I CREPUSCOLARI

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I crepuscolari

Se, in modo banale, potremo dichiarare la paternità del futurismo a D’Annunzio (nei suoi aspetti vitalistici, nell’amore – non sempre lineare – per la macchina e l’aeroplano, per il suo concetto politico, imperialista ed interventista), potremo dire che la poesia, giocata in minore da Giovanni Pascoli, possa essere ritenuta l’antecedente più immediato per quella che Giuseppe Antonio Borgese definì “poesia crepuscolare”.

Certo, detto così sarebbe un po’ troppo semplice: d’altra parte non mancano momenti magniloquenti nella poesia pascoliana (si pensi alla lirica da poeta vate) e momenti intimistici in D’Annunzio (basti vedere il suo Poema paradisiaco, fonte primaria oserei dire per i Crepuscolari).

In verità se i due modelli s’imponevano quasi obbligatoriamente, la loro musa bisogna ricercarla nella poesia un po’ provinciale ed estenuata dei tardo simbolisti belgi, primo fra tutti Maeterlinck, che insegnò loro quel senso di decadenza fisica ed impotenza verso la vita che i maggiori esponenti di questa scuola tradussero in modo singolare.

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Maurice Maeterlinck

Se infatti possiamo definire scuola quella scapigliata, dovremo dire che i suoi componenti non si frequentarono in modo diretto, ma “decisero” quasi simultaneamente di superare il simbolismo non “intellettualmente”, quanto inconsciamente operato dal Pascoli e la poesia ore rotundo di D’Annunzio.

Le poesie di questi primi anni del Novecento si richiamano a temi più o meno condivisi da tutti e, come già il crepuscolare/futurista Palazzeschi, mettono in discussione il ruolo di poeta nella società che s’avventura verso la Prima guerra mondiale.

Essi cantano soprattutto la vita di provincia, il senso di malattia, le piccole aspettative della borghesia non altolocata, i suoni usurati: cioè tutte quelle cose che le buone donne del tempo solevano mettere nel solaio e che con una sola espressione potremo definire con termine gozzaniano “piccole cose di pessimo gusto”, così come dice in L’amica di nonna Speranza. E’ per questo che il Borgese l’ha chiamati crepuscolari: poesia al crepuscolo, nell’incipiente sera, tra stanchezza e malinconia.

Il primo, colui che si può definire come il caposcuola dei crepuscolari è Sergio Corazzini, non perché ne avesse coscienza, ma perché in una lirica tratta da Piccolo libro inutile (1906) detta la poetica dell’intera scuola:

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Sergio Corazzini interpretato da Giuseppe Di Mauro

SERGIO CORAZZINI
DESOLAZIONE DEL POVERO POETA SENTIMENTALE

I
Perché tu mi dici: poeta?

Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?

II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.

III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tremare d’amore e d’angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

V

Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.

VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.

VII
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.

VIII

Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per essere detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.

In Corazzini troviamo forse l’espressione più chiara (anche se forse un po’ troppo ingenua) di ciò che il crepuscolarismo intendeva per poesia in “minore”, contrapposta certamente a quella dannunziana. Ma il poeta pescarese non è cancellato del tutto: se il suo alter ego, Andrea Sperelli, per ordine del padre, vive la propria vita come fosse un’opera d’arte, risulta evidente che anche il giovanissimo Corazzini, malato di tisi, prossimo alla morte, facesse della propria vita un’opera, non si sa se d’arte, ma di poesia. Infatti il giovane poeta romano sin da giovanissimo ebbe una vita travagliata, determinata dalle speculazioni paterne che portarono la famiglia dal benessere alla povertà e dalla malattia che colpì lui ed il fratello, morti, appunto, giovanissimi (Sergio aveva appena 21 anni).

Anche lui, come D’Annunzio nella Pioggia nel pineto, parte da una prima persona rivolgendosi ad un tu (in D’Annunzio Ermione) immaginario. Ma il giovane poeta in primo luogo si rivolge a se stesso: tono sommesso, riferimenti religiosi lasciano trasparire dolore, malinconia e rimpianto. Sembra quasi che, abbandonato ogni tipo di spiritualismo di maniera, il poeta si lasci per così dire morire in comunione silenziosa e intima con Dio.

Perché il titolo? La Desolazione esprime condizione esistenziale del poeta stanco di vivere e la poesia è fatta di sentimenti comuni, come semplice (povero) è l’animo del poeta espresso con stile prosastico.

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Marino Moretti

Altra la vita di un altro esponente che iniziò la sua attività come poeta crepuscolare, Marino Moretti. Visse infatti a lungo, tanto da attraversare varie fasi letterarie (oltre che poeta fu romanziere e conobbe e fu a contatto con scrittori come Aldo Palazzeschi e Federigo Tozzi). La sua fase crepuscolare la ascriviamo a quattro raccolte poetiche: Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911), i Poemetti di Marino (1913) e Il giardino dei frutti (1916) da cui prendiamo quello che è considerato il suo capolavoro:

A CESENA

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.

Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia della casa senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì , sorella

che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella la tua vita; bella,

bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora o sposa,
io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;

so che quell’uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolento,
il babbo che ti vuole un po’ di bene.

“Mamma!” tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,
che le parli dei miei vïaggi, poi…

poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,

quando, come, perché; ripeti ancora
quando, come, perché; chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo, di nuora.

Parli di una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch’è quasi al tramonto
il nonno ricco del tuo Dino, e dici:
“Vedrai, vedrai se lo terrò di conto”;

parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d’amor proprio, d’amore.

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui,
tutta d’un uomo ch’io conosco appena,

tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me parla… così,
senza dolcezza, mentre piove o spiove:

“La mamma nostra t’avrà detto che…

E poi si vede, ora si vede, e come!
sì, sono incinta… Troppo presto, ahimè!

Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome…
Ho fortuna, è una buona gravidanza…”

Ancora parli, ancora parli, e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. È tardi.

E l’anno scorso eri così bambina!

Poesia emblematica del crepuscolarismo: il critico Bárberi Squarotti la definisce poesia a grado zero: mimesi del parlato, prosaicità dello stile, enjambement e cesure del verso cercano continuamente di nascondere il “poetico” dietro una prosaicità e un dialogato che si distanziano in modo abissale dalla magnificenza dannunziana.

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Cesena inizio ‘900

In Moretti, a livello di riferimento possiamo trovare più che lo stile pascoliano un riferimento biografico: la rottura del nido familiare, sua sorella come Ida, che tradisce il nucleo originario: si osservi il climax ascendente Oh bambina, o sorellina, o nuora o sposa ad indicare il passaggio da compagna di giochi ad estranea. E si osservi ancora la pioggia, topos crepuscolare, che al contrario di quella dannunziana, che monda rimanda al grigiore di una vita senza senso.

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Guido Gozzano

L’esponente più importante del crepuscolarismo è certamente Guido Gozzano. Nato a Torino, nel 1883, non ebbe una vita con grandi avvenimenti. Sin da giovane cercò di emulare una vita (non una poesia) votata all’estetismo, vivendo una travagliata e chiacchierata storia d’amore con una poetessa fra le più conosciute di allora, Amalia Guglielminetti. Ma quel che traspare, anche tra le lettere dei due poeti, è quasi una volontà alla solitudine, dettata dal poeta, quella che potremmo definire, per usare un suo titolo, la Via del rifugio, in cui così lo stesso poeta definisce: ma dunque esisto! O Strano! / vive tra il Tutto e il Niente / questa cosa vivente / detta guidogozzano!. Egli attraversa l’Estetismo, lo ribalta, lo ironizza e in tal modo, più degli altri, attraversandolo (stessa operazione che farà Montale, lettore e ammiratore attento di Gozzano) apre le porte alla poesia maggiore del nostro Novecento.

Tutto ciò è ben presente in Totò Merumeni, nome che vuole riprendere ironicamente il titolo terenziano di una commedia Heautontimorumenos, in cui viene disegnato un velleitario e fallimentare imitatore a cui sarebbe piaciuto essere un po’ D’Annunzio, e si ritrova ad essere solo se stesso, cioè, traducendo il titolo della commedia latina, il punitore di se stesso:

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TOTO’ MERUMENI

I

Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei
balconi secentisti guarniti di verzura,
la villa sembra tolta da certi versi miei,
sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura…

Pensa migliori giorni la villa triste, pensa
gaie brigate sotto gli alberi centenari,
banchetti illustri nella sala da pranzo immensa
e danze nel salone spoglio da gli antiquari.

Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo,
Casa Rattazzi, Casa d’Azeglio, Casa Oddone,
s’arresta un automobile fremendo e sobbalzando;
villosi forestieri picchiano la gorgòne.

S’ode un latrato e un passo, si schiude cautamente

la porta… In quel silenzio di chiostro e di caserma
vive Totò Merùmeni con una madre inferma,
una prozia canuta ed uno zio demente.

II

Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.

Non ricco, giunta l’ora di «vender parolette»
(il suo Petrarca!…) e farsi baratto o gazzettiere,
Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette
ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.

Non è cattivo. Manda soccorso di danaro
al povero, all’amico un cesto di primizie;
non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro
pel tema, l’emigrante per le commendatizie.

Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti,
non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche
«…in verità derido l’inetto che si dice
buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti…».

Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca
coi suoi dolci compagni sull’erba che l’invita;
i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,
un micio, una bertuccia che ha nome Makakita…

III

La Vita si ritolse tutte le sue promesse.
Egli sognò per anni l’Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.

Quando la casa dorme, la giovanetta scalza,
fresca come una prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza
su lui che la possiede, beato e resupino…

IV

Totò non può sentire. Un lento male indomo
inaridì le fonti prime del sentimento;
l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo
ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento.

Ma come le ruine che già seppero il fuoco
esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,
quell’anima riarsa esprime a poco a poco
una fiorita d’esili versi consolatori…

V

Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima.
Chiuso in sé stesso, medita, s’accresce, esplora, intende
la vita dello Spirito che non intese prima.

Perché la voce è poca, e l’arte prediletta
immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va.
Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.

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Il giovane Gozzano

Totò Merùmeni vive in una villa aristocratica, ormai abbandonata da illustri famiglie piemontesi e ora frequentata da forestieri dall’aspetto volgare, segno del mutamento dei tempi. La sua famiglia si caratterizza negativamente: con lui convivono una madre inferma, una prozia canuta, uno zio demente.
Anche Totò ha le caratteristiche di un eroe negativo: è gelido e indifferente, consapevole delle proprie debolezze, è inoffensivo, ma non sa amare. È cioè un inetto, il contrario del superuomo: per anni ha sognato l’amore di donne teatrali e principesche, ma oggi ha una prosaica relazione con una serva diciottenne. Il male morale di Totò sono le complicazioni intellettualistiche, che lo rendono insensibile, amorfo.
Come dalle rovine di un edificio sbocciano i giaggioli, così Totò produce una fioritura di pochi e tenui versi che arrecano consolazione alla sua anima. Egli vive quasi felice, alternando la poesia alla meditazione, consapevole che se la voce di un poeta ha durata breve, al contrario la poesia è eterna. Deluse le aspirazioni e crollati i sogni di una vita eccezionale, non gli resta che accettare il proprio destino e aspettare inerte la fine dell’esistenza.

Gozzano raffigura ironicamente se stesso come un antieroe, un inetto: pur essendo tentato dai miti nietzscheani e dannunziani di una vita eccezionale (come gran parte della generazione del suo tempo), egli è incapace di viverli in prima persona, quindi fa la scelta opposta e preferisce la condizione di isolamento e inattività.

Unico gesto deciso è il suo rifiuto di vendere parolette, ossia di diventare un mestierante che commercia parole, a sottolineare l’incompatibilità tra la poesia e il materialismo del mondo borghese.

Al tono colloquiale, al lessico quotidiano e all’andamento prosastico, scandito dall’adozione del verso lungo, si accompagnano scelte stilistiche auliche con frequenti citazioni letterarie (Petrarca, Ariosto, Nietzsche).

Più famosa, e più importante e la poesia seguente:

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Giovanni Boldini: Profilo di una giovane donna

LA SIGNORINA FELICITA
OVVERO LA FELICITÀ.

I

Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l’orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa….

Vill’Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.

Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Ercole furibondo ed il Centauro,
le gesta dell’eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d’Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia del Nume ghermitore….

Penso l’arredo – che malinconia! –

penso l’arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell’Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere…. Che malinconia!

Antica suppellettile forbita!

Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi pazïente…. Avita
semplicità che l’anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

II 

Quel tuo buon padre – in fama d’usuraio –
quasi bifolco, m’accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell’uve e del massaio,
mi confidava certo antico guaio
notarile, con somma deferenza.

«Senta, avvocato….» E mi traeva inqueto
nel salone, talvolta, con un atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l’ascoltavo docile, distratto
da quell’odor d’inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,

da quel salone buio e troppo vasto….
«…. la Marchesa fuggì…. Le spese cieche….»
da quel parato a ghirlandette, a greche….
«dell’ottocento e dieci, ma il catasto….»
da quel tic-tac dell’orologio guasto….
«….l’ipotecario è morto, e l’ipoteche….»

Capiva poi che non capivo niente
e sbigottiva: «Ma l’ipotecario
è morto, è morto!!…» – «E se l’ipotecario
è morto, allora….» Fortunatamente
tu comparivi tutta sorridente:
«Ecco il nostro malato immaginario!»

III

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga….

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia….

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un’amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l’ignoto villeggiante forestiero.

Talora – già la mensa era imbandita –
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita….

Per la partita, verso ventun’ore
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma – poichè trasognato giocatore –
quei signori m’avevano in dispregio….

M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina….

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell’acciottolio.

Sotto l’immensa cappa del camino
(in me rivive l’anima d’un cuoco
forse….) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d’un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio, e il mio destino….

Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.

IV 

Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò ch’è stato e non sarà più mai,
bianca bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:

«È quella che lasciò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno…. E noi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena…. L’han veduta alcuni
lasciare il quadro; in certi noviluni
s’ode il suo passo lungo i corridoi….»

Il nostro passo diffondeva l’eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l’un piede ignudo in mano,
si riposava all’ombra d’uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.

Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v’era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!

Tra i materassi logori e le ceste
v’erano stampe di persone egregie;
incoronato delle frondi regie
v’era Torquato nei giardini d’Este.
«Avvocato, perchè su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliegie?»

Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
tre ceste, un canterano dell’Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!

Allora, quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dall’abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.

Non vero (e bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.

Ecco – pensavo – questa è l’Amarena,
ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei «cosi
con due gambe» che fanno tanta pena….

L’Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere
vane, divisi e suddivisi a schiere
opposte, intesi all’odio e alle percosse:

così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere….

Schierati al sole o all’ombra della Croce,
tutti travolge il turbine dell’oro;
o Musa – oimè – che può giovare loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell’oro, dell’alloro….

L’alloro…. Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l’alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui….

«Avvocato, non parla: che cos’ha?»
«Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città….
Sarebbe dolce restar qui, con Lei!…»
«Qui, nel solaio?…» – «Per l’eternità!»
«Per sempre? accetterebbe?…» – «Accetterei!»

Tacqui. Scorgevo un atropo soletto

e prigioniero. Stavasi in riposo
alla parete: il segno spaventoso
chiuso tra l’ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
si librò con un ronzo lamentoso.

«Che ronzo triste!» – «È la Marchesa in pianto….

La Dannata sarà, che porta pena….»
Nulla s’udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino tu mi piaci tanto,
siccome piace al mar una sirena….

Un richiamo s’alzò, querulo e rôco:

«È Maddalena inqueta che si tardi:
scendiamo: è l’ora della cena!» – «Guardi,
guardi il tramonto, là…. Com’è di fuoco!…
Restiamo ancora un poco!» – «Andiamo, è tardi!»
«Signorina, restiamo ancora un poco!…»

Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pipistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s’annunciò la notte
sulla serenità canavesana….

«Una stella!…» – «Tre stelle!…» – «Quattro stelle!…»
«Cinque stelle!» – «Non sembra di sognare?…»
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessità crepuscolare:
«Scendiamo! È tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle….»

V 

Ozi beati a mezzo la giornata,
nel parco dei Marchesi, ove la traccia
restava appena dell’età passata!
Le Stagioni camuse e senza braccia,
fra mucchi di letame e di vinaccia,
dominavano i porri e l’insalata.

L’insalata, i legumi produttivi
deridevano il busso delle aiole;
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggitivi….
Io ti parlavo, piano, e tu cucivi
innebriata dalle mie parole.

«Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m’avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!

Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell’aurora che dicono: l’Amore….»

Tu mi fissavi…. Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
«Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?»

«Perchè mi fa tali discorsi vani?
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!…»
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia, come fa la scolaretta.

Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza:
«Non mi ten….ga mai più…. tali dis…. corsi!»

«Piange?» E tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l’orecchio, il collo snello….
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d’improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.

Donna: mistero senza fine bello!

VI 

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte….

Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi…. E non mediti Nietzsche
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda….

Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista….

Ed io non voglio più essere io!

VII

Il farmacista nella farmacia
m’elogïava un farmaco sagace:
«Vedrà che dorme le sue notti in pace:
un sonnifero d’oro, in fede mia!»
Narrava, intanto, certa gelosia
con non so che loquacità mordace.

«Ma c’è il notaio pazzo di quell’oca!
Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!
La Signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca….
E la dote…. la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse nemmeno….»

«Ma dunque?» – «C’è il notaio furibondo
con Lei, con me che volli presentarla
a Lei; non mi saluta, non mi parla….»
«È geloso?» – «Geloso! Un finimondo!…»
«Pettegolezzi!…» – «Ma non Le nascondo
che temo, temo qualche brutta ciarla….»

«Non tema! Parto.» – «Parte? E va lontana?»
«Molto lontano…. Vede, cade a mezzo
ogni motivo di pettegolezzo….»
«Davvero parte? Quando?» – «In settimana….»
Ed uscii dall’odor d’ipecacuana
nel plenilunio settembrino, al rezzo.

Andai vagando nel silenzio amico,

triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
su quel dolce paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva «un punto sopra gigante».

In molti mesti e pochi sogni lieti,
solo pellegrinai col mio rimpianto
fra le siepi, le vigne, i castagneti
quasi d’argento fatti nell’incanto;
e al cancello sostai del camposanto
come s’usa nei libri dei poeti.

Voi che posate già sull’altra riva,
immuni dalla gioia, dallo strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l’Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

A lungo meditai, senza ritrarre

la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
s’udiva il grido delle strigi alterno….
La Luna, prigioniera fra le sbarre,
imitava con sue luci bizzarre
gli amanti che si baciano in eterno.

Bacio lunare, fra le nubi chiare
come di moda settant’anni fa!
Ecco la Morte e la Felicità!
L’una m’incalza quando l’altra appare;
quella m’esilia in terra d’oltremare,
questa promette il bene che sarà….

VIII

Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.

«Vïaggio con le rondini stamane….»
«Dove andrà?» – «Dove andrò! Non so…. Vïaggio,
vïaggio per fuggire altro vïaggio….
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio….

Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarà d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?»
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda
trenta settembre novecentosette….
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.

Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti….
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole….

«Un altro stormo s’alza!…» – «Ecco s’avvia!»
«Sono partite….» – «E non le salutò!…»
«Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò….»

Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine….

M’apparisti così, come in un cantico
del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico….

Quello che fingo d’essere e non sono!

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Villa Amarena: luogo dell’incontro tra Gozzano e Felicita

Quello che colpisce in questo lungo poemetto formato da otto parti con stanze in versi endecasillabi è la sua compattezza narrativa, racchiusa in due strofe in cui il poeta ricorda l’episodio, il suo andare, come ospite, in una villa, sul Canavese (località posta a nord del Piemonte). Lo stesso ricordo si colora, sin dalle prime battute di cose semplici, quotidiane, tutte rivestite da questa giovane donna che già nel nome richiama un’aspirazione, la felicità. Quindi la descrizione della villa, non certo principesca, circondata da “misteri”, che la rendono popolare per il visitatore intellettuale, che la metaforizza come una dama secentesca. Gli ovali dipinti sopra le sovrapporte ci dicono della sua cultura, ma come essa venga utilizzata in modo kitsch, cioè inconsapevole, frammista da foto di ballerine alla moda.

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Un’altra immagine di Guido Gozzano

La seconda parte rimarca la distanza, direi abissale tra i due personaggi, è svolta con grande perizia e un sottile filo sia di cattiveria (quasi invidiata) che sottolinea da una parte il senso pratico del vivere e quello di “scollamento dal mondo”: il padrone della villa, in fama di usuraio, il padre di Felicita, tutto teso agli affari e la vaghezza dell’avvocato, intellettuale e letterato.

L’incipit della terza parte, forse uno dei più belli della poesia novecentesca, ci mostra una donna tipicamente antidannunziana, nobilitata, tuttavia alla fine della 1 strofe, da un richiamo alla pittura fiamminga. Quindi procede con un ritmo narrativo: gli invitati più in vista della località che si recano per una piacevole partita, la semplice cucina di Maddalena (la domestica di casa), gli odori quotidiani… tra questi la riflessioni sulla sua creatività fatta di tali cose e sulla sua vita, bugiarda, basata sull’allontanamento, a vederla, più che a viverla (i giocatori lo dispregiano, la solitudine “psichica”, il sorriso disarmante d’una impossibile, ma desiderabile, vita).

La quarta parte descrive ciò che il poeta e la giovane donna vivono nel solaio: da una cassapanca ecco emergere vecchi quadri, vecchio vasellame, trappole per topi ormai in disuso ed altro: E’ la morte delle cose e forse anche dell’io del poeta, per questo piacevoli a cantarsi. E’ la parte in cui l’allontanamento dal mondo reale si fa più forte, la distanza dalla vita quasi abissale, con quella similitudine fra l’io poeta e l’essere poeta, con quell’immagine di Tasso e la sua triste fine. Ma la capacità di Gozzano è nel sorriso, nell’ignoranza, sottolineata quasi con discrezione, della ragazza che confonde l’alloro poetico con un ramo di ciliegie. Ne segue un momento quasi idilliaco: i due dall’abbaino secentesco guardano il mondo: per lui un altro momento per isolarsi da esso, per vederlo dall’esterno, per lei solo un panorama romantico. Non è un caso che Gozzano di fronte ad essa pensi alla morte, all’inutilità della lotta politica, espressione che sembra riprendere, almeno per l’idea la Batracomiomachia di leopardiana memoria, ma che verrà ripresa, in modo simile da Montale, nella poesia La storia. Ancora dopo la meditazione della volgarizzazione della vita cittadina, la voglia di una vita semplice l’impossibilità di viverla.

Tale concetto si ripete nella quinta parte, ma qui viene messa maggiormente in evidenza la distanza tra le donne dannunziane (da lui realmente frequentate a Torino) e la semplicità di Felicita, la sua profonda ingenuità, e con un semplice tratto una delle più belle pagine sul mutevole animo di una fanciulla: un pianto, un sorriso, un attimo di vita (ma lui può solo descriverla)

La sesta parte rimarca il desiderio di una vita semplice e l’impossibilità di esso: una vita fatta di piccole cose e l’irrealizzabilità di essa determinata dall’essere intellettuale (Io mi vergogno d’essere poeta!, topos crepuscolare con il corazziniano Perché tu mi dici poeta? / Io non sono un poeta e il palazzeschiano Son forse un poeta? / No certo). Vi è che lui, per usare le sue parole non vuole essere più stesso, l’esteta gelido, il sofista: potremo dire quasi il dannunzianesimo che è rimasto dentro di lui. Egli è colui che pensa la vita e non può viverla, voler essere qualcun altro e il non poterlo essere.

La settima riprende la narrazione: l’amicizia dell’avvocato con la giovane Felicita ha dato vita a delle chiacchiere, a delle invidie, a giudizi poco lusinghieri. E’ quasi necessario che l’avvocato parta. E nel camminare in luoghi deserti, sempre lontano dalla vita, Gozzano riflette sulla malattia e sulla morte che gli preme nei polmoni, antitetica alla felicità: l’a prima lo spinge al viaggio in India (che realmente effettuerà a cercare refrigerio), l’altra è una promessa senza realtà.

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Gozzano in India

L’ottava e ultima parte: è il momento degli addii e delle promesse, delle bugie dette a lei, ma anche a se stesso: lei, quasi bambina innamorata, incide, novella Angelica, su un muro i loro nomi dentro una ghirlanda; lui non sorride, consapevole della distanza abissale che, quasi impietosamente, a chiusa del poemetto, Gozzano sembra sottolineare: una eroina d’un cantico del Prati, di una poesia dozzinale, di un romanticismo becero, consunto: lui ha giocato a fare il romantico: infatti ha finto d’essere ciò che nella realtà non è.

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Guido Gozzano con la madre

 

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