ETA' AUGUSTEA

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Ritratto di Augusto

Convenzionalmente con l’età di Augusto si suole indicare quel periodo che va dal 44 a. C (anno dell’uccisione di Cesare) al 14 d. C. (anno della morte del princeps).

Pertanto potremmo dividere tale periodo in due momenti:

  • Quello dello scontro tra Marco Antonio e Ottaviano (43 – 30 a. C.);
  • Quello dell’edificazione del Principato (Impero) augusteo vero e proprio (29 a. C. – 14 d. C.).

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Marco Antonio e Cleopatra

La prima potremo indicarla come il prosieguo di quel lungo periodo delle guerre civili che ha visto il suo inizio con la morte dei Gracchi (121 a.C.) e che termina grazie ad Ottaviano stesso; la seconda vede invece l’affermarsi di un lungo periodo di pace e quindi un periodo in cui risulta possibile strutturare su nuove basi lo “stato romano” e il modo in cui esso, attraverso l’arte, debba riflettere se stesso nel mondo.

Vicende politiche

Per riassumere velocissimamente l’ultimo periodo della Repubblica ricorderemo:

  • lo scontro dapprima sull’eredità di Cesare, conteso tra Marco Antonio e Ottaviano: infatti se alla morte del grande condottiero romano alla plebs sembrava naturale che fosse il suo più fedele luogotenente a raccoglierne l’eredità, l’apertura del testamento lo sconfessò; infatti venne nominato il giovane figlio della sorella di Giulia, Ottaviano, di appena 19 anni, che se ne assunse l’intera responsabilità e prese il nome di Gaio Cesare a rimarcare sia di chi fosse figlio per adozione ed il suo diritto a prendere il posto.  
  • lo scontro tra il Senato, che voleva che Ottaviano si unisse con i cesaricidi (e quindi gli uccisori del padre) che, invece lo spinsero ad accordarsi con Antonio formando, anche con Lepido, il secondo triumvirato (43 a. C.); infatti in poche parole, se dapprima i due si scontrarono, alla fine, mossi da diversi interessi, ma che tuttavia li opponevano all’immobilismo del senato, superarono gli attriti e diedero vita ad una nuova magistratura, a cui associarono anche Lepido (triumviri rei publicae costituendae): ricostituire la repubblica oppure decretarne la fine? 
  • la relazione tra Antonio e Cleopatra e la guerra conclusa con la vittoria di Azio nel 31 a. C. che lasciò Ottaviano solo a gestire il potere; infatti, dopo un primo periodo di crisi, il triumvirato venne riconfermato: ad Antonio l’Oriente, l’Occidente a Ottaviano, la meno importante Africa a Lepido. Proprio alla morte di quest’ultimo assunse anche la carica di Pontifex Maximus. Lo scontro era inevitabile, scontro che, assumendo un valore quasi identitario, diede la vittoria all’Occidente influenzando l’operato e il progetto culturale di Augusto.

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Palazzo Arese Borromeo: Augusto chiude le porte di Giano

Nel 29 a. C. Ottaviano torna a Roma e, dopo aver chiuso le porte di Giano e garantita la pace, inizia l’edificazione dello stato imperiale che tuttavia, sotto il suo governo, continuerà a mantenere l’aspetto formale della Repubblica in cui egli si fece garante; il nome che diedero gli storici al periodo fu principato.
Vediamo da vicino, proprio sull’aspetto politico, le trasformazioni che porteranno Ottaviano da condottiero ad Augusto e dalla Repubblica al Principato.

  • dal 31 al 23 a. C. ricopre continuativamente la carica di console;
  • nel 27 a. C. gli viene assegnato il titolo di princeps senatus (il primo tra i senatori) in quanto detentore di un auctoritas che lo poneva al di sopra di tutti i patres conscripti; infatti gli era stato attribuito il titolo di Augustus (colui che aumenta “augeo” il benessere dello Stato) perché dei filius (figlio di un dio, Cesare era stato divinizzato);
  • nel 23 a. C. gli viene confermato l’imperium proconsulare (che gli garantiva il controllo di tutto l’esercito) e la postestas tribunicia (che gli permette sia il diritto di veto che l’inviolabilità);
  • nel 12 a. C., alla morte di Lepido diviene pontifex maximus (capo della sfera religiosa).
  • risulta pertanto evidente che nel giro di un ventennio egli sarà l’indiscusso capo del senato, del tribunato della plebe e dei riti religiosi. Ciò lo farà l’unicus dello stato a detenere il potere effettivo su ogni aspetto e che pertanto darà vita, con il suo successore, all’Impero vero e proprio.

Come organizzò Ottaviano-Augusto il nuovo stato?

Vediamo velocemente i punti salienti:

  • trasformazione di Roma in vera e propria capitale dell’Impero, attraverso opere strutturali e monumentali che ne sanciscono la centralità: tra queste ricordiamo l’Ara pacis e il Forum Augusti;

 
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  • riorganizzazione dell’esercito che, tolto dalle mani degli ufficiali, ridiventava esercito di stato con arruolamento volontario. Al termine ai militari veniva assegnato un premio in denaro o un appezzamento di terreno. A tale scopo venne creato un aerarium militare, le cui casse erano fornite da una nuova tassa di successione;
  • l’istituzione del praefectus praetorii a capo appunto dei praetoriani (guardia personale del princeps); praefectus urbi (con compiti di polizia per la città di Roma); praefectus annonae (per l’approvvigionamento dei viveri a Roma) e in ultimo praefectus Egypti (governatore dell’Egitto, proprietà privata di Augusto);
  • la risistemazione delle province in provinciae populi (governate dal Senato attraverso la nomina – come un tempo – di governatori provenienti dalle sue fila, e la cui riscossione delle entrate terminava nell’aerarium, cassa dello stato e in provinciae Caesaris (poste ai confini o di nuova acquisizione controllate dallo stesso Augusto attraverso governatori, (legati detti procuratori);
  • per quanto riguarda la politica estera il compito di Augusto fu quello, soprattutto, di rafforzare i confini, che determinò, invero, in un epoca di pace, qualche guerra: si ricordano qui la formazione dell’Augusta Praetoria (Aosta) e la riduzione in province della Rezia, (posta tra l’attuale Svizzera e l’Italia nord-orientale), del Norico e della Pannonia (l’Austria e l’Ungheria di oggi).

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Augusta Praetoria (Aosta)

Morale e religione

Un compito non propriamente militare ma politico era dover giustificare il fatto di essersi guadagnato il titolo di princeps. Tale giustificazione doveva passare, per essere accettata, attraverso il concetto di una “restaurazione” degli antiqui mores. Era come se il loro venir meno avesse creato quel disordine, quell’amoralità, quella ingiustificata prepotenza che avevano caratterizzato gli ultimi anni della Repubblica. Non si tratta soltanto di ripensare e rivivere la storia della Roma antica, ma d’imporla attraverso divieti (l’adulterio, il lusso, l’indifferenza religiosa) ed il rafforzamento e la riproposizione (come la costruzione di nuovi templi, la riaffermazione degli antichi collegi sacerdotali e di antichi riti propiziatori).

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La tradizionale lupa di Roma con Romolo e Remo

Certamente tale compito richiese uno sforzo notevole, soprattutto da un punto di vista urbanistico; ma non riuscì del tutto da un punto di vista etico; è impossibile “obbligare” la gente a “credere”, ma soprattutto è impossibile cancellare la storia.

Cultura

La volontà di fare di Roma la nuova capitale dell’Impero, il tentativo di presentare se stesso al mondo come il perno su cui ruotava il modo d’essere e il modo di fare, fece sì che Augusto s’impegnasse, in modo non banale, a sollecitare un impegno diretto e vivo degli intellettuali al suo progetto.

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Busto di Agrippa conservato al Louvre

Piuttosto facile era magnificare la nuova era attraverso la monumentalità: Agrippa, il suo “architetto”, gli disegnò una nuova Roma e fece sì che tutte le città dell’Impero, nel loro piccolo, la imitassero. Allo stesso modo non difficile fu, per gli scultori e l’arte figurativa, ricoprire le città d’immagini e statue che celebrassero la raggiunta pace augustea. Ma anche lui non si risparmiò scrivendo un’opera apologetica su stesso in cui magnificava le sue imprese, il Res gestae divi Augusti.

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Iscrizione delle Res Gestae nel Mausoleo di Augusto

Più problematico era operare dal punto di vista letterario. Ma se Agrippa gli fu di grande aiuto nel costruire la città e artigiani di gran classe a ricoprire le strade di Roma con sue statue e a dipingere affreschi privati e/o pubblici, Mecenate lo fu altrettanto nel creare intorno ad Augusto una rete di fini intellettuali che lo coadiuvarono (senza tuttavia piegarsi ad una mera e “falsa” adulazione) nel suo progetto.

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Busto raffigurante Mecenate

Chi è stato realmente Mecenate? Un finissimo intellettuale, certamente autore di apprezzati componimenti di cui niente ci resta, che nella sua vita condivise le attese e le aspirazioni di molti giovani che, spinti o chiamati, giunsero a Roma grazie al loro talento. La sua estrema bravura fu quella di far incontrare questi intellettuali con le volontà di Augusto, facendo in modo che né i primi si sentissero utilizzati, né il secondo ignorato dalle loro produzioni.

Ciò fu possibile perché le esigenze del princeps e quelle di questi intellettuali conversero tutte verso una “rifondazione”. Se infatti Augusto voleva rifondare, attraverso la tradizione, la nuova capitale dell’Impero e fare di essa il centro intorno al quale l’intero mondo ruotava, gli intellettuali volevano “rifondare” la cultura, facendo di essi, distogliendo lo sguardo da Atene, il nuovo punto di riferimento. Non si sa quanto questo avvenne: certamente nella cultura romana (e, quindi, occidentale) sì.

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Charles François Jalabert: Virgilio e Varo a casa di Mecenate

E’ che le riconquistata “pace”, dopo i lunghi anni di guerre civili, il tremare ancora e la trepidazione nell’attesa e nel compiersi di una nuova età, (Virgilio); il riguardare senza più odio, ma con “ironia” e saggezza il cives Romanus (si pensi ad Orazio), raccontare liricamente la propria biografia in estrema purezza stilistica (gli elegiaci) non era soltanto un fare letteratura ma un “viverla” nel senso più proprio. Per rendere ancora meglio il concetto è che non si percepisce, ancora oggi, distanza tra l’io narrante e il narrato degli autori citati. Ciò fa delle opere di questa età dei “classici”, intendendo con questo termine la capacità delle stesse di andare al di là del tempo (e dello spazio) in cui esse vennero alla luce.

Ora ancora da noi l’epica omerica o la lirica greca arcaica, come quella di Alceo o di Saffo, ci fanno, al di là della nostra capacità critica, indicarle come classici: ecco, gli autori augustei, soprattutto i due più importanti, non si limitarono, per così dire a rifare o a rendere, personalmente, o a diffondere la cultura greca (si pensi ai grandi dell’età cesariana, Lucrezio, Catullo, Cicerone), ma a diventare essi stessi novelli poeti epici o lirici da mettere al fianco con i grandi greci, cioè partire da loro per prima affiancarli e poi superarli. Si pensi a Virgilio: la sua Eneide parte dalla poesia omerica, ma non imita, la affianca e in qualche modo la supera in quanto se le prime erano la voce della Grecia arcaica, egli è il nuovo vate dell’età aurea della pace universale, perché l’impero è universale.

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Giovan Battista Tiepolo: Mecenate presenta le arti ad Augusto

Certo, tale altissima produzione cancella la precedente: all’arrivo della poesia epica virgiliana, piano piano l’epica di Livio Andronico scompare, allo stesso modo la satira di Orazio soppianta quasi del tutto quella di Lucilio; per questo motivo delle opere precedenti, non ci è giunto quasi nulla.

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Stefan Bakałowicz: Circolo di Mecenate (1890)

E allora c’è da chiedersi: perché l’opera di Lucrezio, Cicerone, Cesare, Catullo, Sallustio ci è invece pervenuta come essa stessa “classica”?

Vediamo di dare una risposta per ogni singolo autore:

Lucrezio è una tarda scoperta in clima umanistico-rinascimentale (e quindi laico); non ci fosse stata molto probabilmente del poema epicureo sapremo poco o nulla, ed inoltre rispecchiava quel sentire “antropocentrico” che il ‘400 ed il ‘500 esprimevano;

Catullo ci giunge perché alessandrino nella forma, come è ellenistico-alessandrino tutto il fare poetico dei lirici augustei, con altro intento. Così come sono personali e legati alla temperie storica i carmi catulliani, allo stesso modo sono così universali e “classiche” le odi di Orazio;

Cesare ci giunge in quanto padre del Divo Augusto e simbolo dell’unità cristiana dell’Impero e quindi della Chiesa;

Cicerone ci giunge perché è un oratore e l’oratoria al tempo di Augusto, naturalmente, scompare; quindi esso appare l’ultimo grande in cui il periodo storico gli garantisse la “libertà” della parola stessa, accompagnata da una maestria stilistica riconosciutagli in ogni tempo (d tanto da essere preso ad esempio da Boccaccio per la sua Introduzione al Decameron)

Sallustio è un caso strano: è uno storico che scrive quasi contemporaneamente a Virgilio e quindi facilmente inseribile nell’età augustea: ma se le sue opere, composte tra il 43 e il 40 a. C., sono tutte legate all’età cesariana è perché il loro sguardo è rivolto al passato, le Bucoliche virgiliane, di poco posteriori (38 a. C.), invece, sono completamente proiettate al futuro; ma la sua grandezza sta nella descrizione, oserei dire, tragica, dei suoi personaggi, che sarà un modello per il grandissimo Tacito.

 

DOLCE STIL NOVO

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Firenze tra il ’200 e il ’300

A seguito della sconfitta di Manfredi, figlio di Federico II, i ghibellini furono cacciati dalla città di Firenze ed i Guelfi poterono governare, in un periodo di relativa pace, dal 1267 sino al 1280. Dopo quella data, terminato il conflitto che divideva i filo imperiali (ghibellini)  ed i filo papali (guelfi), la città vide un forte affermazione delle componenti popolari, arrivando così alla formazione del priorato delle arti nel 1282, che prevedeva la partecipazione alla vita politica soltanto se ci si iscrivesse ad una corporazione. 

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Tale processo portò nel 1293 la creazione degli Ordinamenti di Giustizia, il cui ideatore, Giano Della Bella, allargò il numero delle Arti e decretò che solo chi fosse iscritto ad esse potesse essere eletto nelle cariche pubbliche, escludendo de facto ai grandi magnati della città o a chi non risultasse iscritto ad un’arte di partecipare alla vita pubblica. Queste innovazioni politiche accompagnarono la città durante una vera e propria sottomissione delle altre e ad un arricchimento tale che trovò la sua esplicitazione in un aumento vertiginoso della popolazione. Ma proprio questo acuì di nuovo i contrasti politici che opponevano ora i Guelfi Neri, capitanati dalla famiglia dei Donati, espressione dei grandi magnati e della nobiltà cittadina, molto legati al Papato e i Guelfi Bianchi, guidati dalla famiglia dei Cerchi, che promuovevano una maggiore presenza del popolo nel governo della città ed una maggiore autonomia rispetto all’ingerenza papale. Tale divisione non era solamente politica, ma nascondeva anche rancori e gelosie tra le due famiglie. A darcene dimostrazione fu la zuffa di Calendimaggio nella primavera del 1300: sembra che i giovani della famiglia dei Donati fossero andati in piazza a provocare una lite con i Cerchi, tanto che, durante la rissa Ricoverino de Cerchi si trovò con il naso mezzo tagliato. Tale episodio inasprì talmente i rapporti che dovette intervenire Bonifacio VIII che fece occupare la città dalle truppe di Carlo di Valois e che impose il governo dei Neri. I Bianchi vennero cacciati e tra di essi vi furono sia ser Petracco Dante Alighieri. 

 Il nome

All’interno di questa vivace politica cittadina, un gruppo di giovani, figli di una piccola nobiltà o borghesia più o meno benestante, partendo dall’insegnamento di Guido Guinizzelli, che ritengono il loro padre sia per la forma che per il contenuto, s’incontrano per dar vita ad un cenacolo intellettuale per parlare d’amore e di pensiero. Il nome da essi assunto viene loro assegnato da Dante Alighieri che da giovane fece parte di questo gruppo che, più tardi, nel suo Purgatorio, al canto XXIV, incontrando Bonagiunta Orbicciani, così scrisse:

«Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
“Donne ch’avete intelletto d’amore”».

E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando».

«O frate, issa vegg’ io», diss’ elli, «il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!

«Ma dimmi se io vedo qui colui che iniziò / il nuovo modo di scrivere poesia / con la canzone Donne che avete intelletto d’amore. // E io a lui: «Io sono uno che, quando Amore mi ispira, annoto, e nel modo in cui mi detta nell’animo, lo esprimo in versi». «O fratello, adesso capisco, l’ostacolo che il Notaio (Iacopo da Lentini), Guittone d’Arezzo e me (Bonagiunta Orbicciani) al di qua del dolce stil novo di cui adesso sento parlare!»

Furono proprio questi versi a far sì che, successivamente, sulle parole fatte dire a Bonagiunta da Dante, si suole “nominare” questo gruppo di intellettuali con la definizione di “stilnovisti”, per meglio dire “poeti del dolce stil novo”.

Il contenuto
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Consapevoli di aver dato vita ad una vera e propria scuola, la cui attività può inquadrarsi tra il 1280 ed il 1330, gli stilnovisti da una parte si riallacciano alla tradizione cortese (la poesia trobadorica, siciliana e toscana), dall’altra la superano. Tale superamento avviene alla stregua di una maggiore “intellettualizzazione”, grazie anche agli studi che la vicina Università di Bologna propone e che colui che viene considerato il “maestro” adotta nella sua poesia “manifesto”. In tale Università si approfondisce lo studio dell’aristotelismo che, grazie al commento di Averroè, fornisce le basi per la “Scolastica”, scuola filosofica in cui eccelle il pensiero di San Tommaso: egli tenta di superare la speculazione agostiniana, secondo la quale la conoscenza di Dio non può essere razionale e quindi l’amore verso di Lui è solo un atto di fede e pertanto mistico, quindi puro, (applicando il modo conoscitivo platonico). Tommaso, viceversa, recupera Aristotele e quindi attraverso il suo metodo scientifico tende a spiegare razionalmente l’esistenza di Dio, attraverso le famose cinque prove:

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  • Motore immobile: se tutte le cose sono in movimento, procedono da un punto e attraverso una “spinta” arrivano ad un altro, e se si considera tale processo un continuo mutamento da un qualcosa ad un’altra, possiamo altrettanto dire che questo qualcosa sia in potenza ciò che nel divenire si trasforma in atto. Andando indietro definitivamente si arriverà all’atto/movimento coincidenti in quanto primi, quindi Dio;
  • Causa non causata: tutto il reale è composto da effetti, che a loro volta diventano cause di nuovi effetti. Se dovessimo percorrere il concetto di causalità nel tempo, si raggiungerebbe il punto in cui l’effetto e la causa coincideranno in una causa di qualcosa che non è causata, appunto una causa prima, quindi Dio;
  • Concetto di possibile e necessario: Tommaso per tale dimostrazione fa riferimento, alla dottrina di Avicenna (intellettuale arabo) che distingue tra ciò che è necessario per sé, e ciò che è necessario in rapporto ad altro come effetto o causa. Da questo si può dedurre che ogni cosa è necessaria solo che Dio lo è per sé mentre le cose dipendono necessariamente da Dio come effetti e al contempo cause di altre cose e sono per questo possibili: il bene o male della terra sono possibili, le intelligenze motrici del cielo sono il necessario “per altro”, quindi, con la stessa logica, ragionamento in verticale, avremo un necessario per sé, che regole le intelligenze angeliche, che a loro volta danno a noi la possibilità di essere buoni o malvagi;
  • Assioma del comparativo: se l’idea che esiste una cosa più calda, rimanda all’idea che ce ne sia una “caldissima”, allo stesso modo l’idea di bontà, virtù, carità, presuppongono un assoluto in cui esse possono essere racchiuse, cioè Dio.
  • Assioma dell’ordine: ogni cosa tende ad un proprio fine, ma tutte poi si dispongono ad un fine che le trascende: tale ordine non può essere che divino.

Quali effetti ha tale speculazione filosofica nella produzione poetica stilnovista? Se già nelle poesie precedenti si era metaforizzato il rapporto tra “donna” e “amante” come specchio dei rapporti esistenti nella corte (poesia, appunto, cortese), ora si tratta di metaforizzare l’“amore” attraverso le cinque tesi che dimostrano l’esistenza di Dio: basta fare l’esempio di potenza e atto, tratto proprio dalla poesia di Guinizzelli o ancora dell’assioma del comparativo, della causa e via discorrendo.

Stile

Cos’è che tuttavia rende questa poesia unica e nuova nel panorama della tradizione italiana fino ad allora prodotta? Che nonostante la “concettosità” dottrinale dei maggiori esponenti, essa non cesserà mai di ricercare l’eufonia e la perfezione formale, inseguendo la “bellezza” del verso. Inoltre le parole dovranno rispondere a concetti lontani dal reale e dalla quotidiana (appartenenti, come vedremo, allo stile “comico”) per rimandare maggiormente a “concetti”, che devono riflettere il pensiero dell’autore.

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Guido Guinizzelli

GUIDO GUINIZZELLI

Di lui si sa che fu avvocato, formatosi nell’Università di Bologna e che scrive poesia per puro diletto, come facevano, a tempo loro i siciliani. Egli forse non si rende conto della novità del suo poetare, se chiama Guittone d’Arezzo “padre mio”, ma se ne renderà conto proprio un ferreo “guittoniano” che lo accuserà di “aver mutato lo stile”. Ne è un esempio la canzone che sarà considerata il manifesto del dolce stil novo:

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Codice della poesia guinizzelliana

AL COR GENTIL REMPAIRA SEMPRE AMORE

Al cor gentil rempaira sempre amore
come l’ausello in selva a la verdura;
né fe’ amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch’amor, natura:
ch’adesso con’ fu ’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti ’l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così propïamente
come calore in clarità di foco.

Foco d’amore in gentil cor s’aprende
come vertute in petra prezïosa,
che da la stella valor no i discende
anti che ’l sol la faccia gentil cosa;
poi che n’ha tratto fòre
per sua forza lo sol ciò che li è vile,
stella li dà valore:
così lo cor ch’è fatto da natura
asletto, pur, gentile,
donna a guisa di stella lo ’nnamora.

Amor per tal ragion sta ’n cor gentile
per qual lo foco in cima del doplero:
splendeli al su’ diletto, clar, sottile;
no li stari’ altra guisa, tant’è fero.
Così prava natura
recontra amor come fa l’aigua il foco
caldo, per la freddura.
Amore in gentil cor prende rivera
per suo consimel loco
com’ adamàs del ferro in la minera.

Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno:
vile reman, né ’l sol perde calore;
dis’omo alter: «Gentil per sclatta torno»;
lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fé
che gentilezza sia fòr di coraggio
in degnità d’ere’
sed a vertute non ha gentil core,
com’aigua porta raggio
e ’l ciel riten le stelle e lo splendore.

Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo

Deo crïator più che [’n] nostr’occhi ’l sole:
ella intende suo fattor oltra ’l cielo,
e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole;
e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento,
così dar dovria, al vero,
la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende
del suo gentil, talento
che mai di lei obedir non si disprende.

Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?»,
sïando l’alma mia a lui davanti.
«Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti
e desti in vano amor Me per semblanti:
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude».
Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi amanza».

In un cuore nobile, si rifugia sempre, come sua sede naturale, l’amore, / così come l’uccello si rifugia in un bosco tra il verde della vegetazione; / né la natura creò l’amore prima di un cuore gentile, né il cuore gentile prima dell’amore: / come, non appena apparve il sole, / subito lo splendore rifulse, / né apparve prima del sole; / l’amore prende il suo posto nell’animo nobile / così naturalmente / come il calore nello splendore del fuoco. // La fiamma dell’amore si accende nel cuore nobile, / così come la virtù, nella pietra preziosa, / perché dalla stella non discende in essa la particolare virtù / prima che il sole non l’abbia resa gentile, (cioè pura, libera da ogni impurità); / dopo che il sole ha tratto da essa, con la sua potenza, ciò che in essa è impuro, / la stella le infonde il valore: / così il cuore che dalla natura è stato creato / eletto, puro e nobile / una donna, come la stella nel suo operare, lo innamora. // L’amore risiede in un cuor gentile per la stessa ragione / per la quale la fiamma sta sulla sommità della torcia: / vi splende a suo piacere, luminosa, sottile, non vi starebbe in un modo diverso tanto è sdegnosa. / Una natura cattiva, (un animo volgare), / respinge l’amore così come l’acqua il fuoco / per la sua freddezza. L’amore ancora prende dimora in cuor gentile, / perché è il luogo più simile ad esso, / come il diamante nel minerale del ferro. // Il sole colpisce il fango tutto il giorno: / il fango resta vile, né il sole perde il suo valore. / Dice un uomo superbo: “Io sono nobile per discendenza”; / io paragono lui al fango il valore gentile al sole: / perché l’uomo non deve credere / che la nobiltà esista al di fuori dell’animo, nella dignità dell’eredità, / se non possiede un cuore nobile incline alla virtù, / come l’acqua si lascia attraversare dal raggio / e il cielo trattiene le stelle e la luce. // Risplende nell’intelligenza celeste / Dio creatore del cielo più del sole nei nostri occhi, / ed essa riconosce il proprio Fattore oltre il cielo che presiede / e, facendolo girare, prende a obbedire a Lui, / e ne consegue immediatamente la beata realizzazione di Dio, / così in verità dovrebbe comunicare / la bella donna, dopo che risplende agli occhi / del suo innamorato, il desiderio / di non distogliersi mai dall’obbedire a lei. // O donna, Dio mi dirà “Quale è stata la tua presunzione?” quando la mia anima dopo la morte starà davanti a Lui: “Oltrepassasti il cielo e arrivasti fino a me // e prendesti Me come termine di paragone in un amore frivolo, / perché le lodi si addicono soltanto a Me e alla regina del vero regno, / per la cui virtù svanisce ogni inganno del demonio”. / Allora io potrò dire: “La donna che ho amato aveva l’aspetto di un angelo, / che appartenesse al Tuo regno; / non peccai, se io riposi il mio amore in lei.

Questa famosa canzone del Guinizzelli è considerata il manifesto “dolce stil novo”, perché in essa possiamo trovare quegli elementi dottrinali che la rendono nuova pur se conserva concetti già presenti nella giovane tradizione poetica. Basti pensare alla nuova definizione di nobiltà, maggiormente coerente col carattere antifeudale della civiltà comunale. Inoltre adopera un linguaggio più aderente al sentimento, più limpido, caratterizzato da una musicalità più semplice “dolce” appunto, come richiedeva il nuovo stile. Gli elementi dottrinali possono ridursi essenzialmente a due: il primo è che l’amore ha la sua sede naturale nel cuor gentile, cioè nell’animo nobile, che è tale non per ereditarietà di stirpe, ma per qualità naturali, e per conquista individuale grazie all’intelligenza e alla cultura; il secondo elemento è il concetto della donna che con la sua bontà e bellezza traduce in atto l’amore che potenzialmente risiede nel cuore gentile, esaltando le migliori qualità dell’uomo, liberandolo così da ogni bassezza e impurità e perfezionandolo moralmente. Così operando sull’uomo, la donna assolve una funzione in più o meno simile a quella di Dio, che risplende davanti all’intelligenza angelica, rendendo poetico il concetto di potenza/atto.

Quest’altro brano, un sonetto, Guinizzelli analizza l’effetto del “saluto” della donna, motivo ripreso, in seguito, da Guido Cavalcanti:

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Il “saluto” della donna

LO VOSTRO BEL SALUTO E ‘L GENTIL SGUARDO

Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo
che fate quando v’encontro, m’ancide:
Amor m’assale e già non ha riguardo
s’elli face peccato over merzede,

ché per mezzo lo cor me lanciò un dardo

ched oltre ’n parte lo taglia e divide;
parlar non posso, ché ’n pene io ardo
sì come quelli che sua morte vede.

Per li occhi passa come fa lo trono,

che fer’ per la finestra de la torre
e ciò che dentro trova spezza e fende:

remagno come statüa d’ottono,
ove vita né spirto non ricorre,
se non che la figura d’omo rende

Il vostro soave saluto e il gentile sguardo / che mi fate quando vi incontro, mi uccide: / l’amore mi assale e non si cura / se mi reca danno oppure piacere, // perché attraverso il cuore mi ha lanciato una freccia / che lo divide a metà da parte a parte / non posso parlare perché brucio nel dolore / così come colui che vede la sua morte. // (L’amore) passa attraverso gli occhi come fa un fulmine, / che ferisce entrando da una finestra di una torre / e spezza e taglia ciò che trova dentro; // rimango immobile come una statua d’ottone, / dove non scorre né vita né anima / se non per il fatto che raffigura l’immagine umana.

Come si vede nelle due quartine s’ introduce il tema della sofferenza, mentre, nelle due terzine, l’amante si è trasformato in una statua di ottone, non più percorsa da alcuno spirito né flusso vitale e di umano ha solo le sembianze esterne. Infatti il sonetto è divisibile in due parti: nelle quartine emergono gli effetti diretti del saluto e dello sguardo della donna sull’amante; nelle terzine si notano anche eventi naturali, atti, in qualche modo a “paragonare” l’effetto dell’amore a quello del mondo circostante; anche qui, infatti, si tratta di un atto che non riesce a tradursi in potenza. Il concetto di statua d’ottone contiene in sé, a ben vedere, il concetto dell’immobilità che è contrario a quello appunto del motore aristotelico. Non c’è negazione ma la non trasformazione, proprio perché l’atto non ha colpito il poeta.

Se, come detto, è la sofferenza, il tema del sonetto precedente, questo invece presenta l’alto importantissimo tema della “lauda”, anch’esso sviluppato in modo importante dallo stilnovismo maturo:

IO VOGLIO DEL VER LA MIA DONNA LAUDARE

Io voglio del ver la mia donna laudare
ed assembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella diana splende e pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

Verde river’ a lei rasembro a l’are,
tutti color di fior’, giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
medesmo Amor per lei rafina meglio.

Passa per via adorna, e sì gentile
ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa ‘l de nostra fé se non la crede:

e no ‘lle po’ apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
null’om po’ mal pensar fin che la vede.

Io voglio lodare la mia donna in modo veritiero / e paragonarla alla rosa e al giglio; / splende e appare luminosa più della stella Venere / e per me ciò che lassù è bello è simile a lei. // A lei paragono la verde campagna e l’aria, / tutti i colori dei fiori, giallo e rosso, / oro e azzurro e gioielli da donare: / perfino Amore per merito suo si perfeziona. // Passa per la strada ornata e così gentile / che abbassa l’orgoglio a colui che la saluta / e se non crede lo converte alla nostra fede; // e non le si può avvicinare chi non sia gentile: / in più vi dirò che ha un potere ancora più grande; / nessuno può pensare male fino a che la guarda.

Sia a livello stilistico che contenutistico questo sonetto appare come una “summa” dell’arte stilnovistica: la “similarità” tra la donna e Dio, pare dimostrata proprio dall’arte del paragone, arte già presente sia nella canzone dello stesso Guinizzelli che nella poesia francescana; poi l’effetto dell’apparizione della donna è visto come un processo salvifico, (“salute”) costruito con la tecnica del climax: dapprima abbassa l’orgoglio, quindi lo converte ed infine fa in modo che non pensi alcuna cosa malevola. Anche il lessico rimanda a concetti stilnovisti, come l’aggettivazione rivolta alla donna “adorna”, “gentile”; i sostantivi come “virtute” ed il verbo “laudare”.

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Guido Cavalcanti

GUIDO CAVALCANTI

Guido Cavalcanti è il poeta più importante dello stil novo ed anche della nostra letteratura prima di Dante. Con lui l’arte si trasferisce, per così dire, dall’Università bolognese a Firenze, ma, nello stesso tempo, approfondisce e rende più rigorosi i procedimenti stilistici del suo fondatore Guinizzelli. E’ uno degli uomini più importanti nella città Toscana, nato da nobile famiglia intorno al 1250. Si schiera con la parte dei Guelfi Bianchi e fa parte del governo cittadino. Allontanato dalla politica con gli Ordinamenti di Giustizia, rimane attivo, conducendo un aspra battaglia con i rappresentanti dei Guelfi Neri, capitanati dai Donati. Proprio per evitare disordini i priori della città, fra cui lo stesso Dante, esilia i più “esagitati” fra le due fazioni, fra cui il suo amico Cavalcanti. Dopo pochi mesi trascorsi a Sarzana, torna a Firenze per spegnersi in questa città dopo pochi mesi, nel 1300.

La particolarità di Cavalcanti è proprio nell’approfondimento filosofico che vede nell’amore un’esperienza drammatica che, lasciando liberi gli spiriti vitali, annienta l’uomo. Quindi l’uomo, la cui anima diventa “cosa” informe, si spezza, si dilania, non riesce più a “controllarsi” razionalmente: se ciò avviene egli non è più padrone di sé. Può un uomo simile giungere alla conoscenza? Questi temi sono espressi, in forma assai concettuale in una delle canzoni più difficili di tutta la nostra tradizione poetica:

DONNA ME PREGA

Donna me prega, – per ch’eo voglio dire
d’un accidente – che sovente – è fero
ed è sì altero – ch’è chiamato amore:
sì chi lo nega – possa ’l ver sentire!
Ed a presente – conoscente – chero,
perch’io no spero – ch’om di basso core
a tal ragione porti canoscenza:
ché senza – natural dimostramento
non ho talento – di voler provare
là dove posa, e chi lo fa creare,
e qual sia sua vertute e sua potenza,
l’essenza – poi e ciascun suo movimento,
e ’l piacimento – che ’l fa dire amare,
e s’omo per veder lo pò mostrare.

In quella parte – dove sta memora
prende suo stato, – sì formato, – come
diaffan da lume, – d’una scuritate
la qual da Marte – vène, e fa demora;
elli è creato – ed ha sensato – nome,
d’alma costume – e di cor volontate.
Vèn da veduta forma che s’intende,
che prende – nel possibile intelletto,
come in subietto, – loco e dimoranza.
In quella parte mai non ha possanza
perché da qualitate non descende:
resplende – in sé perpetüal effetto;
non ha diletto – ma consideranza;
sì che non pote largir simiglianza.

Non è vertute, – ma da quella vène
ch’è perfezione – (ché si pone – tale),
non razionale, – ma che sente, dico;
for di salute – giudicar mantene,
ch la ’ntenzione – per ragione – vale:
discerne male – in cui è vizio amico.
Di sua potenza segue spesso morte,
se forte – la vertù fosse impedita,
la quale aita – la contraria via:
non perché oppost’ a naturale sia;
ma quanto che da buon perfetto tort’è
per sorte, – non pò dire om ch’aggia vita,
ché stabilita – non ha segnoria.
A simil pò valer quand’om l’oblia.

L’essere è quando – lo voler è tanto
ch’oltra misura – di natura – torna,
poi non s’adorna – di riposo mai.
Move, cangiando – color, riso in pianto,
e la figura – con paura – storna;
poco soggiorna; – ancor di lui vedrai
che ’n gente di valor lo più si trova.
La nova – qualità move sospiri,
e vol ch’om miri – ’n non formato loco,
destandos’ ira la qual manda foco
(imaginar nol pote om che nol prova),
né mova – già però ch’a lui si tiri,
e non si giri – per trovarvi gioco:
né cert’ ha mente gran saver né poco.

De simil tragge – complessione sguardo
che fa parere – lo piacere – certo:
non pò coverto – star, quand’ è sì giunto.
Non già selvagge – le bieltà son dardo,
ché tal volere – per temere – è sperto:
consiegue merto – spirito ch’è punto.
E non si pò conoscer per lo viso:
compriso – bianco in tale obietto cade;
e, chi ben aude, – forma non si vede:
dunqu’ elli meno, che da lei procede.
For di colore, d’essere diviso,
assiso – ’n mezzo scuro, luce rade.
For d’ogne fraude – dico, degno in fede,
che solo di costui nasce mercede.

Tu puoi sicuramente gir, canzone,
là ’ve ti piace, ch’io t’ho sì adornata
ch’assai laudata – sarà tua ragione
da le persone – c’hanno intendimento:
di star con l’altre tu non hai talento.

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Città medievale

Una donna mi invita a dire, e quindi parlo di un accidente, che spesso è crudele e violento da chiamarsi amore: chi lo nega lo possa sperimentare nella sua vera natura! E a questo fatto chiedo un esperto, poiché non mi attendo che, chi è di animo vile, possa comprendere un tale argomento: perché, senza una dimostrazione della filosofia naturale, non riesco a provare dove l’amore risiede e chi lo fa agire, quale sia la sua virtù e quale il suo potere, l’essenza, e i moti che provoca, l’attrazione che lo fa definire amore, e se lo si può raffigurare visibilmente. // L’amore si insedia in quella parte dove risiede la memoria e s’insedia stabilmente, formato da un’oscurità che procede dall’influsso di Marte, così come il corpo trasparente si trasforma in luminoso per la luce (potenza ad atto); l’amore è creato e, poiché è colto dai sensi, assume un nome, è disposizione naturale dell’anima e desiderio del cuore. Esso muove dalla visione di una figura, che si percepisce nell’intelletto possibile (intelletto che rimane in potenza, senza trasformarsi in atto) così come nel soggetto pronto ad accoglierla, ed in esso assume stabile dimora. Nell’intelletto possibile l’amore non può nulla, poiché esso è indipendente dai quattro elementi essenziali (terra, acqua, aria e fuoco): risplende in lui l’eterna capacità d’intendere attraverso l’intelletto; non accoglie il piacere ma contempla, tanto da non produrre elementi di confronto. // L’amore non è virtù ma proviene da quella capacità che è perfezione (tale è considerata) e non perfezione razionale ma sensitiva; l’amore sottrae il giudizio al sano ragionare, poiché il desiderio prende il posto della razionalità: fa cattivo uso del discernimento chi si lega alla passione. Dal potere di amore deriva spesso morte, se talora la virtù vitale venga ostacolata; e non perché l’amore si opponga a leggi naturali, ma [per il fatto che] quanto più ci si allontani dalla perfetta felicità, non si può dire che si viva veramente, poiché non si ha fermo autocontrollo. Lo stesso avviene quando qualcuno dimentica del bene perfetto. // L’essenza dell’amore si ha quando il desiderio è tanto intenso che supera i limiti naturali e non si accompagna mai al riposo. Esso muta colore e l’aspetto esteriore per paura, trasformando il riso in pianto e facendo mutare colore al volto; è incostante e lo si può vedere stabilmente in persone d’animo nobile. La novità della sensazione provoca sospiri e impone che si contempli un oggetto che non ha ancora ricevuto forma dall’intelletto possibile, per cui si genera ira che fa avvampare (non lo può immaginare chi non lo prova direttamente), ed impone che non ci si muova, per quanto attratti da lui, e che non ci si distolga, al fine di trovarvi gioia, né tanto meno una sapienza piccola o grande. // L’amore trae lo sguardo da un essere simile per natura, così da far sembrare certo il piacere: non può rimaner nascosto quando è giunto a questo punto. Le bellezze, non però quello scontrose,  sono frecce capaci di provocare le ferite d’amore, poiché il desiderio è messo alla prova dalla capacità di resistere al timore (provocato dalle ferite d’amore): chi ne è colpito trae valore, si autoperfeziona. E l’amore non si manifesta mediante la vista; concepito dall’anima sensitiva, la bianchezza (l’assolutezza) viene meno in tale oggetto; e, per chi comprende correttamente, la forma non si intuisce: tanto meno l’amore che da essa procede. Privo di colore, distaccato dalla sostanza, collocato in un mezzo oscuro, respinge la luce. Sinceramente affermo, meritevole di fiducia, che solo da un tale amore nasce ricompensa. // Tu canzone, puoi andartene in tutta sicurezza, ovunque ti piaccia, poiché io ti ho elaborata in modo tale che la tua argomentazione sia lodata da chiunque è competente in materia: non hai desiderio di startene con chi è estraneo a tali argomenti.

Ci troviamo di fronte ad un periodare che è formato da una ferrea argomentazione, tutta tratta dalla filosofia naturale averroistica, in cui si esplicita “scientificamente” la “fenomenologia dell’amore”. Essa può essere riassunta nelle risposte agli otto quesiti posti nella prima stanza:

  • quale sia la sede di Amore;
  • da chi è stato creato, qual è la sua origine;
  • a quale facoltà dell’anima esso si riferisca;
  • la sua potenza;
  • la sua essenza;
  • i suoi effetti;
  • il piacere che lo caratterizza;
  • se amore possa essere reso sensibilmente.

Attraverso le risposte a queste domande avremo la concezione dell’amore cavalcantiana:

  1. L’amore non è eterno ed incorruttibile, ma proviene da Marte e si situa dove sta la memoria, attraverso un processo di potenza (Marte) ed atto (il soggetto che lo riceve).
  2. L’amore è creato dalla percezione di una forma, che diventa intellegibile quando è situata nell’intelletto possibile; quest’ultimo non essendo attivo, rende l’amore statico, inoperante, in quanto la “visione” non lo rende comprensibile, non trasformandolo in azione, perché tale visione ha prodotto solo la facoltà di percepirlo in modo perfetto.
  3. L’amore, una volta attivato, va all’anima sensitiva: qui la percezione diventa azione, ma non vi è tuttavia l’anima razionale ad accompagnarla; esso è trainato dal desiderio per raggiungere la sua perfezione, così come lo ha percepito nell’animo possibile. Tale processo può portare alla non distinzione del “bene”;
  4. La potenza dell’amore può arrivare sino alla morte in quanto contrasta con lo spirito vitale che è naturalmente portato al bene. Infatti esso è piena consapevolezza del sé, che il desiderio della perfezione dell’amore, che pur non contrastando con natura, allontana dal fine del sommo bene.
  5. L’essenza dell’amore è nella passione che travalica i limiti della natura: cambiamento aspetto, colore…
  6. Nel momento in cui l’uomo guarda con passione (e non con ragione) l’oggetto dell’amore, non lo vede né può raggiungerlo nella sua realtà (mancanza di appagamento del desiderio), da ciò ira e sconforto.
  7. Il piacere che se ne determina è nel riconoscersi nell’altro attraverso lo sguardo che rimanda amore. La gioia che ne deriva si deve alla capacità di resistere alle “frecce” d’amore che costituiscono ferite “mortali”: da ciò si deduce il coraggio dell’uomo;
  8. L’amore non è rappresentabile: derivando dall’oscurità di Marte, passando dall’anima possibile, che lo contempla, all’anima sensitiva, che lo agisce, esso non può essere visto.

La canzone qui presente è tutta in endecasillabi, a sottolineare l’elevatezza di contenuto, rimarcata nei primi versi dall’indirizzo verso cui è rivolta perch’io no spero – ch’om di basso core e negli ultimi da le persone – c’hanno intendimento: ciò indica che la costruzione è ad anello (finisce come comincia). Sin dall’inizio la concezione dell’amore cavalcantiano entra in collisione con quello di Guinizelli: tanto per quest’ultimo l’amore è luce, quanto per il poeta fiorentino è oscuro. Sarà proprio il Cavalcanti a definirlo una guerra (proviene da Marte). Infatti l’amore nasce dalla visione di una forma perfetta (la donna) – come tradizionalmente dicevano già i siciliani; tale visione si situa nella memoria, che secondo la filosofia medievale è una delle tre parti dell’anima (vegetativa, sensitiva, intellettiva); ma la conoscenza, per Averroè non deriva da organi corporei – per cui conoscenza e amore sono antitetici. Nella poesia di Cavalcanti tale concetto ha una precisa ragione filosofica. Secondo la dottrina averroistica la conoscenza non comporta né dolore né piacere: essa è contemplazione del vero: è facile capire che l’innamorato, sospeso tra il dolore e il piacere sensuale, non può mai pervenire ad essa. L’intelletto, sede della conoscenza non può essere turbato dalla passione d’amore. L’anima sensitiva, sconvolta dalla passione d’amore determinata dal continuo ricordo della della donna, non può elevarsi alla conoscenza.  In ultima analisi ad un contenuto oscuro Cavalcanti risponde con uno stile che conserva la caratteristica dell’“eufonia” che caratterizza tale movimento, e lo fa con il ricorso di rime al mezzo – inusuali all’interno del genere canzone – accidente : sovente v. 2.; dimostramento : talento v. 8/9; l’intera sequenza dei versi 21/23: Vèn da veduta forma che s’intende, / che prende – nel possibile intelletto, / come in subietto, – loco e dimoranza. Per non parlare delle continue assonanze e consonanze di cui è intessuta l’intera canzone, composta da 5 stanze con la fronte di due piedi ciascuna con rima ABC, ABC; cui segue la sirma ognuna di 4 versi DEFG; DEFF.

In questo sonetto, invece, si può misurare la differenza che vi è tra Guinizzelli e Cavalcanti, pur esprimendosi entrambi nel genere della “lode”:

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CHI E’ QUESTA CHE VEN

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’are
e mena seco Amor, sì che parlare
null’omo pote, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira,

dical’Amor, ch’i’ nol savria contare:
cotanto d’umiltà donna mi pare,
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira.

Non si poria contar la sua piagenza,
ch’a le’ s’inchin’ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.

Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose ’n noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn canoscenza.

Chi è questa che avanza, che ciascuno l’ammira / che crea un tremolio di luminosità nell’aria / e conduce con sé l’Amore / così che nessun uomo può parlare / ma ciascuno sospira? // Oh Dio, che cosa sembra quando gira intorno gli occhi! / Lo dica Amore, che io non lo saprei esprimere / mi pare la signora stessa dell’umiltà / che ogni altra, rispetto a lei, la definirei superba. // Non si potrebbe descrivere la sua bellezza, / dato che davanti a lei si china ogni virtù / e la bellezza la indica come sua dea. // La nostra mente non fu così elevata / e non fu posta in noi tanta capacità / da poterne avere una conoscenza perfetta.

Il tema di questo sonetto (schema delle rime: incrociata nelle due quartine ABBA ABBA; invertita nelle terzine CDE EDC) è quello, già guinizzelliano, della lode della donna. Ma il Cavalcanti va oltre, facendo della donna un essere quasi sovrumano. Già l’interrogazione iniziale  con il riferimento alla figura femminile, si richiama a quello della Bibbia per Maria (Quis est ista, quae progreditur?), ma l’inserimento di Amore già nel terzo verso, l’allontana subito dalla sfera religiosa. Infatti altro tema importante è quello dell’incapacità della parola nel descriverla, in quanto ella, pur conservando tratti angelici, sembra rimandare ad un’idea di perfezione e di umiltà, tale da non potersi rappresentare. Infatti vedendo il modo attraverso cui in Donna me prega tale idea si formava nell’anima intellettiva, essa nel momento in cui passa nell’anima sensitiva toglie all’uomo la capacità di intenderla (non si poria contar la sua piagenza) e quindi di conoscerla (metafora donna/conoscenza). Non è a caso che a livello polisemantico qui il termine salute acquisti un ulteriore significato (gesto di saluto, salvezza, capacità di raggiungerla).

La costruzione si può definire in crescendo; ogni tema presente nelle stanze viene ripreso in quella successiva, ad eccezione dell’ultima che, sul tema dell’ineffabilità, si lega alla seconda. 

Tale fallimento è spiegato in modo ancor più radicale in un altro sonetto modellato sempre da Guinizzelli:

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VOI CHE PER LI OCCHI

Voi che per li occhi mi passaste ’l core
e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia,
che sospirando la distrugge Amore.

E’ vèn tagliando di sì gran valore,
che’ deboletti spiriti van via:
riman figura sol en segnoria
e voce alquanta, che parla dolore.

Questa vertù d’amor che m’ha disfatto
da’ vostr’occhi gentil’ presta si mosse:
un dardo mi gittò dentro dal fianco.

Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto
che l’anima tremando si riscosse
veggendo morto ’l cor nel lato manco.

Voi che attraverso gli occhi mi trapassaste il cuore / e risvegliaste la mente che dormiva, / guardate a questa mia vita angosciosa / che, a causa dei sospiri, l’Amore distrugge. // Egli mi colpisce con tanta forza / che gli spiriti indeboliti scappano / rimane solo il corpo in suo potere / e poca voce, che esprime dolore. // Questa virtù d’amore che mi ha disfatto / veloce si dirizzò verso di me dai vostri nobili occhi: / una freccia mi gettò sin dentro il fianco. // Così giunse dritta fino al fianco sinistro, / che l’anima tremando per paura, si riscosse / vedendo morto il cuore nel lato sinistro.

In questo sonetto (schema delle rime: incrociata nelle due quartine ABBA ABBA; ripetuta nelle terzine CDE CDE) fa uso di una terminologia precisa che risponde all’esigenza di oggettivare il sentimento amoroso come un vero e proprio evento. Per far questo egli rappresenta le conseguenze che produce sull’amante la visione della donna: nella prima quartina descrive il processo di innamoramento. Al principio di tale processo è la donna, la cui immagine arriva fino al “cuore” e desta la “mente” dal suo sonno (passaggio dell’amore dalla potenza all’atto per opera di una causa, la donna). Poi l’azione che si svolge nel cuore è rappresentata come una battaglia: l’amore, penetrato all’interno dell’uomo, ferisce con forza e mette in fuga gli “spiriti”, che sovrintendono le facoltà sensoriali dell’uomo e che quindi ci sostengono in vita. Cavalcanti tuttavia, personifica anche questi elementi costitutivi dell’organismo dell’uomo. Essi si raccolgono a difesa del cuore, ma poi sono sgominati e messi in fuga dall’Amore. Rimangono soltanto la “figura”, cioè l’aspetto fisico dell’amante, e la sua “voce”. Il sonetto si conclude con la constatazione della “morte” del cuore. Si tratta ovviamente di una morte metaforica, risultato dello sconvolgimento portato nell’uomo dalla passione, che come nel sonetto precedente vede l’amore come ostacolo alla conoscenza.

Stessa sensazione di amore come dolore ce la offre lo straordinario sonetto seguente, nel quale il nostro non si presenta come io lirico che, oggettivando la fenomenologia dell’amore come annichilimento, condivide con il lettore la sensazione distruttiva. Qui a definire tale situazione sono gli oggetti che sono il mezzo attraverso cui nasce la poesia d’amore:

NOI SIAN LE  TRISTE PENNE SBIGOTTITE

Noi siàn le triste penne isbigotite,
le cesoiuzze e ’l coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.

Or vi diciàn perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente:
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;

le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte,
ch’altro non n’è rimaso che sospiri.

Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegn[i]ate di tenerci noi,
tanto ch’un poco di pietà vi miri.

Noi siamo le tristi penne sbigottite, le forbicine e il dolente coltellino, che abbiamo scritto con dolore quelle parole che voi avete ascoltato. // Ora vi diciamo perché ci siamo allontanati e siamo giunti adesso qui di fronte a voi: la mano che si è servita di noi afferma che sente nel cuore gli appaiono cose paurose; // le quali lo hanno a tal punto debilitato da averlo portato così vicino alla morte, che non è di lui rimasto altro che sospiri. // Ora vi preghiamo per quanto possiamo più caldamente, che non vi sdegnate di tenerci finché siate un po’ toccate da pietà per noi.
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Questo sonetto pone al centro tematico gli strumenti dello scrivere, quindi con un solo termine, la parola poetica. Essi sono i veri protagonisti tanto cancellare la figura dell’autore e oggettivare in essi il suo dolore: sono infatti le penne e i mezzi per appuntirle che agiscono: si allontano, vanno dalla donna che ha provocato dolore e le chiedono pietà. Iol tutto risolto attraverso una “drammatizzazione” teatrale, svolta con tale leggerezza stilistica da colpire il più grande scrittore italiano della seconda metà del ‘900: Italo Calvino.

L’oggettivazione cavalcantiana dello stato psichico dell’anima e della mente trova il suo capolavoro nella ballatetta (piccola ballata) Perch’io no spero:

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PERCH’IO NO SPERO

Perch’i’ no spero di tornar giammai
ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e piana,
dritt’a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.

Tu porterai novelle di sospiri

piene di dogli’ e di molta paura;
ma guarda che persona non ti miri
che sia nemica di gentil natura:
ché certo per la mia disaventura
tu saresti contesa,
tanto da lei ripresa
che mi sarebbe angoscia;
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore.

Tu senti, ballatetta, che la morte
mi stringe sì, che vita m’abbandona;
e senti come ’l cor si sbatte forte
per quel che ciascun spirito ragiona.
Tanto è distrutta già la mia persona,
ch’i’ non posso soffrire:
se tu mi vuoi servire,
mena l’anima teco
(molto di ciò ti preco)
quando uscirà del core.

Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate

quest’anima che trema raccomando:
menala teco, nella sua pietate,
a quella bella donna a cu’ ti mando.
Deh, ballatetta, dille sospirando,
quando le se’ presente:
«Questa vostra servente
vien per istar con voi,
partita da colui
che fu servo d’Amore».

 Tu, voce sbigottita e deboletta
ch’esci piangendo de lo cor dolente
coll’anima e con questa ballatetta
va’ ragionando della strutta mente.
Voi troverete una donna piacente,
di sì dolce intelletto
che vi sarà diletto
darle davanti ognora.
Anim’, e tu l’adora
sempre, nel su’ valore.

Poiché io non spero di tornare più / piccola ballata, in Toscana, / vai tu, leggiadra e dolce, / direttamente alla mia donna / che, grazie alla sua grazia, / ti farà degna accoglienza. // Tu porterai notizie di sospiri / piene di dolori e di grandi timori; / ma bada che non ti osservi nessuno / perché certamente per la mia disavventura / tu saresti contrastata / e tanta oltraggiata da lei / che ciò mi angoscerebbe, / e anche dopo la morte, / pianto e nuovo dolore. // Tu senti, piccola ballata, che la morte, / m’incalza in tal modo, che la vita mi abbandona / e senti come il cuore si agita con forza / a causa di ciò che tutti gli spiriti gli dicono. / La mia integrità personale e già talmente distrutta / che ormai non sono più in grado di resistere: / Se tu mi vuoi rendere un servizio / porta la mia anima con te (e di ciò ti prego molto) quando uscirà dal cuore. // Oh, piccola ballata mia, alla tua amicizia / raccomando quest’anima tremante / portala con te, nella sua angosciosa situazione / a quella bella donna alla quale ti mando. / Oh, piccola ballata, dille con sospiri / quando ti trovi di fronte a lei: / “Questa vostra serva fedele / viene per stare con voi, / separatasi da lui / che fu vostro servo d’Amore. // Tu, mia voce turbata e flebile / che esci piangendo del mio cuore affranto, / insieme all’anima e a questa ballatetta, parla della mia mente distrutta. / Voi troverete una bella donna, / dal pensiero tanto gentile, / che sarà per voi una gioia / starle accanto. / Anche tu, anima, adorala sempre, per il suo valore.

La piccola ballata, schema ritmico inusuale e non semplicissimo (all’inizio una ripresa di 6 versi di cui un endecasillabo e 5 settenari con rime Abbccd, tale ripresa sarà ripetuta in tutte le sirme delle altre 4 stanze in cui la fronte – formata da due piedi – di ognuna presenta versi endecasillabi; ultimo verso rima con tutti gli ultimi versi della ripresa e delle stanze) non inficia su uno stile chiaro e lineare dal lessico abbastanza semplice, tipico del “dolce stil novo”. Anche qui, pur non affrontando in modo diretto il tema dell’amore, ma soprattutto quello della lontananza (si pensa possa essere stato scritto a Sarzana, dov’era esiliato) siamo di fronte a una sconfitta. Il poeta è infatti consapevole di non poter ricevere in cambio felicità o consolazione dal momento che, quando la ballata si allontanerà da lui, lo farà per sempre. La ballata è quindi solo una testimonianza di amore. Nel testo viene oggettivato il soggetto, è proiettata la personalità del poeta su degli elementi esterni. E’ la ballata che deve prendere il posto del poeta, rappresentarlo nel suo avvicinamento e servire la donna amata: vediamo l’anafora del “tu”, rivolto dal dolente poeta (deh, ripetuto nella quarta stanza) alla stessa ballatetta. Ma è proprio la distanza che non permette l’immaginazione, quindi il passaggio all’anima sensibile e il dolore per l’impossibilità della conoscenza: ecco perché la malinconia; l’uomo sconfitto in presenza della donna, ma quando è in assenza della donna è sconfitto in modo analogo, perché non provando tensione, non prova dolore e quindi il desiderio di conoscenza: ciò equivale alla morte. 

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Immagine della cortesia in Folgòre

All’interno della scuola stilnovista, non possiamo dimenticare che sorge, affiancandola e in parte capovolgendo i temi, un’altra lirica, alle volte meno intellettualizzata (così detta “realista”) e l’altra con accenti più crudi e parodistici (cosiddetta “comica).

Tra i primi ci piace ricordare Folgòre da San Gimignano (1270 – 1330), di cui si riporta qui un sonetto:

INTRODUZIONE

A la brigata nobele e cortese
en tutte quelle parte, dove sono
con allegrezza stando, sempre dono
cani, uccelli e danari per ispese,

ronzin portanti, quaglie a volo prese,
bracchi levar, correr veltri a bandono:
in questo regno Niccolò corono,
per ch’ell’è ‘l fior de la città sanese;

Tengoccio e Min di Tengo ed Ancaiano,
Bartolo con Mugàvero e Fainotto,
che paiono figliuoi del re Priàno,

prodi e cortesi più che Lancilotto;
se bisognasse, con le lance in mano
fariano tarneamenti a Camelotto.

Alla brigata nobile e cortese, dovunque se ne stia in allegria, donerò sempre cani, uccelli e denari per il mangiare, buoni cavalli, quaglie prese al volo, e il divertimento di liberare i bracchi e di far correre i veltri in libertà. Di questo regno do la corona a Niccolò di Nigi, perché egli è il fiore della città di Siena; e poi Tengoccio de’ Tolomei, Mino di Tengo, Ancaiano, Bartolo, Mogavero del Balza e Fainotto Squarcialupi, che sembrano figli del re Priamo, prodi e cortesi più di Lancillotto, se fosse necessario andrebbero con le lance in mano a fare tornei a Camelot.

La poesia, dal cui titolo si capirà essere introduttiva ad una collana dedicata ai dodici mesi, ognuno del quale era riportato in un sonetto, ci mostra come il poeta si discosti dalla poesia del dolce stil novo per un più semplice e diretto uso della lingua. Si tratta infatti di un brano lirico in cui, nei primi otto versi viene descritta una lieta brigata, cui si raccomanda una vita allegra e gaudente. L’ultima terzina porta questi giovani a “immaginarsi” in un regno in cui la loro vita s’impreziosisce di modelli nobili e quindi gentili, dove rifulge la virtù del torneo.

Metricamente la lirica è un sonetto, in cui le rime delle prime due quartine è detta incrociata (ABBA, ABBA), le terzine presentano invece una rima alternata CDC, DCD.

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Cecco Angiolieri

Sul versante comico è invece da ricordare Cecco Angiolieri (1260 – 1310), la cui vita sembra corrispondere alla sua poesia: nato da famiglia nobile a Siena, sperpera tutti i denari, tra multe ed infrazioni. Muore in povertà.

S’I FOSSE FOCO

S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo

s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo,
ché tutti cristïani imbrigherei;
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo.

s’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente farìa da mi’ madre.

S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui.

Se fossi il fuoco, brucerei il mondo; se fossi il vento, lo colpirei con tempeste; se fossi l’acqua, lo annegherei; se fossi Dio, lo farei sprofondare; se fossi il papa, allora sarei contento, poiché metterei nei guai tutti i cristiani; se fossi l’imperatore, sai cosa farei? Taglierei a tutti la testa di netto. Se fossi la morte, andrei da mio padre; se fossi la vita, fuggirei da lui: farei una cosa simile con mia madre. Se fossi Cecco, come sono e sono sempre stato, prenderei le donne giovani e belle; lascerei agli altri quelle vecchie e brutte.

Anche questo è un sonetto con una struttura metrica simile alla precedente (ABBA ABBA, CDC, DCD). Tuttavia qui appare più marcato il senso dello stravolgimento di “significato” della poesia precedente. In primo luogo dobbiamo riconoscere a Cecco Angiolieri una buona perizia letteraria: l’anafora dei primi quattro versi che si ripete poi nel quinto e nel settimo, sta quasi ad indicare il desiderio ipotetico di essere qualcosa di diverso da quello che è per colpire, in modo imperioso, i suoi nemici che sono il mondo, tutti gli uomini cristiani, a tutti indistintamente. E’ chiaro che la “rabbia” all’inizio della poesia, gioca sull’assurdo. Cessa di essere tale al nono verso dove l’ipotesi di essere si scaglia contro le figure genitoriali (che non essendo propriamente generose nei suoi confronti, gli impongono una vita di stenti), e l’ultima, quasi con un colpo “giullaresco”, quando torna ad essere se stesso, il suo desiderio si dimostra essere quello di godersi le donne giovani e belle e di lasciare ad altri le vecchie e zoppe.

Bordello medievale

Ma il manifesto di Cecco Angiolieri viene espresso in questo sonetto:

TRE COSE SOLAMENTE M’ENNO IN GRADO

Tre cose solamente m’ènno in grado,
le quali posso non ben ben fornire,
cioè la donna, la taverna e ’l dado:
queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.

Ma sì·mme le convene usar di rado,
ché la mie borsa mi mett’ al mentire;
e quando mi sovien, tutto mi sbrado,
ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire.

E dico: «Dato li sia d’una lancia!»,
ciò a mi’ padre, che·mmi tien sì magro,
che tornare’ senza logro di Francia.

Ché fora a tôrli un dinar[o] più agro,
la man di Pasqua che·ssi dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro

Tre cose solamente mi sono gradite, che non posso raggiungere come vorrei, cioé le femmine, il vino, ed il gioco d’azzardo, che mi fanno sentire il cuore allegro. // Ma così sono costretto a permettermele raramente, che la mia borsa, che contiene pochi soldi, me le nega, e quando mi capita mi metto a sbraitare perché devo rinunciare per mancanza di denaro. // E dico: «Sia trafitto con una lancia!» questo a mio padre, che mi tiene a stecchetta, che tornerei senza dimagrire dalla Francia, // perché sarebbe più difficile togliergli un denaro la mattima di Pasqua quando si dà la mancia, che far catturare una gru da una poiana. 

Tale poesia (sonetto con una struttura metrica ABBA ABBA, CDC, DCD) risulta essere un “consapevole” capovolgimento rispetto a quella stilnovista: al suo essere eterea si risponde con la massima materialità. Cecco infatti dichiara apertamente la sua anti-intellettualità negando qualsiasi richiamo spirituale; ma quello che più emerge è da una parte il conflitto, già presente in  S’i’ fosse foco, tra padri e figli, ma soprattutto l’elemento economico, a dimostrazione della raggiunta stabilità finanziaria raggiunta dal ceto mercantile fiorentino. La fonte è certamente la poesia goliardica, il lessico è realistico, le rime aspre, con un ritmo piuttosto marcato che dà vita ad un andamento piuttosto frantumato.  

 

 

IL FUTURISMO E LE AVANGUARDIE STORICHE

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Futurismo

Tra l’avvento della prima guerra mondiale ed il primo dopoguerra e oltre, si svilupparono in Europa una serie di movimenti culturali, i quali non si fermarono ad un unico genere, ma abbracciarono la quasi totalità sia delle arti che, più genericamente, del vivere.

Essi sono detti generalmente “avanguardia” a cui si aggiunge l’aggettivo storiche per differenziarle da quelle nate intorno al 1960 che prendono appunto il nome di neoavanguardie.

Se vi è una data alla quale possiamo fare riferimento per la nascita dei movimenti avanguardistici, essa è il 1907 e riguarda la pittura: a dipingere in modo completamente rivoluzionario rispetto ai canonici estetici allora esistenti (pur se non dobbiamo dimenticare che forme di modernità avevano avuto luogo sin dall’impressionismo) è Pablo Picasso, artista spagnolo, che con Les demoiselles d’Avignon, realizzato a Parigi, segna la rottura traumatica della raffigurazione tradizionale, rompendo la concezione dell’unico punto di vista prospettico, per dare la visione, tutta intellettuale, della resa simultanea di più punti di vista, con effetti spigolosi e piani taglienti.

In letteratura la avanguardia venne inaugurata dall’italiano Filippo Tommaso Marinetti.

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Filippo Tommaso Marinetti

Nato ad Alessandria d’Egitto da genitori italiani nel 1876, studia a Parigi, città che rimarrà per lui, nei primi anni, punto di riferimento culturale. Conosce la poesia simbolista francese e, una volta tornato in Italia, se ne fa banditore. Ma la sua fortuna avviene nel 1909, dove, nelle pagine della rivista parigina Le Figaro, pubblica il Manifesto del Futurismo. Il fatto che venga divulgato nelle pagine di un giornale francese, vuol dire dare a questa operazione valore internazionale. Qui è presentata nella versione italiana che lui stesso curò, nello stesso anno, nella rivista Poesia:

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La pagina de Le Figaro in cui venne pubblicato il Manifesto Futurista

MANIFESTO DEL FUTURISMO

  1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
  2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
  3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
  4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
  5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
  6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.
  7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.
  8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.
  9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
  10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
  11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne, canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche, le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano, le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.

Come si può notare il Manifesto ha un contenuto ideologico più che artistico: in esso vi è l’esaltazione della modernità, della macchina, della tecnica, della città industriale, della folla, delle rivoluzioni urbane; vuole inoltre celebrare gli istinti, i giovani, la danza, la gioia della distruzione, l’amore per la guerra, la velocità, l’aggressività, l’azione violenta, gli atteggiamenti militareschi, virili ed eroici, a cui, come corollario, segue il disprezzo della donna e del femminismo. Sul piano culturale ed artistico, mentre si propone provocatoriamente la distruzione della tradizione e del passato, (Uccidiamo il chiaro di luna!, dirà ancora Marinetti, in suo pamhlet del 1912) delle accademie, delle biblioteche, dei musei, delle città antiche e «venerate», si afferma un nuovo criterio di bellezza, da ritrovare nella velocità e nella macchina, nella tecnologia e nella industria e, dunque, nel moderno. Il moderno è, in quanto tale, estetico. La perentorietà delle dichiarazioni mira a stupire e a scandalizzare, a provocare un effetto di shock violento. Si tratta di uno stile-azione, di una scrittura che riproduce il gesto violento ed è dunque omogenea al proprio messaggio.

Tale ideologia deve quindi tradursi in programma:

MANIFESTO TECNICO DELLA LETTERATURA FUTURISTA

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  1. Bisogna distruggere la sintassi disponendo i sostantivi a caso, come nascono.
  2. Si deve usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all’io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all’infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l’elasticità dell’intuizione che la percepisce.
  3. Si deve abolire l’aggettivo, perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L’aggettivo, avendo in sé un carattere di sfumatura, è inconcepibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione.
  4. Si deve abolire l’avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l’una all’altra le parole. L’avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono.
  5. Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguito, senza congiunzione dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo-torpediniera, donna-golfo, folla-risacca, piazza-imbuto, porta-rubinetto. Siccome la velocità aerea ha moltiplicato la nostra conoscenza del mondo, la percezione per analogia diventa sempre più naturale per l’uomo. Bisogna dunque sopprimere il come, il quale, il così, il simile a. Meglio ancora, bisogna fondere direttamente l’oggetto coll’immagine che esso evoca, dando l’immagine in iscorcio mediante una sola parola essenziale.
  6. Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s’impiegheranno segni della matematica: + – x : = >

Questo manifesto viene pubblicato dopo 3 anni da quello del futurismo. Esso presenta un programma tecnico con proposte riguardanti lo stile, la sintassi, l’uso delle parole (distruzione della sintassi, verbi all’infinito, abolizione della punteggiatura ecc.) e un programma ideologico, che rivela compiutamente la poetica di Marinetti.
Il programma ideologico si suddivide in una parte distruttiva e in una costruttiva. La parte distruttiva comprende:

  • la critica della psicologia e del culto dell’interiorità (bisogna «distruggere nella letteratura l’“io”»);
  • la critica della sacralità dell’Arte, della sua autonomia, del suo valore supremo e separato, del Sublime estetico;
  • la critica dell’intelligenza e del calcolo razionale a cui viene contrapposta la «divina intuizione, dono caratteristico delle razze latine».

La parte costruttiva muove appunto dall’esaltazione del potere dell’intuizione e dell’immaginazione che, percependo le analogie fra fenomeni diversi, possono cogliere l’essenza della materia. Quest’ultima si esprime attraverso l’energia delle «forze cosmiche», che agisce nella natura, nel corpo umano e nella macchina. L’uomo stesso deve diventare sempre più espressione di tale energia, trasformandosi in macchina, in «uomo meccanico dalle parti cambiabili».
La connessione fra programma tecnico e programma ideologico è evidente: distruggendo la sintassi si distruggono i legami logici, con la conseguenza di porre in primo piano l’intuizione e l’immaginazione. Ne derivano però teorie niente affatto nuove e già messe in luce e praticate dal Simbolismo: l’esaltazione della analogia e della sinestesia, l’illusione di cogliere un significato universale, una supposta sostanza unica del tutto.
E’ evidente che da tale premesse il concetto di letteratura, come veniva ancora inteso, viene spazzato, annientato da un vero e proprio colpo di cannone, cannone descritto in modo nuovo, nel testo più esemplificativo di Marinetti stesso, in cui difficile è individuare (d’altra parte è nella loro stessa essenza tale soluzione) ciò e come dover leggere e/o recitare e/o guardare il testo:

LA BATTAGLIA DI ADRIANOPOLI

ogni  5  secondi   cannoni  da    assedio  sventrare
spazio  con  un  accordo   tam-tuuumb
ammutinamento  di   500    echi   per   azzannarlo
sminuzzarlo   sparpagliarlo   all´infinito
nel  centro  di  quei  tam-tuuumb
spiaccicati  (ampiezza  50  chilometri  quadrati)
balzare    scoppi    tagli      pugni      batterie    tiro
rapido    violenza     ferocia     regolarità    questo
basso   grave    scandere    gli    strani   folli  agita-
tissimi     acuti    della     battaglia     furia    affanno
orecchie                  occhi
narici                       aperti           attenti
forza   che    gioia    vedere    udire   fiutare   tutto
tutto    taratatatata    delle   mitragliatrici   strillare
a   perdifiato   sotto   morsi    shiafffffi    traak-traak
frustate        pic-pac-pum-tumb      bizzzzarrie
salti      altezza       200     m.     della        fucileria

Giù   giù   in    fondo   all’orchestra    stagni
diguazzare                        buoi       buffali
pungoli    carri     pluff    plaff                     impen-
narsi   di   cavalli  flic   flac   zing  zing sciaaack
ilari     nitriti     iiiiiii…   scalpiccii     tintinnii          3
battaglioni   bulgari   in   marcia   croooc-craaac

[ LENTO   DUE   TEMPI ]        Sciumi         Maritza
o    Karvavena    croooc-craaac   grida    delgli
ufficiali    sbataccccchiare  come   piatttti  d’otttttone
pan   di   qua    paack   di    là    cing   buuum
cing    ciak    [ PRESTO ]     ciaciaciaciaciaak
su    giù    là     là    intorno    in    alto   attenzione

sulla    testa     ciaack    bello                Vampe

vampe

vampe                                       vampe

vampe                                         vampe

vampe          ribalta   dei   forti   die-

vampe

vampe

tro  quel   fumo   Sciukri    Pascià    comunica   te-
lefonicamente   con   27   forti   in   turco   in    te-
desco     allò     Ibrahim    Rudolf    allò    allò
attori    ruoli                           echi       suggeritori
scenari      di    fumo     foreste
applausi   odore   di   fieno   fango   sterco   non
sento   più   i   miei   piedi   gelati   odore   di   sal-
nitro   odore   di   marcio                      Timmmpani
flauti    clarini    dovunque    basso    alto    uccelli
cinguettare  beatitudine   ombrie   cip-cip-cip   brezza
verde  mandre            don-dan-don-din-bèèè                  tam-tumb-
tumb tumb-tumb-tumb-tumb-tumb-
tumb        Orchestra                        pazzi   ba-
stonare   professori    d’orchestra   questi   bastona-
tissimi   suooooonare  suooooonare   Graaaaandi
fragori  non  cancellare   precisare    ritttttagliandoli
rumori     più     piccoli    minutisssssssimi   rottami
di   echi   nel   teatro   ampiezza   300    chilometri
quadri                                         Fiumi      Maritza
Tungia    sdraiati                              Monti    Ròdopi
ritti                               alture    palchi     logione
2000       shrapnels        sbracciarsi     esplodere
fazzoletti    bianchissimi    pieni    d’oro    Tumb-
tumb                     2000     granate  protese
strappare       con      schianti        capigliature
tenebre            zang-tumb-zang-tuuum
tuuumb    orchestra    dei   rumori    di   guerra
gonfiarsi    sotto   una   nota    di        silenzio
tenuta      nell’alto     cielo                   pal-
lone   sferico   dorato   sorvegliare     tiri     parco
aeroatatico     Kadi-Keuy
BILANCIO  DELLE  ANALOGIE

(1»   SOMMA )

Marcia    del    cannoneggiamento    futurista
colosso-leitmotif-maglio-genio-novatore-ottimismo
fame-ambizione     ( TERRIFICO  ASSOLUTO  SOLENNE EROICO      PESANTE   IMPLACABILE    FECONDANTE )
zang-tuumb tumb tumb

(2» SOMMA )

difesa    Adrianopli     passatismo      mi-
nareti    dello    scetticismo     cupole- ventri    dell’in-
dolenza   vigliaccheria   ci-penseremo-domani  non-
c’è-pericolo   non-è-possibile   a-che-serve    dopo-
tutto-me-ne-infischio      consegna     di     tutto     lo
stock    in   stazione-unica   =     cimitero

( 3» SOMA)

intorno   ad   ogni   obice-passo   del    co-
losso-accordo   cadere   del   maglio-creazione  del
genio-comando  correre  ballo   tondo   galoppante
di  fucilate    mitragliatrici    violini     monelli     odori-
di-bionda-trentenne    cagnolini     ironie    dei    critici
ruote   ingranaggi    grida   gesti    rimpianti   (ALLE-
GRO  AEREO  SCETTICO  FOLLEGGIANTE  AEREO
CORROSIVO   VOLUTTUOSO )

(4» SOMMA )

intorno  a  Adrianopoli   +  bombardamento
+ orchestra  +   passeggiata-del-colosso  +  offi-
cina  allargarsi  cerchi   concentrici  di  riflessi   plagi
echi   risate   bambine   fiori  fischi-di-vapore  attese
piume    profumi     fetori     angoscie   ( INFINITO
MONOTONO  PERSUASIVO  NOSTALGICO )

Questi  pesi  spessori  rumori  odori  turbini  moleco-
lari  catete   reti  corridoi  di  analogie   comcorrenze
e    sincronismi     offrirsi     offrirsi     offrirsi    offrirsi
in     dono     ai      miei     amici      poeti       pittori
musicisti       e      runositi     futuristi
zang-tumb-tumb-zang-zang-tuuumb   tatatatatatatata   picpacpam
pacpacpicpampampac           uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu

ZANG-TUMB
TUMB-TUMB
TUUUUUM

Il testo può considerarsi come una esemplificazione di quello che Marinetti aveva teorizzato nei due manifesti: in primo luogo l’importanza data alla grafica che permette di considerare il significante più importante del significato. Le parole in grassetto vogliono infatti rendere il “rumore” della guerra, così come le parole in carattere piccolissimo tendono a rendere l’idea di come i rumori bellici coprono totalmente quelli della natura. Il mettere in forma ascendente il termine “vampe” vuole significare l’ascendere dei fuochi, come il ritmo scandito dai sostantivi e dai verbi (tutti rigorosamente all’infinito) vogliono darci la velocità delle azioni militari, l’uso insistito dell’analogia, la presenza del + matematico.

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Un’altra immagine di Filippo Tommaso Marinetti

Il variegato mondo che circola intorno al futurismo, crea una serie di opere che, tutte derivanti da un superamento netto dell’estetica dannunziana e pascoliana, fiancheggianti temi e soluzioni futuriste, le “personalizzano” e le risolvono in modo originale:

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Corrado Govoni con ai lati sue due opere

CORRADO GOVONI: IL PALOMBARO

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L’opera s’ispira al paroliberismo marinettiano, ma:

  1. vi è un accentuata dimensione grafica, che prevale sulla parola;
  2. non vi è alcuna forma violenta, quanto piuttosto onirica;
  3. tale poesia grafica nella sua semplicità, nonostante le parole siano piuttosto forti, ci chiariscono la sua preistoria tra il Pascoli e i coevi crepuscolari.

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Aldo Palazzeschi

Anche Aldo Palazzeschi, con le sue raccolte Poemi e L’incendiario, ambedue del 1910, si avvicina al futurismo:

LA FONTANA MALATA

Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch…
È giù nel
cortile
la povera
fontana
malata;
che spasimo
sentirla
tossire.
Tossisce,
tossisce,
un poco
si tace…
di nuovo
tossisce.
Mia povera
Fontana,
il male
che hai
il cuore
mi preme.
Si tace,
non getta
più nulla.
Si tace,
non s’ode
rumore
di sorta,
che forse
che forse
sia morta?
Orrore!
Ah! No.
Rieccola
ancora
tossisce.
Clof, clop, cloch
cloffete, cloppete, clocchete
chchch…
La tisi
l’uccide.
Dio santo, quel suo
Eterno
Tossire
Mi fa
Morire,
un poco
va bene,
ma tanto…
che lagno!
Ma Habel!
Vittoria!
Andate,
correte,
chiudete
la fonte,
mi uccide
quel suo
eterno
tossire!
Andate,
mettete
qualcosa
per farla
finire
magari…
magari
morire.
Madonna!
Gesù!
Non più!
Non più.
Mia povera
fontana,
col male
che hai finisci,
vedrai,
che uccidi
me pure.
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete
clocchete
chchch…

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Ugo Nespolo: La fontana malata (1996)

In questa lirica, l’autore si propone di infrangere le regole della poesia tradizionale e lo fa, sul piano formale, con un trionfo di suoni, di onomatopee, di ritmi. In questo modo costruisce una specie di filastrocca, dove i numerosissimi versi di tre sillabe, quasi inesistenti nella poesia tradizionale, imitano i getti della fontana malata e mandano all’aria tutte le convenzioni e gli schemi del passato. Il poeta si prende gioco anche della musicalità malinconica di liriche celebri del suo tempo, come La pioggia nel pineto di D’Annunzio, alla quale sembra fare il verso, come un bambino dispettoso (tossisce, un poco si tace). Ne nasce un gioco esilarante e ingegnoso di suoni, ritmi, temi, che ben riflette il gusto dissacrante dei futuristi.

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Un’altra immagine di Aldo Palazzeschi

Ma ancora più dissacratoria ci appare E lasciatemi divertire!

 E LASCIATEMI DIVERTIRE!

 Tri, tri tri
Fru fru fru,
ihu ihu, ihu,
uhi uhi uhi.

Il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente.
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.

Cucù rurù,
rurù cucù,
cuccuccurucù!

Cosa sono queste indecenze?
Queste strofe bisbetiche?
Licenze, licenze,
licenze poetiche,
Sono la mia passione.

Farafarafarafa,
Tarataratarata,
Paraparaparapa,
Laralaralarala!

Sapete cosa sono?
Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la… spazzatura
delle altre poesie,

Bubububu,
fufufufu,
Friù!
Friù!

Se d’un qualunque nesso
son prive,
perché le scrive
quel fesso?

Bilobilobiobilobilo
blum!
Filofilofilofilofilo
flum!

Bilolù. Filolù,
U.

Non è vero che non voglion dire,
vogliono dire qualcosa.
Voglion dire…
come quando uno si mette a cantare
senza saper le parole.
Una cosa molto volgare.
Ebbene, così mi piace di fare.

Aaaaa!
Eeeee!
liii!
Qoooo!
Uuuuu!
A! E! I! O! U!

Ma giovinotto,
diteci un poco una cosa,
non è la vostra una posa,
di voler con cosi poco
tenere alimentato
un sì gran foco?

Huisc… Huiusc…
Huisciu… sciu sciu,
Sciukoku… Koku koku,
Sciu
ko
ku.

Come si deve fare a capire?
Avete delle belle pretese,
sembra ormai che scriviate
in giapponese,

Abi, alì, alarì.
Riririri!
Ri.

Lasciate pure che si sbizzarrisca,
anzi, è bene che non lo finisca,
il divertimento gli costerà caro:
gli daranno del somaro.

Labala
falala
falala
eppoi lala…

e lala, lalalalala lalala.

Certo è un azzardo un po’ forte
scrivere delle cose così,
che ci son professori, oggidì,
a tutte le porte.

Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!

Infine,
io ho pienamente ragione,
i tempi sono cambiati,
gli uomini non domandano più nulla
dai poeti:
e lasciatemi divertire!

Il testo palazzeschiano qui va oltre il precedente perché a ben guardare la vera poesia è quella riportata da semplici suoni, dalle figure foniche, non usate qui in senso onomatopeico, come in fondo lo erano ancora in La fontana malata, ma come un vero e proprio nonsense, significante puro, che nulla significa e nulla insegna. La carica eversiva è stata ben colta da Marinetti stesso: “Coll’apparente incoscienza di un bambino, guidato però da un fiuto sicuro, il poeta Palazzeschi ha insegnato all’Italia a ridere allegramente dei professori, infischiandosi, meglio e più di ogni altro, di tutte le regole, di tutti i divieti stilistici e linguistici. E lasciatemi divertire! è il più bel trattato d’arte poetica, e insieme lo schiaffo più poderoso che abbiano mai ricevuto i passatisti d’Italia”.

Una simile riflessione la troviamo in un’altra celeberrima poesia di Aldo Palazzeschi:

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Anna Moro: Illustrazione per “Chi sono?”

CHI SONO?

Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
“follia”.

Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
“malinconia”.

Un musico, allora?

Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
“nostalgia”.

Son dunque… che cosa?

Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.

Chi sono?

Il saltimbanco dell’anima mia.

Sin dall’incipit ciò che viene messo in discussione è proprio l’essere poeta. Quale ruolo ha oggi la poesia? Superata l’idea di poeta vate, non rimane che costruirla in negativo, dire che non ha più senso, alcun valore.

Una volta costretta a farsi interprete delle velleità piccolo borghesi incarnate dalle pose dannunziane o dal buonismo pascoliano, per ribellarsi bisogna farne terra bruciata. Marinetti dà ancora ad essa un ruolo e non per niente finirà con essere inglobato dal sistema tanto da diventare Accademico d’Italia per volontà mussoliniana. Ben più problematico il discorso di Aldo Palazzeschi: partito dal Crepuscolarismo, affiancherà, con le raccolte poetiche intorno agli anni Dieci del secolo, il futurismo, ma dando ad esso quella nota di ilarità che al fondatore, certamente, mancava.

Ma l’ilarità di Palazzeschi sfocia poi in un discorso che, condiviso dai crepuscolari Moretti, Corazzini e Gozzano, rimette in gioco il ruolo di poeta in un momento storico in cui anche la parola intellettuale o sta abdicando al suo ruolo di “illuminare” la mente umana: la deflagrazione della prima guerra mondiale ne è un esempio, come ne è un esempio la deflagrazione verbale, sonora, visiva che ne consegue.

In conclusione si può certamente dire che il futurismo rappresentò una vera e propria deflagrazione culturale a cui guardò con interesse anche Antonio Gramsci. Egli vedeva in Marinetti e affini l’esplicitarsi di una possibile rivoluzione “culturale” antiborghese (pur se vicini all’idea superomistica dannunziana sono da lui lontanissimi riguardo l’estetismo): naturalmente interventisti i futuristi  finiro per compromettersi con i nascenti movimenti squadristi e per essere inglobati dal fascismo.

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Il verbo futurista fu tuttavia portato in giro per il mondo dallo stesso Marinetti ed ebbe varie conseguenze.

Guillaume_Apollinaire-1280x720.jpgIl futurismo italiano, come detto, nacque in Francia su Le Figaro, ed è proprio in questa terra che ebbe uno dei più originali ed importanti poeti del primo Novecento, Guillaime Apollinaire, pseudonimo per Wilhelm Apollinaris de Kostrowitzky, nato nel 1880 a Roma da nobildonna polacca e ufficiale borbonico. Dopo aver viaggiato per le capitali europee si stabilì a Parigi. Qui visse intensamente la cultura della capitale francese intervenendo a favore delle avanguardie artistiche. Grazie all’incontro con Marinetti, pubblicò L’antitradition futuriste (1913) diventando il protagonista del futurismo in Francia. Partecipò alla guerra, rimanendo ferito alla testa. Nel 1918 fu stroncato dalla peste spagnola.

Le sue opere più importanti sono poetiche Alcools (1913) e Calligrammes (1918). E’ in quest’ultima che vediamo le più ardite soluzioni formali come Piove:

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Piovono voci di donna come se fossero morte anche nel ricordo. Siete anche voi che piovete meravigliosi incontri della mia vita o gocciolette. E quelle nuvole impennate cominciano a nitrire tutto un universo di città auricolari. Ascolta se piove mentre il rimpianto e lo sdegno piangono una musica antica Ascolta cadere i legami che ti trattengono in alto e in basso.

Dove le parole vengono disposte come fossero una serie di gocce cadenti dall’alto in basso, come fa appunto la pioggia.

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Riconosciti.  Questa adorabile persona sei tu  sotto il grande cappello da canottiere. Occhio, naso , la bocca.  Ecco l’ovale del tuo viso. Il tuo collo bellissimo. Ecco infine l’immagine non completa del tuo busto adorato visto come attraverso una nuvola. Un po’ più basso è il tuo cuore che batte

Poesia scritta per una donna Lou, di cui ne era certamente innamorato, sebbene la stessa, Louise de Coligny-Chatillon, prediligesse l’amore libero ad un serio rapporto.

Vediamo proprio in questa produzione di Apollinaire quell’operazione che in Italia era già stata fatta da Govoni nel 1915. Si tratta anche qui di spezzare quelle divisioni che rendevano i generi culturali distinti e non comunicanti: l’istantaneità futurista richiedeva parola e immagini in uno stesso tratto, facendo sì che il fruitore fosse coinvolto sinesteticamente in una immediata complementarietà sensoriale. 

Cubofuturismo

In Russia, su sollecitazione dell’intellettuale italiano, nacque, un anno dopo,  il cubofuturismo. Esso riprende l’idea di un arte “rivoluzionaria” che esprima le grandi trasformazioni sociali allora operanti in Russia; ma proprio per questo essa accompagnerà l’esperienza della Rivoluzione del ’17.

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Vladimir Majakovskj

Il più importante scrittore di tale espressione culturale è Vladimir Majakovskij (1893 – 1930), per il quale l’espressione poetica deve propagandare e diffondere gli ideali rivoluzionari. Infatti s’iscrive sin da giovane al partito bolscevico (quand’era ancora illegale) e aderisce da subito al movimento futurista cui dà espressione con la tragedia Vladimir Majakovskij. Allo scoppio della Rivoluzione, nel 1917, si dedica ad opere fortemente impegnate come Mistero buffo del 1918 e il poema celebrativo Lenin (1924). L’involuzione della spinta rivoluzionaria, che verrà testimoniata dall’opera La cimice (1928), l’arrivo di Stalin, l’esigenza da parte del potere di una cultura allineata, lo porteranno al suicidio nel 1930.

Secondo Majakovskij due sono gli obiettivi che l’intellettuale russo deve perseguire: l’abbattimento delle strutture politiche aristocratiche della Russia del tempo e il rinnovarsi completo della letteratura che tale abbattimento deve accompagnare. Per questo in lui c’è il rifiuto della guerra in quanto tale e l’esaltazione, invece, dell’atto rivoluzionario.

hDyOVIo9OBE.jpgIntellettuali futuristi russi

SCHIAFFO AL GUSTO DEL PUBBLICO

A chi legge il nuovo, il primigenio, l’imprevisto.
Soltanto noi siamo il volto del nostro tempo. Il corno del tempo risuona nella nostra arte verbale.
Il passato è angusto. L’accademia e Puskin sono più incomprensibili dei geroglifici.
Gettare Puskin, Dostoevskij, Tolstoj, ecc., ecc., dalla nave del nostro tempo.
Chi non dimenticherà il primo amore non conoscerà mai l’ultimo.
Chi, credulo, concederà l’ultimo amore alla profumata libidine di Balmont? Si riflette forse in essa l’anima virile del giorno d’oggi?
Chi, pusillanime, si rifiuterà di strappare la corazza di carta dal nero frac del guerriero Brjusov? O forse si riflette in essa un’aurora di inedite bellezze?
Lavatevi le mani, sudice della lurida putredine dei libri scritti da questi innumerevoli Leonid Andreev.
A tutti questi Maksim Gorkij, Kuprin, Blok, Sologub, Remizov, Avercenko, Cernyj, Kuzmin, Buni, ecc., ecc., occorre solo una villa sul fiume. Questa ricompensa riserba il destino ai sarti.
Dall’alto dei grattacieli scorgiamo la loro nullità!
Ordiniamo che si rispetti il diritto dei poeti:

  1. ad ampliare il volume del vocabolario con parole arbitrarie e derivate (neologismi);
  2. a odiare inesorabilmente la lingua esistita prima di loro
  3. a respingere con orrore dalla propria fronte altèra la corona di quella gloria a buon mercato, che vi siete fatta con le spazzole del bagno;
  4. a stare saldi sullo scoglio della parola “noi” in un mare di fischi e indignazione.

E, se nelle nostre righe permangono tuttora i sudici marchi del vostro “buon senso” e “buon gusto”, in esse tuttavia già palpitano, per la prima volta, i baleni della nuova bellezza futura della parola autonoma (autoattorta)

Lo schiaffo al gusto del pubblico nasce certamente su sollecitazione del Manifesto futurista italiano. Pubblicato nel 1912 riprese, infatti, il gusto iconoclasta per la distruzione dell’arte del passato, rappresentata dai grandi autori del passato da Puskin a Dostoevskij per rifondare un arte nuova, capace di raffigurare il tempo contemporaneo. Troviamo tuttavia più che un manifesto ideologico e “puramente tecnico” un’attenzione particolare alla parola, consapevoli che è la parola, nuova inusuale a determinare il dettato poetico, autoattorta infatti indica la parola poetica.

L’impegno di Majakovskij  a far combaciare dettato poetico e slancio rivoluzionario si può commisurare nel poemetto Lenin, dedicato appunto al grande leader del bolscevismo russo:

LA MORTE DEL COMPAGNO LENIN

Ieri alle sei e cinquanta minuti,
è morto il compagno Lenin.

Ciò che ha visto quest’anno
cent’anni insieme non riusciranno a vedere.
Il giorno entrerà nella dolente memoria
dei secoli. Lo sgomento strappò un gemito al ferro:
tra i bolscevichi passò il singhiozzo
della cupa oppressione e dalle viscere li sconvolse.
Come e quando Lenin si spense?

Sulle strade e sui vicoli
navigava il Grande Teatro.
Simile a un catafalco.

La gioia si ritira come una lumaca.
Follemente corre il terrore. Nè sole nè ghiaccio,
soltanto neve nera,
nera che penetra ogni cosa
attraverso la carta dei giornali.

La notizia colpì l’operaio al tornio
come una fucilata;
come un bicchiere rovesciato di colpo sulla macchina
furono le sue lacrime.
E i contadini
che cento volte la morte
avevano fissato negli occhi,
si vergognavano del pianto davanti alle donne,
ma li tradiva l’impronta
della mano terrosa sulla guancia.

E lui che portano alla stazione
per la città che egli strappò ai signori.
La strada come un’aperta ferita
tanto dolore e in essa e tanto geme.
Qui ogni pietra conosce Lenin
fin dai primi furiosi assalti
dell’ottobre. Qui tutto ciò
di cui le bandiere sono simbolo
è stato pensato da Lenin. Qui ogni torre
ha udito la sua voce
e con lui sarebbe balzata nel fuoco. Qui
tutti gli operai conoscono Lenin:
a lui offrirono i cuori come rami di sempre verdi
gettati sulla via.

Egli guidava alla lotta prevedendo la vittoria,

egli portò i proletari al potere.
Qui il contadino
scrisse il nome di Lenin nel suo cuore
con più venerazione
che per i santi del proprio paese
perchè Lenin
comandò di chiamare nostra la terra,
la terra che gli avi fustigati
sognavano ancora nella tomba.

lenin.jpgLenin

E’ qui riportata la pare dedicata alla morte di Lenin. Il poeta usa l’iperbole per descrivere il capo rivoluzionario e lo fa attraverso uno stile che potremo definire, più che futuristico, certamente epico. La successione dei versi, per lo più in successione paratattica, tuttavia, non fanno a meno di ardite similitudini:  La gioia si ritira come una lumaca oppure come un bicchiere rovesciato di colpo sulla macchina furono le sue lacrime a determinare sia il senso quasi d’incredulità, che quello di dolore, accompagnato tuttavia dalla consapevolezza di esser stati liberati. Sebbene sia Lenin il protagonista del poemetto, sono i bolscevichi ad essere in primo piano che accompagnano e piangono verso l’ultima dimora il loro eroe. 

LA GUERRA E’ DICHIARATA

«Edizione della sera! Della sera! Della sera!
Italia! Germania! Austria!»
E sulla piazza, lugubremente listata di nero,
si effuse un rigagnolo di sangue purpureo!

Un caffè infranse il proprio muso a sangue,
imporporato da un grido ferino:
«Il veleno del sangue nei giuochi del Reno!
I tuoni degli obici sul marmo di Roma!»

Dal cielo lacerato contro gli aculei delle baionette
gocciolavano lacrime di stelle come farina in uno staccio,
e la pietà, schiacciata dalle suole, strillava:
«Ah, lasciatemi, lasciatemi, lasciatemi!»

I generali di bronzo sullo zoccolo a faccette
supplicavano: «Sferrateci, e noi andremo!»
Scalpitavano i baci della cavalleria che prendeva commiato,
e i fanti desideravano la vittoria-assassina.

Alla città accatastata giunse mostruosa nel sogno
la voce di basso del cannone sghignazzante,
mentre da occidente cadeva rossa neve
in brandelli succosi di carne umana.

La piazza si gonfiava, una compagnia dopo l’altra,
sulla sua fronte stizzita si gonfiavano le vene.
«Aspettate, noi asciugheremo le sciabole
sulla seta delle cocottes nei viali di Vienna!»

Gli strilloni si sgolavano: «Edizione della sera!
Italia! Germania! Austria!»
E dalla notte, lugubremente listata di nero,
scorreva, scorreva un rigagnolo di sangue purpureo.

Poesia  nella quale Majakovskij contrappone all’eccitazione per la guerra la sua inaudita barbarie. Si osservi con quanta capacità agli strilli iniziali dei banditori di riviste risponda il rigagnolo di sangue, la ferinità del popolo che schiaccia la libertà sotto le scarpe e ancora le immagini delle baionette, brandelli di carne per terminare con il lancinante scorrere di sangue. Quanto lontana “la guerra sola igiene del mondo” di marinettiana memoria! Qui Majakovskij vuole denunciare come dietro ogni guerra ci siano interessi imperialistici e lo fa con una serie d’incredibili analogie attraverso le quali, con forza invitano ad una lettura politica del testo, dedicata cioè a quel popolo che non deve ancora una volta cadere nella trappola che il potere, generalmente parlando, gli ha preparato.

Guardias_Rojos_junto_al_palacio_de_invierno,_otoño_de_1917.jpgLe guardie rosse al palazzo d’inverno

Velimir Chlebnikov
Altro importantissimo poeta russo futurista è Velimir Chlebnikov (1885 – 1922). Laureato in matematica egli è il teorizzatore dello zaum, tecnica attraverso la quale si riesce a creare nuove parole e nuovi suoni frutto di un processo mentale (transmentale) che egli associa alla logica cognitiva matematica. “Poeta per i poeti” come lo definì Majakovskji fece una vita errabonda e nomade, finendo per morire in giovane età per l’avvenuta paralisi e inedia.

IMPARARE LE PAROLE

Preposto al servizio delle stelle,
io giro, come una ruota,
che s’invola all’istante sull’abisso,
che finisce sull’orlo del precipizio,
io imparo le parole.

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Come possiamo notare da questo brevissimo testo il poeta, al servizio dell’immaginazione, in uno spazio che varia sull’abisso e sul suo limite cerca e impara parole nuove per il suo nuovo dettato poetico (processo transmentale).

BOBEÒBI SI CANTAVANO LE LABBRA

Bobeòbi si cantavano le labbra
Veeòmi si cantavano gli sguardi
Pieéo si cantavano le ciglia.
Lieeéi si cantava l’aspetto
Gsì gsì gséo si cantava la catena.
Così, sulla tela di alcune corrispondenze
fuori della continuità viveva il Volto.

Poesia del 1909, in anticipo sullo schiaffo ma proprio per questo assolutamente geniale: sentiamo in essa un’eco simbolista, determinata dall’idea di corrispondenze di baudeleriana memoria cui corrispondono suoni dell’alfabeto russo (qui, chiaramente non riprodotti) associati a parti del volto allo stesso modo con cui Rimbaud si riferiva a suoni vocalici associati ad immagini, il tutto riportato all’interno di una scomposizione del volto che sembra a sua volta rimandare alle esperienze dell’avanguardia pittorica cubista di Picasso. In un breve testo l’intera rivoluzione culturale del Novecento.  

Dadaismo

Il dadaismo nasce a Zurigo nel ’16 da Tristan Tzara. Questo movimento si caratterizza per il rifiuto della politica ed il rifiuto del modernismo.

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MANIFESTO DADA

Per lanciare un manifesto bisogna volere: A, B, C, scagliare invettive contro 1, 2, 3, eccitarsi e aguzzare le ali per conquistare e diffonder grandi e piccole a, b, c, firmare, gridare, bestemmiare, imprimere alla propria prosa l’accento dell’ovvietà assoluta, irrifiutabile, dimostrare il proprio non-plus-ultra e sostenere che la novità somiglia alla vita tanto quanto l’ultima apparizione di una cocotte dimostri l’essenza di Dio.

Scrivo un manifesto e non voglio niente, eppure certe cose le dico, e sono per principio contro i manifesti, come del resto sono contro i principi (misurini per il valore morale di qualunque frase). Scrivo questo manifesto per provare che si possono fare contemporaneamente azioni contradittorie, in un unico refrigerante respiro; sono contro l’azione, per la contraddizione continua e anche per l’affermazione, non sono né favorevole né contrario e non dò spiegazioni perchè detesto il buon senso.

DADA non significa nulla.

Se lo si giustifica futile e non si vuol perdere tempo per una parola che non significa nulla. Il primo pensiero che ronza in questi cervelli è di ordine batteriologico: trovare l’origine etimologica, storica, o per lo meno psicologica. Si viene a sapere dai giornali che i negri Kru chiamano la coda di una vacca sacra DADA. Il cubo e la madre di non so quale regione italiana: DADA. Il cavallo a dondolo, la balia, doppia conferma russa e romena: DADA. Alcuni giornalisti eruditi ci vedono un arte per i neonati, per latri santoni, versione attuale di Gesùcheparlaaifanciulli, è il ritorno ad un primitivismo arido e chiassoso, chiassoso e monotono. Non si può costruire tutta la sensibilità su una parola, ogni costruzione converge nella perfezione che annoia, idea stagnante di una palude dorata, prodotto umano relativo.

L’opera d’arte non deve rappresentare la bellezza che è morta. Un’opera d’arte non è mai bella per decreto legge, obiettivamente, all’unanimità. La critica è inutile, non può esistere che soggettivamente, ciascuno la sua, e senza alcun carattere di universalità. Si crede forse di aver trovato una base psichica comune a tutta l’umanità? Come si può far ordine nel caos di questa informa entità infinitamente variabile: l’uomo? Parlo sempre di me perché non voglio convincere nessuno, non ho il diritto di trascinare gli altri nella mia corrente, non costringo nessuno a seguirmi e ciascuno si fa l’arte che gli pare.

Così nacque DADA da un bisogno d’indipendenza. Quelli che dipendono da noi restano liberi. Noi non ci basiamo su nessuna teoria. Ne abbiamo abbastanza delle accademie cubiste e futuriste: laboratori di idee formali: Forse che l’arte si fa per soldi e per lisciare il pelo dei nostri cari borghesi? Le rime hanno il suono delle monete. Il ritmo segue e il ritmo della pancia vista di profilo.

Tutti i gruppi di artisti sono finiti in banca, cavalcando differenti comete. Una porta aperta ha la possibilità di crogiolarsi nel caldo dei cuscini e nel cibo. Il pittore nuovo crea un mondo i cui elementi sono i suoi stessi mezzi, un’opera sobria e precisa, senza oggetto. L’artista nuovo si ribella: non dipinge più (riproduzione simbolica e illusionistica) ma crea direttamente con la pietra, il legno, il ferro, lo stagno, macigni, organismi, locomotive che si possono voltare da tutte le parti, secondo il vento limpido della sensazione del momento.

Qualunque opera pittorica o plastica è inutile; che almeno sia un mostro capace di spaventare gli spiriti servili, e non la decorazione sdolcinata dei refettori degli animali travestiti da uomini, illustrazioni della squallida favola dell’umanità .Un quadro è l’arte di fare incontrare due linee, parallele per constatazione geometrica, su una tela, davanti ai nostri occhi, secondo la realtà di un mondo basato su altre condizioni e possibilità. Questo mondo non è specificato, né definito nell’opera, appartiene alle sue innumerevoli variazioni allo spettatore.

La spontaneità dadaista.

L’arte è una cosa privata. L’artista lo fa per se stesso. L’artista, il poeta, apprezza il veleno della massa che si condensa nel caporeparto di questa industria. E’ felice quando si sente ingiuriato: una prova della sua incoerenza. Abbiamo bisogno di opere forti, dirette e imcomprese, una volta per tutte. La logica è una complicazione. La logica è sempre falsa. Tutti gli uomini gridano: c’è un gran lavoro distruttivo, negativo da compiere: spazzare, pulire. Senza scopo né progetto alcuno, senza organizzazione: la follia indomabile, la decomposizione. Qualsiasi prodotto del disgusto suscettibile di trasformarsi in negazione della famiglia è DADA; protesta a suon di pugni di tutto il proprio essere teso nell’azione distruttiva: DADA; presa di coscienza di tutti i mezzi repressi fin’ora dal senso pudibondo del comodo compromesso e della buona educazione: DADA ; abolizione della logica; belletto degli impotenti della creazione: DADA ; di ogni gerarchia ed equazione sociale di valori stabiliti dai servi che bazzicano tra noi: DADA ; ogni oggetto, tutti gli oggetti, i sentimenti e il buoi, le apparizioni e lo scontro inequivocabile delle linee parallele sono armi per la lotta: DADA ; abolizione della memoria: DADA ; abolizione dell’archeologia: DADA ; abolizione dei profeti: DADA ; abolizione del futuro: DADA ; fede assoluta irrefutabile inogni Dio che sia il prodotto immediato della spontaneità: DADA .”

74.49-d1-2_o2.jpgTristan Tzara

Egli è animato dall’idea che l’arte sia un prodotto cosmopolita concepito in chiave ludica. L’arte, infatti, per Tzara, è il prodotto della spontaneità, della primitività creatrice, della libertà, dell’attimo immediato e aleatorio. Ciò porta l’artista dada a rifiutare qualsiasi logica dell’espressione e della comunicazione (dada, infatti, non significa nulla). Pertanto i prodotti artistici sono frutto di giochi verbali, onomatopee, non sense. Essi cioè rendono attuale l’idea della “sregolatezza” di Rimbaud: per questo più che le opere artistiche sono importanti i gesti provocatori.

PER FARE UNA POESIA DADAISTA

Prendete un giornale.
Prendete un paio di forbici.
Scegliete nel giornale un articolo che abbia lunghezza
che voi dare alla vostra poesia.
Ritagliate l’articolo.
Tagliate ancora con cura ogni parola che forma tale articolo
E mettete tutte le parole in un sacchetto.
Agitate dolcemente.
Tirate fuori le parole una dopo l’altra, disponendole nel-
l’ordine con cui le estrarrete.
Copiatele coscienziosamente.
La poesia vi rassomiglierà.
Ed eccovi diventato uno scrittore infinitamente originale e
fornito di una sensibilità incantevole, benché, s’intende, in-
compresa dalla gente volgare.

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E’ una poesia programmatica, cioè una poesia nella quale Tzara illustra il modo attraverso cui costruire un testo. Dice il critico delle avanguardie storiche De Micheli riguardo a Per fare una poesia dadaista, che essa rappresenta: “l’aspirazione dei dadaisti verso una società che non fosse soggetta alle regole stabilite da una società sgradevole e nemica dell’uomo: regole politiche, morali, ma anche artistiche. Questa poetica infine era ancora un “gesto”, apparteneva a quei modi energici, intransigenti, esclusivi coi quali Dada dava battaglia alla mentalità piccolo borghese, accademica, codina, che s’annidava spesso anche tra quegli artisti che si credevano all’avanguardia”

Il surrealismo nasce in Francia nel ’24 e dichiara, nel suo primo manifesto, il rifiuto per ogni tipo di realismo.

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MANIFESTO DEL SURREALISMO

La sola parola libertà è tutto ciò che ancora mi esalta. La credo atta ad alimentare, indefinitamente, l’antico fanatismo umano. Risponde senza dubbio alla mia sola aspirazione legittima. Tra le tante disgrazie di cui siamo eredi, bisogna riconoscere che ci è lasciata la MASSIMA LIBERTA’ dello spirito. Sta a noi non farne cattivo uso. Ridurre l’immaginazione in schiavitù, fosse anche a costo di ciò che viene chiamato sommariamente felicità, è sottrarsi a quel tanto di giustzia suprema che possiamo trovare in fondo a noi stessi. La sola immaginazione mi rende conto di ciò che PUO’ ESSERE,  e questo basta a togliere un poco il terribile interdetto; basta, anche, perchè io mi abbandoni ad essa senza paura di essere tratto in inganno (come se fosse possibile un inganno maggiore). Dove comincia a diventare nociva e dove si ferma la sicurezza dello spirito? Per lo spirito, la possibiltà di errare non è piuttosto la contingenza del bene?

Resta la follia, la follia “da rinchiudere”, come è stato detto giustamente. Questa o l’altra…Ognuno sa infatti che i pazzi devono il loro internamento ad un certo numero di azioni legalmente reprensibili, e che, in mancanza di queste azioni, la loro libertà (quello che si può vedere della loro libertà) non può essere messa in causa. Che essi siano, in qualche misura, vittime della loro immaginazione, sono pronto a concederlo, nel senso che essa li spinge all’inosservanza di certe regole, fuori delle quali il genere si sente leso, come ogni uomo sa a proprie spese. Ma il profondo distacco che dimostrano nei confronti della nostra critica e persino dei diversi castighi che vengono loro inflitti, lascia supporre che attingano un grande conforto dall’immaginazione, che apprezzino abbastanza il loro delirio per sopportare che sia valido soltanto per loro. E, in effeti, le allucinazioni, le illusioni, eccetera, sono una fonte non trascurabile di godimenti………

Viviamo ancora sotto il regno della logica: questo, naturalmente, è il punto cui volevo arrivare. ma ai giorni nostri, i procedimenti logici non si applicano più se non alla soluzione di problemi di interesse secondario. Il razionalismo assoluto che rimane di moda ci permette di considerare soltanto fatti strettamente connessi alla nostra esperienza. I fini logici, invece, ci sfuggono. Inutile aggiungere che l’esperienza stessa si è vista assegnare dei limiti. Gira dentro una gabbia dalla quale è sempre più difficile farla uscire. Anch’essa poggia sull’utile immediato, ed è sorvegliata dal buon senso. In nome della civiltà, sotto pretesto di progresso, si è arrivati a bandire dallo spirito tutto ciò che, a torto o a ragione, può essere tacciato di superstizione, di chimera; a proscrivere qualsiasi modo di ricerca della verità che non sia conforme all’uso. Si direbbe che si debba a un caso fortuito se di recente è stata riportata alla luce una parte del mondo intellettuale, a mio parere di gran lunga la più importante, di cui si ostentava di non tenere più conto. Bisogna rendere grazie alle scoperte di Freud. In forza di queste scoperte, si delinea finalmente una corrente d’opinione grazie alla quale l’esploratore umano potrà spingere più avanti le proprie investigazioni, sentendosi ormai autorizzato a non considerare soltanto le realtà sommarie. L’immaginazione è forse sul punto di riconquistare i propri diritti……….

L’uomo propone e dispone. Sta soltanto in lui appartenersi interamente, cioè mantenere allo stato anarchico la banda di giorno in giorno più temibile dei suoi desideri. La poesia glielo insegna. Essa porta in se il compenso perfetto delle miserie che sopportiamo. Può essere anche un’ordinatrice se soltanto, sotto il colpo di una delusione meno intima, ci lasciamo andare a prenderla sul tragico. Venga un tempo in cui essa decreti la fine del denaro e spezzi da sola il pane del cielo per la terra! Ci saranno ancora delle assemblee sulle pubbliche piazze, e dei MOVIMENTI cui non avete sperato di prendere parte. Addio selezioni assurde, sogni d’abisso, rivalità, lunghe pazienze, fuga delle stagioni, ordine artificiale delle idee, rampa del pericolo, tempo per tutto! Che ci si dia soltanto la pena di PRATICARE la poesia. Non sta a noi, che già ne viviamo, cercare di far prevalere quel che ci sembra di essere riusciti a scoprire fin qui!………..

Soupault ed io designammo col nome di SURREALISMO il nuovo modo di espressione pura che avevamo a nostra disposizione, e che eravamo impazienti di trasmettere ai nostri amici. Credo che oggi non sia più necessario tornare su questa parola………..

Bisognerebbe essere in mala fede per contestare il diritto che abbiamo di usare la parola SURREALISMO nel senso particolararissimo in cui l’intendiamo perchè è chiaro che prima di noi questa parola non aveva avuto fortuna. La definisco dunque una volta per tutte.

SURREALISMO, n. m. Automatismo tipico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmete, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale.

ENCICL. Filos. Il surrealismo si fonda sull’idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme d’associazione finora trascurate, sull’onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita. Hanno fatto atto di SURREALISMO ASSOLUTO Aragon, Baron, Boiffard, Breton, Carrive, Crevel, Delteil, Desnos, Eluard, Gérard, Limbour, Malkine, Morise, Naville, Noll, Péret, Picon, Soupault e Vicrat.”

A-picture-of-André-Breton..jpgAndré Breton

Dal manifesto si evince che il surrealismo nega qualsiasi rapporto con la razionalità; viene infatti reciso ogni legame logico frutto di un pensiero determinato. Esso, sottolineando l’importanza della scoperta dell’inconscio da parte di Freud, intende l’arte come registrazione dei moti psichici inconsci dell’individuo (artista), infatti vede l’inconscio come il luogo dell’autentico, della libertà, dell’assenza delle contraddizioni e tesoro d’immagini e associazioni assolutamente originali. In questo senso il surrealismo elabora, per la letteratura, il concetto di scrittura automatica. Tuttavia essa non ha nulla a che fare con il non-sense dadaista: l’autore surrealista ha coscienza che le parole hanno un senso, suo compito sarà quello di conservarlo e rendere “visionariamente” intuibile l’inconscio del poeta.

Non è un caso che il suo fondatore André Breton (1896 – 1966) ebbe con la neuropsichiatria una fecondo rapporto: studiata all’Università di Parigi, durante la guerra prestò servizio presso ospedali di psichiatrici. La sua intuizione fu quella di coniugare la dissociazione psichica ed il flusso di coscienza alle avanguardie culturali del tempo, fondando appunto, insieme ad altri intellettuali francesi, il movimento del surrealismo. 

Predicando in un certo qual modo la piena libertà d’espressione e quindi il concetto più esteso, se si vuole, della libertà, il movimento non poteva non avere rapporti con i movimenti politici, ma furono rapporti sempre difficili. Breton si iscrisse al Partito Comunista, ma ne uscì nel 1933.

LA STRADA DI SAN ROMANO

La poesia si fa in un letto come l’amore
le sue lenzuola sfatte sono l’aurora delle cose
la poesia si fa nei boschi

Ha lo spazio che le occorre
non questo ma quello che condizionano

                    l’occhio del nibbio
                    la rugiada sull’equiseto
                    il ricordo di una bottiglia di Traminer appannata su un vassoio d’argento
                    un’alta colonna di tormalina sul mare
                    e la strada dell’avventura mentale
                    che sale a picco
                    si ferma e subito s’ingarbuglia

Non è cosa da gridare dai tetti
È sconveniente lasciare la porta aperta
o chiamare dei testimoni

                    I banchi di pesci le siepi di cinciallegre
                    i binari all’entrata di una grande stazione
                    i riflessi delle due rive
                    i solchi del pane
                    le bolle del ruscello
                    i giorni del calendario
                    l’iperico

l’atto d’amore e l’atto poetico
sono incompatibili
con la lettura del giornale ad alta voce

                    Il senso del raggio di sole
                    il luccichio azzurro che rilega i colpi d’ascia del taglialegna
                    il filo dell’aquilone a forma di cuore o di nassa
                    il battito ritmico della coda dei castori
                    la diligenza del lampo
                    il lancio di confetti dall’alto di vecchie scalininate
                    la valanga

La camera degli incantesimi
no signori non si tratta dell’ottava Camera
né dei vapori della camerata la domenica sera

                    Le figure di danza eseguite in trasparenza sopra gli stagni
                    la delimitazione di un corpo di donna contro il muro al lancio dei coltelli
                    le volute chiare del fumo
                    la curva della spugna delle Filippine
                    le gemme del serpente corallo
                    il varco dell’edera tra le rovine
Lei ha tutto il tempo davanti a sé

La stretta poetica come la stretta carnale
finché dura
impedisce le prospettive di miseria del mondo

11216632_photo-portable-jj-004.jpgJerome Brian: ritratto di André Breton

Il testo poetico inizia con un enunciazione associando l’atto creativo come atto erotico. E’ evidente come la scoperta surrealista di Freud debba in qualche modo necessariamente riferirsi al sesso. Circolarmente la poesia, come detto inizia con l’immagine di poesia simile ad un atto sessuale  (La poesia si fa in un letto come l’amore le sue lenzuola sfatte sono l’aurora delle cose la poesia si fa nei boschi) e finisce nel ribadire l’identità dell’atto poetico con lo stesso atto fisico La stretta poetica come la stretta carnale finché dura impedisce le prospettive di miseria del mondo). Al centro lo spazio poetico/sessuale frutto di una potente immaginazione individuale che rinnega la razionalità o qualsiasi riferimento al reale, descritto attraverso un rapporto di pura e sola analogia,  (l’atto d’amore e l’atto poetico sono incompatibili con la lettura del giornale ad alta voce… impedisce le prospettive del mondo) infatti l’atto d’amore e poetico non si delimitano spazialmente né temporalmente (ha lo spazio che le occorre… ha tutto il tempo davanti a sé), ma hanno come confini soltanto l’onirico. 

Paul_Eluard_1.jpgPaul Éluard

Il più grande poeta surrealista, per meglio dire le migliori raccolte poetiche L’amour de la poésie e Capitale de la dolueur nate all’interno di questo movimento appartengono a Paul Éluard, pseudonimo di Eugéne Grindel (1895 – 1952). La sua particolarità sta nella ricerca di una limpidezza stilistica dettata dalla ricerca di un’espressività immediata, senza per questo rinnegare o tradire il senso della complessità del reale e del profondo dell’individuo. La semplicità in Éluard è figlia della sua fiducia nella vita che si traduce nell’amore, capace di sconfiggere la solitudine e il senso d’alienazione. L’incontro con la donna rappresenta infatti l’apertura verso un mondo altro in cui si ci conosce/scopre a vicenda, alla ressemblance, dice Éluard che scoperta della somoglianza che ci conduce alla fedeltà dell’amore. Questo è quello che si evince nella poesia che segue:

LA CURVA DEI TUOI OCCHI

La curva dei tuoi occhi intorno al cuore
ruota un moto di danza e di dolcezza,
aureola di tempo, arca notturna e fida
e se non so più quello che ho vissuto
è perchè non sempre i tuoi occhi mi hanno visto.

Foglie di luce e spuma di rugiada
canne del vento, risa profumate,
ali che il mondo coprono di luce,
navi che il cielo recano ed il mare,
caccia dei suoni e fonti dei colori,

profumi schiusi da una cova di aurore
sempre posata su paglia degli astri,
come il giorno vive di innocenza,
così il mondo vive dei tuoi occhi puri
e va tutto il mio sangue in quegli sguardi.

67544.HR.jpgPaul Éluard e Gala (musa dei surrealisti)

E’ nella capacità di guardarsi, sembra dirci il poeta, che c’è vita, perché si è vicini. Il tutto descritto con un rapimento sensoriale di cui testimonianza sono le sinestesie e le iperboli. 

La presenza di una forte tradizione classicista cui corrisponde la mancanza di una cultura del mistero e dell’inesprimibile come nel romanticismo nordico, hanno fatto sì che le avanguardie letterarie improntate sul gioco combinatorio e sul non sense (il dadaismo) e sulla pura espressione dell’inconscio non trovarono terreno stabile nella cultura italiana, ma influenzarono pochi autori che, suggestionati o meno che fossero, produssero, intorno agli anni ’30, opere che potremo definire “surrealiste”. Non è un caso che i due più rappresentativi autori che si avvicinarono all’avanguardia di André Breton, Alberto Savinio e Tommaso Landolfi, furono piuttosto isolati.

Andrea_de_Chirico.jpgAlberto Savinio

Alberto Savinio (1891 – 1952), fratello del famoso pittore metafisico Giorgio De Chirico, si dedicò, grazie anche a frequentazioni francesi, a rifondare le arti in genere a partire dalla musica (aveva studiato pianoforte ad Atene, dov’era nato) dando vita al “sincerismo” basato sulla non-armonia. Fu anche un prolifico autore, inaugurando il genere onirico-grottesco con il testo teatrale francese Les chants de la mi-mort. A livello pittorico  partecipò insieme al fratello alla scuola metafisica, collaborando alla rivista Valori plastici. In Italia scrisse per la La voce e La Ronda.

DOMESTICA SELVA

La stampa di tutta Europa ha salutato nel dottor Eleuterio Mikalis, il primo “nudista” in ordine di tempo. Di passaggio nella capitale della Grecia, mi punse vaghezza di conoscere di persona un uomo così pittorescamente famoso. Ignoro in quale ramo dello scibile Eleuterio Mikalis fosse addottorato, posso attestare per converso che questo signore è costumatissimo e preciso. Gli spedii la mia lettera con l’ultima levata di giovedì, l’indomani ricevei la risposta del “dottor” che m’invitava a casa sua per il pomeriggio tardo.
Mi preparai a quella visita come a un convegno d’amore. Non mancava neppure il dubbio pungente, che il nostro incontro si avesse a risolvere in una bolla di sapone. “In via del Pireo di fronte al Conservatorio” precisava la lettera cortese.
Il pomeriggio era estivamente caldo. Le finestre del Conservatorio esalavano un fiato sonoro. Vi si mischiavano gli accordi scattanti di una polacca di Chopin, i liquidi arpeggi di un concerto di Saint-Saëns, una catarrosa scala cromatica, che un invisibile trombone tirava giù a stento.
Stavo per chiedere l’ascensore al portiere gallonato come un generale e seduto maestosamente nella guardiola di vetro, ma non so quale istinto di difesa mi suggerì di preferire le scale, sia per studiare attentamente la zona d’operazioni, sia per guardarmi le spalle, sia per prepararmi all’eventualità di una fuga.
L’aspetto era quello degli immobili adibiti ad uffici nei piani inferiori, ad abitazioni negli altri. Muri rivestiti a statura d’uomo di mattonelle bianche, porte prive di mistero che davano, questa nello studio legale dell’avvocato Spiridione Papanastassiu, quella nell’ufficio dell’ingegnere Protopapadakis, rappresentante di una ditta di pompe e stadere, quell’altra nella clinica di Sofrosine Koromilàs, levatrice patentata. Ma via via che m’inalzavo sul livello stradale, le porte diventavano sempre più gelose del segreto domiciliare. Dal terzo piano in su, le targhe rivelavano ancora un nome e un cognome, ma sulla professione e qualità serbavano il più rigoroso silenzio. Sul pianerottolo supremo, mi trovai faccia a faccia con un usciolino senza nome, contrassegnato dal numero tredici.
Un servo pelato come una pillola m’introdusse dentro una stanza adibita a studio, dal fondo della quale il dottor Mikalis mi mosse incontro con glaciale affabilità. Questi mi si mostrò come un signore barbuto e severamente vestito di nero, ma superata la prima impressione, mi avvidi che sotto il suo vestito “naturale”, Eleuterio Mikalis era completamente nudo.
«E’ per la foresta?» domandò il dottore, e alla mia risposta affermativa accennò una porticina che si apriva tra due rami dell’ampia biblioteca.
«Si rinfili il soprabito» mi consigliò il dottore. «Tenga pure il cappello in testa».
«E lei?»
«Io sono abituato».
Nel corridoio spirava un’arietta di campagna.
«Cominciamo dall’orto» annunciò il dottore, e in così dire aprì una porticina verde. Fave, piselli, fagiolini, scorzonere, ravanelli, pastinache, navone, barbe di prete, stavano schierati in bell’ordine. Stuoie e rompiventi riparavano le pianticelle più delicate. Uno spaventapasseri dominava l’esercito vegetale.
«Rende bene?».
«Rifornisco il mercato della Capnicaréa. Ma lo scarabeo melolonte, che malanno!».
«Immagino che avrà pure da combattere i bruchi, le formiche, i ratti traponi…».
Ma già il dottore era passato nel frutteto, e abbracciando con largo gesto la pomifera distesa dei peri, dei ciliegi ramosi, dei pruni, dei nespoli, delle spiree, disse: «Sto procedendo alla spampinazione».
Levai gli occhi al soffitto: pitture a fresco, illustravano l’ingresso di Alcide nel giardino delle Esperidi.
«Come lei vede», commentò il dottore, «la pittura quassù è altrettanto scadente quanto nel mondo onde lei proviene». E accennò col dito fuori dalla finestra.
Seguii con gli occhi il dito del dottore, nella via del Pireo una lunga fila di funghi lucidi e neri correvano con agitazione.
«Piove!» esclamai.
«Non importa,» rispose Mikalis «qui c’è il “mio” sole».
Infatti, una luce dorata brillava sulle foglie increspate delle lattughe, e nei roseti di un giardino all’italiana usignoli e cardellini gorgheggiavano a gara.
«Ora cominciano le foreste» disse il dottore con una certa quale solennità, e aprì una porticina bianca che dava su un prato sparso di gigli.
Feci per entrare: Mikalis mi fermò.
«Qui non si entra». Mostrò una membrana tesa nel telaio dell’uscio, ma così sottile e trasparente che a tutta prima non l’avevo notata.
«Questa» soggiunse il dottore nel richiudere con delicatezza la porticina bianca «è la foresta vergine».
La luce si andava velando. Una sottile ramificazione elettrica si spargeva nell’aria. Questa si appesantiva sulla foresta di abeti. La selva ronzava di armonie wagneriane. Un uccello cantava con voce di soprano.
«Vuole imbarcarsi?» domandò il dottore, e accennò una canoa ammarata alla riva di un ruscello. Ma io ricusai e continuammo a camminare. Le trombe delle automobili, lo scampanio dei tram si affievolivano nel lontano.
Traversammo una foresta di pini. Buttai un occhio fuori dalla finestra. Non so perché, pensai che era il mio ultimo sguardo al mondo degli uomini. Le prime luci si accendevano nella via del Pireo. Brillavano le finestre del Conservatorio. Volevo non staccarmi da quelle luci. Ma già le finestre «vere» cedevano il passo alle finestre finte. Il fischio del vento nei pini, annunziava il temporale. Le cornacchie fuggivano a frotte con volo basso. Un corvo solitario sparì, in alto fra i nembi del soffitto.
Mikalis mi procedeva. Camminava curvo per tenere testa alla bufera. Il vento curvava le cime dei cipressi, agitava l’argento dei pioppi, piegava gli arbusti, suscitava crisi isteriche nei canneti che fremevano di rabbia e scotevano la barba.
Mi tirai su il bavero, mi calcai il cappello in testa. Pensavo che là, a due passi, dietro quelle finestre «false» ci fosse la città, le luci, le vetrine, i negozi, i caffè, la gente, i veicoli, le guardie, la sicurezza. I primi lampi guizzavano lontano, sotto l’infoschito soffitto delle stanze forestali. Un vasto brontolìo di tuono si mischiava all’urlo crescente del vento. Bisognava parlare, ma che dire? Mikalis camminava davanti, senza curarsi di me. Era il caso di profittare della frase più stupida: «La manutenzione di questa foresta le costerà un occhio?»
«No, qui le piante crescono spontaneamente. E’ stata una fortuna trovare nel cuore di Atene e coi tempi che corrono, una casa come questa. La qualità stessa dei pavimenti è favorevole allo sviluppo degli alberi più robusti, dei giganti della foresta».
In così dire m’indicò nel mezzo della stanza  una quercia enorme che traeva le radici dagli spacchi del piantito, spandeva i rami nodosi sotto il soffitto a volta e tutto lo copriva col vasto fogliame.
«Questo temporale, lei, dottore, lo può regolare a volontà».
«No!» gridò il dottore. «Ho raccolto la natura intera nella mia casa, ma questo tour de force ha qualche svantaggio, sugli elementi non ho la più piccola autorità. spero più tardi di riuscire a dominarli, ma per ora sono gli elementi che dominano me».
Un lampo mi accecò, uno spaventoso fragore mi percosse lo stomaco.
Il dottore non c’era più. La voce di mio padre, morto vent’anni prima, mi chiamava da una stanza vicina.
Era deserta: abitata da una quercia solitaria, che l’uragano squassava e il bagliore delle saette rischiarava sinistramente.
La voce chiamava da un’altra stanza, sempre più lontana. Io correvo per quella fuga di stanze tutte uguali, tutte abitate da una quercia solitaria, in mezzo alla bufera, dietro la voce di mio padre, morto vent’anni fa…

Preoccupato della mia sparizione, il console italiano iniziò le ricerche in collaborazione con la questura locale. Mi trovarono ai piedi di una quercia. Il temporale si era placato. Un sole radioso illuminava la foresta del dottor Mikalis. Ero svenuto ma salvo.

alberto-savinio-pensiero-azione-olio-su-tela-828x1024.jpgAlberto Savinio: Pensiero e azione

Il racconto presenta un andamento tipico del “surrealsmo” di Savinio: inizio realistico (dimora normale per un incontro apparentemente normale) quindi, piccole “incongruenze” quasi casuali: una porta con un numero (come faceva il protagonista ha sapere che quella era la porta, mancando un nome?), un servo pelato come una pasticca (descrizione certo non abituale) l’uomo lo riceve in abito nero ma sotto è nudo (chi di noi sotto gli abiti non è nudo?). Il fatto è che Savinio dissemina indizi che possono apparire insignificanti ma che ci portano verso, dopo l’apertura di una porta, l’esplosione della fantasia, certamente di tipo onirico, senza venir meno mai ad un linguaggio ricercato (si pensi alla nomenclatura vegetale così precisa). La capacità che dopo tale esplosione, sempre all’interno del sogno, emerge con forza la psicoanalisi, con questa figura paterna che lo chiama da lontano e che lui rincorre. Come chiude? Non chiude: il lettore non sa se si sia svegliato (ma sarebbe irreale) o se ancora sogna un sogno da sveglio.

Alberto-Savinio-Autoritratto-come-gufo-1936-tempera-e-cartoncino-su-carta-applicato-su-compensato-cm-50x70.-GAM-Torino.jpgAlberto Savinio: Autoritratto come fugo

Tommaso Landolfi, nato a Pico Farnese, in provincia di Frosinone nel 1908, si laureò in Lingua e Letteratura russa all’Università di Firenze. Alla collaborazione con diverse riviste e quotidiani, tra cui «Il Mondo» e il «Corriere della Sera», affiancò l’attività di traduttore dal russo, dal tedesco e dal francese, traducendo, tra gli altri, Gogol’, Pusˇkin, Novalis, Hofmann sthal, la cui produzione gli offrì spunti importanti per la sua opera. Nel 1937 uscì la prima raccolta di racconti, Dialogo dei massimi sistemi. Il suo interesse per il mistero e il magico si rivelarono già nel primo romanzo, La pietra lunare (1939), dove si narra la vita di un piccolo centro di provincia nel quale si diffonde l’inquietante presenza della stregoneria. Seguirono diversi altri racconti tra il fantastico e il grottesco, tra i quali la novella gotica Racconto d’autunno (1947), il romanzo fantascientifico Cancroregina (1950), che racconta di un astronauta prigioniero in una capsula spaziale, e i Racconti impossibili (1966). Altre opere sono caratterizzate da una vena di orrore, come le raccolte Il Mar delle blatte (1939) e In società (1962), mentre prevalgono motivi autobiografici in La bière du pécheur (1953), Rien va (1963) e Des mois (1967). Fu anche poeta, critico letterario e drammaturgo. Evidente già dalle prime opere è il tema della vanità dell’agire umano, trattato con una apparente e spesso divertita leggerezza. La validità del suo lavoro venne riconosciuta da Eugenio Montale e da Italo Calvino, che ne curò una antologia nel 1982. Vinse il premio Strega nel 1975 con A caso. Morì a Roma nel 1979.

Tommaso-Landolfi.jpgTommaso Landolfi

IL RACCONTO DEL LUPO MANNARO

L’amico ed io non possiamo patire la luna: al suo lume escono i morti sfigurati dalle tombe, particolarmente donne avvolte in bianchi sudari, l’aria si colma d’ombre verdognole e talvolta s’affumica d’un giallo sinistro, tutto c’è da temere, ogni erbetta ogni fronda ogni animale, in una notte di luna. E quel che è peggio, essa ci costringe a rotolarci mugolando e latrando nei posti umidi, nei braghi dietro ai pagliai; guai allora se un nostro simile ci si parasse davanti! Con cieca furia lo sbraneremmo, ammenoché egli non ci pungesse, più ratto di noi, con uno spillo. E, anche in questo caso, rimaniamo tutta la notte, e poi tutto il giorno, storditi e torpidi, come uscissimo da un incubo infamante. Insomma l’amico ed io non possiamo patire la luna.
Ora avvenne che una notte di luna io sedessi in cucina, ch’è la stanza più riparata della casa, presso il focolare; porte e finestre avevo chiuso, battenti e sportelli, perché non penetrasse filo dei raggi che, fuori, empivano e facevano sospesa l’aria. E tuttavia sinistri movimenti si producevano entro di me, quando l’amico entrò all’improvviso recando in mano un grosso oggetto rotondo simile a una vescica di strutto, ma un po’ più brillante. Osservandola si vedeva che pulsava alquanto, come fanno certe lampade elettriche, e appariva percorsa da deboli correnti sotto pelle, le quali suscitavano lievi riflessi madreperlacei simili a quelli di cui svariano le meduse.
«Che è questo?» gridai, attratto mio malgrado da alcunché di magnetico nell’aspetto e, dirò, nel comportamento della vescica.
«Non vedi? Son riuscito ad acchiapparla…» rispose l’amico guardandomi con un sorriso incerto.
«La luna!» esclamai allora. L’amico annuì tacendo. Lo schifo ci soverchiava: la luna fra l’altro sudava un liquido ialino che gocciava di tra le dita dell’amico. Questi però non si decideva a deporla.
«Oh mettila in quell’angolo» urlai, «troveremo il modo di ammazzarla!»
«No», disse l’amico con improvvisa risoluzione, e prese a parlare in gran fretta, «ascoltami, io so che, abbandonata a se stessa, questa cosa schifosa farà di tutto per tornarsene in mezzo al cielo (a tormento nostro e di tanti altri); essa non può farne a meno, è come i palloncini dei fanciulli. E non cercherà davvero le uscite più facili, no, su sempre dritta, ciecamente e stupidamente: essa, la maligna che ci governa, c’è una forza irresistibile che regge anche lei. Dunque hai capito la mia idea: lasciamola andare qui sotto la cappa, e, se non ci libereremo di lei, ci libereremo del suo funesto splendore, giacché la fuliggine la farà nera quanto uno spazzacamino. In qualunque altro modo è inutile, non riusciremmo ad ammazzarla, sarebbe come voler schiacciare una lacrima d’argento vivo».
Così lasciammo andare la luna sotto la cappa; ed essa subito s’elevò colla rapidità d’un razzo e sparì nella gola del camino.
«Oh», disse l’amico «che sollievo! quanto faticavo a tenerla giù, così viscida e grassa com’è! E ora speriamo bene»; e si guardava con disgusto le mani impiastricciate.
Udimmo per un momento lassù un rovellio, dei fiati sordi al pari di trulli, come quando si punge una vescia, persino dei sospiri: forse la luna, giunta alla strozzatura della gola, non poteva passare che a fatica, e si sarebbe detto che sbuffasse. Forse comprimeva e sformava, per passare, il suo corpo molliccio; gocce di liquido sozzo cadevano friggendo nel fuoco, la cucina s’empiva di fumo, giacché la luna ostruiva il passaggio. Poi più nulla e la cappa prese a risucchiare il fumo.
Ci precipitammo fuori. Un gelido vento spazzava il cielo terso, tutte le stelle brillavano vivamente; e della luna non si scorgeva traccia. Evviva urràh, gridammo come invasati, è fatta! e ci abbracciavamo. Io poi fui preso da un dubbio: non poteva darsi che la luna fosse rimasta appiattata nella gola del mio camino? Ma l’amico mi rassicurò, non poteva essere, assolutamente no, e del resto m’accorsi che né lui né io avremmo avuto ormai il coraggio d’andare a vedere; così ci abbandonammo, fuori, alla nostra gioia. Io, quando rimasi solo bruciai sul fuoco, con grande circospezione, sostanze velenose, e quei suffumigi mi tranquillizzarono del tutto. Quella notte medesima, per gioia, andammo a rotolarci un po’ in un posto umido nel mio giardino, ma così, innocentemente e quasi per sfregio, non perché vi fossimo costretti.
Per parecchi mesi la luna non ricomparve in cielo e noi eravamo liberi e leggeri. Liberi no, contenti e liberi dalle triste rabbie, ma non liberi. Giacché non è che non ci fosse in cielo, lo sentivamo bene invece che c’era e ci guardava; solo era buia, nera, troppo fuligginosa per potersi vedere e poterci tormentare. Era come il sole nero e notturno che nei tempi antichi attraversava il cielo a ritroso, fra il tramonto e l’alba.
Infatti, anche quella nostra misera gioia cessò presto; una notte la luna ricomparve. Era slabbrata e fumosa, cupa da non si dire, e si vedeva appena, forse solo l’amico ed io potevamo vederla, perché sapevamo che c’era; e ci guardava rabbuiata di lassù con aria di vendetta. Vedemmo allora quanto l’avesse danneggiata il suo passaggio forzato per la gola del camino; ma il vento degli spazi e la sua corsa stessa l’andavano gradatamente mondando della fuliggine, e il suo continuo volteggiare ne riplasmava il molle corpo. Per molto tempo apparve come quando esce da un’eclisse, pure ogni giorno un po’ più chiara; finché ridivenne così, come ognuno può vederla, e noi abbiamo ripreso a rotolarci nei braghi.
Ma non s’è vendicata, come sembrava volesse, in fondo è più buona di quanto non si crede, meno maligna più stupida, che so! Io per me propendo a credere che non ci abbia colpa in definitiva, che non sia colpa sua, che lei ci è obbligata tale e quale come noi, davvero propendo a crederlo. L’amico no, secondo lui non ci sono scuse che tengano.

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Con Landolfi ci muoviamo tra l’onirico ed il fantastico e questo l’ottiene attraverso un rovesciamento curioso, condotto qui in modo ironico: se i lupi mannari sono coloro che soffrono per la presenza della luna, qui è luna ad essere catturata per a sua volta subire le azioni dell’uomo. Ma quello che colpisce è che, come spesso avviene nei racconti dello scrittore laziale, egli accenna e non dice. Ci parla di due amici, ma non ci dice che sono lupi mannari, come non ci dice che ciò che è catturato è la luna. Se dovessimo leggerla con più attenzione potremo analizzare il rapporto tra i protagonisti, uomini tormentati, incapaci di accettare se stessi e le proprie manchevolezze, e la luna, personalizzazione simbolica dei loro incubi, di cui ci si può impadronire, ma non si può distruggere. 

 

PETRONIO ARBITRO

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Incisione con ritratto idealizzato di Petronio

Notizie biografiche

Di questo autore della letteratura latina non si sa quasi nulla. Testimonianze sulla vita di un certo Petronio, vissuto in età neroniana, ne abbiamo in Tacito, Plinio il Vecchio e Plutarco. Ma è soprattutto il primo a darci un ritratto che la maggior parte dei critici ritiene attendibile, infatti ci parla di un certo Petronio che “passava il giorno a dormire e di notte si dedicava ai propri impegni ed ai piaceri; e se altri erano stati elevati alla fama grazie alla propria laboriosità, costui vi era giunto grazie all’indolenza e non era considerato né un crapulone né un dissipatore”; quindi lo definisce un “raffinato gaudente”. Ci informa inoltre che, nonostante queste sue caratteristiche fu un bravo proconsole in Bitinia e, invece proprio per il suo essere un dandy ante litteram, fu accolto nella corte di Nerone. La sua disgrazia fu l’invidia di Tigellino che lo mise in cattiva luce tanto che l’imperatore lo imprigionò. Quindi ancora Tacito ci ricorda come fu costretto alla morte: “Tuttavia non si precipitò a suicidarsi, ma, dopo essersi tagliato le vene, come decise, fasciatele le apriva di nuovo e parlava con gli amici non di argomenti seri o tali da cercarvi gloria di stoico. E li ascoltava mentre parlavano non dell’immortalità e delle decisioni dei saggi, ma di poesie non impegnate e versi divertenti. Ad alcuni servi consegnò delle somme di denaro, altri li fece frustare. Andò a pranzo, si abbandonò al sonno, perché quella morte – che pure era obbligata – risultasse simile ad una accidentale. Nemmeno nelle postille testamentarie – cosa abituale per la maggior parte di coloro che cadono in disgrazia – volle adulare Nerone, Tigellino o qualche altro potente, anzi descrisse, nascondendole sotto i nomi di amasi e prostitute, le malefatte dell’imperatore, le violenze da lui inventate e, dopo aver apposto il suo sigillo, consegnò le sue carte a Nerone. Poi spezzò l’anello, perché non servisse in futuro a creare pericoli”.

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Guardia pretoriana a cui appartenne Tigellino

Che questo Petronio possa corrispondere all’autore dell’opera giunta a noi mutila, sembra attendibile; tale attendibilità nasce soprattutto dal fatto che i pochi codici a noi pervenuti recano come autore un Petronius Arbiter (elegantiae arbiter, lo definisce Tacito); ma anche lo stile della sua vita, nonché la modalità della sua morte appaiono così in linea con la sua opera che, in mancanza di ogni altra fonte più attendibile, non sembra inopportuno identificare il “personaggio” tacitiano con l’autore del Satyricon.

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Edizione del Satyricon del 1863

Datazione dell’opera

Che d’altra parte l’opera vada inserita nell’età neroniana, e quindi in linea con quanto afferma lo storico, ce lo dicono:

  1. I riferimenti precisi a nomi di personaggi, come gladiatori, liberti ed altri, vissuti nel tempo di Nerone;
  2. I riferimenti precisi ad opere coeve il Satyricon, come l’Apokolokintosis di Seneca ed il Bellum civile di Lucano;
  3. Le discussioni letterarie (Agamennone contro la decadenza dell’oratoria, Eumolpo contro la decadenza dell’eloquenza) che erano topoi di quell’età;
  4. L’ambientazione sembra riflettere quella di una città tipica del I° sec. d.C.

A questa datazione si contrappongono coloro che la ritengono più tarda perché:

  1. Alcuni termini “bassi” presenti nell’opera appaiono in testi databili II° o addirittura III° secolo d.C.
  2. Tacito, parlando del suo “personaggio” Petronio, non fa alcun riferimento all’opera da lui scritta.

D’altra parte si può rispondere a costoro che in Tacito vi è la stessa descrizione della morte di Seneca, ma anche di quest’autore non cita alcuna opera; i termini “bassi”, usati nel Satyricon corrispondono ad una vera e propria scelta stilistica dell’autore, che vuole rappresentare non il sermo cotidanius, usato da Orazio (cioè quel sermo usato dalle persone colte nella quotidianità), ma il sermo plebeius, parlato appunto dagli ignoranti e/o arricchiti.

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Pompei: una graeca urbs

Satyricon

Possiamo dividere il Satyricon in cinque blocchi narrativi:

  1. Le avventure di Encolpio, Ascilto e Gitone in una Graeca urbs (molto probabilmente Cuma o Pozzuoli);
  2. La cena di Trimalcione;
  3. Ritorno nella Graeca urbs dove Encolpio conosce Eumolpo ed Ascilto sparisce di scena;
  4. Sulla nave di Lica e Trifena;
  5. L’arrivo a Crotone.

Dai dati interni possiamo immaginare, o supporre, quali fossero gli antefatti: per meglio dire, forse, l’antecedente perduto aveva come argomento:

Encolpio, narratore della vicenda, studente squattrinato, durante la sua permanenza a Marsiglia, subisce la persecuzione del dio Priapo (dio della fecondità e del sesso), perché ha profanato i suoi templi e rivelato un culto misterico. Fuggito giunge in Italia e, dopo aver rapinato un tempio, viene condannato ad bestias (all’arena gladiatoria). Si salva per un terremoto o per il crollo dell’anfiteatro; quindi conosce Gitone, bellissimo fanciullo, ne fa il suo amasio, e scappano insieme verso sud. Vivono probabilmente un’avventura erotica con Trifena, cortigiana insaziabile, e Lica, mercante di schiavi. Di nuovo soli, fanno la conoscenza di Ascilto, un avventuriero che si rivela da subito un rivale in amore perché insidia il compiacente Gitone. I tre, insieme, arrecano disturbo alle cerimonie del dio Priapo, compiute dalla sacerdotessa Quartilla.

Inizia invece qui la narrazione pervenutaci, corrispondente, secondo la critica al XIV, XV e XVI capitolo:

Primo blocco:

Encolpio, Ascilto e Gitone si trovano in una città. Il primo frequenta Agamennone, un retore, con il quale ha una disputa sulla decadenza dell’oratoria.

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L’eloquenza a Roma

LA CORRUZIONE DELL’ELOQUENZA
(1, 1-9)

Num alio genere Furiarum declamatores inquietantur, qui clamant: “Haec vulnera pro libertate publica excepi; hunc oculum pro vobis impendi: date mihi ducem, qui me ducat ad liberos meos, nam succisi poplites membra non sustinent”? Haec ipsa tolerabilia essent, si ad eloquentiam ituris viam facerent. Nunc et rerum tumore et sententiarum vanissimo strepitu hoc tantum proficiunt ut, cum in forum venerint, putent se in alium orbem terrarum delatos. Et ideo ego adulescentulos existimo in scholis stultissimos fieri, quia nihil ex his, quae in usu habemus, aut audiunt aut vident, sed piratas cum catenis in litore stantes, sed tyrannos edicta scribentes quibus imperent filiis ut patrum suorum capita praecidant, sed responsa in pestilentiam data, ut virgines tres aut plures immolentur, sed mellitos verborum globulos, et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo sparsa. Qui inter haec nutriuntur, non magis sapere possunt quam bene olere qui in culina habitant. Pace vestra liceat dixisse, primi omnium eloquentiam perdidistis. Levibus enim atque inanibus sonis ludibria quaedam excitando, effecistis ut corpus orationis enervaretur et caderet. Nondum iuvenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui. Nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt. Et ne poetas quidem ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse video. Grandis et, ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit. Nuper ventosa istaec et enormis loquacitas Athenas ex Asia commigravit animosque iuvenum ad magna surgentes veluti pestilenti quodam sidere adflavit, semelque corrupta regula eloquentia stetit et obmutuit. Ad summam, quis postea Thucydidis, quis Hyperidis ad famam processit? Ac ne carmen quidem sani coloris enituit, sed omnia quasi eodem cibo pasta non potuerunt usque ad senectutem canescere. Pictura quoque non alium exitum fecit, postquam Aegyptiorum audacia tam magnae artis compendiariam invenit.

E’ forse un altro tipo di Furie quello che tormenta i declamatori, quiando gridano i loro proclami: «Queste ferite le ho assunte per la libertà dello Stato, quest’occhio per voi lo sacrificato; datemi una guida che mi conduca dai figli miei, perché i popliti, recisi, non reggono le membra?» Questi bei discorsi sarebbero in sé tollerabili, se almeno riuscissero a spianare agli allievi la via che porta all’eloquenza. Ora come ora, invece, tanto con l’enfasi dei temi che col baccano fraseologico assolutamente privo di significato, l’unico progresso che i ragazzi fanno è ch, al loro ingresso in tribunale, si credono trasferiti di peso su un altro pianeta. E perciò io penso che questi poveri ragazzi nelle scuole diventino altrettanti scemi patentati, perchè non si fa loro ascoltare o vedere niente che abbia rapporto con la realtà che ci è familiare: ma solo pirati in agguato sulla spiaggia con le catene in mano, solo tiranni nell’atto di vergare editti coi quali intimano ai figli di moxxare il capo del proprio padre, solo oracoli, emessi per far cessare una pestilenza, che prescrivono il sacrificio di tre vergini o anche più, solo parole come confetti dolciastri di miele e tutto, espressioni e contenuti, quasi asperso da una polvere di papavero e di sesamo. Chi vien pasciuto a forza di roba simile, non può avere buon gusto; non più di quanto può esalare un profumo gradevole chi sta in casa in cucina. Sia detto con vostra buona pace, siete stati voi la rovina prima dell’eloquenza. Volendo infatti dar corpo a qualche vostro capriccio fasntastico, con involucri verbali fatti d’aria e privi di contenuto, avete fatto del discorso una carcassa sfiancata e floscia. I giovani non erano ancora irretiti dalle declamazioni, quando un Sofocle o un Euripide  fondarono il modello di lingua con cui esprimersi, il maestro delle ombre non aveva ancora fatto strage di talenti, quando Pindaro e i nove lirici si peritarono a cantare in versi omerici. E, per non limitarmi alla testimonianza dei poeti, mi consta che di certo né Platone né Demostene si siano accostati a questo tipo di esercitazioni. La grande e, vorrei dire, virginale oratoria non ha chiazze di trucco né ampollosità posticce, ma si erge in alto mostrando un volto naturalmente bello. Non è molto che codesta garrulità albagiosa e senza misura si è traferita dall’Asia per prendere stanza ad Atene e, come con la forza di una cometa malefica, ha alitato sugli animi dei giovani che con slancio si preparavano a grandi traguardi: una volta corrotisi i principi, l’eloquenza romase inerte e senza voce. Insomma, dopo questa migrazione, chi è riuscito ad uguagliare la fama di un Tucidide, di un Iperide? e neppure nella poesia risplendette il colore della buona salute, ma tutte le produzioni poetiche, come sottoposte ad un medesimo regime alimentare, non arrivarono a metter su i capelli bianchi della vecchiaia. Anche la pittura non ebbe destino diverso, dopo che l’impudenza degli egittizzanti escogitò una scorciatoia stilistica per un’arte tanto grande.
(trad. A. Aragosti)

Ci troviamo nella scuola di retorica del maestro Agamennone. Encolpio discetta sulle cause della decadenza della poesia e della retorica, individuandole nella pratica scolastica di “declamare” cose fuori dalla realtà, formando così “scemi patentati”. Petronio gioca con il suo personaggio: infatti applica il doppio registro sia sull’oggetto della critica (in questo caso l’eloquenza) sia sul personaggio che la pronuncia (Encolpio). Quest’ultimo infatti, deprecando l’uso scolastico, lo fa mettendo in luce la stessa sua “preparazione” scolastica:  stile ampolloso e ridondante, stilemi forti, con i quali egli stesso critica chi fa “oratoria” utizzando tali mezzi. Ma come se non bastasse egli criticando lo stile, critica a sua volta i contenuti: ma, nel proseguo della lettura del romanzo, egli cadrà in situazioni altrettanto paradossali. E’ quindi duplice, e assai scaltra, l’ironia petroniana, verso un personaggio che si lamenta della scarsa moralità degli oratori e della scuola, quando lui stesso, in quanto a moralità, lascia molto a desiderare.

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Una locanda romana conservatoci a Pompei

Il primo blocco prosegue poi con la separazione tra Encolpio ed Ascilto, perché rivali in amore. Ritrovatisi, dopo varie dispute, il cui oggetto è sempre Gitone, si recano ad un mercato per vendere un mantello rubato, recuperano una tunica piena di monete d’oro, che avevano precedentemente perduto. Tornano felici alla locanda, dove incontrano la sacerdotessa Quartilla che li costringe ad una kermesse sessuale per tre lunghi giorni. bordello-visitare-roma-trovamercatini.jpg

Prostitute nell’antica Roma

Secondo blocco:

Sfuggiti dalla sacerdotessa, i tre si recano ad una cena, nella casa del liberto Trimalcione. Quest’ultimo fa il suo ingresso in portantina. All’episodio fa da sottofondo un continuo vocio, canti, suoni, chiacchiericcio di servi e di commensali, fra i quali i nostri tre eroi. Quindi Trimalcione attira su di sé l’attenzione: filosofeggia, recita versi, storie raccapriccianti; racconta il suo passato di schiavo e le enormi ricchezze accumulate; quindi fa le prove generali del suo funerale, e schianta vinto dal vino. Accorrono i pompieri perché per il trambusto hanno pensato ad un incendio. I tre riescono ad allontanarsi.

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 Affresco di un uomo grasso tratta da Pompei

PRESENTAZIONE DI TRIMALCIONE
(32, 1-4)

In his eramus lautitiis, cum ipse Trimalchio ad symphoniam allatus est positusque inter cervicalia munitissima expressit imprudentibus risum. Pallio enim coccineo adrasum excluserat caput circaque oneratas veste cervices laticlaviam immiserat mappam fimbriis hinc atque illinc pendentibus. Habebat etiam in minimo digito sinistrae manus anulum grandem subauratum, extremo vero articulo digiti sequentis minorem, ut mihi videbatur, totum aureum, sed plane ferreis veluti stellis ferruminatum. Et ne has tantum ostenderet divitias, dextrum nudavit lacertum armilla aurea cultum et eboreo circulo lamina splendente conexo.

Eravamo tra queste leccornie, quand’ecco lui, Trimalcione, portato a suon di musica. Come fu deposto tra cuscini tipo mignon, fece sbruffare e ridere chi non se l’aspettava. Infatti da un manto scarlatto faceva sporgere la testa rapata, e intorno al collo infagottato dall’abito si era avvolto un tovagliolo listato di porpora, a frange, penzoloni qua e là. al dito mignolo della mani sinistra aveva un anellone dorato, nell’ultima falange del dito seguente, invece un anello più piccolo, d’oro massiccio mi pareva, con stelle di ferro saldate sopra. E per non sgargiare solo di queste ricchezze, denudò il bicipide destro adorno di un bracciale d’oro e di un cerchio d’avorio chiuso intorno da una lamina lucente.

Non diversa dal marito è la presentazione della moglie, Fortunata:
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Norman Lindsay: Ritratto di Fortunata 

PRESENTAZIONE DI FORTUNATA
(37)

Non potui amplius quicquam gustare, sed conversus ad eum, ut quam plurima exciperem, longe accersere fabulas coepi sciscitarique, quae esset mulier illa quae huc atque illuc discurreret. Uxor, inquit, Trimalchionis, Fortunata appellatur, quae nummos modio metitur. Et modo, modo quid fuit? Ignoscet mihi genius tuus, noluisses de manu illius panem accipere. Nunc, nec quid nec quare, in caelum abiit et Trimalchionis topanta est. Ad summam, mero meridie si dixerit illi tenebras esse, credet. Ipse nescit quid habeat, adeo saplutus est; sed haec lupatria providet omnia, et ubi non putes. Est sicca, sobria, bonorum consiliorum: tantum auri vides. Est tamen malae linguae, pica pulvinaris. Quem amat, amat; quem non amat, non amat. Ipse Trimalchio fundos habet, quantum milvi volant, nummorum nummos. Argentum in ostiarii illius cella plus iacet, quam quisquam in fortunis habet. Familia vero babae babae! – non mehercules puto decumam partem esse quae dominum suum noverit. Ad summam, quemvis ex istis babaecalis in rutae folium coniciet.

Non riuscii più a gustarmi niente, ma rivolto verso di lui, per raccogliere più notizie che potevo, incominciai a prendere il discorso alla lontana e a chiedere chi fosse la donna che correva qua e la. E’ la moglie di Trimalcione – rispose – si chiama Fortunata, una che il denaro lo misura con lo staio. Eppure prima, prima cos’è stata? Che il tuo genio mi perdoni, dalla sua mano non avresti voluto ricevere neanche un tozzo di pane. Ora, ne perché ne percome, è salita alle stelle ed è il tuttofare di Trimalcione. Insomma, se, in pieno mezzogiorno, lei dicesse a lui che ci sono le tenebre, le crederebbe. Lui non sa neanche quanto ha, tanto è straricco; ma questa puttana vede tutto prima, anche dove non crederesti. E’ assennata, economa, di buon senso; tutto oro quel che vedi. Però è una malalingua, una gazza da letto. Chi ama, ama; chi non ama, non ama. Lui, Trimalcione, ha poderi quanto ci volano i nibbi, e soldi a palate. Nello stanzino del suo portinaio c’è più argenteria di quanta nessun altro ne abbia nel suo patrimonio. La servitù poi – accidentaccio! – io credo, per Ercole, che non c’è la decima parte che abbia visto il padrone. Insomma, uno qualsiasi di questi parassiti lui potrebbe cacciarlo in una foglia di ruta.

Appena giunti nella casa di Trimalcione Encolpio ride sulla cafoneria del protagonista; infatti, prima che egli giunga a tavola, lo vede giocare a palla con eunuchi dall’aspetto, per Encolpio, estremamente gradevole, poi farsi portare da uno di loro un orinale si cui, coram populo caga, e s’asciuga le mani sulla barba di uno di questi due. Quindi entra in casa e l’aspetto dell’antipasto è “grandiosamente” pacchiano, ma già la certezza di Encolpio comincia a vacillare, in quanto tale “cafonaggine” è frutto di una spaventosa ricchezza; per poi infine rimanere “prigioniero” di tale “meccanismo scenografico”. Is vult, si potrebbe dire, ma è ben guardare chi è la “regista”? Certamente Fortunata, la moglie che gli fa credere qualunque cosa lui voglia. E’ pieno ed è vuoto; pieno di forma, vuoto nell’anima, ma sembra proprio accorgersene, quando gli appare l’ombra della propria morte:

TRIMALCIONE E LA RIFLESSIONE SULLA MORTE
34, 6-10

Statim allatae sunt amphorae vitreae diligenter gypsatae, quarum in cervicibus pittacia erant affixa cum hoc titulo: FALERNUM OPIMIANUM ANNORUM CENTUM. Dum titulos perlegimus, complosit Trimalchio manus, et: «Eheu – inquit – ergo diutius vivit vinum quam homuncio! Quare tangomenas faciamus. Vita vinum est. Verum Opimianum praesto. Heri non tam bonum posui, et multo honestiores cenabant». Potantibus ergo nobis et accuratissime lautitias mirantibus larvam argenteam attulit servus sic aptatam, ut articuli eius vertebraeque laxatae in omnem partem flecterentur. Hanc cum super mensam semel iterumque abiecisset, et catenatio mobilis aliquot figuras exprimeret, Trimalchio adiecit:

“Eheu nos miseros! Quam totus homuncio nil est!
Sic erimus cuncti, postquam nos auferet Orcus.
Ergo vivamus, dum licet esse bene”.
Subito dopo vennero portate anfore di vetro diligentemente sigillate, sul collo delle quali erano affisse etichette con questa iscrizione: FALERNO OPIMIANO DI CENT’ANNI. Mentre leggiamo attentamente le iscrizioni, Trimalcione batté le mani e disse: «Ahimé, vive più a lungo il vino di un omicciatolo! Perciò facciamo le spugne. Il vino è vita. Qui è l’autentico Opimiano. Ieri non (lo) ho offerto così buono, e cenavano (ospiti) molto più ragguardevoli». Mentre bevevamo e guardavamo attentamente il lusso un servo portò uno scheletro d’argento così costruito, che le sue giunture e le sue vertebre allentate si flettevano in ogni parte. Avendolo gettato sopra il tavolo una ed un’altra volta e esprimendo altrettante figure grazie ai legamenti liberi, Trimalcione aggiunse:
“Ahimé, poveri noi, quanto niente è l’omicciatolo tutto!
Così saremo tutti, dopo che l’Orco ci prenderà.
Dunque viviamo, mentre si può star bene”.

Infatti l’idea di morte non manca nel lungo episodio della cena di Trimalcione, come un lugubre presagio che marca un’epoca sì ostentata, ma nel contempo vuota di valori, morta in sé. Il protagonista, infatti, ama giocare con essa, quasi ad esorcizzarla, facendo sì che venisse presentato, addirittura durante il pasto, il suo funerale (o meglio, le grandi prove dello svolgersi di esso). In questo passo, quello che invece notiamo è una riflessione che, per come viene illustrata, non stona col personaggio, ma reca in sé echi più profondi, ed è il discorso della fragilità e un epicureo come Trimalcione sembra concluderlo con una specie (parodia?) di carpe diem oraziano.

Terzo blocco:

Encolpio e Ascilto si affrontano a causa di Gitone. Richiesto a quest’ultimo chi dei due volesse come amante, il ragazzo indica Ascilto, lasciando Encolpio affranto di dolore.

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Affresco di amore omoerotico nella cultura classica

MELODRAMMA D’AMORE
(80, 1-7)

Iocari putabam discedentem. At ille gladium parricidali manu strinxit et: «Non frueris», inquit, «hac praeda super quam solus incumbis. Partem meam necesse est vel hoc gladio contemptus abscindam». Idem ego ex altera parte feci, et intorto circa brachium pallio, composui ad proeliandum gradum. Inter hanc miserorum dementiam infelicissimus puer tangebat utriusque genua cum fletu, petebatque suppliciter ne Thebanum par humilis taberna spectaret, neve sanguine mutuo pollueremus familiaritatis clarissimae sacra. «Quod si utique, proclamabat, facinore opus est, nudo ecce iugulum, convertite huc manus, imprimite mucrones. Ego mori debeo, qui amicitiae sacramentum delevi». Inhibuimus ferrum post has preces, et prior Ascyltos: «Ego», inquit, finem discordiae imponam. Puer ipse, quem vult, sequatur, ut sit illi saltem in eligendo fratre salva libertas». Ego qui vetustissimam consuetudinem putabam in sanguinis pignus transisse, nihil timui, immo condicionem praecipiti festinatione rapui, commisique iudici litem. Qui ne deliberavit quidem, ut videretur cunctatus, verum statim ab extrema parte verbi consurrexit fratrem Ascylton elegit. Fulminatus hac pronuntiatione, sic ut eram, sine gladio in lectulum decidi, et attulissem mihi damnatus manus, si non inimici victoriae invidissem. Egreditur superbus cum praemio Ascyltos, et paulo ante carissimum sibi commilitonem fortunaeque etiam similitudine parem in loco peregrino destituit abiectum.

Io pensavo volesse congedarsi con una battuta di spirito. Ma lui sguaina la spada con mano fratricida e si mette a gridare: «Non te lo godrai questo tesoro, su cui vorresti buttarti da solo. Bisogna proprio che ci esca la mia parte, a costo di tagliarmela con questa spada, visto il disprezzo in cui mi tieni!». Dall’altra parte io faccio lo stesso, mi avvolgo il braccio col mantello e mi metto in guardia in attesa dello scontro. Nel pieno di questo accesso di follia a due, quel poveraccio di Gitone ci abbracciava in lacrime le ginocchia, implorandoci di non trasformare quella locanda in una seconda Tebe e di non macchiare col nostro sangue il sacro vincolo di un’amicizia tanto bella. «Ma se il morto ci deve scappare comunque» urlava, «eccovi la mia gola: rivolgete qui le vostre mani, infilateci dentro le spade fino all’elsa. Chi deve morire sono io, perché ho distrutto il sacro vincolo dell’amicizia». Di fronte a quelle suppliche rimettiamo a posto le spade, e il primo a parlare è Ascilto: «Io voglio mettere fine alla lite: il ragazzo vada pure con chi gli pare, perché sia libero di optare per chi vuole almeno nella scelta del “fratellino”». Pensando che l’amicizia di lunga data tra me e Gitone si fosse ormai trasformata in un legame di sangue, non ho nulla da temere, anzi aderisco subito alla proposta con uno slancio rabbioso, lasciando che a giudicare della lite sia il solo Gitone. Che non ci pensa su nemmeno un attimo, tanto per far vedere di essere un po’ indeciso, e mentre io sono ancora là che devo finire l’ultima parola, lui si alza di scatto e si sceglie Ascilto come fratellino. Fulminato da quella decisione, così com’ero, senza nemmeno più la spada, cado sul letto, e mi sarei ammazzato con le mie mani, non fosse stato per il trionfo del nemico. E così Ascilto se ne va tutto ringalluzzito da quella preda, piantando lì su due piedi e in un posto sconosciuto l’uomo che fino a poco prima era stato il suo migliore amico nella buona e nella cattiva sorte.

Vediamo qui un “classico” triangolo amoroso, tipico, in questo periodo nei romanzi d’importazione greca, in cui una scena così apparteneva a quelle che oggi vengono definite “scene madri”. L’antefatto è dato dal ritorno dalla casa di Trimalchione, in cui i tre, (Encolpo Ascilto e Gitone) ubriachi, si ritirano nella locanda. I due amanti, chiaramente, passano una gioiosa notte d’amore, ma quando Encolpio si sveglia, si trova solo. Infatti Ascilto, mentre lui dormiva, prende Gitone con sé e se lo porta a letto. Encolpio, alzatosi si scaglia contro l’amico, chiede di dividere le cose che hanno in comune e d’andarsene. Ascilto accetta e chiede a sua volta che sia diviso anche il ragazzo. Ecco qui quindi la lotta per il possesso dell’oggetto amato, che viene confrontato con l’episodio di Eteocle e Polinice in lotta per il possesso di Tebe e Gitone, novella Giocasta, in mezzo a loro due offre la gola. E’ evidente che vi sia qui il capovolgimento parodico: la tragedia della moglie e della madre di Edipo, viene qui rivissuta da un omosessuale ubriaco, un suo amico ben dotato che vuol farsi (e si fa) il ragazzo, e quest’ultimo, “checca” melodrammatica, che al momento giusto, sceglie, tuttavia, quello che offre “maggiori mezzi”

Quindi, si dirige ad una pinacoteca dove incontra un vecchio poeta, Eumolpo, con cui discute sulla decadenza della poesia. Per consolare Encolpio, il poeta gli racconta una novella. Quindi, di fronte ad una pittura comincia a recitare un poemetto sulla presa di Troia. Viene preso a sassate dai presenti. Fuggono. Encolpio incontra Gitone, ma geloso di Ascilto, decide di lasciare la città insieme ad Eumolpo.

Quarto blocco:

I tre si ritrovano sulla nave di Lica e Trifone (Encolpio e Gitone si sono mascherati per non farsi riconoscere). Ma, con un sogno premonitore, la donna li smaschera e promette loro terribili punizioni. La contesa si fa aspra, finché il pilota della nave propone una tregua. Eumolpo riesce a placare gli animi e ad imporre un vero e proprio trattato di pace, che si festeggia con un allegro banchetto in cui il vecchio poeta narra la vicenda della matrona di Efeso:

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Norman Lindsay: La matrona di Efeso

LA MATRONA DI EFESO
(111, 1–4)

Matrona quaedam Ephesi tam notae erat pudicitiae, ut vicinarum quoque gentium feminas ad spectaculum sui evocaret. Haec ergo cum virum extulisset, non contenta vulgari more funus passis prosequi crinibus aut nudatum pectus in conspectu frequentiae plangere, in conditorium etiam prosecuta est defunctum, positumque in hypogaeo Graeco more corpus custodire ac flere totis noctibus diebusque coepit. Sic adflictantem se ac mortem inedia persequentem non parentes potuerunt abducere, non propinqui; magistratus ultimo repulsi abierunt, complorataque singularis exempli femina ab omnibus quintum iam diem sine alimento trahebat. Adsidebat aegrae fidissima ancilla, simulque et lacrimas commodabat lugenti, et quotienscunque defecerat positum in monumento lumen renovabat.

C’era una certa matrona ad Efeso di così rinomata virtù da spingere persino le donne dei popoli confinanti a farle attenzione. Costei, dunque, dopo aver perso il marito, non contenta di seguire, secondo il costume popolare, il corteo funebre con i capelli sciolti o di percuotersi il petto nudo di fronte alla gente, seguì il marito anche quando venne messo nella bara, e quando venne deposto, secondo l’usanza greca, nella tomba, prese a vegliare il corpo ed a piangere notte e giorno. Né i genitori, né i parenti riuscirono a distoglierla dall’affliggersi in quel modo e dall’andare incontro alla morte per fame. Da ultimo i magistrati se ne andarono respinti; e la donna di eccezionale esempio compianta da tutti non toccava cibo da quattro giorni. Assisteva la disperata un’ancella fedelissima, e quando piangeva la accompagnava nel pianto, ed allo stesso tempo provvedeva a sostituire il lume posto sulla lapide ogni volta che si consumava.

IL SOLDATO E LA MATRONA DI EFESO
(112, 1–3)

Ceterum scitis quid plerumque soleat temptare humanam satietatem. Quibus blanditiis impetraverat miles ut matrona vellet vivere, isdem etiam pudicitiam eius aggressus est. Nec deformis aut infacundus iuvenis castae videbatur, conciliante gratiam ancilla ac subinde dicente:
“Placitone etiam pugnabis amori?
Nec venit in mentem quorum consederis arvis?”
Quid diutius moror? Ne hanc quidem partem corporis mulier abstinuit, victorque miles utrumque persuasit. Iacuerunt ergo una non tantum illa nocte, qua nuptias fecerunt, sed postero etiam ac tertio die, praeclusis videlicet conditorii foribus, ut quisquis ex notis ignorisque ad monumentum venisset, putasset expirasse super corpus viri pudicissimam uxorem.

Voi sapete cos’altro è solito tentare un essere umano quando è sazio. Il soldato, con le medesime lusinghe grazie alle quali aveva fatto tornare a vivere la matrona, tentò anche la sua castità. E alla casta matrona egli non pareva né brutto né stupido, anche perché l’ancella lo metteva in buona luce e diceva: “vuoi dunque tu combattere un amore che ti aggrada? Non ti ricordi in che territorio ti trovi?”. Perché farla tanto lunga? La matrona non seppe tenere a digiuno neppure quella parte del suo corpo, ed il soldato vincitore riuscì nella sua impresa di persuasione entrambe le volte. Dormirono dunque insieme non solo quella notte, in cui venne consumato il loro amore, ma anche il secondo ed il terzo giorno, dopo aver sbarrato, come è logico, le porte del sepolcro, perché chiunque fosse capitato, noto o sconosciuto, presso la tomba pensasse che la castissima moglie fosse spirata sopra il cadavere del marito.

Abbiamo qui riportato due soli episodi della “fabula milesia” meglio conosciuta con il nome de La matrona di Efeso, la cui trama è riportata, in forma più semplicistica e in versi, da Fedro. Essa ci offre l’opportunità di fare alcune considerazioni, di carattere generale sia sul contenuto dell’intera storia che sul modo attraverso cui la racconta:

  • possiamo notare che essa potrebbe essere considerata come un esempio di una certa misoginia dell’autore e. in questo caso, del narratore Eumolpo; tuttavia la leggerezza della donna nasconde altro: come Fortunata, di fronte a uomini imbelli, sono loro a imporre i modi con cui affrontare un evento (Fortunata è colei che gestisce il patrimonio di Trimalchione, la matrona di Efeso salva il soldato da sicura impiccagione);
  • il lessico di Petronio è sempre ricco e articolato, molto giocato (nei due brani proposti) sull’amplificatio riguardo il personaggio della donna (da tam pudica del primo brano al suo superlativo nel secondo) ad accentuare, invece il suo essere “leggera” e arrendevole”; ma soprattutto è ricco di riferimenti ai termini usati per descrivere l’amore di Didone (e questa volta ci riferiamo all’intero brano) nel VI canto di Virgilio, o a termini militari, creando così una vera mescolanza cui l’effetto è certamente, nel complesso, ironico.

L’episodio prosegue con il sopraggiunge di una violenta tempesta: Lica muore e i tre riescono a fuggire.

Quinto blocco:

Un contadino da un’altura mostra loro una città, Crotone e li informa sugli strani costumi dei suoi abitanti: infatti la popolazione si divide in due, i cacciatori di eredità e uomini ricchissimi che non hanno eredi. Eumolpo decide di farsi passare per un possidente, mentre Encolpio e Gitone fingeranno di essere suoi schiavi. Sulla strada il vecchio poeta offre una lezione sul poema epico, cui fa seguire un brano poetico sulla guerra fra Cesare e Pompeo (parodia del Pharsalia di Lucano). Intanto Encolpio, colpito dalla maledizione di Priapo non riesce a soddisfare le voglie di una matrona, di nome Circe, che, inviperita ordina ai servi di frustarlo. Il nostro declama una vera e propria invettiva contro il suo membro, ma giunge in suo aiuto Mercurio che gli ridà la virilità. Intanto Eumolpo, che teme d’essere scoperto, detta le sue condizioni affinché i cacciatori d’eredità possano ottenerla: dovranno mangiare il suo cadavere. Il romanzo si chiude con un crotonese che accetta la proposta.

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La città di Crotone: resti della città greco-romana

Modelli

La difficoltà nel descrivere cosa sia il Satyricon risulta dal fatto che oggi usiamo un termine assolutamente improprio per definirlo, cioè “romanzo”. Invece il Satyricon utilizza al suo interno vari generi letterari che possiamo così schematizzare:

  1. Satira Menippea (da Menippo di Gadara, III sec. a.C.): componimento misto di prosa e poesia (prosimetrum), utilizzato già da Seneca nell’Apokolokintosis. In Petronio esso non risulta essere un “espediente formale”, ma un vero e proprio strumento attraverso cui costruisce il racconto;
  2. Fabula Milesia (da Aristide di Mileto, II sec. a.C.): narrazione comica d’argomento erotico con il tema dominante del desiderio sessuale e del denaro, in cui i valori morali vengono sovvertiti e ridicolizzati. Tipico riferimento di fabula milesia nell’opera petroniana è l’inserto narrativo de La matrona di Efeso;
  3. Il romanzo greco: caratterizzato da una narrazione in terza persona, con argomento amoroso a schema fisso e riferimento a un contesto di valori idealizzati. La loro finalità era edonistica per far sì che il lettore s’identificasse con la vicenda narrata. Qui Petronio opera un vero e proprio stravolgimento: la narrazione è in prima persona, i protagonisti sono omosessuali, e la realtà è rappresentata in modo realistico e grottescamente critico, tale da allontanare il lettore dai personaggi;
  4. Poema epico: Omero, Virgilio e Lucano. I primi due Petronio li utilizza soprattutto per il tema del “viaggio” che determina le peripezie dell’“eroe”; del poema del terzo opera una parodia in stile virgiliano;
  5. Satira: Lucilio e Orazio, di cui riprende la descrizione disincantata della realtà romana del suo tempo, senza alcun commento moralistico.
  6. Mimo e Atellana: proto forme teatrali italiche, con la rappresentazione farsesca di situazioni triviali.

I temi dominanti

In un’opera che, pur così frammentaria è così ricca di spunti, possiamo trovare dei temi dominanti che costituiscono un vero e proprio filo rosso che sottende tutti gli episodi a noi pervenuti e che sono la rappresentazione realistica della Roma neroniana, il riso e l’eros. Petronio infatti ci descrive una Roma inconsapevolmente rivolta verso un periodo di crisi politica e valoriale. Protagonisti infatti sono un piccolo gruppo di fannulloni, non cattivi, ma la cui vita sembra non avere alcuno scopo (è da sottolineare che sono loro, tuttavia, a possedere un briciolo di cultura), a cui si contrappone un mondo di latifondisti e arrampicatori sociali incolti, beceri, arroganti nel mostrare il loro potere economico. Trimalcione ne costituisce l’esempio più eclatante, essendo un liberto arricchito come ne pullulavano parecchi durante la dinastia giulio-claudia. Tutto ciò ci viene tuttavia presentato con ironia dissacrante che non può non suscitare il riso nel lettore: infatti il ricorrere dei personaggi a atti maliziosi, dissoluti, disonesti e il liberarsi di essi attraverso una fragorosa risata è il segno di una consapevolezza disillusa di Petronio che solamente ne può ridere e far ridere il fruitore dell’opera. Questo riso coinvolge anche l’eros, che pur dissacrante, non appare mai descritto in modo morboso, ma semplicemente colto nei suoi eccessi.

Questi temi non nascondono tuttavia una meditazione più “profonda” dell’autore: l’opera è percorsa infatti da un senso di disfacimento che trova la sua espressione attraverso il tema della morte, del teatro e del labirinto. La morte non viene solo descritta all’interno della narrazione (il marito morto ne La matrona di Efeso, il naufragio di Efeso, il cannibalismo a Crotone) ma anche metaforizzata: durante la cena di Trimalcione, infatti viene presentato uno scheletro che fa pronunciare all’anfitrione: “Ahimé, poveri noi, quanto niente è l’omicciatolo tutto! Così saremo tutti, dopo che l’Orco ci prenderà. Dunque viviamo, mentre si può star bene”. Anche la teatralizz-zione – ancora nell’episodio della Cena Trimalchionis – rappresenta l’inautenticità del vivere che, d’altra parte si esprime in una realtà labirintica ed incomprensibile che ci fa intuire l’amarezza profonda dell’autore.

Per quanto riguarda la lingua è necessario sottolineare che Petronio usa uno stile mimetico a seconda dei personaggi rappresentati, per cui il linguaggio dell’io narrante, Encolpio, è quello di un uomo non privo di cultura, mentre quello di Eumolpo – essendo un poeta – è letterariamente alto. Viceversa quello di Trimalcione e dei suoi commensali è basso, volgare, tipico dei personaggi incolti.

Un’interpretazione contemporaneakellerpotter.jpg

Encolpio e Adilto nel Fellini-Satirycon

Federico Fellini, il più visionario tra i nostri registi italiani, decise, nel 1969, di girare un film sull’opera di Petronio, che egli volle intitolare Fellini Satyricon, quasi a sottolineare che la sua non era una trattazione filmica (cosa peraltro impossibile visto la frammentarietà del testo) ma una riduzione libera, legata alla sua idea del mondo, tanto che il titolo rimanda a una vera e propria riscrittura. Infatti il testo petroniano è utilizzato come pretesto sui cui s’innestano altri ricordi classici (come il petomane Varricchio, personaggio inesistente nel romanzo il cui gesto ricorda più un diavolo dantesco e la presenza di un Minotauro da circo che combatte contro Encolpio) o vere e proprie invenzioni sui personaggi petroniani (come la non morte di Ascilto). Ma l’intento dell’autore non era certo rendere con belle immagini le pagine latine, quanto trattarle in modo onirico, come un sogno fatto sulla romanità, facendo della sua opera un’operazione metafilmica in cui se il cinema è sogno egli lo rappresenta cinematograficamente. Ci dice Fellini: “Il racconto ci è giunto a frammenti, e il racconto sarà solo a frammenti, con l’alogicità dei sogni, colmo di vuoti improvvisi. Qualcosa come un mosaico dissepolto. La realtà presentata non sarà storica, ma onirica”. Esso infatti si presenta trattando i personaggi come volti riscoperti da un pittura pompeiana, mentre la scenografia sembra uscire da un sogno di fantascienza fatto da un antico Romano (si pensi alla scenografia dell’incipit).

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Immagine tratta da una sequenza  del film di Fellini

Cosa ci lascia oggi il film? In primo luogo non dobbiamo dimenticare l’anno in cui fu presentato: siamo nell’indomani del ’68 e la pellicola sembra proprio voler sottolineare il concetto di una fine, di un mondo in decadenza in cui la Roma neroniana con i suoi arricchiti liberti sembrava preannunciare nel suo vuoto barocchismo un senso di fine, di morte valoriale a cui si oppongono i due protagonisti, Encolpio e Ascilto, che, nella loro “libertà” sembrano richiamare, a loro volta, il mondo hippy che proprio in quella età prendeva forma; dall’altro la riflessione su una Roma caotica e disordinata che sembra città indistruttibile nella sua vacuità. Fellini ce lo aveva detto già nella Dolce vita, ma lo sottolineerà in una memorabile scena di un’opera successiva Roma, in cui nel momento in cui si scoprirà un affresco romano, l’aria penetrante nel luogo liberato lo polverizzerà.

 

GAIO VALERIO CATULLO

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Busto di Catullo a Sirmione

Il più grande poeta lirico latino pervenutoci, Catullo è riuscito a fare del suo Liber un testo fondamentale dove trasuda irruenza, giovinezza, amore e odio; ma l’opera non è solo questo, è anche un grande affresco di capacità poetica dove il nostro mostra i suoi gusti letterari e il modo straordinario d’interpretarli, dalla poesia di Saffo del V sec. a quella, raffinatissima e colta, dell’ellenista Callimaco.

 Notizie biografiche 

Catullo ci racconta tutto di sé, ma solo del suo mondo interiore; quando si tratta di notizie biografiche egli è molto parco: ci dice che è originario di Verona, certamente di ricca famiglia se il padre può ospitare, quando si trova da quelle parti, un personaggio del rango di Giulio Cesare. Certamente passa la giovinezza a Roma, di cui ci offre un vivido quadro e dove partecipa, insieme ad amici intellettuali, a quegli incontri dove si poeta giocosamente, ma non superficialmente, sulle proprie emozioni e su occasioni tali da essere cantate (i neoteroi).

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Un immagine di Catullo

Ma in questa città fu fondamentale l’amore che lo legò a colei che egli chiamò poeticamente Lesbia, ma che Apuleio, autore dell’età degli Antonini, ci svela essere quella Clodia, sorella di Clodio, nemico di Cicerone, che per questo lasciò di lei un ritratto in cui la descrisse come una donna disinvolta e dai liberi costumi sessuali. Ancora i suoi versi ci parlano di un viaggio nella Troade, dove visitò la tomba del fratello morto (versi ripresi in modo piuttosto puntuale da Foscolo). Non avendo notizie attendibili, ma dai dati emersi dai suoi scritti, sembra che la sua vita deve essere compresa tra l’84 e il 54, e la giovane morte sembra ben accordarsi con il mito romantico cui venne infine circondato.

La poesia neoterica

I poeti neoterici, come già accennato, mettono in primo piano della loro produzione la vita interiore delle passioni, che sembra poi diventare il fulcro del loro modus vivendi. Questo modo di considerare la letteratura li fa vivere in una cerchia in cui mostrano di conoscersi, frequentarsi, di condividere momenti privati propri e dei propri amici. Tale atteggiamento li fa considerare ostili da Cicerone, in quanto vedeva nel loro atteggiamento il più completo disinteresse riguardo lo Stato e una minaccia per l’educazione dei giovani, più che altro attirati da quest’atteggiamento edonistico e disimpegnato. Ma sembra proprio questo atteggiamento che fa parlare qualche critico di consapevolezza epicurea, quella che ritiene la philìa uno degli aspetti più importanti di questi poeti. Ma si direbbe che piuttosto di “amicizia” intesa in senso epicureo, bisognerebbe parlare di loro come di bohemiens, sperimentatori di vita e, come Catullo, poi dalla vita ingoiati.

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Charles Meynier: Erato, musa della poesia erotica

Liber
Il Liber che ci è pervenuto consta di 116 liriche così suddivise:

  • 1 – 60: componimenti brevi di metri diversi, definiti dall’autore nugae (sciocchezzuole, cose di poca importanza), presentano svariati temi, come l’amore, la morte del passerotto dell’amata, un invito a cena, e così via);
  • 61 – 68: carmina docta, componimenti più impegnativi che rispettano il gusto erudito della poesia ellenistica;
  • 69 – 116: epigrammi (distici elegiaci), che presentano la stessa varietà tematica della prima parte.

Dalla divisione qui presentata appare evidente che essa sia stata eseguita da copisti che secondo le usanze dell’epoca l’hanno suddivisa per generi metrici e non contenutistici. Tuttavia, anche da alcune tracce che appaiono nel testo, immaginiamo che tale suddivisione non sia quella operata da Catullo stesso e che probabilmente alcune liriche composte dal nostro autore siano infine, andate perdute.

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Marco Antonio Mureto, Catullus et in eum commentarius, Venetiis, apud Paulum Manutium, 1554

La poetica

Iniziamo il percorso sul Liber di Catullo dalla poetica, le cui tracce possiamo già individuarle nella prima lirica:

DEDICA
(I)

Cui dono lepidum novum libellum

arida modo pumice expolitum?
Corneli, tibi: namque tu solebas
meas esse aliquid putare nugas
iam tum cum ausus es unus Italorum
omne aevum tribus explicare cartis
doctis, Iuppiter, et laboriosis.
Quare habe tibi quidquid hoc libelli
qualecumque; quod, o patrona virgo,
plus uno maneat perenne saeclo.

220px-Cornelio_Nepote.jpg Cornelio Nepote, destinatario delle nugae catulliane

A chi dedicherò questo libretto che l’arsa pomice ha appena lucidato? A te, Cornelio, che solevi dar qualche peso alle mie iniziative, tu che tra gli itali eri il solo a condensare la storia universale in tre volumi, dotti, per Giove, e straordinari. Sia tuo il libretto, per quel che è, per quel che vale: ma ch’esso viva, vergine Musa, più del tempo di un uomo.

La lettura di questo carme, oltre a dirci che essa è dedicata a all’amico Cornelio Nepote, famoso per l’opera De viris illustribus, a noi pervenuta seppure non completamente, ci offre anche alcune considerazioni sul modo con cui i neoterici consideravano il lavoro poetico:

  • La brevitas: spiegare la storia universale in solo tre libri è il concetto chiave secondo cui la vera arte va ricercata nella brevità, dove solo si può rintracciare l’erudizione (libri dotti) e l’eleganza formale;
  • I carmina che ci offre non sono che nugae, che Cornelio sembrava apprezzare, tuttavia, seppur (falsamente) di poco conto, estremamente rifinite (pulite con l’arida pomice), a dimostrazione dell’importanza della purezza formale.

Se la dedica contiene alcuni topoi caratteristici di un carmen proemiale, la poetica catulliana viene espressa anche in altri momenti come in questo:

LA ZMYRNA DEL MIO CINNA
(XCV)

Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem
quam coeptast nonamque edita post hiemem,
milia cum interea quingenta Hortensius uno
…………………………………………………
Zmyrna cavas Satrachi penitus mittetur ad undas,
Zmyrnam cana diu saecula pervolvent.
At Volusi annales Paduam morientur ad ipsam
et laxas scombris saepe dabunt tunicas.
Parva mei mihi sint cordi monumenta sodalis,
at populus tumido gaudeat Antimacho.

Infine la Smirna del mio Cinna dopo nove estati da che è iniziata e dopo nove inverni è stata pubblicata, mentre nel frattempo Ortensio cinquemila in un solo (mese?) ….. La Smirna sarà mandata fino alle onde profonde del Satrachi, le canute generazioni leggeranno assiduamente a lungo la Smirna. Ma gli annali di Volusio moriranno nella stessa foce del Po e daranno spesso ampie coperture agli sgombri. A me siano al cuore i piccoli “monumenti” del mio compagno, ma il popolo goda del grasso Antimaco.

Anche questo carmen riprende il tema della brevitas, attraverso l’incitamento al suo amico Elvio Cinna e al suo raffinato poemetto, contro il turgido epos di Volusio. Quello che qui interessa non è tuttavia ripetere quanto detto rispetto alla poesia della dedica, quanto piuttosto l’imitatio che egli fa verso un genere greco: infatti già Callimaco aveva, in una sua opera, annunziato la pubblicazione dei Fenomeni di Arato. Ma Catullo, rispetto al poeta alessandrino, fa qualcosa di più: utilizza tale espediente per criticare con sarcasmo i suoi avversari letterari, augurando che le loro opere finiscano a far da involucro a pesci maleodoranti.

Temi vari

Nell’opera dell’autore di Verona l’elemento centrale è l’io e le sue impressioni su ciò che vive rispetto all’amicizia, l’amore e la politica. Tra i vari temi presenti iniziamo con il tema dell’epicurea philia, che, come già detto sembra più da attribuirsi ad un atteggiamento di Catullo e dei suoi sodali:

UN INVITO A CENA
(XIII)

Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
paucis, si tibi di favent, diebus,
si tecum attuleris bonam atque magnam
cenam, non sine candida puella
et vino et sale et omnibus cachinnis.
Haec si, inquam, attuleris, venuste noster,
cenabis bene: nam tui Catulli
plenus sacculus est aranearum.
Sed contra accipies meros amores
seu quid suavius elegantiusvest:
nam unguentum dabo, quod meae puellae
donarunt Veneres Cupidinesque,
quod cum tu olfacies, deos rogabis,
totum ut te faciant, Fasulle, nasum.

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Affresco pompeiano raffigurante un momento del pasto romano

Cenerai bene, o mio Fabullo, presso di me fra pochi giorni, se gli dei ti saranno favorevoli, se con te porterai una buona e abbondante cena, non senza una splendida fanciulla e vino e motti di spirito e tutta l’allegria. Se porterai queste cose, dico, o mio caro amico, cenerai bene: infatti il borsellino del tuo Catullo è pieno di ragni. Ma in cambio riceverai un graziosa delizia o qualcosa di più soave o di più elegante infatti (ti) offrirò un unguento che alla mia fanciulla donarono gli Amori ed i Cupidi, quando tu lo proverai, pregherai gli dei, che ti facciano tutto naso.

Qui il tema dell’amicizia è risolto nel classico “invito a tavola” che Catullo rivolge al suo amico, classico perché è un tema già presente nella poesia greca. Egli lo risolve in modo scherzoso, insistendo sulla sua povertà e chiedendo all’amico di portare cibo e donne. Ma ciò che interessa è il clima che qui ci viene rappresentato e che ci offre, nel contempo, un quadro della vita di questi raffinati bohemiens. Appare inoltre un piccolo accenno al suo smisurato amore: sebbene egli sia povero, potrà donare al suo amico il profumo più inebriante che egli abbia mai sentito, in quanto fabbricato dallo stesso Amore e a lui donato dalla donna che ama. Ciò permetterà di chiudere il carme con una battuta scherzosa (aprosdòketon, procedimento per cui si suscita nel lettore un’aspettativa che verrà delusa o sovvertita) del tutto inattesa dal lettore.

Ancora su questo tema egli ci offre la sua gioia nel poter rivedere un amico:

IL RITORNO DI UN AMICO
(IX)

Verani, omnibus e meis amicis
antistans mihi milibus trecentis,
venistine domum ad tuos penates
fratresque unanimos anumque matrem?
venisti. o mihi nuntii beati!
visam te incolumem audiamque Hiberum
narrantem loca, facta nationes,
ut mos est tuus, applicansque collum
iucundum os oculosque suaviabor.
o quantum est hominum beatiorum,
quid me laetius est beatiusve?

Veranio, che per me tra tutti i miei amici ne superi mille trecento, sei giunto a casa dai tuoi penati, dai fratelli unanimi e la vecchia madre? Sei giunto, o belle notizie per me! Ti rivedrò incolume e ti sentirò narrare i luoghi degli Iberi, le imprese, i popoli, come è tuo stile, aggrappandomi al dolce collo bacerò il volto e gli occhi. Oh quanto c’è di uomini più felici, cosa c’è di più allegro e felice di me?

Se Catullo viene ricordato per la passionalità con cui esprime il suo sentimento d’amore, non si può trascurare che tale passionalità è costituiva del suo essere. Infatti anche in questo canto egli si fa trasportate dall’infinita gioia che prova nel rivedere un amico. Ma tale gioia non è scevra dalla curiosità: Catullo non vuole solo riabbracciarlo, ma conoscere ciò che ha visto e imparato.

Un altro tema affrontato, ma non principale nel Liber, è quello politico, o per meglio dire di sottolineatura apolitica rispetto a due grandi uomini di potere:

A CESARE
(XCIII) 

Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere,
nec scire utrum sis albus an ater homo.

Non mi preoccupo troppo di volerti piacere, né di sapere se tu sia un uomo bianco o nero.

In questo unico distico elegiaco (si definisce così l’unione di due versi di cui uno in esametro e l’altro in pentametro) l’autore vuole mostrare completa indifferenza verso l’uomo che, durante la sua vita, era al culmine del potere politico. Tale indifferenza, d’altra parte, era pienamente condivisa dai poeti neoterici; viene qui, tuttavia, sottolineata attraverso l’ironia, con cui  Catullo sembra alludere all’ambiguità sessuale dell’uomo politico.

Ora se, una scuola poetica fortemente “aristocratica” nel percepire la realtà ed il mondo attraverso il culto della bellezza, e quindi di per sé lontana dai populares, non per questo egli è vicino agli optimati come si può vedere in questo passo:

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Giocatori di dadi 

A CICERONE
(IL)

Disertissime Romuli nepotum,
quot sunt quotque fuere, Marce Tulli,
quotque post aliis erunt in annis,
gratias tibi maximas Catullus
agit pessimus omnium poeta,
tanto pessimus omnium poeta,
quanto tu optimus omnium patronus.

O Marco Tullio, il più fecondo tra i nipoti di Romolo, di quanti sono, di quanti furono e di quanti saranno negli anni futuri, Catullo ti ringrazia moltissimo, il peggiore poeta fra tutti, quanto tu il migliore avvocato fra tutti.

Anche qui, sebbene attraverso un linguaggio più ricercato ed enfatico, scopriamo un vero e proprio intento ironico, contro colui che aveva rimproverato i neoteroi di “criticare” il sommo Ennio, padre della patria e i cui versi servivano ad educare i bambini Romani al rispetto delle leggi e della famiglia. Ma d’altra parte Catullo cosa può condividere con un uomo un po’ borioso, ma sincero nel suo impegno per salvare la repubblica ed un gruppo di giovani, di cui fa parte, ormai così ellenizzato ed internazionale che della patria e dei suoi valori non importa nulla? Cosa ha ancora da condividere con chi, inoltre, si era scagliato in modo così violento contro la sua donna nella Pro Caelio da definirla una “mangiatrice d’uomini” e “poco di buono”?

Un altro tema importantissimo è quello della morte, che possiamo riassumere in due diversi atteggiamenti, quello giocoso e quello biografico e triste:
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Edward Pointer: Lesbia con il suo passerotto (1908)

Il primo è quello della morte del passero, tuttavia non si può leggere tale passo senza introdurlo con il carme II in cui tale uccellino ci viene presentato:

IL PASSEROTTO DI LESBIA
(II)

Passer, deliciae meae puellae,
quicum ludere, quem in sinu tenere,
cui primum digitum dare appetenti
et acris solet incitare morsus,
cum desiderio meo nitenti
carum nescioquid lubet iocari,
et solaciorum sui doloris,
credo, ut tum gravis acquiescat ardor:
tecum ludere sicut ipsa possem
et tristis animi levare curas!

Passero, gioia della mia ragazza, con cui è solita giocare, tenerlo in grembo, offrirgli la punta del dito a lui che gli si avventa contro e provocare pungenti beccate, quando al mio splendido amore piace giocare non solo quale gioco gradito e di piccolo sollievo del suo suo dolore, credo, affinché plachi poi la bruciante passione: potessi giocare con te come lei stessa (gioca con te) e dimenticare i tristi affanni!

LA MORTE DEL PASSERO
(III)

Lugete, o Veneres Cupidinesque,
et quantum est hominum venustiorum:
passer mortuus est meae puellae,
passer, deliciae meae puellae,
quem plus illa oculis suis amabat.
nam mellitus erat suamque norat
ipsam tam bene quam puella matrem,
nec sese a gremio illius movebat,
sed circumsiliens modo huc modo illuc
ad solam dominam usque pipiabat.
Qui nunc it per iter tenebricosum
illuc, unde negant redire quemquam.
At vobis male sit, malae tenebrae
Orci, quae omnia bella devoratis:
tam bellum mihi passerem abstulistis
o factum male! o miselle passer!
Tua nunc opera meae puellae
flendo turgiduli rubent ocelli.

Piangete Veneri, piangete Amori, e chiunque abbia un animo gentile. E’ morto il passero della mia donna, il passero, gioia della mia donna, che lei più dei suoi occhi amava; era tutto miele, e la conosceva come una bimba conosce la madre, e dal suo seno mai si distaccava, ma saltellando qui e là solo per lei pigolava. Ma adesso va per il cammino oscuro, da cui, si dice, non torni più nessuno. Maledizione a voi, tenebre cattive, che ogni cosa bella divorate: un amore di passero avete annientato. Fatto orrendo! Passero infelice! Per causa tua la mia donna piange, e gli occhi belli sono rossi e gonfi.

I due carmi, messi uno a fianco all’altro dopo la dedica, costituiscono quasi un unicum: dapprima vediamo l’uccellino in atteggiamento fortemente amoroso con la sua donna, il secondo è un epicedio (componimento poetico funebre) per la morte del passerotto di Lesbia. Anche la morte di un animale, come molti altri, è un tema assai presente nella lirica greca, che Catullo qui riprende sia con giusta mestizia, ma anche con graziosa leggerezza. D’altra parte l’episodio funebre serve al poeta per parlare di Lesbia, qui ritratta con semplice freschezza, piena d’attenzioni per il suo passerotto ed inconsolabile quando lui non c’è più.

Ben diverso tono ha la poesia per la morte del fratello:
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Tomba romana

PER LA MORTE DEL FRATELLO
(CI)
Multas per gentes et multa per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem.
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum.
heu miser indigne frater adempte mihi,
nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, ave atque vale. 

Di gente in gente, di mare in mare ho viaggiato,  o fratello, e giungo a questa squallida tomba per consegnarti il dono supremo di morte e per parlare invano con le tue ceneri mute, poiché la sorte mi ha rapito te, proprio te, o infelice fratello precocemente strappato al mio affetto. Ed ora queste offerte, che ti porgo come comanda l’antico rito degli avi, dono dolente alla tomba, gradisci; sono madide di molto pianto fraterno; e ti saluto per sempre, o fratello, addio.

Carme famosissimo, grazie anche alla “mediazione” che Foscolo ne fece nel celeberrimo sonetto In morte del fratello Giovanni. Si tratta infatti della tomba che Catullo visitò nel 57 nel suo viaggio nella Troade al seguito del pretore Gaio Memmio. A ben guardare sin dall’inizio del carme la distanza tra la tomba e il poeta sembra presagire la stessa distanza tra la vita e la morte. La cenere è infatti muta, impenetrabile. Al poeta non rimane che, tradizionalmente, offrire riti funebri e dare un addio definitivo, rimarcando (seguendo la filosofia epicurea?) il vuoto dopo la morte.

L’amore

Ma il tema centrale, quello che, come un filo rosso percorre l’intero Liber, è il tema d’amore, rivestito con incredibile letterarietà, ma sempre con innegabile passione. Tale concetto lo si può notare nel bellissimo rifacimento che egli compì di una lirica di Saffo:

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Saffo

LA POTENZA DELL’EROS
(LI)
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
(vocis in ore),
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures, gemina et teguntur
lumina nocte.
Otium, Catulle, tibi molestum est;
otio exsultas nimiumque gestis.
Otium et reges prius et beatas
perdidit urbes

Pari a un dio mi sembra, o più ancora, se è lecito dire, chi ti siede di fronte, e ti guarda, e ascolta, ridere dolcemente, ed io, infelice, smarrisco ogni senso: al primo vederti, Lesbia, non mi resta un filo di voce, la lingua s’annoda, sotto pelle trascorre fiamma sottile, un suono dentro mi romba nelle orecchie, gli occhi si coprono di duplice notte. L’ozio, Catullo, ti fa male; in ozio t’agiti troppo, t’esalti. L’ozio ha già rovinato re e città intere.

Come già detto si tratta di una traduzione/emulazione di una lirica della poetessa Saffo, cui si allontana solo nell’ultima parte, quella dedicata alla riflessione sull’ozio. Tale carme ci offre la possibilità di ragionare sul concetto del vertere poetico, cui i neoteroi e chiaramente Catullo, danno notevolissima importanza. Qui infatti egli riprende non solo il tema ma anche la versificazione della poetessa greca, versificazione difficile e rara che egli utilizza qui, quasi questo fosse l’atto dell’innamoramento e nel testo 11 che sembra invece alludere alla fine di un amore. Tale corrispondenza non sembra casuale, come ad indicare che la scelta metrica obbedisca a momenti topici e fondamentali (il principio e la fine della sua storia d’amore).

Dopo essersene innamorato il poeta la desidera con tutta la forza, volendole dare tutti i baci possibili: 

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Auguste Rodin: Il bacio (1886)

MILLE BACI
(V)
Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.

Viviamo, mia Lesbia, e amiamoci e le chiacchiere dei vecchi brontoloni stimiamole tutte un soldo! Il sole può morire e può rinascere: ma quando per noi cade la breve luce dobbiamo dormire insieme una notte eterna. Dammi mille baci, poi cento, poi altri mille, poi un’altra volta cento, e ancora altri mille e ancora cento. Infine, quando ce ne saremo dati migliaia, li confonderemo per non sapere quanti sono, o perché nessun malvagio possa invidiarci dopo aver saputo quanti baci ci siamo dati.

Lirica quanto mai passionale: un vero e proprio invito all’amore spinge il poeta e l’amante a sfinirsi di baci; ma non è solo amore. Vi è in Catullo una sottile malinconia, che lo spinge a vivere con estrema intensità visto che al di là c’è il vuoto, come già abbiamo visto nel canto dedicato al fratello. La compulsività del numero dei baci, infatti, sembra voler nascondere la brevis lux della vita, sottolineata dall’ambiguità del dover dormire una notte eterna e che non finisce mai.

Ma come intendeva l’amore Catullo? Alla base di tutto fra i due amanti è necessario un foedus (patto) che sancisca per ambedue la fides (la fiducia) tra l’uno e l’altro:

FOEDUS ET FIDES
(LXXXVII)
Nulla potest mulier tantum se dicere amatam
vere, quantum a me Lesbia amata mea est.
Nulla fides ullo fuit umquam foedere tanta,
quanta in amore tuo ex parte reperta mea est. 

Nessuna donna può dire d’essere stata tanto amata veramente, quanto tu Lesbia sei stata amata da me. In nessun patto ci fu mai tanta fiducia che questo mio amore verso te ha rivelato.

E’ abbastanza importante l’utilizzo dei due termini sopra riportati nel riferirsi al rapporto d’amore: infatti Catullo utilizza il termine foedus che ha radice politica: esso indicava l’alleanza tra due stati; fides aveva diverse accezioni, ma veniva soprattutto usata in campo coniugale. Il fatto che il poeta veronese spostasse il campo semantico dei due termini in un rapporto erotico dal loro significato “ufficiale” tende da un lato a voler rendere ufficiale e quindi riconoscibile una vera, così come Catullo intendeva viverla, storia d’amore e dall’altra l’impossibilità di realizzarla.

Un’altra importante terminologia che Catullo ci svela sul piano della poesia erotica è quella di amare e voler bene:

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Coppia romana

AMARE ET BENE VELLE
(LXXII)
Dicebas quondam solum te nosse Catullum,
Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
multo mi tamen es vilior et levior.
«Qui potis est?», inquis, quod amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene velle minus.

Dicevi un tempo d’amare il solo Catullo, Lesbia, e che non avresti voluto amare neppure Giove al posto mio. Ti ho amato non soltanto come la gente ama un’amante, ma come un padre ama i suoi figli e i suoi generi. Ora ho capito: perché anche se brucio più intensamente, sei meno degna di stima e d’amore. «Com’è possibile?», dici. Perché un’ingiuria tale costringe un amante ad amare di più, ma a voler meno bene.

E’ un carmen dove già comincia ad apparire la disillusione catulliana. Il tradimento di Lesbia, qui adombrato, fa sì che il poeta chiarisca bene il concetto di cosa sia per lui l’amore e cosa il semplice affetto. E’ infatti utile dividere il brano in due periodi: un prima in cui Catullo ama stimando la persona umana e quindi circondarla d’affetto e chi, ferito, continui ad amare ma soltanto per soddisfare un bisogno fisico. Infatti per Catullo si brucia d’amore (uri) per possedere, ma si ama quando si vuole bene (bene velle).

La delusione e dissociazione dell’autore verso la donna cui dedica ogni attimo della sua vita, viene riassunta in modo mirabile in un distico famosissimo:

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Pittura contemporanea

ODI ET AMO
(LXXXV)
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio e amo. Forse mi chiedi come io faccia. Non lo so, ma sento che ciò accade, e ne sono tormentato.

Qui viene sintetizzato in modo mirabile il conflitto interiore, esemplificato nei due verbi odi/amo che in parte rispecchia il amare/bene velle. Ma non c’è un ripiegamento psichico, quanto una situazione fenomenica: i tradimenti di lei lo portano a odiarla e amarla.

D’altra parte ormai Lesbia si sta lasciando completamente andare:
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John Reinhard Weguelin – Lesbia

L’ESTREMA DEGRADAZIONE
(LVIII)
Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa,
illa Lesbia, quam Catullus unam
plus quam se atque suos amavit omnes,
nunc in quadriviis et angiportis
glubit magnanimi Remi nepotes.

Celio, la nostra Lesbia, la bella Lesbia. la bella Lesbia, che lei sola Catullo amò più di se stesso e tutti i suoi, ora negli incroci e nei vicoli scortica i nipoti del magnanimo Remo.

Catullo si rivolge ad un amico, (i critici azzardano forse un Celio di Verona) per riferirgli la più completa degradazione della sua donna che ormai s’accompagna nei bassifondi con un tutti gli uomini di Roma. E’ certamente una visione soggettiva dettata da forte ira, con una chiusa sarcastica che chiude in modo osceno il carme. Infatti glubo riveste qui un significato osceno di “smungere, vuotare”.

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Stefano Bakalovich: Catullo legge versi ai suoi amici

Ma anche Catullo tradisce Lesbia con altre donne e non solo, se si lascia irretire dalla greca pederastia, dedicando, con le stesse parole che usa per l’amata, più di un carme per il giovinetto Giovenzio:

VERSI PER GIOVENZIO
(XLVIII)
Mellitos oculos tuos, Iuventi,
si quis me sinat usque basiare,
usque ad milia basiem trecenta
nec numquam videar satur futurus,
non si densior aridis aristis
sit nostrae seges osculationis.

I tuoi occhi, o Giovenzio, dolci come il miele, se qualcuno mi lasciasse liberamente baciare, io li bacerei migliaia di volte, né mi parrebbe di essere mai sazio, anche se più fitta delle spighe mature fosse la messe dei miei baci.

La difficoltà di questo carme non è tanto attestare la veridicità dell’amore di Catullo per questo ragazzo, in quanto sappiamo che la pratica omosessuale da parte di questi poetae novi e della classe intellettuale era abbastanza diffusa ed accettata, quanto piuttosto se il verseggiare sopra di essa non sia una ripresa della poesia greca arcaica, cui il nostro faceva riferimento. Basti pensare che quella in cui egli comincia a provare il desiderio verso Lesbia, il carme 51, chiamato qui La potenza dell’eros, sia una ripresa piuttosto puntuale di una lirica della poetessa Saffo dedicata ad una ragazza.

Ma come proprio tale lirica, cui Catullo riprende la versificazione, aveva indicato l’inizio del suo amore, ora sarà un’altra lirica, nello stesso verso, ad indicarne la fine:
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Lawrence Alma-Tadema: Catullo da Lesbia (1865)

AMICI MIEI DITE A LESBIA…
(XI)
Furi et Aureli comites Catulli,
sive in extremos penetrabit Indos,
litus ut longe resonante Eoa
tunditur unda,
sive in Hyrcanos Arabesve molles,
seu Sagas sagittiferosve Parthos,
sive quae septemgeminus colorat
aequora Nilus,
sive trans altas gradietur Alpes,
Caesaris visens monimenta magni,
Gallicum Rhenum horribile aequor ulti-
mosque Britannos,
omnia haec, quaecumque feret voluntas
caelitum, temptare simul parati,
pauca nuntiate meae puellae
non bona dicta.
cum suis vivat valeatque moechis,
quos simul complexa tenet trecentos,
nullum amans vere, sed identidem omnium
ilia rumpens;
nec meum respectet, ut ante, amorem,
qui illius culpa cecidit velut prati
ultimi flos, praetereunte postquam
tactus aratro est.

Furio ed Aurelio, compagni di Catullo, sia se penetrerà tra gli ultimi Indi, dove il lido è battuto dall’onda orientale che risuona, sia tra gli Ircani o i lenti Arabi, sia tra i Saghi o i Parti armati di frecce, sia tra le acque che colora il Nilo dalle sette foci, sia se entrerà tra le alti Alpi, visitando le opere del grande Cesare, il gallico Reno, il mare orrendo e gli ultimi Britanni, tutte queste realtà, qualunque volontà dei celesti deciderà, pronti ad affrontarle insieme, annunciate alla mia ragazza poche parole non buone. Viva e goda coi suoi ganzi: ne tiene trecento insieme abbracciandoli, non amandone nessuno veramente, ma ugualmente rompendo i fianchi di tutti; e non aspetti, come prima, il mio amore, che per sua colpa è caduto come un fiore dell’ultimo prato, dopo esser stato tranciato da un aratro che passava.

Il carme indica l’estrema amarezza con cui Catullo sembrerebbe chiudere la storia (o un momento di essa). Un viaggio lontano, per andare via, verso luoghi favolosi; tutto questo per dimenticarla e allontanare da sé quest’amore che non ha fatto altro che spezzargli il cuore.

A tale allontanamento, forse definitivo, si avvicina uno dei testi più elaborati, ma certamente tra i più belli, in cui, cessata la rabbia, nasce quasi la consapevolezza della fine di una storia: non occorre più adirarsi verso colei che gli ha occupato la mente in modo totale, ma trovare la pace con se stesso.

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Immagine di Catullo

PREGHIERA AGLI DEI
(LXXVI)
Siqua recordanti benefacta priora voluptas
est homini, cum se cogitat esse pium,
nec sanctam violasse fidem, nec foedere nullo
divum ad fallendos numine abusum homines,
multa parata manent in longa aetate, Catulle,
ex hoc ingrato gaudia amore tibi.
Nam quaecumque homines bene cuiquam aut dicere possunt
aut facere, haec a te dictaque factaque sunt:
omnia quae ingratae perierunt credita menti.
Quare cur te iam amplius excrucies?
Quin tu animo offirmas atque istinc teque reducis,
et deis invitis desinis esse miser?
Difficile est longum subito deponere amorem;
difficile est, verum hoc qua lubet efficias.
Una salus haec est, hoc est tibi pervincendum;
hoc facias, sive id non pote sive pote.
O di, si vestrum est misereri, aut si quibus umquam
extremam iam ipsa in morte tulistis opem,
me miserum aspicite et, si vitam puriter egi,
eripite hanc pestem perniciemque mihi,
quae mihi subrepens imos ut torpor in artus
expulit ex omni pectore laetitias.
Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa,
aut (quod non potis est) esse pudica velit;
ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum.
O di, reddite mi hoc pro pietate mea.

Se il ricordo del bene compiuto in passato dà piacere al pensiero d’essere stati giusti, di non avere mai tradito e offeso il nome degli dei per ingannare l’uomo, mai in nessun rapporto, molte gioie t’aspettano, e per molti anni, o Catullo, per questo amore senza gratitudine. Perché quanto gli uomini possono ad una persona dire o fare di bene tu l’hai detto e l’hai fatto. Tutto è morto, donato a uno spirito ingrato. Perché allora continui a torturarti? Perché non ti fai forte e ti stacchi da questo, ritorni, senza essere più infelice, se gli Dei non lo vogliono? È difficile, a un tratto, un lungo amore, lasciarlo. È difficile, sì, ma devi farlo. E come vuoi tu. È la sola salvezza. E tu devi vincere, devi. Cerca di farlo, se puoi, e anche se non puoi. O Dei, se è qualità divina avere pietà, se mai soccorreste qualcuno sulla terra nell’ora della morte guardatemi. Io sono infelice. E se la mia vita fu pura, strappate questa malattia mortale, che penetra nelle fibre acuta come un torpore e mi toglie dal cuore tutto il gusto di vivere. Non chiedo, no, che lei mi possa riamare, e che diventi pura, perché non è capace: io ho voglia di star bene, guarire dal mio tetro male.Concedetemi questo, Dei, per la mia fede.

Tale carme rispecchia il tormento interiore del poeta, tormento, tuttavia, di cui è oggetto e non soggetto. Egli elaborando la sua storia d’amore, ricorda la fides ed il foedus con cui l’ha condotta; poi, nella seconda parte del carme, sottolinea la difficoltà di liberarsi dal sentimento, perché non sa come fare ed infine chiude con l’invocazione agli dei affinché lo liberino dal tormento e lo conducano alla serenità.

Certo, una poesia sul discidium come questa non poteva essere che avere Catullo protagonista: lui ha conservato l’amore, lui ha procurato quindi del bene a lei, è lei l’ingrata che lo ha lasciato. Ma ora basta. Solo una cosa è rimasta da chiedere, da volere, e non la chiede a lei, sorda ad ogni atto che lui le ha dato, ma agli dei: che lo liberino, una volta per tutte da questo taetrum morbum, reddite pacem misero Catullo.