GIOSUE CARDUCCI

carducci.jpg

Giosue Carducci

Giosue Carducci (senza accento, così come lo stesso si firmava) nasce a Valdicastello, in Versilia nel 1835. Suo padre era un medico condotto, di idee liberali (partecipò ai moti del ’31), dal carattere impetuoso e a volte violento. Mite e dolce la madre, Ildegarda Colli, di cui conservò sempre un affettuoso pensiero. Nel 1839 la famiglia si trasferisce in Maremma, cantata in seguito, con accenti nostalgici e vitalistici, come appare nella celeberrima Traversando la Maremma toscana. La sua prima formazione avviene sotto la guida paterna, che lo spinge verso valori risorgimentali e libertari e quindi, anche alla letteratura romantica, che di quei valori era portavoce. Ma la sua formazione comprende anche una lettura attenta della storia di Roma che gli ispirò il forte valore per la libertas repubblicana, che egli vide poi riconfermata nella più recente storia della Rivoluzione Francese cantata nei sonetti del Ça ira.
La famiglia subì, per motivi politici riguardanti il padre, un nuovo trasferimento in Toscana. Qui, nella città di Firenze, riprende gli studi presso gli Scolopi, dando un maggior ordine alla sua formazione. Al termine della preparazione superiore si iscrive a Lettere presso la Normale di Pisa, dove si laurea nel 1856 con una tesi sulla cavalleria medievale.
In questa città entra in contatto con gli “Amici Pedanti”, con cui rivendica la ripresa della classicità, contro le “mollezze” dei poeti tardo romantici. Ma la sua critica si rivolge anche contro Manzoni, che insegna, a suo dire, la “vile rassegnazione” ammantata da un provvidenzialismo divino che non permette all’eroe virile d’esprimere appieno la sua libertà.
Dopo la laurea si dedica all’insegnamento e alle pubblicazione delle sue prime opere poetiche. Ma la sua vita riceve il primo tragico colpo: il suicidio del fratello Dante (1857), avvenuto il giorno successivo ad un violento alterco con il padre e la morte, di un solo anno successiva, dello stesso (1858).
Ciò fa sì che il poeta si chiuda, quasi a cercare conforto e sicurezza affettiva, nel cerchio di affetti familiari: sposa la cugina Elvira Menicucci, che gli darà quattro figli e pubblica le due prime raccolte poetiche Rime (1857) e Juvenilia (1860).

Aula_Carducci.jpg

L’aula dell’università di Bologna dove Carducci svolse la sua attività di docente

E’ proprio nell’anno della pubblicazione del suo secondo libro che viene nominato professore di Letteratura Italiana presso l’università di Bologna. E’ in questo periodo, che potremo indicare tra il 1860 ed il 1870, che il Carducci matura un atteggiamento di critica verso la politica del neonato stato italiano per:

  • la poca lungimiranza, priva d’ideali, che guida le prime esperienze del governo postunitario;
  • le irrisolte questioni veneta e romana, in seguito ottenute con poca gloria per la nostra patria;
  • la convenzione di Settembre del 1864, che sembrava volesse rinunciare alla presa di Roma;
  • l’arresto di Garibaldi, mito delle lotte risorgimentali.

Nel 1862 si iscrive alla Massoneria, che lo mette in contatto con gli ambienti repubblicani e anticlericali e sempre in questo periodo di tempo, allarga i suoi interessi culturali, leggendo e rivalutando il romanticismo, soprattutto d’origine non italiana come il francese Hugo ed il tedesco Heine.
Si avvicina anche al Positivismo e alla loro idea di progresso ed egli, collegandola al suo rifiuto della Chiesa, lo testimonia in uno scritto del 1863, non certo fra i migliori, Inno a Satana. Compone anche un terzo libro di raccolte, Levia gravia, che vedrà le stampe nel 1868.

Il 1870 è un anno difficile per lui: gli muore a solo 3 anni il figlioletto Dante e l’amata madre. Dopo due anni inizia una relazione con una donna sposata, Carolina Cristofori Piva, con la quale scambierà numerose lettere, fonti inesauribili per studiare l’evoluzione ideologica e poetica di Carducci.
Un altro anno capitale per la sua biografia è il 1878, anno in cui incontra i sovrani, in visita a Bologna. Le calde parole di Umberto e di Margherita gli scaldano il cuore e mitigano il suo repubblicanesimo.

Queen_Margharitha_di_Savoia.jpg

La regina Margherita di Savoia

L’avvicinamento alla monarchia provoca una forte protesta tra i rivoluzionari, ma il suo cambiamento trova ragione nella delusione per la politica trasformista di Depretis e la paura della Comune parigina; di fronte ad una paura che tali motivi potessero essere disgregatrici, Carducci vede ora la monarchia come fonte di coesione nazionale.
Sono del 1883 le poesie del Ça ira, che inneggiano ancora la Rivoluzione Francese, ma il suo atteggiamento politico sta seguendo l’iter dell’onorevole Crispi: partiti ambedue dal socialismo, approderanno alla monarchia e all’avventura coloniale dell’Italia.
Questo percorso lo porterà a diventare poeta vate, cioè rappresentante ufficiale dell’ideologia italica, e ciò verrà confermato con l’elezione a senatore del Regno.
Nonostante questo il suo carattere s’incupisce: sempre più gretto gli appare l’orizzonte politico, finisce anche il rapporto con Carolina e sente gli anni pesare. Ma forse è proprio questo a determinare i suoi migliori esiti poetici, Odi barbare (pubblicate nel 1887 e riviste sino al 1889) e Rime nuove (1887).
Negli anni seguenti i fatti salienti continuano ad essere l’insegnamento universitario e la relazione con Annie Vivanti, giovane poetessa, di 31 anni più giovane di lui.
S’ammala: un attacco di paralisi lo colpisce al braccio, scrive stanche poesie ormai vuote e retoriche che riunisce alle due raccolte precedenti ripubblicando il tutto con il titolo Rime e ritmi (1899).
Nel 1906, l’accademia di Svezia lo insignisce con il premio Nobel alla letteratura e l’anno seguente muore.

164075698.jpg

Il premio Nobel del 1906

L’itinerario poetico

La prima produzione carducciana è forse, per noi lettori contemporanei, la più caduca. Essa comprende i testi che vanno dai giovanili versi del 1857 sino al 1871 e comprende le raccolte Rime, Juvenilia e Levia Gravia. Oltre a rappresentare l’apprendistato poetico di Carducci, prevale in esse l’insegnamento classicista degli “Amici pedanti” e una vis polemica contro il governo che fa della magniloquenza retorica la sua cifra stilistica.

Delle prime due raccolte poetiche è forse da ricordare, sebbene sia considerata dai più piuttosto “brutta”, l’Inno a Satana che, se da una parte può apparentare il nostro all’anticlericalismo scapigliato, dall’altro testimonia il suo avvicinamento al Positivismo, di cui il treno diventa simbolo. Ne riportiamo un breve estratto:

Carducci_Satana_Treno.jpg

Immagine di un treno

INNO A SATANA
(vv.169-200)

Un bello e orribile
mostro si sferra,
corre gli oceani,
corre la terra:

corusco e fumido

come i vulcani,
i monti supera,
divora i piani;

sorvola i baratri;

poi si nasconde
per antri incogniti,
per vie profonde;

ed esce; e indomito

di lido in lido
come di turbine
manda il suo grido,

come di turbine
l’alito spande:
ei passa, o popoli,
Satana il grande.

Passa benefico
di loco in loco
su l’infrenabile
carro del foco.

Salute, o Satana,
o ribellione,
o forza vindice
de la ragione!

Sacri a te salgano
gl’incensi e i voti!
Hai vinto il Geova
de i sacerdoti.

La macchina a vapore, marchingegno bello e terribile si slancia, percorre in mari e la terra: // fiammeggiante e fumante come i vulcani, oltrepassa le montagne, corre tra le pianure; // passa sopra le voragini, poi si nasconde in grotte segrete, in gallerie profonde; // poi esce e, indomabile, emette il suo suono come quello di una tempesta di spiaggia in spiaggia, spande il suo vento come quello di una tempesta: egli passa, o popoli, il grande Satana. // Passa benefico di luogo in luogo su un carro di fuoco che non si può fermare. // Ti saluto, o Satana, o ribellione, o forza vendicatrice della ragione. // Salgano a te i sacri incensi e i buoni propositi! Hai sconfitto il Dio che predicano i sacerdoti!

Ci piace ricordare che il testo del ’63 sarà pubblicato solo due anni dopo e si potrebbe (almeno per i contemporanei era) considerare una risposta diretta e polemica contro il Sillabo di Pio IX che rinnegava ogni forma di modernità. Il tono ribelle e battagliero contrappone la figura di Satana (si pensi a dell’Anticristo è l’ora di Praga) alla mediocre ed accomodante filosofia del “quieto vivere” post-unitaria e, soprattutto, alle ingerenze clericali e agli oscurantismi di fede. Satana quindi diviene il principio libertario, il portatore naturale di un messaggio vitalistico, che può liberare l’uomo dal giogo delle credenze e dei dogmatismi. Coniugando dissenso politico e critica ideologica, l’Inno (composto da duecento versi distribuiti in cinquanta quartine di quinari a schema ritmico ABCB, secondo la schema del “brindisi”, e cioè di un componimento poetico da recitarsi a tavola, e in maniera estemporanea) sviluppa allora un’invocazione alla scienza e al progresso.

Più matura l’altra sua raccolta poetica Giambi ed epodi, che comprende versi scritti a partire dal 1867. Come dice lo stesso titolo scelto, esse costituiscono il punto più alto della sua vis polemica contro gli ingloriosi sviluppi dell’Italia. E’, se così si può dire, una poesia corposa, realistica, ricca di spunti classici (Archiloco ed Orazio) e reminiscenze patriottiche di tipo romantico. Non mancano in essa ricordi di un passato glorioso recente, come la stessa Rivoluzione francese, di cui canta i grandi ideali di libertà cui la stessa Francia ora, con Napoleone III in accordo con Pio IX, sembra voler abdicare del tutto.

Più importanti è certamente meglio riuscite le due raccolte Rime nuove e Odi barbare, la cui composizione coincide con quella precedente (come a voler sottolineare come l’ispirazione gagliarda ed eroica e quella più malinconica ed intimista, coincidano). La differenza è soprattutto metrica, come Carducci sottolinea nella scelta del titolo (Rime nuove, versificazione secondo la tradizione italiana; Odi barbare, applicazione della metrica quantitativa latina alla qualitativa italiana, nata quest’ultima, per la suggestione proveniente dal Parnasse francese). D’altra parte la morte del figlio e della madre, la fine della relazione con la sua Lina, non possono che lasciare un’ombra sull’animo del poeta stesso. I temi tra le due raccolte sono simili, ma segnano un netto passaggio rispetto alle altre precedenti: ad una vis polemica contro il presente si sostituisce ora un ripiegamento, vissuto con malinconia, come per la morte del figlio, cantata in Rime nuove in due celeberrime poesie:

FUNERE MERSIT ACERBO

O tu che dormi là su la fiorita
collina tósca, e ti sta il padre a canto;
non hai tra l’erbe del sepolcro udita
pur ora una gentil voce di pianto?

E’ il fanciulletto mio, che a la romita
tua porta batte: ei che nel grande e santo
nome te rinnovava, anch’ei la vita
fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.

Ahi no! giocava per le pinte aiole,
e arriso pur di visïon leggiadre
l’ombra l’avvolse, ed a le fredde e sole

vostre rive lo spinse. Oh, giú ne l’adre
sedi accoglilo tu, ché al dolce sole
ei volge il capo ed a chiamar la madre.

O tu (dice il poeta, rivolgendosi al fratello Dante) che riposi là sulla fiorita collina toscana di S. Maria a Monte, e accanto a te sta sepolto nostro padre, non hai poco fa udito tra l’erbe del sepolcro una soave voce di pianto? // E’ il mio fanciulletto, che batte alla tua solitaria porta: egli che nel nome glorioso e venerato rinnovava la tua ideale presenza sulla terra, anch’egli fugge la vita, o fratello, che a te fu così tormentosa. // Ma, ahimè!, a lui la vita non era affatto amara: giocava tra le aiole variopinte di fiori, e mentre era allietato da fantasie graziose, la morte lo avvolse e lo spinse alle vostre rive fredde e solitarie.// Oh, accoglilo tu giù, nelle buie dimore dell’oltretomba, perché egli non vuole entrare e volge il capo al dolce sole ed a chiamar la madre.

melograno-in-fiore.jpg

Un melograno in fiore

PIANTO ANTICO

L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fiori

nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora,
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,

sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol piú ti rallegra
né ti risveglia amor.

L’albero verso il quale orientavi la tua manina, il melograno dalle verdi foglie e dai rossi fiori, nel silenzioso e solitario orto, è nuovamente germogliato e l’estate lo matura con il suo calore e la sua luce. Tu figlio di questo povero corpo, invecchiato e sciupato dal tempo, tu unico dono di questa mia vita inutile, giaci nella fredda terra di un camposanto, non potrai più vedere la luce del sole, ne godere dell’amore.

Le due poesie riguardano, allo stesso modo, la morte del figlioletto Dante, avvenuta nel novembre del 1870. La prima di esse sembra essere stata scritta nel giorno della perdita, come riporta il testo autografo in cui compare la data, ma se così fosse non possiamo che ammirare la compostezza, lui così enfatico e magniloquente, con la quale risolve il suo dolore. Sin dall’inizio le reminiscenze classiche lo aiutano: il titolo, infatti, ripreso da un verso virgiliano in cui si narra dell’incontro di Enea con i bambini morti, potremo tradurlo con “travolse con una morte prematura”; quindi la costruzione del sonetto in cui l’“io” viene assolutamente cancellato e vengono richiamati le figure andate via, il padre, ma soprattutto il fratello, di cui il bambino ripete il nome. Ma le scelte lessicali sono di Giosue, “romita porta”, “l’ombra avvolse” e in ultimo le terzine che ci riportano in mente Foscolo con le aiuole assolate, e con l’immagine del morente che cerca, con l’ultimo sguardo il sole, a cui aggiunge la figura materna a sottolineare maggior pathos; certamente le numerose reminiscenze letterarie offrono a lui la moderazione con cui esprimere la sofferenza.

Dell’anno successivo è Pianto antico, composta da quattro strofe di settenari; la struttura si può definire bipartita: nella prima emergono elementi di vita, lo stesso melograno, cui il fanciullo volgeva la mano, è accompagnato da immagini coloristiche, fiori vermigli, rinverdire. Tra la prima parte e la seconda il sole (luce e calor). Quindi la morte con immagini luttuose, terra inaridita, inutile vita, terra fredda/ negra. Si è che per Carducci vita/morte, luce/buio, non possono che essere intrecciati.

Nella stessa raccolta troviamo anche la rievocazione del passato:

IL COMUNE RUSTICO

O che tra faggi e abeti erma su i campi
smeraldini la fredda orma si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero

che tace, o noci de la Carnia, addio!

Erra tra i vostri rami il pensier mio
sognando l’ombre d’un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
diavoli goffi con bizzarre streghe,
ma del comun la rustica virtù

accampata a l’opaca ampia frescura

veggo ne la stagion de la pastura
dopo la messa il giorno de la festa.
Il consol dice, e poste ha pria le mani
sopra i santi segnacoli cristiani:
«Ecco,io parto fra voi quella foresta

d’abeti e pini ove al confin nereggia.

E voi trarrete la mugghiante greggia
e la belante a quelle cime là.
E voi,se l’unno o se lo slavo invade,
eccovi,o figlio,l’aste,ecco le spade,
morrete per la vostra libertà.»

Un fremito d’orgoglio empieva i petti,

ergea le bionde teste; e de gli eletti
in su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
invocavan la Madre alma de’cieli.
Con la man tesa il console seguiva.

«Questo,al nome di Cristo e di Maria,
ordino e voglio che nel popol sia.»
A man levata il popol dicea Sì.
E le rosse giovenche di su ’l prato
vedean passare il piccolo senato,
brillando su gli abeti il mezzodì.

Sia che la vostra fredda ombra si imprima solitaria sui campi verdi tra faggi e abeti al sole puro e leggero del mattino, sia che incupisca immobile nel giorno morente sulle ville disseminate intorno alla chiesa che prega o al cimitero // che tace, o noci della Carnia, addio! Vaga tra i vostri rami il mio pensiero sognando i fantasmi di un tempo che fu. (Io) non vedo paure di morti e diavoli goffi con streghe bizzarre in conciliaboli ma il valore campagnolo del comune riunito // nell’ampia freschezza ombrosa durante la stagione del pascolo il giorno della festa dopo la messa. Il console dice, e ha prima posto le mani sopra le sante insegne cristiane: « Ecco, io divido fra voi quella foresta di abeti e pini verso l’estremità in cui (essa) infoltisce. E voi condurrete la mandria muggente a quelle alture là. E voi, se l’unno o se lo slavo ,eccovi, o figli, le lance, ecco le spade, morrete per la nostra libertà.» // Un brivido d’orgoglio riempiva gli animi, innalzava le bionde teste; e il grande sole batteva sulle fronti dei prescelti. Ma le donne piangenti sotto i veli invocavano la Madre protettrice dei cieli. Con la mano resa il console proseguiva: // «Questo ordino e voglio nel nome di Cristo e della Madonna» e il popolo, sollevati le mani, diceva sì. E i rossi buoi vedevano passare il piccolo senato, mentre il sole brillava a mezzogiorno.

Contro una certa letteratura romantica e post/romantica che vedeva il medioevo come momento narrativamente (e quindi ideologicamente) votato al “noir” e all’intrigo, Carducci lo disegna solare e pieno d’energia. Questa rievocazione, nata dopo un periodo di villeggiatura in Carnia nel 1887, più che mettere in contrapposizione età presente e passata, sembra richiamare in lui i maschi propositi e l’anelito, mai sopito, per i valori rinascimentali, con linguaggio ampio e sostenuto. Ma proprio qui possiamo misurare la caducità della poesia carducciana: sembra infatti predominare la maniera al vero sentire, disegnando immagini stereotipate e quindi banali (che tanto piacquero alla retorica fascista): il console a braccia levate, i contadini biondi e forti, le donne velate.

Sempre qui vengono sviluppati anche ricordi personali:

nebbia-irti-colli.jpg

La nebbia agli irti colli

SAN MARTINO

La nebbia a gl’irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l’aspro odor dei vini
l’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando
sta il cacciator fischiando
su l’uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar.

La nebbia sale sui colli privi di vegetazione mentre pioviggina e, a causa del vento di maestrale, il mare è rumoroso e molto mosso e produce una schiuma bianca; // ma lungo le strade del paesino, l’odore pungente del vino nelle botti in cui fermenta rallegra le anime.// Lo spiedo gira sulla legna infuocata scricchiolando; il cacciatore fischiando sta sulla porta a osservare attentamente // tra le nubi rossastre gli stormi di uccelli migratori neri, che sono come i pensieri malinconici dell’esiliato alla sera.

Poesia, scritta nel 1883, celeberrima e forse svalutata dall’abuso che se n’è fatto, a partire dall’obbligo di mandarla a memoria in età infantile, rimane un bel quadretto espressionistico che sembra richiamarci alla contemporanea poesia dei macchiaioli. La poesia si apre con un immagine autunnale, in cui le forze della natura, contrariamente alle immagini virili, appaiono avvolte dalla nebbia. Al centro due quartine in cui appare una gioia quotidiana, introdotta infatti dall’avversativo “ma”, dove emerge la convivialità, riassunta nel vino e nello spiedo, per poi chiudere con un immagine che sembra richiamare la prima, in cui gli “uccelli neri” dei pensieri, si riaffacciano, ma per poi migrare nella sera. La duplicità del verbo migrare può suggerire una diversa interpretazione del testo: da una parte può significare “i neri uccelli dei pensieri che volano al tramonto somigliano a malinconici pensieri vagabondi, suscitati dalla sera” (Baldi) o “uccelli neri rappresentano i pensieri, soprattutto funebri, che volano lontano per una riacquisita serenità”. Al di là dell’interpretazione, quel che conta è la capacità impressionistica di disegnare un paesaggio come riflessione e il persistere di un modo di osservare la realtà che riguarda, in Carducci, più l’occhio che la mente.

Le Odi barbare, come già detto, sono versi sperimentali, in cui il poeta mostra la sua perizia nel volgere il verso latino alla metrica italiana. Ma al di là del fatto tecnico, anche questa raccolta partecipa sia dei difetti che dei pregi che abbiamo riscontrato nella poesia carducciana.

Per i difetti, resi ancor più evidenti dal modello baudelairiano (Parfum exotique) cui Carducci s’ispira, presentiamo Fantasia:

FANTASIA

Tu parli; e, de la voce a la molle aura
lenta cedendo, si abbandona l’anima
del tuo parlar su l’onde carezzevoli,
e a strane plaghe naviga.

Naviga in un tepor di sole occiduo

ridente a le cerulee solitudini:
tra cielo e mar candidi augelli volano,
isole verdi passano,

e i templi su le cime ardui lampeggiano
di candor pario ne l’occaso roseo,
ed i cipressi de la riva fremono,
e i mirti densi odorano.

Erra lungi l’odor su le salse aure
e si mesce al cantar lento de’ nauti,
mentre una nave in vista al porto ammaina
le rosse vele placida.

Veggo fanciulle scender da l’acropoli
in ordin lungo; ed han bei pepli candidi,
serti hanno al capo, in man rami di lauro,
tendon le braccia e cantano.

Piantata l’asta in su l’arena patria,
a terra salta un uom ne l’armi splendido:
è forse Alceo da le battaglie reduce
a le vergini lesbie?

Tu parli (a Lidia) e l’anima mia cedendo dolcemente alla molle aura, si lascia attraversare dai suoni carezzevoli delle tue parole e naviga con la fantasia verso terre straniere. // Naviga nel tepore del sole al tramonto, che sembra sorridere alle azzurre e deserte distese opposte del cielo: in alto fra cielo e mare volano i bianchi gabbiani, passano isole verdi di vegetazione, // e i templi alti sulle cime dei monti risplendono per il loro bianco marmo di Paro alla luce fosca del tramonto, ed i cipressi della riva sussurrano al vento e i mirti folti emanano odore. // L’odore dei mirti si diffonde nell’aria marina dal sapore di salsedine e si mescola col canto lento dei marinai, mentre una nave, entrando nel porto, ammaina le rosse vele tranquillamente perché essa non è più scossa dalle onde del mare. // Vedo fanciulle scendere dall’acropoli in fila lunga ed ordinata; e indossano bei pepli bianchi, hanno ghirlande al capo, in mano rami d’alloro, tendono le braccia e cantano (per onorare il ritorno di un guerriero).  // Piantata l’asta sulla spiaggia della patria, salta a terra dalla nave un uomo splendidamente armato: è forse Alceo che ritorna vittorioso dalle battaglie alle fanciulle di Lesbo?

La differenza tra il poeta francese ed il nostro si evidenzia palesemente. Il “tu” iniziale, infatti è riferito a Lidia (il nome “oraziano” della Piva, appassionata del poeta francese) a cui dedica la poesia come segno di pace dopo un piccolo bisticcio. Le parole lo riportano, fantasticamente, ad un tramonto in un isola greca, in cui si affacciano marinai greci, accolte da fanciulle che tendono le braccia e cantano. Fra i marinai il guerriero Alceo, ricevuto da vergini graziose. E’ vero che anche in Baudelaire un profumo risveglia immagini di purezza classica, ma in lui aleggia una sensualità già dal senso scelto, l’odore, dall’oggetto da cui tale odore promana, il “seno ardente” e quindi tutta la languidezza della vegetazione. In Carducci permane solo un riferimento classico, che svela in lui la nostalgia non della purezza classica, ma dei valori classici, quelli della guerra e dell’amore rappresentati da Alceo/Carducci.

Per i pregi, forse la più bella poesia carducciana e certamente uno dei vertici della lirica italiana del secondo Ottocento é:

ferrov25.jpg

Stazione notturno

ALLA STAZIONE IN UNA MATTINA D’AUTUNNO

Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!

Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri fóschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?

Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli annidài,
gl’istanti gioiti e i ricordi.

Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.

E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.

Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.

Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.

O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!

Fremea la vita nel tepid’aere,

fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso

in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.

Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.

Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.

Meglio a chi ’l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.

Oh quei lampioni della stazione, come si inseguono pigri e monotoni laggiù dietro gli alberi in mezzo ai rami gocciolanti di pioggia, proiettando sul fango una luce così debole da sembrare che stiano sbadigliando! // La vaporiera lì vicino fischia emettendo un rumore ora lieve, ora forte, ora pungente.  Il cielo nuvoloso e la mattinata autunnale stanno intorno come se fossero un grande fantasma. // Dove va, a che cosa si dirige questa gente silenziosa e avvolta nei mantelli che corre verso i convogli scuri del treno? Verso quali dolori sconosciuti o sofferenze per una speranza lontana? // Lidia, tu, pensierosa, il biglietto porgi al taglio secco del controllore, e contemporaneamente offri al tempo opprimente gli anni della giovinezza e i momenti felici e i ricordi. // Vanno e vengono lungo il treno scuro,  incappucciati in impermeabili neri i vigili, come se fossero ombre; hanno una lanterna che emette poca luce e mazze di ferro: e i freni di ferro // provati restituiscono un triste e lungo botto: in fondo all’anima a questo rumore corrisponde, come se fosse un’eco, un’angoscia dolorosa, che sembra una fitta. // E gli sportelli sbattuti quando vengono chiusi sembrano offese: sembra una presa in giro l’ultimo invito a salire che risuona veloce: a pioggia rumoreggia fitta sui vetri. // Già la locomotiva, simile a un mostro, consapevole dell’energia che ha dentro la sua struttura metallica emette sbuffi di vapore, trema, ansima, apre i suoi occhi di fuoco; getta attraverso il buio il suo potentissimo fischio che lancia una sfida allo spazio. // Parte il mostro crudele; trainando le carrozze in modo orribile, sbattendo le ali e si porta via il mio amore.  Ahimè il viso pallido e il bel velo scompaiono nell’oscurità mentre mi saluta. // Oh viso dolce con un pallore rosato, oh occhi lucenti come stelle portatori di pace, o fronte bianca e pura, dolcemente incastonata tra ricci voluminosi! // Palpitava la vita nell’aria tiepida, palpitava l’estate quando (gli occhi e il volto della donna) mi sorrisero e il sole di giugno, di inizio estate si compiaceva di baciare con la sua luminosità // la morbida guancia tra i riflessi dei capelli castani: i miei sogni, più belli anche del sole, circondavano la delicata figura della donna come se fossero un’aureola. // Ora sotto la pioggia tra la nebbia torno a casa e vorrei confondermi con loro; traballo come se fossi ubriaco, e mi tocco per assicurarmi di non essere anch’io dunque un fantasma. // Oh, come foglie che cadono molto fredde, continue, silenziose, pesanti sull’anima! Io credo che ovunque, in tutto il mondo, eternamente sia soltanto novembre. // Per chi ha perduto il senso della vita è meglio questa oscurità, è meglio questa nebbia, io voglio, voglio fortemente cullarmi in una noia che duri per sempre.

In questo testo non mancano parole ed immagini auliche, così come non mancano parole ed immagini realistiche, ma qui vengono fuse con straordinaria capacità offrendoci nella trama testuale un vero e proprio riflesso di stato d’animo dal sapore baudelairiano. Già la prima immagine risulta essere impressionistica, con quei fanali che “sbadigliano” la luce sul fango; il cielo plumbeo, scuro, i carri foschi, anneriti e ancora i neri vigili. E quindi la parola tedio, lo “spleen”, ma qui lo spleen si fa quasi singulto. Quindi il treno, un tempo cantato come singolo di progresso (Inno a Satana), ora descritto con terrore, capace di portar via l’amata. E poi, con un topos carducciano, dall’immagine reale il ricordo, solare a ricordare la nascita dell’amore. Ma la poesia torna a cantare il presente, la caligine, il dolore che lo rende come un ubriaco, la percezione che tutto è dolore, e, quasi leopardianamente rovesciando il perdersi nell’immensità, qui il perdersi si configura sempre in un infinito tedio.

 

Lascia un commento