PLINIO IL VECCHIO

Biografia

Sulla vita di Gaio Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio ci informa, attraverso il suo Epistolario, il nipote, figlio di una sorella, Cecilio Secondo, detto appunto, per distringuerlo dal famoso zio, Plinio il Giovane.
Nasce a Secundum Comum, l’attale Como, intorno al 27 d.C., da famiglia di origine equestre. Come gran parte dei giovani si traferì a Roma dove compì studi retorici. In seguito, sotto l’imperatore Claudio, iniziò la carriera militare che lo portò a partecipare in modo non continuativo a due campagne militari in Germania, tra il 45 e il 58. Tornato a Roma, si eclissò durante Nerone (di cui molto probabilmente non condivideva la politica), per poi riaffacciarsi sotto Vespasiano, che lo impiegò in cariche amministrative e militari: fu procuratore nella Gallia Narborense, poi in Africa ed infine nella Gallia Belgica.

Nel 79 divenne un membro importante dei consiglieri del princeps e fu nominato prefetto della flotta imperiale di Capo Miseno in Campania. Era in servizio quando avvenne la devastante eruzione del Vesuvio, che avrebbe causato la distruzione di Ercolano, Pompei e Stabia. Plinio si recò sul posto sia per portare aiuto alle popolazioni colpite sia per studiare “da vicino” il fenomeno, ma, investito da esalazioni tossiche dovute all’eruzione o per un probabile collasso, morì il 25 agosto dello stesso anno.
La sua morte ci viene raccontata in modo mirabile e dettagliato in una lettera che suo nipote indirizza al grande storico Tacito.

Il grande classico. Le confessioni di Plinio il Giovane - la Repubblica

Thomas Burke: Plinio il Vecchio rimprovera il giovane nipote perchè non pone attenzione all’eruzione del Vesuvio

Personalità e opere perdute

Da Plinio il Giovane sappiamo che fu

Sed erat acris ingenium, incredibile studium, summa vigilantia. Lucubrare a Volcanalibus incipiebat, non auspicandi causa, sed studiendi, statim a nocte multa; hieme vero hora septima, vel cum tardissime, octava, saepe sexta. Erat sane somni paratissimi, nonnumquam etiam inter studia instantis et deserentis. Ante lucem ibat ad Vespasianum imperatorem: nam ille quoque noctibus utebatur: inde ad delegatum sibi officium. Reversum domum, quod reliquum erat temporis, studiis reddebat.

Ma egli possedeva un ingegno penetrante, una passione incredibile, un’insuperabile capacità di resistere al sonno. Incominciava le sue veglie di lavoro durante le feste di Vulcano e ciò non per trarre degli auspici favorevoli, ma per procurarsi del tempo favorevole allo studio: allora iniziava quando ormai era notte fonda, d’inverno invece vi si accingeva all’una o, quando faceva più tardi, alle due, spesso a mezzogiorno: va ad ogni modo ricordato che gli era assai pronto ad addormentarsi; talora anche durante le sue stesse indagini erudite si appisolava e si risvegliava. Prima di giorno andava dall’imperatore Vespasiano (poiché anch’egli sfruttava le notti per i suoi lavori) poi all’ufficio che gli era stato affidato. Tornato a casa, il tempo che gli rimaneva lo dedicava allo studio.  (trad. di F. Trisoglio)

Questa sua indefessa attitudine verso lo studio gli permisero di comporre opere storiche, come Bella Germaniae (Sulle guerre germaniche), A fine Aufidi Bassi una storia che trattava il priodo tra il 50 ed il 70 riprendendo l’opera precedente dello storico Aufidio Basso, De iaculatione equestri (Sul modo di lanciare il giavellotto dal cavallo) e il De vita Pomponi Secundi (Sulla vita di Pomponio Secondo, un poeta tragico). Tutte queste opere, più altre di carattere puramente retorico-letterario, sono andate perdute. L’unica opera pervenuta è la Naturalis historia.

Edizione del 1573

Naturalis historia

Potremo definire la Naturalis historia come una vastissima enciclopedia in 37 libri. Tale opera è così strutturata:

Libro I: indice e fonti;
Libro II: Cosmologia e geografia fisica;
Libri III – VI: Geografia;
Libro VII: Antropologia
Libri VIII – XI: Zoologia
Libri XII – XIX: Botanica
Libri XX – XXXII: Medicina;
Libri XXXIII – XXXVII: Matallurgia e mineralogia (con excursus sulla storia dell’arte).

Appare evidente dagli argomenti appartenenti ai vari libri che l’opera di Plinio tende ad abbracciare l’intero scibile. Se infatti esistevano opere di trattatistica (De architectura di Vitruvio o De re rustica di Columella, per citare i più famosi), nessuno si era posto il fine di raccogliere in modo integrale tutto ciò che presentava la natura o che il mondo aveva elaborato, neppure nella letteratura greca.

Si trattava per l’autore comasco d’inventariare la somma delle conoscenze dell’uomo e forse ciò ne indica la finalità. Il fatto stesso di porre all’inizio di essa l’indice e le fonti delle infomazioni fa sì che essa possa essere utilizzata come un’enciclopedia da cui il lettore romano colto poteva scegliere di volta in volta l’argomento più consono ai suoi interessi o ai suoi bisogni del momento.

Il metodo di lavoro ce lo indica lui stesso in un passo, dal carattere proemiale, appartenente ai libri XXVIII – XXXII riguardante i rimedi medici tratti dagli animali:La 'fortuna' critica dell'artista donna: tutto nasce da una storiografia al maschile?

L’AUTORITA’ DELLE FONTI
(28, 1-3)

Dictae erant naturae omnium rerum inter caelum ac terram nascentium, restabantque quae ex ipsa tellure fodiuntur, si non herbarum ac fruticum tractata remedia auferrent traversos ex ipsis animalibus, quae sanantur, reperta maiore medicina. Quid ergo? Dixerimus herbas et florum imagines ac pleraque inventu rara ac difficilia, iidem tacebimus, quid in ipso homine prosit homini, ceteraque genera remediorum inter nos viventia, cum praesertim nisi carenti doloribus morbisque vita ipsa poena fiat? Minime vero, omnemque insumemus operam, licet fastidii periculum urgeat, quando ita decretum est, minorem gratiae quam utilitatium vitae respectum habere. Quin immo externa quoque et barbaros etiam ritus indagabimus. Fides tantum auctores appellet, quamquam et ipsi consensu prope iudicii ista eligere laboravimus potiusque curae rerum quam copiae institimus. Illud admonuisse perquam necessarium est, dictas iam a nobis naturas animalium et quae cuiusque essent inventa – neque enim minus profuere medicinas reperiendo quam prosunt praebendo – nunc quae in ipsis auxilientur indicari, neque illic in totum omissa; itaque haec esse quidem alia, illis tamen conexa.

Avevamo finito di illustrare le proprietà di tutte le forme di vita comprese tra il cielo e la terra e restava da parlare dei prodotti che si estraggono dal suolo; ma il fatto di aver trattato i rimedi ricavati dalle erbe e dalle piante ci distoglie dal programma e ci indirizza verso una medicina più efficace, quella offerta dalle creature del Regno animale che ne sono anche l’oggetto. E allora? Avremmo descritto le piante, l’aspetto dei fiori e tanti vegetali rari e difficili da trovarsi, e poi dovremmo tacere delle risorse presenti nell’uomo stesso da lui utilizzabili, e degli altri tipi di rimedio che vivono in mezzo a noi, quando sappiamo che solo per chi è esente da dolore e malattie la vita in sè non è un tormento? No di certo. Anzi vi metteremo tutto il nostro impegno, anche a rischio di diventare noiosi; Abbiamo infatti deciso di preoccuparci più dell’utilità pratica che della piacevolezza. Indagheremo perfino le usanze straniere e le pratiche dei barbari. Ci affideremo soltanto alle autorità delle fonti, sebbene anche personalmente siamo giunti ad una scelta del materiale in base all’accordo delle testimonianze, privilegiando l’esattezza rispetto all’abbondanza. Ma è necessaria una premessa: abbiamo già parlato delle proprietà degli animali e delle scoperte dovute a ciascuno di essi – infatti furono utili come scopritori di terapie e continuano ad esserlo col fornircele essi stessi -; ora dovremmo descrivere i rimedi che racchiudono in sé, materia parzialmente trattata nei libri precedenti. Così la presente esposizione è diversa, ma al tempo stesso collegata con quella di prima. (trad. di U. Capiani e I. Garofalo)

Il passo in primo luogo ci conferma come Plinio, sapendo che la sua opera è di consultazione, lo inserisca tra gli argomenti che lo hanno preceduto e che lo seguiranno. Inoltre ricorda che questa materia era sta già sommariamente affrontata (“abbiamo già parlato delle proprietà degli animali e delle scoperte dovute a ciascuno di essi”), quindi ci dice in che modo egli è andato a “ricercare” le informazioni per affrontarla: autorità delle fonti e scelta del materiale sulla base dell’autorevolezza e precisione delle testimonianze. Per meglio dire “proprio perché l’intenzione è l’utilità pratica, Plinio si preoccupa di segnalare che quanto scrive è tratto dagli autori più degni fede”: d’altra parte non dovremo meravigliarci. Come poteva un autore antico procedere a verifiche sperimentali o giungere in luoghi – i più disparati – dove alcuni fenomeni avvenivano?

Tale metodologia lo porta a riportare tutto ciò che si dice su un determinato argomento, come accadeva nella paradossografia (genere letterario nato in età ellenistica in cui si raccoglievano i paradossi o le mirabilia) e a stare un po’ lontano dal rigore scientifico aristotelico e finanche dal Seneca delle Naturales quaestiones.

LUPI E LUPI MANNARI
(VIII, 80-84)

Sed in Italia quoque creditur luporum visus esse noxius vocemque homini, quem priores contemplentur, adimere ad praesens. Inertes hos parvosque Africa et Aegyptus gignunt, asperos trucesque frigidior plaga. Homines in lupos verti rursusque restitui sibi falsum esse confidenter existimare debemus aut credere omnia quae fabulosa tot saeculis conperimus. Unde tamen ista vulgo infixa sit fama in tantum, ut in maledictis versipelles habeat, indicabitur. Evanthes, inter auctores Graeciae non spretus, scribit Arcadas tradere ex gente Anthi cuiusdam sorte familiae lectum ad stagnum quoddam regionis eius duci vestituque in quercu suspenso tranare atque abire in deserta transfigurarique in lupum et cum ceteris eiusdem generis congregari per annos VIIII. Quo in tempore si homine se abstinuerit, reverti ad idem stagnum et, cum tranaverit, effigiem recipere, ad pristinum habitum addito novem annorum senio. Id quoque adicit, eandem recipere vestem. Mirum est quo procedat Graeca credulitas! Nullum tam inpudens mendacium est, ut teste careat. Item Scopas, qui Olympionicas scripsit, narrat Demaenetum Parrhasium in sacrificio, quod Arcades Iovi Lycaeo humana etiamtum hostia faciebant, immolati pueri exta degustasse et in lupum se convertisse, eundem X anno restitutum athleticae se exercuisse in pugilatu victoremque Olympia reversum. Quin et caudae huius animalis creditur vulgo inesse amatorium virus exiguo in villo eumque, cum capiatur, abici nec idem pollere nisi viventi dereptum. Dies, quibus coeat, toto anno non amplius duodecim. Eundem in fame vesci terra inter auguria; ad dexteram commeantium praeciso itinere si pleno id ore fecerit, nullum ominum praestantius. Sunt in eo genere qui cervari vocantur, qualem e Gallia in Pompei Magni harena spectatum diximus. Huic quamvis in fame mandenti, si respexerit, oblivionem cibi subrepere aiunt digressumque quaerere aliud.Un lupo mannaro a...Taranto - MediterraneoAntico

Anche in Italia si crede che lo sguardo dei Lupi sia dannoso e che tolgano l’uso della voce ad un uomo se lo guardano per primi. Africa ed Egitto li producono senza vigore e piccoli, mentre i paesi più freddi generano esemplari forti e feroci. Dobbiamo ritenere senz’altro falso quello che gli uomini possano trasformarsi in lupi e poi tornare uomini, oppure dobbiamo credere a tutte quelle favole che da tanti secoli sappiamo essere tali. Nondimeno indicherò l’origine di questa diceria, così radicata fra il popolo che l’espressione «lupo mannaro» si usa come insulto. Secondo Evante, che pure non è disprezzabile fra gli autori greci, in Arcadia si racconta che un membro della famiglia di un certo Anto viene tirato a sorte e condotto presso uno stagno di quella regione. Appesa la veste a una quercia, egli passa a nuoto lo specchio d’acqua e se ne va in luoghi deserti e si trasforma in lupo, e rimane per nove anni in un branco insieme agli altri di quella specie. Se durante questo periodo si è tenuto lontano dall’uomo, ritorna poi a quello stesso stagno, e riattraversatelo, riprende il suo aspetto umano, e alla sua antica immagine si aggiunge un invecchiamento di nove anni. Lo scrittore aggiunge anche questo particolare, che riprende la stessa veste. E straordinario fino a che punto si spinga la credulità dei Greci. Nessuna bugia è tanto spudorata da essere priva dell’autorità di un testimone. Così Scopas, che scrisse Gli olimpionici, narra che Demeneto di Parrasia, durante un sacrificio che gli Arcadi facevano a Giove Liceo, ancora a quel tempo con vittime umane, mangiò le viscere di un ragazzo che era stato immolato e si trasformò in lupo; egli stesso, riacquistata forma umana dopo nove anni, si esercitò nel pugilato e ritornò vincitore da Olimpia. Inoltre il popolo crede che nella coda di questo animale ci sia un talismano amoroso in un piccolo ciuffo di peli e che il lupo, quando viene catturato, lo getti via: il talismano non ha alcuna proprietà se non è strappato ad un’esemplare vivo. Si crede che i giorni nei quali il lupo può accoppiarsi nell’arco di un intero anno non siano più di dodici e che quando ha fame mangi la terra; fra i presagi, se un lupo taglia la strada a destra di chi cammina e ha la bocca piena, nessun auspicio è più favorevole. Fanno parte di questa specie di animali chiamati lupi cervieri, come quello che abbiamo detto fu portato dalla Gallia e si vide nell’arena durante i giochi di Pompeo Magno. Dicono che questo, mentre mangia, per quanto sia affamato, se guarda dietro di sé, si dimentica di ciò che sta mangiando e se ne va a cercare altro cibo. (trad. E. Giannerelli)

E’ questo un passo tratto dalla sezione riguardante la zoologia. Possiamo notare come qui l’autore citi sia dati reali che le cosiddette mirabilia, cioè aneddoti curiosi e superstizioni. Questo testimonia come di un argomento egli tenda a dirci tutto, ma nello stesso tempo come polemizzi sull’attendibilità delle fonti greche sulla credulità popolare.
Se mai dovessimo trovare nell’opera di Plinio un sottofondo filosofico, potremmo indicarlo nello stoicismo, cioè in quella visione del logos che guida l’intero mondo, che l’uomo deve conoscere per far sì che egli possa rispecchiarne in sé la sua virtù; ma sarebbe “limitante”. Più che un solo riferimento in lui dobbiamo parlare di un vera e propria affabulazione di tutto il sapere, tanto da fargli dire che non esisteva nessun libro tanto brutto da non avere in sé qualche utilità.
In questo abbracciare il mondo e riflettere su di esso, Plinio, pur a volte così lontano dalla nostra sensibilità scientifica, arriva a delle riflessioni che suscitano in noi meraviglia per la loro modernità:

Plinio e Leopardi

LA NATURA MATRIGNA
(7, 1 – 3)

Mundus et in eo terrae, gentes, maria, flumina insignia, insulae, urbes ad hunc modum se habent, animantium in eodem natura nullius prope partis contemplatione minore, si quidem omnia exequi humanus animus queat. Principium iure tribuetur homini, cuius causa videtur cuncta alia genuisse natura, magna, saeva mercede contra tanta sua munera, ut non sit satis aestimare, parens melior homini an tristior noverca fuit. Ante omnia unum animantium cunctorum alienis velat opibus. Ceteris varie tegimenta tribuit, testas, cortices, coria, spinas, villos, saetas, pilos, plumam, pinnas, squamas, vellera; truncos etiam arboresque cortice, interdum gemino, a frigoribus et calore tutata est: homine tantum nudum et in nuda humo natali die abicit ad vagitus statim et ploratum, nullumque tot animalium aliud ad lacrimas, et has protinus vitae principio; at Hercule risus precox ille et celerrimus ante XL diem nulli datur. Ab hoc lucis rudimento quae ne feras quidem inter nos genitas vincula excipiunt et omnium membrorum nexus; itaque feliciter natus iacet manibus pedibusque devinctis, flens animal ceteris imperaturum, et a suppliciis vitam auspicatur unam tantum ob culpam, qua natum est. Heu dementia ab his initiis existimantium ad superiam se genitos!

Così, come l’ho descritta, è la situazione del mondo, con le sue terre, le popolazioni, i mari, i fiumi importanti, le isole, le città. Ma degna di non minore attenzione, in quasi tutti i suoi aspetti, sarebbe la natura degli esseri viventi che lo popolano, sol che l’intelligenza umana fosse in grado di indagarne ogni sua parte. Cominceremo a buon diritto dall’uomo, in funzione del quale sembra che la natura abbia generato tutto il resto. Ma essa ha preteso virgola in cambio di doni così grandi, un prezzo alto e crudele, fino al punto che non è possibile dire con certezza se essa sia stata per l’uomo più una buona madre o una crudele matrigna. In primo luogo lo costringe, unico fra tutti gli esseri viventi, a procacciarsi all’esterno i suoi vestiti. Agli altri, in vario modo, la natura fornisce qualcosa che li copra: gusci, cortecce, pelli, spine, peli, setole, piume, penne, squame, velli; anche i tronchi degli alberi li protegge dal freddo e dal caldo, con uno e talora due strati di corteccia. Soltanto l’uomo essa getta nudo sulla nuda terra, il giorno della sua nascita, abbandonandolo fin dall’inizio ai vagiti e al pianto e, come nessun altro fra tanti esseri viventi, alle lacrime, subito, dal primo istante della propria vita: invece il riso, per Ercole, anche quando è precoce, il più rapido possibile, non è concesso ad alcuno prima del quarantesimo giorno. Subito dopo il suo ingresso alla luce, l’uomo è stretto da ceppi e legami in tutte le membra, quali non si impongono neppure agli animali domestici. Così lui, che ha aperto gli occhi alla felicità, giace a terra con mani e piedi legati, piangente – lui, destinato a regnare su tutte le altre creature – e inaugura la sua vita fra i tormenti, colpevole solo di esser nato. Che stoltezza quella di chi, dopo inizi siffatti, si ritiene destinato ad imprese superbe!

Questo passo appartiene, e funge da introduzione, alle sezione dedicata all’antropologia. Deve essere stato studiato a fondo da Leopardi che lo riecheggia in Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e ne La ginestra. Ma se tale tematica nel pensatore recanatese era situata in una speculazione ferrea e rigorosa, in Plinio la visione pessimista sulla natura dell’uomo si alterna a temi, diciamo così, ottimisti, come quelli in cui stoicamente si lasciava andare all’entusiasmo di fronte alle meraviglie della natura. “Si può credere che una certa alternanza – nell’opera pliniana – di toni ottimistici e altri pessimistici possa dipendere dalla pluralità delle fonti consultate, che lo inflenzarono diversamentre. Né si può escludere che tali mutamenti di prospettiva derivino dall’oggettiva difficoltà del naturalista di trovare una spiegazione per tutto e in primis di quell’angoscia, di quel dolore, di quella precarietà della vita umana nei quali, durante la sua ricerca, si era imbattuto. (Mauro Reali).

D’estrema modernità è poi il passo riguardante la distruzione della natura:

ACCANIMENTO DELL’UOMO CONTRO LA NATURA
(XXXVI, 1-3)

Lapidum natura restat, hoc est praecipua morum insania, etiam ut gemmae cum sucinis atque crystallinis murrinisque sileantur. Omnia namque, quae usque ad hoc volumen tractavimus, hominum genita causa videri possunt: montes natura sibi fecerat ut quasdam compages telluris visceribus densandis, simul ad fluminum impetus domandos fluctusque frangendos ac minime quietas partes coercendas durissima sui materia, caedimus hos trahimusque nulla alia quam deliciarum causa, quos transcendisse quoque mirum fuit. In portento prope maiores habuere Alpis ab Hannibale exsuperatas et postea a Cimbris: nunc ipsae caeduntur in mille genera marmorum. Promunturia aperiuntur mari, et rerum natura agitur in planum; evehimus ea, quae separandis gentibus pro terminis constituta erant, navesque marmorum causa fiunt, ac per fluctus, saevissimam rerum naturae partem, huc illuc portantur iuga, maiore etiamnum venia quam cum ad frigidos potus vas petitur in nubila caeloque proximae rupes cavantur, ut bibatur glacie. Secum quisque cogitet, et quae pretia horum audiat, quas vehi trahique moles videat, et quam sine iis multorum sit beatior vita. Ista facere, immo verius pati mortales quos ob usus quasve ad voluptates alias nisi ut inter maculas lapidum iaceant, ceu vero non tenebris noctium, dimidia parte vitae cuiusque, gaudia haec auferentibus!cartografia romana

Carta romana

Resta da considerare la natura delle pietre, nelle quali la follia dei costumi umani si esplica più che altrove, anche a tacere delle gemme, dei gioielli d’ambra e dei vasi di cristallo e di murra. In effetti tutti gli oggetti di cui abbiamo trattato fino a questo libro può sembrare che siano stati prodotti per l’utilità degli uomini: ma le montagne la natura le aveva fatte per sé come una sorta di scheletro che doveva consolidare le viscere della terra e nel contempo frenare l’impeto dei fiumi e frangere i frutti marini, nonchè stabilizzare gli elementi più turbolenti con l’aiuto della loro solidissima materia. Noi invece tagliamo a pezzi e trasciniamo via, senza nessun altro scopo che i nostri piaceri, montagne che un tempo fu oggetto di meraviglia anche solo valicare. I nostri avi considerarono quasi un prodigio che le Alpi fossero state attraversate da Annibale, e più tardi dai Cimbri – ora questi stessi monti vengono fatti a pezzi per ricavarne marmi delle specie più varie. I promontori vengono spaccati per lasciare passare il mare, e la natura è ridotta ad un piano livellato. Svelliamo ciò che era stato posto a far da confine fra popoli diversi, si fabbricano navi per caricarvi i marmi, e le vette montane sono portate a destra e a sinistra sui flutti, l’elemento naturale più selvaggio – la cosa rimane comunque più perdonabile di quando, per avere bevande fresche, se ne va a cercare il vaso fra le nubi e, per averle ghiacciate, si scavano le rocce più vicine al cielo. Tutti dovrebbero riflettere su queste cose, rendersi conto del prezzo che hanno, della grandezza dei massi che si spostano e si portano via, del fatto che senza di essi la vita di molti sarebbe tanto più felice. E questo lavoro, o meglio queste sofferenze, per quale utilità o per quale piacere gli uomini se li sobbarcano, se non pesare su pavimenti di pietre variopinte? – come se questo piacere non lo togliesse il buio della notte virgola che occupa la metà della vita di ognuno. (trad. A. Corso)

Certo non possiamo attribuire a Plinio una coscienza ecologica: eppure il sapere che già nel I sec. d.C. tali argomenti venivano rilevati da un naturalista, ci fa pensare al lungo sfruttamento dell’uomo su ciò che la natura ci offre. Qui lo sdegno dell’autore è nel non pensare a quali conseguenze porterà lo sfruttamento selvaggio dell’ambiente, ma soprattutto a come tale sfruttamento viene finalizzato per un ottenere dei benefici irrisori, che certo non portano alla felicità dell’uomo.

Einaudi Bologna - Plinio, Naturalis historia

La Naturalis historia curata da Italo Calvino

Ci piace concludere con un grande autore italiano che molto ha amato Plinio il Vecchio, Italo Calvino, di cui prendiamo un estratto tratto da Perché leggere i classici, 1995:

Quando parliamo di Plinio non sappiamo mai fino a che punto possiamo attribuire a lui le idee che esprime; suo scrupolo è infatti di metterci di suo il meno possibile, e tenersi a quanto tramandano le fonti; e ciò conformemente a un’idea impersonale del sapere, che esclude l’originalità individuale. Per cercare di comprendere qual è veramente il suo senso della natura, quanto posto ha in esso l’arcana maestà dei principi e quanto la materialità degli elementi, dobbiamo tenerci a ciò che è certamente suo, cioè alla sostanza espressiva della sua prosa. Si vedano ad esempio le pagine sulla Luna, dove l’accento di commossa gratitudine per questo «astro ultimo, il più familiare a quanti vivono sulla terra, rimedio alle tenebre» (II 41: novissimum sidus, terris familiarissimum et in tenebrarum remedium…) e per tutto quel che esso ci insegna col moto delle sue fasi e delle sue eclissi, si unisce alla funzionalità agile delle frasi a rendere questo meccanismo con cristallina nettezza. È nelle pagine astronomiche del libro II che Plinio dimostra di poter essere qualcosa di più del compilatore dal gusto immaginoso che si dice di solito, e si rivela uno scrittore che possiede quella che sarà la principale dote della grande prosa scientifica: rendere con nitida evidenza il ragionamento più complesso traendone un senso d’armonia e di bellezza. Questo, senza mai inclinare verso la speculazione astratta. Plinio si tiene sempre ai fatti (a quelli che lui considera fatti o che qualcuno ha considerato tali): non accetta l’infinità dei mondi perché la natura di questo mondo è già abbastanza difficile da conoscere e l’infinità non semplificherebbe il problema (II 4); non crede al suono delle sfere celesti, né come fragore al di là dell’udibile né come indicibile armonia, perché «per noi, che stiamo al suo interno, il mondo scivola giorno e notte in silenzio» (II 6).

MARCO FABIO QUINTILIANO

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Statua di Quintiliano nella sua città natale

Cenni biografici

Marco Fabio Quintiliano, come i grandi suoi predecessori Seneca e Lucano, a dire il vero da lui non proprio amati, è spagnolo. Nacque infatti in un paese iberico, Calhorra, nel 35 circa. Il suo destino sembra segnato sin da piccolo: infatti il padre era un retore che lo mandò a Roma a studiare con i più grandi grammatici del tempo. Tornato in Spagna vi svolse attività forense, ma fu Galba, uno dei quattro imperatori, che lo riportò a Roma, dove iniziò ad esercitare il lavoro di maestro. Passò indenne nelle turbolenze del 69, tanto da affermarsi, nell’intera età dei Flavi, da Vespasiano, che gli consentì di diventare il primo docente pagato dallo Stato, a Domiziano che gli affidò l’educazione dei figli e lo innalzò fino agli ornamenta consolaria. Dall’88 cominciò a lavorare alla sua opera principale, l’Institutio Oratoria, nella quale s’inserisce, come era già successo nell’epoca neroniana, nel dibattito sulla decadenza di tale scienza nell’età imperiale. Muore, forse, nello stesso anno in cui Domiziano fu assassinato, nel 96.

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Calhorra nel periodo romano

Institutio oratoria

L’Institutio oratoria è un trattato didascalico in dodici libri dedicata a Vitorio Marcello (oratore) ed è certamente uno delle opere più complete che ci sia giunta sull’argomento. Riprendendo in parte il suo amato Cicerone, nonché le opere di autori successivi, come quella del retore Seneca (padre del filosofo), Quintiliano inserisce la sua disciplina in un quadro maggiormente organico, in cui descrive non solo il modo in cui strutturare l’oratoria in sé, ma anche il modo in cui trasmetterla. Infatti egli sembra mosso nel ricercare i motivi che abbiano portato al declino tale scienza. Se alcuni avevano sottolineato l’impossibilità della stessa in un organizzazione politica che non prevede la libertà di parola, altri ancora avevano visto il suo declino nell’uso delle declamationes, quindi nella ricerca del successo facile ed immediato. Quintiliano invece individua la decadenza dell’oratoria soprattutto nell’educazione.

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Pagina dell’Institutio oratoria in un libro del 1772

La sua opera si struttura in dodici libri:

  1. Il I libro parla dell’istruzione elementare e del corso di grammatica;
  2. Il II libro affronta i problema della scuola di retorica e del fondamentale rapporto di fiducia che si deve instaurare tra gli allievi e l’insegnante;
  3. Il III affronta i tre generi dell’orazione: la celebrativa o epidittica (conferenza), deliberativa (politica) e la giudiziaria;
  4. Dal IV al VI, l’inventio (reperimento degli argomenti);
  5. Nel VII è affrontata la dispositio (l’ordine in cui presentarli)
  6. Nei libri VIII-IX la locutio (lo stile da utilizzare);
  7. Il X presenta un excursus in cui cita gli autori più importanti (secondo il suo giudizio) cui attingere per ottenere la facilitas dicendi;
  8. L’XI riprende la tecnica oratoria affrontando la memoria e l’actio (la mnemotecnica e l’impostazione della voce);
  9. Nel XII e ultimo vi è il ritratto ideale dell’oratore.

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Frontespizio di un’edizione del 1720

L’opera, da come si vede, ricalca in modo piuttosto omogeneo con le quelle che l’hanno preceduta, ad eccezione dei primi due libri e del decimo, in cui troviamo, in nuce, una piccola storia della letteratura dell’età classica.

Iniziamo dall’inizio, quando Quintiliano, parla dell’educazione necessaria sin da quando si è fanciulli per diventare oratore:

GLI EDUCATORI
(I, 1-8, con tagli)

Igitur nato filio pater spem de illo primum quam optimam capiat: ita diligentior a principiis fiet. (…) Ante omnia ne sit vitiosus sermo nutricibus: quas, si fieri posset, sapientes Chrysippus optavit, certe quantum res pateretur optimas eligi voluit. Et morum quidem in his haud dubie prior ratio est, recte tamen etiam loquantur. Has primum audiet puer, harum verba effingere imitando conabitur. (…) In parentibus vero quam plurimum esse eruditionis optaverim. Nec de patribus tantum loquor: nam Gracchorum eloquentiae multum contulisse accepimus Corneliam matrem, cuius doctissimus sermo in posteros quoque est epistulis traditus. (…) Nec tamen ii quibus discere ipsis non contigit minorem curam docendi liberos habeant, sed sint propter hoc ipsum ad cetera magis diligentes. De pueris inter quos educabitur ille huic spei destinatus idem quod de nutricibus dictum sit. De paedagogis hoc amplius, ut aut sint eruditi plane, quam primam esse curam velim, aut se non esse eruditos sciant.

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La maternità a Roma

Dunque, dopo che gli è nato un figlio, un padre concepisca in merito a lui le migliori speranze, così lo seguirà più attentamente sin dall’inizio. (…) Innanzitutto le nutrici non abbiano un linguaggio scorretto: Crisippo, per quanto possibile, si augurava che fossero persone colte, o almeno, per quanto concesso dalle circostanze, voleva che si scegliessero le migliori. E se la priorità della scelta per prima va data alla loro moralità, tuttavia è importante che parlino anche in modo corretto. Sono loro quelle che il bambino ascolterà per prime, sono le loro parole che cercherà di ripetere imitandole. (…) Auspicherei che nei genitori ci fosse il livello maggiore di cultura. E non mi riferisco soltanto ai padri: sappiano infatti che un contributo significativo all’eloquenza dei Gracchi fu dato loro dalla madre Cornelia, il cui eloquio forbitissimo è stato trasmesso anche ai posteri grazie alle sue lettere. (…) Non trascurino l’educazione dei figli coloro che non hanno a loro volta avuto modo di studiare; anzi proprio per questo stiano più attenti a tutto l’altro. In merito ai ragazzi con i quali sarà istruito il l giovane, oggetto delle nostre speranze, valga ciò che si è detto riguardo le nutrici. Quanto ai pedagoghi auspicherei, in più, o che fossero particolarmente colti, e questa è la cosa che dovrebbe importare maggiormente, oppure che fossero consapevoli di non esserlo.

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Cornelia con i figli

E’ evidente la differenza che Quintiliano introduce nella sua opera: egli ha ben chiara la visione secondo cui per raggiungere il massimo grado dell’oratoria non serve la tecnica, ma la continua educazione. Infatti nei testi che lo avevano preceduto, tale scienza si apprendeva in età già scolarizzata, attraverso un preciso percorso e una ferrea techné. Lui, invece, tra i metodi d’apprendimento, colloca, in modo geniale, anche il gioco:

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Una fanciulla gioca agli astrogali (dado di ossa animali)

IL GIOCO NELL’EDUCAZIONE
(I, 3 10-11)

Nec me offenderit lusus in pueris (est et hoc signum alacritatis), neque illum tristem semperque demissum sperare possim erectae circa studia mentis fore, cum in hoc quoque maxime naturali aetatibus illis impetu iaceat. Modus tamen sit remissionibus, ne aut odium studiorum faciant negatae aut otii consuetudinem nimiae. Sunt etiam nonnulli acuendis puerorum ingeniis non inutiles lusus, cum positis invicem cuiusque generis quaestiunculis aemulantur. 

Né potrebbe offendermi il gioco nei fanciulli (anche questo è segno di vivacità), né potrei sperare che l’alunno triste e sempre in disparte sarà verso gli studi di mente aperta, non aprendosi anche verso quell’impeto estremamente naturale a quell’età. Tuttavia ci sia moderazione verso i momenti di riposo, affinché, se negati non procurino odio dello studio o, se eccessivi, la consuetudine all’ozio. Ci sono alcuni giochi non inutili per migliorare le attitudini dei fanciulli, quando preparati alcuni quesiti di poca importanza su ogni genere gareggiano a turno (a rispondere).

In questo passo, infatti, sembra precorrere di molto le tecniche educative che saranno poi sviluppate in età moderna. L’idea che il gioco possa essere motivo d’apprendimento, ma, soprattutto l’idea di un giusto riposo ed un giusto impegno non lasciano adito a dubbi che ci troviamo di fronte ad un “teorico” le cui “teorie”, tuttavia, lasciano grande spazio anche ad una assidua pratica sul campo.

Tutto ciò lo intuiamo quando sviluppa il rapporto che deve intercorrere tra fanciullo e il maestro:

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Bassorilievo in cui si mostra un magister cum duobus discipulis

TRA MAESTRO E DISCEPOLO
(II, 1 – 3) 

Plura de officiis docentium locutus discipulos id unum interim moneo, ut praeceptores suos non minus quam ipsa studia ament et parentes esse non quidem corporum, sed mentium credant. Multum haec pietas conferet studio; nam ita et libenter aiudient et dictis credent et esse similes concupiscent, in ipsos denique coetus scholarum laeti alacres convenient, emendati non iracetur, laudati gaudebunt, ut sint carissimi studio merebuntur. Nam ut illorum officium est docere, sic horum praebere se dociles: aliqui neutrum sine altero sufficit; et sicut hominis ortus ex utroque gignentium confertur, et frustra sparseris semina nisi illa praemollitus foverit sulcus, ita eloquentia coalescere nequit nisi sociata tradentis accipientisque concordia.

Dopo aver parlato molto sui compiti dei docenti raccomando ai discenti solamente quest’unica cosa, che amino i loro precettori non meno degli stessi studi e credano che loro non siano padri soltanto del corpo, ma della mente. Questa devozione gioverà molto allo studio; infatti così sia ascolteranno lietamente, sia crederanno alle parole, sia desidereranno essergli simili; ed infine nelle stesse adunanze delle scuole si riuniranno lieti e veloci; corretti non si arrabbieranno, lodati gioiranno, con lo studio meriteranno di essere molto stimati. Infatti come il compito di quelli è insegnare, così di questi è di offrire se stessi disponibili all’apprendimento: del resto nessuna delle due cose è sufficiente senza l’altra; e come la nascita di un uomo è procurata da ognuno dei genitori ed inutilmente si semineranno i semi se il solco, precedentemente preparato, non li coverà, così l’eloquenza non può svilupparsi se non con la concordia unione di chi offre e chi riceve.

L’integrazione “intellettuale” (e perché no?, affettiva) che si deve istaurare tra docente e discenti apre, anche dopo le precedenti letture, all’apertura di una vera e propria pedagogia, ovverosia una scienza dell’educazione. E’ il primo autore, nella letteratura latina ad aver intuito l’importanza della psiche del bambino e del fanciullo non solo come ricettiva nozioni, ma anche come ricettiva momenti in cui l’apprendimento è continuo, nella parola affettuosa di una nutrice, in un gioco comune e sociale, nella stima verso un docente, che solo tali cose faranno sì che l’oratore non sia freddo “conferenziere”, ma un uomo la cui conoscenza del suo simile gli dia la possibilità di por-tarlo, con la parola, dalla sua parte.

Solo dopo la formazione il ragazzo, ormai preparato, potrà avvicinarsi alle tecniche dell’arte del dire. Ma quest’ultime dopo averle attentamente imparate le dovrà poi affinare con lo studio dei grandi autori, affinché li consideri modelli insuperabili cui sempre ispirarsi per ottenere un ottimo discorso. Per questo il primo che bisogna studiare è certamente Cicerone:

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Edizione del 1775

ELOGIO DI CICERONE
(X, 108-109)

Nam mihi videtur M. Tullius, cum se totum ad imitationem Graecorum contulisset, effinxisse vim Demosthenis, copiam Platonis, iucunditatem Isocratis. Nec vero quod in quoque optimum fuit, studio consecutus est tantum, sed plurimas vel potius omnes ex se ipso virtutes extulit immortalis ingenii beatissima ubertate. Non enim pluvias, ut ait Pindarus, aquas con-ligit, sed vivo gurgite exundat, dono quodam providentiae genitus, in quo totas vires suas eloquentia experiretur.

A me pare infatti che Marco Tullio nel suo dedicarsi interamente all’imitazione dei Greci, abbia prodotto la forza di Demostene, la ricchezza di Platone e la gradevolezza di Isocrate. Ma tutti i pregi che si trovano in quegli autori non li ha raggiunti soltanto con lo studio: la maggior parte delle sue virtù, o meglio tutte, le ha prodotte la felicissima ricchezza del suo talento immortale, traendole da se stesso. Non si limita, infatti, come dice Pindaro, a raccogliere le acque piovane, ma trabocca con la sua viva corrente: la sua nascita è stata un dono della provvidenza, affinché l’eloquenza potesse mettere alla prova in lui tutte le proprie possibilità.

Cicerone diventa agli occhi di Quintiliano l’oggetto sacro da aemulare, su cui plasmare il proprio dettato, perfezionare il proprio stile. Ma qual è, allora, il limite che noi moderni sentiamo in questo elogio? E’ che Cicerone è stato sì forse il più grande prosatore romano, ma se la sua prosa era così perfetta e “emotivamente” forte, era perché in essa “vibrava” un anelito di libertà repubblicana che certo Quintiliano non può riprodurre. Ecco allora che la sua venerazione verso lo scrittore d’Arpino non può che fermarsi a un semplice, seppur sincero, ossequio formale.

GIUDIZIO SU SENECA
(X, 129-130)

Multae in eo claraeque sententiae, multa etiam morum gratia legenda; sed in eloquendo corrupta pleraque atque eo perniciosissima, quod abundant dulcibus vitiis. Velles eum suo ingenio dixisse, alieno iudicio; nam si ali-qua contempsisset, si pravum non concupisset, si non omnia sua amasset, si rerum pondera minutissimis sententiis non fregisset, consensu potius eruditorum quam puerorum amore comprobaretur. 

Le sue frasi sentenziose sono molte e famose, e molte sono anche le opere che devono esser lette per la moralità; lo stile, però, è particolarmente corrotto, e molto più pericoloso proprio perché i difetti di cui abbonda sono attraenti. Vorresti che avesse parlato con la sua testa, ma con i gusti stilistici di un’altra persona: se avesse disprezzato qualcosa, se non avesse desiderato ciò che era disonesto, se non avesse amato tutte le sue inclinazioni, se non avesse spezzettato in frasi brevissime argomenti complessi, si sarebbe guadagnato il consenso degli eruditi, e non soltanto l’amore dei ragazzi.

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Codice dell’opera di Quintiliano nella Biblioteca medicea

Che, come si è detto, si tratti solo di amore formale per lo stile, lo si capisce proprio da questo giudizio su Seneca. Egli infatti apprezza la moralità dell’autore spagnolo (anche se, in un passo non riportato, afferma che essa non è supportata da una approfondita conoscenza filosofica) ma condanna senza appello il modo in cui scrive. Infatti le molte sentenze mal tollerate da Quintiliano, ma amate tantissimo dai giovani, non rientravano nel rispetto di quell’eloquio tipico della tradizione su cui l’autore (e chi allora era al potere) si richiamava, e potevano essere strumento di corruzione dei giovani.

MARCO VALERIO MARZIALE

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Marco Valerio Maestrale

Epigramma
Etimologicamente la parola “epigramma” significa “scrivo sopra” quindi iscrizione. Sin dai tempi dall’antica Grecia, troviamo attestata tale forma, in vario metro, con intenti pratici e celebrativi (funerari, votivi, di commemorazione di persone o eventi).
Solamente in età tarda, tuttavia, esso viene codificato:

  • Componimento breve;
  • Libertà metrica (con prevalenza del distico elegiaco);
  • Argomenti vari (soprattutto d’argomento privato o soggettivo)
  • Estrema eleganza formale.

A Roma l’epigramma appare tra il II ed il I sec. a. C. nel cosiddetto circolo dei neoterici, tra i quali spicca la poesia di Catullo; ed è a questo tipo di poesia che si ispira Marziale, che adotta, proprio per la sua opera, il termine “epigramma”, codificandolo sia nel contenuto che nella varietà metrica.

Notizie biografiche
Le notizie biografiche di Marco Valerio Marziale le deduciamo sia dalla sua opera che dal contemporaneo ed amico Plinio il Giovane attraverso una lettera.
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Bilbilis (oggi Catalayud) città natale di Marziale: teatro romano

Nasce nella Spagna Terraconense nella città di Bìlbilis tra il 38 e il 41. Dopo aver appreso i primi rudimenti nella terra d’origine, intorno ai vent’anni giunge a Roma, per intraprendere, forse, studi notarili. Viene accolto in città dalla colonia spagnola, che faceva riferimento alla famiglia dei Pisoni. Diviene pertanto amico di Seneca, Lucano e Persio. Ma la scure nerioniana che si era abbattuta sui principali esponenti della colonia spagnola, gli fa assumere un basso profilo; inizia per lui un oscuro periodo in cui, diventato cliens, cerca protezione in uomini facoltosi che gli permettono di sostentarsi.

E’ intorno agli 80, sotto l’impero di Tito, che ottiene successo attraverso il Liber de spectaculis o Liber spectaculorum. La notorietà acquisita fa sì che l’imperatore gli conceda il ius trium liberorum (un beneficio in denaro per chi aveva tre figli, poi esteso anche ad altre categorie); sotto Domiziano divenne addirittura tribunus militum che gli concedeva l’accesso alla classe dei cavalieri. Nonostante il successo dei suoi libri, che pubblica ogni anno, e le cariche ricoperte, egli rimane sia economicamente che psicologicamente un subordinato. Si allontana per un breve periodo in Emilia, ma sente nostalgia per la città in cui torna a vivere. La morte di Domiziano, verso cui si era speso in sperticati elogi, lo rende, se non proprio inviso, indifferente alla nuova dinastia, quella di Nerva e di Traiano. Decide pertanto di tornare a Bìlbis, con i soldi dell’amico Plinio e, con l’aiuto di una ricca vedova, entrerà in possesso di una casa in campagna, dove continuerà a scrivere (produrrà l’ultimo libro di epigrammi) e dove chiuderà gli occhi tra il 101 e il 104.

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Edizione del 1617

Epigrammi
L’opera di Marziale ci è giunta suddivisa in quindici libri:

  • Liber de spectaculis, composto per l’inaugurazione dell’Anfiteatro Flavio, consta di circa una trentina di epigrammi, in cui elogia l’opera, i giochi ce vi si effettuano e l’imperatore che ne ha permesso e terminato la realizzazione.

ESALTAZIONE DEL COLOSSEO
(1, 1)

Barbara pyramidum sileat miracula Memphis,
Assyrius iactet nec Babylona labor;
nec Triviae templo molles laudentur Iones,
dissimulet Delon cornibus ara frequens
aere nec vacuo pendentia Mausolea
laudibus inmodicis Cares in astra ferant.
Omnis Caesareo cedit labor Amphitheatro,
unum pro cunctis fama loquetur opus.

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Il Colosseo in un disegno del Piranesi (1720- 1778)

La barbara Menfi non parli dei miracoli delle piramidi, / la fatica degli Assiri non si vanti dei giardini di Babilonia; / i molli Ioni non siano lodati per il tempio di Diana, / l’altare ricco di corna non esalti Delo; / il Mausoleo sospeso nell’aria vuota / non sollevi i Carii fino alle stelle con lodi senza misura. / Tutte le meraviglie del mondo cedono all’anfiteatro di Cesare: / la fama ricorderà un solo capolavoro per tutti.

L’epigramma proemiale del primo libro ci dà la misura sia dell’esaltazione del manufatto che dell’artefice: se il Colosseo è inserito nelle canoniche meraviglie dell’antichità, non manca l’esaltazione del tempio di corna di cervo da parte di Apollo, quindi, a livello mitico, di un dio; ne nasce il parallelismo Apollo-Tito da cui la divinizzazione in vita dell’imperatore.

La seconda parte dell’opera è invece costituita da 12 libri di epigrammi, pubblicati uno per anno. Non vi è una particolarità tematica tra i vari libri, ma una unità del “sentire” e quindi del costruire lessicalmente e stilisticamente il suo dettato poetico.

Vediamo, innanzitutto, la sua poetica:
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Copertina di un saggio per il centenario di Marziale, pubblicato in Spagna (2004)

HOMINEM PAGINA NOSTRA SAPIT
(X, 4)

Qui legis Oedipoden caligantemque Thyesten,
Colchidas et Scyllas, quid nisi monstra legis?
Quid tibi raptus Hylas, quid Parthenopaeus et Attis,
quid tibi dormitor proderit Endymion?
Exutusve puer pinnis labentibus? aut qui
odit amatrices Hermaphroditus aquas?
Quid te vana iuvant miserae ludibria chartae?
Hoc lege, quod possit dicere vita “Meum est.”
Non hic Centauros, non Gorgonas Harpyiasque
invenies: hominem pagina nostra sapit.
Sed non vis, Mamurra, tuos cognoscere mores
nec te scire: legas “Aetia” Callimachi.

Tu che leggi la storia di Edipo e di Tieste il tenebroso, / di Colchide e di Scilla, perché leggi solo cose orribili? / Che ci guadagni col rapimento di Ila, con Partenopeo, con Attis / e con il mito di Endimione addormentato? / E con Icaro nudo che perde le penne? E con / Ermafrodito che odia le acque innamorate? / Cosa ci trovi in queste storie false di miseri libri? / Leggi questo di cui la vita possa dire “E’ mio”. / Qui non troverai né Centauri, né Gorgoni, né Arpie: / se la mia pagina ha un sapore, è quello dell’uomo. / Ma tu, Mamurra, non vuoi conoscere le tue abitudini, / non vuoi conoscere te stesso: e allora leggiti gli “Aitia” di Callimaco.

Epigramma estremamente importante perché ci informa esattamente a quale fine tende giungere il nostro poeta: in primo luogo la netta distanza verso la tragedia e l’epica, qui richiamate da personaggi che le caratterizzano ad indicarne l’origine. Infatti per lui tale letteratura non serve, non migliora la vita dell’uomo.

Detto questo la sua poesia, quindi, si pone un fine didattico, di miglioramento della vita umana? A leggere attentamente si direbbe di no: infatti Marziale non intende educare, ma solo rappresentare i vizi, tra i quali inserisce quelli di coloro che leggono monstra per essere intellettuali. D’altra parte è proprio il realismo la cifra stilistica che lo caratterizza sintetizzata da quello che può essere definito un vero e proprio motto hominem pagina nostra sapit; per questo la vita se ne appropria, quasi a dire “è cosa mia”.

PIACERE AL LETTORE
(IX, 81)

Lector et auditor nostros probat, Aule, libellos,
sed quidam exactos esse poëta negat.
Non nimium curo. Nam cenae fercula nostrae
malim convivis quam placuisse cocis. 

O Aulo, un lettore e un uditore approva i nostri libricini, / ma un certo poeta nega che siano perfetti. / Non me ne curo affatto. Infatti le portate della nostra cena / preferirei che risultassero gradite ai convitati piuttosto che ai cuochi.

Altro epigramma che potremmo definire di poetica: si tratta infatti di individuare i lettori. Se bene si riflette sull’epigramma precedente, è evidente che chi apprezza la sua poesia, cioè chi vi cerca in essa il realismo, non può che gradire di più il contenuto, come un commensale, piuttosto che il modo in cui esso è stato preparato, appunto gli artefici; meglio un poeta “semplice” e “non perfetto”, che un poeta inutile.

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Un libro dell’antica Roma

LIBRO O LIBRETTO
(X, 1)

Si nimius videor seraque coronide longus
esse liber, legito pauca: libellus ero.
Terque quaterque mihi finitur carmine parvo
pagina: fac tibi me quam cupis ipse brevem.

Se ti sembro un libro troppo ampio, ove la parola fine / arriva molto tardi, leggi pochi carmi: così diventerò un libretto. / Molto spesso la mia pagine finisce con un piccolo carme: / rendimi tu stesso, per tuo uso, corto quanto vuoi.

Se abbiamo già visto l’argomento ed il pubblico, qui viene trattata l’ampiezza, di cui si rivendica la brevità. Infatti la poesia di Marziale è spesso brevissima, che può chiudersi addirittura in un semplice distico, ma che per questo risulta essere molto icastica, pregnante, capace, cioè, con piccolissimi tratti di penna, d’individuare un tipo, un vizio, una situazione. A tale scopo ricorre spesso, a fine carme ad una piccola clausola, un finale ad effetto si direbbe, con il quale può stravolgere il senso.

Dopo la poetica vediamo i valori di cui è disseminata l’opera: tra i primi vi è l’amicizia, ma quella che qui vediamo è un’amicizia particolare:

GLI AMICI
(1, 54)

Si quid, Fusce, vacas adhuc amari –
nam sunt hinc tibi, sunt et hinc amici –,
unum, si superest, locum rogamus,
nec me, quod tibi sim novus, recuses:
Omnes hoc veteres tui fuerunt.
Tu tantum inspice qui novus paratur
An possit fieri vetus sodalis.

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Un cliente si reca a salutare il suo patrono

Se ti manca ancora qualcuno, o Fusco, dal quale essere amato – / infatti tu hai amici da tutte le parti – / se ti rimane soltanto un posto, / te lo chiedo per me, non mi rifiutare, perché per te sarei nuovo: / per questo tutti i tuoi vecchi sono stati (cioè furono nuovi un tempo). / Tu soltanto guarda chi si presenta nuovo / probabilmente potrebbe diventare un vecchio amico.

Quando i romani parlano d’amicizia si riferiscono sempre a poche persone pauci amici ci ricorda la poesia catulliana, nonché l’epicureismo lucreziano; tale concezione non cambia con il cambiare dell’ideologia filosofica; tale affermazione è rispecchiata anche nel pensiero senecano: l’amicizia pur rivestendo un aspetto maggiormente etico rispetto a quell’affettivo rimane piuttosto ristretta. Qui Fusco, invece, ha amici da tutte le parti. Ciò pertanto ci porta ad affermare che qui Fusco è un patronus a cui Marziale chiede di diventare un nuovo cliens. Perché quando si tratta di amicizia “vera” ecco cosa ci dice il poeta:

VITA FELICE
(10, 47)

Vitam quae faciant beatiorem, 
Iucundissime Martialis, haec sunt:
Res non parta labore, sed relicta;
Non ingratus ager, focus perennis;
Lis numquam, toga rara, mens quieta;
Vires ingenuae, salubre corpus;
Prudens simplicitas, pares amici;
Convictus facilis, sine arte mensa;
Nox non ebria, sed soluta curis;
Non tristis torus, et tamen pudicus;
Somnus, qui faciat breves tenebras:
Quod sis, esse velis nihilque malis;
Summum nec metuas diem nec optes.

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Amici a Roma

Le cose che rendono più bella la vita / sono queste, carissimo Marziale: / un patrimonio non procurato con fatica, ma ereditato; / un campo fertile, un focolare sempre acceso, / mai liti, pochi affari, animo sereno, / forze da uomo libero, salute fisica, / saggia semplicità, amici di pari rango, / conversazione affabile, mensa non sofisticata, / notte senza ubriacature ma anche senza affanni, / non un letto triste, ma non impudico, / un sonno che abbrevi le tenebre, / essere ciò che sei e non preferire nulla, / alla fine né temere né bramare l’ultimo giorno.

Dove appunto gli amici sono di pari grado. Infatti questo epigramma è indirizzato a Giulio Marziale, che egli giudicherà il più saldo tra gli amici. Sono qui presenti elementi oraziani, una prudens simplicitas com’egli dice. Ma non manca nell’ultimo verso un richiamo al carpe diem. Egli inoltre v’inserisce anche la sua vis ironica, nell’affermare, tautologicamente, che è meglio essere ricchi senza lavorare.

In altri epigrammi troviamo la nostalgia per il suo paese , che descriverà con tutti i topoi del locus amoenus.

Ma Marziale ci è noto per il sarcasmo con cui descrive alcuni tipi umani:
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Il matrimonio nell’antica Roma

CACCIATORE D’EREDITA’
(X, 8)

Nubere Paula cupit nobis, ego ducere Paulam
nolo: anus est. Vellem si magis esset anus.

Paola desidera sposarmi. Io sposare Paola / non voglio. Lo vorrei se fosse più vecchia.

Qui il poeta mette in gioco se stesso. Ma la protagonista è la vecchia e l’insaziabile Paola, che vuole il poeta. Ma se così fosse stato, l’epigramma non sarebbe stato che un semplice quadretto di una vecchia laida. Non basta: serve l’arguzia, quel fulmen in clausula che permetta lo scatto “comico” in quanto stravolge l’attesa del lettore.

DA MEDICO A BECCHINO
(I, 47)

Nuper erat medicus, nunc est vispillo Diaulus:
quod vispillo facit, fecerat et medicus.

Diaulo prima era medico, ora becchino, / quello che fa il becchino, era fatto anche dal medico.

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Taberna medicae

Epigramma composto da soli due versi, in cui la satira pungente è determinata dalla duplicità con cui il nostro identifica i due uffici svolti dalla stessa persona, che tuttavia portano alla stessa fine: la morte.

ELIA LA SDENDATA
(I, 19)

Si memini, fuerant tibi quattuor, Aelia, dentes:
expulit una duos tussis et una duos.
Iam secura potes totis tussire diebus:
nil istic, quod agat, tertia tussis habet. 

Se ricordo Elia avevi quattro denti, / un colpo di tosse ne ha espulsi due. / Ormai puoi tossire sicura tutto il tempo / Un terzo colpo di tosse non ha nulla che porti via da lì.

Qui di Marziale emerge il sarcasmo: la descrizione si fa quasi espressionistica con quell’insistere sulla bocca sdentata e quindi sformata della povera donna. Elia sembra quasi sparire: non è la persona, ma propria la bocca a caratterizzarla nella sua bruttezza, quasi a richiamare il senso dell’orrido della satira di Persio.

Altra parte piuttosto ricca della produzione di Marziale occupano gli epigrammi d’amore o espressamente erotici:
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Acquaforte di Enrico Baj per un’edizione degli “Epigramma” di Marziale

DA FANCIULLO A UOMO
(IV, 7)

Cur, here quod dederas, hodie, puer Hylle, negasti,
durus tam subito, qui modo mitis eras?
Sed iam causaris barbamque annosque pilosque.
O nox quam longa es, quae facis una senem!
Quid nos derides? here qui puer, Hylle, fuisti,
Dic nobis, hodie qua ratione vires?

Perchè, giovincello Illo, mi hai negato oggi quello che mi avevi accordato ieri, / crudele così repentinamente tu che poc’anzi eri tanto generoso? / Ma tu già tiri in ballo la barba e l’età che porta la peluria. / O notte, quanto sei lunga tu che da sola rendi uno vecchio! / Che cos’hai da burlarti di me? Dimmi, Illo, tu che fino ad ieri eri un fanciullo, / per qual motivo oggi sei un uomo fatto?

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Acquaforte di Enrico Baj per un’edizione degli “Epigramma” di Marziale

INCOSTANZA D’AMORE
(VI,40)

Femina praeferri potuit tibi nulla, Lycori:
praeferri Glycerae femina nulla potest.
Haec erit hoc quod tu: tu non potes esse quod haec est.
Tempora quid faciunt! Hanc volo, te volui.

Nessuna donna poteva essere preferita a te, o Licoride; / nessuna può essere preferita a Gliceride. / Questa sarà quel che sei tu. Tu non puoi essere quello che è lei. / Che cosa mai fa il tempo! Ho voluto te, (ora) voglio lei.

Come si vede l’amore in Marziale non è mai cantato come sentimento: in lui tutto si riduce a soddisfacimento sessuale, soprattutto rivolto verso i giovinetti piuttosto che verso le donne. Quello che caratterizza tale scelta tematica, a livello stilistico, è in parte la ripresa terminologica, nonché versificatoria, con riferimenti diretti, a quella catulliana (nolo quot basia arguto dedit exorata Catullo Lesbia, non voglio tanti baci quanti Lesbia ha dato all’adorato Catullo che la pregava), in parte l’uso diretto di una terminologia fortemente volgare, dove i termini riferiti al sesso come mentula, vagina, culus o all’atto sessuale vengono a stridere a volte col dettato poetico del nostro. Si ha quasi l’impressione che a volte voglia sollecitare la morbosità del pubblico.

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Antico frontespizio 

Più sincero appare negli epigrammi funerari
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Bassorilievo si sarcofago

PER LA MORTE DI UNA BIMBA
(V, 34)

Hanc tibi, Fronto pater, genitrix Flaccilla, puellam
oscula commendo deliciasque meas,
parvola ne nigras horrescat Erotion umbras
oraque Tartarei prodigiosa canis.
Impletura fuit sextae modo frigora brumae,
vixisset totidem ni minus illa dies.
Inter tam veteres ludat lasciva patronos
et nomen blaeso garriat ore meum.
Mollia non rigidus caespes tegat ossa, nec illi,
terra, gravis fueris: non fuit illa tibi.

A te padre Fronto, a te madre Flaccilla, questa fanciulla / affido, amore e delizia mia, / affinché il mio piccolo amorino non sia terrorizzata dalle nere ombre / e dalla bocca spaventevole del cane Tartareo. / Sarebbe stata quasi per completare i freddi del sesto inverno / se avesse vissuto altrettanti giorni. / In mezzo a così vecchi patroni giochi allegra / e gridi il mio nome con la bocca balbettante. / I rigidi cespugli non coprano le tenere ossa, né a lei, / terra, sii grave: lei non è stata fatta per te.

E’ proprio all’interno della tradizione epigrammatica seria che Marziale offre le sue prove migliori, in special modo in quelli funerari; si tratta spesso di giovani morti prematuramente, figli di amici o protettori del poeta). Qui il poeta mostra un dolore sincero, una commozione affettuosa che manca nel resto della sua produzione.

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Antoine Callet: Saturnalia (1783)

Gli ultimi due libri, sebbene siano stati composti successivamente il Liber de spectaculis, sono gli Xenia e gli Apophoreta, dedicati, ambedue alla festa dei Saturnali, che si svolgeva dal 17 al 23 dicembre. Durante questa festività si era soliti scambiarsi doni: nel libro degli Xenia vengono raccolti gli scritti, di un solo distico, che accompagnavano i doni degli ospiti, spesso si trattava di cibo. Questi scritti erano richiesti proprio da ricchi facoltosi che i servivano di poeti per accompagnarli con qualche dedica. In quello degli Apophoreta erano invece i doni da portar via, anch’essi accompagnati da brevissime poesiole. Quest’ultimi ci offrono un campionario piuttosto ricco degli oggetti che venivano offerti durante una cena.

L'EPICA NELL'ETA' FLAVIA

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Calliope, musa della poesia epica in un disegno

Uno dei generi che vengono maggiormente curati in età flavia è l’epica: genere alto per definizione. Avrebbe potuto essere necessario per una dinastia “militare” che avrebbe potuto trovare in essa una legittimazione che non poteva certo essere a questo punto garantita dalla gens, ma, come vediamo con la figura di Plinio il Vecchio o Quintiliano, l’interesse del “potere” era maggiormente legato ad opere il cui fine era “pratico” . I principali scrittori epici dell’età flavia, pertanto, legati maggiormente alle recitationes, cercarono attraverso la poesia epica, di riprendere strumenti legati ai topoi di tale genere e chi meglio li aveva utilizzati era certamente Virgilio, e non certo Lucano, che, in qualche modo, ne era stato anche il dissolutore. Guarderanno a lui Silio Italico, Valerio Flacco e, il più importante tra loro, Stazio, ma non riusciranno a liberarsi completamente dell’esperienza precedente, sia a livello tematico che stilistico.

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Silio Italico

Silio Italico, autore campano nato tra il 25/26 d.C., proviene dalla classe senatoria e probabilmente ricopre importanti incarichi sin dai tempi di Nerone (si racconta che in questo periodo svolse la poco onorevole attività di delatore). Sotto Vespasiano è nominato proconsole in Africa; quindi tornato a Roma si ritira a vita privata. La sua opera prende il titolo di Punica ed è il poema epico più lungo della letteratura latina: infatti consta di ben 17 libri che probabilmente in origine dovevano essere 18, ma la malattia dell’autore portò lo stesso a terminarla prima. L’argomento riguarda la seconda guerra punica,  dalla presa di Sagunto da parte dei Cartaginesi alla vittoria di Scipione a Zama, ciò gli permise di utilizzare varie fonti, come il Bellum poenicum di Nevio, gli Annales di Ennio, ma, a livello contenutistico si servì soprattutto del De urbe condita di Livio. A livello stilistico, invece, il suo nume tutelare rimane Virgilio, verso cui prova una vera e propria venerazione, tanto da acquistare un terreno vicino presso Napoli in cui era situato il sepolcro del poeta augusteo, che restaurò. Sin dall’incipit troviamo richiami virgiliani:

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INCIPIT
(1, 1-8)

Ordior arma quibus caelo se gloria tollit
Aeneadum patiturque ferox Oenotria iura
Carthago. Da, Musa, decus memorare laborum
antiquae Hesperiae, quantosque ad bella creavit
et quot Roma viros, sacri cum perfida pacti
gens Cadmea super regno certamina movit,
quaesitumque diu qua tandem poneret arce
terrarum Fortuna caput.

Mi accingo a cantare le armi per cui si eleva al cielo la gloria degli Eneadi e la fiera Cartagine subisce le leggi enotrie. Concedimi, o Musa, di ricordare i gloriosi travagli dell’antica Esperia, e quanti eroi e quanti grandi in guerra Roma creò, quando il popolo di Cadmo slealmente infrangendo il sacro petto mosse guerra per il supremo dominio, e a lungo ci si chiese su quale rocca al-fine la Fortuna ponesse la capitale del mondo.

Già da questo passo si capisce come Silio Italico si rivolgesse a Virgilio: arma del primo verso, ancora memorare del terzo verso e la citazione diretta degli Aeneadum del secondo. Ma non si tratta solo di questo: Silio recupera l’intervento divino nella storia degli uomini, cataloghi di popoli, giochi funebri, cioè tutto l’armamentario attraverso cui l’autore vuole mostrarsi fedele al genere epico sin da quello omerico; ma quello che invece viene a mancare è proprio l’originalità, troppo attento a ripristinare l’epos dopo il terremoto di Lucano. Quello che invece non riesce e a trovare un eroe che desse unitarietà al poema; la figura di Scipione appare sbiadita, rispetto a quella di Annibale: sembra invece quasi ripristinare l’idea liviana che l’unico eroe positivo sia la grandezza dello spirito romano (ma un fatto è che lo dica uno storico, altro un poeta epico).

 Valerio Flacco

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Moneta della Gens Valeria con la vittoria su un lato e Valerio Flacco sull’altro 

Quasi nulla si sa di questo autore se non che visse sotto Vespasiano, a cui dedicò la sua opera, a noi giunta intera: gli Argonautica, rimasto incompiuto all’VIII. Il poeta si rifà alla famosissima opera ellenistica del greco Apollonio Rodio, in cui si racconta la storia di Giasone che, con la sua flotta, va alla ricerca del vello d’oro. La famosissima storia era stata già argomento, oltre che d’Apollonio, dei tragici greci, lo stesso Seneca tragico ci aveva narrato la storia di Medea, follemente innamorata di Giasone e per lui assassina del fratello e dei figli. L’uso dell’epica virgiliana in Valerio è nella ripartizione del suo poema (dapprima il viaggio e poi la guerra), nella descrizione di Medea, che, perde il carattere di maga ed assassina, pur nella sua drammaticità, per acquistare il tono di donna innamorata; ma anche Giasone sembra un novello Enea, ricco di pietas per la patria e gli dei.

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Georg Pencz (1500-1550): Medea and Jason 

VEGLIA DI MEDEA
(VII, 9-20)

“Nunc ego quo casu vel quo sic pervigil usque
ipsa volens errore trahor? Non haec mihi certe
nox erat ante tuos, iuvenis fortissime, vultus,
quos ego cur iterum demens iterumque recordor
tam magno discreta mari? Quid in hospite solo
mens mihi? Cognati potius iam vellera Phrixi
accipiat, quae sola petit quaeque una laborum
causa viro. Nam quam domos has ille reviset
aut meus Aesonias quando pater ibit ad urbes?
Felices mediis qui se dare fluctibus ausi
nec tantas timuere vias talemque secuti
huc qui deinde virum; sed sit quoque talis, abito”.

“Qual è la sorte o meglio la colpa, da cui continuo a volermi far trascinare insonne? Non erano certo così le mie notti prima di vedere il tuo volto, o giovane fortissimo; perché lo richiamo di continuo alla mente io, che un mare così grande divide da lui? Perché i miei pensieri sono solo per lo straniero? A questo punto è meglio che abbia il vello di mio cognato Frisso, unico suo scopo, unica casa delle sue fatiche. Quando mai rivisiterà questa città, quando mio padre si recherà alle città esonie? Felici coloro che hanno osato avventurarsi nel mezzo dei flutti, non hanno avuto timore di intraprendere un viaggio così lungo e hanno seguito fino a qui un eroe così grande; ma, sia pure lui tanto grande, che vada via”.

Il passo ci mostra la ricerca da parte dell’autore di voler capire le traversie psicologiche di Medea, attraverso un’attenta introspezione psicologica. Certo la stessa era già presente nella tragedia di Seneca: ma se in quel monologo (certo dovuto anche al genere) vi era una forte accentuazione drammatica attraverso la dicotomia tra pazzia/amore; in Flacco vi è una maggiore accentuazione patetica, proprio come la Didone virgiliana.

Publio Papinio Stazio

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Dei tre epici dell’età dei Flavi, certamente il più importante è Papinio Stazio, che pur non raggiungendo le vette altissime del mito virgiliano, che egli stesso riteneva ineguagliabile, è, rispetto agli altri due, dotato di maggiore originalità. Napoletano, nacque da un maestro di scuola tra il 40 e il 50 dopo Cristo. Sappiamo che era assai famoso per le recitationes, visto il successo che riusciva ad ottenerne, e che finì la sua vita nella città natale, forse nel 96. E’ autore di due poemi epici, la Tebaide (giunta intera) e l’Achilleide (interrotta all’inizio del II libro a causa del decesso dell’autore); ma fu anche poeta d’occasione, componendo, con estrema facilità, piccole poesiole, che poi furono raccolte sotto il titolo di Silvae.

Le Silvae

Il titolo sembra alludere all’estrema varietà metrica e contenutistica di questi componenti, scritti per lo più per i benefattori e i patroni che il poeta ringrazia in tal modo. Esistono anche componenti dedicati direttamente a Domiziano. E’ una raccolta che, più che per valore letterario, è importante per il preciso quadro sociale della Roma imperiale che ci offre. La capacità di Stazio sta tutta nel saper adattare metri di varia natura a situazioni particolari, dandoci inoltre, nella sua preziosità, il fasto e la ricchezza della “nobiltà” di quell’epoca. Questo ha poi pesato sul giudizio dell’opera, che non è riuscita a trovare particolari estimatori futuri, anche per l’eccessiva adulazione che talvolta vi troviamo, come in questo piccolo frammento:

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Le opere di Stazio in un volume del 1840

RINGRAZIAMENTO PER UN INVITO A CENA
(IV, 2, 12-17)

(…) Steriles transmisimus annos:
haec aevi mihi prima dies, hic limina vitae.
Tene ego, regnator terrarum orbisque subacti
magne parens, te, spes hominum, te, cura deorum,
cerno iacens? datur haec iuxta, datur ora tueri
vina inter mensasque, et non assurgere fas est?

Gli anni da me fin qui trascorsi sono stati vissuti invano. Questo è il primo giorno della mia età, questo è l’inizio della mia vita. Sei proprio tu, re della terra e grande padre del mondo a te sottomesso, sei proprio tu, speranza dell’umanità; sei proprio tu, speranza de-gli dei, quello che io vedo standomene adagiato sulla mensa? Mi è dunque concesso ciò, mi è concesso veder da vicino, tra vini e vivande, il tuo volto, senza che sia considerato atto sacrilego il non levarmi in piedi?

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Giovanni Silvagni (1790 – 1853): Eteocle e Polinice

La Tebaide

La Tebaide è l’opera certamente più famosa di Stazio, un poema epico-mitologico in dodici libri (come quelli dell’“Eneide”). Viene qui ripreso il mito del ciclo tebano che vedeva la maledizione di Edipo abbattersi sui suoi figli, Eteocle e Polinice, che lottarono per il possesso di Tebe. Infatti si era stabilito che la città fosse governata annualmente da uno dei fratelli; ma quando terminò il periodo di Eteocle, quest’ultimo non volle cedere la carica al fratello, che, radunate le forze (si ricorda qui la figura di Capaneo, per il rilievo datogli da Dante), lo assalì. Infine i due fratelli, trovatisi di fronte nel combattimento, si uccisero l’un l’altro e si narra che l’odio continuasse anche dopo la morte, essendosi i due roghi, su cui bruciavano, divisi.

Da ciò che si è detto sinora, notiamo subito come Stazio riprenda, scavalcando Lucano, il mito come argomento fondamentale di un poema epico: infatti egli ripropone, con forza, l’intervento del divino sull’umano: tuttavia, il modo attraverso cui lo fa, lascia intravedere come, in lui, tale intervento non sia così partecipato, viceversa, diventi, “pessimisticamente” sinonimo di fato, destino, di fronte al quale l’uomo difficilmente può opporsi. Inoltre sempre rifacendosi a Virgilio, questa volta a livello formale, egli riprende la sua divisione in dodici libri e la ormai classica ripartizione tra i primi sei, in cui si racconta il viaggio di Polinice e dei suoi verso Tebe, e i secondi sei, in cui si narra la guerra. Inoltre, sempre richiamandosi al poema di Virgilio, che a sua volta si era riferito all’Iliade omerica, ricanta i giochi funebri, i cataloghi degli eserciti, suppliche, elementi che diventeranno veri e propri topoi della tradizione epica “classica”. Questa “classicità” Stazio vuole rifondare e quindi il suo riferimento sarà il grande autore augusteo, come egli dichiara apertamente:

ENEIDE DIVINA
(XII, 816-819)

Vive, precor; nec tu divinam Aeneida tempta,
sed longe sequere et vestigia semper adora.
Mox, tibi si quis adhuc praetendit nubila livor,
occidet, et meriti post me referentur honores.

Possa la tua vita essere lunga! Non cercare però di gareggiare con l’Eneide divina, ma se-guila da lontano, e venera sempre le sue orme. Se ancora l’invidia ti offusca col suo velo, presto avrà fine, e dopo la mia morte, ti saranno resi gli onori che meriti.

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Il poeta Stazio visto da Luca Signorelli

Tuttavia, oltre a Virgilio, Stazio sembra riferirsi anche a chi questo mito lo aveva già raccontato, come i tragici greci e il Seneca tragico. D’altra parte l’argomento, la lotta tra i due fratelli, ci rimanda inevitabilmente, all’altro poema epico, che certamente Stazio, pur non approvandolo, conosceva perfettamente, cioè il Pharsalia di Lucano. L’opera neroniana, infatti, non ha, come questa, un solo protagonista, ma due e se nel primo si parlava di cognatas acies qui si arriva a parlare di fraternas acies:

PROEMIO
(I, 1-6)

Fraternas acies alternaque regna profanis 
decertata odiis sontisque evolvere Thebas,
Pierius menti calor incidit. Unde iubetis
ire, deae? Gentisne canam primordia dirae,
Sidonios raptus et inexorabile pactum
legis Agenoreae scrutantemque aequora Cadmum?

Le lotte fraterne e i regni alterni contesi, e Tebe colpevole, ardore Pierio* m’ispira a narrare. Da dove volete, dee, ch’io cominci? Dovrò cantare l’origine prima della stirpe maledetta, i ratti Sidonii e l’inflessibile patto imposto da Agenore e le ricerche di Cadmo* attraverso i mari?
*Monte Pierio, abitato dalle Muse
*Cadmo, figlio di Agenore, nella ricerca della sorella Europa, rapita da Zeus (ratti Sidonii) fondò la città di Tebe.

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Achille con Tirone

L’Achilleide

Se la Tebaide, come ci testimonia Dante ponendo il suo autore nel Purgatorio (girava la falsa voce che Stazio si fosse, in tarda età, convertito al cristianesimo), ebbe enorme risonanza nel Medioevo, non così fu per l’altro poema, purtroppo appena abbozzato, l’Achilleide. In quest’opera si narra la vita del giovane Achille, quando è nascosto dalla madre Teti a Sciro, affinché non fosse reclutato dai Greci per la battaglia contro i Troiani. Stazio quindi ci racconta solo del fatto che fosse travestito da donna, che si fosse innamorato della figlia del re e che fu infine riconosciuto da Ulisse. E’ certamente un periodo della vita di Achille che meglio si adatta a forme elegiache, a tinte pastello per intenderci, che permettono una leggerezza assai piacevole. Ma sapen-do che aveva intenzione d’arrivare fino alla morte di Ettore e quindi raccontare tutta la vicenda guerresca dell’eroe, lo avrebbe certamente condotto a toccare temi più elevati e a doversi confrontare, pericolosamente, con l’Iliade omerica.

L'ETA' DEI FLAVI

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Ricostruzione dell’Anfiteatro Flavio

Alla morte di Nerone, con cui si conclude la dinastia Giulio-Claudia, Roma rivive, con terrore, anche se per un solo anno, un periodo di guerre civili per determinare il nuovo imperatore.

L’anno 69 d.C. è ricordato come l’anno dei “quattro imperatori”:

Subito dopo la morte di Nerone, viene nominato Galba, rappresentante del partito filo senatorio;

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Galba

Ciò provoca l’opposizione dei pretoriani, che, ucciso Galba, nominano a loro volta Otone, ex governatore della Lusitania;
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Otone

In Germania, intanto, le truppe lì stanziate, eleggono come imperatore Vitellio; sceso in Italia sconfigge Otone presso Cremona;

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Vitellio

Insorgono però le legioni orientali, che nominano come imperatore il loro generale Vespasiano, impegnato nella guerra giudaica. Lascia il comando a suo figlio Tito, entra in Italia e conquista Roma, dopo aver catturato e ucciso Vitellio.

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Vespasiano

Vespasiano è stato il primo imperatore di origine italica e di rango equestre, accettato (d’altra parte non poteva essere altrimenti) dal Senato. Uno fra i suoi primi atti fu la promulgazione della lex de imperio Vespasiani attraverso la quale designava le sfere d’intervento riservate all’imperatore e al Senato, determinando così un periodo di pace fra i due massimi poteri dello stato.

Fu anche un abilissimo amministratore, risistemò le finanze dell’erario grazie anche al tributo che venne imposto agli sconfitti Ebrei. Ciò gli permise di avviare la costruzione di nuove opere pubbliche (l’anfiteatro Flavio, più conosciuto come il Colosseo, terminato da suo figlio Tito). Regolò anche il problema della successione, scegliendo il modello ereditario.

Alla sua morte, nel 79, gli successe suo figlio Tito. Intorno alla sua figura circolavano gravi timori, il più importante dei quali era il suo rapporto con la principessa ebrea Berenice, che prospettava un bilanciamento verso oriente (il ricordo di Antonio e Cleopatra era ancora vivo). Egli seppe stornare da lui i sospetti e si comportò talmente bene da essere definito come deliciae generis humani. Regnò soltanto tre anni, ma durante la sua reggenza l’Impero fu colpito da gravi calamità, come l’eruzione del Vesuvio con la distruzione di Ercolano e Pompei e un gravissimo incendio nella città di Roma. Muore per malattia.

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Tito

Il potere quindi passa a suo fratello, Domiziano, sotto il cui regno ripresero vigore le tendenze autoritarie, che in ultima analisi, volevano dire la subordinazione del Senato al volere del princeps. Ripristinò la divinizzazione dell’autorità imperiale, riportando a Roma mode e modelli orientali. Una congiura di aristocratici pone fine alla sua vita nel 96.

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Domiziano

La cultura

Gli imperatori di questa età non erano intellettuali, né volevano che li si ritenesse tali, visto il loro immediato predecessore e il fine “pubblico” che egli fece di tale intellettualità, Nerone. Tuttavia non erano sprovveduti, tanto che lo stesso Vespaspasiano sembra conoscesse sia la lingua che la cultura greca. Diciamo pure  che erano perfettamente consapevoli che la cultura poteva loro garantire legittimità e consenso. Per questo il potere si circondò e quindi controllò gli intellettuali, in quanto essi dovevano fornire quella classe di funzionari atti a garantire l’efficacia amministrativa dello stato: si pensi ad intellettuali come Plinio il Vecchio e Quintiliano. Il fatto che uno fosse un “enciclopedista” e che la sua opera contenesse l’intero scibile sulla natura e l’altro fosse un “letterato” la cui Institutio oratoria non certo serviva a formare persone strumentalmente preparate per l’agone politico, fa sì che il fine fosse soprattutto pedagogico. Perché? Soprattutto per il fatto che la dinastia Flavia operò soprattutto alla ricerca di un numero di “provinciali” da educare affinché potessero diventare validi funzionari per l’impero. Saranno anche loro a promuovere il ritorno a un certo ordine e quindi un allontanamento da alcuni esiti eccessivamente sperimentali e a spingere verso una formalità e pulizia stilistica della fine della repubblica e dell’età augustea. Per questo si parla di questo periodo come di un ritorno al classicismo, anche se questo ritorno non ebbe esiti definitivi e se per alcuni autori, come gli “epici” esso ebbe esiti per alcuni “risibili”, per altri un maggiore “eclettismo” come nell’opera di Marziale.

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Calliope, musa della poesia epica

Per quanto riguarda la filosofia, i Flavi ebbero la stessa diffidenza dei loro predecessori: coagulandosi intorno alla filosofia stoica l’opposizione antimperiale è naturale che la loro presenza a Roma fosse poco gradita.

Per quanto riguarda i generi abbiamo:

  • La ripresa del genere epico nel nome di Virgilio, il cui rappresentante principale è, e non solo, Stazio.
  • L’erudizione, che vede il suo affermarsi con la Naturalis historia di Plinio il Vecchio;
  • L’oratoria, che ha perso completamente il ruolo politico del tempo di Cicerone: l’Institutio oratoria di Quintiliano è comunque un testo base dal quale ha inizio la scienza della pedagogia;
  • L’epigramma con Marziale.

I generi che forse più di altri avrebbero certamente creato problemi al potere, non furono trattati sotto questi tre imperatori: non è un caso che la storiografia di Tacito e le satire di Giovenale appaiono soltanto dopo la morte di Domiziano.