PLINIO IL GIOVANE

Salvatore Lo Leggio: Plinio il Giovane. In diretta da Roma antica (Lidia Storoni)

Plinio il Giovane (facciata del Duomo di Como)

Biografia

Della vita di Plinio il Giovane ci informa lui stesso: nel suo Epistolario, infatti, parla molto di sé e dice che Cecilio Secondo nasce nel 61 a  Secundum Comum tra il 61 o il 62. La famiglia d’origine, agiata e prestigiosa nella provincia, pur non avendo il rango di senatoriale, era tra le più illustri, in cui regnava un forte rispetto per la tradizione. Alla morte del padre venne adottato dallo zio, da cui assunse il nome, Plinio il Vecchio, che lo portò a Roma e lo affidò agli insegnamenti retorici di Quintiliano.

Inziò la sua attività politica sotto Domiziano, fu infatti tribuno militare in Siria, questore e pretore; raggiunse il culmine del cursus honorum con la nomina di console nel 100 sotto Traiano, riuscendo inoltre ad ottenere la  sua piena fiducia, diventando un consigliere dell’imperatore, entrando a far parte del collegium principis. Nel 111 venne mandato, come legato consolare (governatore) in Asia Minore, dove dovette affrontare la difficile questione dell’espandersi della religione cristiana. Dovette morire intorno al 113, non avendo più suoi notizie successive a quella data.

Opere

Sappiamo probabilmente che fu autore di versi, sebbene lui le ritenesse un lusus con cui intrattenere i suoi alti e colti amici, ma al di là di pochi versi non ci è giunto niente, lo stesso accade per la sua attività forense; le uniche opere a noi giunte sono il Panegyricum Traiani e l’Epistolario.

Panegyricum Traiani

S’intende per panegirico un genere letterario greco vicino all’encomio. Ottenuto l’incarico consolare da Traiano, Plinio pronuncia un vero e proprio elogio dell’imperatore per ringraziarlo della carica da lui ottenuta nel 100:ZB Zürich / C. Plinii Caecilii Secundi Panegyricus Traiano imperatori dictus ...

Edizione del 1748

ELOGIO PER UN NUOVO PRINCIPE

Discernatur orationibus nostris diversitas temporum, et ex ipso genere gratiarum agendarum intelligatur, cui, quando sint actae. Nusquam ut deo, nusquam ut numini blandiamur: non enim de tyranno, sed de cive; non de domino, sed de parente loquimur. Unum ille se ex nobis, et hoc magis excellit atque eminet, quod unum ex nobis putat; nec minus hominem se, quam hominibus praeesse meminit. Intelligamus ergo bona nostra, dignosque nos illis usu probemus, atque identidem cogitemus, quam sit indignum, si maius principibus praestemus obsequium, qui servitute civium, quam qui libertate laetantur. Et populus quidem Romanus dilectum principum servat, quantoque paullo ante concentu formosum alium, hunc fortissimum personat; quibusque aliquando clamoribus gestum alterius et vocem, huius pietatem, abstinentiam, mansuetudinem laudat. Quid nos ipsi? divinitatem principis nostri, an humanitatem, temperantiam, facilitatem, ut amor et gaudium tulit, celebrare universi solemus? Iam quid tam civile, tam senatorium, quam illud additum a nobis «Optimi» cognomen? quod peculiare huius et proprium arrogantia priorum principum fecit. Enimvero quam commune, quam ex aequo, quod felices nos, felicem illum praedicamus? alternisque votis, «haec faciat, haec audiat», quasi non dicturi, nisi fecerit, comprecamur? Ad quas ille voces lacrimis etiam ac multo pudore suffunditur. Agnoscit enim sentitque, sibi, non principi, dici.

Dai nostri discorsi si veda subito quanto i tempi siano diversi e bastino le caratteristiche dei ringraziamenti per far capire a chi e quando furono pronunciati. Non ricorriamo mai a piaggerie che lo proclamino un dio, che lo proclamino un essere sovrumano; infatti non parliamo di un tiranno ma di un cittadino, non di un padrone ma di un padre. Ad accrescergli superiorità e preminenza è proprio questo suo crederci uno di noi, questo suo ricordarsi non meno di essere uomo quanto di essere a capo degli uomini. Rendiamoci conto pertanto della nostra fortuna, dimostriamo di meritarcela con l’uso che ne facciamo ed esaminiamo assiduamente se non prestiamo una più solerte obbedienza agli imperatori che si compiacciono della schiavitù dei cittadini che non a quelli che ci tengono alla loro libertà. Il popolo romano sa certamente operare una distinzione tra gli imperatori: non molto tempo fa, in un’altro, era la bellezza che veniva acclamata dalla folla compatta, in questo invece è l’impavida intrepidezza che viene glorificata con un identico applauso; una volta era il modo di porgere e di cantare di un’altro che gli strappavano grida di entusiasmo, ora invece sono la devozione, il disinteresse e la benevolenza di questo che suscitano uguali ovazioni. E noi personalmente come ci comportiamo? Tutti insieme, trascinati dall’amore e dalla gioia, siamo soliti esaltare pubblicamente la divinità del nostro imperatore oppure la sua umanità, la sua discrezione e la sua arrendevolezza? E poi che cosa c’è che si addica tanto ad un cittadino, che si addica tanto ad un senatore quanto la denominazione di «Ottimo» che noi gli abbiamo assegnata? La boria altezzosa degli imperatori precedenti gliene ha fatto un appellativo specifico ed individuale. Proprio! Quale atmosfera di solidarietà e di uguaglianza testimoniamo quando affermiamo in pubblico che noi siamo fortunati e che egli è fortunato, e quando, alternando l’augurio, esprimiamo questi voti: «Tale sia sempre sia la sua condotta, tale sia la sua gloria», facendo capire che non diremo così se tale non fosse la sua condotta! A queste esclamazione il suo volto si bagna di lacrime e si cosparge di rossore. Infatti si accorge e sente che quelle voci di plauso sono dirette alla sua persona e non alla sua dignità.
(F. Trisoglio)


Traiano

Da questo passo intendiamo come Plinio voglia “esaltare” l’essere princeps di Traiano rispetto ad altri principes che lo hanno preceduto (chiaro il riferimento a Domiziano e a Nerone): cioè essere sì un princeps ma soprattutto un cives, circondato omnibus civibus, cioè, sembra dirci Plinio, un “primus inter pares”; ma non è esattamente così.

Innanzitutto il “primus inter pares” di memoria augustea richiedeva un difficile equilibrio tra il Cesare ed il Senato; in questo caso il senato, composto soprattutto da provinciali nominati dallo stesso Tiberio, non poteva che essere sottomesso; in secondo luogo la qualità che Plinio vuole assegnargli appartiene maggiormente ad una captatio benevolentiae che ad una realtà dei fatti. Infatti egli qui sembra voler dar sfoggio dell’oratoria epidittica, all’interno della quale s’inserisce quella elogiativa. E’ un tipo di oratoria nata in Grecia, nel periodo di Alessandro Magno e che si era affermata, a Roma, in tempi piuttosto recenti. Molto presumibilmente dovevano essere piuttosto numerosi, ma possediamo soltando il Panegirico di Plinio il Giovane, per farcene un’idea.

Quello che qui Plinio vuole dimostrare è come tali elogia, precedentemente a Traiano, fossero falsi, invece il suo corrisponde a verità. Se avesse usato uno stile meno ridondante, iperbolico, retoricamente eccessivo, non avremmo avuto nessun problema a ritenere il giudizio dell’intellettuale romano corretto: sono gli stessi storici a ricordarci la grandezza di Traiano che aveva allargato i confini di Roma, l’aveva abbellita (si pensi al Forum Traiani), aveva ottenuto una “pace sociale” aiutando i più deboli, attraverso le “elargitiones”; ma lo stile smaccatamente adulatorio, più che “sminuire” la “grandezza” di Traiano, ledono la “sincerità” del suo “laudatore” (anche se non siamo lontani dal credere che la superficialità dell’autore corrisponda alla “verità” del suo sentire).

EpistolarioPlinio il Giovane e le lettere con Traiano sui cristiani - La Nuova Bussola Quotidiana

Per parlare dell’Epistolario di Plinio dobbiamo rifarci non a quello di Seneca, ma a quello di Cicerone. Se il primo, infatti, aveva un fine filosofico facendo sì che l’autore neroniano svilupasse le sue teorie da trasmettere ad un solo destinatario (Lucilio), il secondo non aveva un filo logico, ma nasceva da episodi che mano mano capitavano al protagonista. Lo stesso fa Plinio che non raccoglie le sue lettere (che nessuno può obiettare che non siano state realmente spedite) in modo organico, ma in modo oseremmo dire casuale, per conservare, come ci dice l’autore stesso, quella varietas che rende piacevole la lettura.

Le lettere sono 247, raccolte in nove libri, a cui se ne aggiunge un terzo che contiene la corrispondenza tra Plinio e l’imperatore Traiano.

Non possiamo trovare nelle lettere dello scrittore comasco la profondità del pensatore stoico, nè l’umanità dell’uomo Cicerone: infatti esse risultano straordinarie per il modo in cui ci fa rivivevere la vita di corte offrendoci squarci della vita mondana dell’alta società imperiale. Uomo dalle molteplici amicizie, Plinio abbonda le lettere di parole elogiative verso ognuno di loro; ma ciò non toglie che talvolta autocelebri anche se stesso: scrive per incensare le opere del suo amico Tacito o per i versi di Marziale; per complimentarsi verso qualche lieto evento o per il raggiumento di qualche carica; commenta in modo positivo l’attività forense di qualcuno.

Non mancano lettere in cui il nostro esprime l’amore per la campagna, raccontando la bellezza di luoghi nei quali egli possedeva meravigliose ville, oppure le eleganti prose in cui mostra lo splendore di luoghi visitati.

Interessanti dal suo epistolario la lettera in cui Plinio, su richiesta di Tacito, che molto probabilmente voleva inserire l’episodio nel suo libro storico, parla della morte dello zio:

PLINIO IL VECCHIO E L'ERUZIONE DEL VULCANO
(6, 10)

Erat Miseni classemque imperio praesens regebat. Nonum Kal. Septembres hora fere septima mater mea indicat ei apparere nubem inusitata et magnitudine et specie. Usus ille sole, mox frigida, gustaverat iacens studebatque; poscit soleas, ascendit locum, ex quo maxime miraculum illud conspici poterat. Nubes (incertum procul intuentibus, ex quo monte, Vesuvium fuisse postea cognitum est), oriebatur, cuius similitudinem et formam non alia magis arbor quam pinus expresserit. Nam longissimo velut trunco elata in altum quibusdam ramis diffundebatur, credo, quia recenti spiritu evecta, dein senescente eo destituta aut etiam pondere suo victa in latitudinem vanescebat, candida interdum, interdum sordida et maculosa, prout terram cineremve sustulerat. Magnum propiusque noscendum, ut eruditissimo viro, visum. Iubet liburnicam aptari; mihi, si venire una vellem, facit copiam; respondi studere me malle, et forte ipse, quod scriberem, dederat. Egrediebatur domo; accipit codicillos Rectinae Casci imminenti periculo exterritae (nam villa eius subiacebat, nec ulla nisi navibus fuga); ut se tanto discrimini eriperet, orabat. Vertit ille consilium et, quod studioso animo incohaverat, obit maximo. Deducit quadriremes, ascendit ipse non Rectinae modo, sed multis (erat enim frequens amoenitas orae) laturus auxilium. Properat illuc, unde alii fugiunt, rectumque cursum, recta gubernacula in periculum tenet adeo solutus metu, ut omnis illius mali motus, omnis figuras, ut deprenderat oculis, dictaret enotaretque. Iam navibus cinis incidebat, quo propius accederent, calidior et densior, iam pumices etiam nigrique et ambusti et fracti igne lapides, iam vadum subitum ruinaque montis litora obstantia. Cunctatus paulum, an retro flecteret, mox gubernatori, ut ita faceret, monenti: «Fortes», inquit, «fortuna iuvat, Ponponianum pete!» Stabiis erat, diremptus sinu medio (nam sensim circumactis curvatisque litoribus mare infunditur); ibi, quamquam nondum periculo appropinquante, conspicuo tamen et, cum cresceret, proximo, sarcinas contulerat in naves certus fugae, si contrarius ventus resedisset. Quo tunc avunculus meus secundissimo invectus; complectitur trepidantem, consolatur, hortatur, utque timorem eius sua securitate leniret, deferri in balineum iubet: lotus accubat, cenat, aut hilaris aut, quod aeque magnum, similis hilari. Interim e Vesuvio monte pluribus locis latissimae flammae altaque incendia relucebant, quorum fulgor et claritas tenebris noctis excitabatur. Ille agrestium trepidatione ignes relictos desertasque villas per solitudinem ardere in remedium formidinis dictitabat. Tum se quieti dedit et quievit verissimo quidem somno; nam meatus animae, qui illi propter amplitudinem corporis gravior et sonantior erat, ab iis, qui limini obversabantur, audiebatur. Sed area, ex qua diaeta adibatur, ita iam cinere mixtisque pumicibus oppleta surrexerat, ut si longior in cubiculo mora, exitus negaretur. Excitatus procedit, seque Pomponiano ceterisque qui pervigilaverant reddit. In commune consultant, intra tecta subsistant an in aperto vagentur. Nam crebis vastisque tremoribus tecta nutabant, et quasi emota sedibus suis nunc huc nunc illuc abire aut referri videbantur. Sub dio rursus quamquam levium exesorumque pumicum casus metuebatur, quod tamen periculorum collatio elegit; et apud illum quidem ratio rationem, apud alios timorem timor vicit. Cervicalia capitibus imposita linteis constringunt; id monimentum adversus incidentia fuit. Iam dies alibi, illic nox omnibus noctibus nigrior densiorque; quam tamen faces multae variaque lumina solvebant. Placuit egredi in litus, et ex proximo adspicere, ecquid iam mare admitteret; quod adhuc vastum et adversum permanebat. Ibi super abiectum linteum recubans semel atque iterum frigidam aquam poposcit hausitque. Deinde flammae flammarumque praenuntius odor sulpuris alios in fugam vertunt, excitant illum. Innitens servolis duobus adsurrexit et statim concidit, ut ego colligo, crassiore caligine spiritu obstructo clausoque stomacho qui illi natura invalidus et angustus et frequenter interaestuans erat. Ubi dies redditus – is ab eo, quem novissime viderat, tertius – corpus, inventum integrum illaesum opertumque, ut fuerat indutus: habitus corporis quiescenti quam defuncto similior. Interim Miseni ego et mater – sed nihil ad historiam, nec tu aliud quam de exitu eius scire voluisti. Finem ergo faciam.

(L. Rusca)

L’ultimo giorno di Pompei, di Karl Pavlovic Brjullov, 1830-1833

Egli (Plinio il Vecchio) era a Miseno e comandava la flotta. Il nono giorno prima delle calende di settembre (24 agosto), verso l’ora settima, mia madre lo avverte che si scorge una nube insolita per vastità e per aspetto. Egli, dopo aver preso un bagno di sole e poi d’acqua fredda, aveva fatto uno spuntino giacendo e stava studiando: chiese le calzature, salì a un luogo dal quale si poteva veder meglio quel fenomeno. Una nube si formava (a coloro che la guardavano così da lontano non appariva bene da quale monte avesse origine, si seppe poi dal Vesuvio), il cui aspetto e la cui forma nessun albero avvrebbe meglio espressi di un pino. Giacché, proptesasio verso l’alto come un altissimo tronco, si allargava poi a guisa di rami; perché, ritengo, sollevata dapprima sul nascere da una corrente d’aria e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella o cedendo al proprio peso, si allargava pigramente, a trattio bianca, a tratti sporca e chiazzata, a cagione del terriccio o della cenere che trasportava. Da persona erudita qual era, gli parve che quel fenomeno dovesse essere osservato meglio e più da vicino. Ordina che si prepari un battello liburnico: mi permette, se lo voglio, di andar con lui; gli rispondo che preferisco rimanere a studiare, anzi per avventura lui stesso mi aveva assegnato un compito. Stava uscendo di casa quando riceve un biglietto da Rettina, moglie di Casco, spaventata dal pericolo che la minacciava (giacché la sua villa era ai piedi del monte e non vi era altro scampo che per nave): supplicava di essere strappata da una così terribile situazione. Lo zio cambiò i propri piani e ciò che aveva intrapreso per amor di scienza, condusse a termine per spirito di dovere. Mette in mare la quadriremi e si imbarca lui stesso per recar aiuto non solo a Rettina, ma a molti altri, giacché per l’amenità del lido la zona era molto abitata. Si affretta là donde gli altri fuggono, va dritto, rivolto il timone verso il luogo del pericolo, così privo di paura, da dettare e descrivere ogni fenomeno di quel terribile flagello, ogni aspetto, come si presenta ai suoi occhi. Già la cenere cadeva sulle navi, tanto più calda e densa quanto più si approssimava; già della pomice e anche dei ciottoli anneriti, cotti e frantumati dal fuoco; poi ecco un inatteso bassofondo e la spiaggia ostruita da massi proiettati dal monte. Esita un momento, se doveva rientrare, ma poi al pilota che lo esorta a far ciò, esclama: «La fortuna aiuta gli audaci , punta verso Pomponiano!». Questi era a Stabia, dall’altra parte del golfo (giacché il mare si addentra seguendo la riva che va via via disegnando una curva). Quivi Pomponiano, benché il pericolo non fosse prossimo, ma alle viste però e col crescere potendo farsi imminente, aveva trasportato le sue cose su alcune navi, deciso a fuggire, se il vento contrario si fosse quietato. Ma questo era allora tutto favorevole a mio zio, che arriva, abbraccia l’amico trepidante, lo rincuora, lo conforta, e per calmare la paura di lui con la propria sicurezza, vuole essere portato al bagno: lavatosi, cena tutto allegro o, ciò che è ancor più, fingendo allegria. Frattanto dal Monte Vesuvio in parecchi punti risplendevano larghissime fiamme e vasti incendi, il cui chiarore la cui luce erano resi più vivi dalle tenebre notturne. Lo zio andava dicendo, per calmare le paure, e cerca case che bruciavano abbandonate e lasciate deserte dalla fuga di contadini. Poi si recò a riposare dormi di un autentico sonno: giacché la sua respirazione, resa più pesante e rumorosa dalla vasta corporatura, fu udita da coloro che passavano accanto alla soglia. Ma il livello del cortile, attraverso il quale si accedeva a quell’appartamento, se era già talmente alzato, perché ricoperto dalla cenere mista alla lapilli virgola che, se egli si fosse più a lungo indugiato nella camera virgola non avrebbe potuto più uscirne. Svegliato, ne esce raggiunge Pomponiano E gli altri che non avevano chiuso occhio. Si consultano fra loro, se debbano rimanere in un luogo coperto o fuggire all’aperto. Continue e prolungate scosse telluriche scuotevano l’abitazione e quasi l’avessero strappato dalle fondamenta sembrava che ora andasse da una parte ora dall’altra, per poi di assestarsi. D’altra parte all’aperto si temeva la pioggia dei lapilli per quanto leggeri e porosi; tuttavia, confrontati i pericoli, egli scelse di uscire all’aperto. Ma se in lui prevalse ragione a ragione, negli altri timore a timore. Messi dei guanciali sulla testa li assicurano con lenzuoli; fu questo il loro riparo contro quella pioggia. Già faceva giorno ovunque, ma colare regnava una notte più scura e fonda di ogni altra, ancorché mitigata da molti fuochi e varie luci. Egli voglio uscire sulla spiaggia e vedere da vicino se fosse possibile mettersi in mare; Ma questo era ancora agitato e impraticabile. Quivi, riposando il sopra un lenzuolo disteso, chiese e richiese dell’acqua fresca e la bevve avidamente punto ma poi le fiamme il puzzo di zolfo che le annunciava mettono in fuga taluni e riscuotono lo zio. Sostenuto da due schiavi si alzò in piedi, ma subito ricadde, perché, io suppongo, l’area ispessita dalla cenere aveva ostruita la respirazione è bloccata la trachea che gli aveva per natura delicata e stretta e frequentemente infiammata punto quando ritorno il giorno (il terzo dopo quello che aveva visto per ultimo) Il suo corpo fu trovato intatto e illeso, coperto dei panni che aveva indosso: l’aspetto più simile a un uomo che dorme, che è un morto. Frattanto a miseno io e la mamma… Pacio non importa alla storia virgola e tu non volevi conoscere altro che racconto della sua morte. Faccio dunque punto.

Pierre Henri de Valenciennes (1813)

Il celeberrimo passo di Plinio il Giovane dedicato al famoso zio, si muove su due livelli:

  • la descrizione con cui mostra l’avvenimento vulcanico attraverso un climax stilistico che permette anche una certa “suspance”, giocando con un pianissino o lontano per concludere con la morte di Plinio il Vecchio;
  • la figura dello zio, che contrasta con la violenza del vulcano, emergendo sia da un punto di vista filosofico (il bagno prima dell’esplosione sismica, ricorda la morte di Seneca), scientifico (la curiositas tipica per chi vuole capire la realtà), umano (la volontà di aiutare l’amico)

Il nostro, inoltre, mostra una grandissima perizia retorica utilizzando figure come quella del chiasmo, dell’allitterazione, dell’antitesi, a dimostrazione di una profonda eleganza stilistica.

Altra lettera fondamentale la leggiamo nel X libro, quella in cui chiede all’imperatore, come comportarsi con i membri della religione cristiana che si stava diffondendo in modo piuttosto esteso:

CHE FARE CON I CRISTIANI?
(10, 96)

Cognitionibus de Christianis interfui numquam: ideo nescio quid et quatenus aut puniri soleat aut quaeri. Nec mediocriter haesitavi, sitne aliquod discrimen aetatum, an quamlibet teneri nihil a robustioribus differant, detur paenitentiae venia, an ei, qui omnino Christianus fuit, desisse non prosit, nomen ipsum, si flagitiis careat, an flagitia cohaerentia nomini puniantur. Interim, <in> iis qui ad me tamquam Christiani deferebantur, hunc sum secutus modum. Interrogavi ipsos an essent Christiani. Confitentes iterum ac tertio interrogavi supplicium minatus; perseverantes duci iussi. Neque enim dubitabam, qualecumque esset quod faterentur, pertinaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri. (…) Affirmabant autem hanc fuisse summam vel culpae suae vel erroris, quod essent soliti stato die ante lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem seque sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta ne latrocinia ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum appellati abnegarent. Quibus peractis morem sibi discedendi fuisse rursusque coeundi ad capiendum cibum, promiscuum tamen et innoxium; quod ipsum facere desisse post edictum meum, quo secundum mandata tua hetaerias esse vetueram. Quo magis necessarium credidi ex duabus ancillis, quae ministrae dicebantur, quid esset veri, et per tormenta quaerere. Nihil aliud inveni quam superstitionem pravam et immodicam. Ideo dilata cognitione ad consulendum te decucurri.

Jean-Léon Gérome: Ultime preghiere dei martiri cristiani (1883)

Non ho mai preso parte a nessuna istruttoria sul conto dei cristiani: pertanto non so quali siano abitualmente gli oggetti e i limiti sia della punizione che dell’inchiesta. Sono stato fortemente in dubbio se si debba considerare qualche differenza di età, oppure se i bambini nei più teneri anni vadano trattati alla stessa stregua degli adulti che hanno raggiunto il fiore della forza; se sia d’uopo mostrarsi indulgenti davanti al pentimento, oppure se a chi sia stato effettivamente cristiano non serva a nulla l’aver rinunciato; se si debba punire il nome in se stesso anche quando sia immune da turpitudini, oppure le turpitudini connesse con il nome. Provvisoriamente, a carico di coloro che mi venivano denunciati come cristiani, ho seguito questa procedura. Li interrogavo direttamente se fossero cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda volta e una terza volta, minacciando loro la pena capitale: se perseveravano, ordinavano che fossero messi a morte. (…) Attestavano poi che tutta la loro colpa, o tutto il loro errore, consisteva unicamente in queste pratiche: riunirsi abitualmente in un giorno stabilito prima del sorgere del sole, recitare tra di loro a due cori un’invocazione a Cristo considerandolo dio e obbligarsi con giuramento, non a perpretare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né aggressioni a scopo di rapina, né adulteri, a non eludere i propri impegni, a non rifiutare la restituzione di un deposito, quando ne fossero richiesti. Dopo aver terminato questi atti di culto, avevano la consuetudine di ritirarsi e poi di riunirsi di nuovo per prendere un cibo, che era, ad ogni modo, quello consueto e innocente; avevano però sospeso anche quest’uso dopo il mio editto con il quale, a norma delle tue disposizioni, avevo vietato l’esistenza di sodalizi. Ciò tanto più mi convinse della necessità di indagare che cosa ci fosse effettivamente di vero, attraverso a due schiave, che venivano chiamate diaconesse, ricorrendo anche alla tortura. Non ho trovato nulla, all’infuori di una superstizione balorda e squilibrata. Pertanto ho aggiornato l’istruttoria e mi sono affrettato a chiedere il tuo parere.

Mentre Plinio è in Bitinia, sia per situazioni pratiche che per sciogliere qualche dubbio, si rivolge allo stesso Traiano, mostrando il rapporto di fiducia che ormai intercorreva tra il funzionario e l’imperatore.

Questa lettera ha lasciato più di un dubbio: “In passato l’epistola di Plinio è stata giudicata un falso, anche se elaborata non molto tempo dopo la morte dell’autore, visto che Tertulliano nell’Apologeticum dimostra di conoscere tanto la lettera pliniana quanto la risposta dell’imperatore; e l’opera tertullianea è datata 197. Decaduta l’ipotesi del testo apocrifo e riconosciuta l’autenticità della lettera, alcuni critici hanno tuttavia affermato che l’epistola era stata pesantemente rimaneggiata  e interpolata dall’intervento del martire Apollonio, vissuto nel II secolo. Altri studiosi, infine, hanno sostenuto che Plinio avrebbe costruito la lettera non a seguito di un’indagine da lui effettivamente condotta nella sua provincia, bens^ alla stregua di un passo liviano in cui lo storico aveva descritto la repressione dei Baccanali” (Conte – Pianezzola)