GAIO VALERIO CATULLO

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Busto di Catullo a Sirmione

Il più grande poeta lirico latino pervenutoci, Catullo è riuscito a fare del suo Liber un testo fondamentale dove trasuda irruenza, giovinezza, amore e odio; ma l’opera non è solo questo, è anche un grande affresco di capacità poetica dove il nostro mostra i suoi gusti letterari e il modo straordinario d’interpretarli, dalla poesia di Saffo del V sec. a quella, raffinatissima e colta, dell’ellenista Callimaco.

 Notizie biografiche 

Catullo ci racconta tutto di sé, ma solo del suo mondo interiore; quando si tratta di notizie biografiche egli è molto parco: ci dice che è originario di Verona, certamente di ricca famiglia se il padre può ospitare, quando si trova da quelle parti, un personaggio del rango di Giulio Cesare. Certamente passa la giovinezza a Roma, di cui ci offre un vivido quadro e dove partecipa, insieme ad amici intellettuali, a quegli incontri dove si poeta giocosamente, ma non superficialmente, sulle proprie emozioni e su occasioni tali da essere cantate (i neoteroi).

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Un immagine di Catullo

Ma in questa città fu fondamentale l’amore che lo legò a colei che egli chiamò poeticamente Lesbia, ma che Apuleio, autore dell’età degli Antonini, ci svela essere quella Clodia, sorella di Clodio, nemico di Cicerone, che per questo lasciò di lei un ritratto in cui la descrisse come una donna disinvolta e dai liberi costumi sessuali. Ancora i suoi versi ci parlano di un viaggio nella Troade, dove visitò la tomba del fratello morto (versi ripresi in modo piuttosto puntuale da Foscolo). Non avendo notizie attendibili, ma dai dati emersi dai suoi scritti, sembra che la sua vita deve essere compresa tra l’84 e il 54, e la giovane morte sembra ben accordarsi con il mito romantico cui venne infine circondato.

La poesia neoterica

I poeti neoterici, come già accennato, mettono in primo piano della loro produzione la vita interiore delle passioni, che sembra poi diventare il fulcro del loro modus vivendi. Questo modo di considerare la letteratura li fa vivere in una cerchia in cui mostrano di conoscersi, frequentarsi, di condividere momenti privati propri e dei propri amici. Tale atteggiamento li fa considerare ostili da Cicerone, in quanto vedeva nel loro atteggiamento il più completo disinteresse riguardo lo Stato e una minaccia per l’educazione dei giovani, più che altro attirati da quest’atteggiamento edonistico e disimpegnato. Ma sembra proprio questo atteggiamento che fa parlare qualche critico di consapevolezza epicurea, quella che ritiene la philìa uno degli aspetti più importanti di questi poeti. Ma si direbbe che piuttosto di “amicizia” intesa in senso epicureo, bisognerebbe parlare di loro come di bohemiens, sperimentatori di vita e, come Catullo, poi dalla vita ingoiati.

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Charles Meynier: Erato, musa della poesia erotica

Liber
Il Liber che ci è pervenuto consta di 116 liriche così suddivise:

  • 1 – 60: componimenti brevi di metri diversi, definiti dall’autore nugae (sciocchezzuole, cose di poca importanza), presentano svariati temi, come l’amore, la morte del passerotto dell’amata, un invito a cena, e così via);
  • 61 – 68: carmina docta, componimenti più impegnativi che rispettano il gusto erudito della poesia ellenistica;
  • 69 – 116: epigrammi (distici elegiaci), che presentano la stessa varietà tematica della prima parte.

Dalla divisione qui presentata appare evidente che essa sia stata eseguita da copisti che secondo le usanze dell’epoca l’hanno suddivisa per generi metrici e non contenutistici. Tuttavia, anche da alcune tracce che appaiono nel testo, immaginiamo che tale suddivisione non sia quella operata da Catullo stesso e che probabilmente alcune liriche composte dal nostro autore siano infine, andate perdute.

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Marco Antonio Mureto, Catullus et in eum commentarius, Venetiis, apud Paulum Manutium, 1554

La poetica

Iniziamo il percorso sul Liber di Catullo dalla poetica, le cui tracce possiamo già individuarle nella prima lirica:

DEDICA
(I)

Cui dono lepidum novum libellum

arida modo pumice expolitum?
Corneli, tibi: namque tu solebas
meas esse aliquid putare nugas
iam tum cum ausus es unus Italorum
omne aevum tribus explicare cartis
doctis, Iuppiter, et laboriosis.
Quare habe tibi quidquid hoc libelli
qualecumque; quod, o patrona virgo,
plus uno maneat perenne saeclo.

220px-Cornelio_Nepote.jpg Cornelio Nepote, destinatario delle nugae catulliane

A chi dedicherò questo libretto che l’arsa pomice ha appena lucidato? A te, Cornelio, che solevi dar qualche peso alle mie iniziative, tu che tra gli itali eri il solo a condensare la storia universale in tre volumi, dotti, per Giove, e straordinari. Sia tuo il libretto, per quel che è, per quel che vale: ma ch’esso viva, vergine Musa, più del tempo di un uomo.

La lettura di questo carme, oltre a dirci che essa è dedicata a all’amico Cornelio Nepote, famoso per l’opera De viris illustribus, a noi pervenuta seppure non completamente, ci offre anche alcune considerazioni sul modo con cui i neoterici consideravano il lavoro poetico:

  • La brevitas: spiegare la storia universale in solo tre libri è il concetto chiave secondo cui la vera arte va ricercata nella brevità, dove solo si può rintracciare l’erudizione (libri dotti) e l’eleganza formale;
  • I carmina che ci offre non sono che nugae, che Cornelio sembrava apprezzare, tuttavia, seppur (falsamente) di poco conto, estremamente rifinite (pulite con l’arida pomice), a dimostrazione dell’importanza della purezza formale.

Se la dedica contiene alcuni topoi caratteristici di un carmen proemiale, la poetica catulliana viene espressa anche in altri momenti come in questo:

LA ZMYRNA DEL MIO CINNA
(XCV)

Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem
quam coeptast nonamque edita post hiemem,
milia cum interea quingenta Hortensius uno
…………………………………………………
Zmyrna cavas Satrachi penitus mittetur ad undas,
Zmyrnam cana diu saecula pervolvent.
At Volusi annales Paduam morientur ad ipsam
et laxas scombris saepe dabunt tunicas.
Parva mei mihi sint cordi monumenta sodalis,
at populus tumido gaudeat Antimacho.

Infine la Smirna del mio Cinna dopo nove estati da che è iniziata e dopo nove inverni è stata pubblicata, mentre nel frattempo Ortensio cinquemila in un solo (mese?) ….. La Smirna sarà mandata fino alle onde profonde del Satrachi, le canute generazioni leggeranno assiduamente a lungo la Smirna. Ma gli annali di Volusio moriranno nella stessa foce del Po e daranno spesso ampie coperture agli sgombri. A me siano al cuore i piccoli “monumenti” del mio compagno, ma il popolo goda del grasso Antimaco.

Anche questo carmen riprende il tema della brevitas, attraverso l’incitamento al suo amico Elvio Cinna e al suo raffinato poemetto, contro il turgido epos di Volusio. Quello che qui interessa non è tuttavia ripetere quanto detto rispetto alla poesia della dedica, quanto piuttosto l’imitatio che egli fa verso un genere greco: infatti già Callimaco aveva, in una sua opera, annunziato la pubblicazione dei Fenomeni di Arato. Ma Catullo, rispetto al poeta alessandrino, fa qualcosa di più: utilizza tale espediente per criticare con sarcasmo i suoi avversari letterari, augurando che le loro opere finiscano a far da involucro a pesci maleodoranti.

Temi vari

Nell’opera dell’autore di Verona l’elemento centrale è l’io e le sue impressioni su ciò che vive rispetto all’amicizia, l’amore e la politica. Tra i vari temi presenti iniziamo con il tema dell’epicurea philia, che, come già detto sembra più da attribuirsi ad un atteggiamento di Catullo e dei suoi sodali:

UN INVITO A CENA
(XIII)

Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
paucis, si tibi di favent, diebus,
si tecum attuleris bonam atque magnam
cenam, non sine candida puella
et vino et sale et omnibus cachinnis.
Haec si, inquam, attuleris, venuste noster,
cenabis bene: nam tui Catulli
plenus sacculus est aranearum.
Sed contra accipies meros amores
seu quid suavius elegantiusvest:
nam unguentum dabo, quod meae puellae
donarunt Veneres Cupidinesque,
quod cum tu olfacies, deos rogabis,
totum ut te faciant, Fasulle, nasum.

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Affresco pompeiano raffigurante un momento del pasto romano

Cenerai bene, o mio Fabullo, presso di me fra pochi giorni, se gli dei ti saranno favorevoli, se con te porterai una buona e abbondante cena, non senza una splendida fanciulla e vino e motti di spirito e tutta l’allegria. Se porterai queste cose, dico, o mio caro amico, cenerai bene: infatti il borsellino del tuo Catullo è pieno di ragni. Ma in cambio riceverai un graziosa delizia o qualcosa di più soave o di più elegante infatti (ti) offrirò un unguento che alla mia fanciulla donarono gli Amori ed i Cupidi, quando tu lo proverai, pregherai gli dei, che ti facciano tutto naso.

Qui il tema dell’amicizia è risolto nel classico “invito a tavola” che Catullo rivolge al suo amico, classico perché è un tema già presente nella poesia greca. Egli lo risolve in modo scherzoso, insistendo sulla sua povertà e chiedendo all’amico di portare cibo e donne. Ma ciò che interessa è il clima che qui ci viene rappresentato e che ci offre, nel contempo, un quadro della vita di questi raffinati bohemiens. Appare inoltre un piccolo accenno al suo smisurato amore: sebbene egli sia povero, potrà donare al suo amico il profumo più inebriante che egli abbia mai sentito, in quanto fabbricato dallo stesso Amore e a lui donato dalla donna che ama. Ciò permetterà di chiudere il carme con una battuta scherzosa (aprosdòketon, procedimento per cui si suscita nel lettore un’aspettativa che verrà delusa o sovvertita) del tutto inattesa dal lettore.

Ancora su questo tema egli ci offre la sua gioia nel poter rivedere un amico:

IL RITORNO DI UN AMICO
(IX)

Verani, omnibus e meis amicis
antistans mihi milibus trecentis,
venistine domum ad tuos penates
fratresque unanimos anumque matrem?
venisti. o mihi nuntii beati!
visam te incolumem audiamque Hiberum
narrantem loca, facta nationes,
ut mos est tuus, applicansque collum
iucundum os oculosque suaviabor.
o quantum est hominum beatiorum,
quid me laetius est beatiusve?

Veranio, che per me tra tutti i miei amici ne superi mille trecento, sei giunto a casa dai tuoi penati, dai fratelli unanimi e la vecchia madre? Sei giunto, o belle notizie per me! Ti rivedrò incolume e ti sentirò narrare i luoghi degli Iberi, le imprese, i popoli, come è tuo stile, aggrappandomi al dolce collo bacerò il volto e gli occhi. Oh quanto c’è di uomini più felici, cosa c’è di più allegro e felice di me?

Se Catullo viene ricordato per la passionalità con cui esprime il suo sentimento d’amore, non si può trascurare che tale passionalità è costituiva del suo essere. Infatti anche in questo canto egli si fa trasportate dall’infinita gioia che prova nel rivedere un amico. Ma tale gioia non è scevra dalla curiosità: Catullo non vuole solo riabbracciarlo, ma conoscere ciò che ha visto e imparato.

Un altro tema affrontato, ma non principale nel Liber, è quello politico, o per meglio dire di sottolineatura apolitica rispetto a due grandi uomini di potere:

A CESARE
(XCIII) 

Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere,
nec scire utrum sis albus an ater homo.

Non mi preoccupo troppo di volerti piacere, né di sapere se tu sia un uomo bianco o nero.

In questo unico distico elegiaco (si definisce così l’unione di due versi di cui uno in esametro e l’altro in pentametro) l’autore vuole mostrare completa indifferenza verso l’uomo che, durante la sua vita, era al culmine del potere politico. Tale indifferenza, d’altra parte, era pienamente condivisa dai poeti neoterici; viene qui, tuttavia, sottolineata attraverso l’ironia, con cui  Catullo sembra alludere all’ambiguità sessuale dell’uomo politico.

Ora se, una scuola poetica fortemente “aristocratica” nel percepire la realtà ed il mondo attraverso il culto della bellezza, e quindi di per sé lontana dai populares, non per questo egli è vicino agli optimati come si può vedere in questo passo:

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Giocatori di dadi 

A CICERONE
(IL)

Disertissime Romuli nepotum,
quot sunt quotque fuere, Marce Tulli,
quotque post aliis erunt in annis,
gratias tibi maximas Catullus
agit pessimus omnium poeta,
tanto pessimus omnium poeta,
quanto tu optimus omnium patronus.

O Marco Tullio, il più fecondo tra i nipoti di Romolo, di quanti sono, di quanti furono e di quanti saranno negli anni futuri, Catullo ti ringrazia moltissimo, il peggiore poeta fra tutti, quanto tu il migliore avvocato fra tutti.

Anche qui, sebbene attraverso un linguaggio più ricercato ed enfatico, scopriamo un vero e proprio intento ironico, contro colui che aveva rimproverato i neoteroi di “criticare” il sommo Ennio, padre della patria e i cui versi servivano ad educare i bambini Romani al rispetto delle leggi e della famiglia. Ma d’altra parte Catullo cosa può condividere con un uomo un po’ borioso, ma sincero nel suo impegno per salvare la repubblica ed un gruppo di giovani, di cui fa parte, ormai così ellenizzato ed internazionale che della patria e dei suoi valori non importa nulla? Cosa ha ancora da condividere con chi, inoltre, si era scagliato in modo così violento contro la sua donna nella Pro Caelio da definirla una “mangiatrice d’uomini” e “poco di buono”?

Un altro tema importantissimo è quello della morte, che possiamo riassumere in due diversi atteggiamenti, quello giocoso e quello biografico e triste:
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Edward Pointer: Lesbia con il suo passerotto (1908)

Il primo è quello della morte del passero, tuttavia non si può leggere tale passo senza introdurlo con il carme II in cui tale uccellino ci viene presentato:

IL PASSEROTTO DI LESBIA
(II)

Passer, deliciae meae puellae,
quicum ludere, quem in sinu tenere,
cui primum digitum dare appetenti
et acris solet incitare morsus,
cum desiderio meo nitenti
carum nescioquid lubet iocari,
et solaciorum sui doloris,
credo, ut tum gravis acquiescat ardor:
tecum ludere sicut ipsa possem
et tristis animi levare curas!

Passero, gioia della mia ragazza, con cui è solita giocare, tenerlo in grembo, offrirgli la punta del dito a lui che gli si avventa contro e provocare pungenti beccate, quando al mio splendido amore piace giocare non solo quale gioco gradito e di piccolo sollievo del suo suo dolore, credo, affinché plachi poi la bruciante passione: potessi giocare con te come lei stessa (gioca con te) e dimenticare i tristi affanni!

LA MORTE DEL PASSERO
(III)

Lugete, o Veneres Cupidinesque,
et quantum est hominum venustiorum:
passer mortuus est meae puellae,
passer, deliciae meae puellae,
quem plus illa oculis suis amabat.
nam mellitus erat suamque norat
ipsam tam bene quam puella matrem,
nec sese a gremio illius movebat,
sed circumsiliens modo huc modo illuc
ad solam dominam usque pipiabat.
Qui nunc it per iter tenebricosum
illuc, unde negant redire quemquam.
At vobis male sit, malae tenebrae
Orci, quae omnia bella devoratis:
tam bellum mihi passerem abstulistis
o factum male! o miselle passer!
Tua nunc opera meae puellae
flendo turgiduli rubent ocelli.

Piangete Veneri, piangete Amori, e chiunque abbia un animo gentile. E’ morto il passero della mia donna, il passero, gioia della mia donna, che lei più dei suoi occhi amava; era tutto miele, e la conosceva come una bimba conosce la madre, e dal suo seno mai si distaccava, ma saltellando qui e là solo per lei pigolava. Ma adesso va per il cammino oscuro, da cui, si dice, non torni più nessuno. Maledizione a voi, tenebre cattive, che ogni cosa bella divorate: un amore di passero avete annientato. Fatto orrendo! Passero infelice! Per causa tua la mia donna piange, e gli occhi belli sono rossi e gonfi.

I due carmi, messi uno a fianco all’altro dopo la dedica, costituiscono quasi un unicum: dapprima vediamo l’uccellino in atteggiamento fortemente amoroso con la sua donna, il secondo è un epicedio (componimento poetico funebre) per la morte del passerotto di Lesbia. Anche la morte di un animale, come molti altri, è un tema assai presente nella lirica greca, che Catullo qui riprende sia con giusta mestizia, ma anche con graziosa leggerezza. D’altra parte l’episodio funebre serve al poeta per parlare di Lesbia, qui ritratta con semplice freschezza, piena d’attenzioni per il suo passerotto ed inconsolabile quando lui non c’è più.

Ben diverso tono ha la poesia per la morte del fratello:
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Tomba romana

PER LA MORTE DEL FRATELLO
(CI)
Multas per gentes et multa per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem.
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum.
heu miser indigne frater adempte mihi,
nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, ave atque vale. 

Di gente in gente, di mare in mare ho viaggiato,  o fratello, e giungo a questa squallida tomba per consegnarti il dono supremo di morte e per parlare invano con le tue ceneri mute, poiché la sorte mi ha rapito te, proprio te, o infelice fratello precocemente strappato al mio affetto. Ed ora queste offerte, che ti porgo come comanda l’antico rito degli avi, dono dolente alla tomba, gradisci; sono madide di molto pianto fraterno; e ti saluto per sempre, o fratello, addio.

Carme famosissimo, grazie anche alla “mediazione” che Foscolo ne fece nel celeberrimo sonetto In morte del fratello Giovanni. Si tratta infatti della tomba che Catullo visitò nel 57 nel suo viaggio nella Troade al seguito del pretore Gaio Memmio. A ben guardare sin dall’inizio del carme la distanza tra la tomba e il poeta sembra presagire la stessa distanza tra la vita e la morte. La cenere è infatti muta, impenetrabile. Al poeta non rimane che, tradizionalmente, offrire riti funebri e dare un addio definitivo, rimarcando (seguendo la filosofia epicurea?) il vuoto dopo la morte.

L’amore

Ma il tema centrale, quello che, come un filo rosso percorre l’intero Liber, è il tema d’amore, rivestito con incredibile letterarietà, ma sempre con innegabile passione. Tale concetto lo si può notare nel bellissimo rifacimento che egli compì di una lirica di Saffo:

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Saffo

LA POTENZA DELL’EROS
(LI)
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
(vocis in ore),
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures, gemina et teguntur
lumina nocte.
Otium, Catulle, tibi molestum est;
otio exsultas nimiumque gestis.
Otium et reges prius et beatas
perdidit urbes

Pari a un dio mi sembra, o più ancora, se è lecito dire, chi ti siede di fronte, e ti guarda, e ascolta, ridere dolcemente, ed io, infelice, smarrisco ogni senso: al primo vederti, Lesbia, non mi resta un filo di voce, la lingua s’annoda, sotto pelle trascorre fiamma sottile, un suono dentro mi romba nelle orecchie, gli occhi si coprono di duplice notte. L’ozio, Catullo, ti fa male; in ozio t’agiti troppo, t’esalti. L’ozio ha già rovinato re e città intere.

Come già detto si tratta di una traduzione/emulazione di una lirica della poetessa Saffo, cui si allontana solo nell’ultima parte, quella dedicata alla riflessione sull’ozio. Tale carme ci offre la possibilità di ragionare sul concetto del vertere poetico, cui i neoteroi e chiaramente Catullo, danno notevolissima importanza. Qui infatti egli riprende non solo il tema ma anche la versificazione della poetessa greca, versificazione difficile e rara che egli utilizza qui, quasi questo fosse l’atto dell’innamoramento e nel testo 11 che sembra invece alludere alla fine di un amore. Tale corrispondenza non sembra casuale, come ad indicare che la scelta metrica obbedisca a momenti topici e fondamentali (il principio e la fine della sua storia d’amore).

Dopo essersene innamorato il poeta la desidera con tutta la forza, volendole dare tutti i baci possibili: 

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Auguste Rodin: Il bacio (1886)

MILLE BACI
(V)
Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.

Viviamo, mia Lesbia, e amiamoci e le chiacchiere dei vecchi brontoloni stimiamole tutte un soldo! Il sole può morire e può rinascere: ma quando per noi cade la breve luce dobbiamo dormire insieme una notte eterna. Dammi mille baci, poi cento, poi altri mille, poi un’altra volta cento, e ancora altri mille e ancora cento. Infine, quando ce ne saremo dati migliaia, li confonderemo per non sapere quanti sono, o perché nessun malvagio possa invidiarci dopo aver saputo quanti baci ci siamo dati.

Lirica quanto mai passionale: un vero e proprio invito all’amore spinge il poeta e l’amante a sfinirsi di baci; ma non è solo amore. Vi è in Catullo una sottile malinconia, che lo spinge a vivere con estrema intensità visto che al di là c’è il vuoto, come già abbiamo visto nel canto dedicato al fratello. La compulsività del numero dei baci, infatti, sembra voler nascondere la brevis lux della vita, sottolineata dall’ambiguità del dover dormire una notte eterna e che non finisce mai.

Ma come intendeva l’amore Catullo? Alla base di tutto fra i due amanti è necessario un foedus (patto) che sancisca per ambedue la fides (la fiducia) tra l’uno e l’altro:

FOEDUS ET FIDES
(LXXXVII)
Nulla potest mulier tantum se dicere amatam
vere, quantum a me Lesbia amata mea est.
Nulla fides ullo fuit umquam foedere tanta,
quanta in amore tuo ex parte reperta mea est. 

Nessuna donna può dire d’essere stata tanto amata veramente, quanto tu Lesbia sei stata amata da me. In nessun patto ci fu mai tanta fiducia che questo mio amore verso te ha rivelato.

E’ abbastanza importante l’utilizzo dei due termini sopra riportati nel riferirsi al rapporto d’amore: infatti Catullo utilizza il termine foedus che ha radice politica: esso indicava l’alleanza tra due stati; fides aveva diverse accezioni, ma veniva soprattutto usata in campo coniugale. Il fatto che il poeta veronese spostasse il campo semantico dei due termini in un rapporto erotico dal loro significato “ufficiale” tende da un lato a voler rendere ufficiale e quindi riconoscibile una vera, così come Catullo intendeva viverla, storia d’amore e dall’altra l’impossibilità di realizzarla.

Un’altra importante terminologia che Catullo ci svela sul piano della poesia erotica è quella di amare e voler bene:

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Coppia romana

AMARE ET BENE VELLE
(LXXII)
Dicebas quondam solum te nosse Catullum,
Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
multo mi tamen es vilior et levior.
«Qui potis est?», inquis, quod amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene velle minus.

Dicevi un tempo d’amare il solo Catullo, Lesbia, e che non avresti voluto amare neppure Giove al posto mio. Ti ho amato non soltanto come la gente ama un’amante, ma come un padre ama i suoi figli e i suoi generi. Ora ho capito: perché anche se brucio più intensamente, sei meno degna di stima e d’amore. «Com’è possibile?», dici. Perché un’ingiuria tale costringe un amante ad amare di più, ma a voler meno bene.

E’ un carmen dove già comincia ad apparire la disillusione catulliana. Il tradimento di Lesbia, qui adombrato, fa sì che il poeta chiarisca bene il concetto di cosa sia per lui l’amore e cosa il semplice affetto. E’ infatti utile dividere il brano in due periodi: un prima in cui Catullo ama stimando la persona umana e quindi circondarla d’affetto e chi, ferito, continui ad amare ma soltanto per soddisfare un bisogno fisico. Infatti per Catullo si brucia d’amore (uri) per possedere, ma si ama quando si vuole bene (bene velle).

La delusione e dissociazione dell’autore verso la donna cui dedica ogni attimo della sua vita, viene riassunta in modo mirabile in un distico famosissimo:

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Pittura contemporanea

ODI ET AMO
(LXXXV)
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio e amo. Forse mi chiedi come io faccia. Non lo so, ma sento che ciò accade, e ne sono tormentato.

Qui viene sintetizzato in modo mirabile il conflitto interiore, esemplificato nei due verbi odi/amo che in parte rispecchia il amare/bene velle. Ma non c’è un ripiegamento psichico, quanto una situazione fenomenica: i tradimenti di lei lo portano a odiarla e amarla.

D’altra parte ormai Lesbia si sta lasciando completamente andare:
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John Reinhard Weguelin – Lesbia

L’ESTREMA DEGRADAZIONE
(LVIII)
Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa,
illa Lesbia, quam Catullus unam
plus quam se atque suos amavit omnes,
nunc in quadriviis et angiportis
glubit magnanimi Remi nepotes.

Celio, la nostra Lesbia, la bella Lesbia. la bella Lesbia, che lei sola Catullo amò più di se stesso e tutti i suoi, ora negli incroci e nei vicoli scortica i nipoti del magnanimo Remo.

Catullo si rivolge ad un amico, (i critici azzardano forse un Celio di Verona) per riferirgli la più completa degradazione della sua donna che ormai s’accompagna nei bassifondi con un tutti gli uomini di Roma. E’ certamente una visione soggettiva dettata da forte ira, con una chiusa sarcastica che chiude in modo osceno il carme. Infatti glubo riveste qui un significato osceno di “smungere, vuotare”.

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Stefano Bakalovich: Catullo legge versi ai suoi amici

Ma anche Catullo tradisce Lesbia con altre donne e non solo, se si lascia irretire dalla greca pederastia, dedicando, con le stesse parole che usa per l’amata, più di un carme per il giovinetto Giovenzio:

VERSI PER GIOVENZIO
(XLVIII)
Mellitos oculos tuos, Iuventi,
si quis me sinat usque basiare,
usque ad milia basiem trecenta
nec numquam videar satur futurus,
non si densior aridis aristis
sit nostrae seges osculationis.

I tuoi occhi, o Giovenzio, dolci come il miele, se qualcuno mi lasciasse liberamente baciare, io li bacerei migliaia di volte, né mi parrebbe di essere mai sazio, anche se più fitta delle spighe mature fosse la messe dei miei baci.

La difficoltà di questo carme non è tanto attestare la veridicità dell’amore di Catullo per questo ragazzo, in quanto sappiamo che la pratica omosessuale da parte di questi poetae novi e della classe intellettuale era abbastanza diffusa ed accettata, quanto piuttosto se il verseggiare sopra di essa non sia una ripresa della poesia greca arcaica, cui il nostro faceva riferimento. Basti pensare che quella in cui egli comincia a provare il desiderio verso Lesbia, il carme 51, chiamato qui La potenza dell’eros, sia una ripresa piuttosto puntuale di una lirica della poetessa Saffo dedicata ad una ragazza.

Ma come proprio tale lirica, cui Catullo riprende la versificazione, aveva indicato l’inizio del suo amore, ora sarà un’altra lirica, nello stesso verso, ad indicarne la fine:
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Lawrence Alma-Tadema: Catullo da Lesbia (1865)

AMICI MIEI DITE A LESBIA…
(XI)
Furi et Aureli comites Catulli,
sive in extremos penetrabit Indos,
litus ut longe resonante Eoa
tunditur unda,
sive in Hyrcanos Arabesve molles,
seu Sagas sagittiferosve Parthos,
sive quae septemgeminus colorat
aequora Nilus,
sive trans altas gradietur Alpes,
Caesaris visens monimenta magni,
Gallicum Rhenum horribile aequor ulti-
mosque Britannos,
omnia haec, quaecumque feret voluntas
caelitum, temptare simul parati,
pauca nuntiate meae puellae
non bona dicta.
cum suis vivat valeatque moechis,
quos simul complexa tenet trecentos,
nullum amans vere, sed identidem omnium
ilia rumpens;
nec meum respectet, ut ante, amorem,
qui illius culpa cecidit velut prati
ultimi flos, praetereunte postquam
tactus aratro est.

Furio ed Aurelio, compagni di Catullo, sia se penetrerà tra gli ultimi Indi, dove il lido è battuto dall’onda orientale che risuona, sia tra gli Ircani o i lenti Arabi, sia tra i Saghi o i Parti armati di frecce, sia tra le acque che colora il Nilo dalle sette foci, sia se entrerà tra le alti Alpi, visitando le opere del grande Cesare, il gallico Reno, il mare orrendo e gli ultimi Britanni, tutte queste realtà, qualunque volontà dei celesti deciderà, pronti ad affrontarle insieme, annunciate alla mia ragazza poche parole non buone. Viva e goda coi suoi ganzi: ne tiene trecento insieme abbracciandoli, non amandone nessuno veramente, ma ugualmente rompendo i fianchi di tutti; e non aspetti, come prima, il mio amore, che per sua colpa è caduto come un fiore dell’ultimo prato, dopo esser stato tranciato da un aratro che passava.

Il carme indica l’estrema amarezza con cui Catullo sembrerebbe chiudere la storia (o un momento di essa). Un viaggio lontano, per andare via, verso luoghi favolosi; tutto questo per dimenticarla e allontanare da sé quest’amore che non ha fatto altro che spezzargli il cuore.

A tale allontanamento, forse definitivo, si avvicina uno dei testi più elaborati, ma certamente tra i più belli, in cui, cessata la rabbia, nasce quasi la consapevolezza della fine di una storia: non occorre più adirarsi verso colei che gli ha occupato la mente in modo totale, ma trovare la pace con se stesso.

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Immagine di Catullo

PREGHIERA AGLI DEI
(LXXVI)
Siqua recordanti benefacta priora voluptas
est homini, cum se cogitat esse pium,
nec sanctam violasse fidem, nec foedere nullo
divum ad fallendos numine abusum homines,
multa parata manent in longa aetate, Catulle,
ex hoc ingrato gaudia amore tibi.
Nam quaecumque homines bene cuiquam aut dicere possunt
aut facere, haec a te dictaque factaque sunt:
omnia quae ingratae perierunt credita menti.
Quare cur te iam amplius excrucies?
Quin tu animo offirmas atque istinc teque reducis,
et deis invitis desinis esse miser?
Difficile est longum subito deponere amorem;
difficile est, verum hoc qua lubet efficias.
Una salus haec est, hoc est tibi pervincendum;
hoc facias, sive id non pote sive pote.
O di, si vestrum est misereri, aut si quibus umquam
extremam iam ipsa in morte tulistis opem,
me miserum aspicite et, si vitam puriter egi,
eripite hanc pestem perniciemque mihi,
quae mihi subrepens imos ut torpor in artus
expulit ex omni pectore laetitias.
Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa,
aut (quod non potis est) esse pudica velit;
ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum.
O di, reddite mi hoc pro pietate mea.

Se il ricordo del bene compiuto in passato dà piacere al pensiero d’essere stati giusti, di non avere mai tradito e offeso il nome degli dei per ingannare l’uomo, mai in nessun rapporto, molte gioie t’aspettano, e per molti anni, o Catullo, per questo amore senza gratitudine. Perché quanto gli uomini possono ad una persona dire o fare di bene tu l’hai detto e l’hai fatto. Tutto è morto, donato a uno spirito ingrato. Perché allora continui a torturarti? Perché non ti fai forte e ti stacchi da questo, ritorni, senza essere più infelice, se gli Dei non lo vogliono? È difficile, a un tratto, un lungo amore, lasciarlo. È difficile, sì, ma devi farlo. E come vuoi tu. È la sola salvezza. E tu devi vincere, devi. Cerca di farlo, se puoi, e anche se non puoi. O Dei, se è qualità divina avere pietà, se mai soccorreste qualcuno sulla terra nell’ora della morte guardatemi. Io sono infelice. E se la mia vita fu pura, strappate questa malattia mortale, che penetra nelle fibre acuta come un torpore e mi toglie dal cuore tutto il gusto di vivere. Non chiedo, no, che lei mi possa riamare, e che diventi pura, perché non è capace: io ho voglia di star bene, guarire dal mio tetro male.Concedetemi questo, Dei, per la mia fede.

Tale carme rispecchia il tormento interiore del poeta, tormento, tuttavia, di cui è oggetto e non soggetto. Egli elaborando la sua storia d’amore, ricorda la fides ed il foedus con cui l’ha condotta; poi, nella seconda parte del carme, sottolinea la difficoltà di liberarsi dal sentimento, perché non sa come fare ed infine chiude con l’invocazione agli dei affinché lo liberino dal tormento e lo conducano alla serenità.

Certo, una poesia sul discidium come questa non poteva essere che avere Catullo protagonista: lui ha conservato l’amore, lui ha procurato quindi del bene a lei, è lei l’ingrata che lo ha lasciato. Ma ora basta. Solo una cosa è rimasta da chiedere, da volere, e non la chiede a lei, sorda ad ogni atto che lui le ha dato, ma agli dei: che lo liberino, una volta per tutte da questo taetrum morbum, reddite pacem misero Catullo.

 

 

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