CARLO GOLDONI

Carlo Goldoni - Wikipedia

Biografia 

Carlo Goldoni nasce a Venezia, nel 1707, da padre medico. Sin dall’infanzia mostra una spiccata vocazione per il teatro, giocando con un teatrino per burattini. A Perugia, dove il padre si è trasferito, recita per la prima volta, vestendo le parti di una donna, nella commedia del Gigli, La sorellina di Don Pilone (1719), quindi, l’anno successivo, si sposta a Rimini, dove studia svogliatamente filosofia. Nel 1721 raggiunge la madre a Chioggia (vicino a Venezia), facendosi accompagnare da una compagnia di comici.
Convinto il padre a lasciare filosofia s’iscrive a legge dapprima a Venezia e quindi a Pavia: ma da qui viene cacciato per una feroce satira contro le donne della città. Infine si laureerà in legge ma a Padova nel 1731, dopo la morte del padre, che significherà, per lui, assumersi le responsabilità della famiglia. Comincia a lavorare a Chioggia presso la Cancelleria criminale, ma il suo amore per il teatro è tanto che riesce a intervallare alla pratica giuridica anche l’attività di scrittore di melodrammi e d’intermezzi comici, nonché quella di attore. Scappato da Venezia per una torbida storia d’amore, gira per alcune città settentrionali, finché a Genova incontra Nicoletta Connio, che sarà per lui compagna di una vita, e l’impresario Imer, che lo riconduce a Venezia. Per lui al teatro di San Samuele mette in scena nel 1738 il Momolo Cortesan in  cui comincia a mettere in atto  la sua “riforma del teatro” scrivendo la parte del protagonista; tale riforma verrà di lì a poco completata con La donna di garbo del 1742, interamente scritta.
Si sposta per un quadriennio a Pisa, oppresso da debiti, esercitando il mestiere di avvocato: ma nel 1748 incontra Girolamo Medebach che gli propone di diventare il poeta comico della sua compagnia per il teatro Sant’Angelo e quindi di ritornare di nuovo a Venezia. Coglie qui un primo grande successo con la Vedova scaltra e con la Putta onorata (1749) in dialetto veneziano. Ma l’attività teatrale di Goldoni non procede in modo lineare, oltre all’alternanza tra successi, come la Famiglia dell’antiquario ed clamorosi insuccessi come l’Erede fortunata, si aggiunge la feroce polemica con l’abate Pietro Chiari (ora in forza al San Samuele). Per vincere la battaglia e la concorrenza di ben tre teatri veneziani che si contendevano il favore del pubblico, Goldoni promette al suo di pubblico di scrivere, entro l’anno, ben 16 commedie fra le quali meritano di essere ricordate La bottega del caffè e Il bugiardo; ma nei due anni successivi, sempre per il Sant’Angelo scriverà La locandiera e La donna vendicativa.
Dal 1753 al 1762 lavora per il teatro San Luca di Francesco Vendramin, che gli offre un contratto certamente più vantaggioso. Ma per Goldoni è un periodo più difficile: deve abituare il corpo di attori a recitare commedie “regolari”, deve conquistarsi il favore di un pubblico più esigente e, non per ultimo, deve far fronte alla guerra senza quartiere con Chiari (che al Sant’Angelo ha dato vita ad un teatro in versi) e al Gozzi, che entusiasma il pubblico con commedie di carattere esotico. Si adatta anche lui con la trilogia di Ircana (La sposa persiana; Ircana in Julfa; Ircana in Ispaan); tenta il teatro d’argomento storico, ma la commedia forse più riuscita in questi primi anni al San Luca è la dialettale Il campiello (1756). Negli anni in cui l’editore Pasquali annuncia la pubblicazione in volume delle sue commedie (1761), il nostro, sempre per l’impresario Vendramin scrive alcune commedie  che verranno annoverate tra i suoi capolavori: le due dialettali I Rusteghi e le Baruffe chiozzotte e la trilogia della villeggiatura (Le smanie per la villeggiatura; Le avventure della villeggiatura; Il ritorno dalla villeggiatura).
Nonostante il riconoscimento degli illuministi italiani tra cui il Verri e del francese Voltaire, le polemiche verso il suo teatro continuano e s’inaspriscono: stanco e deluso anche per il rifiuto che il pubblico veneziano decreta per le sue ultime opere, va a Parigi dove produce in francese il Bourru bienfaisant e in italiano Il ventaglio. A Parigi svolge le mansioni di maestro d’italiano per le figlie di Luigi XVI e si trova suo malgrado coinvolto negli avvenimenti della Rivoluzione Francese. Comincia a scrivere le sue memorie (Mèmoires) che conclude un anno prima della sua morte, nel 1793.

Goldoni Carlo : Mémoires [...] pour servir a l'histoire de sa vie, et a  celle de son

Le Mèmoires di Goldoni in edizione francese del 1787

E’ proprio a partire dalle Mèmoires che bisogna partire per capire la vocazione teatrale del nostro. Dobbiamo ricordare che esse furono scritte in francese da un Goldoni ormai vecchio e disilluso; e sono pertanto più che il vero e proprio frutto dei ricordi, l’idealizzazione degli stessi, vissuti con il rimpianto tipico dei vecchi verso la loro giovinezza.

 LA VOCAZIONE PER IL TEATRO

I primi giorni andai alla commedia modestamente, in platea, ma vedevo giovani come me tra le quinte; cercai di andarci anch’io e non incontrai difficoltà; guardavo con la coda dell’occhio quelle donzelle, che mi fissavano arditamente. A poco a poco mi ammansii; di discorso in discorso, di domanda in domanda seppero che ero veneziano. Erano tutte mie compaesane, mi fecero infinite carezze e gentilezze; lo stesso direttore mi colmò di cortesie; mi invitò a pranzo a casa sua, ci andai; non vidi più il reverendo Candini. Gli impegni degli attori stavano per scadere, dovevano partire: la loro partenza davvero mi affliggeva. Un venerdì, giorno di riposo per tutta l’Italia, salvo Venezia, facemmo una scampagnata; c’era tutta la compagnia, il direttore annunciò la partenza fra otto giorni; aveva fissata la barca che doveva portarli a Chioggia…
«A Chioggia!» dissi, con un grido di meraviglia.
«Sissignore, dobbiamo andare a Venezia, ma ci tratterremo quindici o venti giorni a Chioggia per qualche rappresentazione.»
«Ah, Dio mio! mia madre è a Chioggia, come la rivedrei volentieri.»
«Venite con noi; sì, sì (tutti si misero a gridare), con noi, con noi, nella nostra barca; vi troverete bene, non spenderete niente; si giuoca, si canta, si ride, ci si diverte ecc.».
Come resistere a tante seduzioni? perché perdere così bella occasione? Accetto, mi impegno, faccio i miei preparativi (…).
Il giorno stabilito per la partenza metto due camicie e un berretto da notte in tasca; vado al porto, entro nella barca per primo; mi nascondo ben bene sotto la prua; avevo con me il mio scrittoio tascabile, scrivo al Battaglini, gli faccio le mie scuse; è la voglia di rivedere mia madre che mi trascina (…). Commisi un errore, lo ammetto; ne commisi altri, e li confesserò egualmente. Arrivano gli attori.
«Dov’è il signor Goldoni?».
Ecco Goldoni che esce dal suo nascondiglio; tutti si mettono a ridere; mi fanno festa, mi carezzano, si fa vela; addio Rimini.

Goldoni qui si descrive in modo simpatico e bonario, come fosse un novello “picaro”, che tuttavia non è spinto dalla semplice avventura, ma dalla fascinazione, che non nasconde le garbate galanterie femminili, per il mondo del teatro. Si noti come l’amore per la madre appare in secondo piano e solo come la vivacità dell’allegra brigata lo coinvolga. Il fatto è che Goldoni è anche un abile narratore. Come si vede la sua “vocazione teatrale” è qui idealizzata ed espressa con garbo e vivacità.

le parole di minerva...": CARLO GOLDONI: COMMEDIE PER TUTTE LE STAGIONI E  PER TUTTE LE EDIZIONI...

Le Commedie goldoniane nell’edizione fiorentina del 1753

Ma ancor più importante è il suo progetto di riforma teatrale, ed è egli stesso che ce lo spiega, nella Prefazione all’edizione Bettinelli delle sue commedie (1750):

MONDO E TEATRO

(…) Non mi vanterò io già d’essermi condotto a questo segno, qualunque ei si sia, di miglior senso, col mezzo di un assiduo metodico studio sull’Opere o precettive, o esemplari in questo genere de’ migliori antichi e recenti Scrittori e Poeti, o Greci, o Latini, o Francesi, o Italiani, o d’altre egualmente colte Nazioni; ma dirò con ingenuità, che sebben non ho trascurata la lettera de’ più venerabili e celebri Autori, da’ quali, come da ottimi maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai d’essermi servito, furono il Mondo e il Teatro. Il primo mi mostra tanti e poi tanti caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed istruttive Commedie: mi rappresenta i segni, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede di avvenimenti curiosi: m’informa de’ correnti costumi: m’instruisce de’ vizi e de’ difetti che son più comuni del nostro secolo e della nostra Nazione, i quali meritano la disapprovazione o la derisione de’ saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa persona i mezzi co’ quali la Virtù a codeste corruttele resiste, ond’io da questo libro raccolgo, rivolgendolo sempre, o meditandovi, in qualunque circostanza od azione della vita mi trovi, quanto assolutamente necessario che si sappia da chi vuole con qualche lode esercitare questa mia professione. Il secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali colori si debban rappresentare sulle scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti, che nel libro del Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli per dar loro il maggiore rilievo, e quali sien quelle tinte, che più li rendan grati agli occhi delicati de’ spettatori. Imparo insomma dal Teatro a distinguere ciò che è più atto a far impressione sugli animi, a destar la meraviglia, o il riso, o quel tal dilettevole solletico nell’uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella Commedia che ascoltasi, effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e ‘l ridicolo che trovasi in chi continuamente si pratica, in modo però che non urti troppo offendendo. Ho appreso pur dal Teatro, e lo apprendo tuttavia all’occasione delle mie stesse Commedie, il gusto particolare della nostra Nazione, per cui precisamente io debbo scrivere diverso in ben molte cose da quello dell’altre. Ho osservato alle volte riscuotere grandissimi encomi alcune coserelle da me prima avute in niun conto, altre riportarne pochissima lode, e talvolta eziandio qualche critica, dalle quali non ordinario applauso avea sperato; per la qual cosa ho imparato, volendo render utili le mie Commedie, a regolar talvolta il mio gusto su quello dell’universale, a cui deggio principalmente servire, senza darmi pensiero delle dicerie di alcuni o ignoranti, o indiscreti o difficili, i quali pretendono di dar legge al gusto di tutto un Popolo, di tutta una Nazione, e forse anche di tutto il Mondo e di tutti i secoli colla lor sola testa, non riflettendo che, in certe particolarità non integranti, i gusti possono impunemente cambiarsi, e convien lasciar padrone il Popolo egualmente che delle mode del vestire e de’ linguaggi.

L’intento del brano è decisamente didascalico: l’autore, infatti vuole mostrare cosa egli intenda con lo scrivere una commedia, e lo fa sottolineando alcuni punti fondamentali:

  • Mondo: con questo termine egli intende la realtà, l’osservazione diretta attraverso la quale il Goldoni intende costruire i suoi caratteri.
  • Teatro: l’osservazione della realtà deve entrare nel palcoscenico, farsi vita all’interno di esso, cogliendo gli aspetti che possono essere utili agli spettatori, affinché possano, comunque, trarne una morale.
  • Pubblico: l’autore di teatro non può prescindere dalla presenza del pubblico: qualsiasi riforma portata avanti astrattamente è destinata al fallimento; Goldoni riforma il teatro proprio a partire dalle esigenze e dalle risposte che gli spettatori mostrano ad ogni suo spettacolo.

E’ difficile poter seguire un percorso sull’opera goldoniana: le sue commedie rappresentano un mondo da scandagliare nel suo insieme: infatti, a progressi sulla rappresentazione dei caratteri ci sono ritorni che si richiamano alla commedia dell’arte. Si può semplicemente richiamare la produzione goldoniana attraverso cinque fasi:

Prima fase (1730-1748)

Teatro San Samuele - Wikipedia

Gabriel Bella: Il teatro di San Samuele a Venezia

Dopo un primo inizio in cui Goldoni, in modo molto tradizionale, scrive libretti per opere cantate, comincia, sin dal ’38 a elaborare una forma di “riforma” teatrale con il Momolo cortesan, a cui seguiranno altre due commedie, Momolo sul Brenta e Il mercante fallito, che costituiscono la trilogia mercantile. Tale inizio di riforma, in cui permangono elementi della commedia dell’arte basate sull’improvvisazione e parti invece scritte dall’autore, è possibile proprio perché l’attività di librettista gli permette di convincere l’impresario Imer a tentare nuove idee. Non bisogna dimenticare che, oltre l’impresario, proprio per queste commedie è necessario l’accordo dell’attore, affinché nell’imparare a memoria la sua parte non si senta sminuito nella sua capacità attoriale. Ma la vera rivoluzione comincerà a prender piede con la “liberazione” della figura femminile. Sarà proprio con La donna di garbo, a scrivere per intero la parte femminile. L’esito forse migliore di questo suo periodo è però da ricercare nell’opera  Il servitore di due padroni (1745), metà canovaccio, metà scritto:

TRUFFALDINO CAMERIERE

Un cameriere, con un piatto, poi Truffaldino, poi Florindo, poi Beatrice, e altri camerieri.
(Truffaldino, entrato Florindo in camera, corre col piatto e lo porta a Beatrice)

CAMERIERE: (torna con una vivanda) E sempre bisogna aspettarlo. Truffaldino. (Chiama)
TRUFFALDINO: (esce di camera di Beatrice) Son qua. Presto, andè a parecchiar in quell’altra camera, che l’è arrivado quell’altro forestier, e portè la minestra subito.
CAMERIERE: Subito. (parte)
TRUFFALDINO: Sta piettanza coss’èla mo? Bisogna che el sia el fracastor. (assaggia) Bona, bona, da galantuomo. (La porta in camera di Beatrice)

(I camerieri passano e portano l’occorrente per preparare la tavola in camera di Florindo)

TRUFFALDINO: Bravi. Pulito. I è lesti come gatti. (verso i camerieri) Oh se me riussisse de servir a tavola sti do patroni; mo la saria la gran bella cossa.

(I camerieri escono dalla camera di Florindo e vanno verso la cucina)

TRUFFALDINO: Presto, fioi, la menestra.
CAMERIERE: Pensate alla vostra tavola, e noi penseremo a questa. (parte)
TRUFFALDINO: Vorria pensar a tutte do, se podesse.

(Il cameriere torna colla minestra per Florindo)

TRUFFALDINO: Dè qua a mi, che ghe la porterò mi; andè a parecchiar la roba per quell’altra camera. (leva la minestra di mano al cameriere e la porta in camera di Florindo)
CAMERIERE: E’ curioso costui. Vuol servire di qua e di là. Io lascio fare: già la mia mancia bisognerà che me la diano.

(Truffaldino esce dalla camera di Florindo)

BEATRICE: Truffaldino. (dalla camera lo chiama)
CAMERIERE: Eh, servite il vostro padrone (a Truffaldino)
TRUFFALDINO: Son qua. (entra in camera di Beatrice)

(I camerieri portano il bollito per Florindo)

CAMERIERE: Date qui. (lo prende; i camerieri partono)

(Truffaldino esce di camera di Beatrice con i tondi sporchi)

FLORINDO: Truffaldino. (dalla camera lo chiama forte)
TRUFFALDINO: Dè qua. (vuol prendere il piatto di bollito dal cameriere)
CAMERIERE: Questo lo porto io.
TRUFFALDINO: No sentì che el me chiama mi? (gli leva il bollito di mano e lo porta a Florindo)
CAMERIERE: E’ bellissima. Vuol far tutto.

(i camerieri portano un piatto di polpette, lo danno al cameriere e partono)

CAMERIERE: Lo porterei io in camera, ma non voglio aver che dire con costui.

(Truffaldino esce di camera di Florindo con i tondi sporchi)

CAMERIERE: Tenete, signor facendiere; portate queste polpette al vostro padrone.
TRUFFALDINO: Polpette? (prendendo il piatto in mano)
CAMERIERE: Sì, le polpette ch’egli ha ordinato (parte)
TRUFFALDINO: Oh, bella! A chi le òi da portar? Chi diavol  de sti padroni le averà ordinate? Se ghel vago a domandar in cusina, no vorria metterli in malizia; se falo e che no le porta a chi le ha ordenade, quell’altro le domanderà, e se scoverzirà l’imbroio. Farò cusì… Eh, gran mi! Farò cusì; le spartirò in do tondi, le porterò metà per un, e cusì chi le averà ordenade le vederà. (prende un altro tondo di quelli che sono in sala, e divide le polpette per metà) Quattro e quattro. Ma ghe n’è una de più. A chi ghe l’òia da dar? No voi che nissun n’abbia per mal; me la magnerò mi. (mangia la polpetta) Adesso va ben. Portemo le polpette a questo. (mette in terra l’altro tondo, e ne porta uno da Beatrice).
CAMERIERE: (con un bodino all’inglese) Truffaldino.  (chiama)
TRUFFALDINO: Son qua. (esce dalla camera di Beatrice)
CAMERIERE: Portate questo bodino…
TRUFFALDINO: Aspettè che vegno. (prende l’altro tondino di polpette, e lo porta a Florindo)
CAMERIERE: Sbagliate; le polpette vanno di là.
TRUFFALDINOSior sì, lo so, le ho portate di là; e el me patron manda ste quattro a regalar a sto forestier. (entra)
CAMERIERE: Si conoscono dunque, sono amici. Potevano desinar insieme.
TRUFFALDINO: (torna in camera di Florindo) E cussì, coss’èlo sto negozio? (al cameriere)
CAMERIERE: Questo è un bodino all’inglese.
TRUFFALDINO: A chi valo?
CAMERIERE: Al vostro padrone. (parte)
TRUFFALDINO: Che diavolo è sto bodin? L’odor è prezioso, el par polenta. Oh, se el fuss polenta, la saria pur una bona cossa! Vòi sentir. (tira fuori di tasca una forchetta) No l’è polenta, ma el ghe someia. (mangia)
BEATRICE: Truffaldino. (dalla camera lo chiama)
TRUFFALDINO: Vegno. (risponde colla bocca piena)
FLORINDO: Truffaldino. (lo chiama dalla sua camera)
TRUFFALDINO: Son qua. (risponde colla bocca piena, come sopra) Oh che roba preziosa! Un altro bocconcin, e vegno. (segue a mangiare)
BEATRICE: (esce dalla sua camera e vede Truffaldino che mangia; gli dà un calcio e gli dice) Vieni a servire. (e torna nella sua camera)

(Truffaldino mette il bodino in terra ed entra in camera di Beatrice)

FLORINDO: (esce dalla sua camera) Truffaldino. (chiama) Dove diavolo è costui?
TRUFFALDINO: Era andà a tòr dei piatti, signor.
FLORINDO: Vi è altro da mangiare?
TRUFFALDINO: Anderò a veder.
FLORINDO: Spicciati, ti dico, che ho bisogno di riposare. (torna nella sua camera)
TRUFFALDINO: Subito. Camerieri, gh’è altro? (chiama) Sto bodin me lo metto via per mi. (lo nasconde)
CAMERIERE: Eccovi l’arrosto. (porta un piatto con l’arrosto)
TRUFFALDINO: Presto i frutti. (prende l’arrosto)
CAMERIERE: Gran furie! Subito. (parte)
TRUFFALDINO: L’arrosto lo porterò a questo. (entra da Florindo)
CAMERIERE: Ecco la frutta, dove siete? (con un piatto di frutta)
TRUFFALDINO: Son qua. (dalla camera di Florindo)
CAMERIERE: Tenete. (gli dà la frutta) Volete altro?
TRUFFALDINO: Aspettè. (porta la frutta a Beatrice)
CAMERIERE: Salta di qua, salta di là; è un diavolo costui.
TRUFFALDINO: Non occorr’altro. Nissun vol altro.
CAMERIERE: Ho piacere.
TRUFFALDINO: Parecchiè per mi.
CAMERIERE: Subito. (parte)
TRUFFALDINO: Togo su el me bodin; evviva l’ho superada, tutti i è contenti, no i vo alter, i è stadi servidi. Ho servido a tavola do padroni, e un non ha savudo dell’altro. Ma se ho servido per do, adess voio andar a magnar per quattro. (parte)

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Qui si mette in luce come la commedia dell’arte si basasse soprattutto sulle capacità dell’attore e la rapidità della scena da cui partirà il vaudeville moderno: pur avendo scritto la parte, è chiaro che la comicità si basa qui sul movimento, la gestualità, lo sparire e il ricomparire dalle quinte. Tuttavia Goldoni sembra conservare il meglio della commedia dell’arte: se è vero che Truffaldino è il figlio diretto del teatro delle maschere, è anche vero che l’ambiente è rappresentato con realismo e vivacità.

Seconda fase (1748-1753)

Goldoni cambia impresario e passa sotto contratto con Medebach, con cui s’impegna di scrivere otto commedie e due melodrammi l’anno. In questo spazio teatrale, frequentato soprattutto dalla piccola borghesia, il commediografo veneziano sforna commedie divertenti ma nel contempo edificanti. Sembra essere, appunto, l’ambiente ideale per portare avanti la riforma goldoniana. In questo periodo scrive commedie di alto livello, molte delle quali centrate intorno a figure femminili, come La vedova scaltra e soprattutto La locandiera.

Teatro Sant'Angelo di Venezia | Teatro, San diego state university, Giovanni

Raffigurazione del teatro Sant’Angelo a Venezia, oggi non più esistente.

La bella locandiera Mirandolina  è maestra nel far innamorare gli uomini. La corteggiano già, senza speranza, il ricco conte di Albafiorita e lo spiantato marchese di Forlipopoli, ma non il cavaliere di Ripafratta, che disprezza le donne. Mirandolina, mostrando prima di stimarlo per la sua misoginia, poi trattandolo con particolari riguardi, fingendosi turbata al punto di svenire alla notizia ch’egli lascia l’albergo e infine ostentando un’improvvisa freddezza, lo riduce nel giro di un giorno ai suoi piedi, per poi avvilirlo di fronte a tutti smascherandone la passione nel momento stesso in cui conclude le sue nozze con Fabrizio, cameriere della locanda.

Vediamo come, in questa commedia, vengono presentati i personaggi:

IL MARCHESE E IL CONTE

(Sala di locanda, il marchese di Forlipopoli ed il conte di Albafiorita)

MARCHESE: Fra voi e me vi è qualche differenza.
CONTE: Sulla locanda tanto vale il vostro denaro, quanto vale il mio.
MARCHESEMa se la locandiera usa a me delle distinzioni, mi si convengono più che a voi.
CONTE: Per qual ragione?
MARCHESE: Io sono il marchese di Forlipopoli.
CONTE: Ed io sono il conte d’Albafiorita.
MARCHESE: Sì, conte! Contea comprata.
CONTE: Io ho comprata la contea, quando voi avete venduto il marchesato.
MARCHESE: Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto.
CONTE: Chi ve lo perde il rispetto? Voi siete quello, che con troppa libertà parlando…
MARCHESE: Io sono in questa locanda, perché amo la locandiera. Tutti lo sanno, e tutti devono rispettare una giovane che piace a me.
CONTE: Oh, questa è bella! Voi mi vorreste impedire ch’io amassi Mirandolina? Perché credete ch’io sia in Firenze? Perché credete ch’io sia in questa locanda?
MARCHESE: Oh bene. Voi non farete niente.
CONTE: Io no e voi sì?
MARCHESE: Io sì e voi no. Io son chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione.
CONTE: Mirandolina ha bisogno di denari, e non di protezione.
MARCHESE: Denari?… non ne mancano.
CONTE: Io spendo uno zecchino il giorno, signor marchese, e la regalo continuamente.
MARCHESE: Ed io quel che fo non lo dico.
CONTE: Voi non lo dite, ma già si sa.
MARCHESE: Non si sa tutto.
CONTE: Sì, caro signor marchese, si sa. I camerieri lo dicono. Tre paoletti il giorno.
MARCHESE: A proposito di camerieri; vi è quel cameriere che ha nome Fabrizio, mi piace poco. Parmi che la locandiera lo guardi assai di buon occhio.
CONTE: Può essere che lo voglia sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono sei mesi che è morto il di lei padre. Sola una giovane alla testa di una locanda si troverà imbrogliata. Per me, se si marita, le ho promesso trecento scudi.
MARCHESE: Se si mariterà, io sono il suo protettore, e farò io… E so io quello che farò.
CONTE: Venite qui: facciamola da buoni amici. Diamole trecento scudi per uno.
MARCHESE: Quel ch’io faccio lo faccio segretamente, e non me ne vanto. Son chi sono. (chiama) Chi è la?
CONTE: (Spiantato! Povero e superbo!)

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Il marchese ed il conte in una rappresentazione a Città di Castello

E’ chiaro come qui Goldoni giochi a caratterizzare chi, secondo la tradizione, crede di potere avere tutto tramite il titolo nobiliare e viceversa la ricchezza che ha innalzato la borghesia all’aristocrazia, atteggiamento tipico di una classe che considera i  privilegi come un diritto, diritto che appunto l’illuminismo vuole combattere.

Chiuso all’interno di una passione, come d’altra parte lo sono il conte (la ricchezza) e il marchese (la nobiltà), è il cavaliere di Ripafratta di cui, nella scena che segue, viene rappresentata la sua “inattaccabile” misoginia:

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Il cavaliere di Ripafratta interpretato da Massimo Massaro 

  IL CAVALIERE MISOGINO

(il cavaliere di Ripafratta dalla sua camera, poi il marchese di Forlipopoli e il conte d’Albafiorita)

CAVALIERE: Amici, che cos’è questo romore? Vi è qualche dissensione fra di voi altri?
CONTE: Si disputava sopra un bellissimo punto.
MARCHESE: Il conte disputa meco sul merito della nobiltà. (ironico)
CONTE: Io non levo il merito alla nobiltà; ma sostengo, che per cavarci dai capricci, vogliono esser denari.
CAVALIEREVeramente, marchese mio…
MARCHESE: Orsù, parliamo d’altro.
CAVALIERE: Perché siete venuti a simil contesa?
CONTE: Per un motivo il più ridicolo della terra.
MARCHESE: Sì, bravo! Il conte mette tutto in ridicolo.
CONTE: Il signor marchese ama la nostra locandiera. Io l’amo ancor più di lui. Egli pretende corrispondenza, come un tributo alla sua nobiltà. Io la spero, come una ricompensa alle mie attenzioni. Pare a voi che la questione non sia ridicola?
MARCHESE: Bisogna sapere con quanto impegno io la proteggo.
CONTE: Egli la protegge, ed io spendo. (al cavaliere)
CAVALIERE: In verità non si può contendere per ragione alcuna che lo meriti meno. Una donna vi altera? Vi scompone? Una donna? Che cosa mai mi convien sentire! Una donna? Io certamente non vi è pericolo che per le donne abbia che dir con nessuno. Non le ho mai amate, non le ho mai stimate, e ho sempre creduto che sia la donna per l’uomo una infermità insopportabile.
MARCHESE: In quanto a questo poi, Mirandolina ha un merito estraordinario.
CONTE: Sin qua il signor marchese ha ragione. La nostra padroncina della locanda è veramente amabile.
MARCHESE: Quando l’amo io, potete credere che in lei vi sia qualche cosa di grande.
CAVALIERE: In verità mi fate ridere. Che mai può avere di stravagante costei, che non sia comune all’altre donne?
MARCHESE: Ha un tratto nobile, che incanta.
CONTE: E’ bella, parla bene, veste con pulizia, è di un ottimo gusto.
CAVALIERE: Tutte cose che non vagliono un fico. Sono tre giorni ch’io sono in questa locanda, e non mi ha fatto specie veruna.
CONTE: Guardatela, e forse ci troverete del buono.
CAVALIERE: Eh, pazzia! L’ho veduta benissimo. E’ una donna come l’altre.
MARCHESE: Non è come l’altre, ha qualche cosa di più. Io che ho praticate le prime dame, non ho trovato una donna che sappia unire, come questa, la gentilezza e il decoro.
CONTE: Cospetto di bacco! Io son sempre stato solito trattar donne: ne conosco li difetti ed il loro debole. Pure con costei, non ostante il mio lungo corteggio e le tante spese per essa fatte, non ho potuto toccarle un dito.
CAVALIERE: Arte, arte sopraffina. Poveri gonzi! Le credete, eh? A me non la farebbe. Donne? Alla larga tutte quante elle sono.
CONTE: Non siete mai stato innamorato?
CAVALIERE: Mai, né mai lo sarò. Hanno fatto il diavolo per darmi moglie, né mai l’ho voluta.
MARCHESE: Ma siete unico della vostra casa: non volete pensare alla successione?
CAVALIERE: Ci ho pensato più volte, ma quando considero che per aver figliuoli mi converrebbe soffrire una donna, mi passa subito la volontà.
CONTE: Che volete voi fare delle vostre ricchezze?
CAVALIERE: Godermi quel poco che ho con i miei amici.
MARCHESE: Bravo, cavaliere, bravo; ci goderemo.
CONTE: E alle donne non volete dar nulla?
CAVALIERE: Niente affatto. A me non ne mangiano sicuramente.
CONTE: Ecco la nostra padrona. Guardatela, se non è adorabile.
CAVALIERE: Oh, la bella cosa! Per me stimo più di lei quattro volte un bravo cane da caccia.
MARCHESE: Se non la stimate voi, la stimo io.
CAVALIERE: Ve la lascio, se fosse più bella di Venere.

La Locandiera di Carlo Goldoni Teatro di Cestello Firenze (Marchese di  Forlipopoli, Conte di Albafiorita, Cavaliere di Ripafratta e Fab… | Teatro,  Cestello, Firenze

Il marchese, il conte, il cavaliere e Fabrizio

L’atteggiamento del cavaliere solletica Mirandolina, che vuole vendicarsi della sua misoginia, facendolo innamorare.

MIRANDOLINA

MIRANDOLINA: Uh, che mai ha detto! L’eccellentissimo signor Marchese Arsura mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l’arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s’innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. E questo signor Cavaliere, rustico come un orso, mi tratta si bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere trattare con me. Non dico che tutti in un salto s’abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così? E’ una cosa che mi muove la bile terribilmente. E’ nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. E chi sa che non l’abbia trovata? Con questi per l’appunto mi ci metto di picca. Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature d’amanti spasimati; e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.

Goldoni disegna col personaggio di Mirandolina un nuovo tipo di donna nel teatro comico italiano. Nella commedia dell’arte, infatti, le donne erano relegate in ruoli secondari; non dimentichiamo poi il ruolo che la “servetta” aveva in tal teatro; invece il nostro con Mirandolina rappresenta una donna borghese, che decide del suo futuro, che sa gestire la sua vita e che, con le armi “femminili”, vuole vendicarsi di un mondo per lei superato.

LE COMMEDIANTI E LA COMMEDIANTE

(Altra camera di locanda – Ortensia, Dejanira, Fabrizio.)

FABRIZIO: Che restino servite qui, illustrissime. Osservino quest’altra camera. Quella per dormire, e questa per mangiare, per ricevere, per servirsene come comandano.
ORTENSIA: Va bene, va bene. Siete voi padrone, o cameriere.
FABRIZIO: Cameriere, ai comandi di V. S. illustrissima.
DEJANIRA: (Ci dà delle illustrissime). (piano a Ortensia, ridendo)
ORTENSIA: (Bisogna secondare il lazzo). Cameriere?
FABRIZIO: Illustrissima.
ORTENSIA: Dite al padrone che venga qui, voglio parlar con lui per il trattamento.
FABRIZIO: Verrà la padrona; la servo subito. (Chi diamine saranno queste due signore così sole? All’aria, all’abito, paiono dame). (da sè, e parte)
(…)

(Mirandolina e dette).

DEJANIRA: Madama, voi mi adulate. (ad Ortensia, con caricatura)
ORTENSIA: Contessa, al vostro merito si converrebbe assai più. (fa lo stesso)
MIRANDOLINA: (Oh che dame cerimoniose!) (da sè, in disparte)
DEJANIRA: (Oh quanto mi vien da ridere!)
ORTENSIA: Zitto: è qui la padrona. (piano a Dejanira)
MIRANDOLINA: M’inchino a queste dame. Ortensia. Buon giorno, quella giovane.
DEJANIRA: Signora padrona, vi riverisco.(a Mirandolina)
ORTENSIA: Ehi! (fa cenno a Dejanìra, che si sostenga)
MIRANDOLINA: Permetta ch’io le baci la mano. (ad Ortensia)
ORTENSIA: Siete obbligante. (le dà la mano)
Dejanira ride da sè.
MIRANDOLINA: Anche ella, illustrissima. (chiede la mano a Dejanira)
DEJANIRA: Eh, non importa …
ORTENSIA: Via, gradite le finezze di questa giovane. Datele la mano.
MIRANDOLINA: La supplico.
DEJANIRA: Tenete. (le dà la mano, si volta, e ride)
MIRANDOLINA: Ride, illustrissima? Di che?
ORTENSIA: Che cara Contessa! Ride ancora di me. Ho detto uno sproposito, che l’ha fatta ridere.
MIRANDOLINA: (Io giuocherei che non sono dame. Se fossero dame, non sarebbero sole). (da sè)
ORTENSIA: Circa il trattamento, converrà poi discorrere (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Ma! Sono sole? Non hanno cavalieri, non hanno servitori, non hanno nessuno?
ORTENSIA: Il Barone mio marito …
DEJANIRA: (Ride forte.)
MIRANDOLINA: Perchè ride, signora? (a Dejanira)
ORTENSIA: Via, perchè ridete?
DEJANIRA: Rido del Barone di vostro marito.
ORTENSIA: Sì, è un cavaliere giocoso: dice sempre delle barzellette; verrà quanto prima col conte Orazio, marito della Contessina.
DEJANIRA: (Fa forza per trattenersi da ridere.)
MIRANDOLINA: La fa ridere anche il signor Conte?(a Dejanira)
ORTENSIA: Ma via, Contessina, tenetevi un poco nel vostro decoro.
MIRANDOLINA: Signore mie, favoriscano in grazia. Siamo sole, nessuno ci sente. Questa contea, questa baronia, sarebbe mai …
ORTENSIA: Che cosa vorreste voi dire? Mettereste in dubbio la nostra nobiltà?
MIRANDOLINA: Perdoni, illustrissima, non si riscaldi, perchè farà ridere la signora Contessa.
DEJANIRA: Eh via, che serve?
ORTENSIA: Contessa, Contessa! (minacciandola)
MIRANDOLINA: Io so che cosa voleva dire, illustrissima (a Dejanira)
DEJANIRA: Se l’indovinate, vi stimo assai.
MIRANDOLINA: Voleva dire: Che serve che fingiamo d’esser due dame, se siamo due pedine? Ah! non è vero?
DEJANIRA: E che sì che ci conoscete? (a Mirandolina)
ORTENSIA: Che brava commediante! Non è buona da sostenere un carattere.
DEJANIRA: Fuori di scena io non so fingere.
MIRANDOLINA: Brava, signora Baronessa; mi piace il di lei spirito. Lodo la sua franchezza.
ORTENSIA: Qualche volta mi prendo un poco di spasso.
MIRANDOLINA: Ed io amo infinitamente le persone di spirito. Servitevi pure nella mia locanda, che siete padrone; ma vi prego bene, se mi capitassero persone di rango, cedermi quest’apparrtamento, ch’io vi darò dei camerini assai comodi.
DEJANIRA: Sì, volentieri.
ORTENSIA: Ma io, quando spendo il mio denaro, intendo volere esser servita come una dama, e in questo appartamento ci sono, e non me ne anderò.
MIRANDOLINA: Via, signora Baronessa, sia buona … Oh! Ecco un cavaliere che è alloggiato in questa locanda. Quando vede donne, sempre si caccia avanti.
ORTENSIA: È ricco?
MIRANDOLINA: Io non so i fatti suoi.

8e036bff1965f4e3be3ad5a2a63f91d5.jpgOrtensia e Dejanira

Sembra che l’intervento di questi due personaggi all’interno della commedia sia quasi di contorno e che abbia in sé quello di riaffermare i “caratteri dei protagonisti” (nella parte non riportata vediamo come ad esse accorrono il conte ed il marchese, mentre il cavaliere le tratta con disprezzo). Tuttavia esse rappresentano qualcosa in più. In primo luogo esse “fingono” di essere, esattamente come un qualsiasi attore finge una parte. Per meglio dire esse recitano la parte di gran dame, ma tale recita è talmente goffa e non veritiera che è soltanto il vecchio mondo, abituato ad una recitazione sopra le righe, a non  accorgersi del loro inganno. Mirandolina è un’attrice più scaltra: lei sa “fingere” con i suoi “spasimanti”, riesce a rivestire la parte della donna un po’ civettuola, quando serve, (non per niente suscita la gelosia di Fabrizio), ma sa anche smascherare una recitazione pedestre. Per questo, in questo caso si è parlato di metateatro: è come se Goldoni abbia voluto mettere in contrapposizione la vecchia commedia dell’arte con la sua commedia di carattere.  

MIRANDOLINA E IL CAVALIERE

(Mirandolina colla biancheria e il cavaliere di Ripafratta)

MIRANDOLINA: (entrando con qualche soggezione) Permette, illustrissimo?
CAVALIERE: (con asprezza) Che cosa volete?
MIRANDOLINA: (s’avanza un poco) Ecco qui della biancheria migliore.
CAVALIERE: (accenna il tavolino) Bene. Mettetela lì.
MIRANDOLINA: La supplico almeno di degnarsi vedere se è di suo genio.
CAVALIERE: Che roba è?
MIRANDOLINA: (s’avanza ancor di più) Le lenzuola sono di Rensa.
CAVALIERE: Rensa?
MIRANDOLINA: Sì signore, dieci paoli al braccio. Osservi.
CAVALIERE: Non pretendevo tanto. Bastavami qualche cosa meglio di quel che mi avete dato.
MIRANDOLINA: Questa biancheria l’ho fatta per personaggi di merito: per quelli che la sanno conoscere; e in verità, illustrissimo, la do per esser lei, ad un altro non la darei.
CAVALIERE: “Per esser lei!” Solito complimento.
MIRANDOLINA: Osservi il servizio di tavola.
CAVALIERE: Oh! queste tele di Fiandra, quando si lavano perdono assai. Non vi è bisogno che le insudiciate per me.
MIRANDOLINA: Per un cavaliere della sua qualità, non guardo a queste piccole cose. Di queste salviette ne ho parecchie, e le serberò per V.S. illustrissima.
CAVALIERE: (da sé) Non si può però negare, che costei sia una donna obbligante.
MIRANDOLINA: (da sé) Veramente ha una faccia burbera da non piacergli le donne.
CAVALIERE: Date la mia biancheria al mio cameriere, o ponetela lì, in qualche luogo. Non vi è bisogno che v’incomodiate per questo.
MIRANDOLINA: Oh, io non m’incomodo mai, quando servo cavaliere di sì alto merito.
CAVALIERE: Bene, bene, non occorr’altro. (da sé) Costei vorrebbe adularmi. Donne, tutte così!
MIRANDOLINA: La metterò nell’arcova.
CAVALIERE: (con serietà) Sì, dove volete.
MIRANDOLINA: (da sé; va a riporre la biancheria) Oh! vi è del duro. Ho paura di non far niente.
CAVALIERE: (da sé) I gonzi sentono queste belle parole, credono a chi le dice, e cascano.
MIRANDOLINA: (ritornando senza la biancheria) A pranzo, che cosa comanda?
CAVALIERE: Mangerò quello che vi sarà.
MIRANDOLINA: Vorrei pur sapere il suo genio. Se le piace una cosa più dell’altra, lo dica al cameriere.
CAVALIERE: Se vorrò qualche cosa, lo dirò al cameriere.
MIRANDOLINA: Ma in queste cose gli uomini non hanno l’attenzione e la pazienza che abbiamo noi altre donne. Se le piacesse qualche intingoletto, qualche salsetta, favorisca di dirlo a me.
CAVALIERE: Vi ringrazio: ma né anche per questo verso vi riuscirà di far con me quello che avete fatto col conte e col marchese.
MIRANDOLINA: Che dice della debolezza di quei due cavalieri? Vengono alla locanda per alloggiare, e pretendono poi di voler fare all’amore colla locandiera. Abbiamo altro in testa noi, che dar retta alle loro ciarle. Cerchiamo di fare il nostro interesse; se diamo loro delle buone parole, lo facciamo per tenerli a bottega; e poi, io principalmente, quando vedo che si lusingano, rido come una pazza.
CAVALIERE: Brava! Mi piace la vostra sincerità.
MIRANDOLINA: Oh! non ho altro di buono, che la sincerità.
CAVALIERE: Ma però, con chi vi fa la corte, sapete fingere.
MIRANDOLINA: Io fingere? Guardimi il cielo. Domandi un poco a quei due signori che fanno gli spasimati per me, se mai ho dato loro un segno d’affetto. Se ho mai scherzato con loro in maniera che si potessero lusingare con fondamento. Non li strapazzo, perché il mio interesse non lo vuole, ma poco meno. Questi uomini effeminati non li posso vedere. Sì come abborrisco anche le donne, che corrono dietro agli uomini. Vede? Io non sono una ragazza. Ho qualche annetto; non son bella, ma ho avute delle buone occasioni; eppure non ho mai voluto maritarmi, perché stimo infinitamente la mia libertà.
CAVALIERE: Oh sì, la libertà è un gran tesoro.
MIRANDOLINA: E tanti la perdono scioccamente.
CAVALIERE: So ben io quel che faccio. Alla larga.
MIRANDOLINA: Ha moglie V.S. illustrissima?
CAVALIERE: Il cielo me ne liberi. Non voglio donne.
MIRANDOLINA: Bravissimo. Si conservi sempre così. Le donne, signore… Basta, a me non tocca a dirne male.
CAVALIERE: Voi siete per altro la prima donna, ch’io senta parlar così.
MIRANDOLINA: Le dirò: noi altre locandiere vediamo e sentiamo delle cose assai; e in verità compatisco quegli uomini che hanno paura del nostro sesso.
CAVALIERE: (da sé) E’ curiosa costei.
MIRANDOLINA: Con permissione di V.S. illustrissima (finge voler partire)
CAVALIERE: Avete premura di partire?
MIRANDOLINA: Non vorrei esserle importuna.
CAVALIERE: No, mi fate piacere; mi divertite.
MIRANDOLINA: Vede, signore? Così fo con gli altri. Mi trattengo qualche momento; sono piuttosto allegra, dico delle barzellette per divertirli, ed essi subito credono… Se la m’intende, e’ mi fanno i cascamorti.
CAVALIERE: Questo accade, perché avete buona maniera.
MIRANDOLINA: (con una riverenza) Troppa bontà, illustrissimo.
CAVALIERE: Ed essi s’innamorano.
MIRANDOLINA: Guardi che debolezza! Innamorarsi subito di una donna!
CAVALIERE: Questa io non l’ho mai potuta capire.
MIRANDOLINA: Bella fortezza! Bella virilità!
CAVALIERE: Debolezze! Miserie umane!
MIRANDOLINA: Questo è il vero pensare degli uomini. Signor cavaliere, mi porga la mano.
CAVALIERE: Perché volete ch’io vi porga la mano?
MIRANDOLINA: Favorisca; si degni; osservi, sono pulita.
CAVALIERE: Ecco la mano.
MIRANDOLINA: Questa è la prima volta, che ho l’onore d’aver per la mano un uomo, che pensa veramente da uomo.
CAVALIERE: (ritira la mano) Via, basta così.
MIRANDOLINA: Ecco. Se io avessi preso per la mano uno di que’ due signori sguaiati, avrebbe tosto creduto ch’io spasimassi per lui. Sarebbe andato in deliquio. Non darei loro una semplice libertà, per tutto l’oro del mondo. Non sanno vivere. Oh benedetto il conversare alla libera! senza attacchi, senza malizia, senza tante ridicole scioccherie. Illustrissimo, perdoni la mia impertinenza. Dove posso servirla, mi comandi con autorità, e avrò per lei quell’attenzione, che non ho mai avuto per alcuna persona di questo mondo.
CAVALIERE: Per qual motivo avete tanta parzialità per me?
MIRANDOLINA: Perché, oltre il suo merito, oltre la sua condizione, sono almeno sicura che con lei posso trattare con libertà, senza sospetto che voglia fare cattivo uso delle mie attenzioni, e che mi tenga in qualità di serva, senza tormentarmi con pretensioni ridicole, con caricature affettate.
CAVALIERE: (da sé) Che diavolo ha costei di stravagante, ch’io non capisco.
MIRANDOLINA: (da sé) Il satiro si anderà a poco a poco addomesticando.
CAVALIERE: Orsù, se avete da badare alle vostre cose, non restate per me.
MIRANDOLINA: Sì signore, vado ad attendere alle vicende di casa. Queste sono i miei amori, i miei passatempi. Se comanderà qualche cosa, manderò il cameriere.
CAVALIERE: Bene… Se qualche volta verrete anche voi, vi vedrò volentieri.
MIRANDOLINA: Io veramente non vado mai nelle camere dei forestieri, ma da lei ci verrò qualche volta.
CAVALIERE: Da me… Perché?
MIRANDOLINA: Perché, illustrissimo signore, ella mi piace assaissimo.
CAVALIERE: Vi piaccio io?
MIRANDOLINA: Mi piace, perché non è effeminato, perché non è di quelli che s’innamorano. (da sé) Mi caschi il naso, se avanti domani non l’innamoro. (parte)

(il cavaliere solo)

CAVALIERE: Eh! So io quel che fo. Colle donne? Alla larga. Costei sarebbe una di quelle che potrebbero farmi cascare più delle altre. Quella verità, quella scioltezza di dire, è cosa poco comune. Ha un so che di estraordinario; ma non per questo mi lascerei innamorare. Per un poco di divertimento, mi fermerei più tosto con questa che con un’altra. Ma per far all’amore? Per perdere la libertà? Non vi è pericolo. Pazzi, pazzi quelli che s’innamorano delle donne. (parte)

Teatro, amore mio”: “La Locandiera” di Carlo Goldoni • Prima Pagina Mazara

Mirandolina e il cavaliere di Ripafratta

La pagina qui presentata è un capolavoro nel cogliere la psicologia femminile: Mirandolina riesce a colpire l’antagonista nei sui punti deboli, facendolo a poco a poco cadere. E’ la femminilità offesa che si vendica, ma è anche la descrizione della nuova donna nella società dinamica del Settecento, la versante femminile dell’ideologia “borghese” che l’illuminismo stava diffondendo. Eppure anche lei presenta, pur nella sua estrema capacità, anzi si potrebbe dire grazie ad essa, alcune caratteristiche che ne fanno un personaggio assolutamente ambiguo: ama essere corteggiata, grazie a questo riceve – e non rifiuta mai – doni; tratta con durezza Fabrizio, il suo cameriere, di cui ha bisogno per essere protetta in caso di difficoltà, ma di cui si servirà per sistemare la sua vita. Infatti, proprio nel momento in cui il cavaliere dichiarerà il suo amore, annuncerà il matrimonio con lui. In tal modo Goldoni chiuderà il cerchio: rispetterà le differenze di classe, ma la classe emergente merita tutto il rispetto del nostro autore.

“La locandiera” di Amanda Sandrelli

La locandiera, non solo rappresenta uno dei punti più alti del teatro goldoniano, ma anche una certa fiducia nella classe borghese, qui rappresentata dall’imprenditrice Mirandolina. A ben guardare ad essere sconfitta è proprio l’aristocrazia, qui articolata in due figure ben disegnate, quella del conte (borghese arricchito che, comprato il titolo nobiliare ne ha assunto atteggiamenti e ricchezza) e quella del marchese (antica aristoctazia cui il benessere economico è andato perduto, così come è andata perduta la sua forza propulsiva per la città lagunare). Rimane il cavaliere, il misogino, forse il nobile “maggiormente normale” – d’altra parte la sua figura è ripresa da un personaggio reale, conosciuto da Goldoni – la cui normalità, tuttavia, si colora di prepotenza, il signore cui tutto è dovuto, quando è richiesto a chi è socialmente inferiore. La “vendetta” di Mirandolina è la  vendetta appunto della borghesia, fattiva, intraprendente, capace di guardare al suo, di contro ad un mondo ormai al tramonto, fatto dio cortesia affettata o di indisponenza. 

Terza fase (1753-1759)

Di fronte a una sempre maggiore concorrenza, e a una certa stanchezza che il suo teatro sembra mostrare, Goldoni deve cercare di recuperare il successo entrando nel terreno stesso dei suoi avversari. Infatti costoro, per avere successo, cercavano sempre più di uscire da un “realismo” piccolo borghese, mostrando scenari esotici e capaci di far sognare. E’ il momento che anche Goldoni scrive Il filosofo inglese o La sposa persiana. Eppure in questi testi troviamo una perfetta adesione dell’autore all’ideologia illuminista. Tuttavia la non riuscita di tali commedie sta proprio nella preminenza dell’ideologia sulla scrittura teatrale. Nascono anche alcuni personaggi che cominciano a mostrare un certo ripiegamento goldoniano, come Il vecchio bizzarro o La donna bizzarra. Ma tuttavia il capolavoro di questa fase sembra essere Il Campiello, commedia realista, dove si mostra una piazza veneziana e donne intente a presentare ragazze di marito.

Quarta fase (1759-1762)

E’ il periodo dei capolavori di Goldoni. Si ricordano tra questi I rusteghi, storie di quattro vecchi brontoloni che saranno sconfitti dalla vitalità della gioventù, o La trilogia della villeggiatura, dove il nostro mette in scena il cambiamento sociale avvenuto nel ripiegamento economico della città lagunare.

La trilogia della villeggiatura (chiamata così in età contemporanea) è composta da tre commedie: La smania della villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura.

Filippo con la figlia Giacinta e Leonardo con la sorella Vittoria si preparano a partire per la villeggiatura. Innamorato di Giacinta, Leonardo spera di poter viaggiare nella sua carrozza, ma Filippo ha già invitato Guglielmo, altro spasimante della ragazza. Gelosie e ripicche stanno per compromettere le vacanze, quando il vecchio Fulgenzio appiana i contrasti e Leonardo si fidanza con Giacinta. La vicenda si complica ne Le avventure della villeggiatura e Il ritorno dalla villeggiatura. Giacinta scopre di amare Guglielmo e la sua storia patetica s’intreccia con quella comica della vecchia zia Sabina, incapricciatasi di Ferdinando, un pettegolo scroccone. Intanto Leonardo va in rovina per debiti e la ragazza, impietosita, decide di salvarlo, sposandolo e portando la sua dote: partiranno insieme per Genova, mentre Guglielmo sarà consolato dall’affetto di Vittoria.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è trilogia-della-villeggiatura-locandina.jpegLocandina dello spettacolo teatrale con la regia di Tony Servillo (2007)

FILIPPO E FULGENZIO

FILIPPO: Gran cosa di queste ragazze! Quel giorno che hanno  d’andar in campagna, non sanno quel che si facciano, non sanno quel che si dicano, sono fuori di lor medesime.
FULGENZIO: Buon giorno, signor Filippo.
FILIPPO: Riverisco il mio carissimo signor Fulgenzio. Che buon vento vi conduce da queste parti?
FULGENZIO: La buona amicizia, il desiderio di rivedervi prima che andiate in villa, e di potervi dare il buon viaggio.
FILIPPO: Son obbligato al vostro amore, alla vostra cordialità, e mi fareste una gran finezza, se vi compiaceste di venir con me.
FULGENZIO: No, caro amico, vi ringrazio. Sono stato in campagna alla raccolta del grano, ci sono stato alla semina, sono tornato per le biade minute, e ci anderò per il vino. Ma son solito di andar solo, e d  starvi quanto esigono i miei interessi, e non più.
FILIPPO: Circa agl’interessi della campagna, poco più, poco meno, ci abbado anch’io, ma solo non ci posso stare. Amo la compagnia, ed ho piacere nel tempo medesimo di agire, e di divertirmi.
FULGENZIO: Benissimo, ottimamente. Dee ciascuno operare secondo la sua inclinazione. Io amo star solo, ma non disapprovo chi ama la compagnia. Quando però la compagnia sia buona, sia conveniente, e non dia ocasione al mondo di mormorare.
FILIPPO: Me lo dite in certa maniera, signor Fulgenzio, che pare abbiate intenzione di dare a me delle staffilate.
FULGENZIO: Caro amico, noi siamo amici da tanti anni. Sapete se vi ho sempre amato, se nelle occasioni vi ho dati dei segni di cordialità.
FILIPPO: Sì, me ne ricordo, e ve ne sarò grato fino ch’io viva. Quando ho avuto bisogno di denari, me ne avete sempre somministrato senz’alcuna difficoltà. Ve li ho per altro restituiti, e i mille scudi che l’altro giorno mi avete prestati, li avrete, come mi sono impegnato, da qui a tre mesi.
FULGENZIO: Di ciò son sicurissimo, e prestar mille scudi ad un galantuomo, io lo calcolo un servizio da nulla. Ma permettetemi che io vi dica un’osservazione che ho fatta. Io veggo che voi venite a domandarmi denaro in prestito quasi ogni anno, quando siete vicino alla villeggiatura. Segno evidente che la villeggiatura v’incomoda; ed è un peccato che un galantuomo, un benestante come voi siete, che ha il suo bisogno per il suo mantenimento, s’incomodi e domandi denari inprestito per ispenderli malamente. Sì, signore, per ispenderli malamente, perché le  persone medesime che vengono a mangiare il vostro, sono le prime a dir male di voi, e fra quelli che voi trattate amorosamente, vi è qualcheduno che pregiudica al vostro decoro ed alla vostra riputazione.
FILIPPO: Cospetto! voi mi mettete in un’agitazione grandissima. Rispetto allo spendere qualche cosa di più, e farmi mangiare il mio malamente, ve l’accordo, è vero, ma sono avvezzato così, e finalmente non ho che una sola figlia. Posso darle una buona dote, e mi resta da viver bene fino ch’io campo. Mi fa specie che voi diciate, che vi è chi pregiudica al mio decoro, alla mia riputazione. Come potete dirlo, signor Fulgenzio?
FULGENZIO: Lo  dico con fondamento, e lo dico appunto, riflettendo che avete una figliuola da maritare. Io so che vi è persona che la vorrebbe per moglie, e non ardisce di domandarvela, perché voi la lasciate troppo addomesticar colla gioventù, e non avete riguardo di  ammettere zerbinotti in casa, e fino di accompagnarli in viaggio con essolei.
FILIPPO: Volete voi dire del signor Guglielmo?
FULGENZIO: Io dico di tutti e non voglio dir di nessuno.
FILIPPO: Se parlaste del signor Guglielmo, vi accerto che è un giovane il più savio, il più dabbene del mondo.
FULGENZIO: Ella è giovane.
FILIPPO: E mia figlia è una fanciulla prudente.
FULGENZIO: Ella è donna.
FILIPPO: E vi è mia sorella, donna attempata…
FULGENZIO: E vi sono delle vecchie più pazze assai delle giovani.
FILIPPO: Era venuto anche a me qualche dubbio su tal proposito, ma ho pensato poi, che tanti altri si conducono nella stessa maniera…
FULGENZIO: Caro amico, de’ casi ne avete mai veduti a succedere? Tutti quelli che si conducono come voi dite, si sono poi trovati della loro condotta contenti?
FILIPPO: Per dire la verità, chi sì e chi no.
FULGENZIO: E voi siete sicuro del sì? Non potete dubitare del no?
FILIPPO: Voi mi mettete delle pulci nel capo. Non veggo l’ora di liberarmi di questa figlia. Caro amico, e chi è quegli che dite voi, che la vorrebbe in consorte?
FULGENZIO: Per ora non posso dirvelo.
FILIPPO: Ma perché?
FULGENZIO: Perché per ora non vuol essere nominato. Regolatevi diversamente, e si spiegherà.
FILIPPO: E che cosa dovrei fare? Tralasciar d’andare in campagna? È impossibile; son troppo avvezzo.
FULGENZIO: Che bisogno c’è, che vi conduciate la figlia?
FILIPPO: Cospetto di bacco! se non la conducessi, ci sarebbe il diavolo in casa.
FULGENZIO: Vostra figlia dunque può dire anch’ella la sua ragione.
FILIPPO: L’ha sempre detta.
FULGENZIO: E di chi è la colpa?
FILIPPO: È mia, lo confesso, la colpa è mia. Ma son di buon cuore.
FULGENZIO: Il troppo buon cuore del padre fa essere di cattivo cuore le figlie.
FILIPPO: E che vi ho da fare presentemente?
FULGENZIO: Un poco di buona regola. Se non in tutto, in parte. Staccatele dal fianco la gioventù.
FILIPPO: Se sapessi come fare a liberarmi dal signor Guglielmo!
FULGENZIO: Alle corte: questo signor Guglielmo vuol essere il suo malanno. Per causa sua il galantuomo che la vorrebbe, non si dichiara. Il partito è buono, e se volete che se ne parli, e che si tratti, fate a buon conto che non si veda questa mostruosità, che una figliuola abbia da comandar più del padre.
FILIPPO: Ma ella in ciò non ne ha parte alcuna. Sono stato io che l’ha invitato a venire.
FULGENZIO: Tanto meglio. Licenziatelo.
FILIPPO: Tanto peggio; non so come licenziarlo.
FULGENZIO: Siete uomo, o che cosa siete?
FILIPPO: Quando si tratta di far malegrazie, io non so come fare.
FULGENZIO: Badate che non facciano a voi delle malegrazie che puzzino.
FILIPPO: Orsù, bisognerà, ch’io lo faccia.
FULGENZIO: Fatelo, che ve ne chiamerete contento.
FILIPPO: Potreste ben farmi la confidenza di dirmi chi sia l’amico che aspira alla mia figliuola.
FULGENZIO: Per ora non posso, compatitemi. Deggio andare per un affare di premura.
FILIPPO: Accomodatevi, come vi pare.
FULGENZIO: Scusatemi della libertà, che mi ho preso.
FILIPPO: Anzi vi ho tutta l’obbligazione.
FULGENZIO: A buon rivederci.
FILIPPO: Mi raccomando alla grazia vostra.
FULGENZIO: (Credo di aver ben servito il signor Leonardo. Ma ho inteso di servire alla verità, alla ragione, all’interesse e al decoro dell’amico Filippo). (Parte.)

Tratto dalla prima delle commedie della villeggiatura, mostra due tipologie di uomini proprietari di ville (villeggiare, andare in villa, trascorrere del tempo nella residenza campagnola). Fulgenzio ha con la campagna un rapporto di tipo economico, vi si reca per la semina del grano, per il raccolto e la vendemmia, potremo, con una parola sola, dire che il suo rapporto con la campagna è di tipo economico; Filippo viceversa è colui che in campagna segue “più o meno i lavori”, le piace la compagnia, si accompagna con la figlia per farla divertire, invita ed è invitato ai piaceri della mensa. Se il primo, potremo dire, segue un’etica “tradizionale” del possedere terreni, il secondo rovescia tale etica e l’andare in campagna diventa distintivo di un modo di fare a cui un tempo la nobiltà e ora la ricca borghesia non poteva fare a meno, e se per farlo si prendono denari in prestito, non importa: l’importante è “farsi vedere”.

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L’ABITO DELL’INVIDIA

GIACINTA: È ambiziosissima. Se vede qualche cosa di nuovo ad una persona, subito le vien la voglia d’averla.  Avrà  saputo, ch’io  mi ho fatto il vestito nuovo, e l’ha voluto ella pure. Ma non avrà penetrato del mariage. Non l’ho detto a nessuno; non avrà avuto tempo a saperlo.
VITTORIA: Giacintina, amica mia carissima.
GIACINTA: Buon dì, la mia cara gioia. (Si baciano.)
VITTORIA: Che dite eh? È una bell’ora questa da incomodarvi?
GIACINTA: Oh! incomodarmi? Quando vi ho sentita venire, mi si è allargato il core d’allegrezza.
VITTORIA: Come state? State bene?
GIACINTA: Benissimo. E voi? Ma è superfluo il domandarvi: siete grassa e fresca, il cielo vi benedica, che consolate.
VITTORIA: Voi, voi avete una ciera che innamora.
GIACINTA: Oh! cosa dite mai? Sono levata questa mattina per tempo, non ho dormito, mi duole lo stomaco, mi duole il capo, figurarsi che buona ciera ch’io posso avere.
VITTORIA: Ed io non so cosa m’abbia, sono tanti giorni che non mangio niente; niente, niente, si può dir quasi niente. Io non so di che viva, dovrei essere come uno stecco.
GIACINTA: Sì, sì, come uno stecco! Questi bracciotti non sono stecchi.
VITTORIA: Eh! a voi non vi si contano l’ossa.
GIACINTA: No, poi. Per grazia del cielo, ho il mio bisognetto.
VITTORIA: Oh cara la mia Giacinta!
GIACINTA: Oh benedetta la mia Vittorina! (Si baciano.) Sedete, gioia; via sedete.
VITTORIA: Aveva tanta voglia di vedervi. Ma voi non vi degnate mai di venir da me.

(Siedono.)

GIACINTA: Oh! caro il mio bene, non vado in nessun loco. Sto sempre in casa.
VITTORIA: E io? Esco un pochino la festa, e poi sempre in casa.
GIACINTA: Io non so come facciano quelle che vanno tutto il giorno a girone per la città.
VITTORIA: (Vorrei pur sapere se va o se non va a Montenero, ma non so come fare).
GIACINTA: (Mi fa specie, che non mi parla niente della campagna).
VITTORIA: È molto che non vedete mio fratello?
GIACINTA: L’ho veduto questa mattina.
VITTORIA: Non so cos’abbia. È inquieto, è fastidioso.
GIACINTA: Eh! non lo sapete? Tutti abbiamo le nostre ore buone e le nostre ore cattive.
VITTORIA: Credeva quasi che avesse gridato con voi.
GIACINTA: Con me? Perché ha da gridare con me? Lo stimo e lo venero, ma egli non è ancora in grado di poter gridare con me. (Ci gioco io, che l’ha mandata qui suo fratello).
VITTORIA: (È superba quanto un demonio).
GIACINTA: Vittorina, volete restar a pranzo con noi?
VITTORIA: Oh! no, vita mia, non posso. Mio fratello mi aspetta.
GIACINTA: Glielo manderemo a dire.
VITTORIA: No, no assolutamente non posso.
GIACINTA: Se volete favorire, or ora qui da noi si dà in tavola.
VITTORIA: (Ho capito. Mi vuol mandar via). Così presto andate a desinare?
GIACINTA: Vedete bene. Si va in campagna, si parte presto, bisogna sollecitare.
VITTORIA: (Ah! maledetta la mia disgrazia).
GIACINTA: M’ho da cambiar di tutto, m’ho da vestire da viaggio.
VITTORIA: Sì, sì, è vero; ci sarà della polvere. Non torna il conto rovinare un abito buono. (Mortificata.)
GIACINTA: Oh! in quanto a questo poi, me ne metterò uno meglio di questo. Della polvere non ho  paura. Mi ho fatto una sopravveste di cambellotto di seta col suo capuccietto, che non vi è pericolo che la polvere mi dia fastidio.
VITTORIA: (Anche la sopravveste col capuccietto! La voglio anch’io, se dovessi vendere de’ miei vestiti).
GIACINTA: Voi non l’avete la sopravveste col capuccietto?
VITTORIA: Sì, sì, ce l’ho ancor io; me l’ho fatta fin dall’anno passato.
GIACINTA: Non ve l’ho veduta l’anno passato.
VITTORIA: Non l’ho portata, perché, se vi ricordate, non c’era polvere.
GIACINTA: Sì, sì, non c’era polvere. (È propriamente ridicola).
VITTORIA: Quest’anno mi ho fatto un abito.
GIACINTA: Oh! io me ne ho fatto un bello.
VITTORIA: Vedrete il mio, che non vi dispiacerà.
GIACINTA: In materia di questo, vedrete qualche cosa di particolare.
VITTORIA: Nel mio non vi è né oro, né argento, ma per dir la verità, è stupendo.
GIACINTA: Oh! moda, moda. Vuol esser moda.
VITTORIA: Oh! circa la moda, il mio non si può dir che non sia alla moda.
GIACINTA: Sì, sì, sarà alla moda. (Sogghignando.)
VITTORIA: Non lo credete?
GIACINTA: Sì, lo credo. (Vuol restare quando vede il mio mariage).
VITTORIA: In materia di mode poi, credo di essere stata sempre io delle prime.
GIACINTA: E che cos’è il vostro abito?
VITTORIA: È un mariage.
GIACINTA: Mariage! (Maravigliandosi.)
VITTORIA: Sì, certo. Vi par che non sia alla moda?
GIACINTA: Come avete voi saputo, che sia venuta di Francia la moda del mariage?
VITTORIA: Probabilmente, come l’avrete saputo anche voi.
GIACINTA: Chi ve l’ha fatto?
VITTORIA: Il sarto francese monsieur de la Réjouissance.
GIACINTA: Ora ho capito. Briccone! Me la pagherà.  Io l’ho  mandato a chiamare. Io gli ho dato la moda del mariage. Io che aveva in casa l’abito di madama Granon.
VITTORIA: Oh! madama Granon è stata da me a farmi visita il secondo giorno che è arrivata a Livorno.
GIACINTA: Sì, sì, scusatelo. Me l’ha da pagare senza altro.
VITTORIA: Vi spiace, ch’io abbia il mariage?
GIACINTA: Oibò, ci ho gusto.
VITTORIA: Volevate averlo voi sola?
GIACINTA: Perché? Credete voi, ch’io sia una fanciulla invidiosa? Credo che lo sappiate, che io non invidio nessuno. Bado a me, mi faccio quel che mi pare, e lascio che gli altri facciano quel che vogliono. Ogni anno un abito nuovo certo. E voglio esser servita subito, e servita bene, perché pago, pago puntualmente, e il sarto non lo faccio tornare più d’una volta.
VITTORIA: Io credo che tutte paghino.
GIACINTA: No, tutte non pagano. Tutte non hanno il modo, o la delicatezza  che  abbiamo noi. Vi sono di quelle che fanno aspettare degli anni, e poi se hanno qualche premura, il sarto s’impunta. Vuole  i danari sul fatto, e nascono delle baruffe. (Prendi questa, e sappiatemi dir se è alla moda).
VITTORIA: (Non crederei, che parlasse di me. Se potessi credere che il sarto avesse parlato, lo vorrei trattar, come merita).
GIACINTA: E quando ve lo metterete questo bell’abito?
VITTORIA: Non so, può essere, che non me lo metta nemeno. Io son così; mi basta d’aver la roba, ma non mi curo poi di sfoggiarla.
GIACINTA: Se andate in campagna, sarebbe quella l’occasione di metterlo. Peccato, poverina, che non ci andiate in quest’anno!
VITTORIA: Chi v’ha detto che io non ci vada?
GIACINTA: Non so: il signor Leonardo ha mandato a licenziar i cavalli.
VITTORIA: E per questo? Non si può risolvere da un momento all’altro? E lo credete che non possa andare senza di lui? Credete ch’io non abbia delle amiche, delle parenti da poter andare?
GIACINTA: Volete venire con me?
VITTORIA: No, no, vi ringrazio.
GIACINTA: Davvero, vi vedrei tanto volentieri.
VITTORIA: Vi dirò, se posso ridurre una mia cugina a  venire con me a Montenero, può essere che ci vediamo.
GIACINTA: Oh! che l’avrei tanto a caro.
VITTORIA: A che ora partite?
GIACINTA: A ventun’ora.
VITTORIA: Oh! dunque c’è tempo. Posso trattenermi qui ancora un  poco. (Vorrei vedere questo abito, se potessi).
GIACINTA: Sì, sì, ho capito. Aspettate un poco. (Verso la scena.)
VITTORIA: Se avete qualche cosa da fare, servitevi.
GIACINTA: Eh! niente. M’hanno detto che il pranzo è all’ordine, e che mio padre vuol desinare.
VITTORIA: Partirò dunque.
GIACINTA: No, no, se volete restare, restate.
VITTORIA: Non vorrei che il vostro signor padre si avesse a inquietare.
GIACINTA: Per verità, è fastidioso un poco.
VITTORIA: Vi leverò l’incomodo. (S’alza.)
GIACINTA: Se volete restar con noi, mi farete piacere. (S’alza.)
VITTORIA: (Quasi, quasi, ci resterei, per la curiosità di quest’abito).
GIACINTA: Ho inteso; non vedete? Abbiate creanza. (Verso la scena.)
VITTORIA: Con chi parlate?
GIACINTA: Col servitore che mi sollecita. Non hanno niente di civiltà costoro.
VITTORIA: Io non ho veduto nessuno.
GIACINTA: Eh, l’ho ben veduto io.
VITTORIA: (Ho capito). Signora Giacinta, a buon rivederci.
GIACINTA: Addio, cara. Vogliatemi bene, ch’io vi assicuro che ve ne voglio.
VITTORIA: Siate certa, che siete corrisposta di cuore.
GIACINTA: Un bacio almeno.
VITTORIA: Sì, vita mia.
GIACINTA: Cara la mia gioia. (Si baciano.)
VITTORIA: Addio.
GIACINTA: Addio.
VITTORIA: (Faccio de’ sforzi a fingere, che mi sento crepare). (Parte.)
GIACINTA: Le donne invidiose io non le posso soffrire. (Parte.)

Pagina magistrale di Goldoni che, al di là del suo significato metaforico, mostra una grandissima capacità nel mostrare:

  1. la descrizione di una società completamente votata all’apparire;
  2. Il destino femminile teso soltanto al matrimonio; “mariage” in francese significa appunto “matrimonio”; per le ragazze di buona famiglia il destino è quello di diventare mogli e madri, ma per far ciò è necessario “apparire”, per far in modo che, foss’anche con un abito alla moda, si possa mostrare le possibilità economiche di una futura sposa;
  3. La capacità delle due donne di “dirsi” e non “dirsi” attraverso un dialogo estremamente fitto in cui valgono di più gli a parte che le parole pronunciate; è evidente che l’importante “non detto” sveli l’incredibile ipocrisia che sottende l’intero brano.

Anche qui, ma con maggior forza, si vuole sottolineare l’involuzione di quella borghesia che per scimmiottare la nobiltà gioca sul suo stesso campo, cercando di confrontarsi con lo stato sociale più elevato con mezzi quali la moda, cioè con quell’apparenza di cui abbiamo parlato prima. Ma in questa commedia tale involuzione è mostrata proprio nel finale quando nel gioco delle coppie Giacinto sposerà chi non ama. E’ la fine dell’idillio e dell’illusione goldoniana verso quella classe che ancora negli anni ’50 mostrava la sua forza e dopo 10 anni, chiusa in se stessa, sanciva la fine della sua forza propulsiva (è corretto sottolineare che qui Goldoni vuole rimarcare il fallimento di una borghesia che più che trovare una via propria di affermazione sociale, imita la vuota e ormai superata nobiltà).

E’ evidente allora che l’unica speranza d’autenticità Goldoni l’affidi al popolo: è del ’62 la messa in scena de Le baruffe chiozzotte in cui non c’è una vera e propria trama, ma racconta il continuo “baruffare”, litigare appunto, di due famiglie di pescatori. Sembra che l’autore voglia sottolineare come questo prendersi a parole appartenga più ad un rituale quotidiano che ad un vero e proprio litigio, e cerca di sottolinearlo usando appunto il dialetto veneziano, che si piega, grazie a lui, ad un suono armonioso, uscendo dal bozzettismo e portandolo a dignità d’arte.

Le Baruffe in Calle , dal 1 al 5 Agosto 2022 a Chioggia

LE BARUFFE DELLE DONNE

(Strade con varie casupole. Pasqua e Lucietta da una parte. Libera, Orsetta e Checca dall’altra. Tutte a sedere sopra seggiole di paglia, lavorando merletti sui loro cuscini, posti ne’ loro scagnetti. Toffolo)

TOFFOLO: (Arecordève, siora Checca, che m’avè dito de mi no ve degnè).
CHECCA: (Andè via, che no ve tendo).
TOFFOLO: (E sì, mare de diana, gh’aveva qualche bona intenzion).
CHECCA: (De cossa?)
TOFFOLO: (Mio santolo me vol metter suso peota, e co son a traghetto, anca mi me vòi marìdare).
CHECCA: (Dasseno?)
TOFFOLO: (Ma vu avè dito che no ve degnè).
CHECCA: (Oh! ho dito della zucca, non ho miga dito de vu).
LIBERA: Oe, oe, digo: cossa xè sti parlari?
TOFFOLO: Varè? Vardo a laorare.
LIBERA: Andè via de là, ve digo.
TOFFOLO: Cossa ve fazzio? Tolè; anderò via (si scosta, e va bel bello dall’altra parte)
CHECCA: (Sia malignazo!)
ORSETTA: (Mo via, cara sorela, se el la volesse, savè che putto che el xè: no ghe la voressi dare?)
LUCIETTA: (Cossa diseu, cugnà? La se mette suso a bonora).
PASQUA: (Se ti savessi che rabbia che la me fa!) (a Lucietta)
LUCIETTA: (Varè che fusto! Viva cocchietto! La voggio far desperare)
TOFFOLO: Sfadighève a pian, donna Pasqua.
PASQUA: Oh! no me sfadigo, no, fio: no vedè che mazzete grosse? El xè merlo da diese soldi.
TOFFOLO: E vu, Lucietta?
LUCIETTA: Oh! el mio xè da trenta.
TOFFOLO: E co belo che el xè.
LUCIETTA: Ve piàselo?
TOFFOLO: Mo co pulito! Mo cari quei deolini.
LUCIETTA: Vegnì qua; sentève.
TOFFOLO: (Oh! qua son più alla bonazza). (Siede)
CHECCA: (Oe! Cossa diseu?) (a Orsetta, facendole osservare Toffolo vicino a Lucietta)
ORSETTA: (Lassa che i fazza, non te n’impazzare). (a Checca)
TOFFOLO: (Se starà qua, me bastonerali?) (a Lucietta)
LUCIETTA: (Oh che matto!) (a Toffolo)
ORSETTA: (Cossa diseu?) (a Libera, accennando Lucietta)
TOFFOLO: Donna Pasqua, voleu tabacco?
PASQUA: Xèlo bon?
TOFFOLO: El xè de quello de Malamocco.
PASQUA: Dàmene una presa.
TOFFOLO: Volentiera.
CHECCA: (Se Titta Nane lo sa, poveretta ela).
TOFFOLO: E vu, Lucietta, ghe ne voleu?
LUCIETTA: (Dè qua, sì ben. Per far despetto a culìa) (accenna Checca)
TOFFOLO: (Mo che occhi baroni!) (a Lucietta)
LUCIETTA: (Oh giusto! No i xè miga quelli de Checca). (a Toffolo)
TOFFOLO: (Chi? Checca? gnanca in mente) (a Lucietta)
LUCIETTA: (Varè, co bela che la xè!) (a Toffolo, accennando Checca, con derisione)
TOFFOLO: (Vara chiòe!) (a Lucietta)
CHECCA: (Anca sì che parla de mi).
LUCIETTA: (No la ve piase?) (a Toffolo)
TOFFOLO: (Made). (a Lucietta)
LUCIETTA: (I ghe dise puinetta). (a Toffolo, sorridendo)
TOFFOLO: (Puinetta i ghe dise?) (a Lucietta, sorridendo e guardando Checca)
CHECCA: Oe, digo; no so miga orba, varè. La voleu fenire? (forte verso Toffolo e Lucietta)
TOFFOLO: Puina fresca, puina. (forte, imitando quelli che vendono la puina, cioè la ricotta)
CHECCA: Cossa xè sto parlare? Cossa xè sto puinare? (s’alza)
ORSETTA: No te n’impazzare. (a Checca, e s’alza)
LIBERA: Tendi a laorare. (a Orsetta e Checca, alzandosi)
ORSETTA: Che el se varda elo, sior Toffolo Marmottina.
TOFFOLO: Coss’è sto Marmottina?
ORSETTA: Sior sì; credeu che nol sapiemo che i ve dise Toffolo Marmottina?
LUCIETTA: Varè che sesti! Carè che bella prudenzia!
ORSETTA: E via, cara siora Lucietta Panchiana!
LUCIETTA: Cossa xè sta Panchiana? Tendè a vu, siora Orsetta Meggiotto.
LIBERA: No stè a strapazzar mie sorele, che mare de diana…
PASQUA: Portè respetto a mia cugnà. (s’alza)
LIBERA: Eh! tase, donna Pasqua Fersora
PASQUA: Tase vu, dona Libera Galozzo.
TOFFOLO: Se no fussi donne, sangue de un’anguria…
LIBERA: Vegnirà el mio paron.
CHECCA: Vegnirà Titta Nane. Ghe voi contare tutto, ghe voi contare.
LUCIETTA: Còntighe. Cossa m’importa.
ORSETTA: Che el vegna Toni Canestro…
LUCIETTA: Sì, sì, che el vegna paron Fortunato Baìcolo…
ORSETTA: Oh che temporale!
LUCIETTA: Oh che susìo!
PASQUA: Oh che bissabuova!
ORSETTA: Oh che stramanìo!

TOFFOLO: (Ricordatevi, signora Francesca che mi avete detto che di me non vi importa nulla). CHECCA: (Andate via che non vi bado). TOFFOLO: (E sì, corpo di bacco, che avevo qualche buona intenzione). CHECCA: (Per far che?) TOFFOLO: (Il mio padrino mi vuol mettere su una barca per passeggeri ed ora sono qui, dove si trovano simili barche, anche io mi voglio sposare). CHECCA: (Veramente?) TOFFOLO: (Ma voi avete detto che non v’importa nulla di me). CHECCA: (Oh! Ho parlato della zucca, mica di voi). LIBERA: Oh, dico. Cos’è questo chiacchierare? TOFFOLO: Vero? Vado a lavorare. LIBERA: Andate via, vi ho detto. TOFFOLO: Cosa vi ho fatto, va bene andrò via (si scosta, e va bel bello dall’altra parte) CHECCA: (Sia maledetto!) ORSETTA: (E via, cara sorella, se la volesse, sapete che ragazzo è, perché non gliela vorreste dare?) LUCIETTA: (Cosa dite cognata? Comincia da ora ad aver pretese). PASQUA: (Sapessi che rabbia mi fa!) (a Lucietta) LUCIETTA: (Guarda che malagrazia! La voglio far disperare) TOFFOLO: Faticate poco, donna Pasqua. PASQUA: Oh! No mi stanco, no, figliolo: no vedi che lavoro grande? Sono merletti da dieci soldi. TOFFOLO: E voi, Lucietta? LUCIETTA: Oh! Il mio è da trenta soldi. TOFFOLO: Eh che bello che è! LUCIETTA: Vi piace? TOFFOLO: Ma che bello. Che belle quelle dita graziose! LUCIETTA: Venite qua, sentite. TOFFOLO: (Oh! Qua sono più comodo). (Siede) CHECCA: (Oh, cosa si dicono?) (a Orsetta, facendole osservare Toffolo vicino a Lucietta) ORSETTA: (Lascia che facciano, non t’impicciare). (a Checca) TOFFOLO: (Se starò qui, mi picchierai?) (a Lucietta) LUCIETTA: (Oh che scemo!) (a Toffolo) ORSETTA: (Cosa si dicono?) (a Libera, accennando Lucietta) TOFFOLO: Donna Pasqua, volete un po’ di tabacco? PASQUA: E’ quello buono? TOFFOLO: E’ quello di Malamocco. PASQUA: Dammene una presa. TOFFOLO: Volentieri. CHECCA: (Se Titta Nane lo sa, poveretta lei). TOFFOLO: E voi, Lucietta, non ne volete? LUCIETTA: (Da qua, sì. Per far dispetto a quella) (accenna Checca) TOFFOLO: (Mo che occhi furbi!) (a Lucietta) LUCIETTA: (Oh giusto! Non sono mica quelli di Checca). (a Toffolo) TOFFOLO: (Chi? Checca? Neanche ci penso) (a Lucietta) LUCIETTA: (Guarda che bella che è!) (a Toffolo, accennando Checca, con derisione) TOFFOLO: (Bruttona!) (a Lucietta) CHECCA: (Proprio si, parlano di me). LUCIETTA: (Non vi piace?) (a Toffolo) TOFFOLO: (No). (a Lucietta) LUCIETTA: (Io la chiamo ricottina). (a Toffolo, sorridendo) TOFFOLO: (La chiamate ricottina?) (a Lucietta, sorridendo e guardando Checca) CHECCA: Oh, dico, non sono mica cieca. La volete finire? (forte verso Toffolo e Lucietta) TOFFOLO: Ricotta fresca, ricotta fresca. (forte, imitando quelli che vendono la puina, cioè la ricotta) CHECCA: Cos’è questo parlare? Cos’è questa ricotta? (s’alza) ORSETTA: Non t’arrabbiare. (a Checca, e s’alza) LIBERA: Riprendi a lavorare. (a Orsetta e Checca, alzandosi) ORSETTA: Che si guardi lui, signor Toffolo Marmottina. TOFFOLO: Cos’è Marmottina? ORSETTA: Signor sì; credevate che noi non sapessimo che vi chiamano Toffolo Marmottina? LUCIETTA: Ma guarda che sei! Guarda che bella prudenza! ORSETTA: E via, cara signora Lucietta Panchiana! LUCIETTA: Cos’è questa Panchiana? Attenta a voi, signora Orsetta Meggiotto. LIBERA: Non prendere in giro le mie sorelle, accidenti… PASQUA: Portare rispetto a mia cognata. (s’alza) LIBERA: Eh! zitta donna Pasqua Fersora PASQUA: Statti zitta tu, donna Libera Galozzo. TOFFOLO: Se non fossero donne, sangue de un’anguria… LIBERA: Verrà il mio padrone. CHECCA: Verrà Titta Nane. Gli voglio raccontare tutto, gli voglio raccontare. LUCIETTA: Raccontaglielo. Cosa m’importa. ORSETTA: Che venga Toni Canestro… LUCIETTA: Sì, sì, che venga signor Fortunato Baìcolo… ORSETTA: Oh che macello! LUCIETTA: Oh che confusione! PASQUA: Oh che situazione spiacevole! ORSETTA: Oh che baruffa!

Il brano rappresenta bene come il teatro goldoniano fosse intimamente legato alla sua città: Venezia; e non soltanto per l’uso della lingua, ma perché qui veramente il mondo si fa teatro; qui il suo progetto si realizza mirabilmente.

Teatro Goldoni: ricomincio da Lui - Metropolitano.it

Teatro comunale a Venezia titolato a Carlo Goldoni

Quinta fase (1762-1793)

E’ il periodo francese di Goldoni, chiamato a Parigi come direttore della Comédie italienne specializzata in scenari legati alla vecchia produzione. Infatti il pubblico francese non riesce ad apprezzare le novità goldoniane, che sembra si allontanino dalla specificità e dalla fantasia del nostro teatro. Pertanto deve tornare a fare produzioni anteriori alla riforma. Per il matrimonio di Maria Antonietta con Luigi XVI scrive Le bourru bienfaisant (1771), intitolata in italiano Il burbero benefico, commedia sentimentale in cui il nostro sembra trovare un po’ di serenità. Ma l’opera certamente più importante di questo periodo non è teatrale ma i Memoires, con cui rievoca, con vivacità la sua vita e la sua vocazione teatrale.