione. Lui lascerà per una donna di più alto livello sociale, mentre lei si consolerà con un amore meno appossionato. Morì giovane nel 1554, colta da un’improvvisa malattia. Il libro, pubblicato a Venezia nello stesso anno della morte, ci riporta 311 versi, di cui leggiamo il sonetto proemiale:

VOI CH’ASCOLTATE IN QUESTE MESTE RIME

Voi, ch’ascoltate in queste meste rime,
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l’altre prime,

ove fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de’ miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi che la lor cagione è sì sublime.

E spero ancor che debba dir qualcuna:
«Felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagion danno sì chiaro!

Deh, perché tant’amor, tanta fortuna
per sì nobil signor a me non venne,
ch’anch’io n’andrei con tanta donna a paro?»

Voi che ascoltate in queste dolenti rime, in questi accorati, in questi oscuri accenti il suono dei miei lamenti d’amore e delle sofferenze più intense di tutte le altre, // dove vi sia qualcuno che apprezzi e stimi il valore (del mio sentimento) spero trovare tra le persone d’alta sensibilità, la gloria e non solo il perdono dei miei lamenti, dal momento che la loro motivazione è tanto nobile. // E spero inoltre che qualcuna debba dire: «Felicissima lei, da quando sopportò un così grave danno per una causa tanto gloriosa! // Ahimè, perché un così forte amore, una così grande fortuna (d’essere amata) da parte di un così nobile signore a me non è capitata, per cui anch’io potrei stare alla pari con una donna così?»

Non si tratta di soli accenni petrarcheschi, ma di veri e propri calchi: si prenda il primo verso del sonetto proemiale del Canzoniere e questo della Stampa “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono”  “Voi, ch’ascoltate in queste meste rime”, o ancora “ove sia chi per prova intenda amore, spero trovar pietà, nonché perdono” e “ove fia chi valor apprezzi e stime, gloria, non che perdon, de’ miei lamenti spero trovar“. Ma il calco lessicale (ci piace ricordare che, nei salotti da lei animati, spesso cantava i versi di Petrarca da lei messi in musica) non lede lo svolgimento personale della lirica della poetessa. Infatti se nel poeta aretino l’illusione dell’amore s’accompagna all’illusione di tutte le cose terrene, per cui aver vissuto la passione non fa che procuragli vergogna, per la Stampa essa dovrebbe procurare invidia, in quanto l’amore passionale verso Collatino è stato così intenso da procurare un dolore altrettanto profondo. E’ segnificativo lo scarto semantico tra il concetto di pietà del primo e di gloria del secondo: se il primo sottolinea il suo dissidio, Gaspara rivendica con orgoglio l’amore e questo è dato dal chiasmo “per sì chiara cagion danno sì chiaro!” in cui sottolinea la piena consapevolezza con cui lei ha amato e del dolore che un amore così grande le ha procurato. 

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Copertina di una biografia di Gaspara Stampa del 1909

Forse quello che la Stampa inserisce nel sonetto proemiale corrisponde a verità (non avremo motivo di metterlo in dubbio) ma ciò non toglie l’idea che il petrarchismo del Cinquecento sia stato in alcuni casi utilizzato per scopi mondani, in un gioco di rimandi intellettuali che spesso hanno nascosto le vere motivazioni del grande poeta trecentesco. 

UMANESIMO

Se, con il termine Umanesimo, intendiamo riferirci a quel periodo che occupa buona parte del Quattrocento, non dobbiamo, tuttavia, solcare un divario con il periodo che lo precede, né con quello che lo segue. Infatti elementi “preumanistici” si ritrovano già nella poetica e nelle opere di Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, come elementi di permanenza “medievale” le troveremo in alcune forme della letteratura quattro-cinquecentesca.

Inoltre a livello critico, è quasi impossibile separare nettamente la cultura del ’400 da quella del ’500, che la segue e della quale sembra essere un perfezionamento. A grandi linee si può affermare che se l’Umanesimo, propriamente detto, sviluppa la consapevolezza, da un suo punto di vista culturale inteso nella sua complessità, di un nuovo periodo, il Rinascimento lo esprime in opere di grande valore artistico.

Situazione storica

Situazione Italia alla fine del ‘300

A livello storico, nella penisola italiana, il ’400 è caratterizzato dall’affermazione delle Signorie. Questo processo aveva avuto inizio sin dalla fine del ’200, ma è in questo secolo che trova il suo consolidamento. Ed è proprio intorno alle Signorie che si sviluppa un nuovo modo di concepire ed interpretare il mondo. Fra le principali Signorie che, dopo aver ottenuto titoli feudali dall’imperatore o dal papa, si trasformeranno in Principati, ricordiamo quella di Milano, che passa dai Visconti agli Sforza; Ferrara, in mano agli Estensi, Urbino sotto i Montefeltro, e Mantova, governata dalla famiglia dei Gonzaga. Anche Firenze, sebbene permanessero più a lungo le istituzioni repubblicane, fu, nel 1435, governata da un signore Cosimo de’ Medici. La stessa Chiesa in qualche modo si “regionalizza”, dopo la crisi che aveva visto la sede papale trasferirsi ad Avignone, sotto la tutela della Francia, ed il papa assume le caratteristiche di un vero e proprio uomo di corte. Nel sud permaneva il Regno di Napoli sotto gli Angioini, mentre le isole restavano in mano agli Aragonesi. Dopo una lunga guerra, nella metà del secolo, il regno verrà riunificato sotto la dinastia di Aragona. Grazie alla pace di Lodi, stipulata nel 1454, determinata dall’impossibilità degli stati regionali di allargare i territori, fattosi loro garante il signore di Firenze, Lorenzo de Medici, gli stati italiani riuscirono ancora a godere di un grandissimo prestigio culturale nell’intera Europa, grazie anche alla cosiddetta politica dell’equilibrio che se garantì, nella seconda metà del secolo, un lungo periodo di pace, mostrò tuttavia, in seguito, la sua fragilità. Infatti politicamente non riuscirono a contrapporsi alle grandi potenze europee che, in quegli anni, andavano formandosi: l’Inghilterra, la Francia e la Spagna si avviavano a diventare le protagoniste della storia continentale, facendo, della nostra penisola, una terra di conquista. L’Italia del ’400, infatti, non riuscì ad andare al di là di una “regionalizzazione”: lo impedirono gli stati stessi che, ad ogni velleità di allargamento territoriale, si allearono per impedirlo: si giunge così ad uno stallo che, se può apparire oggi contraddittorio, diede vita ad un territorio culturalmente splendido, politicamente fragile. 

L’Italia dal trattato di Lodi alla sua rottura

Aspetto culturale

Sul piano culturale il secolo si caratterizza per una nuova concezione dell’uomo. Tale concezione si fonda sugli studi classici (humanae litterae, studia humanitatis), che sono ritenuti come gli unici in grado di elevare l’uomo alla perfezione. Viene, pertanto, ridimensionata la teologia ed il sapere scientifico (Aristotele), e ci si avvia verso una concezione del mondo antropocentrica, cui l’uomo appare come dignum omni admiratione animal, libero nelle scelte e costruttore del proprio destino. Egli è al centro di un mondo in cui equilibrio ed armonia lo rendono perfetto; di più: egli è lo specchio dell’equilibrio e dell’armonia del mondo (si pensi a L’uomo vitruviano di Leonardo). Da qui ne deriva l’ideale estetico dell’umanesimo che si fonda appunto sulla compostezza e sull’equilibrio.

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Leonardo da Vinci: L’uomo vitruviano (1490)

Tali qualità, secondo gli intellettuali umanisti, erano proprie della cultura classica, la quale deve rappresentare un punto di riferimento affinché, allontanatisi dall’età barbara (l’età medievale, da loro così definitiva: età di mezzo tra il mondo romano ed il loro) possa essere riportata in auge. Il classicismo, infatti, si ripropone come ripresa ed imitazione dei valori universali che la cultura greca e latina avevano saputo esprimere. E’ evidente come tale concezione, che, come detto, rivaluta l’uomo, porti con sé anche la rivalutazione della realtà terrena: agli ideali religiosi vengono sostituiti quelli mondani e vengono esaltate le grandi figure umane che di questi valori sono gli artefici, attraverso le biografie; in una parola alla vita contemplativa medievale viene sostituita la vita attiva. E’ un secolo, come si è visto, in cui la cultura laica predomina, ma non è un secolo senza Dio: l’uomo, anzi è visto come la più perfetta creazione di Dio, a lui somigliante; la dignità dell’uomo deriva proprio dall’esser stato scelto dal Signore come sua emanazione (Dio si è fatto uomo in Cristo), quindi la libertà dell’uomo è figlia del volere divino che gli ha fornito l’intelligenza per un libero cercare ed investigare. D’altra parte è tipico di questo secolo il voler armonizzare i valori del Cristianesimo con quelli della morale classica, attraverso la filosofia platonica e il pensiero di Cicerone e Seneca.

Se compito dell’età umanistica è ridare dignità all’uomo è evidente che molta importanza avrà l’educazione e la formazione, nonché lo scambio culturale, non più delegati alle Università, arroccate ancora su posizioni tipicamente medievali, ma alla Corte o a Circoli promossi dal signore, le cosiddette Accademie, le quali, oltre a raccogliere intellettuali o per meglio dire, grazie anche all’importanza degli intellettuali che le frequentano, danno prestigio a chi le promuove.

Il metodo umanista che s’impone in questo periodo non è più l’interpretazione, ma la lettura dei testi originali che possono formare una personalità in grado di integrare i diversi saperi (torna in auge il detto mens sana in corpore sano, dove al sapere si deve accompagnare lo sviluppo armonico del corpo). Il fondamentale strumento con cui questa età si approccia con la cultura classica è la filologia. Attraverso essa gli umanisti cercano di arrivare al significato originario dei testi, ricollegandoli al loro tempo. Vengono, quindi, ricercati testi antichi nei vecchi monasteri, e a questi intellettuali parrà di averli liberati dal carcere. E’ evidente che tali premesse rendano obsoleta la figura dell’intellettuale comunale: ora esso è un professionista alle dipendenze di un principe o di un qualsiasi altro committente che paga il suo operato. Ciò cancella il dato di provenienza sociale: essi, infatti, fanno parte di un gruppo a sé, capaci di comunicare tra loro in modo sopranazionale; ma fa assumere loro anche un carattere estremamente elitario: solo chi è in grado di “parlare” la lingua degli antichi può far parte di questo ristretto gruppo. Al centro della produzione culturale vi è dunque la corte signorile; tutte le principali corti sapranno esprimere personalità insigni in campo letterario ed artistico. Anche la Chiesa, come già detto, trasformatasi in un vero e proprio stato italiano, diventerà uno dei centri più importanti. Relativamente più libere, ma sempre sotto il patrocinio del Signore, saranno le Accademie, associazioni di studiosi e dotti che iniziano a formarsi, appunto, in questo periodo.

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Firenze ai primi del ‘400

Umanesimo latino

Durante la fine del ’300, anche grazie all’insegnamento del Petrarca, il volgare perde piano piano il suo predominio, a favore di un latino classicamente atteggiato. L’unico caso in cui il volgare non declina, ma è usato insieme al latino, è Firenze, grazie anche al confronto che gli intellettuali di questa città devono fare con la grande tradizione letteraria di Dante, Petrarca e Boccaccio. L’attività degli umanisti, infatti, è alla ricerca di codici, seppelliti nei monasteri, che, una volta ritrovati, vengono sottoposti al vaglio della filologia. Attraverso questi ritrovamenti, tornano in auge anche i generi della letteratura latina. Prevale il genere del trattato, spesso strutturato in forma dialogica; anche la storiografia ha grande impulso; è praticata l’invettiva, genere polemico contro un avversario, e molti epistolari ad imitazione di quello ciceroniano. Bisogna ricordare che i ritrovamenti archeologici danno l’avvio alla formazione dei musei

.Coluccio Salutati - Wikipedia

Masaccio: Coluccio Salutati

A Firenze i primi intellettuali umanisti sono coloro che si ritrovavano insieme ad un vecchio Boccaccio nella sua casa a Certaldo; fra di essi ricordiamo Coluccio Salutati. Egli dà vita a quello che si suole definire come “umanesimo civile”: infatti in quanto cancelliere della città, ancora non trasformata in Signoria, inserisce nelle sue opere le problematiche politiche in difesa della libertas fiorentina contro il dispotismo di altre città italiane “nostra civitas non ingenita nobilium ambitione regitur, sed bonitate mercatoria gubernatur” «la nostra città è retta non dall’innata ambizione dei nobili, ma è governata dalla bontà del mercante», dirà nell’ Invectiva Colucii Salutati e tale concetto lo riaffermerà nel De tyranno, il cui intento polemico è contro Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano).

Poggio Bracciolini - Wikipedia

Ritratto di Poggio Bracciolini

Altra importantissima figura dell’umanesimo fiorentino è Poggio Bracciolini, discepolo del Salutati. Anch’egli, dal 1458, ricopre l’incarico di cancelliere della città. La sua importanza sta soprattutto nell’aver riscoperto codici di testi classici. Ce ne offre una testimonianza nelle sue lettere:

RISCOPERTA DI CODICI NEL MONASTERO DI SAN GALLO

Fortuna quaedam fuit cum sua tum maxime nostra, ut cum essemus Constantiae ociosi cupido incesseret videndi eius loci quo ille reclusus tenebatur. Est autem monasterium Sancti Galli prope urbem hanc milibus passum XX. Itaque nonnulli animi laxandi et simul perquirendorum librorum, quorum magnus numerus esse dicebatur, gratia eo perreximus. Ibi inter confertissimam librorum copiam, quos longum esset recensore, Quintilianum comperimus adhuc salvum et incolumen, plenum tamen situ et pulvere squalentem. Erant enim non in bibliotheca libri illi, ut eorum dignitas postulabat, sed in teterrimo quodam et obscuro carcere, fundo scilicet unius turris, quo ne capitalis quidem rei damnati retruderentur. Atqui ego pro certo existimo, si essent qui haec barbarorum ergastula, quibus hos detinent viros, rimarentur ac recognescerent amore maiorum, similem fortunam experturos in multis de quibus iam est conclamatum. Reperimus praeterea libros tres primos et dimidiam quarti C. Valerii Flacci Argonauticon, et expositiones tamquam thema quoddam super octo Ciceronis orationibus Q. Asconii Pediani, eloquentissimi viri, de quibus ipse meminit Quintilianus. Haec mea manu transcripsi, et quidem velociter, ut ea mitterem ad Leonardum Aretinum et Nicolaum Florentinum; qui cum a me huius thesauri adinventionem cognovissent, multis a me verbis Quintilianum per suas litteras quam primum ad eos mitti contenderunt. Habes, mi suavissime Guarine, quod ab homine tibi deditissimo ad praesens tribui potest. Vellem et potuisse librum transumitere, sed Leonardo nostro satisfaciundum fuit. Verum scis quo sit in loco ut, si eum voles habere, puto autem te quam primum velle, facile id consequi valeas. Vale et me, quando id mutuum fit, ama.

Constantiae, XVIII Kalendas Ianuarias, Anno Christi 1417.

Un caso fortunato per lui, e soprattutto per noi, volle che, mentre ero ozioso a Costanza, mi venisse il desiderio di andar a visitare il luogo dove egli era ritenuto recluso. V’è infatti, vicino a quella città, il monastero di S. Gallo, a circa venti miglia. Perciò mi recai là per distrarmi, ed insieme per vedere i libri di cui si diceva vi fosse un gran numero. Ivi, in mezzo a una gran massa di codici che sarebbe lungo enumerare, ho trovato Quintiliano ancora salvo ed incolume, ancorché tutto pieno di muffa e di polvere. Quei libri infatti non stavano nella biblioteca, come richiedeva la loro dignità, ma quasi in un tristissimo ed oscuro carcere, nel fondo di una torre, in cui non si caccerebbero neppure dei condannati a morte. Ed io son certo che chi per amore dei padri andasse esplorando con cura gli ergastoli in cui questi grandi son chiusi, troverebbe che una sorte uguale è capitata a molti dei quali ormai si dispera. Trovai inoltre i tre primi libri e metà del quarto delle Argonautiche di Valerio Flacco, ed i commenti a otto orazioni di Cicerone, di Quinto Asconio Pediano, uomo eloquentissimo, opera ricordata dallo stesso Quintiliano. Questi libri ho copiato io stesso, ed anche in fretta, per mandarli a Leonardo Bruni e a Niccolò Niccoli, che avendo saputo da me la scoperta di questo tesoro, insistentemente mi sollecitarono per lettera a mandar loro al più presto Quintiliano. Accogli, dolcissimo Guarino, ciò che può darti un uomo a te tanto devoto. Vorrei poterti anche mandare il libro, ma devo accontentare il nostro Leonardo. Comunque sai dov’è, e se desideri averlo, e credo che lo vorrai molto presto, facilmente potrai ottenerlo. Addio, e voglimi bene, ché l’affetto è ricambiato.
Costanza, 15 dicembre, 1416

Nel testo di Bracciolini non si coglie soltanto l’amore sconfinato per i classici, ma anche la distanza che muove questo autore dal Medioevo, criticato in modo piuttosto aspro per lasciare in un “carcere” le grandi opere del passato. Inoltre possiamo cogliere nel testo ciò che possiamo definire non solo come amore, ma come ricerca di “emulare” il loro modus vivendi: ne è un segnale la scelta lessicale, Bracciolini usa i termini ociosus richiamandosi all’otium latino e cupido indicando l’estremo desiderio, la tensione verso la bellezza del vivere e pensare antico. 

Papa Pio II - Wikipedia

Pio II

Anche Roma, come detto, è uno dei centri più importanti dell’umanesimo. D’altra parte non dobbiamo dimenticare che a guidare la Chiesa fu chiamato un raffinatissimo umanista, Enea Silvio Piccolomini, che assunse il nome di Pio II ed operò, dopo la nomina papale, per una conciliazione tra valori classici e valori cristiani.

Altra grandissima personalità che opera in questa città è Lorenzo Valla, forse il più grande intellettuale della cultura della prima metà del ’400. Egli, nel 1440, grazie anche alla sua grande preparazione filologica, rivelò al mondo la falsità della “donazione di Costantino”.

L’USO DELLE PAROLE SBAGLIATE RIVELA LA FALSITA’

In eo privilegio ita inter caetera legitur: “Utile iudicavimus una cum omnibus satrapis nostris, et universo Senatu, optimatibus etiam, et cum cunto populo imperio Romanae ecclesiae subiacenti, ut sicut beatus Petrus in terris vicarius Dei videtur esse constitutus, ita et pontifices ipsius principis apostolorum vicem, principatum potestatem, ampius quam terrenae  imperialis nostrae serenitatis mansuetudo habere videtur, concessam a nobis nostroque imperio obtineant”. O scelerate, atque malefice, eadem, quam affers in testimonium, refert historia: longo tempore neminem senatorii ordinis voluisse accipere religionem Christianam, et Constantinum pauperes sollicitasse precio ad baptismum. Et tu ais, intra primos statim dies, Senatus, optimates, satrapes, quasi iam Christianos, de honestanda ecclesia Romana Caesare decrevisse. Quid quod vis interfuisse satrapas? O cautes, o stipes. Sic loquuntur Caesares? Sic concipi soles decreta Romana? Quis umquam satrapas in consiliis Romanorum nominari audivit? Non teneo memoria unquam legisse me ullum, non modo Romanorum, sed ne in Romanorum quidem provinciis satrapam nominatum. At hic Imperatoris satrapas vocat, eosque Senatui praeponit: quum omnes honores, etiam qui principi defendetur, tantum a Senatu decernantur, adiuncto populoque Romano. 

Lorenzo Valla (1407-1457). /Nitalian Humorist. Copper Engraving, 17Th Century. Poster Print by (18 x 24) : Amazon.it: Casa e cucina

Lorenzo Valla

Così in quel privilegio tra l’altro si legge: “Abbiamo giudicato utile, insieme a tutti i nostri satrapi e a tutto il senato, e pure a tutti gli ottimati e a tutto il popolo sottoposto all’impero della Chiesa Romana, che, come il beato Pietro appare essere stato posto in terra quale vicario di Dio, così anche i pontefici, vicari dello stesso principe degli apostoli, ottengano per concessione nostra e del nostro impero, un potere sovrano più ampio di quanto non sia quello della mansuetudine della nostra terrena imperiale serenità“. O scellerato malfattore, la stessa storia che egli porta quale testimonianza riferisce che per lungo tempo nessuno dell’ordine senatorio volle ricevere la religione cristiana e che Costantino sollecitò con denaro i poveri a battezzarsi. E tu dici che fin dai primi giorni il Senato, gli ottimati, i satrapi, quasi fossero già cristiani, decretarono insieme a Cesare di onorare la Chiesa Romana. E che dire del fatto che vuoi abbiano partecipato a questo anche i satrapi? O sassi, o tronchi! Così parlano i Cesari? Così si concepiscono i decreti Romani? Chi ha mai sentito nominare i satrapi nei consigli dei Romani? Non rammento di aver mai letto in nessun luogo il nome di un satrapo non solo Romano ma nemmeno delle Provincie Romane. E costui li chiama satrapi dell’Imperatore e li prepone al Senato, mentre tutti i titoli onorifici, anche quelli che vengono conferiti al principe, sono decretati dal Senato, solo o insieme al popolo Romano.

L’importanza di tale testo fu enorme. Pubblicato soltanto nel 1517, ma scritto nel 1440, non rileva soltanto come la “verità” proclamata dal soglio pontificio come una e intangibile, fosse stata invece, da essi stessi falsificata, ma come la ratio e la prospettiva storica insegnassero un nuovo modo di interpretare il passato: non più l’auctoritas o anche l’ipse dixit, che non ammettevano repliche, ma anche l’assumersi la responsabilità del pensiero autonomo investigante la storia. E’ evidente che soltanto una conoscenza prospettica permette di mettere distanza tra il passato e il presente, ma anche come lo stesso uso della lingua, quindi la consapevolezza filologica possa, oltre che portare alla luce nuovi valori, svelare i grossolani errori del passato.   

A lui si deve, inoltre, un alto elogio della lingua latina, di cui riportiamo un piccolo passo:

NON PERMETTETE CHE LA LATINITA’ SIA OPPRESSA DALLA BARBARIE

Verum enimvero quo magis superiora infelicia fuere, quibus homo nemo inventus est eruditus, eo plus his nostris gratulandum est, in quibus, si paulo amplius adnitamur, confido propediem linguam romanam vere plus quam urbem, et cum ea disciplinas omnes, iri restitutum. Quare pro mea in patriam pietate, immo adeo in omnes homines, et pro rei magnitudine cunctos facundiae studiosos, velut ex superiore loco libet adhortari evoca-reque et illis, ut aiunt, bellicum canere. Quousque tandem Quirites (litteratos appello et romanae linguae cultores, qui et vere et soli Quirites sunt, ceteri enim potius inquilini), quousque, inquam, Quirites, urbem nostram, non dico domicilium imperii, sed parentem litterarum, a Gallis captam es-se patiamini? id est latinitatem a barbaria oppressam? quousque profana-ta omnia duris set paene impiis aspicietis oculis?

Comunque quanto furono tristi i tempi andati, in cui non si trovò neppure un dotto, tanto maggiormente dobbiamo compiacerci con l’epoca nostra nella quale, se ci sforzeremo un poco di più, io confido che presto restaureremo, più ancora che la città, la lingua di Roma e, con essa, tutte le discipline. Perciò, dato il mio amore per la patria, anzi per l’umanità, e data la grandezza dell’impresa, voglio esortare ed invocare dall’alto tutti gli studiosi di eloquenza e, come suol dirsi, suonare a battaglia. E fino a quando, o Quiriti, (così chiamo i letterati e i cultori del latino, poiché essi solo sono veramente Quiriti, e gli altri piuttosto che ospiti), fino a quando, dico, lascerete in mano dei Galli la città vostra, non chiamerò sede dell’impero, ma sì madre delle lettere? Fino a quando permetterete che la latinità sia oppressa dalla barbarie? Fino a quando con sguardo indifferente, e quasi empio, assisterete a questa completa profanazione?

Il Valla, in questo passo, offre una esortazione affinché gli intellettuali si sforzino con maggior vigore a studiare e diffondere la lingua latina. Infatti se Roma era riuscita, con il suo impero, a conquistare stati e città, ancor più aveva diffuso la cultura e la civiltà per mezzo della sua lingua; e se l’impero, per l’imperscrutabile volere di Dio, era finito, non è stato così per la lingua, che può continuare il suo compito di civilizzazione.

Altro umanista di grande valore è Antonio Pomponio Leto, che dà vita all’Accademia Pomponiana, che si caratterizza per il culto dell’antichità romana.

Se a Milano, l’umanesimo assume un vero e proprio aspetto “cortigiano”, non lasciando opere degne di essere ricordare, più vivace è la situazione di Napoli, che dopo un primo periodo, caratterizzato dalla guerra tra Angioini ed Aragonesi, sotto quest’ultimi vedrà rinascere una degna vivacità culturale. Fra gli autori più significativi è da ricordare Antonio Beccadelli, detto il Panormita, la cui opera più importante è l’Hermaphroditus, dedicata a Cosimo de’ Medici, scritta in un momento in cui l’autore cercava di entrar a far parte della corte fiorentina, e costituita da epigrammi dal carattere licenzioso e lascivo. A Napoli il Beccadelli diede vita a un Accademia, che, in seguito, quando fu diretta da Pontano, venne detta Pontaniana.

Antonio Beccadelli - Wikipedia

Antonio Beccadelli detto il Panormita

DEDICA A COSIMO

Si vacat a patrii cura studioque senatus,
Quidquid id est, placido lumine, Cosme, legas.
Elicit hoc cuivis tristi rigidoque cachinnos,
Cuique vel Hippolyto concitat inguen opus.
Hac quoque parte sequor doctos veteresque Poetas,
Quos etiam lusus composuisse liquet,
Quos et perspicuum est vitam vixisse pudicam,
Si fuit obsceni piena tabella ioci.
Id latet ignarum vulgus, cui nulla priores
Visere, suo ventri dedita cura fuit,
Cuius et hos lusus nostros inscitia carpet.
Oh ita sit! Doctis irreprehensus ero.
Tu lege, tuque rudem nihili fac, Cosme, popellum,
Tu mecum aeternos ipse sequare viros.

Cosimo, se sei libero delle cure della patria e delle brighe del senato, leggi con tranquillità questo libretto, comunque esso sia. Esso risveglierà il riso in chiunque, anche al più afflitto e più rigido e anche ad Ippolito solleticherà i sensi. In questo io seguo i dotti e vecchi poeti che si compiacquero di scrivere scherzi e pur facendo una vita morigerata riempirono le loro carte di lubriche parole. Ciò non sa l’indotto volgo che non si cura di conoscere gli antichi, dedito solo al ventre e per la sua ignoranza riprenderà i miei detti. Oh! sia pure. Non sarò ripreso dai dotti. Tu leggi, o Cosimo; non far conto dell’ignorante volgo e con me segui l’esempio dei poeti immortali.

Come si può arguire da testo dedicatorio, il Panormita assume della latinità l’aspetto più giocoso e licenzioso, che sarà ripreso, in volgare da circolo laurenziano, instauratasi nella seconda metà del ’400 a Firenze.

Umanesimo volgare

La lingua volgare riprende un forte vigore soprattutto nella seconda metà del secolo anche per iniziativa dapprima di Pietro de’ Medici che, nel 1441, su spinta di Leon Battista Alberti, diede vita ad una gara di poesia in volgare (Certame coronario) e in seguito di Lorenzo il Magnifico che nel 1476, mandò a Federigo d’Aragona una raccolta poetica di scrittori toscani, che prende il nome, appunto, di Raccolta aragonese. Ambedue gli eventi volevano significare proprio che le cosiddette tre corone fiorentine non potevano essere “dimenticate” e che la loro lingua poteva diventare, a sua volta, un nuovo punto di riferimento per gli intellettuali contemporanei. Non è un caso che si farà egli stesso poeta in volgare e farà in modo che le altre città, per non rimanere indietro alle sue iniziative culturali, si facessero promotrici di cultura. Così vennero alla luce centri che mai prima di allora avevano brillato nella lingua della loro terra, facendo in modo che dal monocentrismo fiorentino si arrivasse ad un allargamento delle località in grado di poter produrre cultura.

Leon Battista Alberti - Wikipedia

Leon Battista Alberti

Firenze

Da quanto si è detto, risulta evidente che il nuovo centro propulsivo, sia a livello politico che culturale, è la Firenze di Lorenzo il Magnifico. Alla base di questo fervore vi è il mecenatismo attraverso cui il Signore, fornito di un’elevata cultura, si fa protettore e nel caso di Lorenzo, produttore, di arte. Infatti egli darà vita a quella cerchia laurenziana, composta di poeti, architetti ed intellettuali in genere, che saranno gli esponenti più brillanti del neoplatonismo. Con questa filosofia si tenterà di far convergere il pensiero greco con il cristianesimo. Tutto ciò l’aveva fatto anche Tommaso con Aristotele. Ciò che divide i due e che il secondo arriva all’esistenza di Dio, ma lì giunto non può andare oltre. Infatti ad un certo punto la filosofia deve cedere il passo alla teologia; invece Ficino, riprendendo il mondo delle idee platoniche, può riaffermare la capacità dell’uomo di riandare e comunicare con Dio, in quanto egli è in noi (almeno come ricordo). Ora è evidente che noi possediamo all’interno di noi la scintilla divina, ciò fa sì che noi possiamo indagare ed investigare il mondo, e non accettarlo supinamente; l’intelligenza umana, pallido riflesso di quella divina, pertanto non può essere “mortificata” dall’autctoritas, ma vivificata attraverso la virtus e la sapienza. Da qui l’importanza data all’educazione, in quanto l’uomo, attraverso essa può giungere alla sua perfezione.

L’ARTEFICE CHE IMITA LA NATURA

Denique homo omnia divinae naturae opera imitatur, et naturae inferioris opera perficit, corrigit et emendat. Similis ergo ferme vis hominis est naturae divinae, quandoquidem homo per seipsum, idest per summ consilium atque artem, regit seipsum a corporali naturae limitibus minime circumscriptum, et singula naturae altioris aemulatur. (…) Vicem gerit Dei, qui omnia clementia habitat, colitque omnia, et terrae praesens, non abest ab aethere. Atqui non modo elementis, verum etiam elemenorum animalibus utitur omnibus terrenis, aquatilibus, volatilibus, ad escam, ad commoditatem, ad voluptatem: supernis coelestibusque ad doctrinam, magicaeque miracula.

Marsilio Ficino: biografia, pensiero e libri | Studenti.it

Marsilio Ficino

L’uomo, insomma, imita tutte le opere della natura divina, e perfeziona, corregge ed emenda le opere della natura inferiore. Quindi l’essenza dell’uomo è fondamentalmente simile alla natura divina, dal momento che l’uomo di per se stesso, cioè con il suo senno e la sua abilità, governa se stesso, per nulla circoscritto nei limiti della natura corporea, ed emula le singole opere della natura superiore. (…) Fa le veci di Dio, l’uomo, che abita in tutti gli elementi, di tutti ha cura, e, presente sulla terra, non è assente dal cielo. E non solo si serve degli elementi, ma anche di tutti gli esseri che negli elementi vivono: dei terrestri, acquatici, volatili, per cibarsene, per sua comodità, per suo diletto; degli esseri superiori e celesti, per la dottrina magica e i suoi prodigi.

L’importanza di questo filosofo sarà fondamentale nella Firenze quattrocentesca, che vedrà circolare, intorno alla carismatica figura di Lorenzo, quelle di Poliziano e Pulci, anime complementari dello spirito laurenziano di cui il Principe è l’artefice.

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Ghirlandaio: Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Angelo Poliziano

Iniziamo con Angelo Poliziano, nome d’arte di Angelo Ambrosini, ridotto dall’omicidio del padre a vivere un’esistenza modestissima. Le grandissime capacità intellettuali lo faranno approdare sotto la protezione di Lorenzo che lo accoglierà fra le sue ali, facendo di lui il precettore di suo figlio Pietro e suo segretario personale. Comincia a scrivere poesie in latino (Elegie ed Epigrammi) ed ottiene il sacerdozio. Dopo aver curato per Lorenzo l’Antologia da inviare al re aragonese, dà inizio alle Stanze per la giostra, dedicate a Giuliano de’ Medici, ed interrotte a seguito del suo assassinio. Per sfuggire alla peste del 1478 si rifugia con la moglie di Lorenzo in una villa appartata, dove svolge il ruolo di precettore per i figli di Lorenzo. Ma le incomprensioni tra la donna e in seguito con lo stesso Lorenzo lo fanno allontanare da Firenze. Girovaga pertanto nell’Italia del nord giungendo anche a Mantova, presso i Gonzaga, dove scrive La fabula di Orfeo, primo dramma italiano d’argomento profano. Dopo aver scritto una lunga lettera a Lorenzo, viene riaccolto a Firenze, dove riprenderà ad essere una figura chiave nella città toscana, grazie al ruolo di insegnante presso lo Studio fiorentino attribuitogli dallo stesso Lorenzo. Si spegnerà, dopo la morte del suo signore nel 1492, dopo solo due anni.

La sua opera più significativa sono appunto le Stanze per la giostra:

Nel primo libro Iulio o Iulo, si tratta di Giuliano ribattezzato classicamente, è un giovane bello e coraggioso che vive disprezzando l’Amore e dedicandosi agli esercizi del corpo, alla caccia e all’attività poetica. Cupido, con l’intento di vendicarsi, mentre Iulo è impegnato in una battuta di caccia, gli fa apparire davanti una splendida cerva, che il giovane tenta, senza successo, di raggiungere. Quando i due giungono in una radura, la cerva si trasforma in una bellissima ninfa, Simonetta. Colpito dalla freccia di Cupido, Iulo si innamora della giovane. Il dio, soddisfatto della buona riuscita del suo piano, può dunque tornare felice a Cipro, presso la madre Venere.  Il secondo libro, incompiuto, si apre con la decisione da parte di Venere, informata dal figlio dell’accaduto, di assicurare che l’amore di Iulo sia ricambiato da Simonetta. Perché questo accada, è tuttavia necessario che Iulo dimostri la sua virtù combattendo e ottenendo la vittoria in un torneo indetto per la giovane; Iulo è informato della decisione divina in sogno dallo stesso Cupido, che gli preannuncia anche la prossima morte dell’amata. L’opera si interrompe mentre Iulo, ardente d’amore, si appresta a partecipare alla giostra.

 

SIMONETTA: APPARIZIONE E INNAMORAMENTO
(I, 44-49; 55)

Candida è ella, e candida la vesta,
ma pur di rose e fior dipinta e d’erba;
lo inanellato crin dall’aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
e quanto può suo cure disacerba;
nell’atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.

Folgoron gli occhi d’un dolce sereno,
ove sue face tien Cupido ascose;
l’aier d’intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di ligustri e rose;
ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta ogni augelletto in suo latino.

Con lei sen va Onestate umile e piana
che d’ogni chiuso cor volge la chiave;
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma villana,
se pria di suo fallir doglia non have;
tanti cori Amor piglia fere o ancide,
quanto ella o dolce parla o dolce ride.

Sembra Talia, se in man prende la cetra,
sembra Minerva se in man prende l’asta;
se l’arco ha in mano, al fianco la faretra,
giurar potrai che sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s’arretra,
e poco, avanti a lei, Superbia basta;
ogni dolce virtù l’è in compagnia,
Biltà la mostra a dito e Leggiadria.

Ell’era, assisa sovra la verdura,
allegra, e ghirlandetta avea contesta,
di quanti fior creassi mai natura,
de’ quai tutta dipinta era sua vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,
levossi in piè con di fior pieno un grembo.

Già s’inviava, per quindi partire,
la ninfa sovra l’erba, lenta lenta,
lasciando il giovinetto in gran martire,
che fuor di lei null’altro omai talenta.
Ma non possendo el miser ciò soffrire,
con qualche priego d’arrestarla tenta;
per che, tutto tremando e tutto ardendo,
così umilmente incominciò dicendo:

«O qual che tu ti sia, vergin sovrana,
o ninfa o dea, ma dea m’assembri certo;
se dea, forse se’ tu la mia Diana;
se pur mortal, chi tu sia fammi certo,
ché tua sembianza è fuor di guisa umana;
né so già io qual sia tanto mio merto,
qual dal ciel grazia, qual sì amica stella,
ch’io degno sia veder cosa sì bella».

(…)

Poi con occhi più lieti e più ridenti,
tal che ’l ciel tutto asserenò d’intorno,
mosse sovra l’erbetta e passi lenti
con atto d’amorosa grazia adorno.
Feciono e boschi allor dolci lamenti
e gli augelletti a pianger cominciorno;
ma l’erba verde sotto i dolci passi
bianca, gialla, vermiglia e azurra fassi.

Candida è lei e bianca la veste, tuttavia ornata di rose e di steli, i biondi capelli ricci, scendono sulla fronte umile e nello stesso tempo superba: tutta la foresta le sorride intorno e, per quanto possibile, le mitiga gli affanni; nell’atteggiamento è dolce come una regima e con il suo sguardo placa le tempeste. // Sfolgorano gli occhi di una dolce serenità, dove Cupido nasconde le fiaccole, l’aria intorno si fa serena, ovunque gira gli occhi. Ha il volto pieno di divina felicità, dipinto del colore bianco dei ligustri e rosa come i fiori; ogni soffio d’aria cessa al momento in cui ella emette la sua divina voce, e canta ogni uccellino con il suo verso. // Con lei va l’Onestà, umile e semplice, che volta la chiave ad ogni cuore chiuso; con lei va la Giustizia in persona e impara da lei l’elegante camminare. Non può osservarla uno sguardo non puro, se prima non si pente della propria colpa, Amore colpisce tanti cuori, tutte le volte che o parla o ride dolcemente. // Sembra che Talia (Musa del canto) prenda tra le mani la cetra, che Minerva (dea della guerra) prenda il giavellotto in mano e che se la faretra ha in mano e l’arco sulle spalle sia la casta Diana (dea della caccia). L’ira cattiva s’allontana dal suo volto e la superbia davanti a lei poco resiste; è in compagnia di ogni dolce virtù; la beltà e la gentilezza la indicano come esempio. // Lei era seduta sopra la leggiadra erbetta e aveva intrecciato una ghirlanda con tutti i fiori che la natura ha creato, di cui era dipinta la sua veste. E come si accorse del giovane (Iulio), alzò la testa con paura; poi preso un lembo con la bianca mano, si alzò in piedi con il grembo pieno di fiori. // Già si avviava per allontanarsi da quel posto, la ninfa sopra il prato, in modo lento, lasciando il giovane in grandi tormenti, che al di fuori di lei non desidera altro: ma non potendo l’infelice sopportare ciò, cerca di trattenerla con qualche scusa, per cui, pieno d’amore, con umiltà cominciò a dirle: // «Oh, chiunque tu sia, o principessa, o ninfa, o dea (ma certo più dea mi sembri), se sei dea, certo sei la mia Diana, se invece sei mortale, chi tu sia dimmelo, perché il tuo aspetto è al di fuori di ogni umana sembianza, né io so quale sia il mio merito per vedere una cosa così bella. // (…) // Poi con gli occhi gioiosi e ridenti, di modo che tutto il cielo intorno si rasserenò, si mosse sopra il praticello a passi lenti, adorna di gesti amorosi. Fecero allora i boschi dolci lamenti e gli uccellini cominciarono a piangere; ma il prato, sotto i suoi passi si trasformo in fiori bianchi, gialli rossi e azzurri.

Il brano ci offre la struttura tipica del poemetto: ottave con versi endecasillabi ABABABCC. Nel primo libro ci mostra Simonetta e il suo incontro con Iulio. Qual è la sua importanza? Se noi dovessimo analizzarla lessicalmente scopriremo che il testo è completamente intessuto di immagini stilnoviste e petrarcheggianti; ma lei non è venuta dal cielo in terra “a miracol mostrare”; la sua “divinizzazione” avviene in senso classico, (Talia, Minerva, Diana), rivitalizzando e nel contempo astraendo il concetto della “divina bellezza” in modo neoplatonico. L’innamoramento dio Iulio, poi, è disegnato come fosse un uscire dall’età infantile per arrivare all’età adulta, raggiungendo la perfezione dell’amore. E’ naturale che tale perfezione debba poi ritrovarsi nella fluidità dell’ottava, che pur riprendendo topoi della poesia precedente li “attualizza” nella nuova realtà culturale in cui Poliziano opera.

Luigi Pulci (1432–1484) | Art UK

Luigi Pulci

Altro autore della corte laurenziana è Luigi Pulci, resosi famoso col suo poema in ottave, il Morgante; personaggio un po’ bizzarro nella corte lorenziana, il suo merito e la sua condanna sarà quella di portare uno stile giocoso e irriverente. Dapprima infatti fu accettato, diventando quasi intimo del duca, di cui si permise, addirittura, di rifare, in modo ancora più comico una sua opera, la Nencia di Barberino con la Beca di Dicomano. Tuttavia la prevalenza, intorno agli anni ’70, di una cultura fortemente neopitagorica ed intellettuale lo allontanò dalla corte. Pur tentando di rientrarci, morì fuori Firenze a Padova nel 1484.

La sua opera più importante, come già detto è il Morgantepoema eroicomico in 28 canti, edito tra gli anni Settanta ed Ottanta del Quattrocento:

L’opera narra del conte Orlando che lascia Parigi per recarsi dagli infedeli. Durante il tragitto incontra Morgante che converte al cristianesimo e ne fa il suo scudiero. Insieme ad altri paladini giunge alla Pagania (terra dei pagani). Qui Morgante incontra Margutte e i due hanno una serie d’avventure, fino alla morte di quest’ultimo per riso, avendo visto una bertuccia che calzava le scarpe. Morgante si riunisce quindi ad Orlando e s’imbarcano verso Oriente. Sono costretti a sbarcare per una tempesta e qui Morgante muore morso da un granchiolino. Quindi Orlando torna in Francia dove, durante un sogno, un angelo gli ordina di conquistare la terra degli Infedeli. L’opera s’interrompe e verrà ripresa negli ultimi cinque canti dove si rispetterà maggiormente il tema dei romanzi bretoni ed arturiani.

 

MORGANTE INCONTRA MARGUTTE
(XVIII, 112-120)

Giunto Morgante un dì in su ’n un crocicchio,
uscito d’una valle in un gran bosco,
vide venir di lungi, per ispicchio,
un uom che in volto parea tutto fosco.
Détte del capo del battaglio un picchio
in terra, e disse: «Costui non conosco»;
e posesi a sedere in su ’n un sasso,
tanto che questo capitòe al passo.

Morgante guata le sue membra tutte
più e più volte dal capo alle piante,
che gli pareano strane, orride e brutte:
«Dimmi il tuo nome» dicea «vïandante». 
Colui rispose: «Il mio nome è Margutte;
ed ebbi voglia anco io d’esser gigante,
poi mi pentì quando al mezzo fu’ giunto:
vedi che sette braccia sono appunto». 

Disse Morgante: «Tu sia il ben venuto:
ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato,
che da due giorni in qua non ho beuto;
e se con meco sarai accompagnato,
io ti farò a camin quel che è dovuto.
Dimmi più oltre: io non t’ho domandato
se se’ cristiano o se se’ saracino,
o se tu credi in Cristo o in Apollino». 

Rispose allor Margutte: «A dirtel tosto,
io non credo più al nero ch’a l’azzurro,
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
e credo alcuna volta anco nel burro,
nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,
e molto più nell’aspro che il mangurro;
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;

e credo nella torta e nel tortello:
l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo;
e ’l vero paternostro è il fegatello,
e posson esser tre, due ed un solo,
e diriva dal fegato almen quello.
E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo,
se Macometto il mosto vieta e biasima,
credo che sia il sogno o la fantasima;

ed Apollin debbe essere il farnetico,
e Trivigante forse la tregenda.
La fede è fatta come fa il solletico:
per discrezion mi credo che tu intenda.
Or tu potresti dir ch’io fussi eretico:
acciò che invan parola non ci spenda,
vedrai che la mia schiatta non traligna
e ch’io non son terren da porvi vigna.

Questa fede è come l’uom se l’arreca.
Vuoi tu veder che fede sia la mia?,
che nato son d’una monaca greca
e d’un papasso in Bursia, là in Turchia.
E nel principio sonar la ribeca
mi dilettai, perch’avea fantasia
cantar di Troia e d’Ettore e d’Achille,
non una volta già, ma mille e mille.

Poi che m’increbbe il sonar la chitarra,
io cominciai a portar l’arco e ’l turcasso.
Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra,
e ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso,
mi posi allato questa scimitarra
e cominciai pel mondo andare a spasso;
e per compagni ne menai con meco
tutti i peccati o di turco o di greco;

anzi quanti ne son giù nello inferno:
io n’ho settanta e sette de’ mortali,
che non mi lascian mai la state o ’l verno;
pensa quanti io n’ho poi de’ venïali!
Non credo, se durassi il mondo etterno,
si potessi commetter tanti mali
quanti ho commessi io solo alla mia vita;
ed ho per alfabeto ogni partita».

Morgante incontra Margutte

Morgante, arrivato un giorno presso un crocevia, uscito da una valle e trovandosi in un bosco, vide giungere di traverso da lontano, un uomo dal volto completamente truce. Diede un colpo col batacchio della campana in terra e disse: «Io questo non lo conosco», e messosi a sedere su una pietra, finché costui giunse al crociccio. // Morgante osserva attentamente tutte le sue membra dalla testa ai piedi che gli sembravano strane, orrende e brutte: Diceva: «Dimmi il tuo nome, passeggero». Egli gli ripose: «Il mio nome è Margutte; anch’io ebbi voglia di diventare un giugante, ma giunto a metà mi pentii, vedi, per l’appunto che sono alto soltanto 7 braccia (circa 4 metri)». // Disse Morgante: «Che tu sia il benvenuto: ecco che io avrò al mio fianco un fiaschetto (detto per la forma del mezzo gigante) dal momento che non ho bevuto da due giorni, e se ti unirai a me io ti tratterò come si conviene. Ma dimmi anche se sei cristiano, o saraceno, se credi in Cristo o ad Apollo». // Rispose allora Margutte: «A dirtelo subito, io non credo né al nero né all’azzurro, ma credo nel cappone arrosto o lesso, e credo talvolta anche nel burro, nella birra e quando ne ho nel vino, e molto più nel vino aspro (gioco di parole: aspro è sia l’aggettivo del vino che il nome di una moneta turca di poco valore) che nel mangurro (moneta turca d’argento); ma ho soprattutto fede nel buon vino e penso sia salvo chi crede in lui; // e credo nella torta e nel tortello, il primo è la madre il secondo è il figlio, ed il vero padre nostro è il fegatello e possono essere tre, due o uno solo ed anche quello deriva dal fegato. E se io volessi bere il vino in un ghiacciolo (grande vaso per svuotare i ghiacciai), se Maometto vieta e critica il vino, credo che il profeta sia un sogno o un fantasma // ed Apollo dev’essere pazzo e Trevicante forse un incubo. La fede è come il solletico, alcuni lo sopportano altri no. Io credo che tu, per la tua capacità, mi capisca. Ora tu potresti dirmi che io sono un eretico; affinché tu non intenda convertirmi, vedrai che la mia genìa non tradisce e che io non sono un terreno da piantarvi la vigna (della Fede). // La fede è quella che ognuno si porta con sé dalla nascita: vuoi tu vedere qual è la mia fede? Sono nato da una monaca greca e da un sacerdote in Bursia in Turchia. All’inizio mi dilettai a suonare la chitarra a tre corde perché avevo in mente di cantar di Troia, d’Ettore e d’Achille, e non una sola volta ma continuamente. // Poi quando mi stancai di suonare la chitarra, cominciai a portare l’arco e la faretra: un giorno in cui feci una rissa dentro la moschea, e uccisi il sacerdote mio padre, mi posi allato la scimitarra e cominciai ad andare in giro per il mondo; e per compagni condussi con me tutti i peccati del mondo // anzi quanti sono i peccati giù nell’inferno io li ho commessi settantasette volte fra i mortali, e non mi abbandonano mai né d’estate né d’inverno: non credo, se il mondo durasse in eterno, che si possano commettere tanti peccati quanti ne ho commessi io durante la mia vita; li conosco tutti alla perfezione».

Le poche ottave qui riportate ci offrono la possibilità di cogliere, all’interno della corte laureziana, un filone, che potremmo definire “comico” attraverso cui l’autore si pone il fine di suscitare il riso all’interno della raffinatissima corte entro la quale leggeva la sua opera. Egli infatti rovescia completamente il modello religioso, parafrasando il concetto di trinità spirituale con la materialità del cibo e ribadendo che se è lontano dal cristianesimo in quanto istigatore di rinunce e digiuni, lo è ancor di più verso il maomettismo perché negatore di vino.

Il Morgante è l’opera attraverso cui Pulci, spinto dalla madre di Lorenzo, Lucrezia Tornabuoni, vuole dare un’impronta maggiormente religiosa ai cantari popolari. Ma egli non si pone soltanto sulla linea, appunto, dei cantari popolareschi ancora in voga nel tardo trecento e nel periodo a lui contemporaneo: ironizzandoli, utilizzando i loro strumenti, li “abbassa” a al punto da cancellarli, o meglio di porre tra la sua opera e la loro una barra netta di separazione: infatti se il suo ispiratore appare appunto la tradizione canterina, quello letterario è certamente Boccaccio con le novelle di Ser Ciappelleto e dei frati e monache gaudenti.

La sua opera, tuttavia, non appare riuscita per alcuni fondamentali motivi:

  • La mancanza d’unitarietà, dovuta al fatto che l’opera è nata per essere recitata e non letta e quindi soffre di ripetizioni, di vistosi stacchi tra un canto e un altro e di una sostanziale disarmonia tra gli episodi;
  • Non vi è piena visione tra il fine ultimo dell’opera e l’ideologia di Pulci stesso: per meglio dire il compito datogli da Lucrezia non gli appartiene, anche se tenta di svilupparlo alla fine del poema: si è che egli è più aderente alla dissacrazione che alla costruzione e non è un caso che l’opera sia titolata come il gigante della storia: la parte più riuscita è quella fortemente comica e parodica, per il resto non è che una stanca ripetizione delle chancon de geste;
  • Non dobbiamo tacere tuttavia l’influenza che essa avrà nella cultura successiva: della sua opera si serviranno da una parte Teofilo Folengo e Alessandro Tassoni, autori di poemi eroico-comici come il Macaricon e la Secchia rapita ma anche il francese François Rabelais autore del celeberrimo Gargantua e Pantagruele.

Lorenzo il Magnifico, un principe senza corona

Lorenzo il Magnifico

Il terzo altro grande protagonista della cultura fiorentina di questo periodo è lo stesso duca: Lorenzo De’ Medici. Egli infatti, non solo si fa promotore di cultura, ma diventa egli stesso un raffinato facitore di versi e non di uno stile particolare, ma di tutte le esperienze che la sua città gli offriva: si va infatti dalla poesia comico realista dei Canti Carnascialeschi alle alte poesie d’ispirazione religiosa della maturità. E’ che in lui permangono sia lo stile burlesco che fa capo a Pulci, sia quello più strettamente filosofico di Marsilio.

Ii suo riconosciuto capolavoro sono i Canti Carnascialeschi da cui traiamo la sua lirica più famosa: 

CANZONA DI BACCO

Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Quest’è Bacco e Arïanna,

belli, e l’un dell’altro ardenti:
perché ’l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe ed altre genti
sono allegre tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Questi lieti satiretti,
delle ninfe innamorati,
per caverne e per boschetti
han lor posto cento agguati;
or da Bacco riscaldati
ballon, salton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia
di doman non c’è certezza.

Queste ninfe anche hanno caro
da lor essere ingannate:
non può fare a Amor riparo
se non gente rozze e ingrate:
ora, insieme mescolate,
suonon, canton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Questa soma, che vien drieto
sopra l’asino, è Sileno:
così vecchio, è ebbro e lieto,
già di carne e d’anni pieno;
se non può star ritto, almeno
ride e gode tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Mida vien drieto a costoro:
ciò che tocca oro diventa.
E che giova aver tesoro,
s’altri poi non si contenta?
Che dolcezza vuoi che senta
chi ha sete tuttavia?
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Ciascun apra ben gli orecchi,
di doman nessun si paschi;
oggi siam, giovani e vecchi,
lieti ognun, femmine e maschi;
ogni tristo pensier caschi:
facciam festa tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Donne e giovinetti amanti,
viva Bacco e viva Amore!
Ciascun suoni, balli e canti!
Arda di dolcezza il core!
Non fatica, non dolore!
Ciò c’ha a esser, convien sia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

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Annibale Carracci: Il Trionfo di Bacco e Arianna

Quanto è bella la giovinezza, che se ne va un istante dopo l’altro. Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // Questi sono Bacco ed Arianna, belli, innamorati l’un dell’altro, perché il tempo scorre via ed inganna, stanno sempre insieme, contenti. Queste ninfe e gli altri personaggi che li seguono, sono sempre felici. Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // Questi lieti piccoli satiri (dei del bosco, dediti al piacere), innamorati delle ninfe, hanno teso loro piacevoli inganni nelle caverne e nei boschi; ora, eccitati dal dio del vino Bacco, ballano e danzano allegramente. Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // A queste ninfe è gradito essere da loro ingannati: solo gente rozza e priva di grazia può resistere alle tentazioni dell’amore; ora mescolate ai satiri suonano e cantano incessantemente. Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // Questo peso, che segue sopra un asino è Sileno (satiro, precettore di Bacco), così vecchio ma ubriaco e felice, ormai vecchio e sfatto, se non riesce a srtare in piedi almeno ride e gode continuamente. Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // Segue poi Mida, ciò che tocca diventa oro, ma a che serve avere un tesoro se poi uno si accontenta. Che dolcezza può gustare chi ha sempre sete? Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // Ciascuno presti attenzione, non si cibi del domani; oggi siamo ognuno di noi, vecchi e giovani felici, femmine e maschi, venga meno ogni pensiero triste. Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // Donne e giovani pieni d’amore, viva Bacco (il vino) viva l’amore! Tutti voi suonate, cantate, ballate: Arda di dolcezza il cuore! Nessuna fatica, nessun dolore! Ciò che deve essere, che sia! Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani.

Quello che caratterizza questa ballata è certamente il tema della caducità del tempo, a cui si associa quello della celebrazione della giovinezza. Il punto di partenza è certamente il Carpe diem oraziano e lì come qui tra i due termini non vi è contraddizione. Non vi è contraddizione perché la ballata viene inserita all’interno di un rito carnevalesco, in cui appunto vi è un tempo fortemente limitato, un inizio ed una fine e quindi una sospensione temporale. Se dovessimo paragonare tale interruzione con la giovinezza non vi troveremo appunto contraddizione. Ma quello che qui conta non è tanto ricercare una disarmonia tematica, assolutamente inesistente sia a livello di contenuto che di forma, ma la laicità del testo che ci invita ad un clima certamente diverso a quello medievale.

Napoli

File:Tavola Strozzi - Napoli.jpg - Wikipedia

Tavola Strozzi: Napoli nel ‘400

Napoli del ‘400 non è più quella città ridente e gioviale che aveva conosciuto il giovane Boccaccio. Infatti alla morte di Roberto d’Angiò (1343) il regno cadde in una profonda crisi dinastica che vide una lotta tra vari pretendi e che si concluse nel 1442, quando il regno si unì alla Sicilia, già in mano agli Aragonesi sotto il re Alfonso I il Magnanimo. Costui si fece promotore della cultura umanistica, promuovendo la nascita dell’Accademia e circondandosi d’intellettuali come Lorenzo Valla e Giovanni Pontano. Alla morte di costui (1458) i regni si divisero ulteriormente, lasciando Napoli a Ferdinando, figlio di Alfonso e la Sicilia a Giovanni II d’Aragona. Il loro regni durano fintantoché le aspirazioni francesi (con la famiglia d’Angiò) e quelle spagnole (con la famiglia degli Aragonesi) si contesero l’intero dominio che avvenne, nel 1516, con la presa di possesso della potenza iberica sia di Napoli che di Palermo.

Giovanni Pontano: biografia e opere | Studenti.it

Adriano Fiorentino: Giovanni Pontano

La grande stagione della cultura napoletana possiamo identificarla nella seconda metà del ‘400, durante il regno aragonese, grazie anche alla figura di Antonio Beccadelli, che diede vita ad un’Accademia, che venne guidata, alla sua morte, da Giovanni Pontano, e per questo detta Pontoniana, nella quale conversero le più grandi intellettualità del regno.

Jacopo Sannazaro - Wikipedia

Jacopo Sannazzaro

L’intellettuale più importante, per quanto riguarda la produzione volgare, è certamente Jacopo Sannazzaro, la cui opera avrà una fortuna tale da dare il nome ad una corrente del ‘700. Accolto nell’Accademia Pontoniana, si legò sin da giovane alla dinastia degli aragonesi, legandosi dapprima ad Alfonso e alla sua morte a Federico. A seguito della calata di Carlo VIII, seguì il suo signore sino in Francia e alla sua morte tornò nella capitale del sud Italia, dove compose opere in latino di spirito devozionale.     

Il suo capolavoro è l’Arcadia del 1486:

Sincero, dietro cui si cela lo stesso poeta (col nome assunto nella Accademia Pontoniana), si rifugia in Arcadia, il mitico mondo greco dei pastori, per sfuggire agli amori e alla delusione politiche. Qui divide la vita con i pastori e con le pastorelle che trascorrono le giornate guidando gli armenti al pascolo, cantando e suonando. La narrazione si arricchisce allora di altri racconti legati agli amori e agli avvenimenti che scandiscono il ritmo monotono di questa vita.

LA POESIA PASTORALE

Sogliono il più delle volte gli alti e spaziosi alberi negli orridi monti dalla natura prodotti, più che le coltivate piante, da dotte mani espurgate negli adorni giardini, a’ riguardanti aggradare; e molto più per li soli boschi i salvatichi uccelli sovra i verdi rami cantando, a chi gli ascolta piacere, che per le piene cittadi dentro le vezzose ed ornate gabbie non piacciono gli ammaestrati. Per la qual cosa ancora, siccome io stimo, addiviene, che le silvestre canzoni vergate nelle ruvide corteccia de’ faggi dilettino non meno a chi le legge, che li colti versi scritti nelle rase carte degl’indorali libri; e le incerate canne de’ pastori porgano per le fiorite valli forse più piacevole suono, che li tersi e pregiati bossi de’ musici per le pompose camere non fanno. E chi dubita, che più non fia alle umane menti aggradevole una fontana, che naturalmente esca dalle vive pietre, attorniata di verdi erbette, che tutte le altre ad arte fatte di bianchissimi marmi, risplendenti per molto oro? Certo che io creda, niuno. Dunque in ciò fidandomi, potrò ben io fra queste deserte piagge agli ascoltanti alberi, ed a quei pochi pastori, che vi saranno, raccontare le rozze Egloghe da naturale vena uscite; così di ornamento ignude esprimendole, come sotto le dilettevoli ombre, al mormorio de’ liquidissimi fonti da’ pastori d’Arcadia le udii cantare, alle quali non una volta, ma mille i montani Iddii da dolcezza vinti prestarono intente orecchie, e le tenere Ninfe, dimenticate di perseguire i vaghi animali, lasciarono le faretre e gli archi a piè degli alti pini di Menalo e di Liceo.

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Edizione del 1571

Il più delle volte gli alti ed ampi alberi, nati spontaneamente sui monti selvaggi, sono soliti pacere a coloro che li ammirano, più delle piante coltivate, fatte nascere da mani esperti nei giardini ricchi d’ornamenti; e gli uccelli liberi che cantano sui verdi rami nei boschi solitari, gli ascoltatori sogliono piacere molto più di quanto non piacciano, nelle città affollate, quelli addomesticati nella graziose e adorne gabbie. Per cui credo che i boscherecci versi scritti sui ruvidi rami dei faggi piacciano non meno a chi li legge di quelli scritti nelle lisce carte di libri preziosi e credo che le zampogne dei pastori porgano un più piacevole suono in mezzo ai prati fioriti, di quanto non facciano i lucidi e pregiati flauti suonati dai musici nelle sale festose. E chi mette in dubbio  che non sia più gradita alla mente umana una fonte da cui naturalmente esca da le rocce, circondata da prati verdi, rispetto alle altre costruite ad arte con marmi bianchissimi e adornate con molto oro? Certo, per quanto ne sappia, nessuno. Dunque, confidando in ciò, potrò giustamente raccontare fra queste terre deserte agli alberi che ascoltano e ai pochi pastori che ci saranno, le disadorne Egloghe nate da un’ispirazione naturale; così recitandole prive di ornamenti, così come le sentii cantare dai pastori d’Arcadia sotto le piacevoli ombre (degli alberi) e al mormorio di limpidissime fonti, le stesse non una volta ma mille gli dèi montani, vinti dalla dolcezza, prestarono un attento ascolto e le dolci Ninfe, dimentiche di seguire i vaganti animali, lasciarono le faretre e gli archi  ai piedi degli alti pini di Menelao e di Liceo (monti dell’Arcadia). 

In questo passo il poeta napoletano sembra voglia mettere in contrapposizione il bello di natura dal bello di cultura, potremo dire artificiale. Ma ad essere artificiale è proprio il concetto di natura che lui descrive, utilizzando non lo sguardo “reale”, ma assolutamente letterario: l’eco di Teocrito, ma soprattutto di Virgilio, il periodare atteggiato ad uno stile involuto, latineggiante, con l’uso dei verbi posto alla fine, l’aggettivazione insistita, che indica maggiormente la qualità dell’oggetto descritto, rispetto allo stesso, rendono la pagina di Sannazzaro una ricerca di perfezione formale, in cui la “bellezza naturale” è tale solo se si trasforma in repertorio letterario.

Ferrara

Altro centro culturale di questo periodo è la Ferrara Estense. Sebbene cerchi di salvaguardare il suo territorio dalle mire di Stati più grandi e militarmente attrezzati che la circondano (a nord-ovest i Sabaudi, a Nord la Lombardia degli Sforza, ad Oriente la Repubblica di Venezia) lo Stato costituisce un nodo d’importante passaggio tra il centro papale e le regioni nordiche. Tale posizione le fornisce una enorme importanza strategica, ma diventa anche punto in cui si incontrano eminenti personalità dell’umanesimo, che la corte Estense, per prestigio, ospita e promuove.

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Scuola di Dosso Dossi: Ercole I d’Este (XVII sec.)

Il momento più fervido della sua storia quattrocentesca è legato a Lionello d’Este, sposo di Margherita Gonzaga (si ricorda che i Gonzaga erano i signori di Modena), che scrisse anche liriche di raffinato gusto, ma soprattutto a Ercole, educato nella corte aragonese, che dal 1471 al 1505 regge il suo piccolo territorio, cercando d’ampliarne i confini, nonché di promuoverlo a livello intellettuale.

Una delle caratteristiche della cultura estense è l’amore verso la cultura francese, che è formata soprattutto da romanzi cavallereschi. Tale amore si era tradotto a livello popolare in una strana mescolanza tra ciclo carolingio e quello bretone, recitato nelle pubbliche piazze dai canterini, detti anche cantimpanca perché spesso recitavano in un palco improvvisato.

monteverdelegge: La poesia della domenica - Matteo Maria Boiardo, De avorio  e d'oro e de corali ...

Matteo Maria Boiardo

Il più grande intellettuale quattrocentesco è certamente Matteo Maria Boiardo, nato nel 1441 da nobile famiglia, legatissima alla casata estense. Ricevuta l’educazione umanistica e proprietario, alla morte del padre, del feudo di Scandiano, divenne in seguito comes di Ercole d’Este, vivendo per due anni nella sua corte. Tornato nel suo feudo, dopo aver preso in moglie una Gonzaga, si dedica al suo possedimento e alla letteratura, accompagnando, laddove fosse richiesto, gli Estensi in viaggi di rappresentanza. Muore nel 1494, l’anno della discesa di Carlo VIII.

Nell’inizio della sua produzione poetica, Boiardo ci dà testimonianza di come potesse essere l’umanesimo cortigiano, scrivendo opere, in latino, in cui era fortemente presente l’elemento encomiastico. Più importanti sono le opere in volgare fra cui ricordiamo l’Amorum libri, che richiama la poesia ovidiana degli Amores e il Canzoniere di Petrarca:

Amorum libri tres - Wikipedia

Antica edizione degli Amores di Boiardo

SONETTO PROEMIALE

Amor, che me scaldava al suo bel sole 
nel dolce tempo de mia età fiorita, 
a ripensar ancor oggi me invita 
quel che alora mi piacque, ora mi dole. 

Così racolto ho ciò che il pensier fole 
meco parlava a l’amorosa vita, 
quando con voce or leta or sbigotita 
formava sospirando le parole. 

Ora de amara fede e dolci inganni 
l’alma mia consumata, non che lassa, 
fuge sdegnosa il puerile errore. 

Ma certo chi nel fior de’ soi primi anni 
sanza caldo de amore il tempo passa, 
se in vista è vivo, vivo è sanza core. 

L’amore, che nel dolce tempo della mia giovinezza mi riscaldava al suo bel sole, ancora oggi mi invita a ripensare a ciò che allora mi piaceva, e adesso mi fa soffrire. // Così ho raccolto [in questi versi] ciò che il mio folle pensiero mi diceva nella vita amorosa, quando con voce ora lieta, ora piena di paura formava le parole tra i sospiri. // Ora la mia anima consumata e prostrata a causa della fedeltà amara [violata] e dei dolci inganni, fugge sdegnata i suoi errori di gioventù. // Ma certo chi nel fiore dei suoi primi anni trascorre il tempo senza il calore dell’amore, se in apparenza è vivo in realtà non possiede il cuore. 

Questo sonetto ci offre la possibilità di fare alcune osservazioni:

  1. l’inizio di un petrarchismo di maniera che risulterà insistito e codificato nella prima metà del ‘500. Tale petrarchismo si evince dal considerare l’amore in senso retrospettivo che causa dolore; ma se il dolore, nel sonetto di Petrarca, causato dall’errore giovanile lo porta al pentimento e alla caducità del tempo, in Boiardo ricade su stesso;
  2. ibridismo linguistico: la sostenutezza lessicale ricalcato sull’autore del Canzoniere, non cancella il linguaggio del luogo, rilevabile in “racolto, fole, sbigotita, fole”, in cui era usuale lo scempiamento delle consonanti doppie.  

Ma il suo capolavoro è l’Orlando innamorato del 1495, poema in ottave in tre parti (29, 31 e 9) di cui l’ultima incompiuta.

Angelica, la bellissima figlia del re del Cataio, giunge alla corte di Carlomagno accompagnata dal fratello Argalia che sfida tutti i cavalieri pretendenti. Il patto è che il vincitore avrà Angelica, ma quando Ferraguto uccide Argalia, la bella non sta ai patti e fugge verso Oriente, inseguita da tutti i paladini, innamorati di lei, compresi l’austero Orlando e Ranaldo. Nella foresta delle Ardenne Ranaldo però beve alla fontana dell’odio e da allora sfugge Angelica che, al contrario, ha bevuto a quella dell’amore e lo insegue innamorata. Anche il saraceno Agricane ama Angelica: pone per lei l’assedio ad Albracà e vi trova la morte per mano di Orlando. Intanto Agramante, re dei Mori, scatena la guerra in Francia, accompagnato da fierissimi guerrieri: Gradasso, Ruggiero, Ferraù, Rodomonte. Angelica continua a inseguire l’amato Ranaldo, sempre protetta dal fido Orlando; ma nella foresta delle Ardenne si rinnova l’incanto delle fonti, scambiato: adesso Ranaldo ama Angelica e lei lo sfugge. Per amore di lei Orlando e Ranaldo si azzuffano a Parigi: li separa Carlomagno, dando Angelica in custodia al duca di Namo e promettendola a chi combatterà più valorosamente i saraceni. Qui s’interrompe il poema. 

L’opera di Boiardo nasce dal clima che la dinastia estense vuole creare, dando vita ad una narrativa che si richiamasse esplicitamente alla letteratura medievale francese, e quindi feudale/cavalleresca, arricchendola con la nuova sensibilità umanistica, in cui la centralità dell’uomo emergesse non come forza guerriera, ma come sensuale amore. Non è che prima tale tema non esistesse, ma non veniva armonizzato in un’unica materia. Infatti alla base della stesura del poema troviamo è vero i poemi cavallereschi letti in francese nella corte ferrarese, ma anche il Teseida di Boccaccio, nonché l’appena scritto Morgante di Pulci (che sembra Boiardo conoscesse).

Boiardo Matteo Maria : Orlando innamorato [...] insieme coi tre libri di M.  Nicolo de gli Agostini, già

Edizione del 1611

L’opera è interrotta; la preparazione per l’arrivo di Carlo VIII distolse il Boiardo dagli interessi letterari; molti scrittori tentarono di concluderlo. Ma a continuarlo ci pensò l’Ariosto con l’Orlando furioso, il cui successo oscurò l’opera dell’autore quattrocentesco.

L’APPARIZIONE DI ANGELICA
(I, 1 stanze 1-3; 9-13; 19,35)

Signori e cavallier che ve adunati
per odir cose dilettose e nove,
stati attenti e quïeti, ed ascoltati
la bella istoria che ’l mio canto muove;
e vedereti i gesti smisurati,
l’alta fatica e le mirabil prove
che fece il franco Orlando per amore
nel tempo del re Carlo imperatore.

Non vi par già, signor, meraviglioso
odir cantar de Orlando inamorato,
ché qualunche nel mondo è più orgoglioso,
è da Amor vinto, al tutto subiugato;
né forte braccio, né ardire animoso,
né scudo o maglia, né brando affilato,
né altra possanza può mai far diffesa,
che al fin non sia da Amor battuta e presa.

Questa novella è nota a poca gente,
perché Turpino istesso la nascose,
credendo forse a quel conte valente
esser le sue scritture dispettose,
poi che contra ad Amor pur fu perdente
colui che vinse tutte l’altre cose:
dico di Orlando, il cavalliero adatto.
Non più parole ormai, veniamo al fatto.
(…)
Erano in corte tutti i paladini
per onorar quella festa gradita,
e da ogni parte, da tutti i confini
era in Parigi una gente infinita.
Eranvi ancora molti Saracini,
perché corte reale era bandita,
ed era ciascaduno assigurato,
che non sia traditore o rinegato.

Per questo era di Spagna molta gente
venuta quivi con soi baron magni:
il re Grandonio, faccia di serpente,
e Feraguto da gli occhi griffagni;
re Balugante, di Carlo parente,
Isolier, Serpentin, che fôr compagni.
Altri vi fôrno assai di grande afare,
come alla giostra poi ve avrò a contare.

Parigi risuonava de instromenti,
di trombe, di tamburi e di campane;
vedeansi i gran destrier con paramenti,
con foggie disusate, altiere e strane;
e d’oro e zoie tanti adornamenti
che nol potrian contar le voci umane;
però che per gradir lo imperatore
ciascuno oltra al poter si fece onore.

Già se apressava quel giorno nel quale
si dovea la gran giostra incominciare,
quando il re Carlo in abito reale
alla sua mensa fece convitare
ciascun signore e baron naturale,
che venner la sua festa ad onorare;
e fôrno in quel convito li assettati
vintiduo millia e trenta annumerati.

Re Carlo Magno con faccia ioconda
      sopra una sedia d’ôr tra’ paladini
      se fu posato alla mensa ritonda:
      alla sua fronte fôrno e Saracini,
      che non volsero usar banco né sponda,
      anzi sterno a giacer come mastini
      sopra a tapeti, come è lor usanza,
      sprezando seco il costume di Franza.
(…)
Mentre che stanno in tal parlar costoro,
      sonarno li instrumenti da ogni banda;
      ed ecco piatti grandissimi d’oro,
      coperti de finissima vivanda;
      coppe di smalto, con sotil lavoro,
      lo imperatore a ciascun baron manda.
     Chi de una cosa e chi d’altra onorava,
      mostrando che di lor si racordava.

Quivi si stava con molta allegrezza,
con parlar basso e bei ragionamenti:
 Re Carlo, che si vidde in tanta altezza,
tanti re, duci e cavallier valenti,
tutta la gente pagana disprezza,
come arena del mar denanti a i venti;
ma nova cosa che ebbe ad apparire,
fe’ lui con gli altri insieme sbigotire.

Però che in capo della sala bella
quattro giganti grandissimi e fieri
i
ntrarno, e lor nel mezo una donzella
che era seguìta da un sol cavallieri.
Essa sembrava matutina stella
e
giglio d’orto e rosa de verzieri:
i
n somma, a dir di lei la veritate,
non fu veduta mai tanta beltate.

Era qui nella sala Galerana,
      ed eravi Alda, la moglie de Orlando,
     Clarice ed Ermelina tanto umana,
      ed altre assai, che nel mio dir non spando,
      bella ciascuna e di virtù fontana.
     Dico, bella parea ciascuna, quando
      non era giunto in sala ancor quel fiore,
      che a l’altre di beltà tolse l’onore.

Ogni barone e principe cristiano
in quella parte ha rivoltato il viso,
né rimase a giacere alcun pagano;
ma ciascun d’essi, de stupor conquiso,
si fece a la donzella prossimano;
la qual, con vista allegra e con un riso
da far inamorare un cor di sasso,
incominciò così, parlando basso:

«Magnanimo segnor, le tue virtute
      e le prodezze de’ toi paladini,
      che sono in terra tanto cognosciute,
      quanto distende il mare e soi confini,
      mi dan speranza che non sian perdute
      le gran fatiche de duo peregrini,
      che son venuti dalla fin del mondo
      per onorare il tuo stato giocondo.

Ed acciò ch’io ti faccia manifesta,
      con breve ragionar, quella cagione
      che ce ha condotti alla tua real festa,
      dico che questo è Uberto dal Leone,
      di gentil stirpe nato e d’alta gesta,
      cacciato del suo regno oltra ragione:
      io, che con lui insieme fui cacciata,
      son sua sorella, Angelica nomata.

Sopra alla Tana ducento giornate,
      dove reggemo il nostro tenitoro,
      ce fôr di te le novelle aportate,
      e della giostra e del gran concistoro
      di queste nobil gente qui adunate;
      e come né città, gemme o tesoro
      son premio de virtute, ma si dona
      al vincitor di rose una corona.

Per tanto ha il mio fratel deliberato,
      per sua virtute quivi dimostrare,
      dove il fior de’ baroni è radunato,
      ad uno ad un per giostra contrastare:
      o voglia esser pagano o battizato,
      fuor de la terra lo venga a trovare,
      nel verde prato alla Fonte del Pino,
      dove se dice al Petron di Merlino.

Ma fia questo con tal condizïone
     (colui l’ascolti che si vôl provare):
      ciascun che sia abattuto de lo arcione,
      non possa in altra forma repugnare,
      e senza più contesa sia pregione;
      ma chi potesse Uberto scavalcare,
      colui guadagni la persona mia:
      esso andarà con suoi giganti via».

Al fin delle parole ingenocchiata
      davanti a Carlo attendia risposta.
      Ogni om per meraviglia l’ha mirata,
      ma sopra tutti Orlando a lei s’accosta
      col cor tremante e con vista cangiata,
      benché la voluntà tenìa nascosta;
      e talor gli occhi alla terra bassava,
      ché di se stesso assai si vergognava.

“Ahi paccio Orlando!” nel suo cor dicia
     “come te lasci a voglia trasportare!
     Non vedi tu lo error che te desvia,
      e tanto contra a Dio te fa fallare?
     Dove mi mena la fortuna mia?
     Vedome preso e non mi posso aitare;
      io, che stimavo tutto il mondo nulla,
      senza arme vinto son da una fanciulla.

Io non mi posso dal cor dipartire
      la dolce vista del viso sereno,
      perch’io mi sento senza lei morire,
      e il spirto a poco a poco venir meno.
     Or non mi val la forza, né lo ardire
      contra d’Amor, che m’ha già posto il freno;
      né mi giova saper, né altrui consiglio,
      ch’io vedo il meglio ed al peggior m’appiglio.”

Così tacitamente il baron franco
      si lamentava del novello amore.
     Ma il duca Naimo, ch’è canuto e bianco,
      non avea già de lui men pena al core,
      anci tremava sbigotito e stanco,
      avendo perso in volto ogni colore.
     Ma a che dir più parole? Ogni barone
      di lei si accese, ed anco il re Carlone.

Stava ciascuno immoto e sbigottito,
      mirando quella con sommo diletto;
      ma Feraguto, il giovenetto ardito,
      sembrava vampa viva nello aspetto,
      e ben tre volte prese per partito
      di torla a quei giganti al suo dispetto,
      e tre volte afrenò quel mal pensieri
      per non far tal vergogna allo imperieri.

Or su l’un piede, or su l’altro se muta,
      grattasi ’l capo e non ritrova loco;
     Rainaldo, che ancor lui l’ebbe veduta,
      divenne in faccia rosso come un foco;
      e Malagise, che l’ha cognosciuta,
      dicea pian piano: “Io ti farò tal gioco,
      ribalda incantatrice, che giamai
      de esser qui stata non te vantarai.”

Re Carlo Magno con lungo parlare
      fe’ la risposta a quella damigella,
      per poter seco molto dimorare.
     Mira parlando e mirando favella,
      né cosa alcuna le puote negare,
      ma ciascuna domanda li suggella
      giurando de servarle in su le carte:
      lei coi giganti e col fratel si parte.

Orlando Furioso on Pinterest

Orlando nella visione del disegnatore Luttazzi (per una animazione)

Signori e cavalieri che vi radunate per ascoltare cose piacevoli e nuove, state attenti e tranquilli e ascoltate la bella storia che ispira il mio canto; e vedrete le gesta straordinarie, il grande sforzo e le meravigliose prove che fece il francese Orlando  per amore, nel tempo in cui era re Carlomagno. // Non vi sembri, signori, meraviglioso sentire raccontare di Orlando innamorato, perché anche chi nel mondo è più fiero, è vinto dall’amore e a lui soggiogato; né un braccio muscoloso, né un coraggio vigoroso, né uno scudo o un’armatura, né una spada affilata, né altra forma di vigore potrà mai costituire una difesa tale che alla fine non sia battuta e conquistata da Amore. //  Questa nuova storia è conosciuta da poca gente, perché la nascose lo stesso Turpino, pensando forse che a quel conte fosse poco gradito che le scritture fossero rese palesi, dal momento che fu perdente contro l’Amore lui, che invece vinse tutte le altre battaglie: parlo di Orlando, il cavaliere perfetto. Nessuna parola ora: veniamo alla storia. // (…) // Nella corte c’erano tutti i paladini, per onorare quella piacevole festa, e Parigi era piena di una moltitudine di gente venuta da ogni parte e da tutti gli stati. Vi erano anche molti Saraceni, perché era proclamata la Corte Reale ed ognuno aveva assicurata l’impunità, a meno che non fosse traditore o un rinnegato. // Perciò era giunta dalla Spagna molta gente accompagnata dai suoi forti cavalieri: il re Grandonio, con la faccia di serpe, e Ferraguto dagli occhi di un grifone, Isoliere e Serpentino che furono compagni. Vi parteciparono molti altri, famosi per le grandi gesta, come vi racconterò al momento della giostra. // Parigi risuonava di vari strumenti, di trombe, di tamburi, di campane; sui vedevano grandi cavalli con bardature, di fogge inusuali, grandiose, preziose; tanti ornamenti d’oro e di pietre preziose che le voci umane non avrebbero potuto raccontare; perché, per onorare l’imperatore, ognuno diede sfoggio di sé il più possibile. // Già s’avvicinava il giorno nel quale si doveva cominciare la giostra, quando Carlomagno, in abito reale, fece sedere alla sua mensa tutti i signori e i nobili di nascita, venuti ad onorare la sua festa; e a quella tavola gli invitati furono contati in ventiduemilatrenta. // Re Carlo, con faccia gioiosa, si sedette su una sedia d’oro in mezzo ai paladini della tavola rotonda; di fronte a lui vi erano i Saraceni che non vollero né tavolo né sedie, anzi stettero a giacere sopra tappeti come cani, com’è loro abitudine, disprezzando tra sé e sé l’usanza francese. // (…) Mentre che tutti questi parlano tra loro, risuonarono da ogni parte gli strumenti; ed ecco che l’imperatore manda a ciascun barone piatti enormi d’oro coperti di cibo raffinatissimo, coppe di smalto, finemente lavorate; ad ognuno faceva onore chi di una cosa, chi di un’altra, mostrando di ricordarsi di tutti. // Qui si stava con molta allegria, parlando a bassa voce e di piacevoli argomenti; re Carlo che si vide così onorato tra tanti re, duchi e cavalieri valorosi, disprezza tutti i pagani, considerandoli come granelli di sabbia in preda ai venti; ma una cosa nuova che apparve improvvisamente lo fece sbigottire insieme a tutti gli altri. // Infatti dal fondo della bella sala entrarono quattro enormi e sdegnosi giganti ed in mezzo a loro una fanciulla, seguita da un solo cavaliere. Lei sembrava una stella mattutina un giglio d’oro e una rosa di giardino, insomma a dir la verità, non fu mai vista una simile bellezza. // Era qui nella sala Galerana (moglie di Carlo) ed Alda, moglie di Orlando, Clarice ed Ermelina, così cortese, e molte altre di cui taccio, tutte belle e piene di virtù. Dico, sembravano tutte belle, finché non giunse in sala quel fiore che tolse a tutte l’onore della bellezza. // Tutti i baroni e i principi cristiano hanno rivolto il viso verso di lei, né rimase sdraiato alcun saraceno, ma ciascuno di loro, preso da stupore, si avvicinò alla fanciulla, che con aspetto gioioso e una bocca atteggiata a riso, tale da far innamorare una pietra, parlando a bassa voce, cominciò a dire: // «Magnanimo signore, le tue virtù e le prodi imprese dei tuoi paladini, che sono tanto note nel mondo quanto tutte le terre che il mare circonda, mi danno la speranza che non siano perdute le speranze di due pellegrini, che sono venuti dai remoti confini del mondo per fare onore alla tua felicità. //  E affinché io ti renda chiara in poche parole il motivo che ci ha condotti alla tua festa reale, dico che questo è Uberto dal Leone, nato da nobile stirpe d’imprese gloriose, cacciato dal suo regno ingiustamente, io, che con lui sono stata bandita, sono sua sorella e mi chiamo Angelica. // Duecento giornate di cammino da oltre il Tanai, dove governiamo i nostri territori, ci furono portate le notizie riguardo te, della giostra e del gran raduno di queste nobili persone, qui raccolte, e ci è giunta la notizia che né città, né pietre preziose o tesori saranno premio per il valore, ma al vincitore si darà una corona di rose. // Per questo mio fratello ha deciso, per dimostrare qui il suo valore, dove si è raccolto il fior fiore dei nobili, di combattere a singolar tenzone con ciascuno di essi, sia pagano o cristiano e che (chi lo voglia) lo venga a cercare fuori dalla città, nel prato verde alla Fonte del Pino, nel luogo detto Pietrone di Merlino. // Ma lo scontro avverrà a queste condizioni (ascolti chiunque si vuol cimentare): chiunque sia disarcionato, non potrà tornare a combattere in altro modo e senza altra battaglia sarà prigioniero; ma chi potrà disarcionare Uberto, avrà come premio la mia persona: Uberto se ne andrà via con i suoi giganti. // Alla fine delle parole, inginocchiata di fronte a Carlo, aspettava la risposta. Tutti la guardavano ammirati, ma soprattutto Orlando che con il cuore tremante e lo sguardo incantato, a lei si avvicina, sebbene mascherasse il suo desiderio e talvolta abbassava lo sguardo per la vergogna verso se stesso. // “Ah, pazzo Orlando”, diceva fra sé “come ti lasci traviare dal desiderio, non vedi tu l’errore che ti fa allontanare dalla retta via e ti fa peccare grandemente contro Dio? Dove mi poorta la mia sorte? Mi sento preso e non posso aiutarmi, io che stimavo il mondo un niente, sono vinto, senza combattere, da una ragazzina. // Io non posso allontanare dal cuore la vista del viso sereno, per cui io mi sento morire senza di lei, e lo spirito venir meno a poco a poco; ora non vale nulla la forza, né il coraggio contro l’amore, che mi ha già soggiogato; né mi è d’aiuto conoscere il male, né il consiglio d’altri, sebbene veda il meglio per me e invece seguo il peggio”. // Così silenziosamente il barone francese si lamentava per il nuovo amore. Ma lo stesso duca di Namo, vecchio e con capelli bianchi, non aveva meno il cuore penoso, anzi tremava pieno di sbigottimento e spossato, ormai impallidito nel volto. Ma a che serve raccontare di più? Ogni barone s’innamorò di lei, anche il re Carlo. // Rimaneva ciascuno immobile e sbigottito, guardandola con immenso piacere, ma Ferraguto, giovane ardimentoso, sembrava a vedersi una viva fiamma e per ben tre volte decise ti toglierla a viva forza dai giganti e tre volte rinunciò a siffatti pensieri per non fare un tale affronto all’imperatore. // Rainaldo si dondola ora su un piede, ora su un altro, si gratta la testa e non trova pace ed in faccia è rosso come il fuoco e Malagise, suo cugino, che l’ha riconosciuta, diceva piano, tra sé: “Io ti farò un tale scherzo, incantatrice disonesta, da non farti vantare mai del tuo essere qui venuta”. // Re Carlo, con un prolungato discorso, rispose a quella fanciulla, per potersi trattenere a lungo con lei. Osserva parlando e osservando parla, né può negarle alcuna cosa ma acconsente a ciascuna richiesta, giurando di tenervi fede come se giurasse sul Vangelo; e allora lei, insieme ai giganti va via.    

Il Cavallo dell'Orlando fa ritorno nella Rocca Gazzetta di Reggio

Ugo Sterpini: Orlando Innamorato (Scandiano, località dove Boiardo fu feudatario)

In questo passo tratto dal primo canto possiamo trarre interessanti notazioni circa l’ispirazione e l’arte di Boiardo:

  1. Discendenza diretta dai canterini, con una novità; se in quelli prettamente popolari non mancava mai un’invocazione di tipo religioso, qui è talmente assente, sebbene il rifarsi all’uditorio è tipico di quel mondo;
  2. Il sottolineare che l’opera è nuova perché dice ciò che Turpino tace, vuol dire mettersi in competizione con i cantari popolari (che si rifacevano al”autorità di Turpino): si scopre qui un sottile gioco ironico;
  3. L’interesse insistito verso temi cari a Boiardo: la festa ed il banchetto, lo sfarzo,  l’oro e le pietre preziose; la cortesia cristiana e la rozzezza pagana. Tutte queste cose fanno da contorno all’apparizione di Angelica.
  4. Capacità nel variare le focalizzazioni: se la festa e i suoi convitati vengono visti da un narratore esterno, capace di leggere i pensieri e gli atteggiamenti dei protagonisti, Angelica è letta con gli occhi di chi la vede, quindi con una focalizzazione interna ai personaggi stessi; noi non sappiamo come sia, ma sappiamo quale effetto ha sugli uomini;
  5. La capacità di delineare i personaggi: Orlando, petrarcheggiante e idillico; Ferraguto, comico nell’atteggiarsi; pochi tratti a dirci le loro caratteristiche. 

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ORLANDO ED AGRICANE
(1, XVIII, 29-53)

Orlando ed Agricane un’altra fiata
ripreso insiem avean crudel battaglia;
la più terribil mai non fo mirata:
l’arme l’un l’altro a pezo a pezo taglia.
Vede Agrican sua gente sbaratata,
né li pô dare aiuto che li vaglia,
però che Orlando tanto stretto il tene,
che star con seco a fronte li conviene.

Nel suo secreto fie’ questo pensiero:
trar fuor di schiera quel conte gagliardo,
e poi che occiso l’abbia in su il sentiero
tornar alla battaglia senza tardo;
però che a lui par facile e legiero
cacciar soletto quel popol codardo;
ché tutti insieme, e il suo re Galafrone,
non li stimava quanto un vil bottone.

Con tal proposto se pone a fuggire,
forte correndo sopra alla pianura;
il conte nulla pensa a quel fallire,
anci crede che il faccia per paura;
senza altro dubbio se il pone a seguire.
E già son gionti ad una selva oscura;
aponto in mezo a quella selva piana
era un bel prato intorno a una fontana.

Fermosse ivi Agricane a quella fonte,
e smontò dello arcion per riposare,
ma non se tolse l’elmo della fronte,
né piastra o scudo se volse levare;
e poco dimorò che gionse il conte,
e come il vide alla fonte aspettare,
dissegli: «Cavallier, tu sei fuggito,
e sì forte mostravi e tanto ardito!

Come tanta vergogna pôi soffrire
a dar le spalle ad un sol cavalliero?
Forse credesti la morte fuggire:
or vedi che fallito hai il pensiero.
Chi morir può onorato, die’ morire;
ché spesse volte aviene e de legiero
che, per durare in questa vita trista,
morte e vergogna ad un tratto s’acquista».

Agrican prima rimontò in arcione,
poi con voce suave rispondia:
«Tu sei per certo il più franco barone
ch’io mai trovassi nella vita mia;
e però del tuo scampo fia cagione
la tua prodezza e quella cortesia
che oggi sì grande al campo usato m’hai,
quando soccorso a mia gente donai.

Però te voglio la vita lasciare,
ma non tornasti più per darmi inciampo!
Questo la fuga mi fe’ simulare,
né vi ebbi altro partito a darti scampo.
Se pur te piace meco battagliare,
morto ne rimarrai su questo campo;
ma siami testimonio il celo e il sole
che darti morte me dispiace e duole».

Il conte li rispose molto umano,
perché avea preso già de lui pietate:
«Quanto sei» disse «più franco e soprano,
più di te me rincresce in veritate,
che serai morto, e non sei cristïano,
ed andarai tra l’anime dannate;
ma se vôi il corpo e l’anima salvare,
piglia battesmo, e lasciarotte andare!».

Disse Agricane, e riguardollo in viso:
«Se tu sei cristïano, Orlando sei.
Chi me facesse re del paradiso,
con tal ventura non lo cangiarei;
ma sino or te ricordo e dòtti aviso
che non me parli de’ fatti de’ Dei,
perché potresti predicare in vano:
diffenda il suo ciascun col brando in mano».

Né più parole: ma trasse Tranchera,
e verso Orlando con ardir se affronta.
Or se comincia la battaglia fiera,
con aspri colpi di taglio e di ponta;
ciascuno è di prodezza una lumera,
e sterno insieme, come il libro conta,
da mezo giorno insino a notte scura,
sempre più franchi alla battaglia dura.

Ma poi che il sole avea passato il monte,
e cominciosse a fare il cel stellato,
prima verso il re parlava il conte:
«Che farem», disse «che il giorno ne è andato?»
Disse Agricane con parole pronte:
«Ambo se poseremo in questo prato;
e domatina, come il giorno pare,
ritornaremo insieme a battagliare».

Così de acordo il partito se prese.
Lega il destrier ciascun come li piace,
poi sopra a l’erba verde se distese;
come fosse tra loro antica pace,
l’uno a l’altro vicino era e palese.
Orlando presso al fonte isteso giace,
ed Agricane al bosco più vicino
stassi colcato, a l’ombra de un gran pino.

E ragionando insieme tuttavia
di cose degne e condecente a loro,
guardava il conte il celo e poi dicia:
«Questo che or vediamo, è un bel lavoro,
che fece la divina monarchia;
e la luna de argento, e stelle d’oro,
e la luce del giorno, e il sol lucente,
Dio tutto ha fatto per la umana gente».

Disse Agricane: «Io comprendo per certo
che tu vôi de la fede ragionare;
io de nulla scïenzia sono esperto,
né mai, sendo fanciul, volsi imparare,
e roppi il capo al mastro mio per merto;
poi non si puotè un altro ritrovare
che mi mostrasse libro né scrittura,
tanto ciascun avea di me paura.

E così spesi la mia fanciulezza
in caccie, in giochi de arme e in cavalcare;
né mi par che convenga a gentilezza
star tutto il giorno ne’ libri a pensare;
ma la forza del corpo e la destrezza
conviense al cavalliero esercitare.
Dottrina al prete ed al dottore sta bene:
io tanto saccio quanto mi conviene».

Rispose Orlando: «Io tiro teco a un segno,
che l’arme son de l’omo il primo onore;
ma non già che il saper faccia men degno,
anci lo adorna come un prato il fiore;
ed è simile a un bove, a un sasso, a un legno,
chi non pensa allo eterno Creatore;
né ben se può pensar senza dottrina
la summa maiestate alta e divina».

Disse Agricane: «Egli è gran scortesia
a voler contrastar con avantaggio.
Io te ho scoperto la natura mia,
e te cognosco che sei dotto e saggio.
Se più parlassi, io non risponderia;
piacendoti dormir, dòrmite ad aggio,
e se meco parlare hai pur diletto,
de arme, o de amore a ragionar t’aspetto.

Ora te prego che a quel ch’io dimando
Rispondi il vero, a fè de omo pregiato:
se tu sei veramente quello Orlando
che vien tanto nel mondo nominato;
e perché qua sei gionto, e come, e quando,
e se mai fosti ancora inamorato;
perché ogni cavallier che è senza amore,
se in vista è vivo, vivo è senza core. –

Rispose il conte: «Quello Orlando sono
che occise Almonte e il suo fratel Troiano;
Amor m’ha posto tutto in abandono,
e venir fammi in questo loco strano.
E perché teco più largo ragiono,
voglio che sappi che ’l mio core è in mano
de la figliola del re Galafrone
che ad Albraca dimora nel girone.

Tu fai col patre guerra a gran furore
per prender suo paese e sua castella,
ed io qua son condotto per amore
e per piacere a quella damisella.
Molte fiate son stato per onore
e per la fede mia sopra alla sella;
or sol per acquistar la bella dama
faccio battaglia, ed altro non ho brama».

Quando Agricane ha nel parlare accolto
che questo è Orlando, ed Angelica amava,
fuor di misura se turbò nel volto,
ma per la notte non lo dimostrava;
piangeva sospirando come un stolto,
l’anima, il petto e il spirto li avampava;
e tanta zelosia gli batte il core,
che non è vivo, e di doglia non muore.

Poi disse a Orlando: «Tu debbi pensare
che, come il giorno serà dimostrato,
debbiamo insieme la battaglia fare,
e l’uno o l’altro rimarrà sul prato.
Or de una cosa te voglio pregare,
che, prima che veniamo a cotal piato,
quella donzella che il tuo cor disia,
tu la abandoni, e lascila per mia.

Io non puotria patire, essendo vivo,
che altri con meco amasse il viso adorno;
o l’uno o l’altro al tutto serà privo
del spirto e della dama al novo giorno.
Altri mai non saprà, che questo rivo
e questo bosco che è quivi d’intorno,
che l’abbi riffiutata in cotal loco
e in cotal tempo, che serà sì poco».

Diceva Orlando al re: «Le mie promesse
tutte ho servate, quante mai ne fei;
ma se quel che or me chiedi io promettesse,
e se io il giurassi, io non lo attenderei;
così potria spiccar mie membra istesse,
e levarmi di fronte gli occhi miei,
e viver senza spirto e senza core,
come lasciar de Angelica lo amore».

Il re Agrican, che ardea oltra misura,
non puote tal risposta comportare;
benché sia al mezo della notte scura,
prese Baiardo, e su vi ebbe a montare;
ed orgoglioso, con vista sicura,
iscrida al conte ed ebbelo a sfidare,
dicendo: «Cavallier, la dama gaglia
lasciar convienti, o far meco battaglia».

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Agricane in una compagnia di pupi

Orlando ed Agricane un’altra volta avevano ripreso il crudele duello, non fu mai visto uno più terribile; le armi tagliano l’un l’altro tanti pezzetti di carne. Agricane vede la sua gente messa in fuga, né può dar loro valido aiuto, poiché Orlando non gli dà tregua quindi è costretto ad affrontarlo. Dentro di sé pensò di portare lontano quel forte cavaliere, e, dopo averlo ucciso, tornare senza indugio sullo stesso sentiero a combattere, perché a lui sembra facile e agevole mettere in fuga anche da solo quel popolo di vigliacchi, che tutti, e il loro re Galafrone, stimava quanto un bottone da quattro soldi. Pensando a ciò comincia a fuggire correndo forte sulla pianura; il Conte non pensa affatto a quell’inganno, anzi crede che lo faccia per paura: senza pensarci troppo comincia a seguirlo e sono quindi giunti ad un bosco oscuro. E proprio nel mezzo a quel bosco pianeggiante c’era un bel prato che circondava una fontana. Qui si fermò Agricane, vicino a quella fonte, e scese da cavallo per riposare, ma non si tolse l’elmo, né l’armatura né si volle liberare dello scudo. Aspettò un po’ ed ecco che giunse il conte Orlando, e come lo vide aspettare vicino alla fonte, gli disse: «Cavaliere, tu sei fuggito e ti mostravi così forte e coraggioso! Come puoi sopportare una tal vergogna, dare le spalle ad un solo nemico? Hai pensato forse di fuggire la morte? Ora capisci che ti sei sbagliato. Chi può morire con onore, deve morire, che può capitare facilmente, che per restare in questa triste vita, si acquista in un sol tratto sia la morte che la vergogna». Agricane dapprima rimontò sul cavallo e poi rispose con gentilezza: «Tu sei sicuramente il più leale Barone che io mai ho trovato nella mia vita, perciò saranno causa della tua salvezza la tua prodezza e quella cortesia che oggi mi hai mostrato (nel voler interrompere lo scontro) quando ho portato aiuto alla mia gente.  Per questo ti voglio lasciare la vita, ma vorrei che tu non tornassi indietro a darmi fastidio! Questo è il motivo per cui io ho finto di fuggire non avendo altra possibilità di salvarti. Ma se desideri combattere con me, morirai su questo terreno, ma mi siano testimoni il cielo ed il sole che darti la morte mi dispiace e mi addolora». Il Conte gli rispose in modo cortese: «In quanto sei il più sincero ed il più importante tra i nemici, tanto più in verità mi dispiace per te che morirai da non cristiano e così andrai tra le anime dannate, ma se desideri salvare il corpo e l’anima, battezzati e ti lascerò andar via». Disse Agricane, guardandolo in viso: «Sei cristiano sei Orlando! Se qualcuno mi offrisse di diventare il re del Paradiso, non farei cambio con l’opportunità (di combattere contro di te). Ma già da adesso ti ricordo e ti avviso di non parlarmi di questioni religiose e del destino (che mi spetta), perché predichi inutilmente, ognuno di noi difenda il suo Dio con la spada!» Non disse più nulla, ma tirò fuori Tranchera (la sua spada) e avanzò con coraggio verso Orlando. Ora inizia un crudo combattimento con colpi che tagliano e pungono: ambedue sono esempi di coraggio e duellano – come ci racconta Turpino – da metà mattina fino a notte sempre più ardimentosi nel duro scontro. Ma quando il sole tramontò ed il cielo iniziò a riempirsi di stelle, dapprima fu Orlando che parlò ad Agricane: «Che facciamo? Il sole è tramontato» «Ci sdraieremo su questo terreno e domattina, appena sorge il sole, ricominceremo a duellare». Si misero così d’accordo ed ognuno legò il cavallo, come se tra loro ci fosse un’antica amicizia. Erano vicini, scoperti, Orlando presso la fontana, Agricane a fianco il bosco, sotto l’ombra di un gran pino. E discutendo insieme di cose convenienti a loro, il Conte guardando il cielo diceva: «Questo che ora vediamo e il bel lavoro che ha fatto Dio, la luna e le stelle brillanti, la luce ed il sole; Dio ha questo per tutti gli uomini». Disse Agricane: «Io capisco che tu vuoi parlare di religione. Io non sono esperto di alcuna conoscenza, né mai da ragazzo, ho voluto imparare e, come ricompensa, ho spaccato la testa al mio maestro; in seguito non si è potuto trovare nessuno che mi mostrasse un libro o qualcosa di scritto: avevano tutti paura. E così ho passato la mia giovinezza cacciando, giostrando e cavalcando; né mi sembra sia opportuno alla nobiltà passare le intere giornate sui libri e a pensare. Conviene che un cavaliere eserciti la forza del corpo e l’abilità nella guerra: la dottrina lasciamola ai preti: io so quanto mi conviene». Rispose Orlando: «Sono d’accordo con te su un punto che le armi costituiscono il primo segno d’onore per un uomo, ma ciò non determina che il sapere renda l’uomo meno degno, anzi lo accresce, come fa un fiore in mezzo ad un prato: E’ simile ad un bue, a un sasso, a un pezzo di legno chi non pensa a Dio e non si può pensare a Lui senza cultura». Disse Agricane: «Non è cortese voler discutere da un punto di vista vantaggioso. Io ti ho rivelato la mia natura e riconosco che sei dotto e saggio, ma se continui su questo argomento io non ti rispondo più. Se ti va di dormire, dormi pure, se invece vuoi parlare, aspetto da te discorsi d’arme e d’amore. Ora, ti prego, rispondi a una mia curiosità: se sei tu veramente quell’Orlando  che è così famoso nel mondo, perché e come e quando sei arrivato fin qui e se sei ora innamorato, perchè un cavaliere senza amore se vive lo fa apparentemente, perché è senza cuore». Rispose Orlando: «Sono quell’Orlando che ha ucciso Almonte e suo fratello Troiano. L’amore mi ha posto in tale confusione che mi ha fatto giungere in questo luogo straniero e, per parlarti più chiaramente, voglio che tu sappia che il mio cuore è in mano della figlia del re Galafrone che dimora nella rocca d’Albracà. Tu le porti una gran guerra, per catturare la sua fortezza, ma io sono qui soltanto per l’amore di questa fanciulla, non voglio altro!» Quando Agricane capì che costui era l’Orlando che amava Angelica, il volto gli si turbò, ma, siccome era notte, non lo diede a vedere; piangeva sospirando come uomo fuori da sé; gli bruciavano il petto e l’animo ed il cuore gli batté così forte per la gelosia da non capire se fosse morto o vivo per il dolore. Poi disse a Orlando: «Tu devi pensare che appena si farà giorno dobbiamo combattere e uno di noi rimarrà qui, sul terreno; ora ti voglio pregare di una cosa che prima di giungere ad un tale scontro tu quella fanciulla che desideri l’abbandoni e la lasci a me. Io non potrei sopportare, mentre vivo, che un altro amasse un tal viso quando l’amo io: uno di noi due quando si farà giorno sarà privato dell’amore e della vita; nessuno saprà mai ad eccezione del ruscello e degli alberi che tu, in un momento, l’hai abbandonata». Rispondeva Orlando al re Agricane: «Ho mantenuto tutte le promesse che ho fatto, ma se io promettessi quello che tu mi chiedi e se io lo girassi non lo manterrei, nello stesso modo potrei staccarmi le membra dal mio corpo e strapparmi gli occhi, vivere senza un’anima e senza un cuore, piuttosto che lasciare l’amore per Angelica». Il re Agricane che ardeva di gelosia oltre misura, non può sopportare una tale risposta e sebbene si stia al mezzo dell’oscura notte prese il cavallo Baiardo e vi montò sopra e orgoglioso, con lo sguardo fiero, urla al conte  e lo sfida a duello dicendo: «Cavaliere, la bella donna ti conviene lasciare o combattere con me!».

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Il brano è abbastanza importante perché evidenzia in modo netto la tipologia dell’uomo dell’Umanesimo così come Boiardo lo disegna: in primo luogo si sottolinea la cortesia che non è certo da intendere in modo medievale, ma come capacità di dialogo, di confronto, di gentilezza con cui il Conte e Agricane si confrontano ed il valore militare; tuttavia bisogna anche qui sottolineare una differenza del “nuovo uomo” del ‘400 che accompagna l’essere cavaliere con la cultura (quasi a sottolineare la visione della nobiltà all’interno della corte estense). Tale concetto emerge proprio attraverso il confronto tra Orlando e Agricane, confronto condotto sulla base di una civiltà umanistica portata quasi al convincimento più che all’imposizione. E’ evidente che una narrazione cortese, dove è l’amore a costituire la base dell’intera narrazione, sarà proprio il sentimento verso Angelica che sarà privo di ogni compromesso: l’amore per uno e l’altro cavaliere non può essere concepito come relativo, ma solo come valore totalizzante.