L'EPICA NELL'ETA' FLAVIA

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Calliope, musa della poesia epica in un disegno

Uno dei generi che vengono maggiormente curati in età flavia è l’epica: genere alto per definizione. Avrebbe potuto essere necessario per una dinastia “militare” che avrebbe potuto trovare in essa una legittimazione che non poteva certo essere a questo punto garantita dalla gens, ma, come vediamo con la figura di Plinio il Vecchio o Quintiliano, l’interesse del “potere” era maggiormente legato ad opere il cui fine era “pratico” . I principali scrittori epici dell’età flavia, pertanto, legati maggiormente alle recitationes, cercarono attraverso la poesia epica, di riprendere strumenti legati ai topoi di tale genere e chi meglio li aveva utilizzati era certamente Virgilio, e non certo Lucano, che, in qualche modo, ne era stato anche il dissolutore. Guarderanno a lui Silio Italico, Valerio Flacco e, il più importante tra loro, Stazio, ma non riusciranno a liberarsi completamente dell’esperienza precedente, sia a livello tematico che stilistico.

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Silio Italico

Silio Italico, autore campano nato tra il 25/26 d.C., proviene dalla classe senatoria e probabilmente ricopre importanti incarichi sin dai tempi di Nerone (si racconta che in questo periodo svolse la poco onorevole attività di delatore). Sotto Vespasiano è nominato proconsole in Africa; quindi tornato a Roma si ritira a vita privata. La sua opera prende il titolo di Punica ed è il poema epico più lungo della letteratura latina: infatti consta di ben 17 libri che probabilmente in origine dovevano essere 18, ma la malattia dell’autore portò lo stesso a terminarla prima. L’argomento riguarda la seconda guerra punica,  dalla presa di Sagunto da parte dei Cartaginesi alla vittoria di Scipione a Zama, ciò gli permise di utilizzare varie fonti, come il Bellum poenicum di Nevio, gli Annales di Ennio, ma, a livello contenutistico si servì soprattutto del De urbe condita di Livio. A livello stilistico, invece, il suo nume tutelare rimane Virgilio, verso cui prova una vera e propria venerazione, tanto da acquistare un terreno vicino presso Napoli in cui era situato il sepolcro del poeta augusteo, che restaurò. Sin dall’incipit troviamo richiami virgiliani:

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INCIPIT
(1, 1-8)

Ordior arma quibus caelo se gloria tollit
Aeneadum patiturque ferox Oenotria iura
Carthago. Da, Musa, decus memorare laborum
antiquae Hesperiae, quantosque ad bella creavit
et quot Roma viros, sacri cum perfida pacti
gens Cadmea super regno certamina movit,
quaesitumque diu qua tandem poneret arce
terrarum Fortuna caput.

Mi accingo a cantare le armi per cui si eleva al cielo la gloria degli Eneadi e la fiera Cartagine subisce le leggi enotrie. Concedimi, o Musa, di ricordare i gloriosi travagli dell’antica Esperia, e quanti eroi e quanti grandi in guerra Roma creò, quando il popolo di Cadmo slealmente infrangendo il sacro petto mosse guerra per il supremo dominio, e a lungo ci si chiese su quale rocca al-fine la Fortuna ponesse la capitale del mondo.

Già da questo passo si capisce come Silio Italico si rivolgesse a Virgilio: arma del primo verso, ancora memorare del terzo verso e la citazione diretta degli Aeneadum del secondo. Ma non si tratta solo di questo: Silio recupera l’intervento divino nella storia degli uomini, cataloghi di popoli, giochi funebri, cioè tutto l’armamentario attraverso cui l’autore vuole mostrarsi fedele al genere epico sin da quello omerico; ma quello che invece viene a mancare è proprio l’originalità, troppo attento a ripristinare l’epos dopo il terremoto di Lucano. Quello che invece non riesce e a trovare un eroe che desse unitarietà al poema; la figura di Scipione appare sbiadita, rispetto a quella di Annibale: sembra invece quasi ripristinare l’idea liviana che l’unico eroe positivo sia la grandezza dello spirito romano (ma un fatto è che lo dica uno storico, altro un poeta epico).

 Valerio Flacco

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Moneta della Gens Valeria con la vittoria su un lato e Valerio Flacco sull’altro 

Quasi nulla si sa di questo autore se non che visse sotto Vespasiano, a cui dedicò la sua opera, a noi giunta intera: gli Argonautica, rimasto incompiuto all’VIII. Il poeta si rifà alla famosissima opera ellenistica del greco Apollonio Rodio, in cui si racconta la storia di Giasone che, con la sua flotta, va alla ricerca del vello d’oro. La famosissima storia era stata già argomento, oltre che d’Apollonio, dei tragici greci, lo stesso Seneca tragico ci aveva narrato la storia di Medea, follemente innamorata di Giasone e per lui assassina del fratello e dei figli. L’uso dell’epica virgiliana in Valerio è nella ripartizione del suo poema (dapprima il viaggio e poi la guerra), nella descrizione di Medea, che, perde il carattere di maga ed assassina, pur nella sua drammaticità, per acquistare il tono di donna innamorata; ma anche Giasone sembra un novello Enea, ricco di pietas per la patria e gli dei.

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Georg Pencz (1500-1550): Medea and Jason 

VEGLIA DI MEDEA
(VII, 9-20)

“Nunc ego quo casu vel quo sic pervigil usque
ipsa volens errore trahor? Non haec mihi certe
nox erat ante tuos, iuvenis fortissime, vultus,
quos ego cur iterum demens iterumque recordor
tam magno discreta mari? Quid in hospite solo
mens mihi? Cognati potius iam vellera Phrixi
accipiat, quae sola petit quaeque una laborum
causa viro. Nam quam domos has ille reviset
aut meus Aesonias quando pater ibit ad urbes?
Felices mediis qui se dare fluctibus ausi
nec tantas timuere vias talemque secuti
huc qui deinde virum; sed sit quoque talis, abito”.

“Qual è la sorte o meglio la colpa, da cui continuo a volermi far trascinare insonne? Non erano certo così le mie notti prima di vedere il tuo volto, o giovane fortissimo; perché lo richiamo di continuo alla mente io, che un mare così grande divide da lui? Perché i miei pensieri sono solo per lo straniero? A questo punto è meglio che abbia il vello di mio cognato Frisso, unico suo scopo, unica casa delle sue fatiche. Quando mai rivisiterà questa città, quando mio padre si recherà alle città esonie? Felici coloro che hanno osato avventurarsi nel mezzo dei flutti, non hanno avuto timore di intraprendere un viaggio così lungo e hanno seguito fino a qui un eroe così grande; ma, sia pure lui tanto grande, che vada via”.

Il passo ci mostra la ricerca da parte dell’autore di voler capire le traversie psicologiche di Medea, attraverso un’attenta introspezione psicologica. Certo la stessa era già presente nella tragedia di Seneca: ma se in quel monologo (certo dovuto anche al genere) vi era una forte accentuazione drammatica attraverso la dicotomia tra pazzia/amore; in Flacco vi è una maggiore accentuazione patetica, proprio come la Didone virgiliana.

Publio Papinio Stazio

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Dei tre epici dell’età dei Flavi, certamente il più importante è Papinio Stazio, che pur non raggiungendo le vette altissime del mito virgiliano, che egli stesso riteneva ineguagliabile, è, rispetto agli altri due, dotato di maggiore originalità. Napoletano, nacque da un maestro di scuola tra il 40 e il 50 dopo Cristo. Sappiamo che era assai famoso per le recitationes, visto il successo che riusciva ad ottenerne, e che finì la sua vita nella città natale, forse nel 96. E’ autore di due poemi epici, la Tebaide (giunta intera) e l’Achilleide (interrotta all’inizio del II libro a causa del decesso dell’autore); ma fu anche poeta d’occasione, componendo, con estrema facilità, piccole poesiole, che poi furono raccolte sotto il titolo di Silvae.

Le Silvae

Il titolo sembra alludere all’estrema varietà metrica e contenutistica di questi componenti, scritti per lo più per i benefattori e i patroni che il poeta ringrazia in tal modo. Esistono anche componenti dedicati direttamente a Domiziano. E’ una raccolta che, più che per valore letterario, è importante per il preciso quadro sociale della Roma imperiale che ci offre. La capacità di Stazio sta tutta nel saper adattare metri di varia natura a situazioni particolari, dandoci inoltre, nella sua preziosità, il fasto e la ricchezza della “nobiltà” di quell’epoca. Questo ha poi pesato sul giudizio dell’opera, che non è riuscita a trovare particolari estimatori futuri, anche per l’eccessiva adulazione che talvolta vi troviamo, come in questo piccolo frammento:

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Le opere di Stazio in un volume del 1840

RINGRAZIAMENTO PER UN INVITO A CENA
(IV, 2, 12-17)

(…) Steriles transmisimus annos:
haec aevi mihi prima dies, hic limina vitae.
Tene ego, regnator terrarum orbisque subacti
magne parens, te, spes hominum, te, cura deorum,
cerno iacens? datur haec iuxta, datur ora tueri
vina inter mensasque, et non assurgere fas est?

Gli anni da me fin qui trascorsi sono stati vissuti invano. Questo è il primo giorno della mia età, questo è l’inizio della mia vita. Sei proprio tu, re della terra e grande padre del mondo a te sottomesso, sei proprio tu, speranza dell’umanità; sei proprio tu, speranza de-gli dei, quello che io vedo standomene adagiato sulla mensa? Mi è dunque concesso ciò, mi è concesso veder da vicino, tra vini e vivande, il tuo volto, senza che sia considerato atto sacrilego il non levarmi in piedi?

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Giovanni Silvagni (1790 – 1853): Eteocle e Polinice

La Tebaide

La Tebaide è l’opera certamente più famosa di Stazio, un poema epico-mitologico in dodici libri (come quelli dell’“Eneide”). Viene qui ripreso il mito del ciclo tebano che vedeva la maledizione di Edipo abbattersi sui suoi figli, Eteocle e Polinice, che lottarono per il possesso di Tebe. Infatti si era stabilito che la città fosse governata annualmente da uno dei fratelli; ma quando terminò il periodo di Eteocle, quest’ultimo non volle cedere la carica al fratello, che, radunate le forze (si ricorda qui la figura di Capaneo, per il rilievo datogli da Dante), lo assalì. Infine i due fratelli, trovatisi di fronte nel combattimento, si uccisero l’un l’altro e si narra che l’odio continuasse anche dopo la morte, essendosi i due roghi, su cui bruciavano, divisi.

Da ciò che si è detto sinora, notiamo subito come Stazio riprenda, scavalcando Lucano, il mito come argomento fondamentale di un poema epico: infatti egli ripropone, con forza, l’intervento del divino sull’umano: tuttavia, il modo attraverso cui lo fa, lascia intravedere come, in lui, tale intervento non sia così partecipato, viceversa, diventi, “pessimisticamente” sinonimo di fato, destino, di fronte al quale l’uomo difficilmente può opporsi. Inoltre sempre rifacendosi a Virgilio, questa volta a livello formale, egli riprende la sua divisione in dodici libri e la ormai classica ripartizione tra i primi sei, in cui si racconta il viaggio di Polinice e dei suoi verso Tebe, e i secondi sei, in cui si narra la guerra. Inoltre, sempre richiamandosi al poema di Virgilio, che a sua volta si era riferito all’Iliade omerica, ricanta i giochi funebri, i cataloghi degli eserciti, suppliche, elementi che diventeranno veri e propri topoi della tradizione epica “classica”. Questa “classicità” Stazio vuole rifondare e quindi il suo riferimento sarà il grande autore augusteo, come egli dichiara apertamente:

ENEIDE DIVINA
(XII, 816-819)

Vive, precor; nec tu divinam Aeneida tempta,
sed longe sequere et vestigia semper adora.
Mox, tibi si quis adhuc praetendit nubila livor,
occidet, et meriti post me referentur honores.

Possa la tua vita essere lunga! Non cercare però di gareggiare con l’Eneide divina, ma se-guila da lontano, e venera sempre le sue orme. Se ancora l’invidia ti offusca col suo velo, presto avrà fine, e dopo la mia morte, ti saranno resi gli onori che meriti.

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Il poeta Stazio visto da Luca Signorelli

Tuttavia, oltre a Virgilio, Stazio sembra riferirsi anche a chi questo mito lo aveva già raccontato, come i tragici greci e il Seneca tragico. D’altra parte l’argomento, la lotta tra i due fratelli, ci rimanda inevitabilmente, all’altro poema epico, che certamente Stazio, pur non approvandolo, conosceva perfettamente, cioè il Pharsalia di Lucano. L’opera neroniana, infatti, non ha, come questa, un solo protagonista, ma due e se nel primo si parlava di cognatas acies qui si arriva a parlare di fraternas acies:

PROEMIO
(I, 1-6)

Fraternas acies alternaque regna profanis 
decertata odiis sontisque evolvere Thebas,
Pierius menti calor incidit. Unde iubetis
ire, deae? Gentisne canam primordia dirae,
Sidonios raptus et inexorabile pactum
legis Agenoreae scrutantemque aequora Cadmum?

Le lotte fraterne e i regni alterni contesi, e Tebe colpevole, ardore Pierio* m’ispira a narrare. Da dove volete, dee, ch’io cominci? Dovrò cantare l’origine prima della stirpe maledetta, i ratti Sidonii e l’inflessibile patto imposto da Agenore e le ricerche di Cadmo* attraverso i mari?
*Monte Pierio, abitato dalle Muse
*Cadmo, figlio di Agenore, nella ricerca della sorella Europa, rapita da Zeus (ratti Sidonii) fondò la città di Tebe.

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Achille con Tirone

L’Achilleide

Se la Tebaide, come ci testimonia Dante ponendo il suo autore nel Purgatorio (girava la falsa voce che Stazio si fosse, in tarda età, convertito al cristianesimo), ebbe enorme risonanza nel Medioevo, non così fu per l’altro poema, purtroppo appena abbozzato, l’Achilleide. In quest’opera si narra la vita del giovane Achille, quando è nascosto dalla madre Teti a Sciro, affinché non fosse reclutato dai Greci per la battaglia contro i Troiani. Stazio quindi ci racconta solo del fatto che fosse travestito da donna, che si fosse innamorato della figlia del re e che fu infine riconosciuto da Ulisse. E’ certamente un periodo della vita di Achille che meglio si adatta a forme elegiache, a tinte pastello per intenderci, che permettono una leggerezza assai piacevole. Ma sapen-do che aveva intenzione d’arrivare fino alla morte di Ettore e quindi raccontare tutta la vicenda guerresca dell’eroe, lo avrebbe certamente condotto a toccare temi più elevati e a doversi confrontare, pericolosamente, con l’Iliade omerica.

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