AULO PERSIO FLACCO

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Aulo Persio Flacco

Come un gran numero di autori latini, anche le notizie su questo giovane scrittore sono poche e provengono quasi tutte da Marco Valerio Probo che, sempre in età neroniana, ci lasciò una sua biografia. Da tali notizie sappiamo che nacque nel 34 d.C. a Volterra da un’importante famiglia etrusca d’origine equestre e che a dodici anni si trasferì a Roma, dove fu seguito da importanti maestri, tra i quali troviamo quel famoso Anneo Cornuto, di cui divenne un fidato amico e che gli permise di conoscere Seneca e di diventare sodale con il più o meno coetaneo Lucano. L’immagine che si tramanda di lui è quella di un ragazzo ombroso, poco sociale, integerrimo nel seguire i precetti stoici che l’amico Cornuto gli trasmetteva. Ma ci dice anche di una sua precocissima capacità intellettiva, grazie anche alla sua grande biblioteca, che gli permise di scrivere una praetexta, un libro di viaggi, una biografia di una donna che seguiva il marito nella scelta del suicidio per la libertà, ma soprattutto delle Satire. Come il suo amico Lucano anch’egli non fece in tempo a godere del successo, ma fu questa volta la natura ad opporsi al suo affermarsi quand’era in vita: lo stroncò una malattia di stomaco ad appena 28 anni. Lasciò la sua ricca biblioteca a Cornuto e nessun testo pubblicato. A scegliere, pertanto, ciò che poteva esser letto del lavoro di Persio fu l’amico Cesio Basso e Cornuto stesso, che non fecero pubblicare nulla che apparisse troppo acerbo o che potesse diventare pericoloso per i parenti del poeta. Lasciò solo che venissero rese pubbliche le satire, dopo avervi apportato “necessarie” modifiche. Il successo del libro, una volta che fu in circolazione, fu enorme ed il nome di Persio s’impose come grande poeta.

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Vecchissima edizione delle Satire pubblicata ad Amsterdam nel 1650

Satire 

Il libro delle Satire è composto da sei componenti in esametri (verso ormai canonico per tale genere) a cui si aggiunge, all’inizio o alla fine, a seconda del manoscritto pervenutoci, un breve componimento in coliambi (verso dell’invettiva) in cui rivendica il suo essere semipaganus (rustico) e di lasciare l’alta poesia ai sommi poeti o a chi s’illude di saperli imitare.

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Joos de Momper: Minerva visita le Muse nel Monte di Elicona

COLIAMBO

Nec fonte labra prolui caballino
nec in bicipiti somniasse Parnaso
memini, ut repente sic poëta prodirem.
Heliconidasque pallidam Pirenem
illis remitto, quorum imagines lambunt
hederae sequaces: ipse semipaganus
ad sacra vatum carmen adfero nostrum.
Quis expedivit psittaco suum chaere
picamque docuit verba nostra conari?
Magister artis ingenique largitor
Venter, negatas artifex sequi voces.
Quod si dolosi spes refulserit nummi,
corvos poëtas et poëtridas picas
cantare credas Pegaseium nectar.

Non ho bagnato le labbra sulla fonte del cavallino / né ricordo di aver sognato sulla duplice cima del Parnaso, / per diventare così immediatamente un poeta. / Le Muse abitatrici dell’Elicona e la pallida Pirene / lascio a quelli le cui immagini ricoprono / l’edere rampicanti: io stesso semirustico / porto il nostro canto ai sacri riti dei vati. / Chi ha suggerito al pappagallo il suo “Salve!” / e ha insegnato alla gazza a ripetere le nostre parole? / Maestro delle arti e donatore d’ingegno, / il ventre, artefice nell’imitare le voci negate (dalla natura). / Ma se risplenderà la speranza dell’ingannatore denaro, / tu crederai che i corvi poeti / e le gazze poetesse cantino il nettare di Pegaso.

Per la natura di questi versi, ci piace immaginare che questi 14 coliambi fossero più introduttivi che finali. Infatti qui il poeta si scaglia contro la poesia dei suoi tempi, ritenuta ampollosa e vuota e afferma con forza il fatto di non essersi imbevuto nelle fonti care alle Muse. Ma cominciamo, attraverso lo stile, a capire come egli intenda attaccare i “vizi” dei suoi contemporanei, con acrimonia, piuttosto che “simpatica ironia” com’era in Orazio. Si veda a tal proposito l’insistenza con cui paragona gli animali il cui suono risulta o ripetitivo o estremamente rauco (pappagalli, gazze, corvi). Capiamo già da questa piccola introduzione, come in Persio non ci sia condivisione e sorriso tra amici, ma la voce arcigna e un po’ pedante di un maestro che, infarcito di sapienza stoica, riprende e irride ai poeti suoi contemporanei.

Quindi inizia il vero e proprio testo con la prima satira, in cui si scaglia contro la mediocrità della poesia contemporanea che non sa mordere, fustigare, come dovrebbe, i vizi della gente di Roma.

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Maschera di un satiro

LA SATIRA NON VA DI MODA
(I, vv. 1-12)

O curas hominum! O quantum est in rebus inane!
“Quis leget haec?” min tu istud ais? Nemo hercule.
Vel duo vel nemo. “Turpe et miserabile!” quare?
Ne mihi Polydamas et Troiades Labeonem
praetulerint? Nugae! Non, si quid turbida Roma
elevet, accedas examenve inprobum in illa
castiges trutina nec te quaesiveris extra.
Nam Romae quis non – a, si fas dicere – sed fas
tum cum ad canitiem et nostrum istud vivere triste
aspexi ac nucibus facimus quaecumque relictis,
cum sapimus patruos, tunc tunc ignoscite… nolo…
quid faciam? Sed sum petulanti splene: cachinno.

O cure degli uomini! O quanto vuoto c’è nelle cose! / “Chi leggerà queste cose?” Tu dici questo a me? Nessuno, per Ercole. / O due o nessuno. “Vergognoso e miserabile” Perché? / Che le Polidemanti e le Troiane preferiscano a me Labeone? / Sciocchezze! Non, se la torbida Roma (ti) screditi / qualcosa, non avvicinarti né correggi lo storto ago / in quella bilancia né cerca te fuori (di te). / Infatti a Roma chi non – ah, se fosse lecito parlare – ma è lecito… / Allora quando ho rivolto lo sguardo alla canizie / e a quel nostro vivere triste e, lasciato il gioco con le noci / facciamo qualcosa, quando abbiamo l’aria di zii, / allora allora vogliatemi scusare… non voglio… / che farò? Ma sono con la milza indolente: rido smoderatamente.

L’inizio della I satira si struttura con un dialogo tra il poeta e un personaggio fittizio, a cui il nostro rivendica la sua libertà di poter ridere, appunto smoderatamente, contro le storture della società. Ed è qui che, tuttavia si segna la differenza con quelli che, sempre nella stessa satira, definisce i suoi maestri:

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Gli strumenti per scrivere nell’antichità

I MODELLI: LUCILIO ED ORAZIO
(I, vv. 114-123)

(…) Secuit Lucilius urbem,
te Lupe, te Muci, et genuinum fregit in illis;
omne vafer vitium ridenti Flaccus amico
tangit et admissus circum praecordia ludit
callidus excusso populum suspendere naso;
me muttire nefas? nec clam? nec cum scrobe? nusquam?
hic tamen infodiam. Vidi, vidi ipse, libelle:
auriculas asini quis non habet? (…)

(…) Lucilio fustigò a sangue la città, / colpì te, o Lupo, te o Mucio, fino a ficcare in loro un dente; / Flacco punge scaltro ogni vizio all’amico, facendolo ridere / e ammesso nel suo cuore, gioca / furbo e appende il popolo sul (suo) naso pulito. / Ed io è necessario che zittisca? Neppure di nascosto? Neanche in una buca? Sempre? / Allora lo sotterrerò. Lo visto, io stesso lo visto, il mio libretto: / chi non ha le orecchie d’asino?

E’ palese qui il richiamo verso i suoi predecessori: l’inventore del genere, Lucilio, e colui che portò lo stesso all’apogeo, facendolo diventare un classico, Orazio Flacco. Infatti qui appaiono i veri temi dei due verso cui egli si rivolge: la mordacità di Lucilio e alcuni modelli strutturali e stilistici di Orazio. Ma, bisogna pur notare come egli, molto più dei suoi predecessori, sia infarcito di filosofia stoica che lo porta verso un rigorismo moralistico che appartiene solo a lui. Attenzione all’ultimo verso: sembra che il testo “originale” di Persio recitasse auriculas asini Mida rex non habet? Ma l’illusione troppo diretta a Nerone nella figura di re Mida sconsigliò l’editore a pubblicarla e fu così emendata.

Nella II satira, scritta sotto forma di epistola, il nostro attacca coloro che pregano gli dei in modo interessato. Infatti non viene ascoltato chi prega davanti a una culla affinché il fanciullo diventi ricco e potente, al contrario di chi si pone di fronte al dio in modo puro e sincero. Si veda, in questi pochi versi, come prenda in giro la richiesta a gran voce della salute e preghi disgrazie per averne vantaggi:

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Mosaico pompeiano raffigurante la Morte

PREGHIERA
(II, 8-14)

“Mens bona, fama, fides”, haec clare et ut adiat hospes;
illa sibi introrsum et sub lingua murmurat: “O si
ebulliat patruus, praeclarum funus!” et “O si
sub rastro crepet argenti mihi seria dextro
Hercule; pupillumve utinam, quem proximus heres
inpello, expungam: nam et est scabiosus et acri
bile timet; Nerio iam tertia conditur uxor”.

“Mente sana, fama, credito”: ben chiaro e che si senta; / ma dentro di sé e tra i denti mormora: “ Oh, se morisse lo zio, che splendido funerale!” e “Oh, se / sotto la zappa risuonasse un forziere d’argento, con il favore / di Ercole; o potessi cancellare il mio pupillo, che incalzo / come prossimo erede: infatti è pieno di scabbia ed è gonfio / di bile nera; a Nerio è già morta la terza moglie”.

Famosa la terza satira perché sembra abbia ispirato l’attacco di Parini al “giovin signore”: infatti anche qui si prende di mira un indolente che conduce vita dissipata per indurlo a intraprendere il cammino della retta via, attraverso la virtù stoica.

CONSIGLI STOICI
(III, 66-72)

Discite, o miseri, causas cognoscite rerum:
quid sumus et quidnam victuri gignimur, ordo
quis datus, aut metae qua mollis flexus et unde,
quis modus argento, quid fas optare, quid asper
utile nummus habet, patriae carisque propinquis
quantum elargiri deceat, quem te deus esse
iussit et humana qua parte locatus es in re.

Imparate, o dissennati, a conoscere le ragioni delle cose; / ciò che siamo, per quale vita nasciamo, il luogo / assegnato, come e da dove aggirare lievemente la méta, / la misura delle ricchezze, ciò cui è lecito aspirare, l’utilità / della ruvida moneta serbata, quanto convenga donare / alla patria e ai cari congiunti, chi volle dio che tu fossi, / e quale il ruolo a te assegnato nella condizione umana.

E’ questa la dimostrazione di come qui il giovane Persio stia lontano dal sorriso indulgente oraziano e, perché no?, dal suo modo di proporsi, che fa dire allo stesso d’esser parte del gregge epicureo, contro la virtus stoica che qui si erge ad insegnare il modus vivendi del saggio. Possiamo anche notare come, pur con tutte le notazioni senecane e, quindi, del suo amico Cornuto, egli non riesca a condividerle, a sorridere insegnando, ma ad impartire una lezione morale verso chi, ingiustamente, si gode la vita.

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Nosce te ipsum in greco

Nella IV satira egli sottolinea l’importanza del “nosce te ipsum” conosci te stesso, per chi voglia interessarsi di politica e impartire, così, direttive etiche per gli altri (direttive molto simili a quelle poste al “giovin signore”).

Altro tenore hanno le ultime due Satire: la V rivolta a Cornuto, svolge il tema della libertà stoica, contrapponendola ai vizi umani; la VI, invece, dedicata a Cesio Basso, deplora il vizio dell’avarizia mostrando l’uso giusto dei beni posseduti.

Già in questi ultimi esempi possiamo dire come, all’interno della Satira di Persio, si segni una leggera evoluzione. Partito con un forte spirito polemico, che lo avvicina più alla diatriba che allo stoicismo senecano, egli pare guidato dall’ira, dall’incapacità di credere che ci fosse qualcuno incapace di rispettare la virtus, come se ciò fosse naturale e quindi per lui incomprensibile, in quanto “proprio” contro natura. Ma è proprio nelle ultime satire che invece non si pone più come colui che, raggiunta la saggezza può porsi al di sopra degli altri ma, posto allo stesso livello dei suoi maestri/amici Cornuto e Cesio Basso, possa egli stesso mettersi alla ricerca della libertà stoica.

Stile

E’ evidente che tale carica critica e moralista ad un tempo, così come s’allontana dal sorriso oraziano, s’allontana dallo stile del maestro di Venosa: Orazio, infatti, critica in Lucilio proprio lo stile “fangoso”, per così dire non fluido, spezzettato, e ricerca invece l’eleganza, l’armonia, avvenga pur essa con la mirabile mescolanza tra sermo cotidianus e sermo elegans. Egli utilizza infatti la callida iunctura, cioè l’ardito accostamento delle parole, dando ad esse un nuovo significato, lasciando, così, sorpreso il lettore. Persio, invece, insegue la acris iunctura, cioè il difficile ed aspro accostamento di parole, affinché il lettore non sia più soltanto sorpreso, ma, anche e soprattutto sferzato da esse e costretto, pertanto, a trarne un insegnamento morale. Per questo il suo stile riesce spesso “difficile”; è d’altra parte volontaristico il fatto che Persio oggettivizzi il suo moralismo nello stile: ad una realtà caotica, che ha perduto i valori e non sa seguire la virtus, segue uno stile altrettanto “irato” che, per questo, non può essere certo ironico.

GIOVANNI PASCOLI

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Giovanni Pascoli

Se il Decadentismo e il Simbolismo sono per D’Annunzio un evento letterario cui rifarsi in modo, tutto sommato, esteriore, diventando così mediatore culturale delle più recenti esperienze europee, in Giovanni Pascoli la nuova sensibilità viene percepita in modo più interiore, come forma di una risposta necessaria alla complessa psicologia del nostro autore. Sarà la vita stessa a far sì che il suo mondo, così problematico e messo a dura prova da tragici avvenimenti, veda nel nuovo atteggiamento con cui gli intellettuali (soprattutto francesi) percepiscono il reale, la soluzione più adatta per affrontare/non affrontare (a volte a livello conscio altre inconscio) la difficile situazione biografica del nostro e a fare della sua poesia uno dei vertici più alti della letteratura decadente e simbolista in Italia.

Nato a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli, in suo onore) nel 1855, quarto di dieci figli, Pascoli vive una giovinezza piuttosto felice, frutto anche di una certa agiatezza familiare. Sin da giovane mostra le sue eccezionali capacità: infatti a sette anni viene mandato in un prestigioso collegio d’Urbino dove si distingue nell’apprendimento delle lingue classiche. Ma un tragico avvenimento segna, definitivamente, la sua adolescenza: il 10 agosto del 1867 il padre, Ruggero, amministratore dei principi Torlonia, viene assassinato, ma nessuno saprà mai né l’autore né il movente di tale omicidio. L’anno seguente la sorella maggiore, Margherita, muore di tifo, seguita, dopo pochi giorni, dalla morte della madre.

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Villa Torlonia, dove lavorava Ruggero Pascoli

I fratelli, rotto definitivamente il nucleo familiare si disperdono tra il collegio di Urbino, scuole tecniche e casa della zia, mentre le due più piccole, Ida e Maria, verranno mandate come educande in un convento. Alla morte di un altro fratello, Luigi, per meningite, il fratello più grande, Giacomo, deve assumere il comando della rimanente famiglia, fattasi improvvisamente povera, richiama tutti i fratelli e lascia il solo Giovanni, viste le sua capacità, a proseguire gli studi liceali.

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Papà Ruggero con i figli 

Nel 1873 Pascoli ottiene una borsa di studio che gli permette di iscriversi all’Università di Bologna, dove diventa allievo di Giosue Carducci. Nel 1875 gli viene revocata la borsa di studio per aver partecipato ad una dimostrazione contro il Ministro della Pubblica Istruzione. Nel 1876 perde anche il fratello Giacomo: il senso di frustrazione lo fa entrare in contatto con i circoli socialisti guidati da Andrea Costa e a causa di un volantinaggio viene arrestato e rimane in prigione per tre mesi, siamo nel 1879.

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Pascoli giovane: problemi giudiziari

Uscito di prigione Giovanni entra in depressione: lascia la politica e, grazie a Carducci, riesce a laurearsi in lettere nel 1882.

Diventa insegnante di latino e greco presso un liceo di Matera, poi verrà trasferito dapprima a Massa, poi a Livorno. Qui si riunisce con le sorelle Ida e Maria. Il matrimonio di Ida provoca in lui un forte turbamento e stabilisce un forte legame affettivo con Mariù (così come la chiama lui), che rinuncerà a sposarsi e diverrà la curatrice di tutte le opere pascoliane.

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Pascoli tra Ida e Maria

Comincia a pubblicare varie raccolte poetiche: del 1891 è Myricae, apprezzate da D’Annunzio. L’anno seguente vince la medaglia d’oro al concorso internazionale di poesia latina (prima di tredici).

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La Barga di Giovanni Pascoli nella pittura di Umberto Vittorini

Nel 1895 si trasferisce insieme alla sorella Maria a Castelvecchio di Barga, in Toscana, e viene chiamato come docente ordinario di grammatica latina e greca presso l’università di Bologna. Dopo due anni viene trasferito a Messina come docente di letteratura latina e dà inizio alla sua carriera di critico letterario, soprattutto della poesia dantesca (Minerva oscura, Sotto il velame, La mirabile visione).

E’ il 1903 quando viene trasferito a Pisa, quindi l’anno successivo a Bologna, dove prende il posto, come docente di Letteratura italiana di Giosue Carducci. Sono anni cosiddetti ufficiali dove il nostro, pur lontano dalla sua sensibilità, si dedica alla poesia civile.

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Giovanni Pascoli con la sorella Maria

All’entrata della guerra in Libia del 1911 Pascoli pronuncia il discorso, tra nazionalismo e umanitarismo La grande proletaria si è mossa, convinto della necessità del colonialismo per risolvere il problema dell’occupazione dei lavoratori italiani.

Muore nel 1912, stanco e debilitato per una cirrosi epatica complicata da un cancro allo stomaco. La sorella Maria curerà la pubblicazione delle ultime poesie e dell’intera produzione latina del fratello.

L’uomo

Prima di affrontare un discorso sulla sua poesia ci sembra opportuno, alla luce proprio dei risultati poetici del nostro, così intrisi di un autobiografismo consapevole o inconsapevole, affrontare un po’ la personalità e quindi la psicologia dell’autore romagnolo. Così lo descrive Elio Gioanola, critico psicoanalitico, nella sua storia letteraria (1987): “Corpulento, sedentario, trasandato, di carattere astioso e piuttosto gretto, avaro per paura della fame patita in gioventù, il Pascoli presenta l’immagine di chi si fa solitario e misantropo per paura della vita, chiudendosi nel giro brevissimo dei luoghi di lavoro e soprattutto della casa, unico spazio di sicurezza entro il cerchio degli affetti domestici offerti dalla famiglia d’origine: anche l’amore rimase lontano dalla vita di Giovannino, che finì per riversare tutta la tenerezza sulla sorella Mariù, la corrispondenza con la quale ha le caratteristiche di quella di un fidanzato, mentre la sua vita reale era chiusa in una castità forzosa, causa di rimpianti, curiosità ed ansie. «Ho vissuto senza amore», scrive alle sorelle, «non per incapacità d’amare ma perché mi dovevo dedicare solo a voi»: e poi, compiangendo la propria condizione: «sarà nevrastenia, sarà autosuggestione, sarà effetto della mia vita forzatamente casta e orribilmente mesta, ma io passo certe ore, meglio certi giorni, in cui mi pare di dover morire». Il blocco affettivo alla famiglia originaria, padre, madre, fratelli e sorelle, vivi e morti, pare la caratteristica più vistosa della condizione esistenziale del poeta, causa di profonda sofferenza psicologica e principio ispiratore di tanta materia poetica, la più importante dell’opera”. 

Lette queste pagine illuminanti possiamo meglio spiegare non solo gran parte del suo itinerario poetico, a partire da Il fanciullino, ma render maggiormente chiaro il senso con cui abbiamo aperto il discorso sul Pascoli. La sua poesia è interiore perché nasce da un groviglio interno determinato dalla morte improvvisa del padre (di cui non si saprà né l’assassino né il motivo) e quindi a seguire quella della madre e dei fratelli e dal suo tentativo di ricostruire la “famiglia” disgregata in una nuova unità, dapprima con le due sorelle, poi, sposata Ida, con la sola Mariù.

Psicologicamente parlando è come se la crescita fosse rimasta bloccata all’età adolescenziale: niente sesso, nessun futuro, nessuna prospettiva; al contrario un “amore” quasi incestuoso, il rifiuto verso la modernità, il culto per i morti e, quindi, per il latino, la lingua morta dei nostri padri.

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L’opera

Le raccolte poetiche pascoliane sono Myricae, Primi poemetti, Nuovi poemetti, Poemi conviviali, Canti di Castelvecchio, Odi e Inni. Tutte queste opere vengono alla luce tra il 1903 ed il 1909 e rispondono ad un unico progetto deducibile da un verso del poeta latino Virgilio: paulo maiora canamus. Non omnes arbusta iuvant humilesque myricae (Cantiamo cose un po’ più grandi. Non a tutti piacciono gli arboscelli e le umili tamerici).

Infatti Myricae e i Canti di Castelvecchio recano come motto, all’inizio del libro: Arbusta iuvant humilesque myricae (Piacciono gli arboscelli e le umili tamerici) ad indicare che i temi trattati riguarderanno le piccole cose, la vita di campagna, il mondo dei semplici contadini; il motto di Primi e Nuovi Poemetti è Paulo maiora (Cose un po’ più grandi) ad indicare che le poesie racconteranno temi di maggior ampiezza ed interesse sociale; ancora, il motto di Odi e Inni è Canamus (Cantiamo), che dice che le poesie di questa raccolta saranno presenti temi in cui il poeta vuole farsi interprete della realtà sociale in movimento con la volontà di “cambiare il mondo”; mentre il motto dei Poemi conviviali (Non omnes arbusta iuvant: non a tutti piacciono gli arboscelli) sta ad indicare il registro alto e classicheggiante delle poesie contenute in essi.

Tuttavia per comprendere nel modo migliore la poesia pascoliana dobbiamo partire da un piccolo saggio, da lui composto nel 1897, intitolato Il fanciullino in cui vengono esposte le sue idee sul fare e sul significato della poesia.

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Giacomo e Giovanni bambini

IL FANCIULLINO

Il piccolo saggio con cui Pascoli descrive la sua poetica è del 1897, pubblicato sulla rivista Il Marzocco (rivista letteraria – il cui nome venne scelto da D’Annunzio – di tendenze estetizzanti e simboliste, che accolse e difese l’opera pascoliana):

E’ dentro di noi un fanciullino che non solo ha brividi, (…) ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello.
(…)
In alcuni non pare che egli sia; alcuni non credono che sia in loro; e forse è apparenza o credenza falsa. Forse gli uomini s’aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni o operazioni; e perché non le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, e facendone due cose egualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso come sorella (oh! il bisbiglio di due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna.
(…)
E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza di lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola. E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta.
(…)
Il poeta, se è e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce perciò ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano. Quindi la credenza e il fatto, che il suon della cetra adunasse le pietre a far le mura delle città, e animasse le piante e ammansasse le fiere della selva primordiale; e che i cantori guidassero e educassero i popoli. Le pietre, le piante, le fiere, i popoli primi, seguivano la voce dell’eterno fanciullo, d’un dio giovinetto, del più piccolo e tenero che fosse nella tribù d’uomini selvatici.

Cominciamo dal titolo: il fanciullino. L’uso del diminutivo richiama l’idea del piccolo e della dimensione infantile, per meglio dire quella realtà in cui la razionalità – la consapevolezza conoscitiva – non è ancora apparsa (chiaro l’aspetto anti-positivista) 

Inoltre in questi passi (che potremo considerarli piuttosto esaustivi per la conoscenza della poetica pascoliana) quello che immediatamente appare è il legame che il Pascoli attua con la contemporanea poesia simbolista: il poeta non è quello che spiega la realtà ma la guarda meravigliato, come un fanciullo, cercando in essa le relazioni e dando ad essa parole che solo chi è guidato dallo stupore sa trovare. In questo atteggiamento è evidente che l’opposizione fanciullo/adulto nasconda un atto regressivo, ma nel contempo capace di cogliere la “naturalità delle forme”, attraverso una scoperta capace di suscitare meraviglia, come se si vedesse per la prima volta (come un fanciullo, appunto) e quindi non più di decifrarla attraverso la scienza positivistica capace d’annullare, appunto lo stupore infantile.

Il poeta-fanciullo inoltre dà il nome alle cose, come novello Adamo. Fuor di metafora egli toglie alle cose quel senso d’abitudinario che il loro nome d’uso esclude dalla poesia per farle rientrare grazie alla scoperta che l’essere prerazionale sa fare di esse (democrazia lessicale e di ciò che è poetabile).

Inoltre questo atteggiamento “fanciullesco” del poeta porta la poesia ad avere un ruolo sociale, in quanto essa è destinata ad insegnare la bontà e la fratellanza, di contro le guerre del mondo adulto.

Non manca, in questa pagina, un’altra caratteristica, questa volta psichica, fondamentale per la comprensione del simbolismo pascoliano: il tabù sessuale, segnato da quel Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso come sorella (oh! il bisbiglio di due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna.

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Copia autografa di Myricae del 1894

Myricae

La prima raccolta pascoliana, dedicata al padre, è Myricae iniziata sin dal 1890 ma la cui edizione che potremo definire già definitiva, che data 1900 e con leggeri aggiustamenti 1911, è composta da 156 liriche. Il  titolo deriva dal nome latino delle tamerici e proviene da un verso delle Bucoliche virgiliane arbusta iuvant humilesque myricae (a noi piacciono gli arbusti e le umili tamerici). Esse sono legate da diversi nuclei tematici tra cui ricordiamo quelli che riguardano la descrizione naturale (l’alba ed il tramonto, la campagna) e quelli personali (ricordi, pene e gioie del poeta). Pur essendo la prima raccolta pascoliana, troviamo in essa le principali caratteristiche della sua poesia, che oltre che contenutistiche sono soprattutto formali. Ricordiamo:

  1. varietà di metri (tra cui il novenario, poco usato nella poesia italiana);
  2. linguaggio grammaticale e pregrammaticale (Contini), cioè un linguaggio aderente alle cose (da qui la precisione lessicale con cui nomina piante ed uccelli) ed un linguaggio evocativo fatto di onomatopee, richiami analogici, ardite sinestesie (fonosimbolismo).   

Per i temi ricordiamo:

  1. il tema del nido, da cui deriva la dialettica tra il chiuso e l’aperto, il dentro e fuori: il primo membro a determinare l’idea della sicurezza, l’altro la paura, l’angoscia e la morte;
  2. il tema della natura cantata evocativamente come luogo di solitudine ed indeterminatezza (l’idea della nebbia che scolora e, coprendole, rende le cose indeterminate) o gli uccelli, cantori che mettono in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti

Quello detto si può evincere da una serie di testi. Cominciamo dalla poesia Arano:

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Foto Orlandini e Figli, fine Ottocento inizio Novecento

ARANO

Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,

arano: a lente grida, uno le lente

vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra pazïente;

ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s’ode
il suo sottil tintinno come d’oro.

E’ un madrigale, composto da due terzine ed una quartina in versi endecasillabi. Questo semplice testo ci pone di fronte ad un bozzetto descritto in maniera impressionistica, che richiamerebbe la visione positivistica della realtà: tuttavia già dalla prima strofa a dominare la scena vi è un antitesi, il pampano rosso che brilla e la nebbia che fuma, il primo che emerge, la seconda che nasconde; in questa dicotomia visiva si staglia il verso della seconda terzina in posizione forte arano che fa entrare il lato umano: l’enjambement di entrambi i versi ci dice la lentezza del loro operare, con l’ipallage del paziente; la terza strofa cambia di prospettiva: è il passero che riesce a cogliere il mistero (non per lui) del paesaggio ed il pettirosso con l’onomatopea (tintinno) e la sinestesia (suono / color oro) chiude la poesia con un colorismo che la riporta alla prima strofe.

E’ una poesia simbolista dove Pascoli sembra suggerirci che le cose si richiamino tra loro, i colori i gesti, in un rapporto misterioso che solo la natura stessa dall’interno può cogliere.

Lo stesso accade in un’altra celeberrima poesia, Lavandare:
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Lavandaie in una vecchia fotografia

LAVANDARE

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggiero.

E cadenzato dalla gora viene

lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.

Un altro madrigale e anche in questo, come nel precedente, il tutto sembra sfumato dalla nebbia. Ma a be guardare la vera protagonista è l’assenza: nella prima strofe il campo è mezzo grigio e mezzo nero (metà arata e metà no, assenza di un compiuto lavoro), un aratro solo, lasciato in mezzo alla nebbia; il suono delle lavandare (non la visione) arriva dal canale, per finire con due detti popolari, dove si sottolinea la partenza, l’assenza. Al di là delle soluzioni formali come la coraggiose onomatopee di sciabordare e di tonfi quello che si può leggere è la frattura tra interno ed esterno. L’assenza indica infatti un andar via, fuori, ribadito dall’ultima strofe e questo causa dolore, sofferenza per chi resta, l’aratro senza buoi, le voci delle donne senza donne e da cui il poeta è escluso. Emerge di già la paura per ciò che sta al di là del “nido”

Significativa per i temi che presenta e per le soluzioni formali che adotta è L’assiuolo:

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Assiuolo (Otus Scopus)

L’ASSIUOLO

Dov’era la luna? chè il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte…
chiù

Anche ne L’assiuolo ritroviamo i temi già presenti nelle precedenti poesie: la nebbia, un uccello, le piante, a cui s’aggiunge un richiamo temporale che sembra rifarsi a Leopardi (Dov’era la luna?). Nel testo emerge, nella prima stanza, un’opposizione tra il vicino ed il lontano, il finito e l’indefinito: il biancheggiare della luna, in primo piano il mandorlo ed il melo, di spalle i lampi…; dal descrittivo all’io poeta che entra in primo piano nella seconda strofa con l’anafora dei versi centrali (Sentivo), il cullare ed il fruscio sempre legati alla strofa precedente. Quindi un richiamo di dolore, che nasce proprio dal rumore marino (si noti il verbo che l’accompagna che rimanda asd un gesto d’affetto materno) ed il frusciare che diventa puro suono, mentre nel cielo le stelle brillavano rare, testimoni silenziose.  Lo svelamento nella terza: il richiamo al culto di Iside per la resurrezione ci illustra come l’intera lirica giri intorno alla morte. La conferma ci viene dal climax ascendente dal suono onomatopeico del verso dell’assiuolo (uccello notturno): voce, singulto, pianto di morte.
Per Pascoli gli uccelli rappresentano simbolicamente un elemento di contatto tra il mondo dei morti e quello dei vivi; in questo caso il canto non fa che richiamare un’idea di morte che permea di sé l’intera esistenza.

Più indicative sul simbolismo pascoliano ci sono sembrate Temporale e Lampo:

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TEMPORALE

Un bubbolìo lontano…

Rosseggia l’orizzonte,

come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:

tra il nero un casolare:

un’ala di gabbiano.

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LAMPO

E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.

In ambedue la descrizione degli eventi metereologici.

Nella prima la descrizione è nel verso isolato uditiva, per poi diventare coloristica: il cielo rosso, infuocato, il nero che preannuncia il temporale, le macchie più chiare delle nuvole. Quindi quando il cielo annerisce appare una casa, che in un processo analogico richiama l’ala di un gabbiano; sembra quasi che la poesia si chiuda positivamente con l’immagine di un nido capace di resistere, con l’idea di un’ala che rimanda al volo, al contatto col padre ormai morto.

La seconda sottolinea invece sin da subito un senso d’ansietà: com’erano il cielo e la terra? La personificazione che ne fa nei due versi successivi non chiarisce, umanizza (ansia, sussulto, tragico). Ancora una casa, ma l’analogia questa volta è con un occhio, che si apre e si richiude subito. La casa non è più in rifugio, il male del mondo la circonda in un eterno silenzio di morte.

In X Agosto, invece, il simbolismo si fa chiaro, luminoso, senza bisogno di ricorrere ad interpretazioni, tanto da risultare un po’ troppo scoperto: è forse un simbolismo ragionato e per questo forse meno inquietante, seppure i rimandi nella poesia seguente siano comunque “forti”:

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X AGOSTO

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende

quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli occhi aperti un grido:
portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei monti
sereno, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!

E’ infatti evidente il parallelismo tra la rondine e il padre, così come quello tra il nido e la casa. La poesia infatti si apre con la consapevolezza del poeta che “sa” il motivo delle stelle cadenti. Nella seconda e terza la protagonista è la rondine che porta il cibo ai suoi rondinini, ma viene uccisa lasciandoli pigolare. Terza e quarta descrivono simmetricamente un uomo, stesso gesto, con l’immagine di una morte non descritta, e le ragazze che lo aspettano. La quarta chiude ricollegandosi alla prima, il cielo piange per il male che vi è nel mondo.

E’ chiara la metafora del nido, col suo senso di protezione, così com’è chiaro l’esterno al nido, l’incognito, lo sconosciuto, il male. Elementi fortemente caratterizzanti la psicologia del Pascoli, che spiega in parte la rabbia per il matrimonio di Ida e la ricostruzione di un “nido” con Maria.

Concludere il discorso su Myricae significa tirare la somma su temi fondamentali: già dall’inizio, inserendo un lungo componimento Il giorno dei morti, ci dice che il nucleo intorno cui gira il tema principale è quello della morte: la rievocazione in questo testo della figura del padre, della madre, della sorella maggiore e dei fratelli, sembra voler sottolineare come il mondo abbia dentro di sé il germe del male. Ma questo mondo è capace anche di meravigliare ed è quello della natura, verso cui, con occhio stupito, guarda il fanciullo. Ma anch’essa è minacciata dall’incipiente modernità, dal pericolo della città. Ma l’importante è che tali temi servono soprattutto a guardare dentro se stesso, ad analizzarsi, analisi che si preciserà nelle raccolte successive.

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Prima edizione “Canti di Castelvecchio”

Canti di Castevecchio

I Canti di Castelvecchio riprendono lo schema di Myricae, e, questa volta dedicati alla figura materna, vengono pubblicati nel 1903. I temi e lo stile somigliano a Myricae e nulla aggiungono alla prima raccolta, se non una maggiore presenza di alcuni temi, come appunto quello della morte, del dialogo con i defunti, dell’indefinitezza del reale. D’altra parte l’opera cui Pascoli ora sta lavorando acquista una maggiore consapevolezza degli strumenti poetici e per questo appare a volte meno “sincera”, più “ricercata”: si pensi alla celeberrima Cavalla storna, dove la metafora diventa troppo esplicita.

Chiara, da questo punto di vista è Nebbia, elemento naturale fortemente presente nella lirica pascioliana:

NEBBIA

Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!

Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
di valerïane.

Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane
che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…

Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.

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La nebbia, già presente in Arano e Lavandare, qui viene a configurarsi quasi come un muro protettivo che tiene lontano i pericoli (simboleggiati da lampi notturni e da crolli d’aeree frane); quello che vuole è che la nebbia gli nascondi il dolore, il pianto, ciò che è al di là, e gli mostri le cose sicure, rassicuranti, la siepe ed il muro (significativamente), gli alberi di frutta che danno dolci marmellate, e il cipresso dove dorme il suo cane.

E’ significativo che l’unica cosa che debba mostrare al poeta sia la strada per il cimitero: l’immagine di lui che s’incammina accompagnato dallo scampanio funebre, è indicativo del continuum che egli istituisce tra la vita e la morte.

Il capolavoro dei Canti di Castelvecchio è:

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IL GELSOMINO NOTTURNO

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lime là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…

E’ l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

“In un arco di tempo, che va dalla sera all’alba, si svolgono due vicende parallele, che si richiamano per analogia attraverso la tecnica dell’accostamento: il ciclo erotico-sessuale della fecondazione dei fiori, che culmina in quell’odor di fragole rosse, che si colloca quasi al centro del componimento, e si conclude, simbolicamente con l’immagine dei petali un poco gualciti; e la storia intima ed equivalente che s’intravede all’interno della casa, adombrata dagli emblemi nuziali dei bisbigli e della lampada” (Nava).

“Abbiamo qui un notturno, gonfio di dolcezza ansiosa e oscuramente felice e insieme preoccupata che pervade l’atmosfera senza effondersi in sospiri. Si potrebbe non interpretarla, non decifrarla questa poesia; fermarci alle apparizioni che si succedono, legate una all’altra da una parentela segreta e ineluttabile, fiorite in una musica di malinconia trepida di una felicità ansiosa, quasi impaurita di se stessa, e tutta tangente con un rimpianto, una nostalgia, una minaccia di precarietà, che la fanno confinare con una imminente disperazione” (Debenedetti).

Poemetti

I Poemetti pascoliani escono con questo titolo nell’edizione del 1897, per poi sdoppiarla ed assumere quello di Primi poemetti del 1904, che si completeranno, nei cinque anni successivi con i Nuovi Poemetti.

In questa nuova poesia Pascoli abbandona la poesia di descrizione campestre, per dar vita ad una narrazione poetica dove prevale la ricerca di un nuovo linguaggio. Egli, attraverso questa raccolta, vuole esaltare la vita contadina, lontana dai cambiamenti “malvagi” che la modernità produce, dove lo scontro tra operai e padronato assume caratteristiche violente. In fondo si tratta di cantare cose paulo maiora, dove i temi sociali e quelli personali trovano più largo respiro.

Tuttavia non bisogna nascondere che questa è la raccolta dove, in un poemetto, meglio si scopre il tabù sessuale del poeta:

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DIGITALE PURPUREA

I
Siedono. L’una guarda l’altra. L’una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l’altra, esile e bruna,

l’altra… I due occhi semplici e modesti

fissano gli altri due ch’ardono. «E mai
non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti

più» «Non più, cara» «Io sì: ci ritornai;

e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;

quei piccoli anni così dolci al cuore…»
L’altra sorrise. «E di’: non lo ricordi
quell’orto chiuso? i rovi con le more?

i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di…?»

«
Morte: sì, cara.» «Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore accanto.

Ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l’aria; un suo vapor che bagna
l’anima d’un oblio dolce e crudele.

Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea!» Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;

e l’una e l’altra guardano lontano.

II
Vedono. Sorge nell’azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d’incenso.

Vedono; e si profuma il loro pensiero
d’odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d’innocenza e di mistero.

E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena tocche…

Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate

oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d’un tratto (perché mai?) piangete…

Piangono, un poco, nel tramonto d’oro,
senza perché. Quante fanciulle sono
nell’orto, bianco qua e là di loro!

Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono. Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono.

In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,

l’alito ignoto spande di sua vita.

III
«Maria!» «Rachele!» Un poco più le mani
si premono. In quell’ora hanno veduto
la fanciullezza, i cari anni lontani.

Memorie (l’una sa dell’altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio
il lontanar d’un ultimo saluto!

«Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!»
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no: «Io -,

mormora, – sì: sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e di viole a

ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d’un sogno che notturno arse e che s’era
all’alba, nell’ignara anima, spento.

Maria, ricordo quella grave sera.

L’aria soffiava luce di baleni
silenziosi. M’inoltrai leggiera,

cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!

Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
Tanta, che, vedi… (l’altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta

con un suo lungo brivido…) si muore!». 

Nonostante la materia di questo poemetto sia stata offerta dalla sorella Maria, ricordando gli anni in cui lei e la sorella Ida vivevano in convento, essa si colora subito, fin dalla prima strofe, dell’opposizione tra chi, come angelo, si è tenuta lontana dal “fiore proibito” e chi, l’altra, lo ha invece pregustato.

D’altra parte il primo a parlare di fiore “proibito” fu Baudelaire, a partire proprio dal titolo della sua raccolta poetica. Pertanto il tema non era nuovo e aveva acquistato una forza direi quasi topologica nella letteratura decadente.

Quello che qui lo rende pascoliano è l’ambientazione, un luogo d’educande. E il loro dialogo iniziale, a dirci sin da subito la “purezza” della prima, la voluttà della seconda (occhi che ardono); quindi quel riferimento al fiore di morte (un fiore venefico, nella realtà). Quindi i dolci ricordi nella seconda strofe, immagini rarefatte che ci conducono a quel senso di ignoto, di non afferrato, anticipato da quell’umanizzazione “terribile” di dita sanguinolente, che all’improvviso prende le due fanciulle. Nella terza la confessione, di Rachele. Qui la sensibilità di Pascoli non può che riaffermare la paura dell’eros: se è pur vero che il fiore è pericoloso in sé , è altrettanto vero che l’esperienza tattile su di esso rimanda all’atto sessuale, alla dolcezza orgasmatica e quindi alla perdita di sé.

E’ ben rappresentato qui quello che abbiamo definito il “tabù sessuale” del poeta, che in parte sfiora il “tabù dell’incesto” vissuto, nella vita reale, da Giovanni e sua sorella Maria (c’è chi vede in Rachele la sorella Ida, quella che si sposa, e che rompe, col suo matrimonio, il nido familiare).

Estremamente interessante per gli esiti linguistici è il lungo poemetto Italy, di cui qui si riporta parte del primo canto:

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Emigrati italiani su una nave (fine ‘800 inizio ‘900)

ITALY
(I-V)

I
A Caprona, una sera di febbraio,
gente veniva, ed era già per l’erta,
veniva su da Cincinnati, Ohio.

La strada, con quel tempo, era deserta.
Pioveva, prima adagio, ora a dirotto,
tamburellando su l’ombrella aperta.

La Ghita e Beppe di Taddeo lì sotto
erano, sotto la cerata ombrella
del padre: una ragazza, un giovanotto.

E c’era anche una bimba malatella,
in collo a Beppe, e di su la sua spalla
mesceva giù le bionde lunghe anella.

Figlia d’un altro figlio, era una talla
del ceppo vecchio nata là: Maria:
d’ott’anni: aveva il peso d’una galla.

Ai ritornanti per lunga via,
già vicini all’antico focolare,
la lor chiesa sonò l’Avemaria.

Erano stanchi! avean passato il mare!
Appena appena tra la pioggia e il vento
l’udiron essi or sì or no sonare.

Maria cullata dall’andar su lento
sembrava quasi abbandonarsi al sonno,
sotto l’ombrella. Fradicio e contento

veniva piano dietro tutti il nonno.

II
Salivano, ora tutti dietro il nonno,
la scala rotta. Il vecchio Lupo in basso
non abbaiò: scodinzolò tra il sonno.

E tentennò sotto il lor piede il sasso
davanti l’uscio. C’era sempre stato
presso la soglia, per aiuto al passo.

E l’uscio, come sempre, era accallato.
Lì dentro, buio come a chiuder gli occhi.
Ed era buia la cucina allato.

La mamma? Forse scesa per due ciocchi…
forse in capanna a mòlgere… No, era
al focolare sopra i due ginocchi.

Aveva pulito greppia e rastrelliera;

ora accendeva… Udì sonare fioco:
era in ginocchio, disse la preghiera.

Appariva nel buio a poco a poco.
«Mamma, perché non v’accendete il lume?
Mamma, perché non v’accendete il fuoco?»

«Gesù! che ho fatto tardi col rosume…»
E negli stecchi ella soffiò, mezzo arsi;
e le sue rughe apparvero al barlume.

E raccattava, senza ancora voltarsi,
tutta sgomenta, avanti a sé, la mamma,
brocche, fuscelli, canapugli, sparsi

sul focolare. E si levò la fiamma.

III
E i figli la rividero alla fiamma
del focolare, curva, sfatta, smunta.
«Ma siete trista! Siete trista, o mamma!»

Ed accostando agli occhi, essa, la punta
del pannelletto, con un fil di voce:
«E il Cecco è fiero? E come va l’Assunta?»

«Ma voi! Ma voi!» «Là là, con la mia croce».
I muri grezzi apparvero col banco
vecchio e la vecchia tavola di noce.

Di nuovo, un moro, con non altro bianco
che gli occhi e i denti, era incollato al muro,
la lenza in spalla ed una mano al fianco:

roba di là. Tutto era vecchio, scuro.
S’udiva il soffio delle vacche, e il sito
della capanna empiva l’abituro.

Beppe sedé col capo indolenzito
tra le due mani. La bambina bionda
ora ammiccava qua e là col dito.

Parlava; e la sua nonna, tremebonda,
stava a sentire e poi dicea: «Non pare
un luì quando canta tra la fronda?»

Parlava la sua lingua d’oltremare:
«… a chicken-house» «un piccolo luì»

«… for mice and rats» «che goda a cinguettare,

zi zi» « Bad country, Ioe, your Italy!»

IV
ITALY, penso, se la prese a male.
Maria, la notte (era la Candelora),
sentì dei tonfi come per le scale…

tre quattro carri rotolarono… Ora
vedea, la bimba, ciò che n’era scorso!
the snow! la neve, a cui splendea l’aurora.

Un gran lenzuolo ricopriva il torso
dell’Omo-morto. Nel silenzio intorno
parea che singhiozzasse il Rio dell’Orso.

Parea che un carro, allo sbianchir del giorno
ridiscendesse l’erta con un lazzo
cigolìo. Non un carro, era uno storno,

uno stornello in cima del Palazzo
abbandonato, che credea che fosse
marzo, e strideva: marzo, un sole e un guazzo!

Maria guardava. Due rosette rosse
aveva, aveva lagrime lontane
negli occhi, un colpo ad or ad or di tosse.

La nonna intanto ripetea: «Stamane
fa freddo!» Un bianco borracciol consunto
mettea sul desco ed affettava il pane.

Pane di casa e latte appena munto.
Dicea: «Bambina, state al fuoco: nieva!
nieva!» E qui Beppe soggiungea compunto:

«Poor Molly!» qui non trovi il pai con fleva!

V
Oh! no: non c’era lì né pieflavour
né tutto il resto. Ruppe in un gran pianto:
«Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?»

Oh, no: starebbe in Italy sin tanto
ch’ella guarisse: one month or two, poor Molly!
E Ioe godrebbe questo po’ di scianto!

Mugliava il vento che scendea dai colli
bianchi di neve. Ella mangiò, poi muta
fissò la fiamma con gli occhioni molli.

Venne, sapendo della lor venuta,
gente, e qualcosa rispondeva a tutti
Ioe, grave: «Oh yes, è fiero… vi saluta…

molti bisini, oh yes… No, tiene un frutti-
stendo… Oh yes, vende checche, candi, scrima…
Conta moneta: può campar coi frutti.

Il baschetto non rende come prima…
Yes, un salone, che ci ha tanti bordi…
Yes, l’ho rivisto nel pigliar la stima…»

quando sbarcati dagli ignoti mari
scorrean le terre ignote con un grido
straniero in bocca, a guadagnar danari

per farsi un campo, per farsi un nido…

Il poemetto qui presentato ci permette di fare alcune considerazioni sul socialismo pascoliano, certo più psichico che politico. La sua adesione, infatti, per l’impresa libica di Giolitti, s’inserisce nel drammatico evento dell’emigrazione verso le Americhe. Egli, come afferma nel discorso pronunciato nel 1911 a cui si dà il titolo La grande proletaria si è mossa, crede fortemente che la colonia italiana possa risolvere questo problema, ma possa, altresì, non permettere quell’allontanamento dal nido, così, secondo la sua visione, pericoloso.

Ma l’importanza del testo è nello sperimentalismo linguistico che ne deriva: il poemetto si basa su tre mondi che non comunicano più: il mondo della nonna, dal vecchio dialetto che non ha conosciuto la storia; il mondo dei figli, provenienti da quel mondo ma ormai allontanatosi da esso: la loro lingua, un impasto anglo-dialettale, codice incomprensibile; il mondo della bambina, ormai non facente più parte di quel mondo, tutta tesa verso la modernità. Pascoli la guarda con pietà: l’allontanamento le farà conoscere il male del mondo.

L’ulteriore produzione pascoliana se presenta elementi di novità rispetto quanto abbiamo detto è perché essa si fa più “ufficiale” e forse per questo meno sentita. Si pensi ai Poemi conviviali, così chiamati perché pubblicati nella raffinata rivista di De Bosi, Il Convito”, su cui pubblicava anche D’Annunzio. Qui i temi si fanno “elevati”, richiamandosi a paesaggi lontani e a personaggi mitici. Forse il più importante è Alexandros, in cui il poeta descrive la forza del grande generale macedone. Ma la descrizione vira verso un senso di malinconia, per cui la vittoria si trasforma in sconfitta.

A ciò si aggiungono le ultime raccolte, felicemente dimenticabili: Odi e Inni, Canzoni di re Enzio, Poemi italici, Inno a Roma, Inno a Torino. Tutta questa produzione è lontanissima dalla sensibilità del poeta romagnolo.

Allora, perché la scrive? Perché man mano che aumentavano per lui i “compiti istituzionali” a tali compiti doveva rispondere. D’altra parte, alla morte di Carducci, il governo giolittiano promuove la figura del poeta vate e a contenderselo sono i due maggiori rappresentanti del decadentismo italiano, D’Annunzio e Pascoli, appunto.

Tuttavia è fondamentale la sua poesia nella storia della letteratura del Novecento, per la sua capacità d’innovare, più che D’Annunzio, il linguaggio, raggiungendo quello che un critico ha definito come la democrazia lessicale pascoliana: egli infatti, con la sua precisione ornitologica, botanica, casalinga, onomatopeica rende ogni lemma, suono, accostamento ardito, nonché ogni neologismo, poetabile.

 

GABRIELE D’ANNUNZIO

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Gabriele D’Annunzio

Gabriele D’Annunzio, nato Rapagnetta, e preso il più aulico cognome da uno zio paterno, nasce a Pescara nel 1863, da una famiglia della buona borghesia. A 11 anni viene mandato al Collegio Cicognini di Prato, dove consegue eccellenti risultati; ma il suo temperamento gli fece assumere più volte comportamenti poco rispettosi riguardo le severe norme che vigevano all’interno dell’Istituzione. Ottiene la licenza liceale nel 1881, ma già precedentemente dà alle stampe il suo primo libro di versi, Primo vere (1879), mostrando tutta la sua capacità di farsi press agent di se stesso, sfruttando la morbosità dei lettori delle riviste. Infatti diffuse ad arte la notizia della morte del giovanissimo poeta, per poi smentirla il giorno seguente, inviando copia del libro ad ogni giornale che aveva riportato la “funesta notizia”.

Periodo romano (1881-1891)

Arrivato a Roma, si fa conoscere dalla buona società grazie anche alle “Cronache mondane” pubblicate su riviste (soprattutto nel giornale allora estremante diffuso a Roma La Tribuna) e riesce di armonizzare l’intensa vita mondana, intessuta d’avventure galanti, con un altrettanto intensa attività editoriale: si ricordano qui la prosecuzione dell’attività poetica con Canto novo e l’esordio in quella prosastica (riunendo racconti precedentemente scritti) con Terra vergine, pubblicati ambedue nel 1882. Nel frattempo conosce la contessina Maria Hardouin di Gallese: di contro alla ferma contrarietà della famiglia, escogita la fuga e quindi il matrimonio riparatore. La condurrà con sé in Abruzzo.

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Maria Hardouin di Gallese

Nel 1884 torna a Roma con il primogenito, Mario (1884). Diventa direttore della Tribuna e l’anno successivo della Cronaca Bizantina. In questo periodo l‘attività scrittoria si sposa con l’attività mondana: frequenta la migliore società romana, si dà ad amori fugaci e pubblica libri di versi Intermezzo di rime e (1884) Isotta Gattadàuro (1886) e la raccolta di racconti San Pantaleone (riunita insieme a Terra vergine nel volume Novelle della Pescara, pubblicato in seguito nel 1896). Pur conducendo una vita certamente non morigerata gli nasce il secondo figlio Gabriellino (1886), cui seguirà il terzogenito Veniero (nato nel 1887) Ma la nascita di quest’ultimo figlio l’appenderà in crociera, dove veleggia costeggiando la Grecia con il suo nuovo amore, Barbara Leoni. 

L’opera più importante di questo periodo è certamente Il piacere (1889), libro di enorme successo, nel quale il pubblico identificava nella figura dell’immorale protagonista, Andrea Sperelli, lo stesso Gabriele D’Annunzio. Non per niente lo scrittore ed il personaggio vivono interscambiandosi i ruoli: così come D’Annunzio si trasfigura in Andrea Sperelli, quest’utimo viene costruito nel modus vivendi dello scrittore. E’ talmente eccessiva la vita che D’Annunzio conduce da dover scappare da Roma e rifugiarsi dall’amica Matilde Serao, a Napoli.  

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Barbara Leoni

Periodo napoletano ed abruzzese (1891-1896)

A Napoli, pur riuscendo appena a mantenersi con le collaborazioni giornalistiche, fra cui Il Mattino della Serao, continua a vivere un’intensa vita che egli definirà di “splendida miseria”. Pur continuando il rapporto con Barbara Leoni si lascerà irretire dal fascino di Gravina Cruyllas di Ramacca, da cui avrà una figlia, Renata. Nel frattempo darà alle stampe le raccolte di poesie Elegie romane (1892), Odi navali (primo esempio, per lui di poesie civili) e Poema Paradisiaco (pubblicate entrambe nel 1893), nonché i romanzi Giovanni Episcopo e L’innocente, scritti tra il 1891 ed il 1893. La morte del padre, che oberato di debiti lascerà il poeta ancora in una più drammatica situazione economica lo spingerà a lasciare Napoli e a ricoverarsi in Abruzzo con la nuova amante e l’amata figlia. Nonostante questo dà l’avvio al romanzo Il trionfo della morte che completerà nel 1894. Nel frattempo incontra la filosofia nicciana, conosciuta sotto l’influenza dello scrittore decadente francese Maurice Barrés, autore de Le culte du moi (Il culto dell’io)  e la musica di Wagner: sotto la loro suggestione nascerà il romanzo: Le vergini delle rocce del 1894 (dove verrà adombrata la figura del superuomo) e Il fuoco, pubblicato nel 1900 (la cui figura femminile sembra impietosamente assomigliare alla famosissima allora attrice di teatro Eleonora Duse). Si presenta alle elezioni politiche e viene eletto, con la Destra, nel 1897. Ma rare saranno le sua apparizioni parlamentari.

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Gravina Cruyllas di Ramacca

Alla Capponcina (1896-1910)

Nel 1986 conosce Eleonora Duse, la più grande attrice italiana dell’epoca. Ciò lo spingerà ad avvicinarsi a livello compositivo alla realizzazione di piéce teatrali, di cui ricordiamo, come prima opera La città morta, interpretata per la prima volta a Parigi da Sarah Bernhardt ed Il sogno di un mattino di primavera. La relazione con  la Duse, che gli consentirà di risolvere per il momento i problemi economici, verrà sancito da una convivenza nella sontuosa villa della Capponcina. Per D’Annunzio inizia un periodo in cui alterna la residenza in Toscana con i viaggi in Europa, in cui segue le tournées dell’attrice. Si presenta per la prima volta alle elezioni politiche, ottenendo un seggio nel 1897, a sostegno della Destra nazionalista dopo la sconfitta di Adua. Il rapporto con la Duse, nel momento della più alta passione gli ispireranno il romanzo Il Fuoco (1900), dove dietro la protagonista si cela la grande attrice, il vertice della produzione poetica dannunziana l’Alcyone (1903) e, sempre del 1903 la più importante opera teatrale scritta per la Duse, La figlia di Jorio (1903). Nel 1900 si presenta un’altra volta alle elezioni, ma con un clamoroso voltafaccia, si allea con la Sinistra, per protestare contro le leggi liberticide di Pellaux, ma non verrà eletto. Nel frattempo la relazione con la Duse comincia ad incrinarsi, e lui si lega alla contessa Giuseppina Mancini. L’eccessivo sfarzo con cui si circondava, lo caricavano di un peso insopprimibile di debiti. Per sfuggire a tale situazione, si rifugia in Francia.

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Eleonora Duse

Esilio francese (1910-1914)

Incalzato dai debiti, su suggerimento della nuova amante d’origine russa Natalia de Goloubeff, dopo l’uscita di un nuovo romanzo, Forse che sì, forse che no (1910) si reca in Francia. La vita, pur nell’“esilio francese, per volontà della patria ingrata”, ha motivi ben più banali: il caro D’Annunzio non risolve il suo stato debitorio e non smette di spendere. Guadagna molto (ma chiaramente i soldi non sono sufficienti a risolvere la sua disperata situazione economica) grazie alla composizione di opere teatrali: famosa è Le martyre de Saint Sèbastien musicato poi da Debussy (1911), o scrivendo le didascalie per un kolossal del cinema muto Cabiria, con la regia di Giovanni Pastrone. Ma a risolvere in parte il suoi stato debitorio sarà Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, a cui D’Annunzio corrisponde pagine di riflessione autobiografica o di argomento politico. Ma il nostro non smette di contrarre debiti. Va a Parigi, ma in Europa cominciano a sentirsi le trombe che annunciano la guerra, ed un personaggio come D’Annunzio, che pur vivendo in Francia, legge il dramma La nave scritto precedentemente nel 1907, nel quale si rivendicano territori ancora in mano all’Austria, diventa un punto di riferimento per i nazionalisti italiani.

D’Annunzio soldato (1914-1918)
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D’Annunzio soldato

E’ lo stesso governo a richiamarlo: la sua prosa vibrante serve per infiammare la folla e convincerla per l’entrata in guerra dell’Italia. (D’Annunzio insegna al fascismo cosa significa saper radunare le folle). Diventa, dopo la morte di Carducci, il nuovo poeta vate dell’Italia. Chiede ed ottiene di far parte delle forze militari. In un volo di ricognizione il nostro si ferisce e perde la vista di un occhio. Ma ciò non lo esimerà dal fare, due anni dopo, azioni che rimarranno celebri, come “la beffa di Buccari” (con la quale volle mostrare la facilità con cui i MAS – Motoscafi Armati Siluranti – riuscirono a penetrare in una baia difesa da forze austriache) o il volo su Vienna, in cui D’Annunzio stesso lancia sulla capitale nemica fogliettini con i suoi versi e invitandola alla resa (1918). Bisogna ricordare che nel periodo d’inattività, dopo l’incidente, il nostro, con l’aiuto della figlia Renata, preparerà un testo fra i più celebrati dell’ultima fase dannunziana, il Notturno.

Il dopoguerra (1918-1938)

Il dopoguerra non lo vede inattivo: irritato per quella che lui stesso definirà come la “vittoria mutilata”, che sanciva la perdita della città di Fiume e della Dalmazia, corroborato da discorsi infuocati a cui accoreranno ferventi nazionalisti, tra cui Mussolini, decide infine per una spedizione paramilitare ed occupa Fiume, dove rimarrà per poco più di un anno (verrà cacciato dal governo italiano stesso, per paura di ripercussioni internazionali).

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D’Annunzio a Fiume tra i suoi legionari

Dopo l’avvento del fascismo, Mussolini (che lo temeva) ne fa un mito vivente, accollandosi tutte le sue faraoniche spese e donandogli la lussuosissima villa di Cargnacco sul Garda (il cosiddetto Vittoriale). In questo luogo, che riempirà dei più svariati oggetti d’arredamento e d’arte e che condividerà con la nuova compagna – fino alla sua morte – Luisa Baccara, egli, oltre a scrivere alcune opere, che non hanno influito sulla sua già copiosa produzione (Il libro segreto (1935) Teneo te Africam (1936), si adopera a sistemare tutti i suoi scritti per l’edizione mondadoriana. Muore all’improvviso nel 1° marzo del 1938.

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Luisa Baccara

L’itinerario letterario

L’importanza di Gabriele D’Annunzio, nella letteratura italiana, sta soprattutto nel fatto che il poeta pescarese ha fatto da tramite tra le più ardite sperimentazioni europee e la cultura del nostro paese. Egli, infatti, più che elaborare una vera e propria poetica personale si è servito, con grande capacità ed intuito, di tutto ciò che l’intellettualità europea andava elaborando, svecchiando le strutture tradizionali della nostra letteratura e permettendo alla stessa di far parte di quel sentire “decadente” che ormai si andava affermando. Tuttavia, pur avendo svolto questa funzione, non si può negare il ruolo profondamente innovativo che egli ha incarnato nell’Italia umbertina, promuovendo un nuovo modo di essere intellettuale nella società e scardinando il lessico e la funzione che l’opera d’arte aveva avuto sin allora; non è un caso che tutta la produzione poetica novecentesca debba, in qualche modo, fare i conti con la sua opera.

D’Annunzio s’affaccia al mondo letterario giovanissimo, pubblicando nel 1879, in piena età scolare, la raccolta poetica Primo vere, che appare poco più che un esercizio letterario, mostrando l’ossequio che non solo l’esuberante e brillante studente del Liceo Cicognini, ma l’intera cultura letteraria mostrava verso il magistero carducciano. Si veda questa traduzione catulliana fatta in “metro barbaro”:

AI MANI DE ‘L FRATELLO

Via per genti innumere, via lunge su’ mari portato,
a quest’esequie tristi, o mio fratello io vengo:

io vengo ad offrirti l’estremo dono di morte
e volgerò i miei detti a un cener muto indarno,

poi che al mio amore te, te strappò la fortuna,
te con forza crudele, o misero fratello!

Pur or que’ doni che a le tristi esequie ho recati,
per prisca usanza, pur or frattanto prendi;

prendi que’ doni di pianto fraterno stillanti,
ed in eterno addio, o fratello mio, addio!…

Come si può notare dalla struttura metrica egli cerca di riprendere il distico, ma non è solo questa caratteristica a rendere il testo traduttivo interessante: troviamo in esso anafore, anastrofi, anadiplosi ed altre figure che vogliono mostrare al lettore la perizia tecnica del giovane poeta; ma è anche la volontà di porsi su quella linea di traduzione d’arte che Foscolo aveva mostrato traducendo lo stesso testo. Risulta tuttavia un’enorme differenza: nel poeta veneziano vi è la ripresa del sentimento catulliano per un avvenimento biografico, in D’Annunzio vi è la scaltrezza di un poeta che, appena uscito dall’adolescenza, già scalpita per affermarsi come nuova grande voce.

Più compiuto e già capace di mostrarci un D’Annunzio più maturo è Canto novo del 1882. In quest’ultima opera il poeta se da una parte riprende il metro barbaro carducciano, il simbolismo francese e suggestioni scapigliate, sue proprie sono invece il gusto già preponderante verso una suggestione verbale ricca ed eccessiva, così come il disegno di una natura sempre vivida e lussureggiante.

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Si veda la seguente poesia:

O FALCE DI LUNA CALANTE

O falce di luna calante
che brilli su l’acque deserte,
o falce d’argento, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori del bosco
esalano al mare: non canto non grido,
non suono pe ’l vasto silenzio va.

Oppresso d’amor, di piacere,
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

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Luna calante

La poesia, che è composta da tre strofe di quattro versi ciascuna, di cui i primi due novenari e gli ultimi dodecasillabi (doppio senario) descrive un notturno a cui non mancano richiami metaforici verso elementi solari (messe, come raccolta; fruire di foglie): si vedano le coppie sinonimiche falce/messe ed amor/piacere; a questa coppia fa da contraltare la notte (la luna, l’acque deserte), ma non vi è alcun sentimento di malinconia ma, viceversa di raggiunta quiete, (oppresso/s’addorme). Già in questa lirica il giovane D’Annunzio accenna ad uno dei temi portanti della sua poesia, quello del panismo, cioè il sentirsi in una comunione/abbraccio con la natura: non per niente è dal silenzio luminoso e notturno che deriva il sommo del piacere sensuale.  E’ da sottolineare inoltre la tecnica compositiva, che si muove su una ricerca di ripetute allitterazioni e ripetizioni che possano rendere la lirica musicale.

Sempre del 1882 sono le raccolte di novelle Terra vergine, mentre del 1886 sono quelle di San Pantaleone, raccolte successivamente nel libro Novelle della Pescara.

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D’Annunzio giovane studente

LA MADIA

Egli giunse alla casa, in un baleno, ansando e palpitando. Salì le scale con cautela infinita, senza rumore. Cercò la chiave a tentoni, in una cavità del muro, dove soleva metterla la matrigna uscendo. La trovò; e prima d’aprire guardò dal buco della serratura. Luca, sul letto, pareva sopito.
Ciro pensò: “Se potessi prendere il pane senza svegliarlo!”
E girò la chiave, piano piano trattenendo il respiro, temendo di svegliare il fratello con i palpiti del cuore. Pareva che quei palpiti empissero tutta la casa, come d’un fragore altissimo.
“E se si sveglia?” pensò Ciro con un brivido nelle midolle, quando sentì che la porta era aperta.
Ma la fame lo rendeva audace. Egli entrò, puntando le grucce delicatamente, non togliendo mai gli occhi di sul fratello.
“E se si sveglia?”
Il fratello, supino, respirava con affanno in quel sopore. Di tratto in tratto gli usciva dalle labbra quasi un fischio lieve. Una sola candela ardeva su la tavola, gittando sulla parete larghe ombre variabili.
Ciro, come fu presso la madia, s’arrestò per vincere il tremore; guardò il dormiente; poi, reggendo ambo le grucce con l’ascelle, si mise a sollevare il coperchio. La madia scricchiolava forte.
D’improvviso Luca diede un balzo, svegliandosi. Vide il fratello in quell’atto, e cominciò a gridargli contro, agitando le braccia, come un ossesso: «Ah, ladro! Ah, ladro! Aiuto!»
Ma il furore lo soffocava. Mentre il fratello, accecato dalla fame, chino sulla madia, cercava con le mani tremanti un pezzo di pane, egli si gettò giù dal letto e gli corse sopra a impedirgli di prendere.
«Ladro! Ladro!» gridava, fuori di sé.
Fuori di sé, trasse il coperchio sul collo di Ciro; che s’agitò come una vittima alla tagliuola, disperatamente. Resisteva Luca contro quegli sforzi, avendo perduto ogni coscienza della cosa, premendo tutta la sua persona, quasi per decapitare il fratello. Il coperchio schricchiolava, penetrando nella viva carne della nuca, schiacciando le canne della gola, pestando le vene e i nervi. Penzolò dalla madia un corpo inerte, che non dava alcun tratto.
Allora, in cospetto dello storpio trucidato, uno sbigottimento pazzo invase l’animo del fratello.
Due o tre volte, barcollando, egli attraversò la stanza che i guizzi della candela empivano di paure; mise le mani su le coperte, le tirò a sé, ci si avvoltolò tutto, coprendosi anche la testa; poi si accovacciò sotto il letto. E nel silenzio i suoi denti stridevano, come fa una lama sul ferro.

La prosa dannunziana parte sin da subito legandosi a tematiche veriste, quel tipo di verismo, però, legato maggiormente ai drammi psicologici di Capuana, che all’analisi antropologica verghiana. Ma tuttavia sentiamo in lui un eccesso descrittivo che sottolinea, quasi, la morbosità con cui presenta il cruento episodio (vittima alla togliuola, viva carne della nuca, storpio trucidato), che non nascondono il compiacimento verbale del giovane autore. E questo modo di raccontare appare tutto nella novellistica giovanile di D’Annunzio.

L’arte poetica e l’arte narrativa non si scindono nel giovane pescarese e già dopo due anni, nel 1884, dà alle stampe Intermezzo di rime, ripubblicato una decina d’anni dopo col solo titolo Intermezzo. L’opera suscitò sin dal suo primo apparire una violenta polemica morale, in quanto era ritenuto dai più di contenuto pornografico:

SED NON SATIATUS

O bei corpi di femmine attorcenti
con le anella di un serpe agile e bianco,
pure io non so da’ vostri allacciamenti
ancora sazio liberare il fianco.

Bei seni da la punta erta fiorenti,
su cui mi cade a l’alba il capo stanco
allor che ne’ supremi abbattimenti
de ‘l piacere io m’irrigidisco e manco;

reni felini pe’ cui solchi ascendo
lascivamente in ritmo con le dita
come su nervi di falcate lire;

denti sotto a’ cui morsi acri mi arrendo,
bocche sanguigne più di una ferita,
pur m’è dolce per voi così sfiorire.

Alfredo Protti: Toni azzurri (1924)

Questo sonetto, in cui la descrizione femminile riprende alcune immagini della donna baudelariane (rapporto donna/serpe), sembra voler sollecitare la morbosità di un pubblico borghese che se da una parte stigmatizza un linguaggio che pur aulico non nasconde il significato, dall’altro invidia il giovane poeta che si era tuffato nel bel mondo salottiero della Roma, in cui era consapevole che versi come questi, proprio perchè scandalosi, avrebbero portato il testo da lui edito al successo. Sin da ora non importa il giudizio estetico, importa l’essere sulla bocca di tutti. D’altra parte lo stesso D’Annunzio diventerà a suo tempo critico di se stesso, definendo l’intera opera come un “documentto umano” di un momento (il suo) in cui predominava una debolezza di volontà in un periodo e in una città completamente falsa.

A questa raccolta segue quella di Isaotta Guttadauro e altre poesie del 1886 che verrà poi scisso in due volumi l’Isotteo e La Chimera nel 1890. Forse in modo ancora più eccessivo, qui D’Annunzio ricerca, sulla linea dei Parnassiani francesi, una purezza del dettato che vuole ricreare la lirica quattrocentesca, ripercorrendo il lessico, la struttura compositiva, che forse può aggiungere qualcosa sulla capacità versificatoria del nostro, ma niente riguardo la sua poetica.

rocaille-sartorio-per-Isaotta-Guttadauro-dannunzioIsaotta Guttadauro e altre poesie (editio picta)

Ma il suo primo grande successo è il romanzo Il piacere del 1889, che, contemporaneamente alla cultura europea, rappresenta uno dei più grandi romanzi europei legati all’estetismo. Ad iniziare, infatti, è l’opera di Joris-Karl Huysmans À rebours del 1884 (tradotta con Controcorrente o A ritroso), in cui il nobile Des Esseintes, stanco della grigia realtà, si crea in provincia un rifugio dove si circonda solamente di cose che lui reputa belle: pareti di seta, finestre con vetri colorati, mobili fastosi, fiori veri da sembrare finti, ma la cui fine non può che portarlo alla nevrosi, da cui cercherà di sollevarsi rivolgendosi a Dio; o ancora, posteriore all’opera dannunziana, il romanzo di Oscar Wilde The Picture of Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray) del 1890, in cui il protagonista vede invecchiare il suo ritratto mentre lui si dà ad una vita dissipata. Tre romanzi tre protagonisti: Des Esseintes, Andrea Sperelli, Dorian Gray, belli ma nevrotici. Attraverso essi gli autori superano la descrizione tipica dei protagonisti “naturalisti” o “veristi”: sebbene inseriscano come sottofondo una critica “morale”, ciò non inficia la fascinazione dei romanzieri stessi verso i loro protagonisti, soprattutto riguardo D’Annunzio che, scrivendo di Andrea Sperelli, scrive di se stesso e dei suoi amori per Maria Hourdin e Barbara Zucconi.

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D’Annunzio al mare in posa da dandy

La vicenda è ambientata in una Roma di lusso, tra papale e umbertina. Protagonista è il conte Andrea Sperelli, “ideal tipo del giovane signore italiano del sec. XIX”, “legittimo campione di una stirpe di gentili uomini e di artisti eleganti”, la cui massima è “bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”. Poeta, pittore e musicista dilettante, ma soprattutto raffinato artefice di piacere, egli ha stabilito la sua dimora nel palazzo Zuccari a Trinità de’ Monti, passa le sue giornate tra occupazioni mondane, si circonda di persone eleganti e di oggetti preziosi lontano dal “grigio diluvio democratico… che molte cose belle e rare sommerge miseramente”. Andrea è però tormentato dal ricordo di una relazione complicata e sensuale con l’enigmatica Elena Muti, bruscamente troncata dall’improvvisa partenza della donna da Roma. Dopo un breve periodo d’isolamento, egli si tuffa in una serie di nuove avventure, finché un rivale geloso lo sfida a duello e lo ferisce. Si abbandona allora in una convalescenza “purificatrice” nella villa di una ricca cugina, a Schifanoia. Qui egli conosce una creatura casta e sensibile; Maria Ferres, moglie d’un ministro del Guatemala: per lei s’illude di nutrire un amore spirituale, ma presto il loro rapporto s’intorbida e nel contatto con Maria egli non cerca che di riprodurre le sensazioni già provate con Elena, sovrapponendo così le immagini delle due donne. Quando, al culmine di un amplesso, Andrea si lascia sfuggire il nome dell’antica amante, Maria fugge inorridita.

 

RITRATTO DI ANDREA SPERELLI
(dal Libro I, cap. 2)

Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, l’ultimo discendente d’una razza intellettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a’ vent’anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una conoscenza profonda della vita voluttaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Dopo egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s’era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta Europa.
L’educazione di Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri, quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura, ma anche dall’esperimento; e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui d’un’altra forza, della “forza morale” che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d’intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: «Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui».
Anche, il padre ammoniva: «Bisogna conservare ad ogni costo la propria libertà, fin nell’ebbrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: – Habere, non haberi».
Anche diceva : «Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna soprattutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove immaginazioni».
Ma queste massime “volontarie”, che per l’ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una creatura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.
Un altro seme paterno era perfidamente fruttificato nell’animo di Andrea: il seme del sofisma. «Il sofisma» diceva quell’incauto educatore «è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell’oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui per l’uomo d’intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell’antichità. I sofisti fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso.

Il brano proposto potremo analizzarlo alla luce di quattro sequenze:

  • presentazione di Andrea Sperelli e del suo modo di concepire e di vivere l’arte e la bellezza;
  • descrizione del padre di Andrea, unico educatore del figlio;
  • l’educazione paterna ricevuta del protagonista;
  • le “massime” fondamentali che il padre detta come regole di vita.

E’ necessario partire da quest’ultime per comprendere le scelte del protagonista nel corso del romanzo: nella prima infatti, il padre insegna ad Andrea che Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte, per meglio dire sottolinea il binomio vita-arte che è caratteristico della poetica decadente. Potremo quasi dire che la vita viene vissuta quasi a livello “attoriale”, meditando gli atteggiamenti per poi viverli (in qualche modo perdendo l’autenticità); nella seconda Bisogna conservare ad ogni costo la propria libertà, fin nell’ebbrezza… Habere, non haberi, l’ammonizione riguarda il senso della libertà, libertà dell’io, che si espande in rapporto oserei dire quasi narcisistico legato tuttavia all’apparire. Habere, cioè possedere, haberi essere posseduto, quindi schiavo. Ma habere non esse: la libertà non è dell’essere, ma del possesso, della ricchezza. Nella terza Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato, il nostro sottolinea la ricerca inesausta di nuove sensazioni, quindi legate al sensi; tale “sensualità” trova la sua esplicitazione nella parola e quindi nell’arte. La vita si deve vivere come fosse un’opera d’arte e il parlare come fosse letteratura. L’ultimo Il sofisma è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano non fa che sottolineare l’idea di D’Annunzio (in questo caso ripresa in modo pedissequo dalla poetica barocca) che la verità non sta nell’oggetto ma nella parola che lo descrive. La parola pertanto in quanto unica realtà deve avere una validità estetica.

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D’Annunzio legge tra le opere d’arte

Ce lo dimostra quest’altro passo tratto da Il piacere:

IL VERSO E’ TUTTO
(dal Libro II, cap. 1)

Il verso è tutto. Nella imitazion della Natura nessuno istrumento d’arte è più vivo, agile, acuto, vario, moltiforme, plastico, obediente, sensibile, fedele. Più compatto del marmo, più malleabile della cera, più sottile d’un fluido, più vibrante d’una corda, più luminoso d’una gemma, più fragrante d’un fiore, più tagliente d’una spada, più flessibile d’un virgulto, più carezzevole d’un murmure, più terribile d’un tuono, il verso è tutto e tutto può.
Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare l’illimitato e penetrare l’abisso; può avere dimensioni d’eternità; può rappresentare il sopraumano, il soprannaturale, l’oltramirabile; può inebriare come un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo possedere il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può infine raggiungere l’Assoluto.
Un verso perfetto è assoluto, immutabile, immortale, tiene in sé le parole con la coerenza d’un diamante; chiude il pensiero come in un cerchio preciso che nessuna forza mai riuscirà a rompere; diviene indipendente da ogni legame e da ogni dominio; non appartiene più all’artefice, ma è di tutti e di nessuno, come lo spazio, come la luce, come le cose immanenti e perpetue.
Un pensiero esattamente espresso in un verso perfetto è un pensiero che già esisteva preformato nell’oscura profondità della lingua. Estratto dal poeta, séguita ad esistere nella conscienza degli uomini. Maggior poeta è dunque colui che sa discoprire, disviluppare, estrarre un maggior numero di codeste preformazioni ideali. Quando il poeta è prossimo alla scoperta d’uno di tali versi eterni, è avvertito da un divino torrente di gioia che gli invade d’improvviso tutto l’essere.

Passo non tanto importante per la capacità di svelarci un nuovo mondo estetico dell’autore, quanto per mostrarci come il poeta Andrea Sperelli non possa essere che D’Annunzio stesso. Allora forse si può maggiormente capire come la velata “critica” (Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui d’un’altra forza, della “forza morale” che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere) espressa, in effetti non abbia forza per imporsi e come vinca invece il compiacimento. Forse la critica verso Andrea Sperelli c’è, ma non verso se stesso; è Andrea a non aver raggiunto il massimo grado di perfezione estetica, D’Annunzio invece è diventato un superuomo della bellezza.

LA ROMA DI ANDREA SPERELLI

Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fari, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Carracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d’Alessandro Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d’Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d’Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda «Che vorreste voi essere?» egli aveva scritto «Principe romano».

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Palazzo Farnese

Se la parola è tutto e l’arte della parola è capace di diventare l’unica verità, scoperta certamente dello stoicismo greco, ma ripreso anche dalla poetica barocca in cui l’unica realtà è quella dell’arte; per questo Andrea Sperelli non può che amare la Roma del ‘600, una Roma in cui la magnificenza delle chiese e dei palazzi barocchi, esprimevano una meraviglia del vedere, più che un significato da trasmettere (come avveniva nell’arte classica)

Dopo la parentesi “minore” con il romanzo breve Giovanni Episcopo (1892) D’Annunzio dà alle stampe L’innocente (1893), scritti entrambi a Napoli e pubblicati, a puntate, sul giornale di Matilde Serao.

Il romanzo è la confessione di un delitto, esposta in prima persona dal protagonista. Nuova incarnazione del “superuomo”, l’ex diplomatico Tullio Hermil tradisce cinicamente la moglie Giuliana, relegandola al ruolo di sorella e di consolatrice. Soltanto dopo aver interrotto una burrascosa relazione con la possessiva Teresa Raffo, viene assalito da un’ansia sconosciuta di pace e di dolcezza coniugale: ma a questo punto s’insinua in lui il sospetto che Giuliana lo tradisca con uno scrittore alla moda, Filippo Arborio. Fin qui l’antefatto. Soffocato l’angoscioso dubbio, Tullio va a vivere in campagna, nella casa materna, e un giorno, a Villalisa, (la dimora in cui ha trascorso felicemente i primi anni di matrimonio) ritrova pieno e inebriante l’amore della moglie: poco dopo ha la tremenda rivelazione: Giuliana in un momento di debolezza, l’ha realmente tradito ed ora attende un figlio concepito con Filippo Arborio. Sentimenti contrastanti dividono l’animo di Tullio: consapevole di esser lui l’unico responsabile del tradimento, non può non perdonare colei che infinite volte lo perdonò, e prova anzi per Giuliana una passione nuova, morbosa, mista di rabbia e di pietà. Vorrebbe sfidare Arborio a duello, ma anche questo sfogo gli è vietato perché lo scrittore è stato colpito da paralisi. Nella sua mente corrotta matura allora l’idea del delitto: sopprimere il nascituro, unico ostacolo alla sua felicità. Anche Giuliana, più che mai innamorata del marito, sfinita da una gravidanza dolorosa, accetta tacitamente l’atroce soluzione. Il bimbo nasce, odiato da Tullio e da Giuliana, ma protetto dalle cure dell’ignara nonna e del padrino, Giovanni di Scordio, un contadino fedelissimo di casa Hermil. Una sera, mentre tutti i familiari si sono recati alla novena di Natale, Tullio sacrifica l’“innocente”, esponendolo al gelo invernale.

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Laura Antonelli e Giancarlo Giannini nei panni di Giuliana e Tullio nel film di Luchino Visconti tratto da “L’innocente” di D’Annunzio (1976)

La suggestione per la stesura del romanzo sono le letture di Tolstoj e Dostoevskij, autori che entrano alla fine degli anni ’80 in Europa e, attraverso la mediazione francese, venivano letti e ammirati nell’intera Europa. A far da sfondo alla storia de L’innocente è certamente Delitto e castigo di Dostoevskij:

UNA LUCIDA FOLLIA OMICIDA
(Cap. XXXIX)

Incominciò da quel giorno l’ultimo periodo precipitoso di quella lucida demenza che doveva condurmi al delitto. Incominciò da quel giorno la premeditazione del mezzo più facile e più sicuro per far morire l’Innocente. Fu una premeditazione fredda, acuta e assidua che assorbì tutte le mie facoltà interiori. L’idea fissa mi possedeva intero, con una forza e una tenacità incredibili. Mentre tutto il mio essere si agitava in un orgasmo supremo, l’idea fissa lo dirigeva allo scopo come su per una lama d’acciaio chiara, rigida, senza fallo. La mia perspicacia pareva triplicata. Nulla mi sfuggiva, dentro e fuori di me. La mia circospezione non si rilasciò mai un istante. Nulla io dissi, nulla io feci che potesse destare sospetto, muovere stupore. Simulai, dissimulai senza tregua, non soltanto verso mia madre, mio fratello, gli altri inconsapevoli, ma anche verso Giuliana.
Io mi mostrai a Giuliana rassegnato, pacificato, talvolta quasi immemore. Evitai studiosamente qualunque allusione all’intruso. Cercai in tutti i modi rianimarla, inspirarle fiducia, indurla all’osservanza delle norme che dovevano renderle la salute. Moltiplicai le mie premure.
(…)
Ero convinto che la salvezza della madre stesse nella morte del figliuolo. Ero convinto che, scomparso l’intruso, ella sarebbe guarita. Pensavo: «Ella non potrebbe non guarire. Ella risorgerebbe a poco a poco, rigenerata, con un sangue nuovo. Parrebbe una creatura nuova, scevra d’ogni impurità. Ambedue ci sentiremmo purificati, degni l’uno dell’altra, dopo una espiazione così lunga e così dolorosa. La malattia, la convalescenza darebbero al triste ricordo una lontananza indefinita. E io vorrei cancellare dall’anima di lei perfino l’ombra del ricordo; vorrei darle il perfetto oblio, nell’amore. Qualunque altro amore umano parrebbe futile al confronto del nostro, dopo questa grande prova». La visione dell’avvenire m’accendeva d’impazienza. L’incertezza mi diveniva intollerabile. Il delitto mi appariva scevro di orrore. Io mi rimproveravo acremente le perplessità nelle quali m’indugiavo con troppa prudenza; ma nessun lampo ancóra aveva attraversato il mio cervello, non ero ancor riuscito a trovare il mezzo sicuro.
Bisognava che Raimondo sembrasse morire di morte naturale. Bisognava che anche al medico non potesse balenare alcun sospetto. Dei diversi metodi studiati nessuno mi parve eligibile, praticabile. E intanto, mentre aspettavo il lampo rivelatore, la trovata luminosa, io mi sentivo attratto da uno strano fascino verso la vittima.
(…)
Provavo un sordo rammarico nel notare ch’egli cresceva, ch’egli fioriva, ch’egli non portava in sé alcun indizio d’infermità tranne quelle lievi croste biancastre innocue. Pensavo: «Ma tutte le agitazioni, tutte le sofferenze della madre, mentre egli era ancóra nel ventre, non gli hanno nociuto? O egli ha veramente qualche vizio organico non ancóra manifesto, che potrebbe svilupparsi in seguito e ucciderlo?».
Un giorno, vincendo la ripugnanza, avendolo trovato senza fasce nella culla, lo palpai, lo esaminai dal capo alle piante, misi l’orecchio sul suo petto per ascoltargli il cuore.
(…)
Più volte lo guardai anche mentre dormiva, lo guardai a lungo, pensando e ripensando al mezzo, distratto dalla visione interiore del morticino in fasce disteso su la bara tra corone di crisantemi bianchi, tra quattro candele accese. Egli aveva il sonno calmissimo. Giaceva supino, tenendo le mani chiuse a pugno col pollice in dentro. A quando a quando le sue labbra umide facevano l’atto di poppare. Se mi giungeva al cuore l’innocenza di quel sonno, se l’atto inconscio di quelle labbra m’impietosiva, io dicevo a me stesso, come per raffermare il mio proposito: «Deve morire». E mi rappresentavo le sofferenze già patite per lui, le sofferenze recenti, le menti, e quanto d’affetto egli usurpava a danno delle mie creature, e l’agonia di Giuliana, e tutti i dolori e tutte le minacce che chiudeva la nuvola ignota sul nostro capo. E così rinfocolavo la mia volontà micidiale, così rinnovavo sul dormente la condanna.
(…)

 (Cap. XLIV)

Anna stava in piedi, presso la sua sedia, atteggiata in modo così vivo ch’io sùbito indovinai ch’ella era allora allora balzata in piedi udendo le cornamuse della sua montagna, il preludio della pastorale antica.
«Dorme?» domandai.
Ella m’accennò di sì col capo.
I suoni continuavano, velati dalla distanza, dolci come in un sogno, un po’ rochi, lunghi, lenti. Le voci chiare delle ceramelle modulavano la melodia ingenua e indimenticabile su l’accompagnamento delle cornamuse.
«Va anche tu alla Novena» io le dissi. «Resto io qui.»
Da quanto tempo s’è addormentato?
«Ora.»
«Va, va dunque alla Novena.»
Gli occhi le brillarono.
«Vado?»
«Sì. Resto io qui.»
Le aprii la porta io stesso; la chiusi dietro di lei. Corsi verso la culla, su la punta dei piedi; guardai da presso. L’Innocente dormiva nelle sue fasce, supino, tenendo le piccole mani chiuse a pugno col pollice in dentro. A traverso il tessuto delle palpebre apparivano per me le sue iridi grige. Ma non sentii sollevarmi dal profondo nessun impeto cieco di odio né d’ira. La mia avversione contro di lui fu meno acre che nel passato. Mi mancò quell’impulso istintivo che più d’una volta avevo sentito correre fino alle estremità delle mie dita pronte a qualunque violenza criminale. Io non obedii se non all’impulso d’una volontà fredda e lucida, in una perfetta consapevolezza.
Tornai alla porta, la riaprii; m’assicurai che l’andito era deserto. Corsi allora alla finestra. Mi vennero alla memoria alcune parole di mia madre; mi balenò il dubbio che Giovanni di Scòrdio potesse trovarsi là sotto nello spiazzo. Con infinite precauzioni aprii. Una colonna d’aria gelata m’investì. Mi sporsi sul davanzale, ad esplorare. Non vidi nessuna forma sospetta, non udii se non i suoni della Novena diffusi. Mi ritrassi, mi avvicinai alla culla, vinsi con uno sforzo l’estrema ripugnanza; presi adagio adagio il bambino, comprimendo l’ansia; tenendolo discosto dal mio cuore che batteva troppo forte, lo portai alla finestra; l’esposi all’aria che doveva farlo morire.

Se Tullio Hermil vuole apparire agli occhi dell’autore e/o lettore come un nuovo Raskol’nikov, l’intento fallisce: è pur vero che non bisogna tacere l’impegno stilistico dannunziano nel tradurre, attraverso l’io narrante, un lungo scavo interiore, un’attenta analisi psicologica, un personaggio che lotta con se stesso (e qui troviamo echi non solo dostoevskiani, ma anche di Poe e di Maupassant); così come anche la figura di suo fratello Federigo e di Giovanni di Scordio ricordano la prosa tolstoiana, vedendo in loro una purezza cristana che fa da contrasto con il protagonista. Ma il fatto è che Tullio Hermil non cessa di essere un “superuomo” (il suo essere superiore alla morale e all’amore borghese) in cui anche la “ricerca dell’omicidio” s’inscrive in un atto superiore, alla ricerca di una “purezza” macchiata dalle sue colpe e dal tradimento di Giuliana. Così come allo stesso modo D’Annunzio non cessa di essere un artefice della parola, quando inscrive, in una storia noir, un pezzo “estetico”:

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Immagine di un usignolo e della musica

L’USIGNUOLO CANTAVA
(cap. 9)

L’usignuolo cantava. Da prima fu come uno scoppio di giubilo melodioso, un getto di trilli facili che caddero nell’aria con un suono di perle rimbalzanti su per i vetri di un’armonica. Successe una pausa. Un gorgheggio si levò, agilissimo, prolungato straordinariamente come per una prova di forza, per un impeto di baldanza, per una sfida a un rivale sconosciuto. Una seconda pausa. Un tema di tre note, con un sentimento interrogativo, passò per una catena di variazioni leggère, ripetendo la piccola domanda cinque o sei volte, modulato come su un tenue flauto di canne, su una fistula pastorale. Una terza pausa. Il canto divenne elegiaco, si svolse in tono minore, si addolcì come un sospiro, si affievolì come un gemito, espresse la tristezza di un amante solitario, un desio accorato, un’attesa vana; gittò un richiamo finale, improvviso, acuto come un grido di angoscia; si spense. Un’altra pausa, più grave. Si udì allora un accento nuovo, che non pareva escire dalla stessa gola, tanto era umile, timido, flebile, tanto somigliava al pigolio degli uccelli appena nati, al cinguettìo d’una passeretta; poi, con una volubilità mirabile, quell’accento ingenuo si mutò in una progressione di note sempre più rapide che brillarono in volate di trilli, vibrarono in gorgheggi nitidi, si piegarono in passaggi arditissimi, sminuirono, crebbero, attinsero le altezze soprane. Il cantore s’inebriava del suo canto. Con pause così brevi che le note quasi non finivano di spegnersi, effondeva la sua ebrietà in una melodia sempre varia, appassionata e dolce, sommessa e squillante, leggera e grave, e interrotta ora da gemiti fiochi, da implorazioni lamentevoli, ora da improvvisi impeti lirici, da invocazioni supreme. Pareva che anche il giardino ascoltasse, che il cielo s’inchinasse su l’albero melanconico dalla cui cima un poeta, invisibile, versava tali flutti di poesia. La selva dei fiori aveva un respiro profondo ma tacito. Qualche bagliore giallo s’indugiava nella zona occidentale; e quell’ultimo sguardo del giorno era triste, quasi lugubre. Ma una stella spuntò, tutta viva e trepida come una goccia di rugiada luminosa.

In questo passo D’Annunzio mette in pratica quanto già detto ne Il piacere: viene messo l’accento appunto su quell’assioma decadente in cui è la sola parola a poter farsi interprete del segreto della natura. La capacità di renderla musicale, la volontà d’interpretare ciò che interpretabile non è, la determinazione attraverso cui la natura s’umanizza e come il letterato la comprenda, rimane uno dei punti fermi della poetica del nostro.

Infatti L’innocente, pur essendo il primo romanzo dannunziano che gli garantirà una sicura e certa fama europea, non si distacca dal Piacere. Tullio è fratello di Andrea (raffinato e cultore di bellezza).

Il ciclo della Rosa, che vuole rappresentare la trilogia noir di D’Annunzio, si conclude con Il trionfo della morte del 1894:

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Edizione dei primi anni del Novecento de “Il trionfo della Morte”

Il protagonista del romanzo è Giorgio Aurispa, un giovane dì origine abruzzese colto e raffinato, che ha abbandonato il paese per trasferirsi a Roma, grazie all’eredità lasciatagli dalla morte del suicida zio Demetrio. Inizia una relazione con una donna sposata, Ippolita Sanzio. Ne nasce una relazione di forte intensità e sensuale, che lega indissolubilmente Giorgio ad Ippolita. Il protagonista torna in Abruzzo, ma qui scopre che la nobile famiglia è ormai in disgrazia perché il padre vive in dissoluzione con una prostituta. Giorgio è scioccato, sia per la sua situazione familiare sia dalla notizia della condizione misera in cui versa la popolazione, abbandonata alla povertà e alla superstizione. Decide di soggiornare allora al mare, affittando una casa su un promontorio. Ippolita lo raggiunge e la coppia vive felicemente, nonostante Giorgio, nei suoi studi nietzschiani, provi repulsione per la vita ancora pastorale e primitiva abruzzese. Ippolita invece ne è affascinata, specialmente quando assiste ad un esorcismo di una bambina. Giorgio diventa sempre più irrequieto e malinconico, e la sua follia esplode durante un pellegrinaggio dove assiste non ad uno scenario di carità cristiana, ma ad uno spettacolo macabro di malati e poveracci in condizioni disumane. Poiché Ippolita si è mostrata molto meravigliata e attratta dalla vita pastorale locale, Giorgio vede distrutti il suo rapporto ed equilibrio, decidendo il suicidio assieme alla sua amata.

Questo romanzo segue la raccolta poetica del Poema paradisiaco e mostra già un primo incontro di D’Annunzio con la filosofia nicciana.

EROS E THANATOS

Ora, più stanca, quasi esanime, dopo le furiose carezze, Ippolita si lasciava prendere a poco a poco dal sonno. A poco a poco su la sua bocca il sorriso divenne inconscio; poi disparve. Le labbra un istante si ricongiunsero; poi con infinita lentezza si riaprirono e dal fondo sorse un candore di gelsomini. Di nuovo, le labbra un istante si ricongiunsero; e ancóra, lentamente, lentamente, le labbra si dischiusero: risorse dal fondo il candore, inumidito.
Giorgio, sollevato sul gomito, la guardava. La vedeva bella bella bella, somigliante alla donna ch’egli aveva veduta la prima volta nell’Oratorio segreto, innanzi l’orchestra del filosofo Alessandro Memmi, tra il profumo vanito dell’incenso e delle violette. Era pallida pallida, come allora.
Era pallida ma di quella singolare pallidezza che Giorgio non aveva ritrovata in nessuna altra donna mai: d’una pallidezza quasi mortale, profonda, cupa, che un poco pendeva nel livido quando s’empiva di ombra. Una lunga ombra segnavano i cigli in sommo delle gote; un’ombra virile, a pena visibile, velava il labbro superiore. La bocca, piuttosto grande, aveva una linea sinuosa, assai molle ma pur triste, intensamente espressiva nel silenzio perfetto.
«Come la sua bellezza si spiritualizza nella malattia e nel languore!» pensava Giorgio. «Così affranta, mi piace di più. Io riconosco la donna sconosciuta che mi passò d’innanzi in quella sera di febbraio: la donna che non aveva una goccia di sangue. Io penso che morta ella raggiungerà la suprema espressione della sua bellezza. Morta! – E s’ella morisse? Ella diventerebbe materia di pensiero, una pura idealità. Io l’amerei oltre la vita, senza gelosia, con un dolore pacato ed eguale.»
Si ricordò che già qualche altra volta egli l’aveva imaginata bella nella pace della morte. – Ah, quella volta delle rose! Nei vasi languivano larghi mazzi di rose bianche: in un giugno, nel principio degli amori. Ella s’era assopita sul divano, immobile, quasi senza respiro. Egli l’aveva contemplata a lungo. Poi, per una improvvisa fantasia, l’aveva coperta di rose, piano piano, cercando di non destarla; le aveva composto su i capelli alcune rose. Ma così infiorata, inghirlandata, ella gli era parsa un corpo esanime, un cadavere. Atterrito dalla parvenza, egli l’aveva scossa per destarla; ed ella era rimasta inerte, tenuta da una di quelle sincopi a cui in quel tempo andava soggetta. Ah il terrore e l’ansia, prima ch’ella avesse ricuperati i sensi, e misto al terrore l’entusiasmo per la sovrana bellezza di quel volto straordinariamente annobilito da quel riflesso di morte! – Egli si risovvenne dell’episodio; ma poiché si indugiava nei pensieri strani, fu preso da un subitaneo moto di rimorso e di pietà. Si chinò a baciare la fronte della dormiente; che non s’accorse del bacio. A stento allora egli si trattenne dal baciarla più forte su la bocca perch’ella se n’accorgesse e rispondesse. Allora sentì tutta la vanità d’una carezza che non fosse per l’oggetto amato una rapida comunicazione di gaudio; sentì tutta la vanità di un amore che non fosse una continua immediata corrispondenza di sensazioni acute. Sentì allora l’impossibilità d’inebriarsi senza che alla sua ebrezza corrispondesse una ebrezza d’intensità eguale.

Il Trionfo della morte è certamente uno dei romanzi più complessi della narrativa dannunziana: in esso s’intrecciano vari temi che in parte, riprendendo quelli già presenti in altre opere, come quello del superomismo, qui si approfondiscono con l’apporto appunto nicciano, lasciando inalterate le suggestioni dostoevskiane con echi addirittura zoliani. Vi si presenta l’incontro tra due spiritualità differenti, ma proprio per questo complementari: il protagonista un superuomo voluttuario, cupo, che cerca nella morte il riscatto di una vita che non riesce ad essere all’altezza dell’Übermensch (Oltre l’uomo, così come lo definisce Nietzsche), per colpa di lei, la Nemica, donna torbida, sensuale che gli succhia l’energia. L’idea della morte (presente già nel titolo dell’opera), attraversa tutto il romanzo, e nel brano citato appare come elemento sensuale, attrattivo, quasi a sfiorare un caso di necrofilia.

L’immagine dannunziana del rapporto eros/thanatos non è tuttavia “solitaria”, ma nasce dal successo di un movimento artistico inglese, quello dei Preraffaeliti, che, in piena età vittoriana, sviluppano temi languidi e sensuali, in cui predomina un’immagine femminile tra evanescente e fatale.

Il periodo in cui D’Annunzio scrive i romanzi, dà vita anche al Poema paradisiaco (1893), una raccolta di poesie dove gli accenti si fanno decisamente meno ridondanti ed il poeta cerca quasi un ripiegamento interiore (non è un caso che sarà a questa raccolta che s’ispireranno i Crepuscolari):

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Luisa De Benedictis, madre di D’Annunzio

CONSOLAZIONE

Non pianger più. Torna il diletto figlio
a la tua casa. È stanco di mentire.
Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.

Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato
serba ancora per noi qualche sentiero.
Ti dirò come sia dolce il mistero
che vela certe cose del passato.

Ancóra qualche rosa è ne’ rosai,
ancóra qualche timida erba odora.
Ne l’abbandono il caro luogo ancóra
sorriderà, se tu sorriderai.

Ti dirò come sia dolce il sorriso
di certe cose che l’oblìo afflisse.
Che proveresti tu se ti forisse
la terra sotto i piedi, all’improvviso?

Tanto accadrà, ben che non sia d’aprile.
Usciamo. Non coprirti il capo. È un lento
sol di settembre; e ancor non vedo argento
su ’l tuo capo, e la riga è ancor sottile.

Perché ti neghi con lo sguardo stanco?
La madre fa quel che il buon figlio vuole.
Bisogna che tu prenda un po’ di sole,
un po’ di sole su quel viso bianco.

Bisogna che tu sia forte; bisogna
che tu non pensi a le cattive cose…
Se noi andiamo verso quelle rose,
io parlo piano, l’anima tua sogna.

Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,
tutto sarà come al tempo lontano.
Io metterò ne la tua pura mano
tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto.

Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita.
In una vita semplice e profonda
io rivivrò. La lieve ostia che monda
io la riceverò da le tue dita.

Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.
Io parlo. Di’: l’anima tua m’intende?
Vedi? Ne l’aria fluttua e s’accende
quasi il fantasma d’un april defunto.

Settembre (di’: l’anima tua m’ascolta?)
ha ne l’odore suo, nel suo pallore,
non so, quasi l’odore ed il pallore
di qualche primavera dissepolta.

Sogniamo, poi ch’è tempo di sognare.
Sorridiamo. È la nostra primavera, questa.
A casa, più tardi, verso sera,
vo’ riaprire il cembalo e sonare.

Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava,
allora, qualche corda; qualche corda
ancóra manca. E l’ebano ricorda
le lunghe dita ceree de l’ava.

Mentre che fra le tende scolorate
vagherà qualche odore delicato,
(m’odi tu?) qualche cosa come un fiato
debole di viole un po’ passate,

sonerò qualche vecchia aria di danza,
assai vecchia, assai nobile, anche un poco
triste; e il suono sarà velato, fioco,
quasi venisse da quell’altra stanza.

Poi per te sola io vo’ comporre un canto
che ti raccolga come in una cuna,
sopra un antico metro, ma con una
grazia che sia vaga e negletta alquanto.

Tutto sarà come al tempo lontano.
L’anima sarà semplice com’era;
e a te verrà, quando vorrai, leggera
come vien l’acqua al cavo de la mano.

Il ripiegamento interiore corrisponde ad un ritorno alla famiglia. L’atmosfera è segnata dai buoni sentimenti del figlio pentito, intenzionato a rivivere le atmosfere malinconiche di un passato non troppo lontano. La madre è infatti ancora giovane (non c’è argento tra i capelli), ma più antica è l’aria che la circonda: tende scolorite, viole appassite, melodie retrò: tutte cose dette con parole che sembrano sussurrate, ma sono, invece fortemente ricercate. Anche la malinconia ha una sua estetica, ottenuta attraverso ripetizioni, enjambement, assonanze, metonimie (ebano ad indicare i tasti del piano) che vogliono dare, attraverso una retorica insistita,  musicalità al testo.

A leggere la poesia sembra che il poeta ricerchi una nuova verginità, di cui il gesto metaforico è l’ostia consacrata ricevuta dalla madre. Ma ci lascia perplessi la contemporaneità delle tronfie Odi navali, nonché le tematiche dei romanzi.

Dopo aver pubblicato Il trionfo della morte (1894) – che costituisce con i primi due il ciclo I romanzi della rosa – D’Annunzio approfondisce l’ideologia politica il filosofo tedesco Nietzsche, dal quale prende spunto per precisare ancor meglio la sua teoria sul superuomo, trasformandola da colui che s’innalza su gli altri per capacità estetiche, a colui che s’innalza sugli altri per capacità politiche.

Il romanzo, che vuole tradurre la filosofia del pensatore tedesco è Le vergini delle rocce:

Il romanzo è scritto in prima persona. Si apre con un Prologo dove viene evocato un giardino remoto i cui tre nobili vergini aspettano lo sposo. Quindi il protagonista, Claudio Cantelmo, enuncia una teoria del mondo, incentrata sul valore discriminante della bellezza e dell’apparenza magnifica, che pochi creano per i molti, destinati invece alla fatica e alla passività. Disgustato dalla degenerazione egualitaria, lascia Roma, per ritirarsi nelle sue terre ereditarie. Cantelmo progetta di dar vita ad un erede che torni ad incarnare le virtù della sua stirpe aristocratica: perciò sente il fascino delle tre principesse nubili, Violante, Massinissa e Anatolia e prende a frequentare l’antica dimora patrizia. Sulla loro famiglia, i Capece Montaga, già illustri (come gli stessi Cantelmo) all’epoca in cui regnavano sulle Due Sicilie i Borboni, e fedeli al loro passato, gravano tuttavia presagi di decadenza e di morte: la principessa madre, Aldoina, è una demente che Anatolia deve assistere; il principe padre è un sopravvissuto; nei fratelli gemelli Osvaldo e Antonello già si intravedono disperazione, debolezza, pazzia. Massinissa, benché turbata dalla seduzione mistico-sensuale delle parole di Cantelmo, è decisa a farsi monaca; e nel corso di una drammatica ascesa sul monte Corace Claudio si rende conto che anche Anatolia e Violenta, ormai chiuse nel loro destino come tra le rocce, gli sfuggono.

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Tre figure femminili in un disegno preraffaelita

IL PROGRAMMA DEL SUPERUOMO

L’arroganza delle plebi non era tanto grande quanto la viltà di coloro che la tolleravano o la secondavano. Vivendo in Roma, io era testimonio delle più ignominiose violazioni e dei più osceni connubii che mai abbiano disonorato un luogo sacro. Come nel chiuso d’una foresta infame, i malfattori si adunavano entro la cerchia fatale della città divina dove pareva non potesse novellamente levarsi tra gli smisurati fantasmi d’imperio se non una qualche magnifica dominazione armata d’un pensiero più fulgido di tutte le memorie. Come un rigurgito di cloache l’onda delle basse cupidige invadeva le piazze e i trivii, sempre più putrida e più gonfia, senza che mai l’attraversasse la fiamma di un’ambizione perversa ma titanica, senza che mai vi scoppiasse almeno il lampo d’un bel delitto. La cupola solitaria nella sua lontananza transtiberina, abitata da un’anima senile ma ferma nella consapevolezza de’ suoi scopi, era pur sempre il massimo segno, contrapposta a un’altra dimora inutilmente eccelsa dove un re di stirpe guerriera dava esempio mirabile di pazienza adempiendo l’officio umile e stucchevole assegnatogli per decreto fatto dalla plebe. Una sera di settembre, su quell’acropoli quirina custodita dai Tindaridi gemelli, mentre una folla compatta commemorava con urli bestiali una conquista di cui non conosceva l’immensità spaventosa (Roma era terribile come un cratere, sotto una muta conflagrazione di nubi), io pensai: «Qual sogno potrebbero esaltare nel gran cuore d’un Re questi incendii del cielo latino! Tale che sotto il suo peso i cavalli giganteschi di Prassitele si piegherebbero come festuche…. Ah chi saprà mai abbracciare e fecondare la Madre col suo pensiero oltrapossente? A lei sola – al suo grembo di sasso che fu nei secoli l’origliere della Morte – a lei sola è dato generar tanta vita che se ne impregni il mondo un’altra volta.»
E io vedevo, nella mia imaginazione, dietro le vetrate fiammeggianti del balcone regale, una fronte pallida e contratta su cui, come su quella del Còrso, era inciso il segno d’un destino sovrumano.
(…)
Chiedevano intanto i poeti, scoraggiati e smarriti, dopo aver esausta la dovizia delle rime nell’evocare imagini d’altri tempi, nel piangere le loro illusioni morte e nel numerare i colori delle foglie caduche; chiedevano, alcuni con ironia, altri pur senza: «Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi esaltare in senarii doppii il suffragio universale? Dobbiamo noi affrettar con l’ansia dei decasillabi la caduta dei re, l’avvento delle repubbliche, l’accesso delle plebi al potere? Non è in Roma, come già fu in Atene, un qualche demagogo Cleofonte fabbricante di lire? Noi potremmo, per modesta mercede, con i suoi stessi strumenti accordati da lui, persuadere gli increduli che nel gregge è la forza, il diritto, il pensiero, la saggezza, la luce….»
Ma nessuno tra loro, più generoso e più ardente, si levava a rispondere: «Difendete la Bellezza! È questo il vostro unico officio. Difendete il sogno che è in voi! Poichè oggi non più i mortali tributano onore e riverenza ai cantori alunni della Musa che li predilige, come diceva Odisseo, difendetevi con tutte le armi, e pur con le beffe se queste valgano meglio delle invettive. Attendete ad inacerbire con i più acri veleni le punte del vostro scherno. Fate che i vostri sarcasmi abbiano tal virtù corrosiva che giungano sino alla midolla e la distruggano. Bollate voi sino all’osso le stupide fronti di coloro che vorrebbero mettere su ciascuna anima un marchio esatto come su un utensile sociale e fare le teste umane tutte simili come le teste dei chiodi sotto la percussione dei chiodajuoli. Le vostre risa frenetiche salgano fino al cielo, quando udite gli stallieri della Gran Bestia vociferare nell’assemblea. Proclamate e dimostrate per la gloria dell’Intelligenza che le loro dicerie non sono men basse di quei suoni sconci con cui il villano manda fuori per la bocca il vento dal suo stomaco rimpinzato di legumi. Proclamate e dimostrate che le loro mani, a cui il vostro padre Dante darebbe l’epiteto medesimo ch’egli diede alle unghie di Taide, sono atte a raccattar lo stabbio ma non degne di levarsi per sancire una legge nell’assemblea. Difendete il Pensiero ch’essi minacciano, la Bellezza ch’essi oltraggiano! Verrà un giorno in cui essi tenteranno di ardere i libri, di spezzare le statue, di lacerare le tele. Difendete l’antica liberale opera dei vostri maestri e quella futura dei vostri discepoli, contro la rabbia degli schiavi ubriachi. Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo. Un ordine di parole può vincere d’efficacia micidiale una formula chimica. Opponete risolutamente la distruzione alla distruzione!»
E i patrizii, spogliati d’autorità in nome dell’uguaglianza, considerati come ombre d’un mondo scomparso per sempre, infedeli i più alla loro stirpe e ignari o immemori delle arti di dominio professate dai loro avi, anche chiedevano: «Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi ingannare il tempo e noi stessi cercando di alimentare tra le memorie appassite qualche gracile speranza, sotto le volte istoriate di sanguigna mitologia, troppo ampie pel nostro diminuito respiro? O dobbiamo noi riconoscere il gran dogma dell’Ottantanove, aprire i portici dei nostri cortili all’aura popolare, coronar di lumi i nostri balconi di travertino nelle feste dello Stato, diventar soci dei banchieri ebrei, esercitar la nostra piccola parte di sovranità riempiendo la scheda del voto coi nomi dei nostri mezzani, dei nostri sarti, dei nostri cappellai, dei nostri calzolai, dei nostri usurai e dei nostri avvocati?»
Qualcuno tra loro – mal disposto alle rinunzie pacifiche, ai tedii eleganti e alle sterili ironie – rispondeva: «Disciplinate voi stessi come i vostri cavalli da corsa, aspettando l’evento. Apprendete il metodo per affermare e afforzare la vostra persona come avete appreso quello per vincere nell’ippòdromo. Costringete con la vostra volontà alla linea retta e allo scopo fermo tutte le vostre energie, e pur le vostre passioni più tumultuose e i vostri vizii più torbidi. Siate convinti che l’essenza della persona supera in valore tutti gli attributi accessorii e che la sovranità interiore è il principal segno dell’aristòcrate. Non credete se non nella forza temprata dalla lunga disciplina. La forza è la prima legge della natura, indistruttibile, inabolibile. La disciplina è la superior virtù dell’uomo libero. Il mondo non può essere constituito se non su la forza, tanto nei secoli di civiltà quanto nelle epoche di barbarie. Se fossero distrutte da un altro diluvio deucalionico tutte le razze terrestri e sorgessero nuove generazioni dalle pietre, come nell’antica favola, gli uomini si batterebbero tra loro appena espressi dalla Terra generatrice, finchè uno, il più valido, non riuscisse ad imperar su gli altri. Aspettate dunque e preparate l’evento. Per fortuna lo Stato eretto su le basi del suffragio popolare e dell’uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile ma è anche precaria. Lo Stato non deve essere se non un instituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d’una classe privilegiata verso un’ideal forma di esistenza. Su l’uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia, voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza; e riuscirete in pochi, o prima o poi, a riprendere le redini per domar le moltitudini a vostro profitto. Non vi sarà troppo difficile, in vero, ricondurre il gregge all’obedienza. Le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli. Esse non avranno dentro di loro giammai, fino al termine dei secoli, il sentimento della libertà. Non vi lasciate ingannare dalle loro vociferazioni e dalle loro contorsioni sconce; ma ricordatevi sempre che l’anima della Folla è in balia del Pánico. Vi converrà dunque, all’occasione, provvedere fruste sibilanti, assumere un aspetto imperioso, ingegnar qualche allegro stratagemma.

In questa pagina l’arte oratoria di Claudio Cantelmo (Gabriele D’Annunzio) dà inizio a quello che una parte della critica definisce il “superuomo tribuno”. Tuttavia bisogna sottolineare come, sin dalle prime parole vi sia una sorta di sogno utopico, più che di volontà di potenza, nel vedere lo stato guidato dai poeti (e non dai filosofi, come diceva Platone) sotto il segno del Verbo. Infatti Cantelmo, a differenza di Sperelli, non vive l’arte in modo identificativo (arte = vita), ma come azione (arte = bellezza) che si contrappone al “grigiore democratico”, cui l’Italia di fine ’800 aveva delegato di disegnare l’architettura della nuova capitale del Regno.

Certamente è un atteggiamento che noi leggiamo come antidemocratico, ma è un atteggiamento che il nostro autore condivide con gran parte di un’intera classe intellettuale, nazionalista, irrazionale, con il mito della politica forte d’impronta bismarckiana: si trattava, per l’Italia, della ricerca d’una potenza ch’essa ancora non poteva offrire; un’intellettualità che infine si esprimerà nelle riviste fiorentine di primo Novecento.

Un altro romanzo in cui la componente nicciana, mescolata stavolta con quella altrettanto importante di Wagner è Il fuoco, pubblicato nel 1900 dopo un viaggio in Grecia e dopo aver conosciuto la più grande attrice italiana allora sulle scene, Eleonora Duse, sulla cui figura disegna il personaggio femminile del romanzo:

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L’Opera di Bayreuth (Il teatro totale di Wagner)

Il fuoco è un romanzo incentrato sugli amori di Stelio Effrena e Foscarina ed è ambientato a Venezia (si conclude con i funerali di Wagner, morto, nel 1896, nella città lagunare). Stelio Effrena, giovane intellettuale, vive nel desiderio di far rinascere un’arte totale, capace, così come Wagner era riuscito in Germania, a racchiudere in sé l’intera idea di Bellezza e nel contempo divenire espressione di quel Genio italico, da tempo mancante nella terra patria. La Foscarina (così la chiama Stelio) è un’attrice ormai matura, che vuol diventare e diventa musa per l’intellettuale Stelio. Il romanzo è il racconto del loro rapporto, fatto di avvicinamenti e abbandoni (lei si allontana per lasciare libero il giovane nella sua creazione artistica, ma non riesce a non pensarsi come motivo d’ispirazione per la sua arte). Alla fine Foscarina abbandona Venezia e Stelio, insieme ai suoi amici, assiste al funerale di Wagner, conscio che la sfida della Bellezza contro la decadenza del gusto borghese, non può che portare alla sconfitta.

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Venezia nei primi del Novecento

FOSCARINA

L’animatore, con un altro brivido, sentì sussultare entro di sé l’opera ch’egli nutriva, ancóra informe ma già vitale; e tutta la sua anima s’inclinò con un moto impetuoso, come investita da un soffio lirico, verso la potenza di fecondazione e di rivelazione ch’emanava dalla donna dionisiaca a cui saliva la lode di quegli spiriti ferventi.
Ella a un tratto era divenuta bellissima, creatura notturna foggiata dalle passioni e dai sogni su un’incudine d’oro, simulacro spirante dei fati immortali e degli enigmi eterni. Se bene ella fosse immobile, se bene ella tacesse, i suoi accenti famosi, i suoi gesti memorabili parevano vivere intorno a lei e vibrare indefinitivamente come le melodie intorno alle corde che sogliano ripeterle, come le rime intorno al libro chiuso ove l’amore e il dolore sogliono ricercarle per inebriarsene e per consolarsene. La fedeltà eroica di Antigone, il furore fatidico di Cassandra, la divorante febbre di Fedra, la ferocia di Medea, il sacrifizio d’Ifigenia, Mirra dinanzi al padre, Polissena e Alceste dinanzi alla morte, Cleopatra volubile come il vento e la vampa del mondo, Lady Macbeth veggente carnefice dalle piccole mani, e i grandi gigli imperlati di rugiade e di lacrime, Imogene, Giulietta, Miranda e Rosalinda e Jessica e Perdita, le più dolci anime e le più terribili e le più magnifiche erano in lei, abitavano il suo corpo, balenavano per le sue pupille, respiravano per la sua bocca che sapeva il miele e il veleno, la coppa gemmata e la tazza di scorsa. Così in una vastità senza limiti e in un tempo senza fine pareva ampliarsi e perpetuarsi il contorno della sostanza e dell’età umana; pur tuttavia non da altro se non dal moto di un muscolo, da un cenno, da un segno, da un lineamento, da un battito di palpebre, da una tenue mutazione di colore, da una lievissima reclinazione della fronte, da un fuggevole gioco di ombre e di luci, da una fulminea virtù espressiva irradiata nella carne angusta e frale si generavano di continuo quei mondi infiniti d’imperitura bellezza. I genii stessi dei luoghi consacrati dalla poesia alitavano sopra di lei, la cingevano di visioni alterne. Il piano polversoso di Tebe, l’Argolide sitibonda, i miti arsicci di Trezene, i santi olivi di Colono, il trionfale Cidno, e la pallida campagna di Dunsinana e la caverna di Prospero, e la selva delle Ardenne, i paesi rigati di sangue, travagliati dal dolore, trasfigurati da un sogno o rischiarati da un sorriso inestinguibile, apparivano, lontanavano, dileguavano dietro la sua testa. E altri paesi remoti, le regioni delle brume, le lande settentrionali, i continenti immensi di là degli oceani ov’ella era passata con una forza inaudita tra le moltitudini attonite portando la parola e la fiamma, dileguavano dietro la sua testa; e le moltitudini con i monti con i fiumi con i golfi con le città impure, le stirpi assiderate e antichissime, i popoli forti anelanti al dominio della terra, le genti nuove che strappano alla natura le energie più segrete per asservirle al lavoro onnipossente negli edifizi di ferro e di cristallo, le colonie di razze imbastardite che fermentano e si corrompono , su un suolo vergine tutte le folle barbariche a cui ella era apparsa come una rivelazione sovrana del genio latino, tutte le torme ignare a cui ella aveva parlato la lingua sublime di Dante, tutte le innumerevoli greggi umane ond’era salita verso di lei sopra un flutto di ansie e di speranze confuse l’aspirazione alla Bellezza. Ella era là, creatura di carne caduca, soggetta alle tristi leggi del tempo; e una smisurata massa di vita reale e ideale gravava su di lei, pulsava col ritmo di quel respiro stesso. Non nella finzione soltanto ella aveva gittato i suoi gridi e soffocato i suoi singhiozzi, ma nella vita comune. Violentemente amato, lottano, sofferto ella aveva per sé, per lasua anima, per il suo sangue. Quali amori? quali contrasti? quali spasimi? Da quali abissi di malinconia ella aveva tratto le sublimazioni della sua virtù tragica? A quali fonti d’amaritudine aveva ella abbeverato il suo libero genio? Certo ella era stata testimone delle più truci miserie, delle più cupe ruine, ella aveva conosciuto gli sforzi eroici, la pietà, l’orrore, il limitare della morte. Tutte le sue seti riardevano nel delirio di Fedra, e nella sommessione d’Imogene ritremavano tutte le sue tenerezze. Così la Vita e l’Arte, il passato irrevocabile e l’eternamente presente, la facevano profonda, multanime e misteriosa; magnificavano oltre i limiti umani le sue sorti ambigue; la eguagliavano a templi e alle foreste.
Ed ella era là, respirante, sotto gli occhi dei poeti che la vedevano una e diversa.
«Ah, io ti possederò come in un’orgia vasta; io ti scrollerò come un fascio di tirsi, io scoterò nella tua carne esperta tutte le cose divine e mostruose che t’aggravano, e le cose compiute e quelle in travaglio che crescono entro di te come una stagione sacra» parlava il démone lirico dell’animatore riconoscendo nel mistero della donna presente la potenza superstite del mito primitivo, l’iniziazione rinnovellata del nume che aveva fuso in un sol fermento tutte le energie della natura e col variare dei ritmi aveva sollevato i sensi e gli spiriti umani al sommo della gioia e del dolore nel suo culto entusiastico. «Mi gioverà, mi gioverà, l’avere atteso. Il mutare degli anni, il tumulto dei sogni, i palpiti della lotta, la rapidità dei trionfi, l’impurità degli amori, gli incantesimi dei poeti, le acclamazioni dei popoli, le meraviglie della terra, la pazienza e la furia, i passi nel fango, i ciechi voli, tutto il male, tutto il bene, quel che io so e wquel che ignoro, quel che tu sai e che tu ignori, tutto fu per la pazienza della mia notte».
Egli si sentiva soffocare e impallidire. Il desiderio lo aveva preso alla gola con un impeto selvaggio, per non più lasciarlo. E il cuore gli si gonfiava di quella medesima ansietà che avevano provato entrambi nel vespro navigando su quell’acqua che pareva scorrere per loro in una clessidra spaventosa.
Così per lui vanendo a un tratto la visione smisurata dei luoghi e degli eventi, la creatura notturna riappariva ancor più profondamente commista con la Città dalle mille cinture verdi e dagli immensi monili. Nella città e nella donna egli vedeva ora una forza d’espressione non mai veduta prima. L’una e l’altra ardevano nella notte d’autunno, correndo per le vene e per i canali una medesima febbre.

Foscarina rappresenta non la Nemica, come nel Trionfo della morte, ma un tipo di femminino che alla fin fine soggioga e poi “vince” l’animatore (Stelio Effrena). Infatti ci troviamo nel momento prima di un desiderato amplesso. Lei, più grande di lui, che si è negata fino ad allora e che ora sembra pronta a concederglisi, incarna la Bellezza dell’Arte di ieri, vivendo in quanto attrice, le grandi donne del passato greco e scespiriano; in lei s’attualizzano gli spazi in cui tali donne hanno operato, i gesti, gli sguardi, tutto ciò insomma che hanno appartenuto a queste eroine. Lei infatti è multanime, come dice Effrena (D’Annunzio) e di questo possesso che fa di Foscarina un’unica donna nella varietà che lui s’invaghisce: possedere lei vuol dire possedere tutte le donne, ma donne che, come nell’orgia dionisiaca si liberino e offrano, senza inibizioni, se stesse.

E’ chiaro che per gloriare Foscarina, D’Annunzio usi tutti i suoi strumenti retorici: ripetizioni, latinismi, linguaggio altissimo. E’ il suo stile, sia che descriva il canto di un uccellino, sia che parli di una donna.

Foscarina è un po’ Eleonora Duse, ed infatti dopo Il fuoco, il nostro si ritira nella villa della Capponcina, a fianco a quella dell’attrice, dando luogo ad un intenso rapporto, che avrà anche conseguente artistiche.

Tra le prime, e certamente tra le più felici conseguenze è la realizzazione dei primi tre libri delle Laudi, di cui l’Alcyone rappresenta, a tutt’oggi, uno dei vertici della poesia italiana del primo Novecento.

Le Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, progetto iniziato già negli ultimi anni dell’Ottocento, doveva comprendere sette libri, quante sono le Pleiadi (costellazioni). D’Annunzio compose i primi tre, Maia, Elettra, Alcyone, che pubblica nel 1903, e nei quali dà vita ad un canto musicale, che ha come fine quello di far penetrare l’uomo all’interno della natura, far parte di essa, contemplare estaticamente il mistero della vita per vedere se stesso come mistero.

La poesia dannunziana cerca, quindi, di comprendere l’universalità del mistero, che solo l’Arte, nella sua totalità, può intuire; mistero determinato dalla ricchezza della Natura, che il poeta deve ghermire, fare sua, sperimentando nella vita tutto ciò che “sensualmente” può ottenere, come afferma in questa poesia, pubblicata nel primo libro Maia, costituito da un unico lungo poema di 8.400 versi ineguali:

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Edizione della Laudi per Treves

LA SIRENA DEL MONDO

Nessuna cosa
mi fu aliena;
nessuna mi sarà
mai, mentre comprendo.
Laudata sii, Diversità
delle creature, sirena
del mondo! Talor non elessi
perché parvemi che eleggendo
io t’escludessi,
Diversità, meraviglia
sempiterna, e che la rosa
bianca e la vermiglia
fosser dovute entrambe
alla mia brama,
e tutte le pasture
co’ loro sapori,
tutte le cose pure e impure
ai miei amori;
però io son colui che t’ama
Diversità, sirena
del mondo, io son colui che t’ama.

Vigile ad ogni soffio,
intenta a ogni baleno,
sempre in ascolto,
sempre in attesa,
pronta a ghermire,
pronta a donare,
pregna di veleno
di balsamo, tòrta
nelle sue spire
possenti o tesa
come un arco, dietro la porta
angusta o sul limitare
dell’immensa foresta,
ovunque, giorno e notte,
al sereno e alla tempesta,
in ogni luogo, in ogni evento,
la mia anima visse
come diecimila!
E’ curva la Mira che fila,
poi che d’oro e di ferro pesa
lo stame come quel d’Ulisse.

E’ la lode alla Diversità: la poetica dannunziana che ambisce a cantare la vita nella sua totalità (non per niente tale sezione è detta Laus vitae) non può prescindere dalla sua Diversità. Forte è qui il richiamo al cantico francescano (laudata sii…) e al Nietzsche di Così parlò Zarathrusta (Perché io t’amo, o Eternità): l’idea di fondo, come spesso è nell’accumulo, ma l’accumulo nasconde la dialettica. Il superuomo dannunziano non sceglie, ma vive totalmente (allo stesso modo in cui Effrena voleva dar vita al teatro totale).

Ma il capolavoro della poesia dannunziana è certamente la raccolta Alcyone, dove si esprime in tutta la sua potenzialità, il “gusto della parola” che il nostro sa suscitare.

L’opera occupa la terza parte delle Laudi, (sebbene le ultima due Merope e Asterope, tarde rispetto al progetto originario e lontane per ispirazione al nucleo orginario) e consta di 88 liriche, composte per la maggior parte nell’estate del 1902. E’ un testo lirico e narrativo insieme, un “canzoniere” potremmo dire, in cui il poeta descrive le sue sensazioni tra riflessive e paniche (apollinee e dionisiache) vissute sulla costa della Versilia insieme al suo amore, Eleonora Duse.

Per questo in tale raccolta il poeta esalta l’estate, momento in cui la Natura esplode, coi suoi mille colori e i suoi mille sapori, e dove l’uomo-poeta, inebriato dal calore e dal sole, si lascia andare ad un amplesso cosmico con il mondo del creato.

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Alcyone (costellazione)

Si inizia con l’incanto di una sera d’estate:

LA SERA FIESOLANA

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.

Laudata sii pel tuo viso di perla,
Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aurea che si perde,
e su ‘l grano che non è biondo ancòra
e non è verde,
e su ‘l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.

Laudata sii per le tue vesti aulenti,
Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora.

Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!

Al centro della poesia troviamo l’incanto della sera, più evocato che descritto; manca, infatti, un centro narrativo. La sera appare quasi umanizzata, evocatrice dei misteri profondi della natura, mentre l’uomo e la donna rimangono sullo sfondo a percepire i richiami che essa manda al mondo; solo il poeta e capace di raccoglierli (Io ti dirò, dell’ultima strofe), perché in grado di intuire il suo vero senso di mistero, fatto di nascita e di morte.

La lirica è strutturata in tre momenti:

  • Il crepuscolo visto dall’uomo e dalla donna; vi è un tentativo di dialogo nell’immagine, ma l’unico rumore è quello dell’uomo, sulla scala, che s’attarda a sfrascare un gelso. Al sorgere della luna, il cielo si argentea e ricopre con la sua luce silenziosa il piano e il loro sogno d’amore;
  • La pioggia ricopre le parole: cade creando una sinfonia di suoni ed è come se la primavera piangesse il suo addio per dar voce all’estate;
  • Il poeta racconta alla donna di luoghi incantati e regni favolosi dove li chiama il fiume Arno; sottolinea la bellezza delle colline, pronte a dire, ma incapaci di farlo.

Ogni stanza è seguita da una lode: ecco allora che la lirica si trasforma quasi in una liturgia sacrale.

Più celebrata è La pioggia nel pineto:
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Pioggia in un pineto

LA PIOGGIA NEL PINETO

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitìo che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancòra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo vòlto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, ascolta. L’accordo

delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce dal mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare,
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pésca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove sui nostri vòlti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

In questa famosissima poesia viene celebrato il “mito” più importante della poetica dannunziana, quello della metamorfosi dell’uomo con la natura (panismo), dove forte è il richiamo al poeta latino Ovidio (di cui tradurrà/tradirà, proprio in questa sezione, il mito di Apollo e Dafne). Il tutto è reso con una ricerca linguistica in cui la parola deve farsi musica, ricreare il suono proprio, cioè la voce, della natura. Gli effetti sonori ci sono dati dalle allitterazioni (ripetizioni di suoni), polisindeti (ripetizione di uno stesso suono ad inizio verso) ed altre soluzioni retoriche altamente specialistiche. Ma ciò che emerge è la felicità di un acquazzone estivo, in cui l’uomo e la donna si uniscono in un sottile gioco erotico.

Nell’ultima parte della raccolta poetica, D’Annunzio canta la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, con toni malinconici, come a trasfigurare il sentimento d’abbandono dei miti solari verso colori più tenui; ed ecco allora che egli s’immagina la vita dei pastori, semplice ed onesta, negata al suo genio inquieto:

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I pastori

I PASTORI

Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natìa
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda lo lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!

Ora lungh’esso il litoral cammina

la greggia. Senza mutamento è l’aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquìo, capestìo, dolci romori.

Ah perché non son io co’ miei pastori?

Tuttavia questa adesione al mondo pastorale sembra più “evocata” che “sentita”. Quello che interessa al poeta è l’immagine visiva di un incipiente autunno, i suoi riferimenti letterari (si pensi al tremolar della marina d’origine dantesca), nonché la sua capacità musicale di costruire i versi.

La grande stagione poetica di D’Annunzio si complicherà anche con l’avvicinarsi del poeta pescarese al teatro. Questo avvicinamento è dovuto proprio alla relazione con la Duse, per la quale scrive pièce da portare in giro per l’Europa. Ma le opere di questo genere, come la Francesca da Rimini (1901) o La nave ((1908) non hanno retto il passare degli anni. Unica ad essere ricordata e che rappresenta certamente l’esito migliore è La figlia di Jorio, del 1904, ambienta in un Abruzzo primitivo e mitico:

La vicenda si svolge in un Abruzzo mitico. In casa di Lazaro di Roio si festeggiano le nozze del pastore Aligi con Vienda di Giave, quando sopraggiunge Mila di Codra, la meretrice dei campi figlia dello stregone Jorio, inseguita da una turba di mietitori ubriachi. Le donne incitano Aligi a scacciarla, ma egli, aiutato dalla sorella Ornella, la protegge perché ha visto piangere l’“Angelo muto”, simbolo dell’innocenza. Preso da mistico amore, il trasognato giovane lascia la casa e la vergine sposa per andare a vivere con Mila, in castità, sulla cima della montagna: è sua intenzione recarsi a Roma e chiedere al papa l’annullamento delle nozze, non consumate, con Vienda. Ma un giorno sale al loro rifugio Lazaro, il torvo padre di Aligi, che vuole possedere Mila con la forza: e poiché il figlio si oppone, lo fa legare e portar via dai suoi contadini, gettandosi poi brutalmente sulla donna. Sennonché Aligi, liberato dall’ignara Ornella, riappare sulla soglia, e, sconvolto dalla scena disgustosa, uccide Lazaro. Il popolo condanna il parricida a morire affogato, chiuso in un sacco con un mastino; ma Mila si accusa del delitto e giura d’aver stregato l’amante inducendolo a credersi colpevole. Aligi la smentisce; poi, smemorato, sotto gli effetti dei narcotici, somministratogli in previsione del supplizio, si lascia convincere e “maledice” la strega. Tra gli urli e gli insulti della folla, Mila viene trascinata al rogo: soltanto Ornella che “sa”, perché “ha visto”, ha pietà di lei e la chiama “sorella in Gesù”.

IL PARRICIDIO

(Mila starà con gli occhi fissi a quella parte, con l’orecchio teso per cogliere le voci. Nella breve tregua, Lazaro scruterà la caverna insidiosamente. Si udrà in lontananza il cantare di un’altra compagnia trapassante pel valico.)

LAZARO
Femmina, or hai tu veduto
che il padrone son io. Do la legge.
Rimasta sei sola con me.
Si comincia a far sera; e qui dentro
è già quasi notte. Paura
non avere, Mila di Codra,
né di questa mia cicatrice se accesa la vedi,
che ancóra mi ci sento batter la febbre…
Accòstati. Consunta mi sembri.
Nel giaccio del pecoraio non avesti per certo la grassa
pasciona. Da me tu potresti
averla, se tu la volessi,
alla pianura; ché Lazaro di Roio è capoccio fornito…
Ma che guati per là? che aspetti?
MILA:        
Nulla aspetto. Non viene nessuno.
(Vigilerà, nella speranza di vedere apparire Ornella per salvazione. Dissimulando e temporeggiando, tenterà d’ingannare l’uomo).
LAZARO:         
Sei sola con me. Non avere
paura. Ti sei persuasa?
MILA (lentamente):
Ci penso, Lazaro di Roio,
ci penso, a quel che prometti…
Ci penso. Ma chi m’assicura?
LAZARO:           
Non ti scostare. Mantengo
quel che prometto, ti dico,
se Dio mi dà bene. Vien qua.

MILA:                

E Candia della Leonessa?

LAZARO:           

Metta amara saliva e con quella bagni
il filo di canapa e torca.

MILA:                

E tre figlie tu hai nella casa,
e la nuora. Non mi confido.
LAZARO:           
Vien qua. Non ti scostare. Qua, senti:
ho vénti ducati cuciti
dentro la pelle. Li vuoi?
(Palperà l’orlo della sua casacca di pelle di capra. Poi se la toglierà di dosso e la getterà per terra, ai piedi della donna).
Tieni! Non li senti che suonano?
Sono vénti ducati d’argento.
MILA:                
Vo’ prima vedere; vo’ prima
contare, Lazaro di Roio.
Ora prendo le forbici e sdrucio.
LAZARO:           
Ma che guati? Ah, magalda, tu certo
preparando mi vai qualche sorte
e tenermi a bada ti credi.
(Egli l’assalirà per prenderla. La donna gli sfuggirà nell’ombra, andrà a rifugiarsi presso il ceppo di noce).
MILA:                
No! No! No! Lasciami! Lasciami!
Non mi toccare. Ecco, viene!
Ecco, viene la tua figlia… Ornella ora viene.
(Ella si aggrapperà all’Angelo perdutamente, per resistere alla violenza).
No, no! Ornella, Ornella, aiuto!
(D’improvviso, alla bocca della caverna, apparirà Aligi disciolto. Vedrà il viluppo nell’ombra. Si precipiterà contro il padre. Scorgerà nel ceppo rilucere l’asce ancóra infissa. La brandirà, cieco di orrore).
ALIGI:               
Lasciala, per la vita tua!
(Colpirà il padre a morte. Ornella, sopravvenuta, si chinerà a riconoscere nell’ombra il corpo stramazzato a piè dell’Angelo. Gitterà un gran grido). 
ORNELLA:        
Ah! E io t’ho sciolto! E io t’ho sciolto!

Il teatro dannunziano è un teatro in versi: e questo lo richiama alla tradizione preverista, quella, per intenderci, alferiana, soprattutto da un punto di vista linguistico e retorico; il tono è alto, per tutta la tragedia e, se crea una forma di monotonia tonale, tale effetto, in questa pièce s’accorda con l’ambiente mitico, senza tempo, che fa da sfondo alla vicenda.

La storia tra Lazaro ed Aligi, d’altra parte (cui si narra, nel brano presentato) il parricidio, sembrerebbe nascondere, secondo la critica psicoanalitica, un caso edipico, nel quale l’autore avrebbe riversato i suoi difficili rapporti con il genitore; altri, invece, il dissidio tra panismo ed estetismo: se Lazaro, uomo primitivo, sembra ricevere in sé la forza primigenia della natura, Aligi è colui che ne vuole fuggire, in un mondo “più bello” (estetico) insieme a Mia.

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Alberto Franchetti: Quadro per “La figlia di Jorio”

L’ultimo romanzo dannunziano, del 1912, è Forse che sì, forse che no, il primo in cui entrano, come sfondo e non solo, i velivoli:

Il titolo riprende il motto più volte ripetuto all’interno del labirinto che decora il soffitto del palazzo ducale di Mantova ed è il segno dell’ambiguità che lega i protagonisti. Paolo Tarsis, aviatore, pur essendo uomo volitivo, è schiavo dell’amore sensuale di Isabella. Vana, sorella di costei, vergine scontrosa e ultrasensibile, ama a sua volta Paolo, appassionatamente. Tra Isabella e suo fratello Aldo c’è un’intesa segreta ed esclusiva, che turba fortemente Paolo. Vana, gelosa di Paolo non meno che dei fratelli, denuncia a Paolo un rapporto incestuoso tra Isabella e Aldo. Paolo, con tutto il suo orrore, non sa però staccarsi dall’amante. Vana si uccide. Solo l’improvvisa, terribile pazzia di Isabella restituirà Paolo a se stesso e ai suoi compiti di aviatore.

DENTRO UN LABIRINTO

Ella andava andava, esitando tra l’una e l’altra stanza, non sapendo in quale l’anima sua fosse per trarre un più profondo sospiro. E le stanze si moltiplicavano; e la bellezza si avvicendava con la ruina, e la ruina era più bella della bellezza. E gli occhi si dilatavano per tutto vedere, per tutto accogliere; e l’intero viso viveva la vita dello sguardo. E l’anima si ricordava; ché le forme scomparse rinascevano e si ricomponevano in lei musicalmente, e traeva essa la gioia della perfezione da ciò ch’era imperfetto, la gioia della pienezza da ciò ch’era menomato. E il giorno era protratto dal prodigio ma nessun indugio era concesso; e su ogni soglia il piede si posava temendo il divieto ma lontana era tuttavia la soglia della sera.
«C’è in là un altro giardino», – diceva ella errando «un altro giardino.»
E attraverso una grata apparve una corte ingombra di macerie e d’erbe fra mura fendute ove rimanevano tracce di ornati dipinti a nodi; e oltre le mura una zona di palude rifulse, e riudito fu lo stridio delle rondini, e traudito fu il gracidio delle rane nel cielo nell’acqua in un solo ardore indistinto. E la straziante Estate chiamò, tra l’una e l’altra voce.
«Non è questo.»
Ella vacillava sul pavimento sconnesso, ancor qua e là inverdito dallo stillicidio; e sopra lei le macchie pluviali scurivano i lacunari azzurri del soffitto ove un oro più nobile e più solido di tutti gli ori s’ammassava in volute in rosoni in pigne scolpite con robustezza romana. Le Sirene s’incurvavano, tra i fogliami sporgenti come le mammelle dei bei mostri marini, in un fregio di così forte rilievo che eguagliava la misura dei grandi versi memorabili. Lungo gli stipiti delle alte finestre le Vittorie tendevano all’estremità dei moncherini i cerchi di ferro rugginoso.
«No, Paolo, no! Non qui, non qui! Vi supplico.»
Ella sfuggiva alle mani tremanti del compagno. Gli mostrava un viso che pareva decomporsi e ricomporsi come nella vicenda del terrore e dell’ebrezza. Ed entrambi, da una soglia all’altra, dalla luce all’ombra, dall’ombra alla luce, perseguitavano la loro angoscia senza fine.
«E’ questo?» disse Paolo chinandosi a un davanzale.
Era la squallida memoria d’un altro giardino pensile, ingombro di ortiche di rottami di vecchie docce contorte. Un Tritone sonava la buccina su una parete forata e maculata; qualche papavero ardeva qua e là come una fiammella spersa. Più nere parevano le rondini in un cielo più lontano.
«Ci può essere una cosa più triste in terra?» disse la donna ritraendosi.
Ricominciava la desolazione: la cappa demolita d’un camino nera di fumo; una serie di finestre murate; un corridoio cosparso di calcinacci; un’aula biancastra con su le pareti le tracce del lordume umano e dei tramezzi sovrapposti; una scala di pietra consunta; e un altro corridoio simile alla corsia d’un ospedale evacuato; e poi un’altra scala immensa, discendente fra nicchie deserte a un’orrida porta fatta di assi sconnesse e di travi traverse, che pur pareva più inespugnabile del triplice bronzo, inchiodata sopra un varco senza nome.
«Isabella!»
«Ho paura, ho paura.»
Ella aveva in sommo della gola l’atroce pulsazione della sua vita. Perduta era entro di sé, fuori di sé.
«Dove siamo? Si fa sera?»
Egli l’aveva ancora presa per la mano come per condurla; e dentro di sé e fuori di sé era perduto. Camminavano sul loro stesso tremito come su una corda tesa e oscillante.
«Ah, non posso più.»
Chi dei due aveva esalato quell’anelito? Ancor due erano le bocche ma una era l’ambascia, e le loro due forze confuse non la sostenevano.
«Non posso più.»
D’improvviso rientravano nell’azzurro e nell’oro, riudivano la melodia dominante, rivedevano splendere il più lungo giorno.
«Forse forse forse…»
Verso l’oro e l’azzurro ella aveva levato la faccia; e la sua stessa anima era diffusa sul suo capo ricca e inestricabile, effigiata nelle sue mille ambagi. Ella leggeva con gli occhi torbidi la parola spaventosa inscritta innumerevoli volte, tra le vie dedàlee, nei campi oltremarini.
«Forse forse forse…»
Gli disse quella parola entro la bocca, sotto la lingua; gliela disse entro la gola, alla sommità del cuore; ché egli le aveva preso con le dita il mento e con le labbra il fiato, il più profondo fiato, quello che sanno le vene i sogni i pensieri.

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D’Annunzio dentro ad un biplano

Il romanzo, ultimo del genere nella prosa dannunziana, nasce dopo dodici anni da Il fuoco. Probabilmente D’Annunzio sentiva l’esigenza di “modernizzare” il romanzo e il tentativo che egli compie è quello di inserire la macchina (automobile, aereo) ad indicare la contemporaneità tecnologica entro cui i protagonisti si muovono. D’altra parte l’eroe protagonista non sarà più né un esteta, né un tribuno, né un genio letterario, ma semplicemente un aviatore (non bisogna dimenticare che è del 1909 la rivoluzione futurista di Marinetti.)

Eppure il brano sembra richiamare la prosa precedente: dopo una corsa in automobile, Paolo ed Isabella raggiungono il palazzo ducale e si perdono nel labirinto, metafora della mente disturbata, labirintica della donna. Ma il luogo, un tempo ritrovo della splendida vita rinascimentale dei Gonzaga, è oggi lasciato all’incuria, alla putrefazione: è il simbolo della morte della Bellezza, ma a volte, la sua degradazione risulta quasi più bella della Bellezza in sé (il fascino del torbido o, più banalmente, degli opposti).

L’ultima produzione dannunziana è legata o alla guerra o al primo dopoguerra, e raccoglie una serie di scritti vari, tra cui spicca Il Notturno quando il poeta, ferito in un incidente di guerra, perde l’occhio sinistro e, rimanendo a lungo nell’immobilità, scrive su striscioline di carta, tagliate amorosamente da sua figlia Barbara, impressioni e ricordi, tutti raccolti in una prosa frammentaria, dove la retorica lascia il posto ad una prosa riflessiva, senza alcuna enfasi, che i critici hanno definita “impressionistica” e che D’Annunzio stesso definirà come “esplorazione d’ombra”.

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D’Annunzio ferito agli occhi

L’INFERMO

Ho gli occhi bendati.
Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi.
Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v’è posata.
Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati sugli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta.
Sento con l’ultima falange del mignolo destro l’orlo di sotto e me ne servo come d’una guida per conservare la dirittura.
I gomiti sono fermi contro i miei fianchi. Cerco di dare al movimento delle mani una estrema leggerezza in modo che il loro giuoco non oltrepassi l’articolazione del polso, che nessun tremito si trasmetta al capo fasciato.
Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalto.
La stanza è muta d’ogni luce. Scrivo nell’oscurità. Traccio i miei segni nella notte che è solida contro l’una e l’altra coscia come un’asse inchiodata.
Imparo un’arte nuova.

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Il Notturno in una edizione del 1921

Anche qui D’Annunzio, non diversamente dalle altre opere, fa sì che i sensi percepiscano e la parola li traduca: di fronte alla cecità, non è più la solarità che D’Annunzio percepisce come in Alcyone, ma il buio a colpire l’uomo che lo spinge verso una condizione conoscitiva nuova, che lo spinge verso la propria interiorità che fa sì inoltre che essa gli detti un’arte nuova.

TITO LUCREZIO CARO

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Tito Lucrezio Caro

Tito Lucrezio Caro è il primo grande autore della poesia didascalica che incontriamo nella storia della letteratura latina. Poche le sue notizie certe, ma sicura è l’enfasi e la volontà di mostrare al mondo che lo circonda la verità dei meccanismi che regolano la vita, combattendo contro le superstizioni per affermare la ragione. Tale compito, per lui, così fedele alla teorie terrene epicuree, diventerà un vero e proprio lavoro compositivo che produrrà il De Rerum natura.

 Notizie biografiche

Come già detto le notizie biografiche su questo autore sono scarse e non propriamente attendibili: sembra esser nato intorno al 98 a.C.; si credette che impazzì dopo aver bevuto un filtro d’amore, e che nei momenti di lucidità scrivesse il suo capolavoro e che morì, suicida, intorno ai 40 anni d’età, si presume nel 55 a. C. Altre notizie non ne abbiamo, nemmeno da parte di Cicerone che, sicuramente, si fece editore dell’opera, come dimostra nella lettera al fratello Quinto, in cui recensendola dice:

Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingeni, multae tamen artis

Il poema di Lucrezio è così come scrivi, ricco di talento, tuttavia molto meditato (o pieno d’artifici)

né da parte di Virgilio e Orazio che mostrarono di conoscerla perfettamente. E’ evidente che le notizie su riportate possano produrre qualche perplessità, in quanto:

  • ad offrircele è stato un cristiano, san Gerolamo, al quale parve giusto affidare l’idea “atea” del De Rerum Natura ad un autore in qualche modo pazzo e suicida;
  • come già successe a Plauto, laddove mancano indizi certi, si riprendono elementi dell’opera e si attribuiscono all’autore stesso (in questo caso il forte pessimismo che si può notare in alcuni punti dell’opera potrebbero in qualche modo giustificare la sua pazzia).

L’epicureismo

Essendo il De Rerum natura un testo di grande impegno filosofico, non sembra inopportuno affrontare in primis la teoria e in secundis l’impatto che l’epicureismo ebbe a Roma. Nel secondo secolo, infatti, nell’epoca per intenderci di Catone il Censore e del Circolo degli Scipioni, l’epicureismo era stato letteralmente bandito dalla città: il suo “disinteresse” per la politica e per l’impegno civile, nonché la teoria dell’indifferenza divina, metteva in serio pericolo il mos maiorum tradizionale. Diverso fu l’atteggiamento nel I secolo: l’apertura di una scuola epicurea a Napoli di risonanza internazionale, fecero convogliare nella città partenopea una gran massa di giovani figli della più ricca aristocrazia della capitale, ma anche l’esistenza di libercoli più semplici in cui le speculazioni epicuree venivano banalizzate e ridotte alla sola ricerca di piaceri esteriori, stavano diffondendosi in modo preoccupante. Sappiamo che furono in qualche modo epicurei sia Cesare che Cassio (ucciso ed uccisore), e, nella prima età imperiale, sebbene in modo più problematico, Virgilio e Orazio, che si definì proprio uno del gruppo del gregge d’Epicuro. Ma cosa affermava la teoria del filosofo greco?

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Busto di Epicuro

Teoria fisica

In primo luogo riprendeva la teoria degli atomi di Empedocle, ma aggiungeva ad essi un peso. Infatti per il primo gli atomi si aggregavano, pur liberi, muovendosi “vorticosamente nell’aria” e quindi incontrandosi. Epicuro, aggiungendo ad essi un peso, li faceva cadere perpendicolarmente e, per aggregarsi in forme, faceva sì che essi, durante la loro caduta, s’inclinassero: è questo il cosiddetto παρέγκλισις (parénclisis), tradotto da Lucrezio clinàmen.

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Teoria del clinamen

Teoria morale

Se ciò è semplicisticamente ciò che possiamo dire rispetto alla fisica di Epicuro/Lucrezio, più importante è la parte riguardante la morale. Infatti tutta la filosofia epicurea è inserita su un piano morale. La sua speculazione infatti si basa sul tetrafarmaco:

  • Gli dei non devono essere temuti;
  • Non bisogna aver paura della morte;
  • Il piacere è facile a procurarsi;
  • Il dolore è facile a sottostarsi.

Importante è il concetto di voluptas (hedoné, in greco): essa si fonda dalla netta separazione tra ciò che è necessario e ciò che accessorio per la felicità umana; essendo la prima di piccolissima entità, l’uomo divenuto saggio, è felice in quanto privo di falsi bisogni: è questa la cosiddetta autarkeia.

Teoria gnoseologica

Alla teoria morale, Epicuro aggiunge quella sulle sensazioni a cui affida l’assoluta verità in quanto esse sono determinate dal contatto tra soggetto e oggetto; da qui l’assoluta fiducia nell’empirismo.

Il De rerum natura
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Apertura del De rerum natura , 1483 copia di Girolamo di Matteo de Tauris per papa Sisto IV

Il De Rerum natura è un poema didascalico in sei libri, in cui s’illustra la teoria epicurea, strutturato in tre diadi:

  • Nella prima (libro I e II), dopo l’invocazione a Venere, simbolo della natura rigeneratrice, si affronta il tema fisico, cioè degli atomi epicurei e sul loro modo d’aggregarsi. Nel secondo Lucrezio illustra la teoria del clinamen (inclinazione) degli atomi, che permette loro una varia aggregazione. Il testo si chiude con la digressione sulla progressiva decadenza della natura;
  • Nella seconda diade (libro III e IV) invece il discorso si fa antropologico: si analizza la differenza di peso degli atomi che si sono aggregati intorno al corpo e a quelli dell’anima; è evidente che i secondi siano più leggeri. Ma tale teoria arriva a determinare, come per il corpo, la morte dell’anima. Il quarto affronta la teoria dei simulacra cioè di quelle sottili membrane che si staccano dai corpi e colpiscono i nostri sensi apparendo come veri: sono essi i sogni. Fra essi vi è anche il desiderio d’amore, che. secondo Lucrezio, è solo sublimazione di un più vero bisogno d’attrazione fisica;
  • Nella terza diade (V e VI libro) il tema è la cosmologia: nel V si parla della mortalità del nostro mondo e di tutti gli altri mondi esistenti. Vi è poi la spiegazione del moto degli astri e delle stelle. Nel VI e ultimo libro Lucrezio cerca di spiegare razionalmente l’origine di eventi naturali come i fulmini o terremoti. Chiude con la famosa descrizione della peste d’Atene.

A questa struttura seguono altre simmetrie come quella per cui l’epos inizia in modo gioioso (l’inno a Venere) e termina in modo tragico (la peste d’Atene) e ancora quella d’iniziare ogni diade con l’elogio di Epicuro.

L’opera inizia come già si è detto con un famosissimo omaggio alla dea Venere:

INNO A VENERE
(I, 1 – 43)

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis.
Te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tullus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
Nam simul ac species patefactast verna diei
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aëriae primum volucres te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
Inde ferae pecudes persultant pabula laeta
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
Denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis,
omnibus incutiens blandum per pectora amorem,
efficis ut cupide generatim saecla propagent.
Quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem,
effice ut interea fera moenera militiai
per maria ac terras omnis sopita quiescant;
nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reicit aeterno devictus volnere amoris,
atque ita suspiciens teriti cervice reposta
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circumfusa super, suavis ex ore loquellas
funde petens placidam Romanis, incluta, pacem,
nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possumus aequo animo nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi desse saluti.

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Sandro Botticelli: Venere e Marte

Madre degli Eneadi, voluttà degli uomini e degli dèi, // alma Venere, che sotto gli astri vaganti del cielo // popoli il mare solcato da navi e la terra feconda // di frutti, poiché per tuo mezzo ogni specie vivente si forma, // e una volta sbocciata può vedere la luce del sole: // te, o dea, te fuggono i venti, te e il tuo primo apparire // le nubi del cielo, per te la terra industriosa // suscita i fiori soavi, per te ridono le distese del mare, // e il cielo placato risplende di luce diffusa. // Non appena si svela il volto primaverile dei giorni, // e libero prende vigore il soffio del fecondo zefiro, // per primi gli uccelli dell’aria annunziano te, nostra dea, // e il tuo arrivo, turbati i cuori dalla tua forza vitale. // Poi anche le fiere e gli armenti balzano per i prati in rigoglio, // e guadano i rapidi fiumi: così, prigioniero al tuo incanto, // ognuno ti segue ansioso dovunque tu voglia condurlo. // E infine pei mari e sui monti e nei corsi impetuosi dei fiumi, // nelle frondose dimore degli uccelli, nelle verdi pianure, // a tutti infondendo in petto la dolcezza dell’amore, // fai sì che nel desiderio propaghino le generazioni secondo le // stirpi. Poiché tu solamente governi la natura delle cose, // e nulla senza di te può sorgere alle divine regioni della luce, // nulla senza te prodursi di lieto e di amabile, // desideroso di averti compagna nello scrivere i versi // che intendo comporre sulla natura di tutte le cose, // per la prole di Memmio diletta, che sempre tu, o dea, // volesti eccellesse di tutti i pregi adornata. // Tanto più concedi, o dea, eterna grazia ai miei detti. // E fa’ che intanto le feroci opere della guerra // per tutti i mari e le terre riposino sopite. // Infatti tu sola puoi gratificare i mortali con una tranquilla pace, // poiché le crudeli azioni guerresche governa Marte // possente in armi, che spesso rovescia il capo nel tuo grembo, // vinto dall’eterna ferita d’amore, // e così mirandoti con il tornito collo reclino, // in te, o dea, sazia anelante d’amore gli avidi occhi, // e alla tua bocca è sospeso il respiro del dio supino. // Quando egli, o divina, riposa sul tuo corpo santo, // riversandoti su di lui effondi dalle labbra soavi parole, // e chiedi, o gloriosa, una placida pace per i Romani. // Poiché io non posso compiere la mia opera in un’epoca // avversa alla patria, né l’illustre stirpe di Memmio // può mancare in tale discrimine alla salvezza comune.
(Luca Canali)

Tale proemio ha posto sin da sin da subito delle forti perplessità: come mai un poeta che proclama una teoria nella quale si prodiga l’indifferenza degli dei nei confronti dell’uomo, inizia proprio con un inno ad una dea? Molte e diverse sono state le risposte a tale quesito e, seppur diversamente, ognuna di esse portatrice di verità:

  • Si è voluto vedere in Venere il simbolo della Primavera e quindi della Natura progenitrice, di contro alla guerra, e quindi Marte, che, in una bellissima immagine, si china, innamorato e adorante sul grembo della dea;
  • Altri propendono a vedere in lei la personificazione dell’hedoné epicureo;
  • Altri ancora credono che la sua figura emerga come simbolo della pace, considerata da tale filosofia, una delle principali virtù.

Non dobbiamo neanche dimenticare in questo proemio, in cui Venere, oltre ad essere le cose qui ricordate, rappresenta la musa ispiratrice, la dedica a Memmio, forse identificato con Gaio Memmio, tribuno della plebe, che pur aspirando al consolato, non lo raggiunse mai. Avendo tale famiglia come patrona la stessa Venere, questo fatto può costituire un ulteriore indizio per la scelta di cominciare il poema sotto il suo nome.

Subito dopo l’inno a Venere Lucrezio ci presenta il suo nume tutelare, Epicuro, tessendone un vibrante elogio:

ELOGIO DI EPICURO
(I, 62-79)

Humana ante oculos foede cum vita iaceret
in terris oppressa gravi sub religione
quae caput a caeli regionibus ostendebat
horribili super aspectu mortalibus instans,
primum Graius homo mortalis tollere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra,
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum, sed eo magis acrem
irritat animi virtutem effringere ut arta
naturae primus portarum claustra cupiret.
Ergo vivida vis animi pervicit, et extra
processit longe flammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente animoque,
unde refert nobis victor quid possit oriri,
quid nequeat, finita potestas denique cuique
quanam sit ratione atque alte terminus haerens.
quare religio pedibus subiecta vicissim
obteritur, nos exaequat victoria caelo.

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Immagine di Epicuro

Mentre la vita umana giaceva sulla terra, // turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione, // che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile // aspetto, incombendo dall’alto sugli uomini, // per primo un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi // mortali a sfidarla, e per primo drizzarlesi contro: // non lo domarono le leggende degli dèi, né i fulmini, né // il minaccioso brontolio del cielo; anzi tanto più ne stimolarono // il fiero valore dell’animo, così che volle // infrangere per primo le porte sbarrate dell’universo. // E dunque trionfò la vivida forza del suo animo // e si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo, // e percorse con il cuore e la mente l’immenso universo, // da cui riporta a noi vittorioso quel che può // nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa // ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. // Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione // è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo.
(Luca Canali)

Gli elogia della figura del pensatore greco sono presenti all’inizio di ogni diade (I, III e V) Questo, nel I canto, è condotto sotto il segno dell’esaltazione: infatti viene riconosciuto a lui il fatto d’essere il primus ad aver sfidato apertamente il mondo degli dei. Egli, infatti si è comportato in modo eroico, molto più e in modo migliore degli eroi bellici; se questi, infatti, hanno acquisito nuovi territori per i Romani, lui ha liberato estese forme di conoscenza, indirizzando la mente dei giovani aristocratici alla verità che consiste, appunto, nel non avere alcuna paura.

IL SACRIFICIO DI IFIGENIA
(I, 80 – 102)

Illud in his rebus vereor, ne forte rearis
impia te rationis inire elementa viamque
indugrendi sceleris. Quod, contra, saepius illa
religio peperit scelerosa atque impia facta.
Aulide quo pacto Triviai virginis aram
Iphianassai turparunt sanguine foede
ductores Danaum delecti, prima virorum.
Cui simul infula virgineos circumdata comptus
ex utraque pari malarum parte profusast,
et maestum simul ante aras adstare parentem
sensit et hunc propter ferrum celare ministros
aspectuque suo lacrimas effundere civis,
muta metu terram genibus summissa petebat.
Nec miserae prodesse in tali tempore quibat,
quod patrio princeps donarat nomine regem;
nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras
deductast, non ut solemni more sacrorum
perfecto posset claro comitari Hymenaeo,
sed casta inceste nubendi tempore in ipso
hostia concideret mactatu maesta parentis,
exitus ut classi felix faustusque daretur.
Tantum religio potuit suadere malorum.

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Affresco: Il sacrificio di Ifigenia (Pompei)

In questo argomento temo ciò, che per caso // tu creda d’iniziarti ai principi di un’empia dottrina // e di entrare in una via scellerata. Poiché invece più spesso // fu proprio la religione a produrre scellerati delitti. // Così in Aulide l’altare della vergine Trivia // turpemente violarono col sangue d’Ifianassa gli scelti // duci dei Danai, il fiore di tutti i guerrieri. // Non appena la benda ravvolta alle chiome virginee // le ricadde eguale sull’una e l’altra gota, // ed ella sentì la presenza del padre dolente // presso l’altare, e che vicino a lui i sacerdoti celavano il ferro, // e alla sua vista i cittadini non potevano trattenere le lacrime, // muta per il terrore cadeva in terra in ginocchio. // Né in quel momento poteva giovare alla sventurata // l’avere per prima donato al re il nome di padre. // Infatti, sorretta dalle mani dei guerrieri, è condotta tremante // all’altare, non perché dopo il rito solenne // possa andare fra i cori dello splendente Imeneo, // ma empiamente casta, proprio nell’età delle nozze, // perché cada, mesta vittima immolata dal padre, // affinché una fausta e felice partenza sia data alla flotta. // Tanto male poté suggerire la religione.
(Luca Canali)

Posto come immediato seguito del brano precedente, questo passo ci vuole illustrare fino a quale punto può condurre la religione: viene qui infatti raccontato l’episodio di Ifigenia (Ifianassa, secondo la terminologia greca). Infatti tutti i re con le loro navi erano radunati in Aulide da più di tre mesi, e, per il persistere della bonaccia, non potevano salpare. Ciò per colpa di Agamennone, come gli rileva l’indovino Calcante, in quanto lui, alcuni anni prima, aveva offeso gravemente la dea Artemide (Diana), avendo trafitto un bel cervo, e quindi si era vantato d’essere un cacciatore più bravo della stessa dea. E ora Artemide pretendeva, se si voleva far partire la flotta, che Agamennone le sacrificasse sull’altare la propria figlia Ifigenia. E’ chiaro come qui Lucrezio sottolinei l’idea “strumentale” della religione, che proprio perché così vissuta, è contraria all’idea di bene, come predicano i suoi fautori, che la vogliono come elemento indispensabile per la conservazione del mos maiorum. La loro contraddittorietà viene espressa da Lucrezio insistendo sugli aspetti patetici, soprattutto sul contrasto fra il rito delle nuptiae e del sacrificio umano: vestita e agghindata come fosse portata dai parenti alle nozze, allo stesso modo viene condotta per essere uccisa e placare, in questo orrendo modo, gli dei. E’ eccessivo lo scarto tra i due riti, è intollerabile il volere della dea, ma così è creduto dagli infelici; per Lucrezio, infatti, essi vivono al di là di noi, indifferenti alle nostre gioie e ai nostri dolori.

Dopo aver mostrato ciò che vuole combattere, Lucrezio si scusa con i lettori per la difficoltà con cui deve rendere concetti filosofici greci in versi latini:

DIFFICOLTA’ DELL’IMPRESA
(I, 136 – 145)

Nec me animi fallit Graiorum obscura reperta
difficile illustrare Latinis versibus esse,
multa novis verbis praesertim cum sit agendum
propter egestatem linguae et rerum novitatem;
sed tua me virtus tamen et sperata voluptas
suavis amicitiae quemvis efferre laborem
suadet et inducit noctes vigilare serenas
quaerentem dictis quibus et quo carmine demum
clara tuae possim praepandere lumina menti,
res quibus occultas penitus convisere possis.

E non sfugge al mio animo che difficile è dar luce // in versi latini alle oscure scoperte dei Greci, // soprattutto perché è necessario trattare molte cose con nuove parole, // a causa della povertà della lingua e della novità dell’argomento; // ma il tuo valore, tuttavia, ed il piacere sperato // di una tenera amicizia mi persuadono a sopportare ogni fatica // e mi inducono a vegliare durante le notti serene, // cercando con quali parole e con quale poesia, // infine, possa diffondere davanti alla tua mente luci splendenti, // grazie alle quali tu possa vedere a fondo le cose nascoste.

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Dal greco al latino

Non solo Lucrezio esprime la difficoltà nel voler trattare, nella lingua di Roma, argomenti filosofici; sarà una viva preoccupazione anche per Cicerone. Tuttavia l’autore del De rerum natura vuole evitare troppi tecnicismi che mal s’accorderebbero ad un’opera in versi e al pubblico cui lui si rivolge. Egli infatti, seguendo anche i dettami della filosofia epicurea, lavora per immagini dandoci appunto delle semplificazioni tratte dal mondo sensibile. Questo lo fa per due motivi:

  • Perché non dimentica che egli sta redigendo un poema che pur essendo didascalico non può tralasciare momenti lirici;
  • Perché le immagini, essendo proiezioni sensibili e quindi parti di verità che si staccano dal soggetto e diventano oggetto vero in quanto visto dal soggetto stesso, sono rappresentazione della verità, come già affermato.
  • Inoltre esse possono rendere dolce l’acquisizione di una verità il cui percorso può presentarsi a volte erto e difficile.

L’AMARA MEDICINA
(IV, 11-25)

Nam vel uti pueris absinthia taetra medentes
cum dare conantur, prius oras pocula circum
contigunt mellis dulci flavoque liquore,
ut puerorum aetas improvida ludificeretur
labrorum tenus, interea perpotet amarum
absinthi laticem deceptaque non capiatur,
sed potius tali facto recreata valescat,
sic ego nunc, quoniam haec ratio plerumque videtur,
tristior esse quibus non est tractata, retroque
volgus aborre ab hac, volui tibi suaviloquenti
carmine Pierio rationem expo nere nostram
et quadi musaeo dulci con tingere melle,
si tibi forte animum tali ratione tenere
versibus in nostri possem, dum percipis omnem
naturam rerum ac persentis utilitatem.

Come i medici, quando cercano di somministrare // ai fanciulli l’amaro assenzio, prima cospargono // l’orlo della tazza di biondo e dolce miele, // affinché l’ingenua età puerile ne sia illusa // fino alle labbra, e intanto beva l’amaro // succo dell’assenzio, senza che l’inganno le nuoccia, // e anzi al contrario in tal modo rifiorisca e torni in salute, // così io, poiché questa dottrina appare // spesso troppo ostica a quanti non l’abbiano // conosciuta a fondo, e il volgo ne rifugge e l’aborre, // ho voluto esporla a te nel melodioso carme pierio // e quasi aspergerla del dolce miele delle Muse, // se per caso in tal modo potessi trattenere il tuo animo // con questi miei versi, fin quando tu attinga l’intera // natura dell’universo, e intenda l’utile che puoi trarne.
(Luca Canali)

Questo della medicina è un tema che diverrà, per alcuni autori, vero e proprio topos: qui infatti Lucrezio istituisce un paragone tra la gente ignorante (in quanto non sa la filosofia epicurea per raggiungere la felicità) e il bambino malato, quindi fra lui, come medico e l’opera come necessaria medicina. Tale concetto, se da una parte spiega la scelta lucreziana di “insegnare” la verità epicurea attraverso la poesia, rifiutata da Epicuro, sarà ripreso da Orazio e verrà, invece, quasi tradotto nel poema tassiano:

Cosí a l’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve.

Uno dei temi che contraddistingue in modo particolare la teoria epicurea è la liberazione della paura della morte, a cui dedica più di un passo. Se infatti la vita non è che l’aggregazione di atomi, la morte non è nient’altro che il loro disgregarsi per formare nuova vita. Inoltre se la morte è assenza di sensazioni, perché temerla se, non essendoci più non proveremo mai più alcun timore o dolore? In questo passo la morte è vista come parte integrante del divenire cosmico

LA MORTE E’ PARTE DEL DIVENIRE DEL MONDO
(II, 991-1009)

Denique caelesti sumus omnes semine oriundi;
omnibus ille idem pater est, unde alma liquentis
umoris guttas mater cum terra recepit,
feta parit nitidas fruges arbustaque laeta
et genus humanum, parit omnia saecla ferarum
pabula cum praebet, quibus omnes corpora pascunt
et dulcem ducunt vitam prolemque propagant;
qua propter merito maternum nomen adepta est.
cedit item retro, de terra quod fuit ante,
in terras, et quod missumst ex aetheris oris,
id rursum caeli rellatum templa receptant.
nec sic interemit mors res ut materiai
corpora conficiat, sed coetum dissupat ollis;
inde aliis aliud coniungit et efficit, omnis
res ut convertant formas mutentque colores
et capiant sensus et puncto tempore reddant;
ut noscas referre earum primordia rerum
cum quibus et quali positura contineantur
et quos inter se dent motus accipiantque,
neve putes aeterna penes residere potesse
corpora prima quod in summis fluitare videmus
rebus et interdum nasci subitoque perire.

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Thanatos, dio della morte, come un giovane alato armato di spada. 

Infine noi siamo tutti nati da seme celeste;  a tutti è padre quello stesso, da cui la terra, la madre che ci alimenta, quando ha ricevuto le limpide gocce di pioggia, concepisce e genera le splendide messi e gli alberi rigogliosi e il genere umano, genera tutte le stirpi delle fiere, offrendo i cibi con cui tutti nutrono i corpi e conducono una piacevole vita e propagano la progenie; perciò a ragione essa ha ricevuto il nome di madre. Del pari ritorna alla terra ciò che un tempo uscì dalla terra, e quel che fu mandato giù dalle plaghe dell’etere, ritorna alle volte del cielo che nuovamente lo accolgono. Né la morte distrugge le cose sì da annientare i corpi della materia, ma di questi dissolve l’aggregazione; poi congiunge altri atomi con altri e fa che tutte le cose così modifichino le loro forme e mutino i loro colori e acquistino i sensi e in un attimo li perdano, sì che puoi conoscere come importi con quali altri i medesimi primi principi, e in quale disposizione, siano collegati, e quali movimenti a vicenda imprimano e ricevano, e non devi credere che negli eterni corpi primi possa aver sede ciò che vediamo fluire alla superficie delle cose e talora nascere e sùbito perire.

A ben guardare il testo mescola alla materialità del contenuto delle immagini liriche, si veda come al “seme celeste” corrisponda l’accoglienza della madre terra e da questi due nasca la vita. L’atomo qui prende il posto di dio, è lui infatti il di creatore e di fronte alla “mortalità” della vita è solo lui l’elemento immortale, quindi non può essere che lui che dà la vita e che la toglie, ma sarà ancora lui a farla rinascere.

Il tema, legato a quello precedente, che anzi lo spiega, è la struttura e l’aggregazione dell’animo, la necessità del vuoto affinché sia proprio esso a permettere l’unione degli animi, il concetto di infinito degli astri e dei cieli e via dicendo. Qui Lucrezio riesce a dar vita ad un vero e proprio linguaggio tecnico, così come quando parla degli innumerevoli altri mondi:

PLURALITA’ DEI MONDI
(II, 1067-1076)

Praeterea cum materies est multa parata,
cum locus est praesto nec res nec causa moratur
ulla, geri debent nimirium et confieri res.
Nunc et seminibus si tanta est copia, quantam
enumerare aetas animantum non queat omnis,
vis(que) eadem (et) natura manet, quae semina rerum
conicere in loca quaeque queat simili ratione
atque huc sunt coniecta, necesse est confiteare
esse alios aliis terrarum in parti bus orbis 
et varias hominum gentis et saecla ferarum.

Quando inoltre vi è molta materia approntata, // quando si offre uno spazio, né cosa né causa si oppone, // è evidente che i corpi si formano e compiono il loro sviluppo. // E ora se il numero degli atomi è così sterminato // che un’intera età dei viventi non basterebbe a contarli, // e persiste la medesima forza e natura che possa // congiungere gli atomi dovunque nella loro stessa maniera // in cui si congiunsero qui, è necessario per te riconoscere // che esistono altrove nel vuoto altri globi terrestri // e diverse razze di uomini e specie di fiere.

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Cielo stellato nel Mausoleo di Galla Placidia (V sec.)

Questo passo ci dimostra l’atteggiamento didascalico dell’autore che vuole dimostrare, appunto, che se esistono innumerevoli atomi, vi sono altrettanti mondi. In questa affermazione si nasconde un atteggiamento assolutamente “radicale” nel dibattito filosofico greco riguardo “il mondo”. Infatti egli qui si schiera non soltanto contro l’unicità del nostro pianeta, ma addirittura contro la sua centralità.

L’AMORE
(IV, 1093-1120)

Ex hominis vero facie pulchroque colore
nil datur in corpus praeter simulacra fruendum
tenvia; quae vento spes raptast saepe misella.
Ut bibere in somnis sitiens quom quaerit et umor
non datur, ardorem qui membris stinguere possit,
sed laticum simulacra petit frustraque laborat
in medioque sitit torrenti flumine potans,
sic in amore Venus simulacris ludit amantis,
nec satiare queunt spectando corpora coram
nec manibus quicquam teneris abradere membris
possunt errantes incerti corpore toto.
Denique cum membris conlatis flore fruuntur
aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus
atque in eost Venus ut muliebria conserat arva,
adfigunt avide corpus iunguntque salivas
oris et inspirant pressantes dentibus ora,
ne quiquam, quoniam nihil inde abradere possunt
nec penetrare et abire in corpus corpore toto;
nam facere inter dum velle et certare videntur.
usque adeo cupide in Veneris compagibus haerent,
membra voluptatis dum vi labefacta liquescunt.
tandem ubi se erupit nervis coniecta cupido,
parva fit ardoris violenti pausa parumper.
inde redit rabies eadem et furor ille revisit,
cum sibi quod cupiant ipsi contingere quaerunt,
nec reperire malum id possunt quae machina vincat.
usque adeo incerti tabescunt volnere caeco.

Ma dell’umano sembiante, d’un leggiadro incarnato, // nulla penetra in noi da godere, se non diafane immagini, // misera speranza che spesso è rapita dal vento. // Come in sogno un assetato che cerchi di bere, // e bevanda non trovi che estingui nelle sue membra l’arsura, // ma liquidi miraggi insegua in un vano tormento, // o immerso in un rapido fiume ne beva, ma la sete non plachi, // così in amore Venere con miraggi illude gli amanti // che non sanno appagarsi mirando le svelate forme, // né a una carezza involare qualcosa dalle tenere membra, // irrequieti vagando per l’intera superficie del corpo. // Quando infine con le membra avvinte godono del fiore // della giovinezza, e già il corpo presagisce il piacere, // e Venere è sul punto di riversare il seme nel campo femmineo, // comprimono avidamente i petti, confondono la saliva nelle bocche, // e ansimano mordendosi a vicenda le labbra; // invano, perché nulla possono distaccare dalla persona amata, // né penetrarla e perdersi con tutte le membra nell’altro corpo. // Infatti talvolta sembrano voler fare ciò e ingaggiare una lotta: // a tal punto si serrano cupidamente nella stretta di Venere, // finché le membra, stremate dall’intensità del piacere, si struggono. // Infine, quando il piacere raccolto si effonde dai nervi, // per un po’ si produce una breve pausa dell’ardore, // poi torna la medesima rabbia, di nuovo quella smania li assale, // mentre gli amanti vorrebbero sapere che cosa desiderano, // e non riescono a trovare un rimedio che plachi il tormento: // in tale incertezza si consumano per una piega segreta.

E’ un passo fondamentale sulla teoria dell’amore: infatti pochissime teorie del maestro Epicuro ci sono giunte e pertanto la deriviamo soprattutto da Lucrezio. La descrizione che egli fa dell’amplesso amoroso è estremamente “realistica” e “sensuale”: l’epicureismo, infatti, divide il sesso e l’amore; se il primo è positivo in quanto risponde ad un esigenza normale dell’uomo, l’amore, in quanto simulacra, cioè proiezioni, atomi leggerissimi, e quindi soggetti a colui che “ama”, non determinano l’appagamento, in quanto l’amplesso nega l’unione, ma ricrea, al suo fine, la separazione: per questo la passione d’amore rappresenta una piaga inestinguibile per l’uomo.

L’opera si conclude con la scena apocalittica della peste d’Atene:
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La peste di Atene

LA PESTE DI ATENE
(VI, 1138-1162)

Haec ratio quondam morborum et mortifer aestus
finibus in Cecropis funestos reddidit agros
vastavitque vias, exhausit civibus urbem.
Nam penitus veniens Aegypti finibus ortus,
aëra permensus multum camposque natantis,
incubuit tandem populo Pandionis omni.
Inde catervatim morbo mortique dabantur.
Principio caput incensum fervore gerebant
et duplicis oculos suffusa luce rubentis.
Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae
sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat
atque animi interpres manabat lingua cruore
debilitata malis, motu gravis, aspera tactu.
Inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum
morbida vis in cor maestum confluxerat aegris,
omia tum vero vitai claustra lababant.
Spiritus ore foras taetrum volvebat odorem,
rancida quo perolent proiecta cadavera ritu.
Atque animi prorsum vires totius et omne
languebat corpus leti iam limine in ipso.
Intolerabilibusque malis erat anxius angor
adsidue comes et gemitu commixta querella.
Singultusque frequens noctem per saepe diemque
corripere adsidue nervos et membra coactans
dissolvebat eos, defessos ante, fatigans.

Questo tipo di malattia e il flusso mortifero un tempo // nei confini di Cecrope rese i campi funestati di cadaveri // devastò le contrade e svuotò la città di cittadini. // Infatti venendo dal profondo dell’Egitto (dov’era) nato // dopo aver attraversato molti cieli e i campi fluttuanti // gravò sull’intero popolo di Pandione. // Quindi a mucchi si erano offerti alla malattia e alla morte. // In principio avevano la testa infiammata di calore // e i due occhi rosseggianti di luce diffusa (arrossati). // Dall’interno delle fauci annerite usciva fuori // sangue e la via della voce costretta dalle ferite si chiudeva // e la lingua interprete della mente emetteva sangue raffermo // debilitata dal male, gravata nel movimento, ruvida al tatto. // Così non appena per mezzo delle fauci aveva riempito il petto // la forza malata era confluita nello stesso cuore triste dei malati, // ogni cosa in verità allora minacciavano le barriere della vita. // L’alito fuori dalla bocca esalava un odore mortifero // nello stesso modo puzzolente dei cadaveri lasciati insepolti. // E subito le forze di tutto l’animo e ogni elemento // del corpo languiva ormai sulla stessa soglia della morte. // E all’intollerabile male era compagna assidua // un angoscia ansiosa e un pianto misto a lamenti. // E spesso il singulto frequente di giorno e di notte // continuamente costringendo a contrarre i nervi e le membra // tormentava sfibrando quelli, già prima spossati.
(Luca Canali)

E’ questo l’incipit dell’episodio che chiude il De Rerum natura, un’incredibile descrizione della peste che fu letta con attenzione, insieme a quella boccacciana, da Manzoni. Ci si pone il problema del perché l’autore decida di terminare con un tema in cui protagonista è la morte l’opera. Qualcuno, in un finale così pessimistico, afferma che l’opera risulta interrotta, in quanto manca in essa la descrizione delle sedi degli dei, preannunciato e non svolto; qualcun altro, invece, afferma che esso è un necessario pendant alla teoria della morte e dell’indifferenza degli dei espressa nell’intera opera.

MARCO ANNEO LUCANO

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Busto Di Marco Anneo Seneca

Lucano appartiene alla famiglia degli Annei. Infatti è nipote di Seneca, figlio di Anneo Mela, fratello minore del filosofo.

Nasce come lo zio a Cordova, in Spagna, nel 39 d.C. In giovane età è condotto a Roma, dove studia presso il famoso filosofo Anneo Cornuto, che pur non parente, apparteneva alla stessa gens. Nella sua scuola Lucano conosce il poeta Persio, con il quale stringe un’importante amicizia. Mostra subito una brillante intelligenza che spinge Nerone ad inserirlo tra i suoi più stretti amici (cohors amicorum): ci viene raccontato che durante i Neronia (festività istituita dallo stesso imperatore) egli recitasse lodi a lui rivolte. Fu così apprezzato da ottenere la questura prima dell’età necessaria per iniziare il cursus honorum. E’ in questo periodo che alcuni vogliono far cominciare la stesura del suo poema, pensando che egli abbia composto i primi tre libri. All’improvviso, avviene la rottura con Nerone: i motivi, sulla base degli storici successivi, possono essere tre: l’invidia dell’imperatore per la straordinaria capacità del giovane, capace di oscurare le sue doti; la rottura dello zio Seneca con Nerone e quindi anche del giovane nipote; il troppo palese atteggiamento filo repubblicano, che mette in discussione l’assetto assolutistico che Nerone vuole dare a Roma. Fatto sta che Lucano si trova al di fuori della corte, cosa che può averlo portato ad aderire alla congiura dei Pisoni. Accusato, per scagionarsi incolpa la madre Anicia (in rotta con lui ed il padre), ma senza successo. Gli viene ordinato di uccidersi e morirà, a soli ventisei anni, senza aver terminato il suo poema.

Opere

Di lui si dice che avesse scritto, grazie anche un ingegno precocissimo, alcune opere, tra cui una tragedia, Medea, ad imitazione dello zio, ed una raccolta di poesie; inoltre si esercitò anche su una Iliacòn (carme sull’incendio di Troia) che sembra fosse stata scritta anche da Nerone stesso. Ma l’unica opera da noi conservata è il poema Bellum civile o Pharsalia, interrotto al decimo libro. Esso è l’unico poema di tipo storico che possediamo nella quasi interezza.

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Frontespizio di un’edizione del 1665, pubblicata ad Amsterdam

Bellum civile

E’ un poema, d’argomento storico, il cui tema è la guerra civile, da qui il titolo (Bellum civile) tra Cesare e Pompeo, detto anche Pharsalia da un verso dello stesso Lucano:

Pharsalia nostra vivet

La nostra Farsalia vivrà

Di questo poema possediamo dieci libri, di cui l’ultimo risulta essere più breve degli altri: se ne deduce che l’opera non sia conclusa per la morte del poeta. La sua non conclusione ci porta, tuttavia, verso un problema critico riguardo la effettiva lunghezza che Lucano voleva dare alla suo poema e il modo in cui aveva intenzione di terminarlo. Più ipotesi ci spingono a pensare che egli volesse arrivare a dodici libri:

  • Per emulare/contrapporsi con l’ormai “classico” poema virgiliano;
  • Perché inserisce a metà dell’opera un episodio che si può definire uguale/opposto all’Eneide, per cui dal valore centrale;
  • Perché se ipotizzassimo dodici libri potremmo al contempo ipotizzare la trattazione in una triade dei protagonisti: quattro libri per Cesare, altrettanti per Pompeo e i rimanenti che dovevano essere dedicati a Catone.

Il progetto di avere un poema epico su Roma, sembra fosse nelle intenzioni di Nerone; che sembra abbia visto nel giovane e brillante amico un probabile autore; ma il fatto che egli, pur nell’iniziale elogio verso l’imperatore, avesse scelto come argomento la guerra fra Cesare e Pompeo, ci indica come in Lucano fosse presente sin dall’inizio, un’ideologia filo repubblicana (che poi nel proseguo della composizione si sia approfondita, fino alla rottura, appare certo). Eppure l’opera ebbe una difficile accettazione, perché apparve ai più un ibrido che mescolasse la storia e la poesia: difficile dirlo, per noi, perché ci mancano le sue fonti “storiche” principali: Livio e le opere di Seneca il Vecchio, autore di un’opera storica che partiva proprio dalle guerre civili. La perdita delle fonti e non ci permette di conoscere come le abbia “reinventate”.

Cosa ci spinge, oggi, a leggere Lucano, come un autore che ha voluto scardinare e rifondare in modo del tutto nuovo la poesia epica? Il confronto che non noi, ma Lucano stesso, come già accennato, fa con la Vergilii Aeneis: l’opera dell’autore mantovano, infatti, si presenta come un monumentum che canta, con fatica e lutti, la pax romana. Lucano, invece, sin dall’inizio canta la reipublicae dissolutio:

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La battaglia di Farsalo in una miniatura del Foquet

PROEMIO
(I, 1-14)

Bella per Emathios plus quam civilia campos,
iusque datum sceleri canimus, populumque potentem
in sua victrici conversum viscera dextra,
cognatasque acies, et rupto foedere regni
certatum totis concussi viribus orbis
in commune nefas, infestisque obvia signis
signa, pares aquilas et pila minantia pilis.
Quis furor, o cives, quae tanta licentia ferri
gentibus invisis Latium praebere cruorem?
Cumque superba foret Babylon spolianda tropaeis
Ausoniis umbraque erraret Crassus inulta
bella geri placuit nullos habitura triumphos?
Heu, quantum terrae potuit pelagique parari
hoc quem civiles hauserunt sanguine dextrae!

Cantiamo le guerre più che civili per i campi Emazi, e la legge assegnata al delitto e il popolo potente rivolto con la mano vittoriosa contro le sue stesse viscere, e le battaglie fraterne, e, dopo aver infranto il patto del regno, la lotta con tutte le forze del mondo sconvolto nel comune misfatto, e le insegne esposte contro le insegne ostili, e le due aquile una contro l’altra e i giavellotti che minacciano altri giavellotti. Quale follia, o cittadini, quale ampia facoltà delle armi offre il sangue latino alle popolazioni nemiche? E quando la superba Babilonia doveva essere spogliata dai trofei Ausoni e Crasso con l’ombra invendicata vagava, piacque fare guerre per non ottenere nessun trofeo? Oh, quante terre e quanti mari potevano essere conquistati con questo sangue che mani civili hanno versato!

Per Lucano la pax augustea era fondata su una grande mistificazione, che voleva nascondere, con un apparato scenografico, fatto di dei ed eroi, così com’era raccontato nell’Eneide virgiliana, il declino di Roma verso la tirannide. D’altra parte c’è nella Pharsalia un episodio che può essere considerato esemplare da questo punto di vista: come nel VI libro dell’Eneide si assisteva all’episodio della catabasi, in cui Anchise mostrava ad Enea disceso negli Inferi la futura gloria di Roma, nel VI libro dell’opera di Lucano si assiste alla negromanzia, dove il soldato morto richiamato dalla maga afferma di aver visto negli Inferi una grande confusione con i Catilinari (nemici della repubblica) fare grandi feste per la rovina della città.

Allora come si spiega l’elogio iniziale verso Nerone?

ELOGIO DI NERONE
(I, 33-38)

Quod si non aliam venturo fata Neroni
invenere viam magnoque aeterna parantur
regna deis caelumque suo servire Tonanti
non nisi saevorum potuit post bella gigantum,
iam nihil, o superi, querimur; scelera ipsa nefasque
hac mercede placent.

Ma se i fati non hanno trovato un’altra via all’avvento di Nerone e a grande prezzo si preparano i regni eterni agli dei e il cielo poté servire Giove Tonante se non dopo la guerra dei crudeli giganti; ormai di nulla lamentiamoci; questi delitti e il sacrilegio ci piacciono come ricompensa.

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Karl Theodor von Piloty: Nerone e il grande incendio di Roma

E’difficile dare una giusta interpretazione a questi versi: una parte della critica vedrebbe nell’accostamento che Lucano pone tra l’elogio di Augusto presente nell’Eneide di Virgilio, e questo di Nerone, un’esagerazione “troppo marcata” verso quest’ultimo che potrebbe risultare “ironica”, considerando anche il forzato “inserimento” di esso nell’ideologia del poema; altri, invece, protendono per una sincera ispirazione di tale elogio e, se esagerazione vi è, va considerata all’interno degli elogia, “naturali” nelle opere letterarie di questo periodo. Se infatti considerassimo i primi tre libri del poema scritti prima dell’allontanamento della corte essi segnerebbero, come già nel De clementia senecano, l’atteggiamento degli intellettuali, che vedevano Nerone, all’inizio del suo potere, come colui che sarebbe riuscito a mettere insieme impero e libertà. Ciò tuttavia non comporterebbe un cambiamento troppo brusco tra la prima e la seconda parte del poema, ma una maturazione che piano piano tende sempre più verso un’ideologia anti imperiale.

La Pharsalia non ha un eroe: il testo ruota intorno a Cesare e Pompeo; nell’ultima parte di esso, appare, inoltre la figura di Catone. A dominare è Cesare: irruento, temerario, impaziente, sembra quasi incarnare il furor impossibile da dominare, rivolto contro le forze sane della repubblica:

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Immagine di Cesare dux con la X legione tratta dal videogioco Rome 2- Total war

RITRATTO DI CESARE
(I, 183-203)

Iam gelidas Caesar cursu superaverat Alpes
ingentesque animo motus bellumque futurum
ceperat. Ut ventum est parvi Rubiconis ad undas
ingens visa duci patriae trepidantis imago
clara per obscuram voltu maestissima noctem
turrigero canos effundens vertice crines
caesarie lacera nudisque adstare lacertis
et gemitu permixta loqui: “Quo tenditis ultra?
Quo fertis mea signa, viri? Si iure venitis,
si cives, huc usque licet”. Tum perculit horror
membra ducis, riguere comae gressumque coercens
languor in extrema tenuit vestigia ripa.
Mox ait “O magnae qui moenia prospicis urbis
Tarpeia de rupe Tonans Phrygiique penates
gentis Iuleae et rapti secreta Quirini
et residens celsa Latiaris Iuppiter Alba
Vestalesque foci summique o numinis instar
Roma, fave  oeptis. Non te furialibus armis
persequor: en, adsum victor terraque marique
Caesar, ubique tuus (liceat modo, nunc quoque) miles.
Ille erit, ille nocens, qui me tibi fecerit hostem”.

Cesare aveva superato nella sua corsa le fredde Alpi e aveva concepito nell’animo grandi piani e la guerra futura. Appena giunse alle rive del piccolo Rubicone, apparve al comandante la grande e trepidante immagine della patria, luminosa nell’oscura notte con volto tristissimo, spargendo i capelli bianchi dalla testa turrita, con la chioma strappata e le braccia nude si ergeva e mista ai gemiti parlava: “Dove volete proseguire ancora? Dove portate le mie insegne, uomini? Se venite legalmente, se siete cittadini, fino a qui è lecito arrivare”. Allora l’orrore percorse le membra del condottiero, gli si rizzarono i capelli, e attanagliandolo un grosso languore si fermò nell’estremità della riva. Subito disse: “O Giove Tonante, che dalla rupe Tarpea guardi le mura delle città e i Frigi Penati della stirpe Iulia e i misteri di Romolo rapito in cielo, e il Giove Laziare che risiede nell’alta Alba e i fuochi delle Vestali e tu, o Roma, simile al grande dio, favorite le mie iniziative. Non ti assalgo con le armi delle Furie: ecco, il presente Cesare vincitore per terra e per mare, e dovunque tuo sodato (il solo che sia lecito, anche adesso). Quello sarà, quello il malefico, che mi avrà reso tuo nemico.

In questo passo, il nostro riprendendo la tecnica della prosopopea presente nella Catilinaria di Cicerone, ci presenta la patria come un fantasma che appare nella notte e che prega Cesare di desistere dall’attaccarla: scapigliata, priva di forze, vecchia, chiede al comandante di non profanarla. E’ qui che Lucano vuole sottolineare la temerarietà dell’uomo che compie un nefas, chiedendo l’aiuto degli dei. E’ il furor che lo spinge, che non riesce ad insegnargli il limite invalicabile che trasforma un civis in un hostis della patria.

Se Cesare è un personaggio “psicologicamente” statico, la cui determinazione è ben sviluppata sin dall’inizio del poema, quello di Pompeo, visto nella sua neghittosità, in questa incapacità d’agire, sembra piano piano maturare nel corso del poema verso una maggiore consapevolezza: lo si veda dapprima in questo ritratto, dove viene “negativamente” descritto insieme alla mala temeritas cesariana: 

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Pompeo e Cesare ritratti in un affresco di Taddeo di Bartolo (1414)

POMPEO E CESARE
(I, 129-157)

Nec coiere pares. Alter vergentibus annis
in senium longoque togae tranquillior usu
dedidicit iam pace ducem, famaeque petitor
multa dare in volgus, totus popularibus auris
inpelli plausuque sui gaudere theatri
nec reparare novas vires, multumque priori
credere fortunae. Stat magni nominis umbra,
qualis frugifero quercus sublimis in agro
exuvias veteris populi sacrataque gestans
dona ducum nec iam validis radicibus haeret
pondere fixa suo est, nudosque per aera ramos
effundens trunco, non frondibus, efficit umbram,
et quamvis primo nutet casura sub Euro,
tot circum silvae firmo se robore tollant,
sola tamen colitur. Sed non in Caesare tantum
nomen erat nec fama ducis, sed nescia virtus
stare loco, solusque pudor non vincere bello.
Acer et indomitus, quo spes quoque ira vocasset,
ferre manum et numquam temerando parcere ferro,
successus urguere suos, instare favori
numinis, inpellens quidquid sibi summa petenti
obstaret gaudensque viam fecisse ruina.
Qualiter expressum ventis per nubila fulmen
aetheris inpulsi sonitu mundique fragore
emicuit rupitque diem populosque paventes
terruit obliqua praestringens lumina flamma:
in sua templa furit, nullaque exire vetante
materia magnamque cadens magnamque revertens
dat stragem late sparsosque recolligit ignes.

Né si scontrarono alla pari. L’uno al declinare degli anni in vecchiaia, meno impetuoso per il lungo uso della toga ha già disappreso nella pace la parte del condottiero, e assetato di gloria molto concedeva al volgo, si lasciava spingere interamente dal favore popolare e si compiaceva degli applausi del suo teatro, non preparava nuove forze e si affidava molto alla fortuna passata. Si erge, ombra di un grande nome, quale una quercia maestosa in un fertile terreno, adorna delle spoglie di un popolo antico e delle sacre offerte dei capi, non si abbarbica più con forti radici, ristà sul suo peso effondendo per l’aria i nudi rami, ombreggia solamente con il tronco, non con le fronde; ma, sebbene oscilli sul punto di cadere al primo soffio dell’Euro, e si levino intorno tanti solidi alberi, tuttavia essa soltanto è venerata. In Cesare non era solo un nome, una gloria di capo, ma un valore instancabile, ed unica vergogna vincere senza combattere; forte e indomito, dovunque lo chiamava la speranza o l’ira, portava la mano e mai risparmiava il ferro nell’offesa, incalzava la vittoria, sforzava il favore divino, avventandosi su qualunque cosa ostacolasse la sua brama di do-minio e compiacendosi di essersi aperto la via seminando rovine. Così il fulmine sprigionato dai venti attraverso le nubi balena con lo strepitio dell’etere percosso e il fragore del-l’universo, e squarcia il giorno e atterrisce i popoli tremanti, accecandoli con la fiamma guizzante; infuria negli spazi celesti, e poiché nessuna materia si oppone al suo scatenarsi, piombando e impennandosi infligge una grande, vasta strage e riunisce i fuochi sparsi.

Il passo presenta una tecnica descrittiva basata sulla “similitudine”: ma tale similitudine avviene per contrasto, assumendo connotati fortemente negativi:

  • Pompeo/quercia: alla stabilità della pianta fa riscontro la sua inamovibilità, una “potenza” che riflette se stessa ed i cui rami non danno ombra. Per meglio dire la forte quercia non è più stabile se messa a dura prova con il vento;
  • Cesare/lampo: alla velocità dell’effetto atmosferico corrisponde la distruzione di ogni cosa, quindi il lampo Cesare, s’accompagna con il tuono, con tutto il suo potere di annientamento verso qualsiasi forma di libertà.

Ma vediamo come si prospetta la “maturazione” di Pompeo, nelle sue ultime parole:
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Anonimo: La morte di Pompeo

MORTE DI POMPEO
(VIII, 622-635)

“Saecula Romanos numquam tacitura labores
attendunt, aevumque sequens speculatur ab omni
orbe ratem Phariamque fidem: nunc consule famae.
Fata tibi longae fluxerunt prospera vitae:
ignorant populi, si non in morte probaris,
an scieris adversa pati. Ne cede pudori
auctoremque dole fati: quacumque feriris,
crede manum soceri. Spargant lacerentque licebit,
sum tamen, o superi, felix, nullique potestas
hoc auferre deo. Mutantur prospera vita,
non fit morte miser. Videt hanc Cornelia caedem
Pompeiusque meus: tanto patientius, oro,
claude, dolor, gemitus: gnatus coniunxque peremptum,
si mirantur, amant.”

I secoli che mai taceranno i travagli romani mi osservano, il futuro contempla da tutte le parti del mondo la lealtà e la nave di Faro: ora pensa alla gloria. Hai trascorso una lunga vita tra prosperi eventi; i popoli non sanno, a meno che non lo provi nel morire, che sai sopportare le avversità. Non cedere all’onta, non dolerti dell’esecutore del fato: qualunque mano ti colpisce, è la mano del suocero. Mi lacerino le membra, le disperdano; tuttavia sono fortunato o Celesti, e nessuno di voi potrà privarmi di questo. Muta la prosperità nella vita; non si diviene sventurati con la morte. Cornelia e il mio Pompeo assistono all’assassinio. Con tanta più forza, dolore, ti prego, soffoca i gemiti; se il figlio e la sposa mi ammirano in morte, mi amano.

Quanta dignità dà Lucano all’eroe “negativo” che egli ha cantato, anche criticandolo. Le sue parole finali, infatti, lo fanno riscattare verso una morte giusta, quasi stoicamente vissuta, lottando non solo contro Cesare, ma contro l’avverso destino della repubblica e quindi della libertà.

Ma a essere cantato alla luce della virtus stoica e quindi della piena consapevolezza della libertas che laddove manca politicamente, non è possibile esercitare pubblicamente, è certamente Catone:Guillaume_Guillon_Lethière_-_Death_of_Cato_of_Utica_-_WGA12907.jpg

Guillame Guillon: La morte di Catone l’Uticense (1795)

CATONE
(II, 380-391)

Hi mores, haec duri inmota Catonis
secta fuit, servare modum finemque tenere
naturamque sequi patriaeque inpendere vitam
nec sibi sed toti genitum se credere mundo.
Huic epulae vicisse famem, magnique penates
summovisse hiemem tecto, pretiosaque vestis
hirtam membra super Romani more Quiritis
induxisse togam, Venerisque hic us usus,
progenies: urbi pater est urbique maritus,
iustitiae cultor, rigidi servator honesti,
in commune bonus; nullosque Catonis in actus
subrepsit partemque tulit sibi nata voluptas.

Questi i costumi e l’immota disciplina dell’austero Catone, serbare la misura, tenersi nei limiti, seguire la natura, sacrificare la vita alla patria, non credersi nato per sé ma per tutti gli uomini. Un banchetto per lui, aver vinto per lui; sontuosi Penati, un tetto che lo riparasse dalla tempesta; una veste preziosa, la ruvida toga gettata sulle spalle al modo di antico Quirite; fine supremo dei rapporti di Venere; la prole; padre e marito di Roma, cultore della giustizia; custode della rigorosa onestà, virtuoso nel comune interesse; mai, in nessun atto di Catone, s’insinuò ed ebbe qualche parte un piacere egoista.

La figura di Catone sembra, infatti, conservare la piena consapevolezza stoica che possiamo così riassumere, anche grazie a quello stoicismo così tratteggiato dallo zio filosofo:

  • autarkeia: allontanamento dalle passioni (serbare la misura, attenersi ai limiti);
  • trovarsi in accordo con la natura, seguendone la ratio ossia il flusso di vita dettata a lei dalla ratio che la presiede;
  • impegno per tutti gli uomini (cosmopolitismo stoico).