LA CONQUISTA DEL MEDITERRANEO: L'EPICA E IL TEATRO DELLE ORIGINI

Roma, pur con un po’ di “soggezione” verso la più antica cultura greca, comincia ad elaborare delle vere e proprie opere letterarie solamente quando diventa padrona del Mediterraneo. Ma affinché ciò possa accadere deve attraversare uno dei momenti più difficili e carichi di conseguenze della sua storia. A caratterizzare il periodo infatti furono quelle che comunemente sono passate alla storia come le guerre puniche.

Roma e Cartagine, fino a quando l’Urbe non aveva raggiunto Taranto e quindi tutto lo stivale, erano andate nel complesso d’accordo: il nerbo del potere romano era nella terra, quello del potere cartaginese nel mare, nulla poteva far pensare, appunto, a un vicendevole “disturbo”. La conquista del sud Italia, invece, dopo la fuga di Pirro, portava Roma sulle coste mediterranee e, volente o nolente, ad aver a che fare con il mare, di cui la città punica si sentiva padrona. Infatti Cartagine, nata come colonia fenicia, la cui fondatrice mitica aveva il nome Ellissa o Didone, grazie alla posizione favorevole aveva intensificato la sua vocazione commerciale creando avamposti nelle maggiori coste mediterranee: sulle isole Baleari fu costituita Ibiza, in Spagna meridionale videro la luce Malaga, Cadige, Cartagena, in Sardegna furono fondate Cagliari, Sulci, Tharros ed in Sicilia Palermo, Trapani ed Erice. Fu proprio quest’ultima a creare problemi d’attrito con i signori qui presenti come Gerone di Siracusa e Terone di Agrigento, nonché con le città greche, come Catania e Messina. Lo scoppio dell’ostilità con Roma avvenne proprio nella città dello stretto.

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La situazione prima dello scoppio della prima guerra punica

Prima guerra punica

L’annoso problema sulla rivalità tra Gerone e i Cartaginesi si era in qualche modo acuito dopo la partenza di Pirro, sbilanciandosi a favore della popolazione d’origine fenicia. Quest’ultima infatti s’impadronì di quasi tutte le città della Sicilia. I mamertini, soldati mercenari d’origine capuana al soldo di Agatocle (tiranno di Siracusa), alla morte di questi, non avendo più chi li pagava, s’impadronirono di Messina, attirando l’attenzione di Gerone II che voleva ad ogni costo allontanarli. Visti alle strette chiamarono subito in aiuto i Cartaginesi, storici nemici dei greci di Siracusa, poi, visto che il loro aiuto significava sottomettersi, cambiarono e chiamarono i Romani.

Grande fu la discussione in Senato: i grandi proprietari terrieri temevano l’avventura siciliana che avrebbe significato, certamente, la guerra con Cartagine e con le città greche; il ricco ceto mercantile, invece, era favorevole all’intervento, sapendo che ciò avrebbe significato l’apertura di nuovi approdi commerciali. Di fronte a tale situazione la decisione venne demandata ai comizi popolari che di fronte alle ricche terre siciliane votarono a favore. Conquistata Messina, nel 264, dopo aver eluso la sorveglianza Cartaginese, iniziò lo scontro tra le due potenze. Gerone, che per interesse verso Messina s’era in un primo momento alleato con Cartagine, resosi conto che rischiava anch’esso di perdere l’autonomia, rovesciò l’alleanza. Se riuscirono a limitare il loro territorio alla sola parte occidentale dell’isola, era ben chiaro che la guerra con una così grande potenza poteva avvenire soltanto sconfiggendola nel mare. A tale scopo vennero montati sulle navi offerte dagli alleati navali i “rostri” che bloccavano ogni movimento alle agili imbarcazioni cartaginesi, che furono pesantemente sconfitte a Milazzo. Quindi Roma prese in esame un tentativo coraggioso: colpire il nemico al cuore. Nel 256 Attilio Regolo mise sotto assedio Cartagine, riuscendo infine a sconfiggerla. L’orgoglio del romano, che dettò condizioni di pace improponibili, rese più forte la resistenza di Cartagine che, affidatasi allo spartano Santippe, costrinse Roma ad una tragica sconfitta nei pressi di Tunisi. La guerra, quindi, continuò in Sicilia, rendendo quelle terre assolutamente desolate. Si trattò più che altro di una guerra di posizione in cui le contendenti erano ormai esauste. Quando entrò in gioco Amilcare Barca, Roma sembrò proprio capitolare, ma fu proprio il pericolo a dargli forza: approntata una nuova flotta sotto il comando di Lutazio Catulo, Roma vinse una decisiva battaglia presso le isole Egadi. Cartagine non riuscì a reagire: dovette abbandonare la Sicilia, pagare una pesante indennità e restituire, senza riscatto, i prigionieri. Il possesso della Sicilia pose Roma di fronte ad un nuovo problema, essa infatti prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare come disse Cicerone; infatti i Siciliani furono i primi sudditi, privati di ogni libertà politica e sottoposti al governo di un magistrato, di solito un ex console che per questo prende il nome di proconsole. Quindi Roma conquistò, senza colpo ferire, la Sardegna e la Corsica. I mercenari infatti, non pagati per le difficili condizioni economiche della città africana, diedero vita ad una violenta sollevazione cui rispose un altrettanto violenta repressione. Cartagine impegnata in tale difficile frangente dovette osservare inerme l’occupazione romana delle due isole a cui non aveva la forza di ribellarsi. Non dobbiamo inoltre dimenticare che l’Urbe riuscì anche a conquistare i territori dei Galli, dopo la grande paura di una nuova invasione, nell’Italia settentrionale, dando vita a due importanti città Cremona e Piacenza, nate sul corso del Po.

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Salvator Rosa: La morte di Attlio Regolo (XVII sec.)

Seconda guerra punica

La politica cartaginese postbellica era profondamente divisa: da una parte i grandi proprietari terrieri, convinti dell’impossibilità da parte della città di poter ancora essere una grande potenza marittima e quindi ora votata ad una politica sulla terraferma interna, dall’altra quella capitanata dai Barca, presi invece dalla volontà di riscatto essendo anche convinti che prima o poi il conflitto con Roma si sarebbe riacceso. Per far ciò bisognava “ridiventare grande” e quindi ripartirono da una posizione più occidentale dell’Italia. Amilcare Barca, ottenuto i pieni poteri, partì per la Spagna. In pochi anni la terra iberica passò quasi interamente nelle mani cartaginesi. Alla morte di Amilcare il potere passò ad Adrubale. Il figlio di Amilcare e suo nipote pensarono bene che, come Roma aveva colpito Cartagine ferendola al cuore, lo stesso doveva fare loro, tanto più che, scendendo in Italia sarebbe parso come liberatore delle popolazioni soggette a Roma, come quella gallica appena conquistata e le città greche del sud. Pertanto, dopo aver cercato il casus belli con l’assedio di Sagunto, città collocata all’interno della sfera d’influenza cartaginese, ma alleata con Roma, s’apprestò a scendere con un esercito ben addestrato e trentasette elefanti. Mentre a Roma si discuteva (dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur), Annibale marciò con forte velocità lasciando impreparati i Romani tanto che egli poté varcare le Alpi senza che loro riuscissero ad intercettarlo. Il primo scontro avvenne sul Ticino e, seppure con gravi perdite cartaginesi, l’esercito Romano venne distrutto: la conseguenza fu la ribellione delle popolazioni galliche appena conquistate. Quindi continuò a marciare verso sud, e di nuovo, presso il lago Trasimeno, l’esercito romano fu completamente distrutto. Roma venne invasa dal terrore e, chiamato come dictator Quinto Fabio applicò la tattica attendista, cercando di non far approvvigionare l’esercito nemico. Ma tale condotta, che procurò al generale romano la definizione di cunctator (temporeggiatore) provocò la reazione dei piccoli proprietari terrieri che vedevano i loro campi completamente distrutti. Quindi Annibale decise di passare l’inverno in Puglia, mentre a Roma si voleva attaccare battaglia subito. Fu quindi preparato un grande esercito che si andò a situare presso Canne: ma la loro distruzione fu pressoché totale. A favore di Annibale alcune città greche diedero la defezione da Roma e gli si posero a fianco. Tra di esse vi fu Capua.

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Annibale giunge a Roma: particolare affresco Musei Capitolini

La grandezza, in questo frangente, di Roma fu quella di non arrendersi e di avere le popolazioni dell’Italia centrale come fedeli alleate. Inoltre, qui si situa l’errore di Annibale; i Cartaginesi, fermandosi in Campania per attendere rinforzi (che per beghe politiche gli Annoni rifornivano col contagocce) non aveva alcuna intenzione d’attaccare direttamente Roma. Roma cominciò dalla periferia: si prese Agrigento, nonostante alcune macchine d’invenzione d’Archimede, come la leva (alla mitologia appartengono gli specchi ustori). In seguito venne presa anche Capua e distrutta per aver appoggiato Annibale e sistemò anche Filippo V che, a seguito dell’espansionismo romano nell’Illiria, dopo la fine della prima guerra punica, si era alleato con Annibale in funzione antiromana (prima guerra macedonica). Ma la sorte della guerra si giocò in Spagna.

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Thomas Ralph Spence: Archimede dirige la guerra

Fu mandato lì Publio Cornelio Scipione, che colpì la capitale cartaginese in terra spagnola: Cartagena. Ma Asdrubale, fratello minore di Asdrubale, riuscì ugualmente a raggiungere l’Italia, ma fu intercettato nelle Marche, dove venne decapitato. Quindi il Senato mandò in Africa lo stesso Scipione: costui, messosi d’accordo con Massinissa, cui aveva promesso un regno, costrinse Annibale a recarsi velocemente in Africa, ma la vittoria toccò all’esercito romano, presso Zama. A Cartagine non restava che chiedere la pace e le condizioni furono durissime: rinuncia ad ogni possesso fuori dall’Africa, consegna completa di tutta la flotta e soprattutto impossibilità di dichiarare, senza il consenso di Roma, guerra.

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La battaglia di Zama: miniatura per un’edizione trecentesca di Ab urbe condita di Livio (1350 circa)

Guerre macedoniche

Certamente Roma era ormai la padrona incontrastata di tutto il Mediterraneo orientale. L’idea che ormai fosse invincibile e che potesse allargare il suo potere in Oriente era forte, proprio perché gli eredi di Alessandro Magno erano divisi, ma anche soprattutto ricchissimi. Inoltre già aveva avuto a che fare con Filippo V. Annibale, mai domo, ottemperati i doveri verso i Romani, si alleò con il re di Siria, Antioco III. Roma aspettava il casus belli e questo gli fu offerto dai Rodiesi. Filippo V e Antioco III si allearono contro Rodi e quest’ultima chiese aiuto a Roma. Il problema politico diventava culturale; aiutarli avrebbe significato far penetrare la cultura greca con tutte le sue caratteristiche. Si raggiunse il compromesso e la guerra fu dichiarata solo a Filippo V che venne facilmente vinto grazie anche alla compattezza che le libere città greche mostrarono nel combattere con i Romani. Ridimensionato Filippo, toccò ad Antioco III, il quale, di fronte alle rivalità greche che rinacquero dopo la libertà offerta loro dai Romani, vi partecipò in modo interessato. Rifiutò lo sgombero delle truppe dalle Grecia e quindi l’esercito Romano pensò bene di attaccarlo nei suoi territori, ridimensionandone grandemente la potenza. Ma non terminò così. L’intervento romano contro Antioco aveva mostrato cosa Roma intendesse per “libertà greca”. Spaventati da un oppressore “straniero”, si rivolsero ancora a Filippo V che appariva, ai loro occhi, come l’alleato “naturale”. Ma la morte di costui, l’assassino che egli compì verso suo figlio Demetrio, considerato filo romano, l’incapacità del suo erede, Perseo, ebbero la meglio e per i Romani si trattò di costituire quattro nuove province sotto la sua diretta giurisdizione (ma l’importanza fondamentale fu che fra i macedoni catturati ci furono anche grandi intellettuali, come lo storico Polibio).

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Moneta recante l’effigie di Filippo V, re di Macedonia

La terza guerra punica

Non vi è un vero e proprio motivo per cui Roma dovesse distruggere Cartagine: il fatto che si era ripresa non costituiva pericolo, avendo accettato costei d’essere stato satellite di Roma. Ma Roma non poteva tollerare che essa tornasse, non dico ricca, ma sufficientemente prospera e colse la palla al balzo quando Massinissa, che si sentiva assolutamente coperto dall’alleanza con l’Urbe, sconfinava impunemente nei confini della città, recando morte e distruzione. Stanchi di questa situazione i Cartaginesi lo attaccarono e Roma intervenne. Dopo la sua naturale vittoria fece una semplice richiesta: distruggetevi. I Cartaginesi invece vendettero cara la pelle: tre anni ci vollero ai Romani per averla definitivamente vinta. Come sfregio gettarono sul suolo sale. Anche questo territorio divenne provincia, come quello della Spagna, il cui duro assedio terminò con la conquista della loro capitale, Numanzia. Dal 264 a. C., inizio della I guerra punica, al 146, fine della III guerra punica e 133 a. C., Roma si era trasformata, completamente. Cominciava ora il suo compito di unificare in una sola civiltà quello che, iniziato col mondo greco, diverrà sapere occidentale.

Doc. 10. Espansione nel 133 ac.jpgRoma nel 133 dopo la terza guerra punica

L’epica
Introduzione all’epica e al teatro

Che cos’è un poema epico? Se ci si dovesse riferire all’epica arcaica, cioè omerica (VI – V secolo a.C.), esso è una narrazione nella quale vengono raccontate le vicende belliche di un popolo o le peregrinazioni di un eroe, accompagnate dalla volontà divina. Abbiamo pertanto un vero e proprio intreccio tra gli uomini e gli dei, in cui s’intersecano i destini e il fine della vicenda.

L’Iliade narra l’ira di Achille verso Agamennone, che le ha sottratto la schiava. Da qui deriva il suo rifiuto di combattere a fianco dei Greci contro i Troiani, finché l’uccisione di Patroclo, amico di Achille, da parte di Ettore, eroe troiano e l’intervento dello stesso Achille, che rientra in guerra per vendicarlo, fanno terminare il racconto con i suoi funerali.

Diversa è la vicenda dell’Odissea che narra il lungo viaggio per rientrare in patria di Ulisse. Infatti l’opera si apre con Telemaco, suo figlio, che va alla ricerca di notizie del padre, scomparso da dieci anni dopo la fine della guerra. Quindi ritroviamo Ulisse naufrago nella terra dei Feaci, al cui re racconta le sue avventure (Polifemo, Circe, gli inferi, le Sirene, la perdita dei compagni) finché, grazie al loro aiuto, può tornare in patria e, combattendo contro i pretendenti di Penelope, sua moglie, riconquista il regno.

Pur nella diversità i due poemi appartengono ambedue al filone “epico-eroico”. Ad identificarli in questo genere sono alcuni aspetti strutturali:

  • ambientazione in un passato cosiddetto “mitico”
  • linguaggio formulare (che ricorda la trasmissione orale)
  • il verso (nei poemi omerici l’esametro).

Ma a caratterizzarli come “opere” fondative l’identità culturale di un popolo non bisogna dimenticare che in esse vi è racchiusa tutta la conoscenza, sia religiosa che geografica, scientifica e morale che caratterizzava un popolo, riflettendo e veicolando allo stesso tempo il suo modo d’essere.

Quando con l’avvento dello spettacolo teatrale e quindi della filosofia il mondo mitico entrò in crisi, si sostituì ad esso un epos prettamente storico, di cui, però, non abbiamo testimonianza.

Testimonianza diretta, invece, abbiamo dell’epos ellenistico, quello delle Argonautiche di Apollonio Rodio (III – II sec. a.C.), che, chiaramente, non rispondevano più alle esigenze dell’opera omerica. Infatti in esso predomina la brevità (contro i 24 canti dell’Iliade e dell’Odissea, qui solo 4) e l’intento eziologico, cioè la ricerca della spiegazione di un nome “contemporaneo” ad un fatto mitico. Ma ciò che lo caratterizza è la forte presenza di una storia d’amore, assolutamente in secondo piano in Omero.

Se, come abbiamo visto, l’epica rappresenta il modo attraverso cui i Romani cercavano di crearsi un’identità, e, per questo, impararono prima l’arte, con Livio Andronico, quindi posero mano alle proprie opere epiche con il Bellum Poenicum di Nevio e gli Annales di Ennio, fu proprio con il teatro che il contatto con il mondo greco non venne mai meno, sin dall’inizio, da quando cioè Livio Andronico, nel 240 a. C. fece rappresentare, in lingua latina, un’opera originale greca.

Ma prima d’iniziare il discorso sul teatro romano delle origini è opportuno ricordare il modo in cui si struttura il teatro a Roma:

Fabula cothurnata Cothurni, calzari greci per attori delle tragedie Tragedia d’argomento greco
Fabula praetexta Toga praetexta, indossata dai magistrati Tragedia d’argomento romano
Fabula palliata Pallio, mantello quadrato per attori delle commedie Commedia d’argomento greco
Fabula togata Toga, abbigliamento maschile Commedia d’argomento romano

Quanto detto sinora serve ad illustrare il problema secondo il quale il primo intellettuale che a Roma portò la conoscenza del poema epico aveva a sua disposizione più di un modello e se scelse Omero e, più precisamente l’Odissea, non fu propriamente casuale.

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Trasferimento di uno schiavo a Roma

Livio Andronico

Livio Andronico, infatti, da cui si fa nascere la letteratura latina, sembra sia stato il primo a scrivere un testo drammatico (di cui si racconta fosse anche attore), la prima opera in assoluto in lingua latina, era il 240 a. C.

Di lui possediamo pochissime notizie. Si sa che venne portato schiavo, dopo le guerre tarantine, da Livio Salinatore, da cui, appunto, assunse il nome. Sembra inoltre facesse attività di insegnante per i suoi figli (da qui si fa derivare la sua “traduzione” dell’Odissea di Omero) e che, per meriti culturali, fosse stato insignito della carica di direttore nel Collegium scribarum histrionumque. Sappiamo inoltre che egli fu traduttore di commedie e tragedie greche, ma che la sua fama venne subito riconosciuta per la perizia con cui riportò in latino l’opera epica di Omero.

Facendo questo lavoro Livio Andronico fu veramente il primo a porsi un problema che poi avrebbe investito, sino ad oggi, tutta la cultura occidentale e non solo: che cosa è una traduzione? Come si concepisce il passaggio da un codice linguistico ad un altro codice linguistico?

A questo tipo di domande egli rispose definendo, sin da subito, che tradurre non vuol dire riproduzione fedele, ma “adattamento” di un testo alla cultura cui si rivolge, facendo dell’opera un’opera di quella determinata cultura.

Andronico infatti si rivolgeva ad un mondo che non aveva un mito vero e proprio, se non mutuato dalla cultura greca. Pertanto era impossibile per lui strutturare un’opera con tale valenza. Più importante era quindi rivolgersi ai personaggi: se avesse scelto l’Iliade, si sarebbe trovato di fronte ad un vero e proprio “mondo greco”, ad eroi che facevano della guerra di Troia un punto di partenza imprescindibile per la loro affermazione. Partire invece dall’Odissea significava prendere Ulisse come eroe che sì veniva da Troia ma che, viaggiando, aveva toccato le terre italiane, un eroe la cui virtù e pazienza ben si addicevano ad un uomo romano, come anche la fedeltà verso Penelope, e ancora l’amore filiale di Telemaco.

Altri discorsi che vanno oltre il tema devono tuttavia tener presente un dato fondamentale: noi non possediamo che di quest’opera che una quarantina di versi: pertanto i discorsi dei critici si basano, oltre che su di essi, da ciò che gli antichi scrittori di Roma dicevano dell’opera. Partiamo da un dato essenziale: Andronico, per dare “aulicità” al suo dettato poetico usa il verso degli antichi carmina religiosi: il saturnio. Già questo è un primo passo verso la “romanizzazione” del testo: usare il verso ritenuto sacro per dare al suo testo il senso che l’originale aveva per la cultura greca.

Vediamo ora il suo primo verso:

Virum mihi, Camena, insece versutum

Quell’uomo scaltro e accorto cantami, o Camena

che vuole “tradurre” il primo verso omerico:

ἄνδρα μοι ἔννεπε, μοῦσα, πολύτροπον (Andra moi ennepe Musa polutropon),

dove il sostantivo virum e l’aggettivo versutum stanno nella stessa posizione di ἄνδρα e πολύτροπον. Grande importanza ha invece la sostituzione di Musa con Camena, divinità romane arcaiche delle fonti, che avevano la capacità profetiche e divine.

Stesso discorso per il passo in cui Omero nel canto VIII afferma

ού γάρ έγώ γε τί φημι κακώτερον άλλο θαλάσσης
άνδρα γε συγχεύαι, εί καί μάλα καρτερός είη

Io dico che non c’è niente di peggio del mare
per conciar male un uomo, anche se è tanto forte.

in Andronico esso diventa:

Namque nullum peius macerat homonem (hominem)
quamde mare saevum: vires cui sunt magnae
topper … confringent importunae undae

E infatti niente di peggio tormenta un uomo
quanto un mare crudele: colui che ha grandi forze
presto annienteranno onde che non danno scampo

dove sviluppa il senso del pathos.

Come precedentemente detto, Livio Andronico, greco di Taranto, fu il primo a rappresentare, durante i Ludi Romani uno spettacolo teatrale. Tale testimonianza ci viene dallo storico Tito Livio, che nella monumentale opera storica Ab urbe condita ci offre l’analisi delle tappe con cui Roma giunse ad una vera e propria rappresentazione teatrale, ma non ci dice se Andronico abbia presentato una tragedia o commedia, ma solo che l’originale era greco. Questo ci porta subito al problema annoso del vertere latino: come per l’epica, l’autore tarantino traduce e reinterpreta il testo greco, per assimilarlo ad un pubblico, più vasto dei fruitori di poesia, di frequentatori di teatro. Di lui non possediamo alcun frammento, ma solo otto titoli, di cui sei cothurnatae, legate al ciclo troiano (si ripete qui il discorso di come tale ciclo fosse legato ad Enea e quindi ben accetto al pubblico latino) e due palliatae.

Gneo Nevio
Anche un altro grande autore arcaico, Gneo Nevio, che, come Livio Andronico scriverà tragedie e commedie, darà vita ad un importante poema epico, il Bellum Poenicum. Anche su di lui non si hanno notizie sicure: in primo luogo sappiamo che egli fu un cittadino romano, sia pur originario della Campania, e quindi sine suffragio. Combattente durante la prima guerra punica, di cui narrò la vicenda, sembra partecipasse anche alle operazioni della seconda. Di spirito libero, conservatore politicamente, si dice che fosse stato incarcerato per volontà della famiglia dei Metelli. Infatti si schierò contro di loro, che erano fautori di una linea espansionistica, con un verso rimasto famoso:

Fato Metelli Romae fiunt consulae

Per fortuna i Metelli sono fatti consoli a Roma

Ma se a fato do il significato di sfortuna e a Romae il senso di genitivo la traduzione sarà:

Per disgrazia di Roma i Metelli saranno fatti consoli.

Pare che i Metelli diedero alla frase quest’ultimo significato se gli risposero:

Dabunt malum Metelli Neviae poetaë

I Metelli daranno un dispiacere al poeta Nevio

Il Bellum Poenicum è il primo poema storico della letteratura latina. Esso ci è pervenuto in modo assai frammentario. Ma sembra fosse formato da circa quattromila o cinquemila versi in saturnio, obbedendo così sia alla tradizione appena inaugurata da Livio per la scelta del metro, sia al poema alessandrino per la brevità della narrazione. Di esso ci sono giunti solo una sessantina di versi.

L’opera inizia (anche se non si ha certezza) narrando direttamente i fatti inerenti la guerra. Poi forse avrebbe inserito un excursus in cui descriveva l’inizio dell’inimicizia tra Cartagine e Roma, menzionando anche la storia tra Enea e Didone, e quindi, in ulti-mo tornare alla guerra.

Quello che qui interessa è che egli, pur contrapponendosi a Livio per la scelta degli argomenti, si mostra invece ben preparato linguisticamente a rifarsi al modello omerico, come nella scelta di aggettivi composti, che sembrano richiamare gli epiteti dei poemi greci:

dein pollens sagittis inclutus arquitenens
sanctus Iove prognatus Pythius Apollo

Allora il forte arciere, potente di frecce
Pizio Apollo, santo figlio di Giove

L’esempio omerico vuole anche dimostrarci come Nevio volesse inserire il mito all’interno dell’epica nazionale, ma come lo facesse non lo sappiamo, anche perché le parti rimaste sono quasi tutte per lo più legate al mito più che alla storia. Sappiamo che come Livio egli cercasse di coinvolgere il pubblico attraverso il pathos. Si vedano questi tre esempi:

                               (…) amborum uxores
noctu Troiad (Troia) exibant capitibus opertis,
flentes ambae, abeuntes lacrimis cum multis.

(…) le donne di ambedue (Anchise ed Enea)
uscivano di notte da Troia con il capo coperto,
piangenti e andavano con molte lacrime

Eorum sectam sequuntur multi mortales
multi alii e Troia strenui viri:
ubi foras cum auro illinc exibant…

Molti uomini seguivano una parte di loro
molti altri uomini coraggiosi da Troia:
quando uscivano fuori con l’oro da lì…

Senex fretus pietati deum adlocutus

Un vecchio, forte della sua pietà, si rivolse al dio.

Dell’autore campano abbiamo maggiori testimonianze sulla sua esperienza teatrale, determinate da un numero, non certo ampio, di frammenti. Egli fu più noto come autore di commedie che di tragedie, sebbene è a lui che bisogna ascrivere la nascita della praetexta a Roma. Infatti gli vengono attribuiti due titoli che appartenevano sicuramente al genere tragico: il Romulus, sulla fondazione di Roma e il Clastidium, sulla conquista del console Marcello della città insubra (in Italia nord-occidentale) di Casteggio. Inoltre sembra che egli inauguri la tecnica della contaminatio: aggiungere ad una trama parti prese da un’altra opera teatrale.

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Attori romani con maschera (affresco di epoca romana a Palermo)

Per quanto riguarda le commedie egli scrisse sia palliate che togate. Bisogna ricordare che per quanto riguarda i temi, i modi di rappresentazione, la stessa “comicità”, sia i primi autori come Nevio ed Ennio, sia quelli seguenti come Plauto e Terenzio, tutti si rifanno alla commedia nuova greca di cui noi possediamo le opere di Menandro. Infatti si suole dividere la storia della commedia greca in tre fasce: l’antica, di mezzo e nuova. Della prima possediamo l’esempio di Aristofane, la cui comicità appare molto diretta con continui riferimenti all’attualità politica, nessun esempio della seconda, mentre la terza, cui prendono spunto gli autori latini, dà più attenzione ai personaggi e alla loro psicologia (sebbene Plauto spinga più l’acceleratore sulla comicità pura e Terenzio, invece, sul sorriso).

Famosi di Nevio sono i versi dedicati ad una leggera fanciulla: molto probabilmente qui si parla di due studenti di Roma, mandati a Taranto ad approfondire lo studio di greco, che al posto di applicarsi sui libri, preferiscono trascorrere il tempo con allegre fanciulle come appunto la tarentilla (donna di Taranto): 

TARENTILLA

Quasi pila
in coro ludens datatim dat se et communem facit.

Alii adnutat, alii adnictat, alium amat, alium tenet.
Alibi manus est occupata, alii pervellit pedem;
anulum dat alii spectandum, a labris alium invocat,
cum alio cantat, at tamen alii dat digito litteras. 

Come giocando con una palla in un gruppo offre se stessa a tutti e si rende comune. Ad uno annuisce, ad un altro ammicca, un altro ancora ama, un altro lo abbraccia. La mano è occupata altrove, ad uno stuzzica il piede; ad un altro offre l’anello da guardare, dalle labbra invoca uno, con un altro canta ma pure manda lettere ad un altro con un dito.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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