LA FINE DELLA REPUBBLICA

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Tra la morte di Silla, 79 a.C. e il trionfo di Augusto su Antonio 29 a.C., che mette fine alle guerre civili, passano 50 anni, ricchi di avvenimenti, capovolgimenti politici, guerre esterne ed interne che fanno di questo periodo un periodo fervido sia sul piano politico che su quello culturale. Questo periodo viene anche definito come “età di Cesare”, col nome di colui che è stato, nel bene e nel male, non solo uno dei più grandi uomini politici, ma anche uno dei più grandi letterati del tempo. Infatti si ha qui la presenza di un forte binomio tra la grandezza degli avvenimenti e degli uomini (si pensi allo stesso Cesare, ma anche a Pompeo, Catilina, Spartaco, Marco Antonio, Cleopatra e così via), ma anche di letterati che hanno dato a Roma uno dei momenti più alti della sua cultura (Lucrezio, Catullo, Cicerone, Sallustio). Bisognerà aspettare il periodo successivo, quello augusteo, per avere una così grandi messe di opere e di autori, ma, se è possibile dirlo, sarà costituito da un solo uomo.

Gerard_van_Kuijl_-_Quintus_Sertorius_and_the_horse_tail_1638.jpgGerard van Kuijl – Quinto Sertorio (1630)

L’ascesa di Pompeo

Alla morte di Silla, il Senato, che le riforme dello stesso dictator avevano rafforzato, si dimostra assolutamente incapace di gestire i problemi che gli si presentavano di fronte. Tali problemi sono:

  • Ribellione di Sertorio (seguace di Mario) in Spagna;
  • Riapertura delle ostilità in Oriente;
  • Guerra servile

Per risolvere i seguenti fatti il Senato si rivolge, nuovamente, a uomini forti: la guerra in Spagna viene affidata e vinta da un rappresentante aristocratico, Pompeo, quella contro il gladiatore Spartaco, impiegando ben otto legioni, fu affidata a Crasso, uomo che con spregiudicate speculazioni era fra i più ricchi di Roma. Forti dei successi essi chiesero il consolato, in deroga anche alla legge sillana che richiedeva come requisito l’aver percorso il cursus honorum. Per ottenerlo essi avevano bisogno dei popolari e promisero e mantennero, una volta eletti, leggi che ripristinavano i loro diritti come la presenza degli equites nei tribunali, il diritto di veto per le leggi considerate lesive per la plebe e via discorrendo. Ottenuto ciò Pompeo venne nominato per risolvere la situazione in Oriente. Dapprima gli furono attribuiti poteri straordinari contro i pirati che spadroneggiavano sulle coste meridionali dell’Asia minore e quindi debellò definitivamente la situazione sottomettendo in modo definitivo a Roma il mondo greco-ellenistico e organizzando la Palestina come stato autonomo sotto il suo protettorato. Come contropartita Pompeo chiese al Senato di ratificare le decisioni sulla sistemazione da lui attuate in Oriente e un lotto di terreno per i suoi soldati. Il Senato respinse per paura che egli assumesse su di sé troppo potere

 

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Alain Decaux: La morte dei gladiatori

Crisi istituzionale e politica

Durante l’assenza di Pompeo, impegnato nelle guerre orientali, forte si fa il conflitto tra gli optimates ed i populares: a rappresentare i primi ci sono Marco Tullio Cicerone, (sebbene nell’occasione del processo contro il pretore Verre lo denunciò per corruzione e quindi accusò un senatore) che pensa che sia loro compito difendere le istituzioni messe in pericolo dal partito avverso e Marco Porcio Catone (nipote di Catone il Censore) aristocratico intransigente. A favore dei populares si schierano Crasso (che aveva collaborato con Pompeo), Cesare e Catilina. A caratterizzare quest’ultima impresa sono i soldi di Crasso (incapace politicamente, ma ricco), la discendenza di Cesare da una delle famiglie fondatrici l’Urbe e quindi l’alone che ne derivava (gens Iulia), la nobiltà diseredata e con voglia di riscatto di Catilina (aveva pagato in modo “forse” troppo severo le scelte di Silla). E fu proprio la sua congiura a caratterizzare questo periodo.

Della giovinezza di questo nobile poco si sa, cominciamo infatti dai due anni in cui, come governatore in Africa, si procurò l’accusa di concussione (de repetundis). Ciò gli impedì di presentare la sua candidatura al consolato nel 65. Ci riprovò l’anno successivo, ma, nonostante le promesse demagogiche che egli fece alla plebe, fu sconfitto per pochi voti da Cicerone. Non domo si ripresentò per la terza volta, ma la controffensiva aristocratica riuscì a bloccarlo nuovamente. Disperando di poter raggiungere il potere legalmente, provò con un’insurrezione armata. Il suo tentativo, venne smascherato in una celebre orazione di Cicerone chiamata appunto Catilinaria. Egli propose infatti la condanna a morte, senza fare appello al popolo, vista la tragicità degli avvenimenti.

Messo alle strette, Catilina fuggì. Chiamò intorno a sé un folto numero non solo di nobili diseredati, ma anche di uomini liberi poveri o schiavizzati in quanto oppressi dai debiti. Ma fu sconfitto, pur combattendo valorosamente, a Pistoia nel 62 a. C.

L’astro di Cesare

L’ascesa di Cesare avvenne dopo la sua esperienza di propretore in Spagna. Al rientro mirò al consolato (60 a.C.), ma per raggiungerlo aveva bisogno di soldi, che ottenne grazie a Crasso, e di un buon numero di voti che gli garantì, inaspettatamente, Pompeo. Quest’ultimo, infatti, dopo il diniego del Senato rispetto alle sue richieste, s’appoggiò per la loro approvazione proprio a Cesare. Si giunse così al primo consolato, un vero accordo privato di cittadini, che prevedeva:

  • L’elezione di Cesare al consolato;
  • L’approvazione, proprio grazie a Cesare, dei provvedimenti di Pompeo;
  • Un contributo finanziario per dare le terre ai veterani di Pompeo.

Eletto Cesare, egli onerò gl’impegni presi e ne formulò altri a favore della plebe per un più stretto controllo sul fisco proveniente dalle provincie. Quindi fece approvare il suo comando proconsolare sull’intera Gallia, ma prima d’iniziare le operazioni sistemò la situazione a Roma. Allontanò dapprima Catone con il pretesto del possesso dell’isola di Cipro, quindi fece esiliare, con l’aiuto di Clodio, uomo violento e fazioso, il suo nemico più pericoloso, Cicerone (accusato di aver condannato a morte un cittadino senza il consenso del popolo). Solo allora Cesare partì per la Gallia che conquistò dal 58 al 52 a.C. Tali operazioni ebbero tuttavia una piccola pausa, infatti Cesare nel 56 fu costretto a tornare in Italia. La situazione nella penisola si era fatta preoccupante: i popolari, spalleggiati da Clodio, ingaggiavano dei veri e propri scontri armati con gli aristocratici che, per contrapporsi, avevano dato carta bianca ad un certo Milone. Nel contempo Pompeo, preoccupato dall’eccessivo potere cui i populares aspiravano, fece in modo, riuscendoci, di far rientrare a Roma Cicerone. Di fronte a tale situazione Cesare, nel 56, rientrò a Lucca e strinse un nuovo accordo che prevedeva l’elezione al consolato per il 55 di Pompeo e Crasso, che avrebbero in seguito ottenuto il proconsolato uno sulla Spagna, l’altro sull’Illiria, mentre lui, per altri cinque anni, avrebbe portato avanti il suo compito in Gallia. Nonostante l’accordo preso, Pompeo non volle lasciare la capitale dell’Impero, ben consapevole che la partita del potere si sarebbe lì svolta. L’occasione si presentò quando, venuta meno la figura di Crasso ucciso in Oriente (53 a.C.), Milone assassinò Clodio. Il clima di violenza era talmente incandescente che il senato nominò Pompeo consul sine collega con un proprio esercito a controllare la città. Quando Cesare, portato a termine il suo compito in Gallia, propose la sua candidatura per l’anno successivo, il Senato gli pose come condizione quella di smobilitare l’esercito. Fatto lecito per lui, se anche Pompeo lo avesse contestualmente fatto. Il rifiuto di quest’ultimo diede inizio alla seconda guerra civile.

Seconda guerra civile

Allora Cesare ruppe gli indugi e nel 49 a.C. varcò il limes dello Stato con il proprio esercito, varcando il Rubicone e pronunciando la famosa frase alea iacta est (il dado è tratto). Il percorso di Cesare dal fiume a Roma avvenne senza ostacoli, anzi, col sostegno di molti simpatizzanti tanto da cogliere Pompeo impreparato e costringerlo alla fuga in Macedonia. Come un fulmine Cesare non diede il tempo al suo avversario di preparare la controffensiva: recatosi in Spagna per sconfiggere le molti legioni pompeiane,  andò poi a Farsalo dove riuscì a sconfiggerlo definitivamente. Pompeo cercò rifugio in Egitto, ma fu lo stesso re Tolomeo XIII ad ucciderlo e a offrire la testa a Cesare. Quest’ultimo, ritenendo il gesto del sovrano egiziano vile, lo eliminò a favore della sorella Cleopatra, cui s’invaghì.

ae5f4f50edc04c60997269e865d19893.jpgAnna Pennati: Cesare e Cleopatra

L’impero di Cesare

Dopo la sconfitta di Pompeo, Cesare venne nominato “padre della patria” dal Senato, inoltre si fece nominare dictator a vita e ricevette l’inviolabilità tribunizia. Sebbene egli lasciasse in vita tutte le istituzioni repubblicane, tutti i poteri militari, religiosi, civili erano nelle sue mani, ma egli li esercitò con un forte senso di responsabilità. Pur offrendo per un intero anno pace e tranquillità, pur favorendo attraverso leggi una maggior giustizia sociale, pur promuovendo le attività che permettevano un diffuso benessere, l’aristocrazia senatoria, sconfitta da lui ma da lui blandita, temeva che con lui la repubblica sarebbe stata sconfitta a favore di un regime assolutistico. In questo clima un gruppo di congiurati, tra cui il suo figlio adottivo Giunio Marco Bruto, il 15 marzo del 44 lo uccisero con ventitré colpi di pugnale.

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Marco Antonio e Cleopatra

L’eredità di Antonio

Se i congiurati avevano sperato in una sollevazione popolare in loro favore per la riconquistata libertà, rimasero fortemente delusi. Il favore dei cittadini romani verso Cesare venne rafforzato con la sua morte ed anche l’esercito non conobbe alcuna defezione. Di fronte a tale situazione il Senato rimase inerme, incapace di affrontare la situazione. A prendere l’inizia fu, appunto, un luogotenente di Cesare, Antonio, che cercò di accreditarsi come suo successore. Le sue richieste furono due: lasciar liberi i congiurati, per ottenere l’appoggio dei Senatori e la conferma dello stato voluto da Cesare, per non scontentare i populares. Ogni altra decisione sarebbe stata presa dopo l’apertura del testamento di Cesare. Quando il popolo seppe che lui aveva lasciato ad ogni proletario e legionario trecento sesterzi, la folla assaltò le case dei congiurati che furono costretti a  fuggire.

Ottaviano

Ma il colpo che sia Antonio che il Senato dovettero subire fu la nomina del pronipote Ottaviano come erede testamentario diretto di Cesare. Quando gli giunse la notizia egli si trovava in Epiro e decise, senza porre alcun freno, di raggiungere Roma. Al diniego di Antonio di consegnarli il denaro con cui far fronte al regalo che Cesare aveva promesso sia ai cittadini che ai soldati, vendette le sue proprietà e lo ottemperò. La sua stella tra il popolo divenne immensa. Ma, contemporaneamente, cercò di guadagnarsi la simpatia di Cicerone, che degli aristocratici romani restava il più illustre campione. Molto intelligentemente aveva fatto sì, con questa mossa, di sostituire Antonio negli occhi della plebe, rendendolo inoltre isolato perché inviso agli aristocratici. Antonio, nel frattempo,  aveva ottenuto l’incarico di governare una provincia lontana, ma, per non star lontano dalle operazioni, fece approvare una legge de permutatione provinciarum e con un plebiscito fece votare per il suo governatorato sulla Gallia contro Delio Bruto che lo aveva ottenuto con regolarità. Contro i modi attraverso cui Antonio aveva imposto le sue leggi, intervenne Cicerone che lo accusò di essere un nemico della patria nelle celeberrime Filippiche per la veemenza con cui vennero pronunciate. Al rifiuto di Decio Bruto, Antonio si mosse contro di lui con l’esercito, ma in aiuto al regolare governatore si unirono le truppe consolari e quelle raccolte da Ottaviano. Antonio, raggiunto a Modena, venne sconfitto e si rifugiò nella Gallia Narborense dove si unì a Lepido, suo fedele amico. Ambedue vennero dichiarati nemici della patria. La paura per una politica individualista che il Senato sperava di aver annientato in Antonio, si riaffacciò con la persona di Ottaviano: infatti, quando il giovane si presentò per combattere contro Antonio insieme all’esercito consolare, gli venne ordinato di smobilitare l’esercito. Ma egli, capendo che gli aristocratici desideravano usarlo ai loro fini, si volse contro di loro, alleandosi con il suo vecchio nemico e si fece eleggere dai comizi da lui convocati nel 43 a.C., tanto da riuscire a diventare console a soli vent’anni. Quindi, riunitosi a Bologna con Antonio e Lepido diede vita al secondo triumvirato. Quest’ultimo aveva la caratteristica di essere un atto ufficiale della durata di cinque anni con cui i contraenti si distribuivano, con poteri illimitati, territori ed eserciti ed con il compito di riscrivere la costituzione. Il primo atto politico che i triumviri presero fu quello di eliminare i loro nemici: Antonio chiese la testa di Cicerone che l’aveva così infamato nelle Filippiche e l’ottenne. Quindi rivolsero insieme le armi contro i cesaricidi, che protetti dagli aristocratici erano riusciti, fino ad ora, a farla franca. Sconfitti, per non seguire il carro dei vincitori preferirono uccidersi. Bisognava ora ripagare le truppe che avevano aiutato loro nell’impresa: Antonio doveva requisire terre in Oriente, mentre ad Ottaviano toccava la penisola italiana per ripagare i soldati. Ed è in tale frangente che venne la prima rottura. Ad opporsi alla confisca dei terreni in Italia si schierarono la moglie Fulvia ed il fratello Lucio di Marco Antonio. A spingere la situazione fino alla definitiva rottura pare sia stata Fulvia che, gelosa per il fascino che intanto Cleopatra suscitava nel marito, voleva ad ogni costo la guerra. Sconfitti entrambi da Ottaviano, il triumviro non si accanì contro di loro, mandando il fratello di Antonio in Spagna e la moglie dello stesso in Grecia, dove morì poco dopo. A pagare le conseguenze fu invece la città dove si svolse lo scontro, Perugia, che per aver dato ospitalità ai nemici di Ottaviano venne rasa al suolo.

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Antonio, Lepido e Ottaviano: II trimvirato

Scontro tra Ottaviano ed Antonio

Vista la situazione creatasi si decise che sarebbe stato meglio rafforzare l’accordo con un nuovo patto stipulato a Brindisi, in cui entrò anche Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno che aveva cercato d’ostacolare i nuovi protagonisti della storia romana con atti pirateschi nel Mediterraneo. A patto di permettere una navigazione tranquilla alle navi mercantili fu affidato a lui il governo delle isole maggiori mediterranee (Sicilia, Sardegna, Corsica). Quindi a Lepido il governo forse meno importante, quello d’Africa, mentre lui e Antonio si spartivano l’Occidente e l’Oriente. A sancire il patto Antonio avrebbe sposato Ottavia, sorella d’Ottaviano, mentre quest’ultimo avrebbe preso in moglie Scribonia, nipote di Gneo Pompeo.

Antonio in Egitto, recatosi lì per la riscossione dei tributi delle popolazioni orientali, subì il fascino della regina Cleopatra e ne assecondò la politica muovendosi in modo autonomo da Roma. Ottaviano, in Occidente rinfocolava l’astio nei suoi confronti, alimentando la diceria che egli cercava di costruirsi un regno autonomo nell’impero orientale a scapito della madrepatria e della sua legittima moglie. Inoltre il giovane generale aveva rafforzato la sua autorità sconfiggendo Gneo Pompeo, che non aveva affatto rispettato i patti ed inoltre, di fronte ad un tentativo di Lepido di ribellarsi, lo aveva sconfitto e senza umiliarlo lo nominò pontefice massimo fino alla morte. Ottaviano era de facto proprietario dell’Occidente.

Guerra e fine d’Antonio

Castro_Battle_of_Actium.jpgLa battaglia di Azio

Il disegno di Antonio di staccarsi da Roma e costituire una monarchia ellenistica di tipo orientale cominciò a cessare quando, venuto in possesso di un suo testamento, Ottaviano lesse in Senato le sue decisioni: come se le terre orientali fossero proprie egli le lasciava in eredità ai figli avuti con la regina d’Egitto. Tutto il Senato si indignò e, col consenso del popolo, dichiarò la guerra. Fu incaricato lo stesso Ottaviano di esserne il generale, il quale, in modo estremamente intelligente, per non dar vita ad una nuova guerra fratricida, la dichiarò direttamente alla regina d’Egitto. A comandare la flotta Ottaviano scelse Agrippa, già vincitore contro Sesto Pompeo. Ottaviano fece schierare le navi di fronte al promontorio di Azio, nel mar Ionio. Quanto Antonio cercò inutilmente di forzarle per raggiungere l’Italia, Cleopatra fuggì inseguita da Antonio. Ottaviano intanto mise sotto assedio Alessandria d’Egitto. Nella confusione che regnava in città, girò la voce che Cleopatra fosse morta ed Antonio, resosi conto che senza di lei il suo progetto non aveva alcuna possibilità di riuscita, si uccise. Cleopatra, che morta non era, ma resosi conto d’esser sola, per non dover seguire il carro del vincitore come sconfitta nella marcia trionfale, s’uccise con un aspide. Ottaviano era rimasto solo, il padrone di Roma era lui, la repubblica era finita.

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Cultura

E’ questo un periodo denso di avvenimenti, tutti estremamente importanti per Roma e la sua storia, sia politica che culturale. Non è un caso infatti che alla ricchezza di episodi corrisponda un’altrettanta ricchezza di opere che costituiscono ancora oggi, insieme a quelle augustee, dei veri e propri punti di riferimento.

Roma, infatti, da una parte perfezionerà, da un’altra inaugurerà vari generi letterari:

  • dal periodo sillano troverà la massima espressione la poesia lirica, che Catullo porterà alla massima espressione partendo da coloro che la iniziarono in quell’età e che vengono, per questo, definiti preneoterici;
  • sempre da quel periodo si svilupperà l’oratoria, ma non più solo come tecnica pratica per imparare a diventare un peritus loquendi, come ancora era nella Rhetorica ad Herennium a torto a lui attribuita, ma come vera e propria pratica con la quale affermarsi nel mondo del potere; l’utilizzo di questo genere da parte di Cicerone farà sì che egli diventerà il punto da cui partire e con cui confrontarsi per chi verrà dopo di lui;
  • La nascita della monografia storica con Cesare e Sallustio, anch’essi, diventati nel tempo punti di riferimento per la loro qualità stilistica;
  • La capacità di Cicerone di trasportare e, quindi, di far entrare nella storia della cultura latina la filosofia;
  • La grande ed unica esperienza, di per sé monumentale, di fare di un tema filosofico, un grande e straordinario poema da pare di un personaggio ancora fortemente avvolto nel mistero come Lucrezio.

Sono questi i grandi meriti culturali di questa età che ci consegneranno, da parte dei suoi intellettuali, la visione completa del modo non solo in cui si governava, ma anche si viveva e pensava.

GAIO VALERIO CATULLO

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Busto di Catullo a Sirmione

Il più grande poeta lirico latino pervenutoci, Catullo è riuscito a fare del suo Liber un testo fondamentale dove trasuda irruenza, giovinezza, amore e odio; ma l’opera non è solo questo, è anche un grande affresco di capacità poetica dove il nostro mostra i suoi gusti letterari e il modo straordinario d’interpretarli, dalla poesia di Saffo del V sec. a quella, raffinatissima e colta, dell’ellenista Callimaco.

 Notizie biografiche 

Catullo ci racconta tutto di sé, ma solo del suo mondo interiore; quando si tratta di notizie biografiche egli è molto parco: ci dice che è originario di Verona, certamente di ricca famiglia se il padre può ospitare, quando si trova da quelle parti, un personaggio del rango di Giulio Cesare. Certamente passa la giovinezza a Roma, di cui ci offre un vivido quadro e dove partecipa, insieme ad amici intellettuali, a quegli incontri dove si poeta giocosamente, ma non superficialmente, sulle proprie emozioni e su occasioni tali da essere cantate (i neoteroi).

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Un immagine di Catullo

Ma in questa città fu fondamentale l’amore che lo legò a colei che egli chiamò poeticamente Lesbia, ma che Apuleio, autore dell’età degli Antonini, ci svela essere quella Clodia, sorella di Clodio, nemico di Cicerone, che per questo lasciò di lei un ritratto in cui la descrisse come una donna disinvolta e dai liberi costumi sessuali. Ancora i suoi versi ci parlano di un viaggio nella Troade, dove visitò la tomba del fratello morto (versi ripresi in modo piuttosto puntuale da Foscolo). Non avendo notizie attendibili, ma dai dati emersi dai suoi scritti, sembra che la sua vita deve essere compresa tra l’84 e il 54, e la giovane morte sembra ben accordarsi con il mito romantico cui venne infine circondato.

La poesia neoterica

I poeti neoterici, come già accennato, mettono in primo piano della loro produzione la vita interiore delle passioni, che sembra poi diventare il fulcro del loro modus vivendi. Questo modo di considerare la letteratura li fa vivere in una cerchia in cui mostrano di conoscersi, frequentarsi, di condividere momenti privati propri e dei propri amici. Tale atteggiamento li fa considerare ostili da Cicerone, in quanto vedeva nel loro atteggiamento il più completo disinteresse riguardo lo Stato e una minaccia per l’educazione dei giovani, più che altro attirati da quest’atteggiamento edonistico e disimpegnato. Ma sembra proprio questo atteggiamento che fa parlare qualche critico di consapevolezza epicurea, quella che ritiene la philìa uno degli aspetti più importanti di questi poeti. Ma si direbbe che piuttosto di “amicizia” intesa in senso epicureo, bisognerebbe parlare di loro come di bohemiens, sperimentatori di vita e, come Catullo, poi dalla vita ingoiati.

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Charles Meynier: Erato, musa della poesia erotica

Liber
Il Liber che ci è pervenuto consta di 116 liriche così suddivise:

  • 1 – 60: componimenti brevi di metri diversi, definiti dall’autore nugae (sciocchezzuole, cose di poca importanza), presentano svariati temi, come l’amore, la morte del passerotto dell’amata, un invito a cena, e così via);
  • 61 – 68: carmina docta, componimenti più impegnativi che rispettano il gusto erudito della poesia ellenistica;
  • 69 – 116: epigrammi (distici elegiaci), che presentano la stessa varietà tematica della prima parte.

Dalla divisione qui presentata appare evidente che essa sia stata eseguita da copisti che secondo le usanze dell’epoca l’hanno suddivisa per generi metrici e non contenutistici. Tuttavia, anche da alcune tracce che appaiono nel testo, immaginiamo che tale suddivisione non sia quella operata da Catullo stesso e che probabilmente alcune liriche composte dal nostro autore siano infine, andate perdute.

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Marco Antonio Mureto, Catullus et in eum commentarius, Venetiis, apud Paulum Manutium, 1554

La poetica

Iniziamo il percorso sul Liber di Catullo dalla poetica, le cui tracce possiamo già individuarle nella prima lirica:

DEDICA
(I)

Cui dono lepidum novum libellum

arida modo pumice expolitum?
Corneli, tibi: namque tu solebas
meas esse aliquid putare nugas
iam tum cum ausus es unus Italorum
omne aevum tribus explicare cartis
doctis, Iuppiter, et laboriosis.
Quare habe tibi quidquid hoc libelli
qualecumque; quod, o patrona virgo,
plus uno maneat perenne saeclo.

220px-Cornelio_Nepote.jpg Cornelio Nepote, destinatario delle nugae catulliane

A chi dedicherò questo libretto che l’arsa pomice ha appena lucidato? A te, Cornelio, che solevi dar qualche peso alle mie iniziative, tu che tra gli itali eri il solo a condensare la storia universale in tre volumi, dotti, per Giove, e straordinari. Sia tuo il libretto, per quel che è, per quel che vale: ma ch’esso viva, vergine Musa, più del tempo di un uomo.

La lettura di questo carme, oltre a dirci che essa è dedicata a all’amico Cornelio Nepote, famoso per l’opera De viris illustribus, a noi pervenuta seppure non completamente, ci offre anche alcune considerazioni sul modo con cui i neoterici consideravano il lavoro poetico:

  • La brevitas: spiegare la storia universale in solo tre libri è il concetto chiave secondo cui la vera arte va ricercata nella brevità, dove solo si può rintracciare l’erudizione (libri dotti) e l’eleganza formale;
  • I carmina che ci offre non sono che nugae, che Cornelio sembrava apprezzare, tuttavia, seppur (falsamente) di poco conto, estremamente rifinite (pulite con l’arida pomice), a dimostrazione dell’importanza della purezza formale.

Se la dedica contiene alcuni topoi caratteristici di un carmen proemiale, la poetica catulliana viene espressa anche in altri momenti come in questo:

LA ZMYRNA DEL MIO CINNA
(XCV)

Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem
quam coeptast nonamque edita post hiemem,
milia cum interea quingenta Hortensius uno
…………………………………………………
Zmyrna cavas Satrachi penitus mittetur ad undas,
Zmyrnam cana diu saecula pervolvent.
At Volusi annales Paduam morientur ad ipsam
et laxas scombris saepe dabunt tunicas.
Parva mei mihi sint cordi monumenta sodalis,
at populus tumido gaudeat Antimacho.

Infine la Smirna del mio Cinna dopo nove estati da che è iniziata e dopo nove inverni è stata pubblicata, mentre nel frattempo Ortensio cinquemila in un solo (mese?) ….. La Smirna sarà mandata fino alle onde profonde del Satrachi, le canute generazioni leggeranno assiduamente a lungo la Smirna. Ma gli annali di Volusio moriranno nella stessa foce del Po e daranno spesso ampie coperture agli sgombri. A me siano al cuore i piccoli “monumenti” del mio compagno, ma il popolo goda del grasso Antimaco.

Anche questo carmen riprende il tema della brevitas, attraverso l’incitamento al suo amico Elvio Cinna e al suo raffinato poemetto, contro il turgido epos di Volusio. Quello che qui interessa non è tuttavia ripetere quanto detto rispetto alla poesia della dedica, quanto piuttosto l’imitatio che egli fa verso un genere greco: infatti già Callimaco aveva, in una sua opera, annunziato la pubblicazione dei Fenomeni di Arato. Ma Catullo, rispetto al poeta alessandrino, fa qualcosa di più: utilizza tale espediente per criticare con sarcasmo i suoi avversari letterari, augurando che le loro opere finiscano a far da involucro a pesci maleodoranti.

Temi vari

Nell’opera dell’autore di Verona l’elemento centrale è l’io e le sue impressioni su ciò che vive rispetto all’amicizia, l’amore e la politica. Tra i vari temi presenti iniziamo con il tema dell’epicurea philia, che, come già detto sembra più da attribuirsi ad un atteggiamento di Catullo e dei suoi sodali:

UN INVITO A CENA
(XIII)

Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
paucis, si tibi di favent, diebus,
si tecum attuleris bonam atque magnam
cenam, non sine candida puella
et vino et sale et omnibus cachinnis.
Haec si, inquam, attuleris, venuste noster,
cenabis bene: nam tui Catulli
plenus sacculus est aranearum.
Sed contra accipies meros amores
seu quid suavius elegantiusvest:
nam unguentum dabo, quod meae puellae
donarunt Veneres Cupidinesque,
quod cum tu olfacies, deos rogabis,
totum ut te faciant, Fasulle, nasum.

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Affresco pompeiano raffigurante un momento del pasto romano

Cenerai bene, o mio Fabullo, presso di me fra pochi giorni, se gli dei ti saranno favorevoli, se con te porterai una buona e abbondante cena, non senza una splendida fanciulla e vino e motti di spirito e tutta l’allegria. Se porterai queste cose, dico, o mio caro amico, cenerai bene: infatti il borsellino del tuo Catullo è pieno di ragni. Ma in cambio riceverai un graziosa delizia o qualcosa di più soave o di più elegante infatti (ti) offrirò un unguento che alla mia fanciulla donarono gli Amori ed i Cupidi, quando tu lo proverai, pregherai gli dei, che ti facciano tutto naso.

Qui il tema dell’amicizia è risolto nel classico “invito a tavola” che Catullo rivolge al suo amico, classico perché è un tema già presente nella poesia greca. Egli lo risolve in modo scherzoso, insistendo sulla sua povertà e chiedendo all’amico di portare cibo e donne. Ma ciò che interessa è il clima che qui ci viene rappresentato e che ci offre, nel contempo, un quadro della vita di questi raffinati bohemiens. Appare inoltre un piccolo accenno al suo smisurato amore: sebbene egli sia povero, potrà donare al suo amico il profumo più inebriante che egli abbia mai sentito, in quanto fabbricato dallo stesso Amore e a lui donato dalla donna che ama. Ciò permetterà di chiudere il carme con una battuta scherzosa (aprosdòketon, procedimento per cui si suscita nel lettore un’aspettativa che verrà delusa o sovvertita) del tutto inattesa dal lettore.

Ancora su questo tema egli ci offre la sua gioia nel poter rivedere un amico:

IL RITORNO DI UN AMICO
(IX)

Verani, omnibus e meis amicis
antistans mihi milibus trecentis,
venistine domum ad tuos penates
fratresque unanimos anumque matrem?
venisti. o mihi nuntii beati!
visam te incolumem audiamque Hiberum
narrantem loca, facta nationes,
ut mos est tuus, applicansque collum
iucundum os oculosque suaviabor.
o quantum est hominum beatiorum,
quid me laetius est beatiusve?

Veranio, che per me tra tutti i miei amici ne superi mille trecento, sei giunto a casa dai tuoi penati, dai fratelli unanimi e la vecchia madre? Sei giunto, o belle notizie per me! Ti rivedrò incolume e ti sentirò narrare i luoghi degli Iberi, le imprese, i popoli, come è tuo stile, aggrappandomi al dolce collo bacerò il volto e gli occhi. Oh quanto c’è di uomini più felici, cosa c’è di più allegro e felice di me?

Se Catullo viene ricordato per la passionalità con cui esprime il suo sentimento d’amore, non si può trascurare che tale passionalità è costituiva del suo essere. Infatti anche in questo canto egli si fa trasportate dall’infinita gioia che prova nel rivedere un amico. Ma tale gioia non è scevra dalla curiosità: Catullo non vuole solo riabbracciarlo, ma conoscere ciò che ha visto e imparato.

Un altro tema affrontato, ma non principale nel Liber, è quello politico, o per meglio dire di sottolineatura apolitica rispetto a due grandi uomini di potere:

A CESARE
(XCIII) 

Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere,
nec scire utrum sis albus an ater homo.

Non mi preoccupo troppo di volerti piacere, né di sapere se tu sia un uomo bianco o nero.

In questo unico distico elegiaco (si definisce così l’unione di due versi di cui uno in esametro e l’altro in pentametro) l’autore vuole mostrare completa indifferenza verso l’uomo che, durante la sua vita, era al culmine del potere politico. Tale indifferenza, d’altra parte, era pienamente condivisa dai poeti neoterici; viene qui, tuttavia, sottolineata attraverso l’ironia, con cui  Catullo sembra alludere all’ambiguità sessuale dell’uomo politico.

Ora se, una scuola poetica fortemente “aristocratica” nel percepire la realtà ed il mondo attraverso il culto della bellezza, e quindi di per sé lontana dai populares, non per questo egli è vicino agli optimati come si può vedere in questo passo:

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Giocatori di dadi 

A CICERONE
(IL)

Disertissime Romuli nepotum,
quot sunt quotque fuere, Marce Tulli,
quotque post aliis erunt in annis,
gratias tibi maximas Catullus
agit pessimus omnium poeta,
tanto pessimus omnium poeta,
quanto tu optimus omnium patronus.

O Marco Tullio, il più fecondo tra i nipoti di Romolo, di quanti sono, di quanti furono e di quanti saranno negli anni futuri, Catullo ti ringrazia moltissimo, il peggiore poeta fra tutti, quanto tu il migliore avvocato fra tutti.

Anche qui, sebbene attraverso un linguaggio più ricercato ed enfatico, scopriamo un vero e proprio intento ironico, contro colui che aveva rimproverato i neoteroi di “criticare” il sommo Ennio, padre della patria e i cui versi servivano ad educare i bambini Romani al rispetto delle leggi e della famiglia. Ma d’altra parte Catullo cosa può condividere con un uomo un po’ borioso, ma sincero nel suo impegno per salvare la repubblica ed un gruppo di giovani, di cui fa parte, ormai così ellenizzato ed internazionale che della patria e dei suoi valori non importa nulla? Cosa ha ancora da condividere con chi, inoltre, si era scagliato in modo così violento contro la sua donna nella Pro Caelio da definirla una “mangiatrice d’uomini” e “poco di buono”?

Un altro tema importantissimo è quello della morte, che possiamo riassumere in due diversi atteggiamenti, quello giocoso e quello biografico e triste:
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Edward Pointer: Lesbia con il suo passerotto (1908)

Il primo è quello della morte del passero, tuttavia non si può leggere tale passo senza introdurlo con il carme II in cui tale uccellino ci viene presentato:

IL PASSEROTTO DI LESBIA
(II)

Passer, deliciae meae puellae,
quicum ludere, quem in sinu tenere,
cui primum digitum dare appetenti
et acris solet incitare morsus,
cum desiderio meo nitenti
carum nescioquid lubet iocari,
et solaciorum sui doloris,
credo, ut tum gravis acquiescat ardor:
tecum ludere sicut ipsa possem
et tristis animi levare curas!

Passero, gioia della mia ragazza, con cui è solita giocare, tenerlo in grembo, offrirgli la punta del dito a lui che gli si avventa contro e provocare pungenti beccate, quando al mio splendido amore piace giocare non solo quale gioco gradito e di piccolo sollievo del suo suo dolore, credo, affinché plachi poi la bruciante passione: potessi giocare con te come lei stessa (gioca con te) e dimenticare i tristi affanni!

LA MORTE DEL PASSERO
(III)

Lugete, o Veneres Cupidinesque,
et quantum est hominum venustiorum:
passer mortuus est meae puellae,
passer, deliciae meae puellae,
quem plus illa oculis suis amabat.
nam mellitus erat suamque norat
ipsam tam bene quam puella matrem,
nec sese a gremio illius movebat,
sed circumsiliens modo huc modo illuc
ad solam dominam usque pipiabat.
Qui nunc it per iter tenebricosum
illuc, unde negant redire quemquam.
At vobis male sit, malae tenebrae
Orci, quae omnia bella devoratis:
tam bellum mihi passerem abstulistis
o factum male! o miselle passer!
Tua nunc opera meae puellae
flendo turgiduli rubent ocelli.

Piangete Veneri, piangete Amori, e chiunque abbia un animo gentile. E’ morto il passero della mia donna, il passero, gioia della mia donna, che lei più dei suoi occhi amava; era tutto miele, e la conosceva come una bimba conosce la madre, e dal suo seno mai si distaccava, ma saltellando qui e là solo per lei pigolava. Ma adesso va per il cammino oscuro, da cui, si dice, non torni più nessuno. Maledizione a voi, tenebre cattive, che ogni cosa bella divorate: un amore di passero avete annientato. Fatto orrendo! Passero infelice! Per causa tua la mia donna piange, e gli occhi belli sono rossi e gonfi.

I due carmi, messi uno a fianco all’altro dopo la dedica, costituiscono quasi un unicum: dapprima vediamo l’uccellino in atteggiamento fortemente amoroso con la sua donna, il secondo è un epicedio (componimento poetico funebre) per la morte del passerotto di Lesbia. Anche la morte di un animale, come molti altri, è un tema assai presente nella lirica greca, che Catullo qui riprende sia con giusta mestizia, ma anche con graziosa leggerezza. D’altra parte l’episodio funebre serve al poeta per parlare di Lesbia, qui ritratta con semplice freschezza, piena d’attenzioni per il suo passerotto ed inconsolabile quando lui non c’è più.

Ben diverso tono ha la poesia per la morte del fratello:
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Tomba romana

PER LA MORTE DEL FRATELLO
(CI)
Multas per gentes et multa per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem.
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum.
heu miser indigne frater adempte mihi,
nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, ave atque vale. 

Di gente in gente, di mare in mare ho viaggiato,  o fratello, e giungo a questa squallida tomba per consegnarti il dono supremo di morte e per parlare invano con le tue ceneri mute, poiché la sorte mi ha rapito te, proprio te, o infelice fratello precocemente strappato al mio affetto. Ed ora queste offerte, che ti porgo come comanda l’antico rito degli avi, dono dolente alla tomba, gradisci; sono madide di molto pianto fraterno; e ti saluto per sempre, o fratello, addio.

Carme famosissimo, grazie anche alla “mediazione” che Foscolo ne fece nel celeberrimo sonetto In morte del fratello Giovanni. Si tratta infatti della tomba che Catullo visitò nel 57 nel suo viaggio nella Troade al seguito del pretore Gaio Memmio. A ben guardare sin dall’inizio del carme la distanza tra la tomba e il poeta sembra presagire la stessa distanza tra la vita e la morte. La cenere è infatti muta, impenetrabile. Al poeta non rimane che, tradizionalmente, offrire riti funebri e dare un addio definitivo, rimarcando (seguendo la filosofia epicurea?) il vuoto dopo la morte.

L’amore

Ma il tema centrale, quello che, come un filo rosso percorre l’intero Liber, è il tema d’amore, rivestito con incredibile letterarietà, ma sempre con innegabile passione. Tale concetto lo si può notare nel bellissimo rifacimento che egli compì di una lirica di Saffo:

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Saffo

LA POTENZA DELL’EROS
(LI)
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
(vocis in ore),
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures, gemina et teguntur
lumina nocte.
Otium, Catulle, tibi molestum est;
otio exsultas nimiumque gestis.
Otium et reges prius et beatas
perdidit urbes

Pari a un dio mi sembra, o più ancora, se è lecito dire, chi ti siede di fronte, e ti guarda, e ascolta, ridere dolcemente, ed io, infelice, smarrisco ogni senso: al primo vederti, Lesbia, non mi resta un filo di voce, la lingua s’annoda, sotto pelle trascorre fiamma sottile, un suono dentro mi romba nelle orecchie, gli occhi si coprono di duplice notte. L’ozio, Catullo, ti fa male; in ozio t’agiti troppo, t’esalti. L’ozio ha già rovinato re e città intere.

Come già detto si tratta di una traduzione/emulazione di una lirica della poetessa Saffo, cui si allontana solo nell’ultima parte, quella dedicata alla riflessione sull’ozio. Tale carme ci offre la possibilità di ragionare sul concetto del vertere poetico, cui i neoteroi e chiaramente Catullo, danno notevolissima importanza. Qui infatti egli riprende non solo il tema ma anche la versificazione della poetessa greca, versificazione difficile e rara che egli utilizza qui, quasi questo fosse l’atto dell’innamoramento e nel testo 11 che sembra invece alludere alla fine di un amore. Tale corrispondenza non sembra casuale, come ad indicare che la scelta metrica obbedisca a momenti topici e fondamentali (il principio e la fine della sua storia d’amore).

Dopo essersene innamorato il poeta la desidera con tutta la forza, volendole dare tutti i baci possibili: 

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Auguste Rodin: Il bacio (1886)

MILLE BACI
(V)
Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.

Viviamo, mia Lesbia, e amiamoci e le chiacchiere dei vecchi brontoloni stimiamole tutte un soldo! Il sole può morire e può rinascere: ma quando per noi cade la breve luce dobbiamo dormire insieme una notte eterna. Dammi mille baci, poi cento, poi altri mille, poi un’altra volta cento, e ancora altri mille e ancora cento. Infine, quando ce ne saremo dati migliaia, li confonderemo per non sapere quanti sono, o perché nessun malvagio possa invidiarci dopo aver saputo quanti baci ci siamo dati.

Lirica quanto mai passionale: un vero e proprio invito all’amore spinge il poeta e l’amante a sfinirsi di baci; ma non è solo amore. Vi è in Catullo una sottile malinconia, che lo spinge a vivere con estrema intensità visto che al di là c’è il vuoto, come già abbiamo visto nel canto dedicato al fratello. La compulsività del numero dei baci, infatti, sembra voler nascondere la brevis lux della vita, sottolineata dall’ambiguità del dover dormire una notte eterna e che non finisce mai.

Ma come intendeva l’amore Catullo? Alla base di tutto fra i due amanti è necessario un foedus (patto) che sancisca per ambedue la fides (la fiducia) tra l’uno e l’altro:

FOEDUS ET FIDES
(LXXXVII)
Nulla potest mulier tantum se dicere amatam
vere, quantum a me Lesbia amata mea est.
Nulla fides ullo fuit umquam foedere tanta,
quanta in amore tuo ex parte reperta mea est. 

Nessuna donna può dire d’essere stata tanto amata veramente, quanto tu Lesbia sei stata amata da me. In nessun patto ci fu mai tanta fiducia che questo mio amore verso te ha rivelato.

E’ abbastanza importante l’utilizzo dei due termini sopra riportati nel riferirsi al rapporto d’amore: infatti Catullo utilizza il termine foedus che ha radice politica: esso indicava l’alleanza tra due stati; fides aveva diverse accezioni, ma veniva soprattutto usata in campo coniugale. Il fatto che il poeta veronese spostasse il campo semantico dei due termini in un rapporto erotico dal loro significato “ufficiale” tende da un lato a voler rendere ufficiale e quindi riconoscibile una vera, così come Catullo intendeva viverla, storia d’amore e dall’altra l’impossibilità di realizzarla.

Un’altra importante terminologia che Catullo ci svela sul piano della poesia erotica è quella di amare e voler bene:

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Coppia romana

AMARE ET BENE VELLE
(LXXII)
Dicebas quondam solum te nosse Catullum,
Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
multo mi tamen es vilior et levior.
«Qui potis est?», inquis, quod amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene velle minus.

Dicevi un tempo d’amare il solo Catullo, Lesbia, e che non avresti voluto amare neppure Giove al posto mio. Ti ho amato non soltanto come la gente ama un’amante, ma come un padre ama i suoi figli e i suoi generi. Ora ho capito: perché anche se brucio più intensamente, sei meno degna di stima e d’amore. «Com’è possibile?», dici. Perché un’ingiuria tale costringe un amante ad amare di più, ma a voler meno bene.

E’ un carmen dove già comincia ad apparire la disillusione catulliana. Il tradimento di Lesbia, qui adombrato, fa sì che il poeta chiarisca bene il concetto di cosa sia per lui l’amore e cosa il semplice affetto. E’ infatti utile dividere il brano in due periodi: un prima in cui Catullo ama stimando la persona umana e quindi circondarla d’affetto e chi, ferito, continui ad amare ma soltanto per soddisfare un bisogno fisico. Infatti per Catullo si brucia d’amore (uri) per possedere, ma si ama quando si vuole bene (bene velle).

La delusione e dissociazione dell’autore verso la donna cui dedica ogni attimo della sua vita, viene riassunta in modo mirabile in un distico famosissimo:

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Pittura contemporanea

ODI ET AMO
(LXXXV)
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio e amo. Forse mi chiedi come io faccia. Non lo so, ma sento che ciò accade, e ne sono tormentato.

Qui viene sintetizzato in modo mirabile il conflitto interiore, esemplificato nei due verbi odi/amo che in parte rispecchia il amare/bene velle. Ma non c’è un ripiegamento psichico, quanto una situazione fenomenica: i tradimenti di lei lo portano a odiarla e amarla.

D’altra parte ormai Lesbia si sta lasciando completamente andare:
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John Reinhard Weguelin – Lesbia

L’ESTREMA DEGRADAZIONE
(LVIII)
Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa,
illa Lesbia, quam Catullus unam
plus quam se atque suos amavit omnes,
nunc in quadriviis et angiportis
glubit magnanimi Remi nepotes.

Celio, la nostra Lesbia, la bella Lesbia. la bella Lesbia, che lei sola Catullo amò più di se stesso e tutti i suoi, ora negli incroci e nei vicoli scortica i nipoti del magnanimo Remo.

Catullo si rivolge ad un amico, (i critici azzardano forse un Celio di Verona) per riferirgli la più completa degradazione della sua donna che ormai s’accompagna nei bassifondi con un tutti gli uomini di Roma. E’ certamente una visione soggettiva dettata da forte ira, con una chiusa sarcastica che chiude in modo osceno il carme. Infatti glubo riveste qui un significato osceno di “smungere, vuotare”.

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Stefano Bakalovich: Catullo legge versi ai suoi amici

Ma anche Catullo tradisce Lesbia con altre donne e non solo, se si lascia irretire dalla greca pederastia, dedicando, con le stesse parole che usa per l’amata, più di un carme per il giovinetto Giovenzio:

VERSI PER GIOVENZIO
(XLVIII)
Mellitos oculos tuos, Iuventi,
si quis me sinat usque basiare,
usque ad milia basiem trecenta
nec numquam videar satur futurus,
non si densior aridis aristis
sit nostrae seges osculationis.

I tuoi occhi, o Giovenzio, dolci come il miele, se qualcuno mi lasciasse liberamente baciare, io li bacerei migliaia di volte, né mi parrebbe di essere mai sazio, anche se più fitta delle spighe mature fosse la messe dei miei baci.

La difficoltà di questo carme non è tanto attestare la veridicità dell’amore di Catullo per questo ragazzo, in quanto sappiamo che la pratica omosessuale da parte di questi poetae novi e della classe intellettuale era abbastanza diffusa ed accettata, quanto piuttosto se il verseggiare sopra di essa non sia una ripresa della poesia greca arcaica, cui il nostro faceva riferimento. Basti pensare che quella in cui egli comincia a provare il desiderio verso Lesbia, il carme 51, chiamato qui La potenza dell’eros, sia una ripresa piuttosto puntuale di una lirica della poetessa Saffo dedicata ad una ragazza.

Ma come proprio tale lirica, cui Catullo riprende la versificazione, aveva indicato l’inizio del suo amore, ora sarà un’altra lirica, nello stesso verso, ad indicarne la fine:
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Lawrence Alma-Tadema: Catullo da Lesbia (1865)

AMICI MIEI DITE A LESBIA…
(XI)
Furi et Aureli comites Catulli,
sive in extremos penetrabit Indos,
litus ut longe resonante Eoa
tunditur unda,
sive in Hyrcanos Arabesve molles,
seu Sagas sagittiferosve Parthos,
sive quae septemgeminus colorat
aequora Nilus,
sive trans altas gradietur Alpes,
Caesaris visens monimenta magni,
Gallicum Rhenum horribile aequor ulti-
mosque Britannos,
omnia haec, quaecumque feret voluntas
caelitum, temptare simul parati,
pauca nuntiate meae puellae
non bona dicta.
cum suis vivat valeatque moechis,
quos simul complexa tenet trecentos,
nullum amans vere, sed identidem omnium
ilia rumpens;
nec meum respectet, ut ante, amorem,
qui illius culpa cecidit velut prati
ultimi flos, praetereunte postquam
tactus aratro est.

Furio ed Aurelio, compagni di Catullo, sia se penetrerà tra gli ultimi Indi, dove il lido è battuto dall’onda orientale che risuona, sia tra gli Ircani o i lenti Arabi, sia tra i Saghi o i Parti armati di frecce, sia tra le acque che colora il Nilo dalle sette foci, sia se entrerà tra le alti Alpi, visitando le opere del grande Cesare, il gallico Reno, il mare orrendo e gli ultimi Britanni, tutte queste realtà, qualunque volontà dei celesti deciderà, pronti ad affrontarle insieme, annunciate alla mia ragazza poche parole non buone. Viva e goda coi suoi ganzi: ne tiene trecento insieme abbracciandoli, non amandone nessuno veramente, ma ugualmente rompendo i fianchi di tutti; e non aspetti, come prima, il mio amore, che per sua colpa è caduto come un fiore dell’ultimo prato, dopo esser stato tranciato da un aratro che passava.

Il carme indica l’estrema amarezza con cui Catullo sembrerebbe chiudere la storia (o un momento di essa). Un viaggio lontano, per andare via, verso luoghi favolosi; tutto questo per dimenticarla e allontanare da sé quest’amore che non ha fatto altro che spezzargli il cuore.

A tale allontanamento, forse definitivo, si avvicina uno dei testi più elaborati, ma certamente tra i più belli, in cui, cessata la rabbia, nasce quasi la consapevolezza della fine di una storia: non occorre più adirarsi verso colei che gli ha occupato la mente in modo totale, ma trovare la pace con se stesso.

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Immagine di Catullo

PREGHIERA AGLI DEI
(LXXVI)
Siqua recordanti benefacta priora voluptas
est homini, cum se cogitat esse pium,
nec sanctam violasse fidem, nec foedere nullo
divum ad fallendos numine abusum homines,
multa parata manent in longa aetate, Catulle,
ex hoc ingrato gaudia amore tibi.
Nam quaecumque homines bene cuiquam aut dicere possunt
aut facere, haec a te dictaque factaque sunt:
omnia quae ingratae perierunt credita menti.
Quare cur te iam amplius excrucies?
Quin tu animo offirmas atque istinc teque reducis,
et deis invitis desinis esse miser?
Difficile est longum subito deponere amorem;
difficile est, verum hoc qua lubet efficias.
Una salus haec est, hoc est tibi pervincendum;
hoc facias, sive id non pote sive pote.
O di, si vestrum est misereri, aut si quibus umquam
extremam iam ipsa in morte tulistis opem,
me miserum aspicite et, si vitam puriter egi,
eripite hanc pestem perniciemque mihi,
quae mihi subrepens imos ut torpor in artus
expulit ex omni pectore laetitias.
Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa,
aut (quod non potis est) esse pudica velit;
ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum.
O di, reddite mi hoc pro pietate mea.

Se il ricordo del bene compiuto in passato dà piacere al pensiero d’essere stati giusti, di non avere mai tradito e offeso il nome degli dei per ingannare l’uomo, mai in nessun rapporto, molte gioie t’aspettano, e per molti anni, o Catullo, per questo amore senza gratitudine. Perché quanto gli uomini possono ad una persona dire o fare di bene tu l’hai detto e l’hai fatto. Tutto è morto, donato a uno spirito ingrato. Perché allora continui a torturarti? Perché non ti fai forte e ti stacchi da questo, ritorni, senza essere più infelice, se gli Dei non lo vogliono? È difficile, a un tratto, un lungo amore, lasciarlo. È difficile, sì, ma devi farlo. E come vuoi tu. È la sola salvezza. E tu devi vincere, devi. Cerca di farlo, se puoi, e anche se non puoi. O Dei, se è qualità divina avere pietà, se mai soccorreste qualcuno sulla terra nell’ora della morte guardatemi. Io sono infelice. E se la mia vita fu pura, strappate questa malattia mortale, che penetra nelle fibre acuta come un torpore e mi toglie dal cuore tutto il gusto di vivere. Non chiedo, no, che lei mi possa riamare, e che diventi pura, perché non è capace: io ho voglia di star bene, guarire dal mio tetro male.Concedetemi questo, Dei, per la mia fede.

Tale carme rispecchia il tormento interiore del poeta, tormento, tuttavia, di cui è oggetto e non soggetto. Egli elaborando la sua storia d’amore, ricorda la fides ed il foedus con cui l’ha condotta; poi, nella seconda parte del carme, sottolinea la difficoltà di liberarsi dal sentimento, perché non sa come fare ed infine chiude con l’invocazione agli dei affinché lo liberino dal tormento e lo conducano alla serenità.

Certo, una poesia sul discidium come questa non poteva essere che avere Catullo protagonista: lui ha conservato l’amore, lui ha procurato quindi del bene a lei, è lei l’ingrata che lo ha lasciato. Ma ora basta. Solo una cosa è rimasta da chiedere, da volere, e non la chiede a lei, sorda ad ogni atto che lui le ha dato, ma agli dei: che lo liberino, una volta per tutte da questo taetrum morbum, reddite pacem misero Catullo.

 

 

TITO LUCREZIO CARO

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Tito Lucrezio Caro

Tito Lucrezio Caro è il primo grande autore della poesia didascalica che incontriamo nella storia della letteratura latina. Poche le sue notizie certe, ma sicura è l’enfasi e la volontà di mostrare al mondo che lo circonda la verità dei meccanismi che regolano la vita, combattendo contro le superstizioni per affermare la ragione. Tale compito, per lui, così fedele alla teorie terrene epicuree, diventerà un vero e proprio lavoro compositivo che produrrà il De Rerum natura.

 Notizie biografiche

Come già detto le notizie biografiche su questo autore sono scarse e non propriamente attendibili: sembra esser nato intorno al 98 a.C.; si credette che impazzì dopo aver bevuto un filtro d’amore, e che nei momenti di lucidità scrivesse il suo capolavoro e che morì, suicida, intorno ai 40 anni d’età, si presume nel 55 a. C. Altre notizie non ne abbiamo, nemmeno da parte di Cicerone che, sicuramente, si fece editore dell’opera, come dimostra nella lettera al fratello Quinto, in cui recensendola dice:

Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingeni, multae tamen artis

Il poema di Lucrezio è così come scrivi, ricco di talento, tuttavia molto meditato (o pieno d’artifici)

né da parte di Virgilio e Orazio che mostrarono di conoscerla perfettamente. E’ evidente che le notizie su riportate possano produrre qualche perplessità, in quanto:

  • ad offrircele è stato un cristiano, san Gerolamo, al quale parve giusto affidare l’idea “atea” del De Rerum Natura ad un autore in qualche modo pazzo e suicida;
  • come già successe a Plauto, laddove mancano indizi certi, si riprendono elementi dell’opera e si attribuiscono all’autore stesso (in questo caso il forte pessimismo che si può notare in alcuni punti dell’opera potrebbero in qualche modo giustificare la sua pazzia).

L’epicureismo

Essendo il De Rerum natura un testo di grande impegno filosofico, non sembra inopportuno affrontare in primis la teoria e in secundis l’impatto che l’epicureismo ebbe a Roma. Nel secondo secolo, infatti, nell’epoca per intenderci di Catone il Censore e del Circolo degli Scipioni, l’epicureismo era stato letteralmente bandito dalla città: il suo “disinteresse” per la politica e per l’impegno civile, nonché la teoria dell’indifferenza divina, metteva in serio pericolo il mos maiorum tradizionale. Diverso fu l’atteggiamento nel I secolo: l’apertura di una scuola epicurea a Napoli di risonanza internazionale, fecero convogliare nella città partenopea una gran massa di giovani figli della più ricca aristocrazia della capitale, ma anche l’esistenza di libercoli più semplici in cui le speculazioni epicuree venivano banalizzate e ridotte alla sola ricerca di piaceri esteriori, stavano diffondendosi in modo preoccupante. Sappiamo che furono in qualche modo epicurei sia Cesare che Cassio (ucciso ed uccisore), e, nella prima età imperiale, sebbene in modo più problematico, Virgilio e Orazio, che si definì proprio uno del gruppo del gregge d’Epicuro. Ma cosa affermava la teoria del filosofo greco?

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Busto di Epicuro

Teoria fisica

In primo luogo riprendeva la teoria degli atomi di Empedocle, ma aggiungeva ad essi un peso. Infatti per il primo gli atomi si aggregavano, pur liberi, muovendosi “vorticosamente nell’aria” e quindi incontrandosi. Epicuro, aggiungendo ad essi un peso, li faceva cadere perpendicolarmente e, per aggregarsi in forme, faceva sì che essi, durante la loro caduta, s’inclinassero: è questo il cosiddetto παρέγκλισις (parénclisis), tradotto da Lucrezio clinàmen.

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Teoria del clinamen

Teoria morale

Se ciò è semplicisticamente ciò che possiamo dire rispetto alla fisica di Epicuro/Lucrezio, più importante è la parte riguardante la morale. Infatti tutta la filosofia epicurea è inserita su un piano morale. La sua speculazione infatti si basa sul tetrafarmaco:

  • Gli dei non devono essere temuti;
  • Non bisogna aver paura della morte;
  • Il piacere è facile a procurarsi;
  • Il dolore è facile a sottostarsi.

Importante è il concetto di voluptas (hedoné, in greco): essa si fonda dalla netta separazione tra ciò che è necessario e ciò che accessorio per la felicità umana; essendo la prima di piccolissima entità, l’uomo divenuto saggio, è felice in quanto privo di falsi bisogni: è questa la cosiddetta autarkeia.

Teoria gnoseologica

Alla teoria morale, Epicuro aggiunge quella sulle sensazioni a cui affida l’assoluta verità in quanto esse sono determinate dal contatto tra soggetto e oggetto; da qui l’assoluta fiducia nell’empirismo.

Il De rerum natura
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Apertura del De rerum natura , 1483 copia di Girolamo di Matteo de Tauris per papa Sisto IV

Il De Rerum natura è un poema didascalico in sei libri, in cui s’illustra la teoria epicurea, strutturato in tre diadi:

  • Nella prima (libro I e II), dopo l’invocazione a Venere, simbolo della natura rigeneratrice, si affronta il tema fisico, cioè degli atomi epicurei e sul loro modo d’aggregarsi. Nel secondo Lucrezio illustra la teoria del clinamen (inclinazione) degli atomi, che permette loro una varia aggregazione. Il testo si chiude con la digressione sulla progressiva decadenza della natura;
  • Nella seconda diade (libro III e IV) invece il discorso si fa antropologico: si analizza la differenza di peso degli atomi che si sono aggregati intorno al corpo e a quelli dell’anima; è evidente che i secondi siano più leggeri. Ma tale teoria arriva a determinare, come per il corpo, la morte dell’anima. Il quarto affronta la teoria dei simulacra cioè di quelle sottili membrane che si staccano dai corpi e colpiscono i nostri sensi apparendo come veri: sono essi i sogni. Fra essi vi è anche il desiderio d’amore, che. secondo Lucrezio, è solo sublimazione di un più vero bisogno d’attrazione fisica;
  • Nella terza diade (V e VI libro) il tema è la cosmologia: nel V si parla della mortalità del nostro mondo e di tutti gli altri mondi esistenti. Vi è poi la spiegazione del moto degli astri e delle stelle. Nel VI e ultimo libro Lucrezio cerca di spiegare razionalmente l’origine di eventi naturali come i fulmini o terremoti. Chiude con la famosa descrizione della peste d’Atene.

A questa struttura seguono altre simmetrie come quella per cui l’epos inizia in modo gioioso (l’inno a Venere) e termina in modo tragico (la peste d’Atene) e ancora quella d’iniziare ogni diade con l’elogio di Epicuro.

L’opera inizia come già si è detto con un famosissimo omaggio alla dea Venere:

INNO A VENERE
(I, 1 – 43)

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis.
Te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tullus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
Nam simul ac species patefactast verna diei
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aëriae primum volucres te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
Inde ferae pecudes persultant pabula laeta
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
Denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis,
omnibus incutiens blandum per pectora amorem,
efficis ut cupide generatim saecla propagent.
Quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem,
effice ut interea fera moenera militiai
per maria ac terras omnis sopita quiescant;
nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reicit aeterno devictus volnere amoris,
atque ita suspiciens teriti cervice reposta
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circumfusa super, suavis ex ore loquellas
funde petens placidam Romanis, incluta, pacem,
nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possumus aequo animo nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi desse saluti.

Gli amori di Venere e Marte - Botticelli.jpg

Sandro Botticelli: Venere e Marte

Madre degli Eneadi, voluttà degli uomini e degli dèi, // alma Venere, che sotto gli astri vaganti del cielo // popoli il mare solcato da navi e la terra feconda // di frutti, poiché per tuo mezzo ogni specie vivente si forma, // e una volta sbocciata può vedere la luce del sole: // te, o dea, te fuggono i venti, te e il tuo primo apparire // le nubi del cielo, per te la terra industriosa // suscita i fiori soavi, per te ridono le distese del mare, // e il cielo placato risplende di luce diffusa. // Non appena si svela il volto primaverile dei giorni, // e libero prende vigore il soffio del fecondo zefiro, // per primi gli uccelli dell’aria annunziano te, nostra dea, // e il tuo arrivo, turbati i cuori dalla tua forza vitale. // Poi anche le fiere e gli armenti balzano per i prati in rigoglio, // e guadano i rapidi fiumi: così, prigioniero al tuo incanto, // ognuno ti segue ansioso dovunque tu voglia condurlo. // E infine pei mari e sui monti e nei corsi impetuosi dei fiumi, // nelle frondose dimore degli uccelli, nelle verdi pianure, // a tutti infondendo in petto la dolcezza dell’amore, // fai sì che nel desiderio propaghino le generazioni secondo le // stirpi. Poiché tu solamente governi la natura delle cose, // e nulla senza di te può sorgere alle divine regioni della luce, // nulla senza te prodursi di lieto e di amabile, // desideroso di averti compagna nello scrivere i versi // che intendo comporre sulla natura di tutte le cose, // per la prole di Memmio diletta, che sempre tu, o dea, // volesti eccellesse di tutti i pregi adornata. // Tanto più concedi, o dea, eterna grazia ai miei detti. // E fa’ che intanto le feroci opere della guerra // per tutti i mari e le terre riposino sopite. // Infatti tu sola puoi gratificare i mortali con una tranquilla pace, // poiché le crudeli azioni guerresche governa Marte // possente in armi, che spesso rovescia il capo nel tuo grembo, // vinto dall’eterna ferita d’amore, // e così mirandoti con il tornito collo reclino, // in te, o dea, sazia anelante d’amore gli avidi occhi, // e alla tua bocca è sospeso il respiro del dio supino. // Quando egli, o divina, riposa sul tuo corpo santo, // riversandoti su di lui effondi dalle labbra soavi parole, // e chiedi, o gloriosa, una placida pace per i Romani. // Poiché io non posso compiere la mia opera in un’epoca // avversa alla patria, né l’illustre stirpe di Memmio // può mancare in tale discrimine alla salvezza comune.
(Luca Canali)

Tale proemio ha posto sin da sin da subito delle forti perplessità: come mai un poeta che proclama una teoria nella quale si prodiga l’indifferenza degli dei nei confronti dell’uomo, inizia proprio con un inno ad una dea? Molte e diverse sono state le risposte a tale quesito e, seppur diversamente, ognuna di esse portatrice di verità:

  • Si è voluto vedere in Venere il simbolo della Primavera e quindi della Natura progenitrice, di contro alla guerra, e quindi Marte, che, in una bellissima immagine, si china, innamorato e adorante sul grembo della dea;
  • Altri propendono a vedere in lei la personificazione dell’hedoné epicureo;
  • Altri ancora credono che la sua figura emerga come simbolo della pace, considerata da tale filosofia, una delle principali virtù.

Non dobbiamo neanche dimenticare in questo proemio, in cui Venere, oltre ad essere le cose qui ricordate, rappresenta la musa ispiratrice, la dedica a Memmio, forse identificato con Gaio Memmio, tribuno della plebe, che pur aspirando al consolato, non lo raggiunse mai. Avendo tale famiglia come patrona la stessa Venere, questo fatto può costituire un ulteriore indizio per la scelta di cominciare il poema sotto il suo nome.

Subito dopo l’inno a Venere Lucrezio ci presenta il suo nume tutelare, Epicuro, tessendone un vibrante elogio:

ELOGIO DI EPICURO
(I, 62-79)

Humana ante oculos foede cum vita iaceret
in terris oppressa gravi sub religione
quae caput a caeli regionibus ostendebat
horribili super aspectu mortalibus instans,
primum Graius homo mortalis tollere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra,
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum, sed eo magis acrem
irritat animi virtutem effringere ut arta
naturae primus portarum claustra cupiret.
Ergo vivida vis animi pervicit, et extra
processit longe flammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente animoque,
unde refert nobis victor quid possit oriri,
quid nequeat, finita potestas denique cuique
quanam sit ratione atque alte terminus haerens.
quare religio pedibus subiecta vicissim
obteritur, nos exaequat victoria caelo.

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Immagine di Epicuro

Mentre la vita umana giaceva sulla terra, // turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione, // che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile // aspetto, incombendo dall’alto sugli uomini, // per primo un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi // mortali a sfidarla, e per primo drizzarlesi contro: // non lo domarono le leggende degli dèi, né i fulmini, né // il minaccioso brontolio del cielo; anzi tanto più ne stimolarono // il fiero valore dell’animo, così che volle // infrangere per primo le porte sbarrate dell’universo. // E dunque trionfò la vivida forza del suo animo // e si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo, // e percorse con il cuore e la mente l’immenso universo, // da cui riporta a noi vittorioso quel che può // nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa // ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. // Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione // è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo.
(Luca Canali)

Gli elogia della figura del pensatore greco sono presenti all’inizio di ogni diade (I, III e V) Questo, nel I canto, è condotto sotto il segno dell’esaltazione: infatti viene riconosciuto a lui il fatto d’essere il primus ad aver sfidato apertamente il mondo degli dei. Egli, infatti si è comportato in modo eroico, molto più e in modo migliore degli eroi bellici; se questi, infatti, hanno acquisito nuovi territori per i Romani, lui ha liberato estese forme di conoscenza, indirizzando la mente dei giovani aristocratici alla verità che consiste, appunto, nel non avere alcuna paura.

IL SACRIFICIO DI IFIGENIA
(I, 80 – 102)

Illud in his rebus vereor, ne forte rearis
impia te rationis inire elementa viamque
indugrendi sceleris. Quod, contra, saepius illa
religio peperit scelerosa atque impia facta.
Aulide quo pacto Triviai virginis aram
Iphianassai turparunt sanguine foede
ductores Danaum delecti, prima virorum.
Cui simul infula virgineos circumdata comptus
ex utraque pari malarum parte profusast,
et maestum simul ante aras adstare parentem
sensit et hunc propter ferrum celare ministros
aspectuque suo lacrimas effundere civis,
muta metu terram genibus summissa petebat.
Nec miserae prodesse in tali tempore quibat,
quod patrio princeps donarat nomine regem;
nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras
deductast, non ut solemni more sacrorum
perfecto posset claro comitari Hymenaeo,
sed casta inceste nubendi tempore in ipso
hostia concideret mactatu maesta parentis,
exitus ut classi felix faustusque daretur.
Tantum religio potuit suadere malorum.

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Affresco: Il sacrificio di Ifigenia (Pompei)

In questo argomento temo ciò, che per caso // tu creda d’iniziarti ai principi di un’empia dottrina // e di entrare in una via scellerata. Poiché invece più spesso // fu proprio la religione a produrre scellerati delitti. // Così in Aulide l’altare della vergine Trivia // turpemente violarono col sangue d’Ifianassa gli scelti // duci dei Danai, il fiore di tutti i guerrieri. // Non appena la benda ravvolta alle chiome virginee // le ricadde eguale sull’una e l’altra gota, // ed ella sentì la presenza del padre dolente // presso l’altare, e che vicino a lui i sacerdoti celavano il ferro, // e alla sua vista i cittadini non potevano trattenere le lacrime, // muta per il terrore cadeva in terra in ginocchio. // Né in quel momento poteva giovare alla sventurata // l’avere per prima donato al re il nome di padre. // Infatti, sorretta dalle mani dei guerrieri, è condotta tremante // all’altare, non perché dopo il rito solenne // possa andare fra i cori dello splendente Imeneo, // ma empiamente casta, proprio nell’età delle nozze, // perché cada, mesta vittima immolata dal padre, // affinché una fausta e felice partenza sia data alla flotta. // Tanto male poté suggerire la religione.
(Luca Canali)

Posto come immediato seguito del brano precedente, questo passo ci vuole illustrare fino a quale punto può condurre la religione: viene qui infatti raccontato l’episodio di Ifigenia (Ifianassa, secondo la terminologia greca). Infatti tutti i re con le loro navi erano radunati in Aulide da più di tre mesi, e, per il persistere della bonaccia, non potevano salpare. Ciò per colpa di Agamennone, come gli rileva l’indovino Calcante, in quanto lui, alcuni anni prima, aveva offeso gravemente la dea Artemide (Diana), avendo trafitto un bel cervo, e quindi si era vantato d’essere un cacciatore più bravo della stessa dea. E ora Artemide pretendeva, se si voleva far partire la flotta, che Agamennone le sacrificasse sull’altare la propria figlia Ifigenia. E’ chiaro come qui Lucrezio sottolinei l’idea “strumentale” della religione, che proprio perché così vissuta, è contraria all’idea di bene, come predicano i suoi fautori, che la vogliono come elemento indispensabile per la conservazione del mos maiorum. La loro contraddittorietà viene espressa da Lucrezio insistendo sugli aspetti patetici, soprattutto sul contrasto fra il rito delle nuptiae e del sacrificio umano: vestita e agghindata come fosse portata dai parenti alle nozze, allo stesso modo viene condotta per essere uccisa e placare, in questo orrendo modo, gli dei. E’ eccessivo lo scarto tra i due riti, è intollerabile il volere della dea, ma così è creduto dagli infelici; per Lucrezio, infatti, essi vivono al di là di noi, indifferenti alle nostre gioie e ai nostri dolori.

Dopo aver mostrato ciò che vuole combattere, Lucrezio si scusa con i lettori per la difficoltà con cui deve rendere concetti filosofici greci in versi latini:

DIFFICOLTA’ DELL’IMPRESA
(I, 136 – 145)

Nec me animi fallit Graiorum obscura reperta
difficile illustrare Latinis versibus esse,
multa novis verbis praesertim cum sit agendum
propter egestatem linguae et rerum novitatem;
sed tua me virtus tamen et sperata voluptas
suavis amicitiae quemvis efferre laborem
suadet et inducit noctes vigilare serenas
quaerentem dictis quibus et quo carmine demum
clara tuae possim praepandere lumina menti,
res quibus occultas penitus convisere possis.

E non sfugge al mio animo che difficile è dar luce // in versi latini alle oscure scoperte dei Greci, // soprattutto perché è necessario trattare molte cose con nuove parole, // a causa della povertà della lingua e della novità dell’argomento; // ma il tuo valore, tuttavia, ed il piacere sperato // di una tenera amicizia mi persuadono a sopportare ogni fatica // e mi inducono a vegliare durante le notti serene, // cercando con quali parole e con quale poesia, // infine, possa diffondere davanti alla tua mente luci splendenti, // grazie alle quali tu possa vedere a fondo le cose nascoste.

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Dal greco al latino

Non solo Lucrezio esprime la difficoltà nel voler trattare, nella lingua di Roma, argomenti filosofici; sarà una viva preoccupazione anche per Cicerone. Tuttavia l’autore del De rerum natura vuole evitare troppi tecnicismi che mal s’accorderebbero ad un’opera in versi e al pubblico cui lui si rivolge. Egli infatti, seguendo anche i dettami della filosofia epicurea, lavora per immagini dandoci appunto delle semplificazioni tratte dal mondo sensibile. Questo lo fa per due motivi:

  • Perché non dimentica che egli sta redigendo un poema che pur essendo didascalico non può tralasciare momenti lirici;
  • Perché le immagini, essendo proiezioni sensibili e quindi parti di verità che si staccano dal soggetto e diventano oggetto vero in quanto visto dal soggetto stesso, sono rappresentazione della verità, come già affermato.
  • Inoltre esse possono rendere dolce l’acquisizione di una verità il cui percorso può presentarsi a volte erto e difficile.

L’AMARA MEDICINA
(IV, 11-25)

Nam vel uti pueris absinthia taetra medentes
cum dare conantur, prius oras pocula circum
contigunt mellis dulci flavoque liquore,
ut puerorum aetas improvida ludificeretur
labrorum tenus, interea perpotet amarum
absinthi laticem deceptaque non capiatur,
sed potius tali facto recreata valescat,
sic ego nunc, quoniam haec ratio plerumque videtur,
tristior esse quibus non est tractata, retroque
volgus aborre ab hac, volui tibi suaviloquenti
carmine Pierio rationem expo nere nostram
et quadi musaeo dulci con tingere melle,
si tibi forte animum tali ratione tenere
versibus in nostri possem, dum percipis omnem
naturam rerum ac persentis utilitatem.

Come i medici, quando cercano di somministrare // ai fanciulli l’amaro assenzio, prima cospargono // l’orlo della tazza di biondo e dolce miele, // affinché l’ingenua età puerile ne sia illusa // fino alle labbra, e intanto beva l’amaro // succo dell’assenzio, senza che l’inganno le nuoccia, // e anzi al contrario in tal modo rifiorisca e torni in salute, // così io, poiché questa dottrina appare // spesso troppo ostica a quanti non l’abbiano // conosciuta a fondo, e il volgo ne rifugge e l’aborre, // ho voluto esporla a te nel melodioso carme pierio // e quasi aspergerla del dolce miele delle Muse, // se per caso in tal modo potessi trattenere il tuo animo // con questi miei versi, fin quando tu attinga l’intera // natura dell’universo, e intenda l’utile che puoi trarne.
(Luca Canali)

Questo della medicina è un tema che diverrà, per alcuni autori, vero e proprio topos: qui infatti Lucrezio istituisce un paragone tra la gente ignorante (in quanto non sa la filosofia epicurea per raggiungere la felicità) e il bambino malato, quindi fra lui, come medico e l’opera come necessaria medicina. Tale concetto, se da una parte spiega la scelta lucreziana di “insegnare” la verità epicurea attraverso la poesia, rifiutata da Epicuro, sarà ripreso da Orazio e verrà, invece, quasi tradotto nel poema tassiano:

Cosí a l’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve.

Uno dei temi che contraddistingue in modo particolare la teoria epicurea è la liberazione della paura della morte, a cui dedica più di un passo. Se infatti la vita non è che l’aggregazione di atomi, la morte non è nient’altro che il loro disgregarsi per formare nuova vita. Inoltre se la morte è assenza di sensazioni, perché temerla se, non essendoci più non proveremo mai più alcun timore o dolore? In questo passo la morte è vista come parte integrante del divenire cosmico

LA MORTE E’ PARTE DEL DIVENIRE DEL MONDO
(II, 991-1009)

Denique caelesti sumus omnes semine oriundi;
omnibus ille idem pater est, unde alma liquentis
umoris guttas mater cum terra recepit,
feta parit nitidas fruges arbustaque laeta
et genus humanum, parit omnia saecla ferarum
pabula cum praebet, quibus omnes corpora pascunt
et dulcem ducunt vitam prolemque propagant;
qua propter merito maternum nomen adepta est.
cedit item retro, de terra quod fuit ante,
in terras, et quod missumst ex aetheris oris,
id rursum caeli rellatum templa receptant.
nec sic interemit mors res ut materiai
corpora conficiat, sed coetum dissupat ollis;
inde aliis aliud coniungit et efficit, omnis
res ut convertant formas mutentque colores
et capiant sensus et puncto tempore reddant;
ut noscas referre earum primordia rerum
cum quibus et quali positura contineantur
et quos inter se dent motus accipiantque,
neve putes aeterna penes residere potesse
corpora prima quod in summis fluitare videmus
rebus et interdum nasci subitoque perire.

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Thanatos, dio della morte, come un giovane alato armato di spada. 

Infine noi siamo tutti nati da seme celeste;  a tutti è padre quello stesso, da cui la terra, la madre che ci alimenta, quando ha ricevuto le limpide gocce di pioggia, concepisce e genera le splendide messi e gli alberi rigogliosi e il genere umano, genera tutte le stirpi delle fiere, offrendo i cibi con cui tutti nutrono i corpi e conducono una piacevole vita e propagano la progenie; perciò a ragione essa ha ricevuto il nome di madre. Del pari ritorna alla terra ciò che un tempo uscì dalla terra, e quel che fu mandato giù dalle plaghe dell’etere, ritorna alle volte del cielo che nuovamente lo accolgono. Né la morte distrugge le cose sì da annientare i corpi della materia, ma di questi dissolve l’aggregazione; poi congiunge altri atomi con altri e fa che tutte le cose così modifichino le loro forme e mutino i loro colori e acquistino i sensi e in un attimo li perdano, sì che puoi conoscere come importi con quali altri i medesimi primi principi, e in quale disposizione, siano collegati, e quali movimenti a vicenda imprimano e ricevano, e non devi credere che negli eterni corpi primi possa aver sede ciò che vediamo fluire alla superficie delle cose e talora nascere e sùbito perire.

A ben guardare il testo mescola alla materialità del contenuto delle immagini liriche, si veda come al “seme celeste” corrisponda l’accoglienza della madre terra e da questi due nasca la vita. L’atomo qui prende il posto di dio, è lui infatti il di creatore e di fronte alla “mortalità” della vita è solo lui l’elemento immortale, quindi non può essere che lui che dà la vita e che la toglie, ma sarà ancora lui a farla rinascere.

Il tema, legato a quello precedente, che anzi lo spiega, è la struttura e l’aggregazione dell’animo, la necessità del vuoto affinché sia proprio esso a permettere l’unione degli animi, il concetto di infinito degli astri e dei cieli e via dicendo. Qui Lucrezio riesce a dar vita ad un vero e proprio linguaggio tecnico, così come quando parla degli innumerevoli altri mondi:

PLURALITA’ DEI MONDI
(II, 1067-1076)

Praeterea cum materies est multa parata,
cum locus est praesto nec res nec causa moratur
ulla, geri debent nimirium et confieri res.
Nunc et seminibus si tanta est copia, quantam
enumerare aetas animantum non queat omnis,
vis(que) eadem (et) natura manet, quae semina rerum
conicere in loca quaeque queat simili ratione
atque huc sunt coniecta, necesse est confiteare
esse alios aliis terrarum in parti bus orbis 
et varias hominum gentis et saecla ferarum.

Quando inoltre vi è molta materia approntata, // quando si offre uno spazio, né cosa né causa si oppone, // è evidente che i corpi si formano e compiono il loro sviluppo. // E ora se il numero degli atomi è così sterminato // che un’intera età dei viventi non basterebbe a contarli, // e persiste la medesima forza e natura che possa // congiungere gli atomi dovunque nella loro stessa maniera // in cui si congiunsero qui, è necessario per te riconoscere // che esistono altrove nel vuoto altri globi terrestri // e diverse razze di uomini e specie di fiere.

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Cielo stellato nel Mausoleo di Galla Placidia (V sec.)

Questo passo ci dimostra l’atteggiamento didascalico dell’autore che vuole dimostrare, appunto, che se esistono innumerevoli atomi, vi sono altrettanti mondi. In questa affermazione si nasconde un atteggiamento assolutamente “radicale” nel dibattito filosofico greco riguardo “il mondo”. Infatti egli qui si schiera non soltanto contro l’unicità del nostro pianeta, ma addirittura contro la sua centralità.

L’AMORE
(IV, 1093-1120)

Ex hominis vero facie pulchroque colore
nil datur in corpus praeter simulacra fruendum
tenvia; quae vento spes raptast saepe misella.
Ut bibere in somnis sitiens quom quaerit et umor
non datur, ardorem qui membris stinguere possit,
sed laticum simulacra petit frustraque laborat
in medioque sitit torrenti flumine potans,
sic in amore Venus simulacris ludit amantis,
nec satiare queunt spectando corpora coram
nec manibus quicquam teneris abradere membris
possunt errantes incerti corpore toto.
Denique cum membris conlatis flore fruuntur
aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus
atque in eost Venus ut muliebria conserat arva,
adfigunt avide corpus iunguntque salivas
oris et inspirant pressantes dentibus ora,
ne quiquam, quoniam nihil inde abradere possunt
nec penetrare et abire in corpus corpore toto;
nam facere inter dum velle et certare videntur.
usque adeo cupide in Veneris compagibus haerent,
membra voluptatis dum vi labefacta liquescunt.
tandem ubi se erupit nervis coniecta cupido,
parva fit ardoris violenti pausa parumper.
inde redit rabies eadem et furor ille revisit,
cum sibi quod cupiant ipsi contingere quaerunt,
nec reperire malum id possunt quae machina vincat.
usque adeo incerti tabescunt volnere caeco.

Ma dell’umano sembiante, d’un leggiadro incarnato, // nulla penetra in noi da godere, se non diafane immagini, // misera speranza che spesso è rapita dal vento. // Come in sogno un assetato che cerchi di bere, // e bevanda non trovi che estingui nelle sue membra l’arsura, // ma liquidi miraggi insegua in un vano tormento, // o immerso in un rapido fiume ne beva, ma la sete non plachi, // così in amore Venere con miraggi illude gli amanti // che non sanno appagarsi mirando le svelate forme, // né a una carezza involare qualcosa dalle tenere membra, // irrequieti vagando per l’intera superficie del corpo. // Quando infine con le membra avvinte godono del fiore // della giovinezza, e già il corpo presagisce il piacere, // e Venere è sul punto di riversare il seme nel campo femmineo, // comprimono avidamente i petti, confondono la saliva nelle bocche, // e ansimano mordendosi a vicenda le labbra; // invano, perché nulla possono distaccare dalla persona amata, // né penetrarla e perdersi con tutte le membra nell’altro corpo. // Infatti talvolta sembrano voler fare ciò e ingaggiare una lotta: // a tal punto si serrano cupidamente nella stretta di Venere, // finché le membra, stremate dall’intensità del piacere, si struggono. // Infine, quando il piacere raccolto si effonde dai nervi, // per un po’ si produce una breve pausa dell’ardore, // poi torna la medesima rabbia, di nuovo quella smania li assale, // mentre gli amanti vorrebbero sapere che cosa desiderano, // e non riescono a trovare un rimedio che plachi il tormento: // in tale incertezza si consumano per una piega segreta.

E’ un passo fondamentale sulla teoria dell’amore: infatti pochissime teorie del maestro Epicuro ci sono giunte e pertanto la deriviamo soprattutto da Lucrezio. La descrizione che egli fa dell’amplesso amoroso è estremamente “realistica” e “sensuale”: l’epicureismo, infatti, divide il sesso e l’amore; se il primo è positivo in quanto risponde ad un esigenza normale dell’uomo, l’amore, in quanto simulacra, cioè proiezioni, atomi leggerissimi, e quindi soggetti a colui che “ama”, non determinano l’appagamento, in quanto l’amplesso nega l’unione, ma ricrea, al suo fine, la separazione: per questo la passione d’amore rappresenta una piaga inestinguibile per l’uomo.

L’opera si conclude con la scena apocalittica della peste d’Atene:
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La peste di Atene

LA PESTE DI ATENE
(VI, 1138-1162)

Haec ratio quondam morborum et mortifer aestus
finibus in Cecropis funestos reddidit agros
vastavitque vias, exhausit civibus urbem.
Nam penitus veniens Aegypti finibus ortus,
aëra permensus multum camposque natantis,
incubuit tandem populo Pandionis omni.
Inde catervatim morbo mortique dabantur.
Principio caput incensum fervore gerebant
et duplicis oculos suffusa luce rubentis.
Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae
sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat
atque animi interpres manabat lingua cruore
debilitata malis, motu gravis, aspera tactu.
Inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum
morbida vis in cor maestum confluxerat aegris,
omia tum vero vitai claustra lababant.
Spiritus ore foras taetrum volvebat odorem,
rancida quo perolent proiecta cadavera ritu.
Atque animi prorsum vires totius et omne
languebat corpus leti iam limine in ipso.
Intolerabilibusque malis erat anxius angor
adsidue comes et gemitu commixta querella.
Singultusque frequens noctem per saepe diemque
corripere adsidue nervos et membra coactans
dissolvebat eos, defessos ante, fatigans.

Questo tipo di malattia e il flusso mortifero un tempo // nei confini di Cecrope rese i campi funestati di cadaveri // devastò le contrade e svuotò la città di cittadini. // Infatti venendo dal profondo dell’Egitto (dov’era) nato // dopo aver attraversato molti cieli e i campi fluttuanti // gravò sull’intero popolo di Pandione. // Quindi a mucchi si erano offerti alla malattia e alla morte. // In principio avevano la testa infiammata di calore // e i due occhi rosseggianti di luce diffusa (arrossati). // Dall’interno delle fauci annerite usciva fuori // sangue e la via della voce costretta dalle ferite si chiudeva // e la lingua interprete della mente emetteva sangue raffermo // debilitata dal male, gravata nel movimento, ruvida al tatto. // Così non appena per mezzo delle fauci aveva riempito il petto // la forza malata era confluita nello stesso cuore triste dei malati, // ogni cosa in verità allora minacciavano le barriere della vita. // L’alito fuori dalla bocca esalava un odore mortifero // nello stesso modo puzzolente dei cadaveri lasciati insepolti. // E subito le forze di tutto l’animo e ogni elemento // del corpo languiva ormai sulla stessa soglia della morte. // E all’intollerabile male era compagna assidua // un angoscia ansiosa e un pianto misto a lamenti. // E spesso il singulto frequente di giorno e di notte // continuamente costringendo a contrarre i nervi e le membra // tormentava sfibrando quelli, già prima spossati.
(Luca Canali)

E’ questo l’incipit dell’episodio che chiude il De Rerum natura, un’incredibile descrizione della peste che fu letta con attenzione, insieme a quella boccacciana, da Manzoni. Ci si pone il problema del perché l’autore decida di terminare con un tema in cui protagonista è la morte l’opera. Qualcuno, in un finale così pessimistico, afferma che l’opera risulta interrotta, in quanto manca in essa la descrizione delle sedi degli dei, preannunciato e non svolto; qualcun altro, invece, afferma che esso è un necessario pendant alla teoria della morte e dell’indifferenza degli dei espressa nell’intera opera.

MARCO TULLIO CICERONE

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Marco Tullio Cicerone

Avvicinarsi all’uomo e al letterato Cicerone significa affrontare uno degli uomini più prolifici dell’intera letteratura latina e uno dei maggiori protagonisti della storia politica, tale da diventare, certamente in modo consapevole, un vero e proprio magister con cui confrontarsi (accettandolo o rifiutandolo). Lo studio di Cicerone è imprescindibile per comprendere i difficili avvenimenti che si susseguirono in modo caotico in quel periodo, ma anche e soprattutto per spiegarci come mai sia diventato un modello stilistico e retorico per le generazioni successive e non parlo solo di quella latina. A tal proposito basti pensare all’Introduzione boccacciana al Decameron per comprenderlo.

Notizie biografiche

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La città di Arpino con la statua di Cicerone

Cicerone nasce nel 106 ad Arpino nel Lazio da un’agiata famiglia equestre. Per volere del padre, insieme al fratello minore Quinto, riceve a Roma un’elevata educazione sia retorica che filosofica presso i più grandi maestri, che gli permetterà sin dall’adolescenza di frequentare un tirocinium fori presso il suo maestro di diritto. Sempre in questo periodo bisogna anche far risalire la profonda amicizia con Tito Pomponio Attico che, in seguito, divenne il suo principale “editore”. La sua formazione, fin qui semplicemente tratteggiata, avvenne in anni politicamente convulsi, dove ormai si era giunti ad uno scontro militare tra sillani e mariani. Nell’81 a.C. inizia la sua attività giuridica con ottimo successo: la prima orazione di cui abbiamo notizia è la Pro Quinctio, nella quale difese Publio Quinzio contro il sillano (che aveva l’appoggio della nobilitas) Sesto Nevio, per una questione d’eredità e la Pro Sexto Roscio Amerino nella quale fece assolvere l’indiziato dall’incriminazione di parricidio da accusatori legati ad un potente liberto dello stesso dittatore romano, Crisogono.

Non dobbiamo dimenticare che in questi anni Roma è retta dalla dittatura del potente Silla (81-79) e sia per motivi di perfezionamento culturale, di salute e, non ultimo, politico – si era messo contro il suo entourage – tra il 79 e il 77 a. C., si reca in Grecia e in Asia Minore. Qui entra in più profondo contatto con la filosofia di Antioco di Ascalona che seppe intrecciare elementi filosofici platonici, aristotelici e stoici, dando vita ad una forma speculativa che prenderà il nome di eclettismo, in quando capace di armonizzare varie teorie filosofiche di diversa provenienza, e con il retore Apollonio Molone, che placò in lui la sua iniziale ampollosità.

Rientrato a Roma nel 79 sposa Terenzia, della nobile famiglia Flavia, avendone due figli: l’amatissima Tullia e Marco. In quegli stessi anni entra in politica: tra il 75 e il 65 a.C. inizia la sua carriera politica come questore in Sicilia, la cui conoscenza gli permetterà di pronunciare una delle sue orazioni più importanti sia a livello letterario che politico, passate alla storia come le Verrinae, accusando Verre de repetundis; nel 69 è edile, quindi nel 66 pretore per poi giungere nel 63 al consolato. Se l’accusa contro il propretore Verre sembra avvicinarlo verso i populares, nelle orazioni Pro lege Manilia e Pro Cluentio, ambedue del 66, si mostra invece un uomo moderato, più vicino a posizioni conservatrici e a Gneo Pompeo.

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Canephora di Policleto: una delle statue rubate da Verre in Sicilia

Il consolato del 63 si apre per Cicerone con atto un giudiziario, testimoniato dalle Catilinarie, che lo segnarono per tutta la vita; infatti si mostra inflessibile nella difesa della respublica contro Lucio Sergio Catilina, che condanna a morte per congiura.

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Cicerone contro Catilina: affresco di Maccari

Quando nel 60 Cesare, Pompeo e Crasso stringono il primo triumvirato, è costretto all’esilio in Grecia per sedici mesi, grazie ad una legge fatta approvare da Clodio, amico di Cesare e nemico di Cicerone. Nel 57 torna a Roma, ma la sua posizione politica si fa marginale. Difende due amici dalle accuse del suo nemico Clodio, nelle Pro Sestio e Pro Caelio (dove vi è un ritratto a tinte fosche di Clodia, la Lesbia cantata da Catullo); perde invece nella Pro Milone, personaggio pagato dagli aristocratici per far fuori Clodio, svolto in un clima violento e intimidatorio.

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Catilina solo: affresco di Maccari

Fuori dalle logiche politiche, emarginato da uomini che si mostrano più potenti del Senato, Cicerone comincia la sua attività di pensatore: sono di questi anni due opere importantissime: il De oratore (55-54) e il De Republica (55-51). Per rientrare nel gioco politico, cerca di avvicinarsi a Cesare, facendo approvare una legge che ne promulgava il consolato nelle Gallie, ma quando scoppia la guerra civile si schiera con Pompeo; la sconfitta di quest’ultimo lo emargina completamente, ma tenta ugualmente di salvare ciò che rimane della repubblica cercando un contatto con il dictator. Gli anni della dittatura cesariana furono quelli in cui l’arpinate non poté esercitare alcuna influenza politica essendo ormai tramontata la sua visione su come strutturare Roma. Sul piano personale sono anni assai difficili: divorzia da Terenzia, si sposa con la giovane Publiola, ma il matrimonio fallisce subito, inoltre muore di parto l’amata figlia. Si consola scrivendo opere retoriche come il Brutus e l’Orator, ma soprattutto di carattere filosofico come il De finibus bonorum et malorum, Tusculanae disputationes, Cato maior de senectute, Laelius de amicitia

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La morte di Cesare in un disegno di Camuccini

Nel 44 Cesare viene ucciso da Bruto e Cassio, che eliminando il dictator avevano in mente il disegno politico di Cicerone, che rappresenta per loro l’ideale punto di riferimento; quando Marco Antonio, con un colpo di mano fa promuovere lo scambio delle provincie, Cicerone promulga con violenza inaudita le Philippicae, così denominate perché richiamavano quelle di Demostene contro il macedone. Con questo atto vuole rientrare in gioco, avvicinandosi al giovane Ottaviano. Ma Ottaviano forma il secondo triumvirato con Lepido e con il suo ex nemico Antonio. Quest’ultimo chiede al futuro Augusto la testa di Cicerone, che fu il primo nome nelle liste di proscrizione. Affronta la morte con dignità, che Antonio non vuole avere con il suo corpo. Ordina che la testa e le sue mani di Cicerone siano esposte al foro, luogo di tante battaglie dell’arpinate.

Opere

La produzione ciceroniana è molto corposa e comprende soprattutto opere prosastiche (quasi nulla possediamo dei suoi versi e sembra non fossero, già per i critici antichi, particolarmente importanti). Possiamo dividere, per comodità didattica, il lavoro ciceroniano in orazioni, opere retoriche, politiche e filosofiche. Fra di esse inseriamo anche l’Epistolario, considerato uno dei più importanti della letteratura latina.

Orazioni

Come abbiamo visto i tipi di orazione previsti nella Rethorica ad Herennium sono il dimostrativo (atto a dimostrare la bontà o meno di una tesi), il deliberativo (atto a far approvare un progetto) ed il giudiziario (tipicamente giuridico). Cicerone scrive orazioni solo degli ultimi due generi, ma determinare a quale tipologia essi appartengano è a volte complesso, come vedremo. Il fatto che egli le scrivesse deriva dalla volontà di rendere palesi al suo pubblico ciò che aveva pronunciato di fronte ai senatori nel Foro. Infatti le orazioni venivano riviste e corrette per affidarle poi ad un pubblico di lettori. Citiamo le più importanti:

Pro Sexto Roscio Amerino è una delle prime orazioni cicerionane: Roscio Amerino era stato accusato di parricidio da potenti figure del partito sillano. Sembra infatti che invece il padre dell’accusato fosse stato ucciso da due suoi parenti in accordo con Crisogono, liberto di Silla, il quale mise il nome dell’ucciso nelle liste di proscrizione per riscattare a prezzo irrisorio i suoi beni e facendo fuori il figlio accusandolo appunto di parricidio. Banco di prova difficile per il giovane avvocato, egli riuscì a liberare il cliente senza mai attaccare in modo diretto Silla, ma mostrando le storture di una classe che ormai non riusciva più a rispettare una forma di “moralità”.

Le Verrinae sono considerate le orazioni più importanti della giovinezza dell’avvocato di Arpino, nelle quali, dopo l’esperienza in Grecia, abbandona la moda dell’asianesimo allora imperante per una prosa più elegante. Dopo aver esercitato il ruolo di questore in una città della Sicilia, venne interpellato da quelle popolazioni per poter accusare il senatore Verre di malversazioni e ruberie che, come propretore, aveva compiuto nella loro terra. L’occasione offerta a Cicerone era molto “pericolosa”: si trattava di mettersi in modo molto più diretto contro il potere dei senatori, i quali, proprio secondo la nuova legge sillana, costituivano, nella loro totalità, il corpo giudicante. Secondo la legge di allora, presentata un’accusa da parte di una o più persone, un magistrato, in una seduta preliminare, doveva indovinare (divinatio) chi dovesse esser scelto per fare la parte dell’accusatore (actor). Non si trattava di una scelta obiettiva, ma discrezionale da parte del magistrato, di chi meglio, fra coloro che avanzavano la loro candidatura, potesse interpretare tale ruolo. L’entourage di Verre era riuscito a proporre come accusatore un certo Cecilio Nigro, che, in quanto complice dell’accusato in loschi affari, garantiva l’impunità. Cicerone propose la sua candidatura al magistrato dichiarando che l’accusatore dovesse essere scelto dalla parte lesa e che avrebbe dovuto mostrare serietà morale e professionale. Il riuscire ad ottenere l’incarico non fu una vincita di poco conto. Tutto ciò viene riportato nella prima parte delle Verrine dette Divinatio in Caecilium. Verre aveva chiamato come difensore il più grande avvocato del tempo un certo Ortensio, la cui tecnica difensiva non sfuggiva all’arpinate: dilungare il processo per far passare un anno in cui, dichiarati i nuovi consoli, tutti e due favorevoli a Verre, avrebbero fatto pressione per scagionarlo. Cicerone quindi cercò di prevenire l’avversario e raccolse in soli cinquanta giorni prove e testimonianze schiaccianti. Dopo altri tentativi falliti dalla parte avversa per insabbiare e procrastinare le prove, l’accusatore rinunciò all’esposizione dei fatti ed introdusse e mostrò ai giudici tutto ciò che egli aveva raccolto. Ortensio, schiacciato da tale tecnica rinunciò alla difesa e Verre, messo ormai alle strette, preferì il volontario esilio a Marsiglia (Actio prima in Verrem). Il processo era ormai concluso: ma il successo di Cicerone ottenuto al foro, fece sì che egli scrivesse ciò che avrebbe pronunciato se il dibattimento fosse continuato. Esso costituisce l’Actio secunda in Verrem e si divide in:

  • De praetura urbana: si parla delle malversazioni di Verre in Gallia e in Cilicia prima dell’incarico siciliano;
  • De iurisdictione siciliensi: si parla di come Verre avesse lucrato nell’amministrare la giustizia nell’isola;
  • De re frumentaria: si parla di come l’avidità di Verre nel riscuotere tributi avesse portato alla rovina l’isola;
  • De signis: è la rassegna di tutte le ruberie di Verre;
  • De suppliciis: vi si racconta come Verre avesse messo ingiustamente a morte o costretti ai più aberranti supplizi cittadini romani.

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Cicerone a Enna: pittura di S. Frangiamore

NIENTE HA LASCIATO IN SICILIA
(IV, 1-2)

Venio nunc ad istius, quem ad modum ipse appellat, studium, ut amici eius, morbum et insaniam, ut Siculi, latrocinium; ego quo nomine appellem nescio; rem vobis proponam, vos eam suo non nominis pondere penditote. Genus ipsum prius cognoscite, iudices; deinde fortasse non magno opere quaeretis quo id nomine appellandum putetis. Nego in Sicilia tota, tam locupleti, tam vetere provincia, tot oppidis, tot familiis tam copiosis, ullum argenteum vas, ullum Corinthium aut Deliacum fuisse, ullam gemmam aut margaritam, quicquam ex auro aut ebore factum, signum ullum aeneum, marmoreum, eburneum, nego ullam picturam neque in tabula neque in textili quin conquisierit, inspexerit, quod placitum sit abstulerit. Magnum videor dicere: attendite etiam quem ad modum dicam. Non enim verbi neque criminis augendi causa complector omnia: cum dico nihil istum eius modi rerum in tota provincia reliquisse, Latine me scitote, non accusatorie loqui. Etiam planius: nihil in aedibus cuiusquam, ne in hospitis quidem, nihil in locis communibus, ne in fanis quidem, nihil apud Siculum, nihil apud civem Romanum, denique nihil istum, quod ad oculos animumque acciderit, neque privati neque publici neque profani neque sacri tota in Sicilia reliquisse.

Passo ora a parlare di quella che Verre, stando alla sua personale definizione, chiama passione, mentre i suoi amici la chiamano mania morbosa e i Siciliani ladroneria. Io non so proprio con che nome chiamarla. Vi esporrò i fatti: voi valutateli in base alla loro gravità, senza tener conto del nome con cui li si può designare. State prima a sentire, o giudici, di che razza di azioni si tratti; poi forse non durerete molta fatica a sapere con che nome, secondo voi, si debbano chiamare. Io sostengo che in tutta quanta la Sicilia, che è una provincia così ricca e di così antica costituzione, con tante città e tante famiglie che vivono nell’abbondanza, non vi era nessun vaso d’argento, nessun vaso di Corinto o di Delo, nessuna pietra preziosa o perla, nessun oggetto d’oro e d’avorio, nessuna statua di bronzo, di marmo o d’avorio; sostengo, ripeto, che non c’era nessun quadro, nessun arazzo, che il nostro imputato non abbia ricercato con cura, non abbia esaminato con attenzione e non abbia poi sottratto, nel caso fosse di suo gradimento. Sembra che io dica un’enormità; ma fate attenzione anche al modo come mi esprimo; perché quando uso la parola “tutto” non lo faccio così, tanto per dire, o per accrescere la gravità di una colpa: quando sostengo che costui in tutta quanta la provincia non ha lasciato nessuna di tali opere d’arte, sappiate che uso le parole nel loro significato proprio e normale e non carico le tinte, com’è abitudine di chi accusa. Voglio essere anche più esplicito: in tutta quanta la Sicilia costui non ha lasciato nulla in casa di nessuno, neppure in quella degli ospiti, neppure nei santuari, nulla che appartenesse ai Siciliani o a cittadini romani; in una parola nulla che cadesse sotto i suoi occhi o che risvegliasse la sua cupidigia, nulla di privato o di pubblico, nulla di profano o sacro.
(Laura Fiocchi e Dionigi Vottero)

In questo primo passo dell’oratoria di Cicerone, ci troviamo già di fronte alla sua maturità stilistica. Infatti stiamo nell’Actio secunda, nell’incipit del quarto libro in cui il nostro descrive le ruberie di Verre in Sicilia. Egli vuole colpire il suo uditorio non descrivendo i vari momenti dei ladrocini del proconsole, ma partendo ex abrupto per suscitare stupore: Verre non ha rubato opere in Sicilia, ma tutto ciò che era rubabile.

Dopo questo enorme successo che egli ricevette grazie alla sua capacità oratoria, Cicerone correva veramente il rischio di essere considerato come un antioligarca, capace di fustigare i senatori e di batterli, facendo finta di blandirli. Tale pericolo il nostro lo evitò con un’orazione deliberativa, la Pro lege Manilia, in cui si appoggiava la proposta del tribuno Manilio per far ottenere a Gaio Pompeo i pieni poteri sull’Oriente. Chiaramente appoggiando il grande generale egli difende la sua classe, gli equites, che si vedono minacciati dalla politica di Mitridate: è questa la posizione politica dell’arpinate, far blocco comune tra i senatori e gli equites, (concordia ordinum) contro le forze che egli reputava disgregratici per lo stato. 

L’aver capito che il pensiero di Cicerone non era demagogicamente popolare, ma legato ad interessi della classe degli equites che potevano anche coincidere con quelli dei senatori, aprì al nostro le porte del consolato. Il popolo, non ancora nato l’astro di Cesare, oberato da povertà e debiti, trovò in Catilina, nobile decaduto, l’uomo capace di rappresentarlo. Costui aveva già provato, con promesse demagogiche alla plebe, ad essere eletto senatore: nel 65 non poté presentarsi perché accusato de repetundis; l’anno successivo venne battuto da Cicerone; ripresentandosi ancora per la terza volta e promettendo la “remissione dei debiti”, fece in modo che tutto il mondo “possidente”, di terreni o di denaro, gli si mettesse contro. Capendo che non sarebbe mai riuscito ad ottenere legalmente il consolato, tramò per ottenerlo con un colpo di stato; ma pare che un’amante di un congiurato riferisse tutto a Cicerone (che l’abbia pagata lui?) che, Catilina presente, gli urlò, di fronte agi altri senatori:

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La congiura

CATILINARIAE: INCIPIT
(I, 1-2) 

Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? Quam diu etiam furor iste tuus nos eludet? Quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? Nihilne te nocturnum praesidium Palati, nihil urbis vigiliae, nihil timor populi, nihil concursus bonorum omnium, nihil hic munitissimus habendi senatus locus, nihil horum ora voltusque moverunt? Patere tua consilia non sentis? Constrictam iam horum omnium scientia teneri coniurationem tuam non vides? Quid proxima, quid superiore nocte egeris, ubi fuerit, quos convocaveris, quid consili ceperis, quem nostrum ignorare arbitraris? O tempora! o mores! Senatus haec intellegit, consul videt; hic tamen vivit. Vivit? Immo vero etiam in senatus venit, fit publici consili particeps, notat et designat oculis ad caedem unumquemque nostrum: nos autem, fortes viri, satis facere rei publicae videmur, si istius furorem ac tela vitamus. Ad mortem te, Catilina, duci iussu consulis iam pridem oportebat, in te conferri pestem, quam tu in nos omnis iam diu machinaris.

Fino a quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza? per quanto tempo ancora codesta tua condotta temeraria riuscirà a sfuggirci? a quali oserà spingersi il tuo sfrenato ardire? Né il presidio notturno sul Palatino né le ronde per la città né il panico del popolo né l’opposizione unanime di tutti i cittadini onesti né il fatto che la seduta si tenga in questo edificio, il più sicuro, ti hanno sgomentato e neppure i volti, il contegno dei presenti? Le tue trame sono scoperte, non te ne accorgi? Non vedi che il tuo complotto è noto a tutti e ormai sotto controllo? Ciò che facesti la notte scorsa e la precedente, dove ti recasti, quali complici convocasti, quali decisioni prendesti, credi tu ci sia uno solo tra noi che non ne sia informato? Oh tempi! oh costumi! di tutto questo il senato è a conoscenza, al console non sfugge e tuttavia costui vive. Vive?! Che dico! si presenta in senato, partecipa alle sedute, prende nota di ciascuno di noi, lo designa con lo sguardo all’assassinio; e noi! i potenti!, riteniamo d’aver fatto abbastanza per la patria se riusciamo a sottrarci all’odio, ai pugnali di costui. A morte te, Catilina, da tempo si doveva condannare per ordine del console; su te doveva ricadere tutto il male che da tempo vai tramando a nostro danno.
(Lidia Storoni Mazzolani)

E’ questo uno dei passi più famosi di tutta l’oratoria ciceroniana: in essa, infatti, si può misurare da una parte la sua straordinaria bravura, dall’altra il suo altrettanto stupefacente formalismo attraverso cui “stupire”, con la sua veemenza verbale, il suo uditorio. Egli infatti procede qui con una serie d’incalzanti interrogative retoriche, in cui mostrare l’incredulità che, da una parte egli stesso, dall’altra lo stato, dovrebbe provare nel trovarsi di fronte ad un assassino. D’altra parte l’exordium in media res era necessario per il console: il non aver prove certe di colpevolezza, se non le illazioni di un’amante di un possibile congiurato, non poteva che portarlo ad una tattica “aggressiva” che si risolve con l’uso insistito di domande retoriche e da un lessico fortemente icastico verso l’avversario.

Sempre nella prima oratio delle Catilinariae, troviamo, per la prima volta nella letteratura latina, una tecnica retorica che otterrà grande successo, la prosopopea (dare la parola ad un assente o ad un’entità personificata). Infatti qui a parlare è la patria stessa:

LA VOCE DELLA PATRIA
(I, 17)

Servi mehercule mei si me isto pacto metuerent, ut te metuunt omnes cives tui, domum meam relinquendam putarem; tu tibi urbem non arbitraris? et, si me meis civibus iniuria suspectum tam graviter atque offensum viderem, carere me aspectu civium quam infestis omnium oculis conspici mallem; tu cum conscientia scelerum tuorum agnoscas odium omnium iustum et iam diu tibi debitum, dubitas, quorum mentes sensusque voneras, eorum aspectum praesentiamque vitare? Si te parentes timerent atque odissent tui neque eos ulla ratione placare posses, ut opinor, ab eorum oculis aliquo concederes. Nunc te patria, quae communis est parens omnium nostrum, odit ac metuit et iam diu nihil te iudicat nisi de parricidio suo cogitare; huius tu neque auctoritatem verebere nec iudicium sequere nec vim pertimesces?

Se, per Ercole, i miei servi avessero tanta paura quanta tu ne incuti alla cittadinanza intera, riterrei inevitabile lasciare la mia casa. E tu non pensi di dover lasciare la città? Se poi mi accorgessi di essere, anche a torto, gravemente sospettato e disprezzato dai miei concittadini, preferirei sottrarmi alla loro vista piuttosto che essere oggetto di sguardi di disapprovazione. Tu, invece, che sei consapevole dei tuoi crimini e riconosci che l’odio di tutti è giusto e meritato da tempo, esiti a sottrarti alla vista, alla presenza di chi ferisci nella mente e nel cuore? Se i tuoi genitori provassero paura di te e ti odiassero, se tu non potessi in alcun modo riconciliarti con loro, scompariresti dalla loro vista, immagino. Ora a odiarti e ad aver paura di te è la patria, madre comune di tutti noi, e già da tempo ritiene che tu non mediti altro che la sua morte. E tu non rispetterai la sua autorità, non seguirai il suo giudizio, non avrai paura della sua forza?

E’ ancora nella prima orazione che si può cogliere il progetto “politico” in nuce di Cicerone:

IMPROBI E BONI
(1, 32.33)

Qua re secedant inprobi, secernant se a bonis, unum in locum congregentur, muro denique, quod saepe iam dixi, secernantur a nobis; desinant insidiari domi suae consuli, circumstare tribunal praetoris urbani, obsidere cum gladiis curiam, malleolos et faces ad inflammandam urbem comparare; sit denique inscriptum in fronte unius cuiusque, quid de re publica sentiat. Polliceor hoc vobis, patres conscripti, tantam in nobis consulibus fore diligentiam, tantam in vobis auctoritatem, tantam in equitibus Romanis virtutem, tantam in omnibus bonis consensionem, ut Catilinae profectione omnia patefacta, inlustrata, oppressa, vindicata esse videatis. Hisce ominibus, Catilina, cum summa rei publicae salute, cum tua peste ac pernicie cumque eorum exitio, qui se tecum omni scelere parricidioque iunxerunt, proficiscere ad impium bellum ac nefarium. Tu, Iuppiter, qui isdem quibus haec urbs auspiciis a Romulo es constitutus, quem Statorem huius urbis atque imperii vere nominamus, hunc et huius socios a tuis ceterisque templis, a tectis urbis ac moenibus, a vita fortunisque civium arcebis et homines bonorum inimicos, hostis patriae, latrones Italiae scelerum foedere inter se ac nefaria societate coniunctos aeternis suppliciis vivos mortuosque mactabis.

Perciò se ne vadano i colpevoli! Si separino gli onesti! Si raccolgano in uno stesso luogo! Un muro, infine, li divida da noi, come ho detto più volte! Smettano di attentare alla vita del console nella sua casa, di accalcarsi intorno al palco del pretore urbano, di assediare, armi in pugno, la Curia, di preparare proiettili e torce per incendiare la città! Insomma, ciascuno porti scritta in fronte la sua idea politica! Questo vi prometto, padri coscritti: ci sarà tanto impegno in noi consoli, tanta autorità, in voi senatori, tanto valore nei cavalieri, tanta unanimità in tutti i cittadini onesti che, con la partenza di Catilina, vedrete ogni cosa svelata, messa in luce, repressa, punita. Con questi presagi, per la salvezza suprema dello Stato, perché tu e coloro che si sono legati a te in ogni crimine e omicidio andiate incontro alla morte più orrenda, parti per la tua guerra empia e nefasta! Tu, Giove, il cui culto fu istituito da Romolo con gli stessi auspici con cui fondò Roma, tu, che a ragione sei chiamato protettore di questa città e dell’impero, difendi da questo individuo e dai suoi complici i templi tuoi e degli altri dei, le case e le mura della città, la vita e le mura della città, la vita e i beni di tutti i cittadini! Punisci con supplizi eterni, nella vita e nella morte, questi uomini avversari degli onesti, nemici della patria, predoni dell’Italia, che un patto criminoso e una complicità di morte hanno legato insieme!

Si osservi come egli richiami “alle armi” gli oppositori catilinari: patres conscripti, cioè i senatores, consules, equites, boni cives. Sembra si riferisca solamente ai gruppi “di potere”, giustificando uno status quo che non ammette né spiegazioni né tentativi di risoluzione dei problemi. Nessuna parola per i proscritti sillani, niente per gli oberati dai tassi esorbitanti dell’usura: se hanno perso una guerra civile e/o politica, se non sono riusciti a risalire (non se nessuno ha dato loro la possibilità di farlo) la colpa è loro.

Nella seconda orazione, pronunciata di fronte al popolo, dopo la fuga di Catilina stesso, egli descrive la sua pericolosità e quella dei suoi seguaci; nella terza, sempre rivolta al popolo, egli descrive come entrato in possesso di lettere che dimostravano che i catilinari avessero cercato di coinvolgere gli Allobrogi, popolazione gallica non ancora pacificata,  nella congiura contro la res pubblica. Arrestati i congiurati, Cicerone chiede di esser definito “salvatore della patria”. Nella quarta, pur non esprimendosi direttamente, chiede ai senatori di dare ai catilinari la punizione che essi meritano. Verranno giustiziati.

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La morte di Catilina dipinto di Alcide Segoni

Tra la prima e la seconda orazione delle Catilinariae Cicerone pronuncia la Pro Murena, difendendo tale personaggio dall’accusa di corruzione elettorale. Essendo tale accusa mossa da un rigorista morale, Catone il Giovane, discendente del famosissimo Censore, con l’uso dell’ironia egli smonta il “purismo” dell’avversario, mostrando, attraverso l’ironia e scherzo e con uno stile lieve e brioso, come lo stato sia mosso da diverse esigenze, che contemperino sia i valori del mos maiorum sia l’esigenza del ben vivere .

Appartiene alle orazioni “consolari” (cioè quelle scritte durante il suo consolato) anche la Pro Archia poëta. Essa è estremamente importante perché, al di là del motivo per cui Cicerone assunse la difesa del poeta greco (chiedeva in cambio un poema in cui lo si gloriasse per aver salvato la res publica dall’attacco di Catilina, che il poeta non scrisse) contiene sia pure in “nuce” quello che lui dirà rispetto al “bonus peritus dicendi”:

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Aulo Licinio Archia in “Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli” edita a partire dal 1814 da Nicola Gervasi.

TUTTE LE ARTI HANNO QUALCOSA IN COMUNE
(Dal cap. 1, 2 )

Ac ne quis a nobis hoc ita dici forte miretur quod alia quaedam in hoc facultas sit ingeni neque haec dicendi ratio aut disciplina ne nos quidem huic uni studio penitus umquam dediti fuimus. Etenim omnes artes quae ad humanitatem pertinent habent quoddam commune vinclum et quasi cognatione quadam inter se continentur.

E – lo sottolineo perché nessuno si meravigli di quanto sto dicendo – è ben vero che il mio cliente (Archia) possiede una diversa disposizione d’ingegno ed è privo della pratica metodica dell’eloquenza: ma neppure io mi sono mai applicato esclusivamente a questo solo interesse. Infatti tutte le arti che riguardano la formazione culturale dell’uomo hanno in un certo qual modo un legame comune e sono tra loro unite, per così dire, da un vincolo di parentela.

In questo piccolo passo il nostro sottolinea, nel discorso generale rivolto ai giudici il principio della “cultura generale” che dev’essere posseduta dall’oratore, affinchè possa affrontare qualsiasi argomento debba affrontare: D’altra oparte così sottolinea, con quel plurale maiestatis “nos”, che anche lui ha coltivato sin da giovane età la poesia. Ma ancora la Pro Archia contiene un sincero elogio della poesia: 

IL POETA E’ PERVASO DA UN AFFLATO DIVINO
(dal cap. 8)

Quotiens ego hunc Archiam vidi, iudices, – utar enim vestra benignitate, quoniam me in hoc novo genere dicendi tam diligenter attenditis – quotiens ego hunc vidi, cum litteram scripsisset nullam, magnum numerum optimorum versuum de eis ipsis rebus quae tum agerentur dicere ex tempore, quotiens revocatum eandem rem dicere commutatis verbis atque sententiis! Quae vero accurate cogitateque scripsisset, ea sic vidi probari ut ad veterum scriptorum laudem pervenirent. Hunc ego non diligam, non admirer, non omni ratione defendendum putem? Atque sic a summis hominibus eruditissimisque accepimus, ceterarum rerum studia ex doctrina et praeceptis et arte constare, poetam natura ipsa valere et mentis viribus excitari et quasi divino quodam spiritu inflari. Qua re suo iure noster ille Ennius “sanctos” appellat poetas, quod quasi deorum aliquo dono atque munere commendati nobis esse videantur.

Quante volte io vidi questo Archia, o giudici, – approfitterò della vostra benevolenza, poiché tanto diligentemente mi prestate attenzione in questo nuovo genere di eloquenza – quante volte io lo vidi, sebbene non avesse scritto nemmeno una lettera, recitare un grande numero di ottimi versi su quegli stessi fatti che allora accadevano in quel momento, quante volte invitato a ripetere dire la stessa cosa con parole e pensieri diversi! Quelle cose che scrisse con meditazione e buona preparazione, le vidi così essere apprezzate da raggiungere la gloria degli antichi scrittori. Non lo dovrei amare, non ammirare, non dovrei credere che dev’essere difeso in ogni modo? Apprendiamo anche da sommi e sapientissimi uomini che gli studi delle altre discipline constino di dottrina, di precetti e di cognizioni, il poeta vale per la sua stessa natura ed è spinto dalla forza della mente ed è pervaso quasi da un certo spirito divino. Per questo a buon diritto quel nostro Ennio chiama i poeti “santi”, poiché sembra che ci siano affidati quasi come qualche dono e offerta.

L’importanza di questo brano è soprattutto nella fortuna che esso ebbe in moltissime epoche successive: definire, infatti, che il poeta ha in sé qualcosa di divino, oltre a darle un aspetto fortemente sacrale (il dio Apollo ispira il “soffio” divino nel petto degli oracoli, per poter profetizzare il futuro) ne disegna anche l’aspetto immortale. Ciò si può cogliere in due momenti:

  • Archia recita ex tempore un gran numero di ottimi versi (appunto come un dio che s’insinua nel petto di in vaticinante;
  • In seguito, Archia scrive con meditazione e passione ciò che aveva “recitato”, dando dunque forma “corporea” (pergamena) a ciò che prima era incorporeo (vox), assicurando così un destino imperituro.

Ed è per questo che, non ricevendo neanche da lui il sospirato poema sulla sua grande impresa, ci penserà da solo con il De consolatu meo, (composto intorno al 60 a.C.) ma, contrariamente alla sue aspettative si perderà come una delle opere “peggiori” di Cicerone, basterà ricordare l’incidit Cedant arma togae, concedant laurea laudi (Lascino il passo le armi alla toga, l’allori militari alla lode del dire), riportato dallo stesso Cicerone nel De officiis.

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Crasso, Cesare, Pompeo

In seguito, con la formazione del primo triumvirato, nel 60 tra Cesare, Pompeo e Crasso, Cicerone si vede “scavalcato” dall’intraprendenza dei tre privati cittadini. Inoltre, nel 58 un certo Clodio, rappresentante dei popolari e nemico per motivi personali dell’oratore, propone una legge in cui, per coloro che avessero promulgato la morte di cittadini senza un regolare processo, vengano mandati in esilio. E’ evidente che si tratta di una lex ad personam, che tuttavia ebbe il suo effetto se Cicerone fu costretto ad allontanarsi dalla città per un intero anno. Al ritorno dell’oratore, Roma era completamente nell’anarchia più completa in cui si fronteggiavano e s’intersecavano interessi privati mescolati con quelli politici. A farla da padrona sono due “campioni” scelti dai contendenti: come già detto Clodio, per i populares, Milone, per gli optimates.

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Publio Clodio Pulcher

Le orazioni ciceroniane di questo periodo vedono il nostro difendere persone attaccate dal suo grande nemico Clodio: il primo di queste è Sesto, accusato di atti di violenza. Infatti, l’orazione Pro Sestio, assume un’enorme importanza sul piano politico: infatti qui, alla luce della situazione creatasi, il nostro supera il concetto già espresso nella Pro Manilia della concordia ordinum per passare a quella più vasta della consensio omnium bonorum, cioè di un progressivo allargamento verso tutti coloro che vedevano in pericolo le sorti della repubblica:

LA RAZZA DEI MIGLIORI
(96/98)

Nimium hoc illud est quod de me potissimum tu in accusatione quaesisti, quae esset nostra ‘natio optimatium’; sic enim dixisti. rem quaeris praeclaram iuventuti ad discendum nec mihi difficilem ad perdocendum; de qua pauca, iudices, dicam, et, ut arbitror, nec ab utilitate eorum qui audient, nec ab officio vestro, nec ab ipsa causa P. Sesti abhorrebit oratio mea. Duo genera semper in hac civitate fuerunt eorum qui versari in re publica atque in ea se excellentius gerere studuerunt; quibus ex generibus alteri se popularis, alteri optimates et haberi et esse voluerunt. qui ea quae faciebant quaeque dicebant multitudini iucunda volebant esse, populares, qui autem ita se gerebant ut sua consilia optimo cuique probarent, optimates habebantur.
Quis ergo iste optimus quisque? numero, si quaeris, innumerabiles, neque enim aliter stare possemus; sunt principes consili publici, sunt qui eorum sectam sequuntur, sunt maximorum ordinum homines, quibus patet curia, sunt municipales rusticique Romani, sunt negoti gerentes, sunt etiam libertini optimates. numerus, ut dixi, huius generis late et varie diffusus est; sed genus universum, ut tollatur error, brevi circumscribi et definiri potest. omnes optimates sunt qui neque nocentes sunt nec natura improbi nec furiosi nec malis domesticis impediti. esto igitur ut ii sint, quam tu ‘nationem’ appellasti, qui et integri sunt et sani et bene de rebus domesticis constituti. Horum qui voluntati, commodis, opinionibus in gubernanda re publica serviunt, defensores optimatium ipsique optimates gravissimi et clarissimi cives numerantur et principes civitatis.
Quid est igitur propositum his rei publicae gubernatoribus quod intueri et quo cursum suum derigere debeant? id quod est praestantissimum maximeque optabile omnibus sanis et bonis et beatis, cum dignitate otium. hoc qui volunt, omnes optimates, qui efficiunt, summi viri et conservatores civitatis putantur; neque enim rerum gerendarum dignitate homines ecferri ita convenit ut otio non prospiciant, neque ullum amplexari otium quod abhorreat a dignitate. Huius autem otiosae dignitatis haec fundamenta sunt, haec membra, quae tuenda principibus et vel capitis periculo defendenda sunt: religiones, auspicia, potestates magistratuum, senatus auctoritas, leges, mos maiorum, iudicia, iuris dictio, fides, provinciae, socii, imperi laus, res militaris, aerarium.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è campitelli_-_campidoglio_tabularium_-_lacus_curtius_1020814_-_cropped-1.jpgCavaliere romano con armatura (Musei capitolini)

Davvero sorprendente codesta “razza degli ottimati” (così tu stesso hai detto), della quale con particolare insistenza, nella tua accusa, mi hai chiesto che cosa sia! Tu mi chiedi una cosa che è preziosa a sapersi per i giovani, facile per me a spiegare. Brevi parole dirò a riguardo dunque, o giudici: e credo che non saranno fuori luogo, né pel vantaggio di chi ascolta, né per l’ufficio vostro, né per la causa di Sestio. Sempre in Roma ci furono due categorie di persone, fra coloro che si son dati alla vita politica con il proposito di condurvisi nel modo migliore: l’una fu, e volle essere qualificata popolare; l’altra, degli ottimati. Popolari, quelli che attuavano predicavano cose che sapevano gradite alla moltitudine; ottimati, quelli che agivano in modo da provocare sulla propria condotta l’approvazione dei cittadini migliori.
Ma chi sono questi cittadini migliori? Sono, se vuoi saperlo, innumerevoli (senza di che non ci reggeremo in piedi): sono i più autorevoli membri del senato, son coloro che ne seguono l’indirizzo, coloro che appartengono agli ordini maggiori e ai quali è aperto l’accesso alla curia; abbondano tra i cittadini romani dei municipi e delle campagne, tra gli uomini di affari, tra i figli stessi dei liberti. Per la quantità, come dissi, dei suoi appartenenti, questa categoria è ampia e diffusa; qualitativamente, per togliere di mezzo ogni equivoco, può essere rapidamente circoscritta e definita. Sono ottimati tutti coloro che non fanno del male, che non sono per natura disonesti o squilibrati, né impacciati da domestiche difficoltà. Son questi, dunque, coloro che formano quella che tu chiamasti “una razza”; uomini integri, moralmente sani, di benestante famiglia. E coloro che nel governo dello stato secondano la volontà, gli interessi e le opinioni di quelli fautori degli ottimati e ottimati essi stessi, sono considerati fra i cittadini più autorevoli e illustri, e come i maggiorenti della città.
Qual è il fine a cui devono tendere i reggitori della cosa pubblica, qual è l’indirizzo del loro cammino? È quello che appare il più nobile, il più desiderabile per ogni uomo di buon senso, probo, fortunato: una vita tranquilla e dignitosa. Quanti vogliono ciò, sono da considerarsi ottimati; quanti lo realizzano, uomini di primo piano e protettori della città. Non conviene, infatti, esser trascinati, nel gestire gli affari, da un senso tale dell’autorità propria che escluda la quiete dello spirito, né aggrapparsi a un amor di quiete siffatto che ripugni alla dignità.Di questa dignità serena, ecco le fondamenta, ecco gli elementi costitutivi, che le persone più elevate debbono difendere anche con il rischio della vita: i principi religiosi, gli auspici, la funzione dei magistrati, l’autorità del senato, le leggi, la tradizione, i tribunali, la giustizia, la fedeltà agli impegni, le province, gli alleati, il prestigio nazionale, l’esercito, l’erario.

Questo atteggiamento teso ad allargare il consenso a tutti i cittadini di buona volontà, fa sì che egli, tuttavia, assuma posizioni tra loro contrastanti: tra il 57 e il 53 pronunciò una serie di orazioni che se in parte attaccavano Clodio e i suoi amici, dall’altra difendevano i triumviri appoggiando le loro scelte: così In Pisonem arriva ad attaccare il suocero di Cesare, nella De provinciis consularibus o nella Pro Balbo, ad esempio, difende i triumviri e gli amici dello stesso Cesare.

Ma l’orazione più importante, e per alcuni la più briosa, fra queste è la Pro Caelio (56 a.C.): Celio era un bel giovane, affidato per l’educazione dal ricco padre provinciale alle cure di Cicerone. Affascinante e ambizioso era diventato un vero e proprio oggetto del desiderio per le aristocratiche matrone del tempo. Fra queste la famosa Clodia (la Lesbia cantata da Catullo) che lo accusa di aver tentato di avvelenarla. Su questo si basa la difesa di Cicerone. Ma noi sappiamo ben altro: le ambizioni di costui lo avevano avvicinato a suo tempo a Catilina; aveva poi tentato, grazie proprio alla protezione che egli vantava, di farsi spazio nella politica, senza tuttavia riuscirvi. Ma questa orazione è apparsa ai più importante perché qui Cicerone espone un vero e proprio “trattato” pedagogico sulla educazione dei giovani in questo tempo. Egli si dimostra molto favorevole ai divertimenti giovanili, purché, poi, non perdano di vista il fine ultimo, che è l’onore e la virtus. Non si tratta di abbandonare il mos maiorum ma di “sperimentare la vita” per poi, in età adulta, tornare ad esso.

L’AMANTE DI CATULLO?
(XLIX)

Si quae non nupta mulier domum suam patefecerit omnium cupiditati palamque sese in meretricia vita conlocarit, virorum alienissimorum conviviis uti instituerit, si hoc in urbe, si in ortis, si in Baiarum illa celebritate faciat, si denique ita sese gerat non incessu solum, sed ornatu atque comitatu, non flagrantia oculorum, non libertate sermonum, sed etiam compluxu, osculatione, actis, navigatione, conviviis, ut non solum meretrix, sed etiam proterva meretrix procaxque videatur: cum hac si qui adulescens forte fuerit, utrum hic tibi, L. Herenni, adulter an amator, expugnare pudicitiam an explere libidinem voluisse videatur?

Se questa donna non sposata avesse aperto la sua casa alla passione di tutti, se si fosse posta apertamente a una vita da puttana, se avesse stabilito di frequentare banchetti di uomini assai sconvenienti, se facesse ciò nella città, nei giardini, nella folla di Baia, se infine si comportasse così non solo nel portamento ma anche nell’abbigliamento e nella compagnia, non solo nel trucco, nella libertà di parola, ma nei baci, nei gesti, nei viaggi in mare, nei banchetti, così da sembrare non solo una puttana ma anche una puttana sfrontata e insolente, se qualche giovane per caso fosse stato con questa, questo (giovane), Lucio Erennio, ti sembrerebbe adultero o amatore che abbia voluto espugnare la pudicizia (della donna) o saziare una passione?

La descrizione di questa donna, pur non rivolgendosi direttamente Clodia, fa sì che i giudici possano identificarla con lei. Ma dipingerla in così forti tinte vuole colpire, soprattutto suo fratello e la sua famiglia, il famigerato Clodio. Ma non lo distrugge lui. Ci pensa il suo avversario, Milone, uccidendolo.

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La prostituzione a Roma

La Pro Milone, scritta proprio per difendere il campione degli optimates, è certamente uno dei capolavori ciceroniani. Ma non si tratta dell’orazione da lui pronunciata e poi riscritta. Egli non è proprio riuscito a sviscerare la sua capacità oratoria. Gli eventi non lo hanno permesso. Infatti quest’orazione è scritta proprio post eventum e si basa sulla teoria della legittima difesa e della liceità del tirannicidio.

Allo scoppio della guerra civile Cicerone aderisce con entusiasmo alla causa di Pompeo, ma dopo la vittoria di Cesare, è da quest’ultimo perdonato. Conduce al foro alcune cause di pompeiani pentiti, come la Pro Marcello, la quale, oltre alla difesa dell’uomo, tenta di mostrare a Cesare un programma che, pur riformato, rispetti le forme della res publica. Probabilmente Cicerone ci spera ancora, ma il suo progetto politico fa acqua da tutte le parti.

Ciò si dimostra quando, dopo l’uccisione di Cesare, lui torna con gioia e prepotenza, alla vita politica. I pericoli per la repubblica sono ora più vivi che mai: lo dimostra Antonio, che con la legge sulla permutatio provinciarum tenta di controllare e farsi padrone di Roma. Cicerone, con tutte le forze in corpo, lo accusa con estrema violenza nelle Philippicae:

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Busto di Marco Antonio

QUELL’UBRIACONE DI ANTONIO
(II, 63)

Sed haec, quae robustioris improbitatis sunt, omittamus; loquamur potius de nequissimo genere levitatis. Tu istis faucibus, istis lateribus, ista gladiatoria totius corporis firmitate tantum vini in Hippiae nuptiis exhauseras, ut tibi necesse esset in populi Romani conspectu vomere postridie. O rem non modo visu foedam, sed etiam auditu! Si inter cenam in ipsis tuis immanibus illis poculis hoc tibi accidisset, quis non turpe duceret? In coetu vero populi Romani negotium publicum gerens, magister equitum, cui ructare turpe esset, is vomens frustis esculentis vinum redolentibus gremium suum et totum tribunal inplevit! Sed haec ipse fatetur esse in suis sordibus; veniamus ad splendidiora.

Ma lasciamo da parte azioni come queste che sia pure nel male esprimono una certa energia. Parliamo piuttosto di qualcosa che rileva una depravazione della peggiore specie. Con una gola ampia come la tua, un petto così vasto, una corporatura così soda da sembrare un gladiatore tu alle nozze di Ippia avevi tracannato così tanto di vino, che il giorno dopo sei stato costretto a vomitare in pubblico, mentre parlavi al popolo romano. Scena stomachevole non solo a vedersi, ma anche a sentirsi. Chi non l’avrebbe trovata disgustosa, anche se ti fosse accaduto a tavola, fra quelle smisurate coppe che tu usi? Ma no è stato in un adunanza del popolo romano, mentre trattava di pubblici affari che il nostro comandante di cavalleria, cui il ruttare sarebbe già vergogna, ha dato di stomaco imbrattando di cibo puzzolente di vino la propria toga e il palco tutt’intorno. Ma riconosce lui stesso come una delle sue sozzure; passiamo allora alle azioni che costituiscono il suo vanto.

Basta questo brano per far sì che Cicerone mostri, con un sarcasmo straordinariamente cattivo, l’odio verso Antonio. La sproporzione che Cicerone usa tra la stazza fisica del personaggio e il modo in cui si comporta crea un contrasto che spinge il pubblico ad una vera e propria riprovazione per il personaggio, che appunto Cicerone dichiarerà “nemico della Patria”.

Questo è un passo della seconda orazione, la più dura: infatti le Philippicae sono composte da otto orazioni, pronunciate di fronte al Senato e di fronte al popolo tra il 44 ed il 43. Per tali orazioni Antonio chiederà la testa dell’avvocato arpinate.

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La morte di Cicerone

Opere retoriche

Le opere retoriche sono state scritte tutte, ad eccezione del De inventione, dopo l’esilio ad indicare, nel periodo in cui vive, una forte necessità d’intervento. Infatti esse, al contrario della Rhetorica ad Erennium, vogliono dare, pur nella loro specificità, una vera e propria risposta politica. Esse sono: De inventione, De oratore, Orator, Brutus, De optimo genere oratorum, Topica.

De invenzione è un’opera giovanile di Cicerone, in cui egli riversa gli insegnamenti che i suoi magistri nell’ars dicendi gli avevano impartito arrivato a Roma: si tratta di Marco Antonio (nonno del politico del secondo triumvirato) e di Lucio Licinio Crasso.

De oratore: l’opera viene composta durante il difficile periodo in cui Roma era percorsa dalle bande armate di Clodio e Milone, ed è ambientata nel periodo della sua giovinezza, che egli disegna in modo nostalgico, perché le ricorda la concordia prima dello scoppio delle guerre civili. La prima grande novità di Cicerone è quella di far uscire la retorica dallo stretto ambito “tecnico” e di farla aderire, almeno stilisticamente (ma non solo) alla struttura dialogica di tipo filosofico. Infatti si tratta di mettere a confronto posizioni differenti: Marco Antonio e Lucio Licino Crasso, uomo politico protagonista dell’età precedente. Le posizioni che si confrontano sono quelle che si riferiscono da una parte alla profonda preparazione culturale che deve possedere un oratore, dall’altra la disposizione naturale alla parola. Per Antonio, infatti, l’essere oratore è frutto di una “disposizione naturale”, rafforzata dalla capacità tecnica nell’uso della parola; per Crasso, invece, portavoce di Cicerone, è soprattutto la conoscenza di filosofia morale che deve sostenere un buon oratore: infatti non può bastare la sua capacità retorica per sostenere pro o contra un argomento che, invece, può avere gravi ripercussioni politiche, se lo stesso oratore non sia dotato di una buona conoscenza che stia a fondamento della sua probitas e prudentia, altrimenti si cadrebbe nella pericolosa demagogia.

Si veda in questo brano quale grande importanza dia Cicerone alla cultura, alla parola:

IL PRIMATO DELLA PAROLA
(1, 30-32)

Neque vero mihi quicquam praestabilius videtur, quam posse dicendo tenere hominum mentis, adlicere voluntates, impellere quo velit, unde autem velit deducere (…) (Quid enim est) Aut tam potens tamque magnificum, quam populi motus, iudicum religiones, senatus gravitatem unius oratione converti?  Quid tam porro regium, tam liberale, tam munificum, quam opem ferre supplicibus, excitare adflictos, dare salutem, liberare periculis, retinere homines in civitate? Quid autem tam necessarium, quam tenere semper arma, quibus vel tectus ipse esse possis vel provocare integer vel te ulcisci lacessitus? (…) Hoc enim uno praestamus vel maxime feris, quod conloquimur inter nos et quod exprimere dicendo sensa possumus.

Nulla a mio parere è più insigne della capacità di avvincere con la parola l’attenzione degli uomini, guadagnarne il consenso, spingerli a piacimento dovunque e dovunque a piacimento distoglierli (….).  (Che cosa)  ancora oppure  di così possente e tanto splendido quanto il fatto che il discorso di un solo uomo riesca a modificare le passioni del popolo, gli scrupoli dei giudici, l’inflessibilità del senato? Che cosa c’è inoltre di altrettanto regale, nobile, generoso del prestare soccorso ai supplici, del risollevare gli afflitti, del salvare  delle vite, dell’affrancare dai pericoli, del sottrarre all’esilio i concittadini? E che c’è di altrettanto indispensabile del diporre costantemente di armi con cui poter proteggersi, o sfidare i malvagi o vendicarsi se provocati? (…) Perché proprio per questa ragione noi siamo incomparabilmente superiori alle bestie: in quanto discorriamo tra di noi e possiamo esprimere a parole i nostri pensieri.
(M. Martina, M. Ogrin, I. Torzi, G. Gettuzzi)
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Un oratore

Un’altra opera importante è certamente il Brutus, del 46 (in cui appare come protagonista insieme a Marco Bruto, che rappresenta le ragioni dell’atticismo e al suo amico Attico). L’opera nasce dopo le polemiche che il De Oratore aveva suscitato: infatti alcuni criticavano Cicerone perché lo ritenevano eccessivo, ricercato, come appunto la scuola asiana, contro cui loro, da atticisti, si oppongono. Cicerone risponde dapprima mostrando una conoscenza vasta e approfondita dell’arte retorica, descrivendone la storia da quella greca ad Ortalo e a lui stesso, quindi analizza gli stili oratori presenti a Roma: 

  • Atticismo: a questa scuola si rifacevano tutti coloro che ricercavano uno stile semplice e puro, lontano dall’artificiosità: in un’altra parola uno stile che faceva prevalere i fatti rispetto al modo di presentarli;
  • Asianesimo: stile ricco e artificioso, pieno di parole ricercate e figure di suono, che alla fine si compiaceva troppo di se stessa, si ascoltava prima d’essere ascoltata.

Cicerone, che si considera il vertice dell’eloquenza, rifiuta e non rifiuta ambedue: la prima gli sembra assolutamente priva di verve, piatta, che poteva esercitare un certo effetto, nel momento in cui veniva pronunciata, ma non certo adatta per essere conservata al fine di farne un’opera letteraria; la seconda era troppo tesa a piacere, a riflettere se stessa, a ricercare l’effetto, facendo quasi perdere il ruolo, come abbiamo visto precedentemente, della probitas dell’oratore. Egli pertanto si fa fautore di un terzo stile:

  • Rodiese: lo definisce così perché appreso a Rodi, nel suo viaggio d’istruzione in Grecia. In esso convergono i primi due. Consapevole che l’oratoria ha fra i suoi compiti quello di portare la verità, ma anche quello della piacevolezza dell’essere ascoltata, egli abbandona gli eccessi degli attici e degli asiani, cercando una via tra l’uno e l’altro ed utilizzandoli in modo vario all’interno di una stessa orazione o tra orazioni diverse (anche se non accetta la piattezza asiana) a seconda del fine che vuole ottenere. Inoltre per Cicerone l’ oratoria che deve anche essere consapevole della suo essere opera letteraria.

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L’Orator, contemporanea al Brutus, è un trattato in forma di epistola. Nel proemio sottolinea l’importanza della filosofia: 

LA NECESSITA’ DELLA FILOSOFIA
(14-16) 

Positum sit igitur in primis, quod post magis intellegetur, sine philosophia non posse effici quem quaerimus eloquentem, non ut in ea tamen omnia sint, sed ut sic adiuvet ut palaestra histrionem; parva enim magnis saepe rectissime conferuntur. Nam nec latius atque copiosius de magnis variisque rebus sine philosophia potest quisquam dicere.

Innanzi tutto sia stabilito, come si capirà maggiormente dopo, che senza la filosofia non può formarsi quell’uomo eloquente (il perfetto oratore) che cerchiamo, non perché in essa, tuttavia, ci sia ogni cosa, ma perché giovi (all’oratore) così come la ginnastica (giova) al danzatore; infatti le piccole cose spesso sono paragonate in modo assai conveniente alle grandi. Infatti nessuno può parlare in modo molto vasto e abbondante su vari e importanti argomenti senza filosofia.

quindi riprende gli stessi temi del De Oratore, in modo più agile. Sottolineando i fini cui si deve dedicare un oratore, Cicerone li individua nel probare (prospettare tesi con argomenti validi), delectare (produrre una piacevole attenzione) e flectere (muovere attenzione):

PROBARE, DELECTARE, FLECTERE
(69-70)

Erit igitur eloquens is qui in foro causisque civilibus ita dicet, ut probet, ut delectet, ut flectat. Probare necessitatis est, delectare suavitatis, flectere victoriae: nam id unum ex omnibus ad obtinendas causas potest plurimum. Sed quot officia oratoris, tot sunt genera dicendi: subtile in probando, modicum in delectando, vehemens in flectendo; in quo uno vis omnis oratoris est. Magni igitur iudici, summae etiam facultatis esse debebit moderator ille et quasi temperator huius tripertitae varietatis; nam et iudicabit quid cuique opus sit et poterit quocumque modo postulabit causa dicere. Sed est eloquentiae sicut reliquarum rerum fundamentum sapientia. Ut enim in vita sic in oratione nihil est difficilius quam quid deceat videre. Πρέπον appellant hoc Graeci, noi dicamus sane decorum. De quo praeclare  et multa praecipiuntur et res est cognitione dignissima. Huius ignoratione non modo in vita sed saepissime et in poematis et in oratione peccatur.

Sarà dunque oratore perfetto – è questo infatti ciò che noi ricerchiamo sulla traccia di Antonio – colui che saprà, tanto nei discorsi del foro quanto in quelli dei tribunali, dimostrare, dilettare, commuovere. Il dimostrare è richiesto dalla necessità, il dilettare dal piacere, il commuovere dall’esigenza del successo: questa infatti è la cosa più importante tra tutte per vincere la causa. Quanti sono i compiti dell’oratore, tante saranno le sue maniere di parlare: egli sarà acuto nel dimostrare, moderato nel dilettare, travolgente nel commuovere: è qui veramente che si rivela tutta la potenza dell’oratore. Dovrà essere di acuto giudizio e di grande abilità pratica colui che vorrà dominare e, per così dire, contemperare una tale triplice varietà: dovrà essere in grado di valutare ciò che occorrerà in ciascuna occasione e parlare nel modo richiesto dalla causa. Ma il fondamento dell’eloquenza, così come di ogni altra attività umana, resta sempre il buon senso. In un discorso, come in ogni circostanza della vita, non c’è nulla di più difficile che saper vedere la cosa che si addice. I Greci chiamano ciò Πρέπον, noi potremo chiamarlo “decorum”. Su di esso vengono dati molti e brillanti precetti; e veramente si tratta di una cosa assai degna di essere conosciuta, per la cui ignoranza si commettono degli errori non solo nella vita, ma molto spesso anche in opere di poesia e di prosa.

Ad ogni compito Cicerone assegna uno stile (genus dicendi): subtile (chiaro e semplice) nel probare; modicum (medio) nel delectare; vehemens (alto ed energico) nel flectere.

Un’altro scritto è il De optimo genere oratorum che, più che essere un vero e proprio trattato organico, voleva essere l’introduzione di sue traduzioni di due orazioni greche contrapposte tra loro in uno stesso processo, attraverso le quali voleva mostrare l’ottimo stile. Non sappiamo, in quanto non ci sono pervenute, se tali opere le abbia pubblicate o no.

Topica: operetta scritta nel 44 in cui Cicerone descrive i topoi cui gli oratori possono attingere.

Opere politiche 

E’ difficile separare, nella cospicua messe delle opere ciceroniane, i temi toccati, in quanto essi passano da un testo all’altro, confluendo così in tutti i generi toccati, come le orazioni, le retoriche e le filosofiche. Questo è soprattutto evidente nelle due opere cosiddette politiche, il De re publica e il De legibus.

La prima si rifà esplicitamente, sin dal titolo, all’omonima opera di Platone, (Πολιτεία) anche se, al confronto con il filosofo greco, egli non si lancerà verso l’idea di una repubblica, ma l’ancorerà, viceversa, alla realtà del passato, il tempo di Scipione Emiliano. Come il De oratore, scritto più o meno contemporaneamente, il De re publica è un’opera dialogica tra cui i maggiori protagonisti sono il grande uomo politico del II secolo e Gaio Lelio. Non è possibile tuttavia ricostruire con esattezza il suo percorso, perché l’opera ci si presenta in modo estremamente frammentario. Curiosa, infatti, è la sua trasmissione: l’ultima parte dell’opera il Somnium Scipionis ci è giunta, vista la sua “venatura” religiosa, in modo separato ed integro sin dal Medioevo. Viceversa parte della prima è stata riscoperta in un palinsesto dal cardinale Angelo Mai all’inizio del XIX secolo, da meritarsi, per questo, una famosa canzone di Giacomo Leopardi.

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Angelo Mai

Vediamo i tre tipi di stato:

I TRE TIPI DI STATO
(I, 42)

Deinde (consilium) aut uni tribuendum est, aut delectis quibusdam, aut suscipiendum est multitudini atque omnibus. Quare cum penes unum est omnium summa rerum, regem illum unum vocamus, et regnum eius rei publicae statum. Cum autem est penes delectos, tum illa civitas optimatium arbitrio regi dicitur. Illa autem est civitas popularis – sic enim appellant -, in qua in populo sunt omnia. Atque horum trium generum quodvis, si teneat illud vinculum quod primum homines inter se rei publicae societate devinxit, non perfectum illud quidem neque mea sententia optimum, sed tolerabile tamen, et aliud ut alio possit esse praestantius. Nam vel rex aequus ac sapiens, vel delecti ac principes cives, vel ipse populus, quamquam id est minime probandum, tamen nullis interiectis iniquitatibus aut cupiditatibus posse videtur aliquo esse non incerto statu.

Il governo dev’essere quindi affidato o ad uno solo o ad una scelta di cittadini o a tutta la moltitudine: per cui, quando tutto il potere si riassume in un uomo solo, quell’unico governante noi chiamiamo “re” e chiamiamo “regno” il suo Stato. Quando, invece, ci sia una scelta di governanti, allora si dice che quello è retto da un’aristocrazia. Ed è, infine, uno Stato democratico – come si suol dire – quello in cui tutto il potere è nelle mani del popolo. E ognuna di questi tre generi di costituzione, purché sappia mantenere il vincolo che primo riunì gli uomini in una società politica, per quanto imperfetto esso genere sia e mai del tutto buono a mio parere, può esser tuttavia tollerabile; e, a seconda dei tempi, una di queste costituzioni può anche essere preferibile ad un’altra. Si tratti d’un re giusto e saggio d’una oligarchia o dello stesso popolo (benché di quest’ultimo ci sia da fidarsi meno che d’ogni altro), purché non ci siano né ingiustizie né passioni, lo Stato può sempre continuare a reggersi.

Questi tre tipi di Stato possono modificarsi negativamente:

  • Monarchia     →         degenerazione             →       tirannia
  • Aristocrazia   →        degenerazione              →       oligarchia/plutocrazia
  • Democrazia   →         degenerazione             →       anarchia/oclocrazia

La grandezza dello Stato Romano (ed è chiaro che qui Cicerone si richiami al passato, riprendendo una teoria di Polibio, ma riprenda altresì l’età presente ed il modo di uscire dalla crisi politica) sta nell’aver contemperato le tre forme:

  • Monarchia       →        uguale                      →        consolato
  • Aristocrazia    →        uguale                       →        senato
  • Democrazia     →        uguale                      →        comizi

Infatti egli, pur dichiarando la “unicità” e la “perfezione” del modello romano, mostra palese fastidio per la “democrazia” e adombra la figura di un princeps, come primus inter pares nella classe oligarchica. Non essendo ancora in uso tale termine per indicare il capo dello Stato se non nell’età augustea, essa sembrerebbe piuttosto adombrare alla sua figura, capace di aggregare i boni della repubblica romana.

Come è stato detto prima, grande importanza ha l’ultima parte dell’opera, arrivataci con il nome di Somnium Sciopionis. Infatti in questa parte si narra del sogno di Scipione Emiliano che, giunto all’Ade, conosce dal nonno Scipione l’Africano e dal padre per via elettiva Lucio Emilio Paolo, la futura potenza di Roma grazie alla conquista definitiva di Cartagine. Ma, ancor più, egli chiede quale sarà il futuro per le anime che tanto hanno fatto per la gloria della città:

LA VIA LATTEA
(VI, 16)

“Sed sic, Scipio, ut avus hic tuus, ut ego, qui te genui, iustitiam cole et pietatem, quae cum magna in parentibus et propinquis, tum in patria maxima est. Ea vita via est in caelum et in hunc coetum eorum, qui iam vixerunt et corpore laxati illum incolunt locum, quem vides – erat autem is splendidissimo candore inter flammas circus elucens -, quem vos, ut a Graiis accepistis, orbem lacteum nuncupatis”. Ex quo omnia mihi contemplanti praeclara cetera et mirabilia videbantur. Erant autem eae stellae, quas numquam ex hoc loco vidimus, et eae magnitudines omnium, quas esse numquam suspicati sumus, ex quibus erat ea minima, quae, ultima a caelo, citima a terris, luce lucebat aliena. Stellarum autem globi terrae magnitudinem facile vincebant. Iam ipsa terra ita mihi parva visa est, ut me imperii nostri, quo quasi punctum eius attingimus, paeniteret.

Ma allo stesso modo, Scipione, sull’esempio di questo tuo avo e come me che ti ho generato, coltiva la giustizia e il rispetto, valori che, già grandi se nutriti verso i genitori e i parenti, giungono al vertice quando riguardano la patria; una vita simile è la via che conduce al cielo e a questa adunanza di uomini che hanno già terminato la propria esistenza terrena e che, liberatisi del corpo, abitano il luogo che vedi» – si trattava, appunto, di una fascia risplendente tra le fiamme, dal candore abbagliante -, «che voi, come avete appreso dai Greci, denominate Via Lattea». Da qui, a me che contemplavo l’universo, tutto pareva magnifico e meraviglioso. C’erano, tra l’altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto; tra di essi, il più piccolo era l’astro che, essendo il più lontano dalla volta celeste e il più vicino alla terra, brillava di luce riflessa. I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo.

E’ questa una delle pagine giustamente più famose dell’opera ciceroniana, soprattutto per gli echi che essa ha avuto nell’ideologia cristiana (non è un caso, infatti, che essa sia stata l’unica trasmessa in età medievale): infatti i “giusti” per la patria abiteranno in cielo. Se ne deduce, pertanto, che gli “ingiusti” abiteranno sotto terra: cosa c’è di diverso nell’Inferno e nel Paradiso dantesco?

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L’Universo, con al centro la Terra, sorretto dai giganti, in un codice dei Commentarii in Somnium Scipionis di Macrobio

L’altra grande opera ciceroniana di contenuto politico è il De legibus, modellata anch’esso nel titolo all’omonima opera di Platone (Νόμοι),  giuntaci non completa. Si struttura come la precedente in un dialogo, che tuttavia si svolge nella sua età contemporanea: uno dei protagonisti, pertanto, è proprio lui. Qui il nostro espone la teoria, d’origine stoica, che le leggi sono innate nell’uomo e pertanto esistono nella mente degli uomini prima della regione. Se ne deduce che la loro origine è divina (idea stoica).

Opere filosofiche

Cicerone s’interessa di filosofia quando ormai la sua capacità politica non riesce più a incidere all’interno della società. Ciò non vuol dire che essa si situi in un ambito completamente estraneo alla situazione romana in cui vigeva la “dittatura cesariana”, ma interviene su essa cercando di capire e d’individuare le virtutes che dovevano appartenere a quelli che egli chiamava i boni. Ma non bisogna dimenticare che all’avvicinamento ad una meditazione e quindi ad una produzione filosofica contribuì anche la morte dell’amatissima figlia Tulliola e il conseguente divorzio dalla giovane e sposata da poco Terenzia. Si può dire pertanto che queste opere abbiano una duplice funzione:

  • meditazione sulla realtà e quali prospettive ora essa gli riserva;
  • consolazione per una duplice morte: la sua di grande oratore e protagonista della vita politica e quella della perdita dei familiari.

In che modo Cicerone si approccia al metodo filosofico? Da quanto detto egli si astiene dalla formulazione di una teoria propria ed esclusiva, condotta con forza e vis polemica, ma, con buona capacità, egli abbraccia tutte le scuole e con un metodo cortese e non alieno dalla dialettica le confronta trovando in ciascuna di esse una “verità” e un “insegnamento” per l’uomo. Questo tipo d’approccio prenderà il nome di “eclettismo”, intendendo con esso una vera e propria apertura e tolleranza verso le scuole greche che egli conosce perfettamente. Tale tolleranza e il conseguente metodo espositivo, piano, chiaro e certamente “elegante” (mi verrebbe da dire del migliore Cicerone oratore) ci dice a quale pubblico egli si rivolse: al romano colto, ma non esperto di filosofia greca. Tutto questo, chiaramente, ci riporta al punto iniziale: il nuovo civis all’interno della nuova e ormai perduta res publica.

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Minerva, simbolo della sapienza, con la civetta in mano che rappresenta la filosofia

La prima opera filosofica ciceroniana è i Paradoxa stoicorum, lusus come dice Cicerone del 46 in cui cerca di rendere plausibili sei affermazioni stoiche che sembrano andare contro il senso comune: tale opera venne esclusa dal computo di opere filosofiche ciceroniane in quanto lo stesso non la citò nell’elenco di tali opere nel De divinatione.

Contemporanea ad essa ma purtroppo perduta e la Consolatio per la morte della figlia perduta. Frammentaria ma certamente importante è l’Hortensius, di cui possediamo qualche frammento conservatoci da Sant’Agostino che afferma avvicinarsi alla filosofia grazie a quest’opera.

Incompleta è anche l’opera in cui l’arpinate affronta il problema gnoseologico (della conoscenza) che affronta con gli Academica che si dividono in due parti: i Priora, in due libri, ed i Posteriora in quattro (giuntici frammentari). Qui, anche in ottemperanza al suo “eclettismo” egli si richiama alla teoria del probabilismo, che non accetta proposizioni certe, ma opinioni più o meno plausibili, probabili e verosimili. Ma già da ciò notiamo, nella filosofia ciceroniana una forte posizione antidogmatica.

Il problema filosofico etico Cicerone lo affronta in due opere, considerate veri e propri capolavori. Si tratta del De finis bonorum et malorum, e delle Tusculanae disputationes composte ambedue nel 45 a.C. circa.

Nella prima, il cui titolo nella nostra lingua corrisponde a “I termini estremi del bene e del male”, composto in cinque libri, il nostro, attraverso la forma dialogica affronta tutti i metodi filosofici, riguardanti il problema morale. E’ formato da tre libri: nel primo affronta la teoria del piacere secondo la teoria epicurea; il secondo la teoria stoica secondo cui il bene risiede nella virtù, il terzo la teoria accademica secondo cui il sommo bene risiede nella perfezione dello spirito non disgiunto dal bene materiale. Affrontando le tre scuole filosofiche Cicerone mostra di rifiutare la rigidità del pensiero epicureo e stoico e, pur mostrando più simpatia di questo rispetto al pensiero materialista accetta l’“eclettismo”, e ci mostra il suo appartenere a tale scuola filosofica.

Nella seconda che prende il nome dalla villa in Tuscolo dello stesso scrittore, lo stile dell’autore appare più appassionato, avvicinandosi alle teorie più rigorosamente stoiche. Anch’essa è in cinque libri e la mancanza di un vero e proprio interlocutore dialogico, fa apparire l’opera come un lungo monologo in cui si trattano temi fondamentali per la vita di un uomo come la morte, il dolore, la tristezza, la malinconia ed infine la virtù come garanzia di felicità.

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Resti della villa di Cicerone a Tuscolo

LA SCELTA DI DEDICARSI ALLA FILOSOFIA
(I, 1-2)

Cum defensionum laboribus senatoriisque muneribus aut omnino aut magna ex parte essem aliquando liberatus, rettuli me, Brute, te hortante maxime, ad ea studia, quae retenta animo, remissa temporibus, longo intervallo intermissa revocavi, et cum omnium artium, quae ad rectam vivendi viam pertinerent, ratio et disciplina studio sapientiae, quae “philosophia” dicitur, contineretur, hoc mihi Latinis litteris inlustrandum putavi, non quia philosophia Graecis et litteris et doctoribus percipi non posset, sed meum semper iudicium fuit omnia nostros aut invenisse per se sapientius quam Graecos aut, accepta ab illis, fecisse meliora, quae quidem digna statuissent, in quibus elaborarent. Nam mores et instituta vitae resque domesticas ac familiaris nos profecto et melius tuemur et lautius, rem vero publicam nostri maiores certe melioribus temperaverunt et institutis et legibus. Quid loquar de re militari? In qua cum virtute nostri multum valuerunt, tum plus etiam disciplina. Iam illa, quae natura, non litteris adsecuti sunt, neque cum Graecia neque ulla cum gente sunt conferenda. Quae enim tanta gravitas, quae tanta constantia, magnitudo animi, probitas, fides, quae tam excel-lens in omni genere virtus in ullis fuit, ut sit cum maioribus nostris comparanda?

Poiché ero stato liberato una buona volta dalle fatiche delle difese e dagli oneri senatori o del tutto o in gran parte, indirizzai me, o Bruto, poiché tu soprattutto esortavi, a quegli studi, i quali, trattenuti nell’animo, tralasciati per le circostanze, interrotti da lungo tempo, ho ripresi; e poiché la ragione e l’apprendimento di tutte le arti, che si riferiscono alla giusta via del vivere, sono contenute nello studio della sapienza, che è detto “filosofia”, questo reputai che dovesse essere illustrato in lingua latina; non perché non possa essere appresa dalle opere e dai professori greci: ma fu sempre un mio pensiero che i nostri fossero venuti a conoscenza di tutte le cose più sapientemente dei greci o, le cose prese da loro, le avessero rese migliori, le quali stabilirono essere degne, nelle quali s’applicarono. Infatti i costumi e le istituzioni della vita, le cose domestiche e familiari noi certamente conserviamo sia meglio che più eccellentemente; e in verità i nostri antenati organizzarono la repubblica con istituzioni e leggi certamente migliori. Che dire dell’arte militare? Nella quale i nostri rifulsero molto con la virtù, tanto più anche per disciplina. D’altra parte quelle cose, che per natura, non per la letteratura hanno raggiunto, non sono da paragonare con i Greci né con nessun altro popolo. Quale mai grande dignità, quale così tanta costanza, grandezza d’animo, onestà, fedeltà, quale virtù in qualunque genere così tanto eccellente fu mai ad alcuno, che sia da paragonare con i nostri avi?

Ad osservare con attenzione questo passo, si può notare una specie di ascesi personale, con la quale il nostro dapprima parla di come, abbandonata l’attività pubblica, egli abbia sentito l’urgenza di esternare ciò che egli aveva già dentro di sé, ratio et disciplina ottenute con studio sapientiae, cioè con quella che è detta filosofia. Poi passa alla sua necessità di far diventare questa sua “sapienza” latina, e quindi inserirla in un discorso in cui essa possa eccellere, come tutte le altri arti, proprio perché diventata Romana e possa, di conseguenza eccellere colui che lo ha proposto.

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Il codice del IX secolo, composito , conserva una silloge di opuscoli di Cicerone tra i quali il De natura deorum, De divinatione, De fato

Un posto estremamente particolare nella filosofia di Cicerone occupano due operette, scritte in modo dialogico, dedicate a due grandi personaggi romani: Cato maior de senectute e Laelius de amicitia, dedicate appunto a questi due sentimenti umani, scritte nel ’50 ed entrambe dedicate all’amico Attico.

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Marco Porcio Catone in un disegno

Nella prima protagonista è il famoso Catone il censore ed è ambientata nel 150, anno precedente la sua morte. Egli proiettandosi in quest’uomo, si concede molte libertà, facendo del rude agricoltore che la tradizione ci ha conservato, un uomo estremamente dolce e ammansito, cultore dell’humanitas. Infatti vuole lasciare di se stesso l’immagine di un uomo a cui piacerebbe armonizzare l’otium con l’impegno politico, così come aveva disegnato l’antico uomo politico romano.

Più problematica la seconda opera che prende vita all’indomani dell’uccisione di Cesare e dal tentativo di rientro nella vita politica di Cicerone. Anche il personaggio Lelio viene immaginato dallo scrittore nel periodo immediatamente successivo alla morte dello Scipione. Parlando del suo amico Lelio quindi può soffermarsi sul valore di questo sentimento umano, cercando di differenziare il concetto di amicitia inteso a livello politico, e quello, invece, inteso a livello etico. Non esiste pertanto l’amicizia all’interno di un ristretto gruppo sociale, ma essa va allargata grazie alla virtus e probitas.

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De amicizia, Biblioteca Palatina

L’ESSENZA DELL’AMICIZIA
(20)

Quanta autem vis amicitiae sit, ex hoc intellegi maxima potest, quod ex infinita societate generis humani, quam conciliavit ipsa natura, ita contracta res est et adducta in augustum, ut omnis caritas aut inter duos aut inter paucos iungeretur. Est enim amicitia nihil aliud nisi omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio; qua quidem haud scio an, excepta sapientia, nihil melius homini sit a dis immortalibus datum.

Quanta invece sia forte l’amicizia si può capire da questo che dall’infinita unione del genere umano, che la stessa natura ha riunito, come questo rapporto è stretto e ridotto in piccolo spazio, che tutto l’affetto si raccoglie fra due o poche persone. E infatti l’amicizia non è altro se non un pieno accordo di tutte le cose divine ed umane con l’affetto e la stima, della quale non so con certezza se, eccetto la sapienza, niente di meglio sia stato dato all’uomo dagli dei immortali.

Il De officiis, certamente l’opera più importante filosofica del nostro, è stata scritta in un momento drammatico della storia romana, nel 44 circa, e corrisponde al periodo in cui egli, tornato prepotentemente a far sentire la sua voce, stava elaborando, con estremo furor le Filippiche. Se queste ultime rappresentano una vera e propria ribellione contro la demagogia antoniana, il De officiis si proponeva, viceversa, come la ricerca di quei doveri (esatta traduzione del termine latino che indica il titolo dell’opera) che il nuovo uomo politico romano, d’ascendenza aristocratica, deve possedere per guidare la città. Per questo l’opera si presenta come un trattato indirizzato al figlio Marco, a cui si rivolge in modo pedagogico, insegnandogli la filosofia stoica di Panezio che aveva caratterizzato la gioventù romana durante il II° secolo a. C., al tempo degli Scipioni. Cicerone, rivolgendosi ai giovani, affronta il tema dell’honestum e dell’utile. Che cosa è onesto e cosa utile? In primis la socialità, che, al tradizionale accompagnamento della giustizia affianca il concetto di beneficenza: la prima dà a ciascuno il suo; la seconda, invece, collabora al benessere comune. Bisogna stare tuttavia attenti che tale beneficenza non diventi strumento di corruzione politica, come già avveniva ai tempi di Cicerone, in cui la largitio significava esattamente l’acquisizione di un successo politico e di potere, ma doveva esser posta al di fuori da ogni ambizione personale. Altra concezione fondamentale (altro “dovere” ci viene da dire), è quella della magnanimità, capace di far emergere l’uomo, che ha dato buona prova di sé, sul popolo romano. Tale sentimento, tuttavia non dev’essere accompagnato dalla smisuratezza del possesso, ma da una vera e propria temperanza che mostri disinteresse verso le cose che possono renderci schiavi del possesso. E’ questo che poi fa l’uomo portatore di quella dignitas, che si ottiene attraverso l’equabilità, che permette di essere definiti tali dagli altri. Se si viene meno a tale virtù, come Antonio, appunto, si va verso il disordine e l’anarchia.

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Edizione del 1560 del De officiis

LODE DELL’UOMO ONESTO
(II,76)

Laudat Africanum Panaetius, quod fuerit abstinens. Quidni laudet? Sed in illo alia maiora. Laus abstinentiae non hominis est solum, sed etiam temporum illorum. Omni Macedonum gaza, quae fuit maxima, potitus est Paulus; tantum in aerarium pecuniae invexit, ut unius imperatoris praeda finem attulerit tributerum. At hic nihil domum suam intulit praeter memoriam nominis sempiternam. Imitatus patrem Africanus nihilo locupletior Carthagine eversa. Quid? qui eius collega fuit in censura, L. Mummius, num quid copiosior, cum copiosissimam urbem funditus sustulisset? Italiam ornare quam domum suam maluit; quamquam Italia ornata domus ipsa mihi videtur ornatior.

Panezio loda l’Africano per il fatto che fu disinteressato. Ma perché mai? In lui ci furono altre doti maggiori. La lode di integrità non è solo propria di quell’uomo, ma anche di quei tempi. Paolo s’impadronì di tutto il tesoro dei Macedoni, che era enorme, e versò nell’erario tanto denaro che il bottino di un solo generale permise di mettere fine alle tasse; ma egli non portò niente a casa sua, tranne il ricordo eterno del nome. L’Africano imitò il padre, e, abbattuta Cartagine, non fu per niente più ricco. E che? Colui che fu suo collega nella pretura, Lucio Mummio, forse che diventò più ricco dopo aver distrutto sin dalle fondamenta una città ricchissima? Preferì abbellire l’Italia piuttosto che la sua casa; benché, abbellita l’Italia, la sua stessa casa mi sembra più ornata.
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Altare con bassorilievo della fondazione di Roma

Cicerone e la religione

Un altro aspetto toccato nel percorso filosofico ciceroniano riguarda la teologia. Di questo argomento possediamo tre opere: il De natura deorum in tre libri, il De divinatione in due, e il De fato, giunto incompleto.

Nel De natura deorum, dialogo in tre libri Cicerone mette a confronto le teorie sugli dei degli epicurei, che li vedevano lontani ed indifferenti, la teoria provvidenzialistica degli stoici e quindi la teoria razionale che vede la religio come strumento della politica.
La posizione di Cicerone, pur non negando l’esistenza degli dei, come l’estremismo della terza teoria, cerca tuttavia di conciliare il disegno provvidenzialistico e l’utilità della religione per la pace sociale.

Nel De divinatione,  dialogo in due libri, Cicerone cerca di mettere i rischi che si possono creare tra la legittima l’arte divinatoria e il suo degenerare in semplice superstizione, pur sottolineando l’importanza sociale del rito

Il De fato, l’unico che ci è giunto mutilato, mette di fronte il concetto provvidenzialistico dello stoicismo con il libero arbitrio.

Mettendo insieme le conclusioni delle tre opere, potremmo dire come, soprattutto nella prima Cicerone neghi recisamente la linea epicurea di una indifferenza degli dei riguardo l’esistenza umana e si mostri probabilista circa l’esistenza di un dio ordinatore, così come proclama lo stoicismo. Molto interessante, ci pare, da uomo pragmatico qual è, il fatto che egli reputi la religione tradizionale in qualche modo superficiale, ma nel contempo la ritenga fondamentale, come un vero e proprio instrumentum regni, per il mantenimento della pace sociale.

NESSUNO DUBITEREBBE DELLA RAGIONE DIVINA
(De natura deorum, II,39)

Ac principio terra universa cernatur, locata in media sede mundi, solida et globosa et undique ipsa in sese nutibus suis conglobata, vestita floribus, herbis, arboribus, frugibus, quorum omnium incredibilis multitudo insatiabili varietate distinguitur. Adde huc fontium gelidas perennitates, liquores perlucidos amnium, riparum vestitus viridissimos, speluncarum concavas altitudines, saxorum asperitates, inpendentium montium altitudines inmensitatesque camporum; adde etiam reconditas auri argentique venas infinitamque vim marmoris. Quae vero et quam varia genera bestiarum vel cicurum vel ferarum! qui volucrium lapsus atque cantus! qui pecudum pastus! quae vita silvestrium! Quid iam de hominum genere dicam? qui quasi cultores terrae constituti non patiuntur eam nec inmanitate beluarum efferari nec stirpium asperitate vastari, quorumque operibus agri, insulae litoraque collucent distincta tectis et urbibus. Quae si, ut animis, sic oculis videre possemus, nemo cunctam intuens terram de divina ratione dubitaret.

E in primo luogo si guardi la terra nel suo insieme, collocata al centro del mondo, compatta, sferica, e interamente riunita in una sola massa dalla sua stessa gravitazione, vestita di fiori, erbe, alberi, frutti, tutti esseri viventi la cui incredibile moltitudine è differenziata da un’inesauribile varietà. Aggiungi le fonti gelide e perenni, l’acqua trasparente dei fiumi, le rive rivestite di un manto verdissimo, le profonde cavità delle caverne, l’asprezza delle rocce, l’altezza dei monti scoscesi, l’immensità delle pianure; aggiungi inoltre i giacimenti nascosti di oro e di argento e il marmo in quantità infinita. Quali e quanto varie sono le specie di animali sia domestici che selvatici, quali il volo e il canto degli uccelli, quali i pascoli del bestiame, quale la vita delle selve! Che dire poi del genere umano, che, posto per cosi dire come coltivatore della terra, non lascia che essa sia inselvatichita dalla bestialità delle fiere e sia isterilita da una crescita selvaggia delle erbe, e le cui opere ornano e fanno risplendere di case e di città le terre, le isole, i litorali? Se potessimo vedere tutto questo con gli occhi cosi come lo vediamo con la mente, nessuno, alla vista della terra intera, dubiterebbe dell’esistenza dell’intelligenza divina.

E’ chiaro come in questo piccolo brano, scelto anche perché strutturalmente semplice, giocato con un’accumulazione nominale, in cui, prima di Francesco, egli sottolinea tutte le bellezze dell’universo e, come il santo umbro le fa risalire alla presenza divina: ma è qui che si coglie una profonda differenza. Cicerone infatti non parla di esistenza ma di capacità ragionativa: per lui la mente divina, come per gli stoici, non può che essere, appunto, una mente ordinatrice che organizza l’intera varietà del creato.

Opere letterarie

Cicerone si occupò di poesia sia come traduttore, che come compositore di brani alla stregua dei suoi contemporanei neoterici, sia di poemi epici. Il fatto che egli si credesse, oltre che grande oratore, grande poeta, non toglie che tale sua produzione sia considerata dai contemporanei minore. Ma a darci realmente l’esatta misura di come essa sia stata giudicata, ci basti qui il pensiero di Plutarco nella sua Vita di Cicerone: “Coll’andare del tempo egli credette di essere non solo il più grande oratore, ma anche il più grande poeta di Roma (…) ma, quanto alla sua poesia, essendo venuti dopo di lui molti grandi talenti, è rimasta completamente ignorata, completamente spregiata”.

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Locuzioni dalle Epistulae di Cicerone 1585

Epistolario

L’Epistolario di Cicerone venne scoperto soprattutto da Francesco Petrarca nella seconda metà del Trecento, e ci offre uno spaccato interessantissimo di vita “reale” dell’autore arpinate in quanto le lettere, che qui compaiono, circa 900, non sono state destinate alla pubblicazione e ci offrono un ritratto “vivo”, “diretto”, non solo dei veri (non ufficiali) pensieri, ma anche dello stile in cui vennero espressi: abbonda la paratassi, il sermo familiaris, i grecismi e veri e propri “modi di dire”. Per quanto riguarda gli argomenti trattati essi sono i più vari: dalla felicità per la nascita di un figlio, a vere e proprie riflessioni politiche, a foglietti “telegrammatici” in cui esprime incredibile gioia, o lettere in cui si dispera per il dolore dell’esilio. Tutto vi è qui dentro, ad eccezione delle lettere scritte durante il consolato, di cui si lamenta la perdita.

L’Epistolario si divide in:

  • Ad familiares (parenti e amici);
  • Ad Atticum (l’amico di una vita, fino alla vecchiaia);
  • Ad Quintum fratrem (al fratello Quinto);
  • Ad Marcum Brutum (d’autenticità controversa).

PREOCCUPAZIONE PER TULLIA
(Ad familiares, 14) 

In maximis meis doloribus excruciat me valetudo Tulliae nostrae, de qua nihil est quod ad te plura scribam; tibi enim aeque magnae curae esse certo scio. Quod me proprius vultis accedere, video ita esse faciendum: etiam ante fecissem, sed me multa impediverunt, quae ne nunc quidem expedita sunt. Sed a Pomponio exspecto litteras, quas ad me quam primum perferendas cures velim. Da operam, ut valeas.

Tra i miei grandi dolori mi preoccupa la salute della nostra Tullia, sulla quale non c’è nulla che di più ti scriverò; so infatti che ti è ugualmente di grande preoccupazione. Quanto al fatto che volete incontrarmi da vicino, vedrò come si potrà fare: anche prima l’avrei fatto, ma molte cose me l’hanno impedito, le quali non sono ancora oggi state terminate. Ma attendo una lettera da Pomponio, che spero si impegni a inviarmi quanto prima. Cerca di star bene.

E’ una lettera che ci testimonia, pur nella sua brevità, il Cicerone uomo, preoccupatissimo per le sorti dell’amata figlia Tullia. Non troviamo qui, infatti l’uomo politico, ma il padre, lontano da casa, che mostra l’intero suo affetto per la moglie e la figlia.

LO SCHIAVO MALATO
(Ad familiares, 19)

Andricus postridie ad me venit, quam exspectaram; itaque habui noctem plenam timoris ac miseriae. Tuis litteris nihilo sum factus certior, quomodo te haberes, sed tamen sum recreatus. Ego omni delectatione litterisque omnibus careo, quas antequam te videro, attingere non possum. Medico mercedis quantum poscet promitti iubeto: id scripsi ad Ummium. Audio te animo angi et medicum dicere ex eo te laborare: si me diligis, excita ex somno tuas litteras humanitatemque, propter quam mihi es carissimus; nunc opus est te animo valere, ut corpore possis: id cum tua, tum mea causa facias, a te peto. Acastum retine, quo commodius tibi ministretur. Conserva te mihi: dies promissorum adest, quem etiam repraesentabo, si adveneris.

Andrico è giunto il giorno dopo rispetto a quando l’aspettavo; pertanto ho trascorso una notte piena di timore e di angoscia. Dalle tue lettere non sono affatto rassicurato sulla tua salute, ma sollevato sì. Per parte mia sono privo di ogni piacere che mi viene dagli studi letterari a cui non sono in grado di dedicarmi prima di averti visto. Fa’ promettere al medico quanto onorario chieda. L’ho scritto a Ummio. Sento dire che ti tormenti nell’animo e che il medico dice che questa è la causa del tuo malanno. Se mi vuoi bene, scuoti dal torpore la tua cultura letteraria e la tua sensibilità, perché mi sei molto caro. Ora è necessario che tu stia bene nell’animo per poterlo essere anche nel corpo. Ti chiedo di farlo sia per te che per me. Trattieni Acasto, per essere meglio servito. Riguardati per me. Il giorno della promessa è vicino, che anzi anticiperò se verrai. Ancora una volta (tanti saluti) (e) stammi bene. 2 aprile, verso mezzogiorno.

Come la prima lettera anche questa vuol offrire l’esempio di Cicerone uomo, preocupatissimo per le sorti dei suoi familiari malati, fossero pure schiavi, come Tirone.

Ma non possiamo affatto dimenticarci un Cicerone più “cattivo”, beffardo quasi, rivolgendosi, in modo epigrammatico, ad un cesaricida: 

LA MORTE DI CESARE
(Ad familiares, 14,19)

Tibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua tueor; a te amari et, quid agas quidque agatur, certior fieri volo.

Mi congratulo con te e mi rallegro: ti voglio bene, vigilo con attenzione su tutte le tue cose; voglio esser voluto bene da te ed essere informato su ciò che fai e quello che accade.

GAIO SALLUSTIO CRISPO

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Notizie biografiche

Del primo storico di cui possediamo gran parte dell’opera, sappiamo poche cose certe di cui la prima è il luogo e la data di nascita: in Sabina ad Amiternum nell’86. Se dovessimo anche dare per certa la data di morte, 35 a.C., potremmo dire che la vita di Sallustio si situi completamente all’interno delle guerre civili.

Nasce quando infuria la guerra tra Silla e Mario in una famiglia, pur di origine plebea, molto ricca ma che mai aveva offerto un magistrato alla città di Roma. Decide, pertanto, d’inviare il giovane a Roma al fine di approfondire gli studi ed avviarsi alla corriera politica. Il momento in cui Sallustio s’affaccia a quelli che i romani chiamano negotia, e che lo porteranno a insidiarsi in Senato con la carica di pretore, Roma era travagliata dagli scontri tra le fazioni di Clodio e Milone, e quindi tra i cesariani ed i pompeiani. Era tribuno della plebe quando il primo venne ucciso e Sallustio prese parte anche con veemenza alle accuse contro Milone e contro chi lo difendeva, Cicerone. Tale scelta non fu senza conseguenze: terminata l’immunità che l’incarico gli permetteva, gli optimates l’accusarono d’immoralità e fu quindi espulso dal Senato (si dice con false accuse). Per poter riacquistare il suo posto non poteva che rivolgersi verso Cesare e i populares, che gli offrì incarichi militari proprio mentre s’accendeva la guerra civile. Qui, pur non senza difficoltà, portò a termine i suoi compiti e alla cessazione delle attività belliche ricevette da Cesare, vincitore su Pompeo, la provincia d’Africa. Come molti suoi “colleghi”, tornò a Roma ricchissimo, tanto da essere accusato de repetundis (ruberie) e con quel denaro d’essersi fatto costruire i famosi Horti Sallustiani, anche se oggi si crede che appartenessero non a lui, ma ai suoi discendenti in epoca augustea. Sembra si sia salvato dall’accusa proprio per mezzo di Cesare, che gli consigliò però d’allontanarsi dalla politica. E proprio in questo otium che il nostro compose le due famosissime monografie storiografiche: il De coniuratione Catilinae e il Bellum Iugurthinum. Sembra che dopo l’esperienza di tale opere abbracciasse anche l’idea di un’opera di più largo respiro, le Historiae, ma la morte lo colse all’improvviso lasciandole interrotte al V libro.

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La monografia 

Sallustio ci offre in entrambe le monografie una lunga introduzione in cui “giustifica” la scelta storiografica come sostitutiva di quella politica, perché le eccessive turbolenze politiche minavano la possibilità di adoperarsi in modo costruttivo per lo Stato. Ma proprio lo storico, in quanto esaminatore di una realtà sia pur passata, può individuare in momenti particolari i nodi che possono chiarire il disordine presente: nel De coniuratione Catilinae l’ambizione personale, il prevalere della brama di ricchezze del Senato e il disfacimento morale; nel Bellum Iugurthinum, periodo precedente a quello di Catilina, come tali sintomi erano stati già presenti nella società e avevano a loro volta costituito il germe della lotta tra Mario e Silla che a loro volta diedero inizio alle guerre civili. Da quanto detto risulta abbastanza chiaro come la storiografia venga intesa da Sallustio come un proseguimento dell’attività politica.

De coniuratione Catilinae

Passati vent’anni, Sallustio decide di rievocare una delle pagine più tragiche della storia romana. L’opera inizia con un lungo proemio in cui, dopo aver filosoficamente sostenuto la superiorità dell’ingegno rispetto al corpo sottolinea come sia degno di gloria giovare allo Stato, sia operando che scrivendo. Quindi descrive la sua delusione della vita politica e il suo allontanamento e il bisogno pertanto di scrivere:

L’ABBANDONO DELLA POLITICA E LA SCRITTURA DELLA STORIA
(4)

Igitur, ubi animus ex multis miseriis atque periculis requievit et mihi reliquam aetatem a re publica procul habendam decrevi, non fuit consilium socordia atque desidia bonum otium conterere, neque vero agrum colundo aut venando, servilibus officiis, intentum aetatem agere: sed a quo incepto studioque me ambitio mala detinuerat eodem regressus, statui res gestas populi Romani carptim, ut quaeque memoria digna videbantur, perscribere; eo magis quod mihi a spe, metu, partibus rei publicae animus liber erat, igitur de Catilinae coniuratione quam verissume potero paucis absolvam: nam id facinus in primis ego memorabile existumo sceleris atque periculi novitate.

Quindi, quando l’animo poté riaversi dopo molte traversie e rischi e decisi di mantenermi per il resto della vita lontano dallo stato, non mi proposi di sprecare il mio prezioso tempo libero nell’apatia e nella pigrizia, e neppure di condurre avanti la mia esistenza cacciando o coltivando i campi, lavori da schiavi; ma stabilii, ritornando allo stesso disegno ed inclinazione, dalla quale la funesta ambizione mi aveva distolto, di narrare a episodi le gesta del popolo romano, secondo che ciascun avvenimento mi sembrava degno di essere ricordato; tanto più che il mio animo era libero dall’attesa, dalla paura, dalla faziosità politica. Quindi tratterò brevemente con la maggior veridicità possibile riguardo alla congiura di Catilina; infatti quell’impresa nefasta sulle prime io stimo memorabile per l’eccezionalità della scelleratezza e del pericolo.

Si coglie bene in questo testo il passaggio sallustiano dal facere allo scribere, legando i due processi ad una stessa volontà: operare per la rei publicae; ma lo storico non si ferma solo a questa constatazione; infatti aggiunge subito dopo che lui, in quanto libero a spe, metu, partibus rei publicae , cioè da qualsiasi influenza, poteva garantire il massimo dell’imparzialità. Il fatto poi che egli stimi la congiura di Catilina come atto di massima importanza, è perché vede in esso le turbolenze stesse che hanno portato all’uccisione di Cesare.

Dopo la giustificazione sulla sua scelta storiografica, Sallustio ci presenta il protagonista della vicenda:

RITRATTO DI CATILINA
(5)

Lucius Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque. Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuere, ibique iuventutem suam exercuit. Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae, supra quam cuiquam credibile est. Animus audax, subdolus, varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator; alieni adpetens, sui profusus; ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. Vastus animus immoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat. Hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae, neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat. Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et coscientia scelerum, quae utraque is artibus auxerat quas supra memoravi. Incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.

Lucio Catilina di nobile stirpe, fu d’ingegno vivace e di corpo vigoroso, ma d’animo perverso e depravato. Sin da giovane era portato ai disordini, alle violenze, alle rapine, alla discordia civile; in tali esercizi trascorse i suoi giovani anni. Aveva un fisico incredibilmente resistente ai digiuni, al freddo, alle veglie, uno spirito incredulo, subdolo, incostante, abile a simulare e a dissimulare. Avido dell’altrui, prodigo del suo; ardente nelle passioni; non privo d’eloquenza, ma di poco giudizio; un animo sfrenato, sempre teso a cose smisurate, incredibili, estreme. Finito il dispotismo di Silla, fu preso dalla smania d’impadronirsi del potere; pur di raggiungerlo, non aveva scrupoli; quell’animo impavido era turbato ogni giorno di più dalla penuria di denaro e da cattiva coscienza, rese più gravi dalle male abitudini cui ho accennato. Lo spingeva inoltre su quella china la corruzione della città, nella quale imperavano due vizi diversi ma parimente funesti, lusso e cupidigia.

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Joseph Marie Vien: La congiura di Catilina

E’ un passo famosissimo nel quale la figura di Catilina si erge nella sua contradditorietà: si guardi la prima espressione nella quale è disegnato come uno con magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque, dove appunto alla forza del corpo e della mente si contrappone, con la particella avversativa, un ingegno malvagio e depravato. E ancora Catilina risulta essere avido delle cose altrui, ma generoso verso gli altri, eloquente, ma poco giudizioso: l’arte della contrapposizione infatti sembra scavare nel personaggio e a far sì che un uomo così non poteva non arrivare che alla sedizione. Ma un uomo è così, sembra dirci Sallustio, perché così è l’ambiente in cui egli è vissuto e si è formato.

Proprio l’ambiente lo spinge a richiamare le antiche virtù, virtù che si sono perse dopo la guerra con Cartagine:

ORIGINI DELLA DECADENZA DELLA REPUBBLICA
(10)

Sed ubi labore atque iustitia res pubblica crevit, reges magni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Chartago aemula imperi Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. Qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. Igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere. Namque avaritia fidem probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. Ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aextumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere. Haec primo paulatim crescere, interdum vindicari; post ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum.

Ma quando la repubblica si fu ingrandita col lavoro e la giustizia, quando i grandi re furono domati con la guerra, quando le nazioni selvagge e tutti i popoli furono sottomessi con la forza, quando Cartagine rivale dell’Impero Romano fu distrutta alla radice e quando ormai erano aperti tutti i mari e le terre, la sorte cominciò a infuriare e a mettere sottosopra tutte le cose. Coloro i quali avevano tollerato facilmente lavori pesanti, pericoli, situazioni aspre e dubbie, proprio a loro in altri momenti l’ozio e le ricchezze furono di peso e di rovina. Dunque per prima cosa crebbe il desiderio di ricchezze e quindi quello del potere; queste cose per così dire furono l’origine di tutti i mali. Ed infatti l’avidità sovvertì la fiducia, l’onestà e tutte le altre qualità del comportamento; al posto di queste si insegnò la superbia, la crudeltà, a rinnegare gli dei e ad avere tutto come oggetto di prezzo. L’ambizione spinse molti mortali a diventare disonesti, ad avere una cosa chiusa nel cuore ed un’altra manifesta sulla lingua, a stimare amicizie ed inimicizie non dai fatti ma dai vantaggi e a reputare migliore l’aspetto esteriore dell’intelligenza. Queste cose sulle prime incominciarono a crescere a poco a poco e talora ad essere vendicate; ma dopo, quando la contaminazione si estese quasi come una pestilenza, la città mutò e l’impero da giustissimo e ottimo divenne crudele ed intollerante.

E’ in questo passo adombrata quella teoria, che verrà pienamente ripresa poi nel Bellum Iugurthinum del metus hostilis (paura dello straniero). Fintanto che il popolo poteva trovare unità in un nemico comune, alla cessazione di esso primo pecuniae deinde imperi cupido crevit, dapprima crebbe il desiderio del denaro, quindi del potere e in questo binomio perverso l’ambizione personale e quindi la tirannia di Silla con esiti spaventosi.

Si guarda quindi ai compagni di Catilina, molti giovani e persone insoddisfatte, scialacquatori, nobili decaduti. Con essi il nostro farà una riunione preparatoria. Quindi ci viene presentato, attraverso un excursus, un primo tentativo di colpo di Stato di Catilina e il suo fallimento. Si torna all’attualità con un drammatico discorso di Catilina ai suoi compagni, in cui si descrivono le condizioni miserevoli dei ceti impoveriti:

DAL DISCORSO DI CATILINA
( dal 20)

Nam postquam res publica in paucorum potentium ius atque dicionem concessit, semper illis reges tetrarchae vectigales esse, populi nationes stipendia pendere; ceteri omnes, strenui boni, nobiles atque ignobiles, volgus fuimus sine gratia, sine auctoritate, iis obnoxii, quibus, si res publica valeret, formidini essemus. Itaque omnis gratia potentia honos divitiae apud illos sunt aut ubi illi volunt; nobis reliquere pericula repulsas iudicia egestatem. Quae quo usque tandem patiemini, o fortissumi viri? Nonne emori per virtutem praestat quam vitam miseram atque inhonestam, ubi alienae superbiae ludibrio fueris, per dedecus amittere?

Infatti, dopo che la Repubblica è caduta nel pieno potere di pochi potenti, è a loro che re e tetrarchi pagano i loro tributi, popoli e nazioni pagano l’imposta; tutti noialtri, valorosi, prodi, nobili e non nobili, siamo stati volgo, senza credito, senza autorità, asservito a padroni ai quali, se lo Stato valesse, avremmo incusso paura. Così tutto il credito, la potenza, l’onore, le ricchezze, sono presso di loro o dove essi desiderano; a noi hanno lasciato le ripulse, i pericoli, i processi, gli stenti. Fino a che punto, o valorosi, sopporterete ciò? Non è preferibile morire coraggiosamente, piuttosto che perdere una vita misera e senza onore, dopo essere stati ludibrio dell’altrui potenza?

E’ chiaro che qui si tratta di un piccolo estratto di un bel più ampio discorso di Catilina rivolto ai suoi seguaci: attenzione, non di un vero e proprio discorso del rivoluzionario, ma oratio huiusce modi (un discorso di questo tenore). Tuttavia che il discorso di Catilina adombri anche l’ideologia di Sallustio è fuor di dubbio: quando lo storico parla di una concentrazione in poche mani delle ricchezze e di quell’ambizione che ha ucciso il mos maiorum, portando all’individualismo. In altre parti del discorso, infatti, viene toccato anche il tema dei debiti: anche Cesare tentò, in modo estremamente moderato di risolverlo (Catilina voleva, invece, scrivere tabulae novae, ripartire da zero nei registri). Ma non fu ascoltato e si ebbe paura del suo piccolo passo. La responsabilità del disordine è proprio nelle mani paucorum potentium.

L’opera prosegue con la delazione di Fulvia, amante di un congiurato. Gli aristocratici, tramite Cicerone, riescono a sconfiggerlo e a farlo fuggire. Catilina cerca di radunare a sé più uomini possibili ed anche donne nobili, come Sempronia:

SEMPRONIA
(25)

Sed in iis erat Sempronia, quae multa saepe virilis audaciae facinora commiserat. Haec mulier genere atque forma, praeterea viro atque liberis satis fortunata fuit; litteris Graecis et Latinis docta, psallere, saltare elegantius quam necesse est probae, multa alia, quae instrumenta luxuriae sunt. Sed ei cariora semper omnia quam decus atque pudicitia fuit; pecuniae an famae minus parceret, haud facile discerneres; lubido sic accensa, ut saepius peteret viros quam peteretur. Sed ea saepe antehac fidem prodiderat, creditum abiuraverat, caedis conscia fuerat; luxuria atque inopia praeceps abierat. Verum ingenium eius haud absurdum; posse versus facere, iocum movere, sermone uti vel modesto vel molli vel procaci; prorsus multae facetiae multusque lepos inerat.

Faceva parte del gruppo Sempronia, una donna: ma aveva compiuto più volte azioni temerarie più di un uomo. La fortuna le aveva dato tutto: la nascita, la bellezza, il marito, i figli; era istruita in letteratura greca e latina, cantava e suonava con grazia, più che non sia necessario a una donna onesta; e sapeva fare molte altre cose che sono incentivi alla lussuria. Il pudore, la dignità erano l’ultima cosa per lei; non avresti potuto dire a che cosa tenesse di meno, se al denaro o al buon nome; lussuriosa tanto da sollecitare gli uomini prima d’esser richiesta; di regola mancava di parola, non pagava i debiti e le era accaduto persino di esser complice di delitti; la depravazione, il bisogno, l’avevano fatta scendere sempre più in basso. Eppure non mancava d’intelligenza, componeva versi e battute di spirito, sapeva esprimersi con modestia, con garbo o con sfrontatezza; possedeva, infine, una buona dose d’umorismo.

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Il busto di una Sempronia romana

Che Sempronia non sia un personaggio di spicco nella congiura ce lo dice il fatto che nessun’altra fonte la nomini; che attraverso lei Sallustio mostri il grado d’indipendenza delle donne romane e la loro versatilità culturale viene rivelato da come lo storico inquadri il vizio in mezzo alle virtù; che Sempronia, come la Clodia catulliana, presentataci in modo negativo da Cicerone, appartenga alla femme fatale della Roma tardo repubblicana ce lo afferma quel po’ di “livore” con cui lo storico sottolinea le sue azioni “temerarie più di un uomo”. Ma ad emergere è sempre l’arte del ritratto, che, come quello di Catilina, è giocato sulle contrapposizioni e fanno di questa figura femminile un personaggio estremamente vivo.

L’opera prosegue con la prima accusa pubblica di Cicerone e la fuga di Catilina, che lascia in città i suoi luogotenenti, mentre si finge, attraverso una lettera, innocente e in volontario esilio a Marsiglia. Ma in realtà si dirige in Etruria, dove lo aspettano altri congiurati. Quindi Sallustio apre una parentesi sulla ricerca del favore popolare che l’azione rivoluzionaria stava mietendo e riprende la narrazione con il tentativo d’accordo fra i congiurati e i Galli. Questi ultimi, tuttavia, rivelano tutto a Cicerone, che fa arrestare i maggiori catilinari rimasti in città. Si procede al processo: si propone la pena di morte: Cesare dichiara di essere contrario e invita ad attenersi alla più stretta legalità, ricordando le persecuzioni sillane; Catone propone invece l’uccisione per la pericolosità che essi presentano per la sopravvivenza della repubblica:

CESARE E CATONE
(dal 54)

Igitur iis genus aetas eloquentia prope aequalia fuere, magnitudo animi par, item gloria, sed alia alii. Caesar beneficiis ac munificentia magnus habebatur, integritate vitae Cato. Ille mansuetudine et misericordia clarus factus, huic severitas dignitatem addiderat. Caesar dando sublevando ignoscundo, Cato nihil largiundo gloriam adeptus est. In altero miseris perfugium erat, in altero malis pernicies. Illius facilitas, huius constantia laudabatur.

Dunque essi furono quasi uguali per nascita, per età, per eloquenza; pari la grandezza d’animo, e anche la gloria, ma di qualità differente. Cesare era stimato grande per liberalità e magnificenza, Catone per integrità di vita. Il primo si era fatto illustre con l’umanità e l’inclinazione alla pietà, al secondo aveva aggiunto dignità il rigore. Cesare aveva acquistato gloria con il denaro, con il soccorrere, con il perdonare, Catone con il nulla concedere. L’uno era il rifugio degli sventurati, l’altro la rovina dei malvagi. Del primo era lodata l’indulgenza, del secondo la fermezza.

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Catone l’Uticense

Ci troviamo ancora nell’arte del ritratto, questa volta doppio, dove questo è naturalmente derivato dalla presenza di ben due personaggi: ma se il primo è connotato da sostantivi che rimandano all’estrinsecazione di sé, l’altro ci viene presentato con un vocabolario attento a sottolinearne la chiusura, che non vuol dire negazione, ma pudore. Sallustio ancora una volta si mostra gran maestro nel saper elaborare ritratti con una perfetta rispondenza stilistica.

L’opera volge alla fine: i congiurati vengono strangolati, mentre Catilina dispone il suo esercito presso Pistoia. Ha inizio lo scontro, con la vittoria dell’esercito romano: Ma i congiurati e Catilina stesso riscattano la loro vita con una morte eroica.

LA MORTE DI CATILINA
(dal 60)

Interea Catilina cum expeditis in prima acie vorsari, laborantibus succurrere, integros pro sauciis arcessere, omnia providere, multum ipse pugnare, saepe hostem ferire: strenui militis et boni imperatoris officia simul ex equebatur. Petreius ubi videt Catilinam, contra ac ratus erat, magna vi tendere, cohortem praetoriam in medios hostis inducit eosque perturbatos atque alios alibi resistentis interficit. Deinde utrimque ex lateribus ceteros adgreditur. Manlius et Faesulanus in primis pugnantes cadunt. Catilina postquam fusas copias seque cum paucis relictum videt, memor generis atque pristinae suae dignitatis in confertissumos hostis incurrit ibique pugnans confoditur.

Catilina nel frattempo, con la truppa leggera, imperversa in prima linea, soccorre quelli in difficoltà, rimpiazza i feriti con truppe fresche, provvede a tutto, si batte egli stesso con vigore, spesso colpisce il nemico; eseguiva insieme il dovere di un soldato coraggioso e di un buon condottiero. Petreio, quando vede che Catilina, contrariamente a quel che aveva creduto, combatteva con grande energia, lancia la coorte pretoria contro il centro dei nemici, e massacra quelli che riesce a scompigliare e che cercavano di resistere altrove; poi attacca gli altri da entrambi le parti. Manlio e il Fiesolano cadono tra i primi combattendo. Catilina, quando vide le sue truppe in rotta e se stesso rimasto con pochi uomini, memore della sua stirpe e della passata dignità, si getta dove i nemici erano più folti e ivi lottando è trafitto.

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Alcide Segoni: Il ritrovamento del corpo di Catilina

La fine della lettura dell’opera ci permette di cogliere alcuni aspetti fondamentali, sia ideologici che stilistici:

  • per il primo ci sembra corretto dire che, benché venga sottolineata l’ingiustizia “politica” della scelta catilinaria, ciò non può essere isolata dal contesto altrettanto ingiusto di una classe politica chiusa in se stessa a difesa dei suoi privilegi. Sallustio, è qui sta il suo esser stato cesariano, si mostra un “moderato riformista”;
  • la ripresa, anch’essa ideologica, della tradizione del mos maiorum che l’avidità aristocratica e la demagogia cui si rivolgeva al popolo aveva ucciso; ciò vuol dire riprendere lo stile di chi si era fatto di questa tradizione paladino, Catone il Censore. Per questo l’opera cerca d’imitarne lo stile, riprendendone vocaboli che, al tempo di Sallustio, erano ormai considerati arcaici (arcaismo).

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Youcef Koudil: Giugurta, combattente per la libertà

Bellum Iugurthinum

La seconda monografia di Sallustio ci presenta un passato storico meno recente rispetto alla congiura di Catilina. Sembra quasi che l’autore, una volta comprese le ragioni di una conflittualità sociale il cui atto sedizioso del nobile romano era stato il frutto, volesse maggiormente scavare nell’incipit di questa conflittualità tra gli Ottimati e i Popolari, e tale inizio non poteva che essere visto all’origine della lotta tra Mario e Silla. Infatti la guerra numidica permette al nostro di mettere a nudo la crisi morale e il decadimento della classe nobiliare romana.

Anche quest’opera inizia con un introduzione in cui Sallustio analizza la grandezza e l’atrocità della guerra, ma anche come essa sia diventata cruciale per le lotte sociali dell’ultimo secolo della repubblica romana. All’introduzione segue il ritratto di Giugurta:

RITRATTO DI GIUGURTA
(6)

Qui ubi primum adolevit, pollens viribus, decora facie, sed multo maxime ingenio validus, non se luxu neque inertiae corrumpendum dedit, sed, uti mos gentis illius est, equitare, iaculari; cursu cum aequalibus certare et, cum omnis gloria anteiret, omnibus tamen carus esse; ad hoc pleraque tempora in venando agere, leonem atque alias feras primus aut in primis ferire: plurimum facere, minimum ipse de se loqui. Quibus rebus Micipsa tametsi initio laetus fuerat, existimans virtutem Iugurthae regno suo gloriae fore, tamen, postquam hominem adulescentem exacta sua aetate et parvis liberis magis magisque crescere intellegit, vehementer eo negotio permotus multa cum animo suo volvebat. Terrebat eum natura mortalium avida imperi et praeceps ad explendam animi cupidinem, praeterea opportunitas suae liberorumque aetatis, quae etiam mediocris viros spe praedae transversos agit, ad hoc studia Numidarum in Iugurtham accensa, ex quibus, si talem virum dolis interfecisset, ne qua seditio aut bellum oriretur, anxius erat.

Costui, divenuto un giovane prestante e di bell’aspetto, ma soprattutto ragguardevole per intelligenza, non si lasciò corrompere dai piaceri e dall’ozio, ma, secondo gli usi della sua gente, cavalcava, lanciava il giavellotto, gareggiava con i coetanei nella corsa: e, benché eccellesse su tutti, a tutti, nondimeno, era caro. Dedicava, inoltre, la maggior parte del suo tempo alla caccia, era il primo o fra i primi a colpire il leone e simili fiere: quanto più agiva, tanto meno parlava di sé. Dapprima Micipsa era stato lieto di tutto questo, pensando che dal valore di Giugurta sarebbe venuta gloria al suo regno; tuttavia, vedendo il prestigio di quel giovane aumentare sempre più, mentre lui era già anziano e i suoi figli ancora piccoli, cominciò a preoccuparsi gravemente di tale fatto, rivolgendo in sé mille pensieri. Lo atterriva la natura umana, avida di potere e pronta a soddisfare le proprie passioni, e inoltre l’opportunità della sua età e di quella dei suoi figli, adatta a traviare, con la speranza di un facile successo, anche gli uomini meno ambiziosi; lo atterriva, infine, il forte affetto dei Numidi per Giugurta, che gli faceva temere l’insorgere di una rivolta o di una guerra civile, se avesse ucciso con l’inganno un tale uomo.

Sallustio con il ritratto di Giugurta ci presenta un altro grande personaggio, anch’esso votato, come il suo predecessore Catilina, al male. Tuttavia è forte la differenza tra lui e il romano: quest’ultimo infatti veniva costruito attraverso una opposizione che ne rivelava la duplicità; in Giugurta invece l’autore ne mette in luce l’evoluzione. Infatti il giovane è escluso dalla successione perché figlio di una concubina; ma gli atti, che egli svolge in modo così naturale, ne fanno già un capo: la forza e la riservatezza. Sarà facile per i romani, per cui omnia venalia esse, corromperlo.

Quindi il racconto prosegue con la morte di Iempsale e la fuga di Aderbale, figli di Micipsa con cui Giugurta avrebbe dovuto condividere il regno. Il legittimo erede si rivolge ai Romani per chiedere giustizia, che rispondono con una soluzione compromissoria: la divisione in due del regno. Ma Giugurta vuole l’intero potere e cerca di conquistarselo con il denaro; corrompe alcuni nobili, assedia Aderbale nella suo parte di territorio e uccide alcuni cittadini italici che lì si trovavano e ne avevano preso le difese. Il Senato, temendo la reazione popolare, manda dapprima Lucio Calpurnio Bestia, che si lascia tuttavia corrompere. Ciò provoca ancora una forte indignazione presso il popolo romano: viene quindi convocato Giugurta a dare ragione del suo comportamento, ma ancora comprandosi alcuni nobili, riesce a non essere accusato e uccide anche un Numida presente al processo, nipote di Massinissa e quindi pretendente il trono. Viene mandato un altro console in Africa, ma questi preferisce farsi sostituire dal fratello. All’inconcludenza della classe nobiliare, alla fine si risponde con un atto che dovrebbe risolvere la situazione. Viene mandato adesso un uomo integerrimo, tale Metello. Al suo fianco un provinciale Mario, che aspira al consolato.

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Busto di Gaio Mario

MARIO
(63, 2)

At illum iam antea consulatus ingens cupido exagitabat, ad quem capiendum praeter vetustatem familiae alia omnia abunde erant: industria, probitas, militiae magna scientia, animus belli ingens domi modicus, libidinis et divitiarum victor, tantummodo gloriae avidus. 

Da tempo un’ambizione divorava Mario, quella di diventare console. Possedeva largamente tutte le doti necessarie all’infuori di una, l’antico lignaggio; aveva solerzia, rettitudine, grande preparazione militare, spirito indomito in guerra, moderato in pace; dominava le tentazioni dei sensi e della ricchezza, ed era avido di una sola cosa: la gloria.

In questo brevissimo frammento cogliamo un fatto di per sé significativo, di cui ci dicono il sostantivo cupido (ambizione, ma anche bramosia) e l’aggettivo avidus (avido, desideroso ma anche bramoso), ambedue riferiti a Mario. Qui Sallustio dimostra come anche lo sfrenato desiderio del potere politico e, collegato ad esso la gloria, può veramente dare due esiti: o quello catilinario (ambitio sine lege) o quello di Mario, che tuttavia non sarà risparmiato dalla sconfitta.

L’opera continua con Mario che vorrebbe rientrare a Roma per la sua candidatura, ma ciò provoca un forte deterioramento tra Metello e Mario stesso. Giugurta risponde alleandosi con un altro re africano, Bocco. Intanto il senato affida l’intero compito della guerra a Mario. Le vittorie di quest’ultimo spingono il re della Mauritania Bocco a staccarsi da Giugurta. Intanto arrivano i rinforzi da Roma, guidati da Silla.

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Ritratto di Lucio Silla

SILLA
(95, 3-4)

Igitur Sulla gentis patriciae nobilis fuit, familia prope iam extincta maiorum ignavia, litteris Graecis atque Latinis iuxta atque doctissimi eruditus, animo ingenti, cupidus voluptatum, sed gloriae cupidior; otio luxurioso esse, tamen ab negotiis numquam voluptas remorata, nisi quod de uxore potuit honestius consuli; facundus, callidus et amicitia facilis, ad simulanda negotia altitudo ingeni incredibilis, multarum rerum ac maxime pecuniae largitor. Atque felicissumo omnium ante civilem victoriam numquam super industriam fortuna fuit, multique dubitavere, fortior an felicior esset. Nam postea quae fecerit, incertum habeo pudeat an pigeat magis disserere.

Silla apparteneva a nobile stipe patrizia, d’un ramo però quasi estinto per la mediocrità dei suoi. Di letteratura greca e latina ne sapeva quanto un erudito; era un uomo ambiziosissimo, avido di piacere ma ancor più di gloria; dedicava il tempo libero alla lussuria, ma pure la voluttà non gli fece mai trascurare i suoi impegni: soltanto il suo comportamento verso la moglie avrebbe potuto essere più onesto. Eloquente, astuto, amabile, d’una capacità di simulazione incredibile addirittura, era prodigo di molte cose, ma soprattutto di denaro. Pure essendo stato il più fortunato di tutti, prima delle sue vittorie nelle guerre civili, non è che abbia avuto maggior fortuna di quanta ne abbia meritata: si sono chiesti in molti s’egli fosse più forte o più favorito dalla sorte: quanto alle azioni che compì poi, non so se a parlarne si provi più vergogna o disgusto.

Ancora un ritratto significativo, dove sempre troviamo le solite parole chiave, come cupidus, desideroso. Tuttavia, in un’opera in cui a essere colpevolizzati, più che Giugurta, sono i nobili romani, veri responsabili, egoisticamente chiusi nel loro privilegio, un uomo che da lì discendeva non poteva, anche da Sallustio, essere giustificato. Infatti ricomincia qui una certa ambiguità descrittiva: Silla è doctissimus, prodigus, ma anche luxuriosissimus e non honestus de uxorem, cioè difetti che minano in profondità il mos maiorum da cui è cominciata la decadenza della repubblica.

L’opera si conclude con Giugurta che, accordatosi segretamente con Bocco, attacca all’improvviso, ma viene respinto. Sarà l’atteggiamento assolutamente opportunistico dell’alleato di Giugurta a consegnare, infine quest’ultimo, ai Romani.

Quest’opera, rispetto alla precedente si presenta in modo più complesso, proprio perché se, pur con differenze anche notevoli, equanime poteva essere il giudizio negativo su Catilina, diverso è il discorso quando tale giudizio riguarda una parte della società romana: se infatti non ha torto nel criticare la nobiltà corrotta, ha altrettanto torto nel non nominare mai quella parte di nobiltà che corrotta non era, e lo stesso dicasi del popolari. Per meglio dire il suo giudizio politico, pur essendo l’episodio databile una cinquantina d’anni successivo, ancora risente del ribollente clima politico all’indomani dell’uccisione di Cesare.

Historiae

L’ultima grande opera di Sallustio avrebbe dovuto essere, appunto, un libro ben più ampio dei precedenti, in cui l’autore si sarebbe proposto di analizzare con più vasto respiro le cause della sua contemporaneità. La morte ne impedì il completamento, ma di essa ci rimangono alcuni stralci, fra i quali alcuni discorsi diretti. Ciò che è pervenuto ci offre una visione piuttosto cupa, in cui ci rendiamo conto come l’intero discorso sallustiano si basi proprio su una concezione pessimistica dell’uomo, le cui pulsioni, siano esse alte o basse, hanno sempre il predominio sulla ragione. Ma saranno proprio esse a fare, nel bene o nel male, la storia, secondo una concezione sempre eroica.

 

GAIO GIULIO CESARE

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Cesare è l’uomo che più di tutti ha fatto discutere: grande politico che ha, nel bene e nel male, segnato la sorte “occidentale” della nostra storia oppure colui che, per il potere personale, ha ucciso non solo la libertà, ma milioni e milioni di cittadini germanici che gli si opponevano? Difficile rispondere, ma semplice è dire che la storia ha allontanato l’uomo delle nostre passioni ideologiche e politiche. Ma una cosa, questa nostra storia, non è riuscita a cancellare: la sua enorme e straordinaria capacità scrittoria che, con i suoi Commentarii, ha fatto nascere la storiografia a Roma.

 Notizie biografiche

Cesare nasce nel 100 a. C. a Roma nel Lazio da una, seppur non ricchissima, nobilissima famiglia: il padre faceva derivare il nome della gens Iulia addirittura da Venere ed Enea; la madre, Aurelia, era una donna ricordata per l’estrema virtù e per la parentela con Mario. Giovanissimo, dopo aver ripudiato la donna promessagli, sposò la figlia di Cinna, un esponente del partito mariano: ciò non fu ben visto da Silla, che gli voleva imporre il divorzio; ciò lo costrinse quindi ad allontanarsi dalla città. Si recò come militare in Asia e vi rimase fino a quando Silla morì (78 a.C.).  Rientrato a Roma e dedicatosi all’attività forense, accusò due ex sillani di concussione, mostrando sin da subito le sue simpatie per il partito popolare. Nel 77 a.C. si recò a Rodi, dove perfezionò la sua eloquenza e quando tornò a Roma, riprese sin da subito la sua attività forense. Nel 68 a.C. divenne questore e riabilitò la figura di Mario, nel 65 divenne edile e, per conquistarsi simpatie dal popolo, pur riempiendosi di debiti, cominciò a fare elargizioni e a organizzare giochi. Nel 63, come Pontefice Massimo, si oppose alla morte, senza regolare processo, dei catilinari. Divenuto ricco grazie all’incarico di propretore in Spagna, Cesare pensò bene di poter entrare in politica. Visto e considerato che Pompeo, altro grande protagonista politico, ma allineato sulla linea degli optimates, non riusciva a farsi ratificare il progetto di dare terre ai suoi veterani, egli si mise d’accordo con lui e con Crasso e diede vita al primo triumvirato. Diventato grazie ad esso console, si fece nominare proconsole per la Gallia, dove dal 58 al 52 compì una sanguinosa e vittoriosa guerra contro i Germani di cui ci lasciò egli stesso testimonianza nel De bello Gallico. La morte di Crasso e i successi di Cesare, insospettirono Pompeo, che, nel 51 si fece nominare console sine collega nel periodo in cui Roma viveva una vera propria anarchia. Cesare tentò di opporglisi chiedendo la nomina consolare per l’anno successivo, ma non solo gli fu negata, in quanto era ancora fuori città, ma fu dal Senato dichiarato nemico pubblico. E’ a quel punto che Cesare varcò il Rubicone dando vita, così alla guerra civile. Riuscì con la sua abilità militare a scompaginare i piani pompeiani (che credeva di poter conservare l’appoggio spagnolo che venne invece annientato proprio da Cesare) e a inseguire il generale romano fino a Farsalo, dove lo batté. Pompeo rifugiatosi in Egitto venne ucciso da Tolomeo, ma non venne ringraziato per questo da Cesare. Anche di questa guerra egli volle darci testimonianza, con il suo De bello civili. Tornato in città come trionfatore, il generale romano si trovò di fronte ad una situazione lacerata da una serie di guerre civili e tentò una politica, sia pur conciliatrice, “assoluta”, in cui egli, appunto, assumeva su di sé le responsabilità di governo. Accusato per questo dall’aristocrazia, che lo vedeva come l’instauratore di una monarchia orientaleggiante, Cesare fu ucciso da una congiura senatoria, capeggiata da Bruto e Cassio nel 44 a.C.

Le opere minori 

Forse non è corretto definire “minori” opere che ci sono pervenute fortemente lacunose, o di cui nulla abbiamo. E’ una terminologia “di comodo” con la quale s’intende riferirsi ad opere che, pur importanti, non hanno avuto la fortuna di poter essere oggi lette. Esse sono:

  • Orazioni: sappiamo che Cesare compose 14 orazioni, fra cui alcune laudationes funebres e fu un oratore di successo, tanto da essere ricordato, come scrittore elegante e raffinato, fino alla tarda antichità;
  • De analògia: in due libri, d’argomento retorico-grammaticale, in cui Cesare si fa propugnatore di una prosa lineare, senza ricercare termini desueti ma quelli, per analogia, appunto, vicini alle forme regolari;
  • Anticato: di carattere politico in cui rispondeva ad un opera con cui Cicerone esaltava la figura di Catone l’Uticense (Cato). Pur riservando una certa asprezza verso il personaggio, Cesare invece mostra apprezzamento per la capacità stilistica dell’arpinate.
  • Un opera odeporica, il libro di viaggio Iter, in cui descriveva il percorso da Roma alla Spagna;
  • Un celebre epigramma contro lo scrittore Terenzio, definito dimitiatus Menander.

Commentarii

Di Cesare, invece, ci è giunto un corpus, detto appunto Corpus Caesarianum, in cui sono inseriti i Commentarii de bello Gallico, in sette libri, a cui se ne aggiunge un ottavo a firma di Aulo Irzio, suo luogotenente e i Commentarii de bello civili, in tre libri. A questo punto è necessario spiegare la natura del commentarius. Non è questo, infatti, un vero e proprio genere letterario: si tratta di una serie di notazioni che un uomo politico durante la sua attività o un generale durante una guerra appunta per offrire poi ad uno studioso o letterato, che le avrebbe trasformate con il fine di ornarle di tutti gli strumenti retorici che facevano parte della  scrittura storica. E’ pur vero che già precedentemente esisteva qualche forma di commentarius (si ricordi, ad esempio, quello di Silla): essi servivano soprattutto non solo ad illustrare le operazioni militari e politiche di qualche importante personaggio, ma tendevano a voler giustificare il suo operato. Infatti questo genere (che in greco prende il nome di ὑπομνήματα = hypomnémata) sta tra il puro e semplice diario e l’opera storica e circolava già a Roma in forma autonoma. Pertanto, dobbiamo arguire che lo stesso Cesare intendesse costruire testi che avessero una loro autonomia. E di questo ne siamo certi perché, seppure non scrive alcuna introduzione, elemento che fa parte, nella cultura classica, della scrittura storiografica, usa gli excursus e i discorsi diretti (tra questi quello famosissimo di Critognato) che invece, non appartenendo al commentarius fanno parte della storiografia. D’altra parte il suo stile appare a Cicerone:

GIUDIZIO SU CESARE 
(Brutus 262)

Nudi enim sunt, recti et venusti, omni ornatu orationis tamquam veste detracta. Sed dum voluit alios habere parata, unde sumerent qui vellent scribere historiam, ineptis gratum fortasse fecit, qui volent illa calamistris inurere: sanos quidem homines a scribendo deterruit; nihil est enim in historia pura et inlustri brevitate dulcius.

Sono davvero ammirevoli, schietti, semplici, ricchi di grazia, spogli d’ogni ornamento come un bel corpo senza veste. Ma mentre egli ha voluto fornire ad altri il materiale cui potessero attingere quelli che volessero scrivere di storia, ha fatto forse cosa gradita agli stolti che saranno tentati di farvi i riccioli, ma certamente ha distolto dallo scrivere gli uomini di buon gusto. Nulla infatti è più gradevole della semplice e chiara brevità.

esprimendo un giudizio che ci fa capire la consapevolezza di dar maggiore lustro ad un genere che finora non era stato considerato al pari di quello storiografico.

De bello Gallico

Il Commentarius de bello Gallico, conosciuto da tutti come il De bello Gallico è un’opera in cui Cesare racconta, anno dopo anno, la sua guerra contro le popolazioni residenti in quelle regioni. L’opera affronta infatti, in sette libri, il periodo che va dal 58 al 52 a.C. e non sappiamo se la sua stesura sia avvenuta durante gli avvenimenti o redatta, velocemente, come dice Irzio, tra il 52 e il 51. La materia, come già detto, è distribuita secondo le azioni che annualmente Cesare svolgeva, ma, affinché essa apparisse agli occhi del lettore veritiera (e in linea di massima lo è: sarebbe stato stupido da parte sua alterare i fatti, a persone che certamente li conoscevano) e obiettiva (cosa invece su cui vige qualche dubbio: infatti è nel modo in cui organizza i materiali che offre l’implicito giudizio del lettore), parla di sé sempre in terza persona. Ricordiamo che l’opera si conclude con uno VIII libro che è steso non più da Cesare, ma da Aulo Irzio.

  • I libro, anno 58: dopo aver illustrato il luogo su cui si svolge l’azione, vengono narrate le due azioni militari dell’anno: una contro gli Elvezi, che a loro volta avevano attaccato gli Edui; Cesare li sconfigge e li ricaccia nel loro territorio. L’altra contro Ariovisto, re degli Svevi, che si era insediato nei territori della Gallia. Dopo averlo battuto, Cesare si convince a svolgere una campagna preventiva in Gallia.

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I popoli della Gallia prima della conquista di Cesare

IL TERRITORIO E LE POPOLAZIONI DELLA GALLIA
(I,1)

Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam, qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt, minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea, quae ad effeminandos animos pertinent, important, promixique sunt Germanis, qui trans Rhenum incolunt, quibuscum virtute bellum gerunt. Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis cum Germanis contendunt cum aut suis finibus prohibent aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt. Eorum una pars, quam Gallos obtinere dictum est, initium capit a flumine Rhodano; continetur Garumna flumine, Oceano, finibus Belgarum; attingit etiam ab Sequanis et Helvetiis flumen Rhenum; vergit ad septentriones. Belgae ab extremis Galliae finibus oriuntur; pertinent ad inferiorem partem fluminis Rheni; spectant in septentrionem et orientem solem. Aquitania a Garumna flumine ad Pyrenaeos montes at eam partem Oceani, quae est ad Hispaniam, pertinet; spectat inter occasum solis et septentriones.

La Gallia, nel suo insieme, è divisa in tre parti: una abitata dai Belgi, un’altra dagli Aquitani, la terza dai popoli chiamati localmente Celti, da noi Galli. Essi differiscono tra loro per linguaggio, istituzioni e leggi. Il fiume Garonna separa i Galli dagli Aquitani; la Senna e la Marna li dividono dai Belgi. Di questi popoli i più forti sono i Belgi, che sono i più lontani dalla cultura e dalla civiltà della nostra Provincia; molto di rado essi vengono visitati dai mercanti, i quali, perciò, non vi introducono le merci atte ad infiacchire i costumi; confinano con i Germani d’oltre Reno, e con essi sono continuamente in guerra. Per questa stessa ragione anche gli Elvezi superano per valore gli altri Galli: anch’essi combattono quasi ogni giorno contro i Germani, sia per tenerli lontani dalle loro terre, sia perché essi invadono le loro. la parte che abbiamo detto appartenere ai Galli comincia al fiume Rodano, ha per confine il fiume Garonna, l’Oceano, il territorio dei Belgi, tocca il Reno dalla parte dei Sèquani e degli Elvezi ed è orientata verso nord. Il paese dei Belgi dai più lontani territori della Gallia si estende fino al corso inferiore del Reno ed è rivolto verso nord-est. L’Aquitania si estende dalla Garonna ai Pirenei e a quella parte dell’Oceano, che è volta verso la Spagna, guarda verso nord-ovest.
(trad. di Fausto Brindesi)

E’ questo l’incipit dell’intera opera, dalla quale, tuttavia, possiamo rilevare alcuni aspetti interessanti: come già detto la volontà di far entrare direttamente il lettore in medias res, cioè catapultarlo, sin dall’inizio nel teatro delle azioni; ma ancora la sottolineatura della bellicosità, quasi inversamente proporzionale alla vicinanza o meno alla civiltà, sia pur capace di “infiacchire gli animi”. Allora, pur con molta neutralità, essendo essi molto forti è necessaria una guerra preventiva, prima che essi, la cui guerra sembra essere nel sangue, ci attacchino.

Ma si veda, come sempre nel libro I, Cesare voglia in qualche modo disegnare se stesso come il condottiero che combatte secondo ragione e come a violare la stessa siano proprio i capi avversari:

CESARE E ARIOVISTO
(I, 34-36)

Quam ob rem placuit ei ut ad Ariovistum legatos mitteret, qui ab eo postularent uti aliquem locum medium utrisque conloquio deligeret: velle sese de re publica et summis utriusque rebus cum eo agere. Ei legationi Ariovistus respondit: si quid ipsi a Caesare opus esset, sese ad eum venturum fuisse; si quid ille se velit, illum ad se venire oportere. Praeterea se neque sine exercitu in eas partes Galliae venire audere quas Caesar possideret, neque exercitum sine magno commeatu atque molimento in unum locum contrahere posse. Sibi autem mirum videri quid in sua Gallia, quam bello vicisset, aut Caesari aut omnino populo Romano negotii esset. (…)

Ricevuta la risposta che Ariovisto non si sarebbe recato da lui, Cesare gli pone delle condizioni:

Primum ne quam multitudinem hominum amplius trans Rhenum in Galliam traduceret; deinde obsides quos haberet ab Haeduis redderet Sequanisque permitteret ut quos illi haberent voluntate eius reddere illis liceret; neve Haeduos iniuria lacesseret neve his sociisque eorum bellum inferret. (…)

Alle condizioni che Cesare gli impone, che sono, a ben guardare, “provocatorie” per la libertà di azione degli stessi Germani nei loro territori, Ariovisto risponde, ricordando il diritto dei vincitori sui vinti, diritto che gli stessi Romani avevano da sempre preteso:

(…)

Ius esse belli ut qui vicissent iis quos vicissent quem ad modum vellent imperarent. Item populum Romanum victis non ad alterius praescriptum, sed ad suum arbitrium imperare consuesse. Si ipse populo Romano non praescriberet quem ad modum suo iure uteretur, non oportere se a populo Romano in suo iure impediri.

Decise perciò (Cesare) di mandare ambasciatori ad Ariovisto per chiedergli di scegliere una località situata a pari distanza tra loro per un colloquio, perché voleva trattare con lui importanti affari di stato che interessavano entrambi. A questi ambasciatori Ariovisto rispose che se avesse avuto bisogno di qualcosa da Cesare si sarebbe recato da lui: ma poiché era Cesare che voleva qualcosa, spettava a lui recarsi da Ariovisto. D’altra parte egli non riteneva opportuno recarsi  nella Gallia romana senza esercito e per radunarlo accorrevano grandi approvvigionamenti, spese e fatica. Gli sembrava però strano che nella Gallia  a lui sottomessa per diritto di guerra ci fosse qualcosa che potesse interessare Cesare o il popolo romano.
(…) in primo luogo, di non far passare più contingenti di Germani al di qua del Reno per stabilirsi  in Gallia; poi di restituire gli ostaggi degli Edui in sua  mano e di permettere ai Sèquani di rendere quelli che essi detenevano; infine di non recare danni agli Edui e di non portare guerra ad essi né ai loro alleati.
(…) era diritto di guerra che i vincitori dominassero a loro arbitrio i vinti; era consetudine, anche del popolo romano, di comandare ai vinti non secondo le imposizioni altrui ma a modo loro. Se egli dunque non prescriveva al popolo romano di esercitare il proprio diritto, bisognava che anch’egli dal popolo romano non fosse ostacolato nel suo.
(trad. di Fausto Brindesi)

E’ semplice notare come tutto stia nella descrizione con cui i due comandanti in campo si comportano: Cesare è colui che chiede, Ariovisto colui che rifiuta; se quindi rifiuta è nel torto, ed è lecito da parte del Romano porre condizioni, anche se l’avversario rivendica per sé, come lo è per Cesare, lo ius belli. Insomma quello che interessa è che non vi è, né dall’una né dall’altra parte ragione, ma solo volontà di guerra.

  • II libro, anno 57: viene narrata la guerra contro i Belgi, che insieme ad altre popolazioni, stanno organizzando una spedizione contro i romani. Cesare combatte separatamente prima i Belgi, poi i Nervi. Infine viene anche espugnata la cittadella degli Aduaci. La Gallia sembra pacificata, tanto che il Senato decreta uno straordinario ringraziamento agli dei.
  • III libro, anni 57-56: viene narrato, ancora nel 57, il tentativo del luogotenente Servio Galba di aprire una via nelle Alpi. Quindi, con una flotta, viene intrapresa la guerra contro i Veneti, mentre un altro suo luogotenente debella gli Aquitani. Ora tutti i popoli della Gallia atlantica sono assoggettati.
  • IV libro, anno 55: vengono narrate le spedizioni contro gli Usipeti e Tencteri, che si sono affacciati oltre il Reno spinti dagli Svevi. Costruito un ponte, Cesare oltrepassa il fiume mostrando tutta la sua potenza; annienta gli Sigambri e, rinviando la guerra contro gli Svevi, decide di affacciarsi sulla Britannia.

LA COSTRUZIONE DI UN PONTE
(IV, 17-18)

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Caesar his de causis quas commemoravi Rhenum transire decreverat. Sed navibus transire neque satis tutum esse arbitrabatur neque suae neque populi Romani dignitatis esse statuebat. Itaque etsi summa difficultas faciendi pontis proponebatur propter latitudinem, rapiditatem altitudinemque fluminis, tamen id sibi contendendum aut aliter non traducendum exercitum existimabat. Rationem pontis hanc instituit. Tigna bina sesquipedalia paulum ab imo praeacuta dimensa ad altitudinem fluminis intervallo pedum duorum inter se iungebat. Haec cum machinationibus immissa in flumen defixerat festuculisque adegerat, non sublicae modo derecte ad perpendiculum, sed prone ac fastigate, ut secundum naturam fluminis procumberent, his item contraria duo ad eundem modum diuncta intervallo pedum quadragenum ab inferiore parte contra vim atque impetu fluminis conversa statuebat. Haec utraque insuper bipedalibus trabibus immissis, quantum eorum tignorum iunctura distabat, binis utrimque fibulis ab extrema parte distinebantur. Quibus disclusis atque in contrariam partem revinctis, tanta erat operis firmitudo atque ea rerum natura, ut, quo maior vis aquae se incitavisset, hoc artius inligata tenerentur. Haec derecta materia iniecta contexebantur ac longuriis cratibusque consternebantur. Ac nihilo setius sublicae et ad inferiorem partem fluminis oblique agebantur, quae pro ariete subiectae et cum omni opere coniunctae vim fluminis exciperent, et aliae item supra pontem mediocri spatio, ut si arborum trunci sive trabes deiciendi operis causa essent a barbaris missae, his defensoribus earum rerum vis minuentur neu ponti nocerent. Diebus decem, quibus materia coepta erat comportari, omni opere effecto exercitus traducitur. Caesar ad utramque partem pontis firmo praesidio relicto in fines Sugambrorum contendit. Interim a compluribus civitatibus ad eum legati veniunt; quibus pacem atque amicitiam petentibus liberaliter respondet obsidesque ad se adduci iubet. At Sugambri, ex eo tempore quo pons institui coeptus est fuga comparata, hortantibus iis, quos ex Tencteris atque Usipetibus apud se habebant, finibus suis excesserant suaque omnia exportaverant seque in solitudinem ac silvas abdiderant.

Cesare aveva deciso, per la ragione che ho detto, di attraversare il Reno; ma riteneva che il passaggio per mezzo di navi non sarebbe stato né sicuro né confacente alla dignità sua e del popolo romano. Perciò, sebbene la costruzione di un ponte presentasse molte difficoltà per la larghezza, la velocità e la profondità del fiume, pure riteneva che si dovesse attuare questo piano o rinunciare al trasporto dell’esercito. Fece costruire il ponte così: vennero congiunte a due a due, alla distanza di due piedi, delle travi dello spessore di un piede e mezzo (circa 45 cm.), molto appuntite all’estremità inferiore e di altezza commisurata alla profondità delle acque. Queste travi si calarono nel fiume per mezzo di macchine e si conficcarono con battipali, non diritte e perpendicolari come le comuni palafitte, ma inclinate come i tetti, nel senso della corrente del fiume; poi vennero collocate di fronte a ciascuna coppia a quaranta piedi di distanza (circa 12 m.), ma in senso contrario alla corrente, altre file di travi, legate allo stesso modo a due a due. Sopra queste coppie di travi vennero incastrati dei pali grossi due piedi (tanta era la distanza fra una trave e l’altra di ogni coppia) che le tenevano distaccate ed erano assicurati, alle loro estremità da due ramponi che impedivano alle coppie di avvicinarsi. Con queste palafitte, tenute distaccate e collegate in direzione contraria si otteneva una costruzione così salda e così ben congegnata che quanto più violenta fosse stata la corrente, tanto più il sistema sarebbe stato fortemente legato. Si appoggiarono poi sulle traverse delle travi collocate per lungo, che furono ricoperte con tavole e graticci. Oltre a ciò, altre travi furono disposte in senso obliquo, come dei contrafforti, e collegate a tutto il resto, verso il lato a valle del ponte perché contribuissero a sostenere la forza della corrente. A monte e a poca distanza del ponte vennero confitte altre travi, come diceva per il caso che i barbari, per abbattere la costruzione, vi mandassero contro tronchi di alberi o navi: sarebbe stato in tal modo, attutito l’urto e preservato il ponte da eventuali danni. In dieci giorni da quando si cominciò a portare il materiale, l’opera fu compiuta e l’esercito passò il Reno. Cesare lasciò un saldo presidio sull’una e l’altra sponda del fiume e si diresse verso il paese dei Sigambri. Frattanto gli arrivarono ambasciatori da parecchie città; poiché chiedevano pace ed amicizia, egli rispose benignamente ma ordinò che gli fossero consegnati ostaggi. I Sigambri, che fin dal momento in cui era cominciata la costruzione del ponte, si erano preparati alla fuga, per consiglio dei Tenteri e degli Usipeti che avevano con loro, si erano allontanati dai propri territori portando seco ogni loro cosa e si erano rifugiati in regioni disabitate e coperte di foreste.
(trad. di Fausto Brindesi)

Questo brano rappresenta non soltanto la descrizione della grandissima capacità tecnica dei romani, ma il modo attraverso cui Cesare mostra la sua superiorità, rispetto ai barbari, affinché i nemici, timorosi della sua potenza, s’inchinino per non essere superati. Infatti si tratta di cacciare gli Svevi dai territori degli Edui e dei Sequani. Per far ciò occorre prevenire: superare il Reno, attaccare i Sigambri e impedire qualsiasi mossa all’avversario. Si tratta, cioè, di una vera e propria campagna preventiva.

  • V libro, anno 54: avviene la seconda spedizione in Britannia e Cesare, vincendo il re di quei luoghi lo obbliga a versare tributi. Inserisce a questo punto, un breve excursus sui Britanni. Ritorna quindi in Gallia e deve affrontare popolazioni che, approfittando della sua assenza, avevano attaccato i suoi quartieri invernali. Riesce, in questo modo a sedare la ribellione.
  • VI libro, anno 53: Cesare, temendo una ribellione gallica, fa venire nuove tre legioni. Riesce così a annientare ribellioni di alcune popolazioni galliche. Quindi ripassa il Reno e obbliga gli Svevi a rifugiarsi nei loro confini estremi. Subito dopo Cesare dà vita ad un lungo e articolato excursus etno-antropologico sugli usi e sui costumi dei Galli. Ritorna in Gallia e annienta la popolazione degli Eburoni, ma il loro capo, Ambiorige, sfugge alla cattura. Dopo aver messo il proprio esercito nei quartieri invernali, Cesare torna in Italia.

Vediamo in che modo Cesare, nell’excursus, parla dei Sacerdoti dei Galli:

PRIVILEGI E DOTTRINA DEI DRUIDI
(VI, 14)

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Un druida

Druides a bello abesse consuerunt neque tributa una cum reliquis pendunt, militiae vacationem omniumque rerum habent immunitatem. Tantis excitati praemiis et sua sponte multi in disciplinam conveniunt et a parentibus propinquisque mittuntur. Magnum ibi numerum versuum ediscere dicuntur. Itaque annos non nulli XX in disciplina permanent. Neque fas esse existimant ea litteris mandare, cum in reliquis fere rebus, publicis privatisque rationibus, Graecis litteris utantur. Id mihi duabus de causis instituisse videntur, quod neque in vulgum disciplinam efferri velint, neque eos qui discunt litteris confisos minus memoriae studere; quod fere plerisque accidit, ut praesidio litterarum diligentiam in perdiscendo ac memoriam remittant. In primis hoc volunt persuadere, non interire animas, sed ab aliis post mortem transire ad alios, atque hoc maxime ad virtutem excitari putant, metu mortis neglecto. Multa praeterea de sideribus atque eorum motu, de mundi ac terrarum magnitudine, de rerum natura, de deorum immortalium vi ac potestate disputant et inventuti tradunt. 

I Druidi non partecipano alle guerre né pagano i tributi come gli altri, sono esenti dal servizio militare e da ogni altro gravame. Attirati da così grandi privilegi, molti giovani di loro volontà si recano da loro per esserne discepoli e molti sono mandati dai genitori e dai parenti.  Da loro, a quanto pare, debbono imparare a memoria un gran numero di versi; per molti il tempo del noviziato dura venti anni. Non ritengono lecito scrivere i loro sacri precetti, invece per gli altri affari, sia pubblici che privati, usano l’alfabeto greco. Mi sembra che due siano le ragioni per cui evitano la scrittura: prima di tutto perché non vogliono che le norme che regolano la loro organizzazione siano risapute dal volgo,  poi perché perché i discepoli non le studino con meno diligenza, confidando negli scritti (accade, infatti, quasi a tutti che, fidando sull’aiuto della scrittura, non si tenga in esercizio la memoria). Il principale loro insegnamento è l’immortalità dell’anima e la sua migrazione, dopo la morte, da un corpo all’altro; essi ritengono che questa dottrina, eliminato il timore della morte, sia il più grande incitamento al valore. vengono anche trattate ed insegnate ai giovani molte questioni sugli astri e i loro movimenti, sulla grandezza del mondo e della terra, sulla natura, sulla essenza e sul potere degli dei.
(trad. di Fausto Brindesi)

L’altra classe sociale analizzata da Cesare, è quella dei cavalieri che, insieme a quella sacerdotale, detiene il potere tra le popolazioni galliche:

I CAVALIERI
(VI, 15)

Alterum genus est equitum. Hi, cum est usus atque aliquod bellum incidit (quod fere ante Cesaris adventum quotannis accidere solebat, uti aut ipsi iniurias inferrent aut inlatas propulsarent), omnes in bello versantur, atque eorum ut quisque est genere copiisque amplissimus, ita plurimos circum se ambactos clientesque habet. Hanc unam gratiam potentiamque noverunt.

L’altra classe privilegiata è quella dei cavalieri. Costoro, quando ce n’è bisogno in caso di qualche guerra (e questo prima dell’arrivo di Cesare capitava quasi ogni anno,  o che portassero le armi contro qualcuno o che si difendessero), accorrono tutti per combattere e quanto più sono nobili e facoltosi, tanto più numerosi servi  e clienti hanno con sé. Conoscono questa sola specie di autorità e di potenza.
(trad. di Fausto Brindesi)

O come si può ancora vedere in quest’altro in cui analizza il loro modo di concepire la famiglia:

L’ISTITUZIONE FAMILIARE
(VI, 18-19)

Galli se omnes ab Dite patre prognatos praedicant idque ab druidibus proditum dicunt. Ob eam causam spatia omnis temporis non numero dierum, sed noctium finiunt. Dies natalis et mensum et annorum initia sic observant ut noctem dies subsequatur. In reliquis vitae institutis hoc fere ab reliquis differunt, quod suos liberos, nisi cum adoleverunt ut munus militia sustinere possint, palam ad se adire non patiuntur filiumque puerile aetate in publico in conspectus patris adsistere turpe ducunt. Viri, quantas pecunias ab uxoribus dotis nomine acceperunt, tantas ex suis bonis aestimatione facta cum dotibus communicant. Huius omnis pecuniae coniunctim ratio habetur fructusque servantur: uter eorum vita superarit, ad eum pars utriusque cum fructibus superiorum temporum pervenit. Viri in uxores sicuti in liberos vitae necisque habent potestatem; et cum pater familiae inlustriore loco natus decessit, eius propinqui conveniunt et, de morte si res in suspicionem venit, de uxoribus in servilem modum questionem habent et, si compertum est, igni atque omnibus tormentis excruciatas interficiunt. Funera sunt pro cultu Gallorum magnifica et somptuosa; omniaque quae vivi cordi fuisse arbitrantur in ignem interferunt, etiam animalia, ac paulo supra hanc memoriam servi et clientes quos ab iis dilectos esse constabat iustis funeribus confectis una cremabantur.

I Galli dicono di essere tutti discendenti dal padre Dite e  che ciò sia stato tramandato dai druidi. Perciò non calcolano il tempo contando i giorni, ma le notti:  le date natalizie, il principio dei mesi e degli anni sono contati facendo incominciare la giornata con la notte. Riguardo alle rimanenti usanze differiscono dagli altri popoli quasi solo per questo, che permettono ai figli di presentarsi a loro in pubblico solo quando sono in età tale da poter prestare servizio militare e credono cosa vergognosa che un fanciullo si fermi davanti al  padre in presenza degli altri. Gli uomini, fatta la stima dei denari e dei beni che ricevono come dote dalle mogli, ve ne uniscono altrettanti, tolti dai loro; amministrano poi l’intera somma e ne accumulano i frutti; quello dei due coniugi che sopravvive eredita sia il capitale di entrambi, sia il frutto degli anni precedenti. Gli uomini hanno diritto di vita e di morte sulle mogli, come sui figli; quando muore un capofamiglia di nobile stirpe, i suoi parenti si riuniscono tutti, e se per quella morte sorge qualche sospetto sulla moglie, conducono, in merito, le indagini come usano con gli schiavi; in caso di colpevolezza la donna è condannata a morire tra le fiamme o con altri atroci supplizi. I funerali sono, per quel che la civiltà dei Galli permette, veramente lussuosi: vien gettato sul rogo tutto ciò  che era caro al vivo, anche gli animali; poco tempo fa anche i servi e i clienti cui era particolarmente affezionato venivano bruciati insieme al cadavere, dopo la celebrazione dei riti.
(trad. di Fausto Brindesi)

E’ evidente che qui Cesare non voglia apparire come colui che sia spinto solo da interesse culturale nello spiegare i mores principali delle popolazioni galliche (senza tuttavia negare che, comunque, tale interesse vi sia); ma, proprio secondo la logica militare, quella di conoscere a fondo sia i territori, come dimostra nell’incipit, che gli usi, per poter colpire il nemico nelle “strutture” geografico-culturali in cui egli si dimostri più debole.

  • VII libro, anno 52: In Gallia scoppia la rivolta generale dei Galli sotto la guida del capo degli Averni Vercingetorige. Il segnale di battaglia è il massacro di una delle legioni romane residenti a Cenabo. Cesare torna precipitosamente in Gallia e si reca nei territori degli Averni. Assedia dapprima Villaunoduno, quindi dà una severissima punizione agli abitanti di Cenabo e prende altre città nel territorio di Vergingetorige, ma non Gregovia. Si rivoltano anche gli Edui, tradizionali alleati di Roma, ma Cesare sconfiggendo la cavalleria gallica, costringe il nemico a rifugiarsi nella roccaforte di Alesia. Dopo una durissima battaglia, Cesare riesce a ottenere la vittoria e a catturare Vercingetorige.

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Statua di Vercingetorige ad Alesia

DISCORSO DI CRITOGNATO
(VII, 77)

Nihil – inquit – de eorum sententia dicturus sum, qui turpissimam servitutem deditionis nomine appellant, neque hos habendos civium loco neque ad concilium adhibendos censeo. Cum his mihi res sit, qui eruptionem probant; quorum in consilio omnium vestrum consensu pristinae residere virtutis memoria videtur. Animi est ista mollitia, non virtus, paulisper inopiam ferre non posse. Qui se ultro morti offerant, facilius reperiuntur quam qui dolorem patienter ferant. Atque ego hanc sententiam probarem (tantum apud me dignitas potest), si nullam praeterquam vitae nostrae iacturam fieri viderem: sed in consilio capiendo omnem Galliam respiciamus, quam ad nostrum auxilium concitavimus. (…) Romani vero quid petunt aliud aut quid volunt, nisi invidia adducti quos fama nobiles potentesque bello cognoverunt, horum in agris civitatibusque considere atque his aeternam iniungere servitutem? Neque enim umquam alia condicione bella gesserunt. Quod si ea, quae in longinquis nationibus geruntur ignoratis, respicite finitimam Galliam, quae in provinciam redacta, iure et legibus commutatis, securibus subiecta perpetua premitur servitute.

Nulla – disse costui – io voglio dire circa la proposta di coloro che chiamanbo col nome di resa una turpissima servitù, che io ritengo che non meritevoli di essere detti cittadini, né di essere interpellati nel consiglio. Apro la discussione con quelli che approvano l’idea di una sortita, proposta in cui tutti voi siete d’accordo nel vedervi un richiamo alla nostra antica virtù. Ma è debolezza d’animo, non un valore, questo non saper sopportare per un po’ le privazioni. E’ più facile trovare chi si offre spontaneamente alla morte che  uno che sappia sopportare con pazienza la sofferenza. Ed io approverei questa proposta – tanto può in me il senso dell’onore – qualora vedessi che si metterebbe in gioco solo la nostra vita; ma, nel decidere dobbiamo pensare a tutta la Gallia, che abbiamo chiamata ad aiutarci. (…) I Romani, invece, cosa cercano e cosa vogliono? Spinti dall’invidia, per averci conosciuti nobili per fama e potenti in guerra, vogliono impadronirsi dei nostri campi e delle nostre città e tenerci in perpetua schiavitù. Nessuna guerra essi hanno mai fatto per altro scopo. E se non sapete quel che accade nelle regioni più lontane, guardate la Gallia a noi vicina, ridotta in provincia romana, che ha avuto leggi e istituzioni nuove e che soffre in continua servitù, piegata alla scuri littorie.
(trad. di Fausto Brindesi)

Che Cesare voglia qui abbracciare le tesi di Critognato sembra impossibile, soprattutto perché, poco prima, definisce la sua oratio crudelis et singularis e lui un vero e proprio delinquente se, nella stessa orazione (da noi omessa) arriva a invitare il suo popolo “facere quod nostri maiores nequaquam pari bello Cimbrorum Teutonumque fecerunt: qui in oppida compulsi ac simili inopia subacti eorum corporibus, qui aetate  ad bellum inutiles videbantur, vitam toleraverunt neque  se hostibus tradiderunt” (a fare quello che i nostri antenati fecero nella guerra contro i Cimbri e i Teutoni, che pure non era pari a questa: essi chiusi nella città di fronte a una carestia simile alla nostra, tirarono in lungo la loro vita nutrendosi delle carni di quelli che non sembravano atti alle armi, ma non si arresero ai nemici). Dal momento in cui a dichiarare che i Romani avrebbero tolto la libertà e resi schiavi loro è uno che invita i propri all’antropofagia, risulta evidente la volontà di capovolgere e rendere proprie le ragioni dell’assedio.

De bello civili 

Il De bello civili, in tre libri, racconta gli episodi bellici tra 49 e il 48, riguardanti la guerra civile, appunto, tra Cesare e Pompeo.

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                     Pompeo e Cesare 

  • I libro, gennaio-settembre 49: La narrazione si apre con il Senato che rifiuta la proposta di Cesare di far deporre il comando dell’esercito a Pompeo, così come era stato intimato a lui. Quindi il decretare da parte dei filo pompeiani lo stato di emergenza e l’armarsi contro il generale, fa sì che Cesare passi il Rubicone. Nonostante cerchi di trovare un accomodamento, e ricevuti solo dinieghi, marcia verso la città, mentre Pompeo si rifugia a Brindisi. La città viene assediata da Cesare, ma Pompeo fugge a Durazzo. Quindi Cesare decide di portare la guerra in Spagna dove batte i legati di Pompeo.

POMPEO CONVOCA I SENATORI
(I,3)

Misso ad vesperum senatu omnes, qui sunt eius ordinis, a Pompeio evocantur. Laudat promptos Pompeius atque in posterum confirmat, segniores castigat atque incitat. Multi undique ex veteribus Pompei exercitibus spe praemiorum atque ordinum evocantur, multi ex duabus legionibus, quae sunt traditae a Caesare, arcessuntur. Completur urbs eius commilitonibus, tribunis, centurionibus, evocatis. Omnes amici consulum, necessarii Pompei atque eorum, qui veteres inimicitias cum Caesare gerebant, in senatum coguntur; quorum vocibus et concursu terrentur infirmiores, dubii confirmantur, plerisque vero libere decernendi potestas eripitur. Pollicetur L. Piso censor sese iturum ad Caesarem, item L. Roscius praetor, qui de his rebus eum doceant: sex dies ad eam rem conficiendam spatii postulant. Dicuntur etiam ab nonnullis sententiae, ut legati ad Caesarem mittantur, qui voluntatem senatus ei proponant.

Sciolta sul far della sera l’adunanza del senato, sono convocati da Pompeo tutti quelli che appartenevano a quell’ordine. Egli loda e l’incoraggia per l’avvenire gli uomini risoluti, riprende e sprona quelli che si mostrano più titubanti. Si richiamano da ogni parte molti soldati dei vecchi eserciti di Pompeo con la promessa di premi e di più alti gradi e se ne fanno venire molti dalle due legioni che erano state consegnate da Cesare. La città si riempie di commilitoni di Pompeo, di tribuni, di centurioni e di soldati richiamati. Si raccolgono in senato tutti gli amici dei consoli, i seguaci di Pompeo e di coloro che avevano vecchi rancori con Cesare; dalle grida e dal gran numero di questi sono atterriti i timidi e sono incoraggiati i dubbiosi; ma ai più è tolta la facoltà di pronunciarsi liberamente. Il censore Lucio Pisone, così come il pretore Lucio Roscio, si offrono di andare da Cesare, per informarlo di questi fatti; domandano sei giorni di tempo per compiere la missione. Alcuni esprimono anche il parere di inviar messi da Cesare per fargli conoscere le decisioni del senato.
(trad. di Giovanni Bruno)

Riportiamo qui il terzo paragrafo del primo libro, proprio perché ci serve a dimostrare come l’autore voglia sottolineare che l’intero Senato si trova alle dipendenze di un capo; è Pompeo, infatti che chiama veterani, centurioni, nemici di Cesare, a scopo intimidatorio: se il Senato teme Cesare, perché sovvertitore della Repubblica in senso autoritario, sin dall’inizio il vincitore della Gallia dimostra che ad averla già sovvertita è Pompeo, che ha in mano l’intero corpo del Senato che si è messo alle sue dipendenze.

  • II libro, luglio-ottobre 49: l’unica città che continua a resistergli è Marsiglia. Dopo averla assediata, è costretta a chiedere la pace, e Cesare decide di non saccheggiarla. In Africa, il suo luogotenente Curione si scontra ad Utica con Azzio Varo, pompeiano, avendo la meglio. Nel frattempo Giuba, re dei Numidi, si muove verso di lui con un grande esercito. Ingannato da false notizie e fiducioso verso se stesso decide di attaccarlo, ma i Romani subiscono una forte sconfitta; Curione muore combattendo.
  • III libro, novembre 49-ottobre 48: Cesare torna per combattere Pompeo sulle coste dell’Epiro. Le sue truppe sono stanche, mentre le forze del nemico sono fresche e numerose. Dopo le prime scaramucce in cui Cesare ha la peggio, Pompeo decide di dirigersi verso sud, e riunite le sue forze con quelle di un suo generale, attende Cesare a Farsalo. A quel punto Cesare sfida a battaglia Pompeo, che invece si mostra insicuro. Iniziato lo scontro, Cesare, grazie alla sua abilità, sconfigge il nemico, che si rifugia in Asia Minore e poi in Egitto. Ma qui viene ucciso da Tolomeo. Appena Cesare giunge ad Alessandria apprende la notizia della morte di Pompeo: nel frattempo inizia una rivolta contro i Romani, con cui inizia la guerra contro gli Egiziani.

DISCORSO DI CESARE AI SOLDATI
(III, 90) 

Exercitum cum militari more ad pugnam cohortaretur suaque in eum perpetui temporis officia praedicaret, in primis commemoravit testibus se militibus uti posse, quanto studio pacem petisset, quae per Vatinium in conloquiis, quae per Aulum Clodium cum Scipione egisset, quibus modis ad Oricum cum Libone de mittendis legatis contendisset. Neque se umquam abuti militum sanguine neque rem publicam alterutro exercitu privare voluisse. Hac abita oratione exposcentibus militibus et studio pugnae ardentibus tuba signum dedit.

Esortando, secondo il costume della legge militare, l’esercito alla battaglia e proclamando le prove continue di benevolenza che egli gli aveva dato, ricordò soprattutto che i soldati potevano testimoniare con quale vivo desiderio avesse cercato la pace, quante trattative avesse avviate nei colloqui per mezzo di Vatinio, con Scipione per mezzo di Aulo Claudio e quanto avesse insistito con Libone ad Orico con uno scambio di ambasciatori; egli aveva sempre cercato di evitare un inutile spargimento di sangue e si era sempre adoperato perché non si privasse la patria di uno dei due eserciti. Tenuto questo discorso, fece dare il segnale di tromba, come chiedevano i soldati, accesi dal desiderio di combattere.
(trad. di Giovanni Bruno)

E’ questo il momento topico che precede la battaglia: il discorso d’esortazione ai soldati. Eppure qui, nelle parole pronunciate da Cesare, notiamo subito un cambiamento di tono, che da esortativo passa a persuasivo:

  • egli si richiama, nel passo, all’uso militare (militari more); quindi, pur nell’eccezionalità della situazione (bellum civile) egli deve allontanare dai soldati il timore d’uccidere “un fratello” e riportare il tutto alla normalità;
  • egli afferma la bontà e la veridicità di quanto dice chiamando a testimoni i soldati stessi (testis militibus);
  • ma soprattutto l’idea che si evince è che egli voglia convincere il lettore di aver cercato in tutti i modi evitare la guerra e di esservi costretto, vista l’arroganza e prepotenza altrui.

170425daGiovanniDetailLOW-590x3961.jpgApollonio di Giovanni : La battaglia di Farsalo (prima metà del XV sec.)

La veridicità storica dei Commentarii

Non è facile, grazie alla grande capacità di Cesare scrittore, cogliere nella sua imparzialità narrativa, (si ricordi al tal proposito l’uso della terza persona) elementi fortemente tendenziosi. Ancora oggi gli storici affermano che ciò che racconta Cesare è fondamentalmente vero. Tuttavia alcuni elementi ci permettono di cogliere il modo in cui egli abbia voluto dare al lettore di ieri e ai posteri, una vincente idea di sé. Tra tanti elementi il primo è il suo epicureismo: nei Commentarii, infatti, non c’è nessuna presenza trascendentale che abbia potuto, in qualche modo, influenzare un evento. E’ logico che, laddove la forza divina non c’è, a guidare gli avvenimenti bellici, è dell’uomo in generale, che della Fortuna, che si aggira imprevedibile nei vari campi di battaglia. E’ allora nella virtus del dux e dei suoi sodati, che sanno prevenirla e contrastarla, che risiede l’idea vincente che Cesare si era ripromesso di trasmetterci e ciò vale per ambedue le opere: nella prima egli sottolinea la sua grande capacità da stratega e l’alto valore dei suoi soldati; nella seconda, viceversa, l’alto suo senso di “legalità” con cui ha cercato in tutti i modi di convincere l’avversario ad evitare un’inutile spargimento di sangue.