DIVINA COMMEDIA: INFERNO

COMEDÌA

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Struttura della Comedìa

La Divina Commedia, con il titolo con cui noi oggi la conosciamo è un poema, scritto all’inizio del 1300 da un uomo fiorentino in esilio.

E’ un’opera che l’autore ha definito “comedìa” perché gli stili codificati nella cultura classica e quindi ripresi dalla cultura medievale, indicavano con questo termine ciò che aveva un duro e difficoltoso inizio ed un felice e piacevole fine ed inoltre utilizzavano uno stile “medio”. Nella prima cantica Dante infatti utilizza uno stile basso, medio nella seconda ed alto nella terza, riprendendo da un grande autore latino la concezione secondo cui nella commedia talvolta poteva presentarsi lo stile tragico ed alto. Inoltre lo stesso Dante ci dice in che modo è corretto leggere l’opera: nel Convivio, opera dottrinale del nostro, egli afferma che ci sono quattro sensi per intendere un’opera. Essi sono:

  1. letterale: percepire ciò che il testo dice nell’evidenza del suo dettato;
  2. allegorico: cercare un altro significato che va al di là del testo “letterale”;
  3. morale: indica il fine che nasconde l’opera e dev’essere colto dal lettore;
  4. anagogico: indica la spiritualità verso cui tendere il lettore.

Dante stesso invita il lettore a cogliere, nella sua opera. il senso allegorico.

Inferno

Noi non possediamo alcun manoscritto dantesco; la data entro cui inseriamo la stesura delle tre cantiche la ricaviamo da dati interni l’opera e dalla biografia del poeta. L’interruzione de Il Convivio e il De vulgari eloquentia c’invitano a collocare l’Inferno tra il 1306 e il 1309, il primo come data in cui tramontano definitivamente le speranze di una ripresa imperiale da parte di Arrigo VII, il secondo perché i fatti di cronaca presenti nel testo si fermano, appunto, a quella data.

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Struttura Inferno

Dante disegna l’Inferno come un gigantesco imbuto, creatosi dopo la rovinosa caduta di Lucifero che dal cielo venne precipitato giù, conficcandosi con la testa al centro della terra (cioè nel luogo più lontano della terra). Tale voragine si apre nell’emisfero boreale, presso Gerusalemme, e quella terra che fuggì via al suo arrivo, si raccolse a formare la montagna purgatoriale che domina alta e solitaria, completamente inaccessibile all’uomo, nell’emisfero australe.

Canto I
Proemio dell’opera

Sin dal primo verso, Dante c’immerge subito nella materia: egli, a 35 anni, nei giorni centrali dell’anno giubilare del 1300 proclamato, per la prima volta, da Bonifacio VIII, si ritrova in una selva, dal momento che ha perduto la “diritta via”. Ma se la “diritta via” è la via della salvezza, ne consegue che la selva è il “peccato”. Dante in tre versi ci fa passare dal senso letterale al senso allegorico. Ma c’è anche quello morale: bisogna liberarsi dal peccato, e quello anagogico, al fine di percorrere la via che giunge a Dio. Impaurito Dante si sente risollevato dalla vista del Sole, spera di raggiungerlo, ma tre animali gli sbarrano la strada: nulla è più evidente della capacità di Dante nel dare valore in tutti i sensi possibili al suo discorso: il Sole è Dio, le tre fiere, rispettivamente la lonza, il leone e la lupa, attraverso un crescendo morale ci rimandano alla lussuria, la forza e la violenza, ma soprattutto l’avarizia e alla frode. E mentre è sempre più trascinato dallo sconforto, ecco che gli si presenta una figura, Virgilio, ricco di sapienza e di virtù, che annuncia al poeta la fine del peccato nel mondo con una oscura profezia e quindi prospetta il viaggio ultraterreno, che lo condurrà a visitare, oltre all’inferno e a gran parte del purgatorio con la sua guida, il paradiso terrestre ed il regno dei cieli, con guide più degne di lui. Dante commosso accetta.

inferno-i-1.jpgGustave Doré: Inizio canto I

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.

inferno-i-2.jpgGustave Doré: La lonza

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,

anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.

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William Blake: Dante e le tre fiere

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos’io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».
«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

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Il veltro messianico di Dante

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla.
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro. 

Alla metà del percorso della mia esistenza (verso i 35 anni), mi sono ritrovato in un bosco oscuro (simbolo del peccato) in quanto avevo smarrito la diritta via (simbolo di via virtuosa). Ah quanto difficile cosa è dire qual era questa selva orrida, intricata di vegetazione e difficile da attraversare, che solo a pensarvi rinnova la paura! Tanto essa è amara che la morte sia naturale che spirituale lo è poco di più, ma per parlare del bene che io trovai in essa, dirò delle altre cose che io ho visto. Io non so ben riferire come io ci sia entrato, tanto ero ottenebrato nel momento in cui io abbandonai la via della verità. Ma poi quando giunsi ai piedi di un colle (il Purgatorio), là dove terminava lo spazio tra esso e la selva, che mi aveva riempito il cuore di paura, guardai in alto e vidi la sua sommità illuminata dal sole, che guida direttamente ciascuno qualunque via faccia. Allora la paura si acquietò un po’, che si era protratta a lungo nel profondo del cuore durante il tempo trascorso nella selva con tanta angoscia. E come il naufrago che, con respiro affannato, uscito dal mare e raggiunta la spiaggia, si rivolge al mare portatore di pericolo e lo osserva con attenzione, così l’animo mio, che ancora fuggiva (dalla selva), si volse indietro a contemplare il passaggio (che separa la selva dal colle) che non lasciò mai passare un uomo vivo. Dopo che ebbi riposato il corpo stanco, ripresi il cammino per il pendio solitario, in modo che il piede fermo era sempre il più basso (l’atto della salita). Ed ecco, quasi all’inizio della salita del colle una lonza (simbolo della incontinenza) agile e molto veloce, ricoperta di pelle screziata; essa non si allontanava dal mio cospetto, anzi impediva talmente il mio cammino che io fui tentato di ritornare indietro. L’ora era al principio del mattino ed il sole sorgeva con la costellazione dell’Ariete che era con lui quando Dio impresse agli astri il primo moto della creazione; cosicché sia l’ora che la stagione mi facevano ben sperare per quella bestia dalla pelle maculata; ma non abbastanza per la paura che mi diede l’aspetto di un leone (simbolo della superbia – per altri violenza) quando mi apparve. Questo sembrava venire contro di me, con la testa alta e minacciando distruzione, tanto che la stessa aria ne provava terrore. Ed una lupa (simbolo della fraudolenza, per altri avarizia), che sembrava carica di ogni bramosia e ha fatto vivere popolazioni afflitte, questa mi porse tanto affanno per la paura che emanava dal suo aspetto che io perdetti la speranza di raggiungere la sommità del colle. E come colui che facilmente raduna ricchezze, e giunge il momento in cui perde ogni cosa, che si rattrista in tutti i suoi pensieri, allo stesso modo mi rese la bestia senza pace, che venendomi incontro lentamente, mi sospingeva all’interno del bosco dove il sole non fa filtrare i suoi raggi. Mentre io precipitavo verso il fondo, mi apparve all’improvviso colui che, per l’oscurità del luogo, sembrava evanescente. «Abbi pietà di me», gli gridai, «chiunque tu sia, o spirito o uomo vivo». Mi rispose: «Non sono vivo, ma lo sono stato; i miei genitori furono dell’Italia settentrionale, nativi ambedue a Mantova. Nacqui sotto Giulio Cesare, sebbene troppo tardi per essere apprezzato da lui, e vissi a Roma, sotto il buon Augusto, nel tempo degli dei pagani (falsi e bugiardi). Fui poeta, e nel mio libro (l’Eneide) narrai di quel giusto figlio d’Anchise, Enea, che venne da Troia, dopo che la sua superba rocca fu bruciata. Ma tu perché ritorni all’afflizione della selva? Perché non sali il monte dilettoso che è il principio e la ragione di ogni possibile gioia?». «Allora sei tu quel Virgilio e quella sorgente che hai offerto un così largo fiume di eloquenza?», gli risposi con il volto vergognoso. «O onore e faro di tutti gli altri poeti, mi valga il lungo studio e la grande venerazione che mi ha fatto percorrere tutta la tua opera. Tu sei il mio maestro ed il mio autore, tu sei solo colui da cui io tratto lo stile che mi ha fatto onore. Vedi la bestia per cui io sono tornato indietro, aiutami a liberarmi di lei, famoso uomo sapiente, che essa mi fa tremare le vene e le arterie». «A te si addice affrontare un altro viaggio», rispose dopo che mi vide piangere, «se vuoi sottrarti da questa selva intricata; perché questa bestia, per la quale tu ti lamenti, non lascia passare nessuno per la sua via, ma tanto lo incalza finché non lo annienta; e la sua natura è così malvagio e cattiva, che mai non sazia la sua voglia bramosa, e dopo il pasto ha più fame di prima. Molti sono gli esseri viventi con cui si unisce, e ce ne saranno ancora molti, finché verrà il Veltro (segugio da caccia), che la farà morire con dolore. Questo non si ciberà né di terre né di ricchezze, ma solo di sapienza, amore e virtù, e la sua nascita sarà fra panni modesti (umili origini). Sarà la salvezza di quella Italia ormai decaduta per la quale morirono Eurialo e Niso (troiani) e Camilla (figlia del re dei Volsci) e Turno (re dei Rotuli) di ferite. Costui le darà la caccia in ogni città, fino a che la ricaccerà nell’Inferno, là dove Lucifero (invidia prima) la fece uscire contro gli uomini. Per cui per il tuo meglio penso e decido che tu mi debba seguire, ed io sarò la tua guida, e ti condurrò da qui per l’Inferno, dove ascolterai disperate grida, vedrai gli antichi spiriti dolenti che anelano alla morte definitiva; quindi vedrai coloro che sono felici di espiare le loro pene, perché sperano un tempo di unirsi alle persone beate. Alle quali, se tu vorrai raggiungerle ci sarà un’anima più degna di me: ti lascerò a lei quanto ti abbandonerò, perché Dio (imperatore che regna nell’Empireo), in quanto io fui incredulo in Cristo venturo, non vuole che io raggiunga la sua città. Egli impera in tutto il creato e nell’Empireo governa, qui è la sua città e l’alto trono, oh felice colui che Dio lassù destina!». Ed io a lui: «Poeta io ti richiedo per quel Dio che non conoscesti, affinché io fugga questo male e la dannazione, che tu mi conduca là dove mi hai detto, in modo che io possa vedere la porta del Purgatorio e quelli che tu descrivi essere tanto dolenti». Allora si mosse ed io lo seguii.

Canto II
Proemio dell’Inferno

Chiuso il prologo di tutta l’opera, Dante riprende la narrazione, con un nuovo prologo, ma ora soltanto dell’Inferno. Questo prologo, com’è consuetudine, inizia con l’argomento, attraverso un bellissimo “richiamo” virgiliano e con l’invocazione alle Muse. Esse devono dare forza a Dante, come dice lui stesso, aiutarlo. Dante, ripreso dal dubbio, e forse anche dalla paura, infatti, chiede per quale diritto lui deve compiere un viaggio così difficile, non essendo Enea, il cui andare nell’oltretomba, ha significato l’esaltazione di Roma e quindi, del papato che lì risiederà; non è San Paolo, il cui trasumanare da vivo aveva come scopo il rafforzamento della fede cristiana; ma lui perché deve andarci, chiede angosciosamente a Virgilio. E’ importante appunto istituire, in questi versi danteschi, il contatto continuo che nella sua mente di cristiano si situa tra fondazione di Roma e costituzione dell’Impero. A questo segue quello che la critica definisce un vero e proprio “prologo in cielo”: Maria Vergine, cogliendo lo smarrimento di Dante, ha pregato Lucia, simbolo della grazia illuminante, di intervenire per aiutare Dante. Quindi costei si reca da Beatrice per trasmetterle l’ordine della Vergine. Quest’ultima quindi non ha alcun timore a raggiungere il Limbo e a pregare con parole cortesi di aiutarlo. Apparirà ora chiaro come, se nell’inferno tre fiere non hanno potuto far raggiungere al poeta la vera via della fede, saranno tre donne benedette ad aiutarlo, cielo contro terra. Dante rinfrancato può riprendere il cammino. 

inferno-ii-1.jpgGustave Doré: Incipit del II canto 

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.
Per quest’andata onde li dai tu vanto,

intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.

 Di fronte alla paura e ai dubbi di Dante così il poeta risponde:

inferno-ii-2.jpgGustave Doré: Beatrice si rivolge a Virgilio

Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
«O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana,
l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui».
Tacette allora, e poi comincia’ io:
«O donna di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c’ ha minor li cerchi sui,
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi».
«Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente», mi rispuose,
«perch’i’ non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c’ hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, ché non son paurose.
I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ’mpedimento ov’io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: – Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele.
Disse: “Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto?”.
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com’io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch’onora te e quei ch’udito l’ hanno».
Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.

89353fc4d4530e88c9ee296466700670.jpgGiovanni Stradano o Jan Van der Straet: Le tre donne benedette

La luce del giorno andava via e l’oscurità allontanava tutti gli esseri viventi dalle loro fatiche; solo io mi preparavo a sopportare il travaglio interiore, sia del viaggio nell’oltretomba sino a Dio sia della compassione della miseria dei dannati che narrerà la memoria che riferisce il vero. O alto ingegno delle Muse, adesso aiutami; o memoria che hai scritto ciò che hai visto, qui si manifesterà il tuo valore. Io iniziai a parlare: «Virgilio, poeta che mi guidi in questo cammino, osserva se la mia capacità è abbastanza forte, prima che tu mi esponga allo straordinario viaggio. Tu affermi (nel VI libro dell’Eneide) che il padre di Silvio (Enea), ancora vivo, andò nel mondo eterno e fu con il corpo. Ma se Dio gli fu benevolo, pensando alle enormi conseguenze che derivarono da lui, e chi fosse e quali fossero le sue qualità, non sembra inopportuno ad un uomo dotato d’intelligenza; in quanto egli fu scelto nel decimo cielo dell’Empireo come padre della grande Roma e del suo Impero, la quale Roma e il quale Impero, a dir la verità, fu stabilita come luogo santo dove ora siede il successore del grande Pietro. Per questa discesa, di cui tu gli dai gloria, apprese cose che costituirono il motivo della sua vittoria e della scelta della sede papale. Ci è andato (nel mondo eterno) poi San Paolo, ricettacolo della volontà operante di Dio, per portare da lì conforto alla fede che è il principio per tutti della salvezza. Ma io perché dovrei andarci? O chi lo permette? Io non sono né Enea né Paolo; che io sia degno a compiere questo viaggio né io né altri credono: per cui se io mi abbandono alla volontà di compierlo, ho timore che questa scelta sia folle; sii saggio, cerca di capirmi che io non ragiono». E come colui che non vuole più ciò che ha desiderato e per nuovi sopraggiunti motivi cambia proposito, tanto da rinunciare del tutto a imprendere ciò che aveva intenzione di fare, così feci io in quella buia pendice del colle, perché ripensandoci annullai l’impresa che fu accettata all’inizio così prontamente.
 (…)
«Io ero nel Limbo (tra gli spiriti magni che vivono nel desiderio inappagabile di Dio) e una donna beata e bella mi chiamò tanto che io le richiesi di dirmi ciò che desiderava. I suoi occhi brillavano più di una stella; e cominciò a dirmi soavemente e dolcemente, con la voce di un angelo, nel suo modo di parlare: “O anima nobile mantovana, la cui gloria ancora dura nel mondo, e durerà a lungo, quanto il mondo, il mio amico, ma non amico della sorte, si è rivolto indietro nella deserta spiaggia, che è ricacciato indietro per la paura; e temo che si sia già smarrito, che io tardi sia soccorsa a lui, per quelle cose che ho udito su di lui nel cielo. Muoviti ora e con la tua parola ornata e con ciò che è opportuno per la sua salvezza, aiutalo affinché io ne sia consolata. Io che ti faccio andare sono Beatrice; vengo dal cielo in cui desidero tornare, mi mosse Amore che mi fa parlare. Quando sarò davanti a Dio, spesso ti loderò per quel che farai per me”. Tacque allora, ed iniziai io: “O donna di virtù, per le quali l’umana specie supera ogni essere contenuto nel cerchio della Luna, che compie giri più piccoli, tanto mi è gradito il tuo comando che l’ubbidirlo, se fosse già avvenuto, mi sembrerebbe avvenuto tardi, non ti abbisogna altro che esprimermi il tuo desiderio. Ma dimmi la causa per cui non temi di scendere quaggiù nel centro della terra, nell’Inferno, dall’Empireo dove desideri tornare ardentemente”. “Dal momento che tu vuoi conoscere il mistero della mia venuta, ti dirò brevemente”, mi rispose, “perché non temo di venir qua nel Limbo. Si devono temere solo quelle cose che hanno il potere di fare male agli altri; delle altre cose non bisogna temere, perché non possono nuocere. Io sono fatta da Dio, per sua grazia, tale che la vostra disgrazia non mi tocca, né le fiamme di questo Inferno mi assalgono. Nel cielo c’è una nobile donna (Maria, simbolo della carità) che ha compassione di questo impedimento (che le fiere procurano a Dante) tanto che attenua il duro giudizio di Dio. Questa donna fece chiamare per il suo servizio santa Lucia (simbolo della grazia) e disse: – Ora ha bisogno di te il tuo fedele, ed io te lo raccomando -. Lucia, nemica di ogni crudeltà, si mosse e giunse nel luogo dove io ero, seduta a fianco della vecchia Rachele (moglie di Giacobbe, simbolo della vita contemplativa). Ella disse: – Beatrice (simbolo della fede), tu che sei la più vera lode di Dio, in quanto creata da lui perfettamente, perché non soccorri quell’uomo che ti ha tanto amato, che per lodarti si è staccato dalla schiera degli altri poeti volgari? Non senti angoscia per il suo pianto, non vedi tu la morte dell’anima che lo ha messo in pericolo come colui che si trova su un fiume, in cui questo incontra il mare e il mare non riesce a vincerlo? -. Al mondo non ci furono mai persone così sollecite a perseguire un loro bene o a sfuggire un loro danno come fui io, dopo aver ascoltato tali parole, e venni qua giù dal mio beato seggio, fidando del tuo parlare saggio, che ti rende onore e rende onore a coloro che lo hanno ascoltato”. Dopo aver detto queste cose, mi rivolse gli occhi lucenti per le lacrime, per cui mi rese più sollecito ad accorrere.»

Di fronte alle parole di Virgilio, che gli ha illustrato come tre donne benedette si siano adoperate per la sua salvezza, Dante si sente completamente rinato, come un fiore dopo il gelo notturno. Ora egli, insieme al suo maestro. è pronto a compiere il grande passo.

Canto III
Antinferno 

Comincia il vero viaggio infernale di Dante che inizia con le tremende parole di colore oscuro (nere/tremende) al sommo della porta. La sensazione che il poeta vuole trasmetterci è quella di un grande confusione, un clamore tanto più sconvolgente quanto meno è visibile. Il buio ed il chiasso infernale sono le prime sensazioni. Quindi il primo incontro con una figura diabolica, ripresa, fedelmente, da Virgilio e che riprende il suo stesso compito. A ciò segue la prima schiera di anime la cui condizione è di essere al di qua da ogni colpa e al di qua di ogni lode, quindi per Dante doppiamente stigmatizzabili in quanto se mai scelsero mai poterono raccogliere né biasimo né apprezzamento. Per questo essi ci offrono il primo esempio di contrappasso per contrasto. In questo canto, inoltre, pur non facendone mai il nome, si adombra il primo personaggio, Celestino V, papa per cinque mesi, che abdicò, lasciando il posto all’odiato, per Dante, Bonifacio VIII.

inferno-iii-1.jpgGustave Doré: Dante e Virgilio davanti alla porta dell’Inferno

PER ME SI VA NELLA CITTA’ DOLENTE,
PER ME SI VA NELL’ETTERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.
GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;
FECEMI LA DIVINA POTESTATE,
LA SOMMA SAPIENZA E ’L PRIMO AMORE
DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE
SE NON ETTERNO, E IO ETTERNO DURO.
LASCIATE OGNI SPERANZA, VOI CH’INTRATE.

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William Blake: La porta dell’Inferno

Queste parole di colore oscuro
vid’ïo scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben de l’intelletto».
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».

inferno-iii-3.jpgGustave Doré: Gli ignavi

Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’i’ discerno per lo fioco lume».
Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte».
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.

caronte.jpgJose Benlliure y Gil: La Barca de Caronte (1919) 

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.
E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».

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Gustave Doré: Caronte

Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ’nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.
Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna.
«Figliuol mio», disse ’l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese;
e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».
Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l’uom cui sonno piglia.

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Giovanni Stradano: Terremoto e svenimento di Dante (1587)

ATTRAVERSO ME SI ENTRA NELLA CITTA’ DEL DOLORE, ATTRAVERSO ME SI ENTRA NEL DOLORE CHE NON HA FINE, ATTRAVERSO ME SI ENTRA TRA LE ANIME PERDUTE. LA GIUSTIZIA SPINSE A DIO A CREARMI: MI FECE LA POTENZA DEL PADRE, LA SOMMA SAPIENZA DEL FIGLIO, L’INFINITA CARITA’ DELLO SPIRITO SANTO. PRIMA DI ME FURONO CREATE SOLO COSE INCORRUTTIBILI, ED IO IN ETERNO DURO. ABBANDONATE QUALSIASI SPERANZA VOI CH’ENTRATE. Queste parole minacciose vidi scritte sopra una porta; per cui dissi: «Maestro, il loro significato è per me terribile». Ed egli a me come una persona saggia: «Qui è necessario abbandonare ogni esitazione; è necessario che qui ogni timore sia soffocato. Noi siamo arrivati al luogo dove ti ho detto che avresti visto gli spiriti dannati, che hanno perso il bene supremo dell’intelletto». E dopo che mi prese per mano con volto sereno, in modo da confortarmi, mi introdusse in quel mondo sconosciuto. Qui sospiri, pianti e grida di dolore risuonavano nell’oscurità, per cui all’inizio cominciai a piangere. Linguaggi diversi, modi di parlare orribili, parole di sofferenza, espressioni d’ira, voci alte e basse, insieme a rumori di mani, creavano un gran tumulto, il quale si agita sempre in quell’atmosfera buia senza giorno né notte, come la sabbia quando spira il vento. Ed io, che avevo la mente presa dall’orrore, dissi: «Maestro, che cos’è ciò che odo? E chi è quella gente che sembra così travolta dal dolore?» Ed egli a me: «Questo misero stato sopportano le anime dolenti degli ignavi, che vissero senza meritare né biasimo, né lode. Sono messe insieme a quella cattiva schiera di angeli che non furono né ribelli né fedeli a Dio, ma furono neutrali. I cieli, per non diminuire la loro bellezza li cacciano, e la parte più profonda dell’inferno non li accoglie, poiché i ribelli potrebbero trarre dalla loro presenza motivo di onore». Ed io: «Maestro, che cos’è tanto opprimente per gli ignavi, che li fa lamentare così forte?» Rispose: «Te lo dirò molto brevemente. Costoro non possono sperare di annientarsi e la loro oscura esistenza è tanto ignobile che sono invidiosi di qualsiasi altra sorte. Il mondo non tollera che resti fama di loro; la misericordia del Paradiso e la giustizia di Dio nell’Inferno li sdegnano: non parliamo di loro, ma guardali e passa oltre». Ed io, che guardai nuovamente, vidi una bandiera che girava intorno tanto veloce che mi sembrava sdegnosa di ogni riposo; e la seguiva una fila di gente così lunga, che non avrei mai creduto che la morte ne avesse colta tanta. Dopo che ebbi identificato qualcuno vidi e riconobbi l’ombra di colui (Celestino V) che per viltà rifiutò il suo grande compito. Subito compresi e fui certo che questa era la schiera dei vili, disdegnati da Dio e dai suoi nemici. Questi esseri abbietti, che non furono mai davvero vivi, erano nudi, punti continuamente da mosconi e da vespe che si trovavano lì. Tali insetti rigavano il loro volto di sangue, che, misto a lacrime, era succhiato ai loro piedi, da ripugnanti vermi. E dopo che mi misi a guardare altrove, vidi gente presso la riva di un grande fiume; per cui io dissi: «Maestro, concedimi di sapere chi sono e quale legge le rende così ansiose di passare il fiume, come io posso vedere attraverso la debole luce». Ed egli a me: «Queste cose ti saranno note quando ci fermeremo presso la desolata riva dell’Acheronte». Allora io con gli occhi abbassati per la vergogna, temendo che le mie parole gli fossero state un po’ importune, stetti in silenzio fino al fiume. Ed ecco venire verso di noi su una barca un vecchio, canuto per la sua età antichissima, che gridava: «Guai a voi anime malvagie! Non sperate mai di vedere il Cielo: io vengo per condurvi all’altra riva, nelle tenebre eterne, nel caldo e nel freddo. E tu che ancora vivo sei in questo luogo, allontanati da costoro che sono morti». Ma poiché vide che io non me ne andavo, disse: «Attraverso un’altra via, toccando altri porti, arriverai nella spiaggia per passare non di qui: un’imbarcazione più leggera conviene che ti trasporti». E la mia guida a lui: «Caronte, non arrabbiarti: è stabilito così nel Cielo dove è possibile fare tutto ciò che la volontà di Dio desidera e non chiedere più nulla». Allora non si mossero più le guance barbute del nocchiero della torbida palude, che aveva intorno agli occhi, a causa dell’ira, cerchi di fiamma. Ma quelle anime che erano spossate e nude impallidirono e si misero a battere i denti, non appena sentirono le parole crudeli: bestemmiavano Dio e i loro genitori, il genere umano, il luogo e il tempo della loro nascita, la loro discendenza e i loro antenati. Poi, piangendo amaramente, si riunirono tutte quante insieme presso la riva maledetta, che attende tutti coloro che non temono Dio. Il demonio Caronte, con gli occhi infuocati, facendo loro un cenno, li raduna tutti; colpisce col remo chiunque s’attarda. Come in autunno le foglie cadono una dopo l’altra, finché il ramo non le vede tutte a terra, allo stesso modo i malvagi discendenti di Adamo si calano da quella riva ad uno ad uno secondo i cenni di Caronte come fa l’uccello rispondendo al richiamo. Così se ne vanno sopra le acque torbide, e prima che siano scese dall’altra parte, anche da questa parte si raduna una nuova schiera. «Figlio mio» disse cortesemente il mio maestro «coloro che muoiono senza essere in grazia di Dio vengono tutti qui da ogni parte del mondo: e sono ansiosi di passare il fiume, perché la giustizia divina li sollecita, a tal punto che il timore della pena si muta in desiderio. Di qui non passa mai nessuna anima che non sia dannata; e perciò, se Caronte si lamenta di te, puoi ben capire ora che cosa intende il suo parlare». Terminato questo discorso, la buia regione infernale tremò così forte che il ricordo di quello spavento mi bagna ancora di sudore. La terra intrisa di lacrime mandò fuori un vento che suscitò un lampo, che mi fece perdere i sensi: e caddi, come chi è preso dal sonno.

Come si è potuto notare questo canto, pur non immettendoci ancora nell’inferno (siamo nell’antinferno) ce ne fa presagire tutte le tonalità:

  1. la presenza di un custode infernale, Cerbero, che pur somigliando molto a quello virgiliano, prende qui un autonomia propria di chi, pur dall’aspetto fiero ma ributtante, si fa esecutore di Dio; sarà lui inoltre a predire la non dannazione per il poeta;
  2. l’oscurità del luogo e le urla dei dannati;
  3. la legge del contrappasso, qui applicata per contrasto: così come queste anime malvagie non vollero mai “seguire” con passione una fede o ideologia, dovranno ora, nell’eternità, seguire una bandiera senza alcun simbolo e versare il sangue, punti da mosconi e vespe. Ma vi si affaccia anche un cenno di contrappasso per analogia: a raccogliere il sangue saranno i vermi, metafora del loro essere abietto.

Canto IV
Primo cerchio
(Limbo: anime giuste non battezzate)

Dopo lo svenimento, voluto da Dio affinché Dante non sapesse in quale modo venisse traghettato al di là dell’Acherone, il poeta si trova all’interno dell’Inferno. Tuttavia non è ancora un luogo dove i peccatori scontano pene tormentose: predomina anzi un clima d’incertezza, di continui sospiri. Questi derivano dal desiderio di conoscere Dio a loro negato perché o nati prima di Cristo o bambini non ancora battezzati. Per questo Dante percepisce nel volto della guida un strano pallore: è il luogo stesso dove l’anima di Virgilio condivide la sorte con i grandi intellettuali dell’antichità. Alla domanda se mai qualcuno fosse uscito dal Limbo Virgilio ricorda al poeta la discesa di Cristo che liberò gli antichi patriarchi e gli Ebrei presenti nell’antico testamento. I due pellegrini giungono pertanto in un luogo rischiarato dove sono accolti coloro che si sono distinti nella letteratura e nell’arte:

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Bartolomeo Pinelli: Dante incontra gli Spiriti Magni

«O tu ch’onori scïenzïa e arte,
questi chi son c’ hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?».
E quelli a me: «L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che sì li avanza».
Intanto voce fu per me udita:
«Onorate l’altissimo poeta;
l’ombra sua torna, ch’era dipartita».
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ombre a noi venire:
sembianz’avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».
Così vid’i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’aquila vola.
Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e ’l mio maestro sorrise di tanto;
e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.   

Dissi: «Virgilio, tu che onori la scienza e l’arte, chi sono costoro che godono di tanto onore che li fa distinguere per condizione dagli altri?» Mi rispose la guida: «La loro onorata fama, che risuona ancora là su nel mondo dove tu vivi, gli fa ottenere favori da Dio e perciò sono trattati meglio degli altri.» Fu nel frattempo udita da me una voce: «Rendete onore all’eccelso poeta; è ritornato il suo spirito, che si era prima allontanato.» Dopo che la voce si fu interrotta e rimase quieta, vidi quattro grandi spiriti venire verso di noi: non sembravano in volto né tristi né felici. Il mio buon maestro incominciò a dire:«Guarda quello spirito con la spada in mano, che precede gli altri come se fosse un re: quello è il sommo poeta Omero; l’altro e Orazio, autore delle satire; il terzo è Ovidio e l’ultimo dei quattro è Lucano. Dal momento che ognuno dei quattro spiriti condivide con me il titolo di poeta, che la voce solitaria ha pronunciato poco fa, essi mi rendono onore ed in ciò fanno bene». Vidi così adunarsi la bella scuola di Omero, principe del più sublime tra tutti i generi poetici, che sovrasta gli altri poeti come fa l’aquila in cielo. Dopo che ebbero parlato un poco tra loro, si rivolsero a me con un cenno di saluto, e Virgilio sorrise compiaciuto per quel gesto; ed anzi mi fecero un onore ancora più grande, accogliendomi nel gruppo come uno di loro, così che fui la sesta persona in mezzo ai quei grandi saggi.

Il passo ci mostra, non solo i riferimenti culturali danteschi, ma quelli dell’intera cultura medievale: Omero, di cui Dante non conosce l’opera, ma condivide il pensiero sia degli autori latini sia degli intellettuali contemporanei secondo cui da lui derivano tutte le “belle lettere”, se per lui usa la metafora dell’aquila sopra tutti gli altri volatili nel cielo; seguono per l’epica storico-tragica Virgilio stesso (la cui presenza come guida ne testimonia la venerazione) e Lucano, di cui Dante sembra conoscere perfettamente la Farsaglia; insieme a loro, con una divisione stilistica, l’Orazio comico delle Satire, e l’Ovidio elegiaco degli Amores. Vi è ancora la consapevolezza da parte dell’autore di essere annoverato tra gli spiriti magni; Dante voleva sottolineare l’importanza e la grandezza della sua attività come poeta o voleva dirci che, saputolo da Virgilio, gli illustri poeti gli si rivolgano con un cenno di benevolenza per il compito scelto da Dio per lui?

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Victoria Olsen: Dante e Virgilio nel Limbo

Il canto prosegue citando i grandi relegati in quel mondo: ma saranno proprio loro a dar vita ad un dibattito critico che verte su teologia e sapienza: Dante infatti inserisce qui non solo gli esempi più alti della letteratura latina, ma anche suicidi (Lucrezia), musulmani (il Sultano, Avicenna e Avorroé), materialisti (Democrito). La teologia afferma che senza la preveggenza o la conoscenza di Dio non vi è salvezza, ma Dante, che non li salva, crea per loro uno spazio apposito, in cui vi è comunque una piccola luce di quella virtù che discende da Dio per illuminare gli uomini per il bene dell’umanità.   

Canto V
Secondo cerchio
(Peccatori d’incontinenza: lussuriosi)

Con questo canto si entra nel vero e proprio inferno: infatti se sinora Dante ha percorso il tratto che precede il fiume e, misteriosamente, si è trovato al di là di esso, in un luogo in cui la grazia di Dio non è del tutto assente se riluce nel castello dove abitano i grandi spiriti dell’antichità, qui, invece, emerge proprio l’assenza totale di luce e, come appena varcata la porta dell’Inferno, un vero e proprio predominio di rumore, come fa il mare in tempesta. Quindi ecco l’apparizione del mostro infernale Minòs che si fa esecutore della volontà divina nell’assegnare ai dannati il luogo che spetta loro ed infine l’incontro, carico di significati, con Paolo e Francesca:

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Gustave Doré: Minosse

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
dicono e odono, e poi son giù volte.
«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
«guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;

Così discesi dal primo cerchio (limbo) giù nel secondo, che racchiuso in meno spazio e maggior dolore, induce ai lamenti. Vi stava a ringhiare l’orribile Minosse, che esaminava le colpe all’ingresso del girone, giudicava i peccatori e con la coda li condannava. Dico infatti che quando l’anima dannata gli andava innanzi, confessava tutto, e lui, conoscitore dei peccati, decideva il giusto cerchio infernale, cingendosi la coda tante volte quanti erano i gironi in cui farla precipitare. Davanti a lui ve n’erano sempre molte (di anime): l’una aspettava il turno dell’altra, che confessava, ascoltava e piombava giù. Quando Minosse mi vide interruppe le sue funzioni e disse: «Ehi tu che entri in questo luogo di dolore, sta’ attento a come ti muovi e a chi ti guida, che non ti sia d’inganno il facile ingresso!». Ma la mia guida gli rispose: «Che hai da gridare? Non puoi impedire la sua visita, perché si vuole così là dove si vuole ciò che si può, e non domandare oltre». A quel punto cominciai a udire voci lamentose; là dov’ero ero colpito da molto pianto. In quel luogo privo di luce si urlava come fa il mare tempestoso, agitato da venti contrari. Una bufera mai doma travolgeva nel suo turbinio gli spiriti, tormentandoli e sbattendoli con violenza. Quando giungevano sul ciglio del dirupo, urlavano piangevano singhiozzavano, bestemmiando la virtù divina. Dal tipo di pena capii che dannati erano i lussuriosi, che sottomettono la ragione all’istinto. E come le ali portano gli stornelli d’inverno in una schiera ampia e compatta, così quel vento agita gli spiriti perversi su e giù, di là e di qua e nessuna speranza li conforta mai, né di una pausa né di uno sconto della pena. E come le gru emettono i loro lamenti, disposte nell’aria in lunghe file, così vidi venir, gemendo, le ombre sconvolte dalla tormenta.

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William Blake: I lussuriosi

Dante quindi dapprima vede delle anime “sballottate dalla tempesta, e sono appunto i lussuriosi, il cui contrappasso è evidente: così come essi si lasciarono “trascinare” dalla passione ora sono trascinati dalla “bufera infernal”. Ma c’è un’altra schiera di dannati e sono coloro che vanno in lunga fila, attraversando il vento come fanno le gru: essi sono le anime di coloro che morirono per amore. Chiesto chi fossero, Virgilio gli nomina i nomi di grandi personaggi dell’antichità e dei cavalieri dei romanzi cortesi.

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Mosé Bianchi: Paolo e Francesca (1877)

Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I’ cominciai: «Poeta, volentieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».

PaoloefrancescaCrop.jpgAnselm Feuerbach: Paolo e Francesca (1864)

Queste parole da lor ci fuor porte.
quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.

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Amos Cassioli: Paolo e Francesca (1870)

Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».

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 Gaetano Previati: La morte di Paolo e Francesca (1887)

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.

Poi gli chiesi: «Poeta, vorrei parlare a quei due che vanno insieme e che paiono così leggeri nella bufera». Mi rispose: «Aspetta che siano venuti più vicini a noi, poi pregali per quell’amore che li lega e loro verranno». Appena il vento li piegò verso di noi, esclamai: «Oh anime tormentate, venite a parlarci, se nessuno lo vieta!». Come colombe, chiamate dai piccoli, con le ali levate e ferme al dolce nido vengono per l’aria, spinte dall’istinto, così quelle anime si staccarono dalla schiera di Didone attraverso l’aria maligna, sentendo il mio affettuoso grido. «Oh uomo cortese e benigno, che vieni a visitare, in quest’aria tenebrosa, chi ha macchiato la terra del proprio sangue, se ci fosse amico il re dell’universo, lo pregheremmo per la tua pace, avendo tu pietà del nostro perverso peccato. Quel che a voi piacerà dire e ascoltare piacerà anche a noi, almeno finché il vento lo permetterà. La mia città natale lambisce il mare ove sfocia il Po, che coi suoi affluenti trova pace. L’amore, che subito accende i cuori gentili, fece innamorare costui del mio bellissimo corpo, che mi fu tolto in modo ch’ancor m’offende. L’amore, che induce chi viene amato a ricambiare, mi prese del corpo di costui un piacere così forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. L’amore ci portò a una stessa morte: Caina in sorte attende l’assassino». Ecco le parole che ci dissero. E io, dopo aver ascoltato quelle anime travagliate, chinai il viso e rimasi così mesto che il poeta a un certo punto mi chiese: «A che pensi?» Io gli risposi: «Ahimè, quanti dolci pensieri, quanto desiderio condusse costoro al tragico destino!» Poi mi rivolsi direttamente a loro e chiesi: «Francesca, le tue pene mi strappano dolore e pietà. Ma dimmi, al tempo dei dolci sospiri, come faceste ad accorgervi che il desiderio era reciproco?». E quella a me: «Non c’è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella disgrazia; cosa che sa bene il tuo maestro. Ma se tanto ti preme conoscere l’ inizio della nostra storia te lo dirò unendo le parole alle lacrime. Stavamo leggendo un giorno per diletto come l’amore vinse Lancillotto; soli eravamo e in perfetta buona fede. In più punti di quella lettura gli sguardi s’incrociarono con turbamento, ma solo uno ci vinse completamente. Quando leggemmo che la bocca di lei venne baciato da un amante così coraggioso, costui, che mai sarà da me diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Traditore fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno finimmo lì la lettura». Mentre uno spirito questo diceva, l’altro piangeva, sicché ne rimasi sconvolto, al punto che svenni per l’emozione e caddi come corpo morto cade.

L’intero canto si può definire come uno dei più alti e celebrati dell’intera Commedia, e mostra, per la prima volta,  un turbamento reale di Dante, determinato dall’esperienza umana e presumibilmente dalla conoscenza personale con Paolo Malatesta (sono testimoniati i rapporti tra Firenze e l’ambiente romagnolo). Il canto si può dividere in tre parti: la prima dominata da Minosse, la parte centrale dalla rassegna dei grandi amanti della storia e della letteratura, l’ultima da Francesca e Paolo (uno dei più noti personaggi muti della letteratura italiana). Tra questi momenti c’è continuità: se Minosse infatti può rappresentare il destino in cui incorrono i peccatori che sottomettono la ragione all’impulso naturale, lo stesso accade a coloro che peccano di lussuria, tra cui uno dei più celebrati della letteratura d’amore, Tristano, la cui lettura sarà a sua volta strumento della dannazione di Paolo e Francesca. Quest’ultima parte, dedicata ai due amanti, pur essendo tra le più alte, per il pathos che essa rappresenta con il tema d’amore e di morte, ci offre la possibilità di cogliere un momento fortemente significativo per Dante. Uscendo infatti dai personaggi, il passo mostra un vero e proprio “iter” culturale che il poeta stesso ha attentamente attraversato. Francesca, infatti, è un attenta lettrice del romanzo cortese, ma utilizza un linguaggio stilnovista con una forte anafora che in tre terzine ne sottolinea i temi. Per questo Dante si sente scosso: la cultura di Francesca è la sua cultura. Ed è per questo che il poeta, per la seconda volta, sviene: ma se il primo trasferimento nel terzo canto è voluto da Dio per non far comprendere al poeta il suo passaggio al di là del fiume infernale, qui è per il suo “turbamento”.

Canto VI 
Terzo cerchio
(Peccatori d’incontinenza: golosi)

Tra il quinto ed il sesto canto Dante non pone alcuna frattura. Infatti, appena risvegliatosi, il poeta si trova di fronte ad una nuova situazione, maggiormente “punitiva” per i dannati, sin dal custode Cerbero, che con i suoi latrati rompe loro le orecchie (avendo ecceduto nei sensi, è in essi che vengono tormentati). Quindi inizia quello che si suole definire come il primo canto “politico” dell’intera Commedia: nucleo ideologico appare la sua città, con un suo famoso, al tempo, rappresentante che, nei confronti del poeta avrà anche la capacità profetica di disegnargli il destino futuro (che sarà compreso, poi, solo nel Paradiso dal suo avo Cacciaguida).

Dopo un paio di versi, Dante si trova immerso nel terzo cerchio:

Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.
Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.

Ero nel terzo cerchio della pioggia eterna, maledetta, fredda e difficile da sopportare, sempre uguale nella quantità e qualità. Acqua sporca, grandine grossa e neve, nell’aria tenebrosa si riversa; puzza la terra che né è bagnata.

Cerberus-Blake.jpegWilliam Blake: Cerbero

A cui segue la descrizione del nuovo custode infernale:

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani
graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come cani;
e l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.

Cerbero, fiera crudele e straordinaria, simile ad un cane affamato latra con tre gole sopra la gente che qui è sommersa. Ha gli occhi rossi, la barba unta e scura, il ventre largo e le mani unghiate, graffia gli spiriti, li scuoia e li squarta. La pioggia sferzante del dolore li fa urlare come cani. Or con l’uno e or con l’altro lato cercano di fare schermo al lato opposto, ma inutilmente si volgono spesso i miseri profani. Quando Cerbero, il grande e ripugnante animale, ci vide, aprì le bocche e mostrò i lunghi denti e non aveva parte del corpo che stesse ferma. Allora Virgilio distese le palme, prese la terra e a pieni pugni, la gettò nelle gole di Cerbero.

Dopo che Virgilio, con il suo gesto, mette a tacere la bestia i due pellegrini entrano in contatto con i dannati, fra i quali Ciacco:

Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.
Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.
«O tu che se’ per questo ’nferno tratto»
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».
E io a lui: «L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,

sì che non par ch’i ’ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».
Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola.
Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita».
E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi».

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Gustave Doré: Ciacco

Noi passavamo ponendo i piedi sulle anime che sono fiaccate dalla maledetta e pesante pioggia, la cui inconsistenza ha forma di corpo. Esse stavano tutte sdraiate in terra all’infuori di una che, vedendoci passare, si alzò immediatamente a sedere. Mi disse: «Tu che sei venuto in questo inferno riconoscimi se sai: tu nascesti prima che io morissi». Gli risposi: «Forse la sofferenza fisica dei tuoi lineamenti, mi impedisce di riconoscerti. Ma dimmi chi sei tu che in un luogo così dolente sei condannato a tale pena. Se altre pene possono essere maggiori di questa, nessuna è così spiacevole». Egli rispose: «Firenze, la tua città, ch’è piena d’odio, malevolenza mi fece crescere durante la vita umana. Voi cittadini mi chiamaste Ciacco ed ora, come vedi, alla pioggia mi accascio. ed io, anima dannata, non son sola, poiché tutte queste anime espiano uguale colpa». E non parlò più. Io gli risposi: «Ciacco, il tuo dolore mi spinge a piangere, ma dimmi, se lo sai, dove perverranno gli uomini città (Firenze) divisa (politicamente); se nessuno degli uomini è giusto; e dimmi la ragione per cui essa è assalita da tanta discordia». E Ciacco disse (profetizzando): «Dopo lunghe lotte, perverranno a sanguinose guerre e la parte selvaggia (i Cerchi, del partito dei Bianchi) caccerà l’altra (i Donati, del partito dei Neri) con grande offese (multe e perquisizioni). Dopo tre anni avverrà un cambiamento, e l’altra parte (i Neri) prenderà il potere con l’aiuto di colui che adesso sembra barcamenarsi (Bonifacio VIII). Costoro terranno alte per lungo tempo le fronti, tenendo la parte avversa sotto gravi pesi, sebbene pianga e si sdegni per ciò. Ci saranno solo pochissimi uomini giusti (onesti), ma non saranno ascoltati: la superbia, l’invidia e l’avarizia sono le tre faville che accendono d’odio il cuore degli uomini».

Nel passo Dante sottolinea, attraverso la tecnica della profezia, la realtà della Firenze a lui contemporanea, mettendo in evidenza quel cambiamento economico e sociale che lui percepisce come negativo: gli ultimi tre sostantivi alludono a quella forza borghese che secondo il poeta fiorentino ha cancellato le virtù di un mondo sulla via del tramonto, e che sta prendendo il potere con forza e violenza; d’altra parte non dobbiamo dimenticare che sarà Dante stesso a pagare le conseguenze di questa lotta tra partiti politici e famiglie che si contendevano il potere con l’esilio.

Dopo tali parole il poeta chiede ancora a Ciacco se egli possa incontrate, nel suo cammino, altri fiorentini che ben operarono per la città, che egli ha grande desiderio di sapere se sono dannati a più gravi pene o sono nella grazia del Signore. Ciacco gli rivela che nel fondo dell’inferno vi sono altre anime che egli potrà riconoscere e se può essere ricordato nella mente dei suoi amati cittadini. Quindi si ritorse e ricadde in terra e Virgilio rivela al suo discepolo che così rimarrà fino al giudizio universale. Al dubbio di Dante che gli chiede se in tale giorno la loro pena sarà minore o maggiore, il maestro risponde che ogni cosa, giunta al fine, otterrà la perfezione: pertanto maggiori saranno le pene e la gloria. Quindi continuano il cammino fino al punto in cui essi scenderanno, custodito da Pluto.

Canto VII
Quarto e quinto cerchio
(Peccatori d’incontinenza: Avari e prodighi – Iracondi ed accidiosi)
La palude Stigia

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Gustave Doré: Pluto

All’inizio del canto troviamo Pluto che, con voce rauca inizia a gridare:

Papé Satàn, papé Satàn aleppe!

e Virgilio, uomo saggio, tranquillizza Dante sulla discesa tra il terzo e il quarto cerchio e con acconce parole costringe il mostro infernale al silenzio. I due scendono così nella quarta fossa, dove Dante vede una moltitudine assai numerosa, la quale provenendo dall’uno e dall’altro lato del cerchio rotolava pesi, spingendoli col petto ed emettendo alti lamenti. (Incontrandosi) cozzavano gli uni contro gli altri; e poi, in quello stesso punto, ognuno si volgeva indietro, rivoltando (anche il suo peso), e urlava: «Perché conservi?» e «Perché sperperi?» Allora rifacevano il giro in senso opposto in entrambe le direzioni fino al punto in cui, allo scontro successivo, si gridavano di nuovo il loro ritornello ingiurioso; Dante allora chiede alla sua guida chi costoro fossero e Virgilio gli risponde che furono coloro che non fecero alcuna spesa secondo misura (avari e prodighi) come denunciano in modo aperto le loro espressioni.

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Bartolomeo Pinelli: Avari e prodighi (1824)

La loro condizione spinge Dante a voler sapere quale sia il ruolo della fortuna nel distribuire ricchezze e povertà:

«Maestro mio», diss’io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?»
E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue;
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode».

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Cornelis Anthonisz Thenissen (attr.), Allegoria della Sfortuna/Accidia, (1530 ca.) 

«Maestro», dissi a Virgilio, «spiegami ancora: questa Fortuna, di cui tu mi fai cenno, cos’è mai, per poter tenere così tra i suoi artigli i beni della terra?» E Virgilio: «O esseri stolti, quanto grande è l’ignoranza che vi arreca danno! Voglio dunque che tu accolga la mia spiegazione (come il bambino riceve in bocca il cibo ). Dio, la cui sapienza oltrepassa ogni realtà, creò i cieli e assegnò a ciascuno di loro una guida in modo che ogni gerarchia angelica trasmette la luce al suo cielo, distribuendola equamente: allo stesso modo prepose a tutte le glorie del mondo una guida che le amministrasse tutte e che trasferisse a tempo debito i beni perituri da un popolo all’altro e da una stirpe all’altra, senza che la previdenza degli uomini potesse a lei opporsi; per questo una nazione domina, mentre un’altra si indebolisce, secondo la decisione da lei presa, decisione che resta nascosta come il serpente nell’erba. L’accortezza degli uomini non può contrastare con lei: essa predispone, valuta (le opportunità), e svolge da regina il suo incarico come le intelligenze angeliche svolgono il loro. I cambiamenti da essa causati si succedono senza sosta: il suo dovere verso Dio l’obbliga ad operare rapidamente; perciò avviene spesso che qualcuno muti il proprio stato. Questa è colei che tanto è avversata anche da coloro che dovrebbero elogiarla, laddove invece la biasimano ingiustamente e la denigrano; ma essa se ne sta beata e non li ascolta: serena, insieme alle intelligenze angeliche, governa il moto della sua sfera e gode della sua beatitudine.

Come si vede per Dante la Fortuna muta dal concetto classico (ricordiamo che per la cultura romana il termine è una vox media che può indicare sia fortuna che sfortuna, e, come simbolo, viene rappresentata cieca). Dante ci offre invece una spiegazione teologica: è un’ intelligenza angelica, il cui volere obbedisce a Dio. Per questo, in quanto presiede alla facoltà divina, non può essere capita da una facoltà umana e quindi ci appare incomprensibile e spesso ci lamentiamo di lei. Ma essa sta al di sopra dell’individuo e guida i destini sia dell’uomo che dei popoli, per cui si sale e si scende perché così Dio vuole.

Quindi continuano a scendere attraversando il cerchio fino al margine opposto, all’altezza di una sorgente che ribolle e che si riversa in un fossato d’acqua scura; è la palude Stige, in cui sono immerse anime che si colpivano l’un l’altro con le mani, la testa il petto e i piedi, e si dilaniano pezzo a pezzo coi denti. Sono gli iracondi, accompagnati con gli accidiosi che denunciano la loro condizione sott’acqua, creando un gorgoglio sulla superficie della palude. Costeggiano così per lungo tratto la sozza palude, tenendosi tra il pendio asciutto e la melma, con lo sguardo rivolto a coloro che ingurgitano fango: giungono alla fine alla base d’una torre».

Canto VIII
Quinto cerchio
La palude Stigia
(Iracondi ed accidiosi)

Prima d’arrivare alla torre, Dante e Virgilio vedono due fiammelle e un’altra lontana che rispondeva ai segnali. Chiede quindi a Virgilio cosa stia succedendo, e lui gli fa sapere che sta per giungere il nocchiero infernale Flegiàs con una piccola nave per traghettarli sull’altra riva. Virgilio scende nella barca, e Dante dopo di lui; soltanto quando quest’ultimo entra, essa sembra carica.

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Miniatura

Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?». 
E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango». 
E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto». 
Allor distese al legno ambo le mani;
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!».

La vecchia barca comincia a fendere l’acqua, e mentre solca l’immobile palude, mi si parò davanti uno spirito coperto di fango, e disse: «Chi sei tu che arrivi prima del termine stabilito?», ed io: «Se arrivo, non è certo per rimanere; ma chi sei tu, reso così sporco dal fango?» Rispose: «Vedi bene che sono uno di quelli che piangono (un dannato)». Ed io: «Restatene, anima maledetta, col pianto e col dolore; perché ti riconosco, anche se sei tutto imbrattato di fango». Allora allungò verso la barca entrambe le mani (per rovesciarla o per colpire Dante ); ma Virgilio pronto lo respinse, dicendogli: «Via di qui, vattene a stare con gli altri maledetti !»

E’ la prima volta che vediamo Dante “arrabbiato” rivolgere parole ingiuriose verso un dannato. Tale atteggiamento forse gli è stato suggerito dalla scortesia del dannato, che gli si rivolge con arroganza, come a dire “che ci fai tu qui?”, quasi la sua presenza segnalasse il peccato in cui Dio lo aveva confinato. E’ un gesto di giusta rabbia, accompagnato, infatti, da quello del maestro che respinge il dannato con parole ingiuriose.

Virgilio quindi si congratula del gesto del suo allievo, che ha risposto con veemenza all’arroganza del dannato. E’ tanta la rabbia dantesca che prega affinché Filippo Argenti (tale è il nome del peccatore) venga sommerso: infatti poco dopo Dante vede gli iracondi fare di lui un tale scempio, gridando contro Filippo Argenti tanto che il dannato rivolge contro sé stesso la propria ira, dilaniandosi coi denti. Quindi dopo aver sentito un urlo e in seguito aver visto torri rossastre (per l’eterno fuoco che le brucia eternamente), raggiungono la città di Dite:

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Daniele Albatici: Filippo Argenti

Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?».
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno. 
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada».
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.
«O caro duca mio, che più di sette
volte m’ hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
non mi lasciar», diss’io, «così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto».
E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
«Chi m’ ha negate le dolenti case!”.
E a me disse: «Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’a la difension dentro s’aggiri.
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr’essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta».

15385736856_b690477371_b.jpgDante e Virgilio e  i diavoli (Miniatura, Biblioteca di Firenze)

Vidi più di mille diavoli a guardia delle porte, i quali con stizza dicevano: «Chi è costui che ancora in vita visita il regno dei morti?». E il mio saggio maestro accennò di voler parlare con loro in disparte. Allora frenarono un poco la loro grande ira, e dissero: «Vieni soltanto tu, e vada via quello, che con tanto ardire è penetrato in questo regno. Ripercorra da solo il cammino temerario (fatto fin qui): provi, se ne è capace; perché tu, che gli hai fatto da guida in un paese così buio, resterai qui». Immagina, lettore, quanto mi perdetti d’animo nell’udire queste parole maledette, perché credetti di non poter mai più tornare fra i vivi. «Mia amata guida, che innumerevoli volte mi hai ridato coraggio e salvato dai grandi pericoli che mi si pararono contro, non mi abbandonare» dissi «in questo stato di angoscia; e se non ci è consentito di andare avanti, ripercorriamo subito insieme il cammino che abbiamo fatto (per venire fin qui).» E Virgilio, che mi aveva condotto lì, mi disse: «Non aver paura; perché nessuno può precluderci il passaggio: tanto potente è colui dal quale è voluto. Tu attendimi qui, e conforta il tuo animo prostrato alimentandolo con la speranza che non inganna, poiché io non ti abbandonerò in questa parte bassa dell’inferno». Così dicendo il mio padre affettuoso se ne va, e qui mi lascia solo, e io resto nel dubbio, poiché nella mia testa il timore combatte con la speranza. Non potei udire quello che disse loro, ma egli non si trattenne a lungo là con essi, che già ciascuno dei diavoli gareggiava in velocità con gli altri nel tornare correndo dentro le mura. Quei nostri nemici chiusero le porte davanti a Virgilio, che restò fuori, e tornò verso di me con passi lenti. Teneva gli occhi abbassati ed aveva un’espressione sfiduciata, e diceva sospirando: «Da chi mai mi viene impedito l’ingresso nelle sedi del dolore!». E rivolto a me: «Anche se io mi cruccio, non perderti d’animo, perché vincerò questa prova di forza, chiunque dentro le mura si adoperi per vietarci l’ingresso. Questa loro presunzione non è nuova: perché già l’adoperarono davanti a una porta meno interna, la quale si trova ancor oggi spalancata. Sopra di essa hai veduto l’iscrizione che parla della morte eterna: e varcatala già scende per la china, passando di cerchio in cerchio senza guida o protezione, colui ad opera del quale la città ci sarà aperta».

E’ un passo, che, legato al seguente, descrive uno degli atteggiamenti più umani da parte del protagonista: la paura. Sono tremende le parole dei diavoli, è indecisa, non tempestiva la risposta di Virgilio. La paura è giustificata proprio dall’inizio del canto IX.

Canto IX
Quinto e Sesto cerchio
Davanti e dentro la città di Dite
(Eretici)

Virgilio infatti non ha la forza per combattere i diavoli da solo: «Eppure dovremo vincere questa battaglia» dice, «a meno che… Tanto potente è colei (Beatrice) che ci promise il suo aiuto: oh quanto mi preoccupa il ritardo di qualcuno!». L’angoscia di Dante è giustificata dall’attesa di questo qualcuno. Quindi vuol sapere se qualcuno dal Limbo (Virgilio stesso) sia mai già stato in questo luogo, riferendosi in modo indiretto a Virgilio stesso, che gli afferma che il viaggio lo ha già compiuto grazie alla maga Eritone (episodio raccontato nel Bellum civile di Lucano).

E altro disse, ma non l’ ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furïe infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte. 
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine. 
Quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto. 
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.

5050161212860013.jpgBartolomeo Pinelli: Dante e Virgilio di fronte alle Erinni

«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Tesëo l’assalto». 
«Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi. 
O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame de li versi strani.

E disse altre cose, ma non le ricordo; poiché lo sguardo mi aveva tutto portato verso l’alta torre dalla cima arroventata, dove all’improvviso si erano levate tutte nel medesimo istante tre furie infernali imbrattate di sangue, che avevano corpo e atteggiamento di donna, e portavano annodati intorno al corpo serpenti d’acqua d’intenso color verde; per capelli avevano serpentelli e serpenti muniti di corna, che ne cingevano le spaventose teste. E Virgilio, che non aveva tardato a riconoscere le ancelle della regina (Proserpina) dell’inferno, mi disse: «Ecco le implacabili Erinni. Dalla parte sinistra è Megera; quella piangente, a destra, è Aletto: nel mezzo c’è Tesifone»; ciò detto, tacque. Ciascuna si lacerava il petto con le unghie; si percuotevano con le mani aperte e urlavano così forte, che per la paura mi strinsi a Virgilio. «Venga Medusa: cosi lo faremo diventare di pietra» dicevano tutte quante guardando verso il basso: «fu male non punire nella persona di Teseo l’assalto (portato al regno dell’oltretomba).» «Voltati e tieni gli occhi chiusi; poiché se Medusa appare e tu la vedessi, non ti sarebbe più possibile tornare sulla terra.» Così parlò Virgilio; ed egli stesso mi fece voltare, e non si accontentò che io mi coprissi gli occhi con le mie mani, ma volle coprirmeli anche con le sue. O voi che avete le menti non ottenebrate, contemplate l’insegnamento che si nasconde sotto il velo dei versi misteriosi.

caravaggiomedusa.jpgCaravaggio: Medusa (1597)

Che l’allegoria sia complessa ce lo afferma lo stesso Dante. E’ un allegoria dei poeti, piuttosto che dei filosofi, perché si nutre di riferimenti classici già dall’inizio del canto, facendo riferimento alla negromanzia di Lucano. Bisogna pertanto districarsi per capire cosa il poeta volesse insegnarci attraverso questi riferimenti classici: in primo luogo le Erinni, che Dante non poteva conoscerle in modo diretto (non sapeva il greco ed esse appaiono nell’Orestea di Eschilo), ma certamente conosceva il loro significato, disegnate come portatrici di rimorso (in questo caso il rimorso del peccato), e quindi Medusa, dal duro cuore. Tutte loro stanno ad indicare che se non ci si libera dal peso del peccato e si persevera con forza in esso, non si può andare oltre la via che lo condurrà verso la salvezza. Se infatti i peccati precedenti erano sotto il segno del senso (peccati d’incontinenza), ora bisogna individuare i dannati per intelletto e malizia. Quindi non basta più la forza razionale dell’intelletto, ma qualcosa che la superi, come è mostrato dall’intervento del messo celeste:

Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’a la terra ciascuna s’abbica, 
vid’io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
passava Stige con le piante asciutte. 
Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso. 
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso. 
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno. 
«O cacciati del ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta? 
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ ha cresciuta doglia? 
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo». 
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d’omo cui altra cura stringa e morda 
che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
sicuri appresso le parole sante.

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Gustave Doré: L’angelo apre le porte della città di Dite

Come le rane all’apparire della biscia, loro nemica, si disperdono tutte nel l’acqua, fino ad appiattirsi ognuna contro terra, così vidi innumerevoli dannati darsi alla fuga all’avvicinarsi di qualcuno che attraversava camminando lo Stige senza bagnarsi neppure le piante dei piedi. Allontanava dal suo viso la fitta nebbia, muovendo spesso davanti a sé la mano sinistra; e sembrava infastidito soltanto da questa preoccupazione. Compresi facilmente che era inviato dal cielo, e mi volsi a Virgilio; ed egli mi fece intendere con un cenno che dovevo restare tranquillo ed inchinarmi davanti a lui. Ahi come mi sembrava pieno di sdegno! Giunse alla porta (di Dite) e, toccandola con una piccola verga, la aprì senza incontrare alcun ostacolo. «O espulsi dal cielo, stirpe disprezzata», prese a dire sullo spaventoso limitare, «da dove viene questa tracotanza che si raccoglie in voi? Perché vi opponete a quella volontà (la volontà di Dio) il cui compimento non può mai essere ostacolato, e che più di una volta ha accresciuto il vostro dolore? A che serve opporsi ai decreti divini ? Se ben ricordate, il vostro Cerbero, per questa ragione, ha tuttora privi di pelo la parte inferiore del muso e il collo.» Poi tornò indietro ripercorrendo il sozzo cammino, e non ci rivolse neppure una parola, ma assunse l’aspetto di uno che è assillato e stimolato da una preoccupazione diversa da quella di colui che gli sta davanti; e noi ci incamminammo verso la città, rassicurati dopo le sante parole da lui dette.

E’ appunto l’intervento divino, qui trasmesso attraverso un suo messo, che può cancellare quelle forze oppositive (rimorso e persistenza del peccato) che impediscono al pellegrino di liberarsi dalle scorie della vita ed ottenere, così, la grazia dell’ascensione al cielo. Quindi Virgilio e Dante entrano nella città di Dite e vedono un terreno tutto pieno di sepolcri circondati dalle fiamme. I peccatori posti nel IV cerchio, informa il maestro sono gli eretici.

Canto X
Sesto cerchio
(Eretici)

Ora sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle. 
«O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com’a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri. 
La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt’i coperchi, e nessun guardia face»

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Dante nel cerchio degli epicurei (miniatura lombarda)

E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno. 
Però a la dimanda che mi faci
quinc’entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci». 
E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’ hai non pur mo a ciò disposto». 

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Andrea del Castagno: Farinata degli Uberti (1449/1450)

«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco. 
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto». 
Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio. 

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Gustave Doré: Farinata nell’arca infernale

Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai». 
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto. 
E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».
Com’io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». 
Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso; 
poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi». 
«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
rispuos’io lui, «l’una e l’altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte». 
Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata. 
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento, 
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?». 
E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». 

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William Blake: Dante Farinata e Cavalcante de’ Cavalcanti

Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena. 
Di sùbito drizzato gridò: «Come?
dicesti “elli ebbe?” non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». 

Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora. 
Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa; 
e sé continüando al primo detto,
«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto. 
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa. 
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?».
Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».
Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso. 
Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto». 
«Deh, se riposi mai vostra semenza»,
prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza. 
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo». 
«Noi veggiam, come quei c’ ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce. 
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano. 
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta». 
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto; 
e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto». 
e già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava. 
Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio». 
Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico. 
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando. 
«La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e drizzò ’l dito: 
«quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio». 
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede,
che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.

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Duilio Cambellotti: Inferno canto X

Il mio maestro proseguiva ora lungo uno stretto sentiero, tra le mura di Dite e le tombe roventi dei dannati (eresiarchi), ed io procedevo dietro di lui. «Oh uomo di virtù superiore, che mi conduci attraverso i crudeli cerchi dell’inferno», cominciai a dire,«come a te piace, parlami e soddisfa i miei desideri. Potrei vedere la gente che giace in questi sepolcri roventi? Tutti i coperchi sono già alzati, i sepolcri sono aperti, e non c’è nessun demonio a fare la guardia.» Mi rispose Virgilio: «Tutti i sepolcri verranno chiusi quando dalla valle di Giosafat, dopo il giudizio universale, i dannati torneranno qua con i loro corpi, lasciati lassù in terra. In questa parte del cerchio hanno il loro cimitero Epicuro e tutti i suoi seguaci, che credono che l’anima muoia insieme al corpo. In ogni caso, alla richiesta che hai mi avanzato, qui dentro ti verrà data subito soddisfazione, ed anche al desideri che hai lasciato inespresso, di poter parlare con loro.» Ed io a lui: «Mia buona guida, ti tengo nascosto il mio desiderio solo per non darti noia, parlando troppo, come tu stesso mi hai chiesto di fare in più occasioni.» «Oh toscano, che attraverso la città del fuoco te ne vai ancora in vita e parlando in modo rispettoso e gentile, ti sia cosa grata il fermarti un poco in questo luogo. Il tuo modo di parlare rende evidente che tu nascesti in quella nobile patria, verso la quale io fui in vita forse troppo molesto.» Uscì improvvisamente questo suono, questa voce, da uno dei sepolcri; mi accostai perciò, intimorito, un poco di più alla mia guida. Virgilio mi disse: «Che fai? Voltati! Guarda là Farinata degli Uberti che si è alzato dalla tomba: potrai vederlo tutto dalla cintola in su.» Io avevo già fissato il mio sguardo nel suo; lo spirito di Farinata emergeva fiero dal sepolcro con il petto e la fronte, come se avesse a sdegno le pene dell’inferno. Le mani coraggiose e pronte di Virgilio mi spinsero tra le tombe fino a lui, dicendo: «Le tue parole siano misurate, moderate». Non appena giunsi ai piedi del sepolcro di Farinata, lo spirito mi guardò un poco, e poi, con tono quasi irato, mi chiese: «Chi furono i tuoi antenati?» Io ero desideroso di ubbidire e non gli nascosi quindi le mie origini, anzi gliele esposi chiaramente; alle mie parole, lo spirito alzò un poco gli occhi in alto, in tono ostile; poi mi disse: «Essi, guelfi, furono fieramente avversari miei, dei miei antenati e della mia fazione ghibellina, tanto che per due volte li sconfissi e li caccia in esilio.» «Se è vero che furono cacciati, lo è anche che tornarono poi da ogni parte», risposi io a lui, «entrambe le volte; i vostri non appresero invece mai quell’arte, del ritorno in patria.» A quelle parole, dall’apertura scoperchiata del sepolcro, uscì, visibile fino al mento, un altro spirito accanto a quello di Farinata: credo che quest’anima fosse in ginocchio. Guardò intorno a me come per voler vedere se ero in compagnia di qualcun’altro; e dopo che il suo sospetto si fu dileguato, mi disse piangendo: «Se attraverso questo carcere tenebroso tu puoi andare grazie al tuo alto ingegno, allora mio figlio dove è? Perché non è insieme a te?» Dissi a lui: «Non vado in giro da solo: mi conduce attraverso questi luoghi quello spirito che mi aspetta là, Virgilio, e che forse il vostro Guido ebbe a sdegno, trascurandolo.» Le sue parole ed il modo in cui soffriva mi avevano già fatto capire chi fosse costui, Cavalcante dei Cavalcanti; per tale motivo la mia risposta fu così esaustiva. Scattato in piedi, lo spirito subito grido: «Come? Hai detto “ebbe”? Non è più in vita? La dolce luce del sole non ferisce più i suoi occhi?» Quando si accorse della mia esitazione nel fornirgli una risposta, subito ricadde disteso nella tomba e non ricomparve più alla mia vista. Invece quell’altro coraggioso spirito, rispondendo al cui invito mi ero fermato presso quella tomba, non cambiò espressione, non volse nemmeno la testa e non si piegò neanche a guardare il compagno; continuando il primo discorso interrotto, «Il fatto che loro non hanno ben appreso quell’arte», mi disse, «mi tormenta di più di questo letto di fuoco in cui giaccio. Ma non si illuminerà per cinquanta volte la faccia di quella donna, Proserpina (la Luna), che governa quaggiù, prima che tu stesso possa imparare quanto pesa quell’arte del ritorno in patria. Augurandoti che tu possa fare ritorno nel dolce mondo dei vivi, dimmi in cambio: perché il popolo fiorentino è così crudele nei confronti dei Ghibellini in ogni legge che approva?» Gli risposi: «Lo strazio e la grande strage che fecero tingere di sangue il fiume Arbia, nella battaglia a Montaperti, ci spinge ad emettere tali leggi nei vostri confronti.» Dopo che lo spirito, sospirando, ebbe scosso il suo capo, «Non c’ero là soltanto io contro i fiorentini», disse, «né certo mi sarei mosso insieme agli altri senza avere buone ragioni. Ma fui soltanto io, là, ad Empoli, dove fu all’unanimità approvata la decisione di distruggere Firenze, l’unico che la difese a viso aperto.» «Possa avere un giorno un po’ di pace la vostra discendenza», lo pregai io, «scioglietemi cortesemente un dubbio che ha appena avvolto i mie pensieri. Se ho ben capito, sembra che voi spiriti possiate prevedere il futuro, quello che il passare del tempo farà accadere, mentre sembrate al contrario ignorare gli avvenimenti del presente.» «Noi vediamo, come chi è presbite, con una vista imperfetta», mi rispose, «solo le cose che sono lontane; tanto ci illumina ancora Dio. Quando si avvicinano o stanno già accadendo, questa nostra capacità non ci giova più; e se altri non ci informano dei fatti, nulla possiamo sapere della vostra vicende umane. Puoi perciò ora comprendere bene che la nostra conoscenza verrà completamente annullata a partire dal giorno del giudizio, quando i nostri sepolcri saranno chiusi per l’eternità.» Allora, dispiaciuto per non aver risposto all’altro spirito, dissi: «Dite allora al vostro compagno, caduto nella tomba, che suo figlio Guido non è ancora morto, è ancora insieme ai vivi; e se di fronte alla sua domanda rimasi muto, fategli sapere che lo feci soltanto perché fui colto da quel dubbio che ora mi avete voi sciolto.» Ma già Virgilio mi richiamava a sé; pregai perciò con più premura lo spirito di Farinata affinché mi dicesse i nomi dei suoi compagni nel sepolcro. Mi disse: “Giaccio in questa tomba insieme ad altri mille: qua dentro c’è Federico II di Svevia ed il cardinale Ottaviano degli Ubaldini; degli altri non parlo.» Tornò infine nel sepolcro; io rivolsi i miei passi verso Virgilio, poeta dei tempi antichi, ripensando a quella sentenza di Farinata (sull’esilio) che sembrava minacciosa. Anche Virgilio si mosse; poi, mentre camminavamo, mi chiese: «Perché sei turbato?» Ed io diedi soddisfazione alla sua curiosità raccontandogli delle parole di Farinata. «Conserva nella memoria ciò che hai ascoltato profetizzare contro di te», mi raccomandò la mia saggia guida; «e prestami attenzione», e così dicendo alzo il dito al cielo: «quando sarai di fronte al dolce raggio di Beatrice, il cui bell’occhio è in grado di vedere il futuro in Dio, saprai da lei le vicende che ti attendono in vita.» Indirizzò quindi il passo verso sinistra: lasciammo il muro e piegammo verso il centro del girone attraverso un sentiero che termina in una valle, la quale faceva sentire la sua nauseabonda puzza fin lassù.

018r-1024x521.jpgPriamo Della Quercia (XV secolo)

E’ uno dei canti centrali nell’economia del racconto dantesco, sia per l’evidenza dei fatti politici qui velocemente ricordati (la battaglia di Montaperti) sia per la parentesi lirica riguardante il padre di Cavalcanti e l’amore che nutre per il figlio.

Ma il vero nucleo è nel personaggio protagonista dell’intero canto: Farinata. Egli, di due generazioni più grande di Dante, fu un uomo di grande importanza politica. Capo dei Ghibellini, riuscì dapprima a scacciarne i Guelfi (1248), ma dopo la morte di Federico II, toccò a lui andare in esilio. Tentò con dei fuoriusciti di riprendersi la città, cosa che avvenne nel 1260. Morì a Firenze, opponendosi alla distruzione della città, ma cacciandone gli avversari politici. Sarà proprio dopo la sua scomparsa che i Guelfi riuscirono a tornare, radendo al suolo tutte le proprietà degli Uberti e bandendoli in aeternum dalle mura cittadine.

Si spiega così il dialogo, il confronto tra due titani. Non importa che qui Farinata sia un dannato: importa la sua coerenza, la sua forza e la sua dignità, sottolineate dall’atteggiamento fiero di chi non ha sbagliato. Tale modo di porsi viene quasi sottolineato dall’allitterazione in m (Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, dove ad emergere è il pronome personale e gli aggettivi possessivi, tutti in prima persona) che oltre al suono rievoca qui la fierezza del proprio io e nel contempo il rispetto col pellegrino ancor vivo che, seppur nemico, di fronte a lui ha la stessa fierezza, se non superiore, proprio di colui che è stato scelto da Dio, di contro all’indifferenza di Farinata.

A questo punto si pone la parentesi lirica, a staccare l’ultima parte, la più importante, che vede la figura di Cavalcante de’ Cavalcanti: se Farinata è dritto, tanto che da la cintola in sù tutto ’l vedrai (dice Virgilio a Dante), Cavalcante surse a la vista scoperchiata come un’ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s’era in ginocchie levata denota l’apprensione e l’orgoglio del padre verso il figlio. Ma è evidente che qui Dante abbia sottolineato la distanza culturale che ormai tra Cavalcanti e lui si era istituita: Guido si era fermato all’aspetto filosofico, oserei dire, raziocinante; Dante aveva raggiunto la verità della fede attraverso la teologia, per questo, pur grandissimo poeta, Dio non ha potuto servirsi di Guido per illuminare la realtà, ma Dante che si era inchinato a Lui, attraverso Beatrice.

Solo ora può riprendere il canto, mostrando un Farinata che non si era distratto, ma continua, come se non vi fosse stata interruzione, meditando sulla violenza della contrapposizione tra guelfi e ghibellini che hanno determinato la damnatio memoriae della sua famiglia. Ma ciò non toglie che a salvare Firenze fu proprio lui, che si oppose alla sua demolizione. Quindi con cortesia augura al Dante di poter tornare sulla terra, così, come Dante gli augura che possano finalmente cessare le misure contro la sua casata.

Ma per concludere è bene ricordare la profezia che Farinata rivolge a Dante sull’esilio che dovrà subire: in questo cerchio i dannati possono vedere il futuro (da qui le parole del condottiero che “vede” il futuro di Dante), ma non il presente (Cavalcanti che non riesce a sapere la sorte del figlio).

Le parole di Farinata non riescono ad essere cancellate dalla mente di Dante: ma Virgilio gli rammenta che solo la grazia illuminante di Beatrice potrà rivelargli ciò che il futuro gli prepara.

Canto XI
Sesto cerchio
(Eretici)

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 Gustave Doré: Dante e Virgilio sostano dietro la tomba di papa Atanasio

E’ un canto, come si suol dire “dottrinale”. Viene qui presentato, infatti, l’ordinamento dell’Inferno, spiegato da Virgilio a Dante, cogliendo l’occasione della necessità di abituarsi all’insopportabile puzza che proviene dal basso inferno.

Il maestro dapprima definisce il peccato, come atto ingiurioso, (in ius, iuris) cioè che va contro la legge, lo ius divino. La malizia è l’atto consapevole del peccato stesso è può avere origine o per violenza o per frode.

I violenti sono posti nel VII cerchio che è diviso, a sua volta, in tre gironi.

Si può essere violenti sotto tre forme (corrispondenti ai tre gironi) contro il prossimo, sia nelle cose che nelle persone, se stessi e Dio. Quelli contro il prossimo, infatti possono uccidere (violenti contro le persone) o depredare, estorcere beni altrui o compiere rapine dannose (violenti contro le cose): questi sono puniti nel primo girone. Quelli violenti contro se stessi sono i suicidi e gli scialacquatori (giocatori d’azzardo e chi spreca, dannosamente, il suo patrimonio). Costoro sono puniti nel secondo girone. Nel terzo vengono i violenti contro Dio e la natura. Troviamo infatti qui i sodomiti, violenti contro la natura e quindi Dio, gli usurai e i bestemmiatori che con parole o con la mente offendono il Signore.

I fraudolenti sono posti nell’VIII cerchio e vengono distinti in dieci bolge.

La frode è ancora più grave, perché figlia dell’intelligenza dell’uomo che la esercita scientemente o contro chi non si fida o contro chi si fida.

Dopo questa spiegazione Dante chiede a Virgilio che peccato avessero commesso quelli incontrati sinora. La risposta è che essi appartengono tutti al peccato d’incontinenza, meno grave di quelli fin qui visti, perché si tratta di un uso non “buono” di disposizioni “buone” date da Dio all’uomo: quindi tali peccati sono visti con minor severità. Tale divisione d’altra parte, è figlia dell’Etica aristotelica che divide le azioni peccaminose degli uomini in tre grandi categorie, poste in modo ascendente: incontinenza, malizia e matta bestialità.

Dopo tale spiegazione Dante domanda ancora perché è ritenuto così grave il peccato d’usura: afferma Virgilio che il lavoro dell’uomo nasce ad imitazione di quello divino che si riflette, appunto nella natura. Come si dice nella Genesi, il lavoro deve produrre il sudore della fronte, cioè adoperarsi affinché la natura crei. L’usura nega il tempo, che è di Dio, e porta un guadagno che non è frutto di lavoro.

Inf._11_Priamo_della_Quercia_.jpgPriamo Della Quercia (XV secolo)

Canto XII
Settimo cerchio
I Girone

Violenti contro il prossimo
(Tiranni, omicidi-guastatori, predoni)

Il canto inizia la descrizione con il baratro da cui esalava l’odore nauseabondo per cui i due si erano fermati e Virgilio aveva mostrato l’ordinamento morale dell’Inferno.

Al fondo di questo baratro vi è il Minotauro (personaggio mitologico) a guardia, non tanto del luogo, quanto dell’intero cerchio:

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Gustave Doré: Il Minotauro

e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamïa di Creti era distesa 
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca. 
Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse? 
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene». 
Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ ha ricevuto già ’l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella, 
vid’io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco;
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale». 

e proprio sulla cima di quella spaccatura era distesa l’infamia, il disonore dell’isola di Creta (il Minotauro) che fu concepito nella falsa vacca di Pasifae; e quando ci vide, si prese a morsi da solo, come chi, impotente, è sopraffatto da un’ira interiore. La mia saggia guida gridò contro di lui con ironia: «Credi forse che sia venuto qui da te il principe ateniese, Teseo, che ti diede la morte lassù, nel mondo terreno? Fatti da parte bestiaccia: perché costui, Dante, non è venuto fin qui con gli insegnamenti di tua sorella Arianna (su come ucciderti), ma viene solamente per vedere le vostre punizioni.» Così come un toro che si è liberato dopo aver però già ricevuto il colpo mortale non sa fuggire ma si limita a saltellare da una parte all’altra, allo stesso modo vidi comportarsi in modo scomposto il Minotauro; e allora Virgilio, prudente, mi gridò: «Corri subito al varco: è meglio che ti cali già dalla sponda ora che quel mostro è infuriato.»

Quindi i due pellegrini cominciano a scendere e Virgilio spiega a Dante che poco prima che giungesse Cristo per liberare i padri che si trovavano nel limbo, la profonda valle infernale tremò così forte per un terremoto che diede origine alla frana appena passata. quindi lo invita a porre attenzione al fiume di sangue in cui sono immersi i violenti contro il prossimo.

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Gustave Doré: Centauri

A guardia del fiume sono i centauri che saettano chiunque tenti di emergere dal ribollente sangue. Accortisi dei due pellegrini, Chirone, che sembra essere il loro capo, fa notare ai compagni la corporeità di Dante:

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Gabriele Dell’Otto: Chirone

Noi ci appressammo a quelle fiere insnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
  fece la barba in dietro a le mascelle. 
  Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
  disse a’ compagni: «Siete voi accorti
  che quel di retro move ciò ch’el tocca? 
  Così non soglion far li piè d’i morti».
  E ’l mio buon duca, che già li er’al petto,
  dove le due nature son consorti, 
  rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
  mostrar li mi convien la valle buia;
  necessità ’l ci ’nduce, e non diletto. 
  Tal si partì da cantare alleluia
  che mi commise quest’officio novo:
  non è ladron, né io anima fuia. 
  Ma per quella virtù per cu’ io movo
  li passi miei per sì selvaggia strada,
  danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo, 
  e che ne mostri là dove si guada,
  e che porti costui in su la groppa,
  ché non è spirto che per l’aere vada». 
Ci avvicinammo intanto a quelle belve agili: Chirone prese una freccia e con la cocca, la parte terminale, sistemò i lunghi baffi ai lati della mascella, separandoli. Quando ebbe infine scoperto la bocca, disse ai suoi compagni: «Vi siete accorti che quello che sta più indietro muove le cose, i sassi che tocca? I piedi dei morti non sono soliti farlo.» E la mia brava guida, Virgilio, che era già arrivato vicino al suo petto, dove si uniscono le due nature dei centauri, quella umana e quella animale, rispose loro: «Lui è proprio vivo, ed io, così tutto solo, sono stato incaricato di mostrargli la valle tenebrosa dell’Inferno: ci ha portati fino a qua la necessità, non il puro piacere. Un tale personaggio ha lasciato il paradiso, dove si canta di gioia, e mi ha affidato questo nuovo incarico: non è un ladrone, e neppure io sono l’anima di un ladro. Per quella potenza divina che fa muovere i miei passi attraverso una strada tanto selvaggia, dacci uno dei tuoi, così che possiamo seguirlo da vicino, uno che ci mostri il punto in cui è possibile guadare il fosso e che porti costui sulla sua groppa, dal momento che non è uno spirito e non può volare.»

5050161212860056.jpgBartolomeo Pinelli: Dante e Virgilio in groppa a Nesso

Chirone affida i due pellegrini a Nesso il quale dapprima gli mostra dapprima i tiranni, immersi fino agli occhi, quindi coloro che si macchiarono di omicidio, immersi fino alla gola. A seguire, con l’intero dorso emerso, erano i guastatori (predoni) e gli incendiari. intanto il fiume di sangue s’abbassa, tanto da scottare solamente i piedi dei peccatori. Nesso indica loro che lì sarà il loro guado, spiegando inoltre che la profondità del fiume di sangue dove sono posti i violenti è proporzionale al peccato loro commesso.

Di questo canto i protagonisti sono i Centauri: non vi è nessun peccatore che emerge, ma solo i loro guardiani: ciò può essere determinato da un duplice motivo: da un lato le reminiscenze della cultura classica (ricordiamo che Chirone fu il maestro di Achille), dall’altra essi fanno da contrasto ai violenti. Infatti il loro corpo mostruoso nasconde  gentilezza e cortesia, il corpo umano dei violenti era carico di “mostruosità”, per questo non ha bisogno di mostrarli. Inoltre il contrappasso per analogia è molto evidente: colpevoli di aver sparso sangue nel mondo, ora sono immersi in esso a seconda della gravità delle loro azioni.

Canto XIII
Settimo cerchio
II Girone
Violenti contro se stessi
(Suicidi e scialacquatori)

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Gustave Dorè: le Arpie

Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato. 
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco. 
Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. 
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno. 
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani. 

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William Blake: I suicidi e le Arpie

(…)

Io sentia d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai. 
Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse. 
Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’ hai si faran tutti monchi». 
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?». 
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno? 
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi». 
Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via, 
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme. 
«S’elli avesse potuto creder prima»,
rispuose ’l savio mio, «anima lesa,
ciò c’ ha veduto pur con la mia rima, 
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa. 
Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece». 

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Gustave Dorè: Pier delle Vigne

E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ïo un poco a ragionar m’inveschi

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi, 
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi. 
La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio, 
infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti. 
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto. 
Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno. 
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ’nvidia le diede». 
Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace». 
Ond’ïo a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora». 
Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia 
di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega». 
Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi. 
Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce. 
Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta. 
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra. 
Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie. 
Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta». 

Il centauro Nesso non era ancora arrivato sull’altra sponda del fiume di sangue, quando io e Virgilio ci inoltrammo in un bosco privo di qualunque sentiero. Le fronde degli alberi non erano verdi, ma di colore nero; i rami non erano lisci e dritti ma nodosi e contorti, intricati; non c’erano frutti appesi ma solo spine velenose. Non abitano sterpaglie né più aggrovigliate né più folte di queste infernali, quegli animali selvaggi che fuggono, che evitano i luoghi coltivati tra Cecina e Corneto. Qua queste sterpi fanno i loro nidi le luride Arpie, che un tempo cacciarono i troiani dalle isole Strofadi con una lugubre predizione delle loro disgrazie future. Le Arpie hanno ampie ali e colli e volti dalle sembianze umane, artigli ai piedi ed una ampio ventre ricoperto di penne; da dagli alberi i mostri emettono strani lamenti.

Il maestro informa Dante che si trova nel secondo girone e che in esso scoprirà cose straordinarie:

Sentivo lamenti provenire da ogni parte ma non riuscivo a vedere chi li potesse emettere; mi arrestai pertanto tutto smarrito, sbalordito. Credo che Virgilio pensasse che io credessi che quelle innumerevoli voci provenissero, tra quegli alberi, da persone nascoste alla nostra vista. Mi disse pertanto il mio maestro: «Se tu recidi qualche ramoscello da una di queste piante, vedrai che i tuoi attuali pensieri cesseranno.» Allungai allora la mano in avanti e strappai un ramoscello da un grande arbusto; ed il suo tronco gridò: «Perché mi tratti così?» Dopo che fu tinto di sangue nerastro, uscito dal moncone, ricominciò a dire: «Perché mi laceri, mi ferisci? Non provi nessuna pietà per la nostra condizione? In vita siamo stati uomini, ed ora siamo trasformati in sterpi: la tua mano dovrebbe essere ben più rispettosa, anche se in vita fossimo state anime di serpenti.» Come una pezzo di legno ancora verde, bruciato da una delle sue estremità, geme dall’altra estremità e stride per l’aria che libera dal suo interno, allo stesso modo dalla scheggiatura nel tronco uscivano insieme parole e sangue; lasciai pertanto cadere la cima strappata e rimase impietrito, immobilizzato dalla paura. «Se costui avesse potuto credere subito», rispose la mia saggia guida, «oh anima lacerata, con le sole mie parole, in ciò che ora ha potuto vedere, non avrebbe disteso la sua mano tra i tuoi rami; Ma la vostra condizione è tanto incredibile che mi ha fatto decidere di spingerlo a compiere un gesto che a me stesso dispiace. Ma digli ora chi sei stato in vita, così che, in sostituzione di qualche altra ammenda, lui possa rinfrescare la tua fama nel mondo dei vivi, dove gli sarà consentito ritornare.» Il tronco disse: «Mi inciti a parlare con parole tanto cortesi, che io non posso tacere; e non vi pesi quindi se mi trattengo un poco a parlare con voi. Io (Pier della Vigna) sono colui che in vita tenne entrambi le chiavi del cuore di Federico II, e che le impiegò, per chiuderlo o aprirlo, volgendolo all’odio o all’amore, tanto dolcemente da escludere infine quasi ogni altro uomo dalle sue confidenze; operai con fedeltà e zelo nel mio glorioso lavoro di consigliere, tanto da perdere il sonno e le forze. La prostituta che dalla corte imperiale non allontanò mai i suoi occhi avidi, l’invidia, male del mondo e vizio comune a tutte le corti, accese contro di me tutti gli animi; e gli animi infiammati riuscirono ad infiammare contro di me anche l’imperatore, così che i lieti onori da me conquistati come consigliere si trasformarono in tristi disgrazie. Il mio animo, che per sua natura sdegna le giustificazioni, credendo di poter fuggire con la morte al disprezzo, mi rese crudele contro me stesso, e così mi uccisi. Ma sulle nuove radici di questo arbusto, vi giuro di non essere mai venuto meno alla fedeltà verso il mio signore, che fu tanto degno di onore. E se qualcuno di voi ritorna nel mondo dei vivi, dia nuovo vigore alla mia memoria, che giace ancora tutta malconcia per il colpo inflitto dall’invidia.» Virgilio stette un poco in silenzio, poi disse rivolto a me: «Dal momento che egli tace, non perdere tempo, parla e chiedigli pure qualcosa se hai il piacere di sentirlo ancora parlare.» Dissi allora alla mia guida: «Domandagli tu ciò che credi opportuno che io sappia; perché io non ne sarei capace, tanta è la pietà che provo per lui .» Virgilio ricominciò pertanto a dire: «Faccia quest’uomo generosamente ciò che tu lo hai pregato di fare, oh spirito imprigionato in questa pianta, ma a te piaccia in cambio spiegare perché la vostra anima venga incarcerata in questi tronchi nodosi; e dicci anche, se lo puoi fare, se mai alcuna ne sarà liberata.” Il tronco soffiò allora forte e quel vento si tramutò poi in queste parole: “Risponderò brevemente a voi. Quanto l’anima che è stata feroce contro sé stessa, lascia il corpo dal quale essa stessa si è voluta strappare, il giudice Minosse la manda in questo settimo cerchio. Essa cade in questa selva, in un punto non premeditato; là dove il caso l’ha lanciata, lei germoglia e mette rami come fosse stata un chicco di biada. Cresce poi come un virgulto e quindi come un albero silvestre: le Arpie vengono infine a nutrirsi delle sue foglie, strappandole dolorosamente e creando un ferita, finestra per il dolore. Come le altre anime, il giorno del giudizio anche noi verremo sulla terra per riprenderci i nostri corpi, ma non per indossarli; non sarebbe giusto riavere ciò che abbiamo gettato via. Trascineremo qui i nostri corpi ed in questo triste bosco verranno appesi, impiccati, ciascuno all’arbusto dell’anima che gli fu molesta in vita.”

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Marco Papagni: Pier delle Vigne (scultura)

Mentre Dante è ancora presso l’albero tronco di Pier delle Vigne, sente un rumore improvviso, determinato dalla fuga di due anime lacerate e graffiate inseguite da cagne nere. Uno si rivela essere Lano, che perse la vita nella battaglia del Toppo (presso Arezzo), mentre l’altro cercherà riparo nascondendosi dietro un tronco. Raggiunto dalle cagne viene morso e lacerato, così come vengono percossi i rami del cespuglio su cui aveva cercato rifugio. Quest’ultimo si lamenta col dannato, rivelandoci l’identità, Iacopo di Sant’Andrea e colpiti dal suo incolpevole lamento e dalla preghiera loro rivolta di raccogliere i rametti per metterli vicino alle sue radici.  Virgilio invita Dante ad interrogarlo, ma egli non rivelerà il suo nome: indicherà il luogo dov’era vissuto (Firenze) e svelerà il suo suicidio all’interno delle mure domestiche.

Il XIII canto presenta un altro grande personaggio della Comedìa dantesca: Pier delle Vigne, intellettuale e poeta della Scuola Siciliana. Tale grandezza Dante la risolve in modo retorico. Pier delle Vigne, infatti, era funzionario federiciano il cui stile cancelleresco latino risulta fortemente artificioso, ricco di figure retoriche, ampolloso e ridondante. Dante fa del poeta siciliano un dannato verbale, cioè capace del suono della parola (ha perso la connotazione di uomo con lo strumento atto a tale compito) l’unico che può caratterizzarlo e la sua parola è ricca di metafore, riprese dalla cacciagione (“adescare”, attirare e “inveschire” rimanere impigliato nel vischio) e dalla vita di corte (le chiavi per aprire il cuore per definire se stesso come consigliere privato) e ancora il poliptoto (la ripetizione di una stessa parola in proposizioni separate) riferite alla parola infiammati (“infiammò, infammati, infammiar”), l’allegoria della corte come meretrice, così come il parallelismo d’inizio e fine frase (ingiusto…. giusto). Non è tuttavia solo il linguaggio a caratterizzare il canto, quanto l’emulazione e la differenziazione con l’episodio di Polidoro nell’Eneide di Virgilio. E’ che lì non vi era una metamorfosi tra uomo e pianta: quest’ultima prendeva forma dalle frecce conficcate nel corpo di Polidoro, Dante va oltre inserendo anche reminiscenze ovidiane. Un ultima osservazione: dalla lettura del verso in cui Pier delle Vigne potremo arguire che il gesto compiuto non ebbe l’effetto sperato e che il suicidio sia stato in seguito interpretato come conferma di colpevolezza ed è questo, probabilmente, che ci voleva dire il cattolico Dante. L’ultima parte del canto ci presenta gli scialacquatori in una scena che sarà ripresa, in altro contesto, da Boccaccio nel suo Decameron.

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Bartolomeo Pinelli: Gli scialacquatori

Canto XIV
Settimo cerchio
III Girone
Violenti contro Dio, la natura, l’arte
(Bestemmiatori, sodomiti, usurai)

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Gustave Doré: Il sabbione infuocato

Il canto si apre senza soluzione di continuità con il precedente: infatti i due pellegrini, mossi da pietà per l’anonimo suicida fiorentino, raccolgono i rami ai piedi del suo albero. Quindi scendono nel terzo girone, costituito da un sabbione sabbioso su cui scende una lenta pioggia di fuoco che tormenta i dannati e incendia la sabbia. Vi sono dannati stesi in terra (bestemmiatori), che corrono (sodomiti) e altri seduti rannicchiati (usurai). I primi peccatori che Dante incontra sono i bestemmiatori. Fra di essi nota un dannato, che si mostra indifferente al fuoco, quasi a testimoniare il suo disprezzo verso Dio e l’espiazione che ha scelto per lui. E’ costui Capaneo, uno dei sette re di Tebe, che combatterono Eteocle per ridare il trono a Polinice. Dante riprende il mito dalla Tebaide di Stazio che lo vede dissacrare e sfidare Giove e la sua pena sta nella sua superbia e nella rabbia che mai si mitiga.

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William Blake: Capaneo

Dopo l’incontro con il possente re, giungono presso un fiumicciatolo (Flegetonte), rosso come il sangue, che attraversa l’intero sabbione, riparato da argini di pietra. E’ lui che smorza le falde di fuoco. Interrogato da Dante sui fiumi infernali, Virgilio le racconta il mito del Veglio di Creta:

«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss’elli allora, «che s’appella Creta,
sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto. 
Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta. 
Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida. 
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver’ Dammiata
e Roma guarda come süo speglio. 
La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ’l petto,
poi è di rame infino a la forcata; 
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ’l destro piede è terra cotta;
e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto. 
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
d’una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta. 
Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia, 
infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta». 
E io a lui: «Se ’l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?». 
Ed elli a me: «Tu sai che ’l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo, 
non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto;
per che, se cosa n’apparisce nova,
non de’ addur maraviglia al tuo volto». 
E io ancor: «Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de l’un taci,
e l’altro di’ che si fa d’esta piova». 
«In tutte tue question certo mi piaci»,
rispuose, «ma ’l bollor de l’acqua rossa
dovea ben solver l’una che tu faci. 
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l’anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa». 
Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi, 
e sopra loro ogne vapor si spegne». 

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John Flaxman: Veglio di Creta (1793)

«In mezzo al mare si trova un paese decaduto dall’antico splendore» disse allora lui, «che si chiama Creta, che, nel tempo in cui il mondo era ancora casto, fu già dominata da un re (Saturno). C’é là una montagna che fu ricca di acqua e di vegetazione e che si chiama Ida: ed ora è invece deserta, abbandonata come una cosa vecchia. Rea scelse quella montagna come asilo sicuro per il suo figlioletto Giove, per meglio nasconderlo al padre Saturno, e quando il piccolo piangeva faceva fare frastuono per coprire il suo pianto. Nella cavità del monte sta ritto un vecchio gigante (il Veglio di Creta), che tiene le spalle rivolte verso Damietta d’Egitto e guarda invece Roma come se fosse il suo specchio. La sua testa è fatta d’oro puro, e di argento puro sono fatte le sue braccia ed il suo petto, è poi di rame fino al punto in cui si divaricano le gambe (il ventre); dalle gambe in giù è tutto fatto di ferro selezionato, ad eccezione del piede destro che è di terracotta; ma si tiene in piedi più su questo che sull’altro, il destro. Ogni parte del suo corpo, tranne la testa d’oro, è rotta da una fessura dalla quale gocciolano delle lacrime, che, raccolte ai piedi, attraversano il fondo della grotta. Il percorso di quelle lacrime arriva fin qua di roccia in roccia: e formano il fiume infernale Acheronte, la palude Stige ed il Flagetonte; ed infine scendono ancora più giù attraverso questo stretto canale fino ad arrivare al punto più profondo, dove non è possibile scendere oltre: e là formano lo stagno Cocito; ma come sia fatto questo, tu lo vedrai; perciò qui, ora, non ti dico nulla a riguardo.» Ed io gli chiesi allora: «Se questo rigagnolo nasce, come hai appena detto, nel nostro mondo, perché lo vediamo solo ora, vicino a questo lato della selva?» E lui mi rispose: «Tu sai bene che questo abisso è tondo; ma sebbene tu ne abbia già girato un bel pezzo camminando quasi sempre verso sinistra, scendendo verso il fondo, non sei ancora arrivato a compiere un intero giro: perciò, se improvvisamente ti appare alla vista una novità, non devi mostrare in volto nessuna meraviglia.» Ed io chiesi ancora: «Maestro, dove si trovano i fiumi Flegetonte e Léte? Quest’ultimo non lo hai neanche citato, dell’altro mi hai invece detto che si forma dalle lacrime che piovono quaggiù.» «Tutte le tue domande mi piacciono molto» mi rispose; «però quelle acque bollenti e color rosso sangue dovevano aver già risolto uno dei tuoi due dubbi (sul Flegetonte). Vedrai anche il fiume Léte, ma fuori da questo abisso infernale, lo vedrai là dove vanno a lavarsi le anime del Purgatorio quando hanno finalmente pagato le colpe di cui si sono pentiti.»

Ci troviamo di fronte ad un allegoria: se la testa è d’oro e non piange è perchè vi è stata un’età dell’oro, esente dal peccato. Ma le lacrime che dal corpo escono, il piede di ferro (potere temporale diminuito) e il piede d’argilla (potere spirituale corrotto), stanno a dimostrare che le lacrime versate sono frutto della malvagità del mondo che pertanto è giusto che si raccolga nell’inferno.

Canto XV
Settimo cerchio
III Girone
Violenti contro Dio, la natura, l’arte
(Bestemmiatori, sodomiti, usurai)

Il canto inizia con il continuo avanzare dei due pellegrini in mezzo al vapore che il Flegetonte crea inghiottendo all’interno delle sue acque, tanto da non vedere più la selva dei suicidi.  

Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era,
perch’io in dietro rivolto mi fossi, 
quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera 
guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna. 

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Francesco Scaramuzza: Brunetto Latini (1859)

Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!». 
E io, quando ’l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese 
la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». 

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Anonimo: Incontro tra Dante e Ser Brunetto

E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia.»
I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco». 
«O figliuol», disse, «qual di questa greggia
s’arresta punto, giace poi cent’anni
sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia. 
Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni». 
Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma ’l capo chino
tenea com’uom che reverente vada. 
El cominciò: «Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra ’l cammino?». 
«Là sù di sopra, in la vita serena»,
rispuos’io lui, «mi smarri’ in una valle,
avanti che l’età mia fosse piena. 

Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m’apparve, tornand’ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle». 
Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;
e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto. 
Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno, 

ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico. 
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi. 

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Gustave Doré: Brunetto Latini e Dante

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba. 
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,

s’alcuna surge ancora in lor letame, 
in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta». 
«Se fosse tutto pieno il mio dimando»,
rispuos’io lui, «voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando; 
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,

la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora 
m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna. 
Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s’a lei arrivo. 

Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto. 
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ’l villan la sua marra». 
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;

poi disse: «Bene ascolta chi la nota».

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Renato Guttuso: Brunetto Latini (1970)

Già ci eravamo talmente allontanati dalla selva dei suicidi che io non avrei potuto più scorgerla, per quanto mi fossi rivolto indietro, quando incontrammo una schiera di anime che venivano lungo l’argine e ci guardavano, come sono soliti guardare qualcuno di sera sotto la luna nuova e aguzzavano lo sguardo verso di noi, come fa il vecchio sarto quando deve infilare il filo nella cruna. Così guardato fissamente da questa schiera, fui riconosciuto da un dannato, che mi prese per il lembo della veste e gridò: «Che meraviglia!». Ed io, quando lui distese verso di me il braccio, guardai fisso nel suo volto devastato dal fuoco, tanto che il viso bruciato non nascose la sua conoscenza nella mia mente; e avvicinando la mano verso il suo volto, risposi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». E lui: «O figliolo mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latini torna con te un po’ indietro e lascia andare la fila». Gli dissi: «Per quanto posso, ve ne prego; se volete che io mi fermi, lo farò, se mi è permesso da colui che m’accompagna». Disse: «O figliolo, chi di questa schiera si ferma anche solo un momento, deve stare disteso poi cento anni senza potersi difendere quando le falde di fuoco lo feriscono. Perciò cammina: io ti seguirò da presso, e poi raggiungerò la mia schiera, che procede piangendo i suoi eterni peccati». Io non osavo scendere dagli argini per camminare insieme a lui; ma tenevo il capo chino come uomo riverente. Egli cominciò a dire: «Quale caso o destino prima dell’ultimo tuo giorno di vita ti conduce quaggiù? E chi è costui che ti mostra il cammino?». «Lassù sulla terra, durante la vita illuminata dal sole» gli risposi «mi smarrii in una selva, prima che la mia vita avesse raggiunto il suo culmine. Solamente ieri mattina volsi le spalle alla selva: costui mi apparve, mentre io rovinavo verso di essa, e mi riconduce a casa attraverso questo cammino». Ed egli a me: «Se tu segui l’influenza della tua costellazione (i Gemelli), non puoi fallire nel raggiungere un porto glorioso, se io riuscii ben a capire durante la mia esistenza; e se io non fossi morto presto, rispetto a te, considerando come il cielo è nei tuoi confronti benevolo, ti avrei dato conforto alla tua opera (di uomo civilmente impegnato). Ma quell’ingrato popolo malvagio che anticamente discese da Fiesole e per questo ha ancora i caratteri aspri e selvatici, ti si farà, per il tuo bene operare, nemico, ed è naturale, perché tra i frutti aspri non è conveniente che frutti un dolce fico. Un vecchio detto definisce i fiorentini ciechi; è un popolo avaro, invidioso e superbo: cerca di restare immune dai loro costumi. La tua sorte ti riserva un così grande onore, che sia i Bianchi che i Neri vorranno divorarti; ma avranno il becco lontano dall’erba. Le bestie fiesolane si divorino tra loro, e non si permettano di toccare la pianta, se ve n’è ancora qualcuna che possa nascere nel loro letame, in cui riviva il seme santo di quei pochi romani che là rimasero quando fu fondato il nido di tanta malizia».«Se fosse del tutto esaurito il mio desiderio» gli risposi «voi non sarete ancora fuori della schiera umana, perché ho ancora ben vivo il ricordo, ed ora mi addolora, la cara e buona immagine paterna di voi quando, durante la vita, di tanto in tanto m’insegnavate come l’uomo possa eternarsi tra i vivi (per i suoi atti meritevoli): e quanto io l’abbia in gratitudine, finché vivo, si deve riconoscere nelle mie parole. Scrivo nella mia mente ciò che voi narrate circa il mio futuro, lo serbo perché mi sia spiegato, con altre parole, da Beatrice, se giungerò a lei. Voglio soltanto che vi sia ben chiaro, purché la mia coscienza non abbia da rimproverarmi nulla, che sono pronto a sostenere i colpi della Fortuna, qualunque cosa mi riserva. Non è nuovo ai miei orecchi questo impegno, perciò giri la Fortuna la sua ruota come vuole, ed il contadino volti la sua zappa». Il mio maestro, allora, si volse verso destra e mi guardò, quindi disse: «Ascolta bene, chi annota ciò che sente».

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Alberto Martini: Virgilio, Dante e Brunetto Latini (1901)

Il XV canto è importante non soltanto perché vi si conferma la profezia dell’esilio dantesco, ma perché ci proietta in un problema che, già intravisto con Francesca e Farinata, vede Dante rapportarsi con persone di cui ha avuto (una letteraria, l’altra politica) profonda stima. Tuttavia la stima si basava su qualcosa di extra biografico: l’aver sentito la storia di Francesca da Rimini e il conoscere in modo indiretto le gesta di Federigo, attraverso il racconto di Pier delle Vigne (quest’ultimo muore nel 1265, Dante nascerà dopo trent’anni esatti) lo portano lontano dallo stesso rapporto con Brunetto Latini, di cui Dante fu discepolo. Il problema pertanto è continuare il sentimento di stima, nonostante il peccato, considerato abominevole nel Medioevo, dell’omosessualità. Certo Dante non poteva averlo ignorato, neppure quand’era giovane, ma quando si trova di fronte alla moralità cattolica, non può allo stesso modo, non stigmatizzarlo. Dante, genialmente, lo fa in modo plastico, non contenutistico: egli prevale (essendo sopra l’argine) in quanto guidato dalla legge di Dio, ma al contempo china il capo, riconoscendogli il merito di avergli insegnato come l’uom s’eterni. Per meglio dire: Dante riconosce la validità tutta umana di Brunetto, ma rivela la sua peccaminosità dal punto di vista della morale cattolica. Il riconoscimento di Dante verso il suo maestro tuttavia ha disturbato a lungo una certa critica (soprattutto nel periodo del fascismo) che non poteva ammettere alcun segno di riverenza verso un omosessuale, per questo si era favoleggiato che l’andare contro natura di Ser Brunetto riguardava il suo uso della lingua francese (non naturale) di contro al volgare, ma è evidente che tale teoria si sia sviluppata contro ogni evidenza nella distribuzione dei peccati dantesca, sebbene sia da sottolineare come del peccato stesso di Ser Brunetto Dante non faccia mai menzione.

Dopo aver risposto alla domanda di Dante di chi fossero i suoi compagni (soprattutto intellettuali e chierici) Brunetto si congeda da Dante:

«Sieti raccomandato il mio Tesoro
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio.»

«Ti raccomando il mio Tresor (opera il lingua d’oc), nel quale io vivo ancora, e più non chiedo.»

chiusa nella quale all’immortalità di Dio, Brunetto risponde con l’immortalità della cultura.

Canto XVI
Settimo cerchio
III Girone
Violenti contro Dio, la natura, l’arte
(Bestemmiatori, sodomiti, usurai)

Lasciato definitivamente ser Brunetto, mentre in sottofondo si ode il rumore del Flegetonte che si versa nel girone sottostante, Dante vede avvicinarsi a sé tre sodomiti, disposti a cerchio, che si rivelano essere personalità eminenti della politica e dell’arte militare: Guido Guerra, famoso guerriero, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci (ambedue cavalieri di parte guelfa).

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Bartolomeo Pinelli: I tre sodomiti (1824)

Essi riferiscono a Dante che un nuovo compagno, unitosi nel girone dei sodomiti, Guglielmo Borsiere, ha riportato notizie sconfortanti sulla città di Firenze e loro vogliono sapere da Dante se quanto detto loro risponde a verità.

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Tom Phillips: I tre sodomiti (1982)

Così risponde loro il poeta:

«La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,

Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».

«I nuovi ricchi e gli improvvisi guadagni hanno dato vita alla superbia e alla sregoletezza in te, Firenze, di cui sin da ora ti lamenti.»

Con questa risposta Dante mostra ancora una volta che ciò che rovina la città è il suo imborghesimento. L’importanza data al denaro e non più ai valori corrompono, secondo il poeta, i fiorentini che tuttavia non riesce a vedere in essi una nuova forza storica, capace non solo di rovinare, ma anzi di preparare la grande stagione del ‘400 italiano.

Canto XVI.JPGDante si sofferma ad osservare la cascata del Flegetonte

Intanto il rumore del fiume di sangue che si getta nel girone successivo diventa assordante. Virgilio domanda a Dante la corda che egli ha intorno ai fianchi, con la quale voleva aver ragione della lonza nella selva oscura. Il poeta latino la getta in fondo al burrone, come segnale per chi dovrà sopraggiungere dal basso per mostrarsi infine a Dante. Egli infatti, affacciatosi vede un essere che si eleva lentamente verso loro.

Canto XVII
Settimo cerchio
III Girone
Violenti contro Dio, la natura, l’arte
(Bestemmiatori, sodomiti, usurai)

Ecco svelato il mostro che vince gli ostacoli della natura, penetra i muri e le armature e che appesta col suo fetore l’intero mondo:

La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto; 
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle. 

(…)

così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra. 
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.

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Bernhard Gillessen: Gerione

Aveva la faccia dell’uomo giusto, tanto benevoli apparivano le sue sembianze esteriori, e tutto il resto del corpo di un serpente; aveva due branche pelose fino alle ascelle; la schiena ed il petto ed entrambi i fianchi erano tutti dipinti con nodi e scudetti: (…) allo stesso modo stava allora quella malefica belva sull’orlo estremo in pietra che circonda il sabbione. Tutta la sua coda guizzava libera nel vuoto, tendendo verso l’alto la forcella velenosa che armava la punta come quella di uno scorpione.

Il mostro è Gerione, diversamente interpretato, rispetto all’immagine classica, da Dante. Egli rappresenta l’allegoria della frode con la sua triplice natura: il volto umano, il corpo di serpente e la coda di scorpione. Virgilio invita Dante ad avvicinarsi ad esso, ma proprio lì vicino vede seduti gli usurai ed è la stessa guida a dire a Dante di farsi loro incontro per aver piena conoscenza dell’intero girone.

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Gli usurai (miniatura ferrarese del XV secolo) 

Dante li riconosce attraverso le loro borse che hanno tutte disegnato lo stemma di famiglia. Sembra non far piacere loro essere riconosciute, se si apprestano a nominare anche altri che giungeranno con lo stesso peccato. Ma sarà proprio il gesto dell’unico padovano dei tre (gli altri due sono fiorentini) che lo licenzia con una volgare linguaccia, a mostrare il fastidio che Dante nutre per questo peccato.

Quindi, Dante si avvicina al maestro e lo stesso lo invita a sedersi sulla groppa maculata di Gerione, nella parte anteriore, in quando Virgilio, ponendosi alle sue spalle, lo avrebbe sorretto e difeso dalla coda biforcuta; e così inizia la discesa, raccontata dall’io narrante in soggettiva:

Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta. 
Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo. 
Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’io tremando tutto mi raccoscio. 
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti. 
Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere “Omè, tu cali!”, 
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello; 
così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone, 
si dileguò come da corda cocca.

Gerione procede nuotando lentamente: gira in cerchio e scende continuamente, ma non me ne accorgo se non per l’aria che sento arrivare sul volto e dal basso. Io iniziavo già a sentire alla mia destra il vortice d’acqua del fiume Flegetonte rumoreggiare orribilmente sotto di noi, e sporgo quindi la testa per guardare verso il basso. Divenni allora ben più timoroso nell’allentare la presa delle gambe, vedendo giù in fondo dei fuochi e sentendo dei pianti; e tutto tremante strinsi di nuovo le cosce intorno al mostro. Mi accorsi poi, cosa che non avevo notato prima, del nostro scendere e girare in cerchio vedendo le grandi punizioni (dell’ottavo cerchio) che si facevano vicine da tutte le parti. Come il falcone da caccia che è stato per tanto tempo in volo, e senza aver sentito il richiamo o visto una preda fa dire al falconiere: “Ahimè, tu stai scendendo!”, planando stanco fino al punto da cui era partito agile, facendo centinaia di cerchi nell’aria, atterra infine lontano dal suo padrone, sdegnoso ed afflitto; allo stesso modo Gerione si depose sul fondo del burrone ai piedi della parete di roccia a strapiombo e, dopo aver lasciato scendere me e Virgilio, si dileguò infine veloce come una freccia scoccata da un arco.

La “Favolosa discesa” viene descritta a livello sensoriale: dapprima l’udito, col fragore delle acque del Flegetonte, quindi visivo/auditivo con i fuochi ed i pianti ed in ultimo visivo, perché il ruotare di Gerione gli permette un prospettiva completa, anticipando in questo modo la struttura delle Malebolge.

Canto XVIII
Ottavo cerchio
I Bolgia (Ruffiani e seduttori)
II Bolgia (Adulatori)

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Mappa dell’ottavo cerchio in Dante con l’esposizione di Bernardino Daniello da Lucca (1568)


Il canto inizia con il nuovo luogo (l’ottavo cerchio) in cui i due pellegrini si trovano dopo essere scesi dalla groppa di Gerione:

Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge
Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò l’ordigno.
Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,
tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,
così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ’ fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.Botticelli, Malebolge: First and Second Bolge | The Core Curriculum

Botticelli: prima e seconda bolgia

C’è una regione dell’Inferno che è chiamata Malebolge, fatta tutta di pietra del colore del ferro, e cinta tutt’intorno da una parete della stessa natura. Nel centro esatto di quel campo maledetto si apre un pozzo molto largo e profondo, della cui funzione parlerò più avanti, quando sarà il momento. Rimane pertanto uno spazio circolare tra il pozzo ed i piedi dell’alta parete di roccia, ed ha il fondo diviso in dieci fossati distinti. Come, dove a difesa delle mura ci sono molti fossati a cingere i castelli appare l’area dove quei fossati si trovano, allo stesso modo apparivano laggiù quelle valli distinte; e come alle porte di tali fortezze ci sono dei ponticelli che portano da una riva all’altra, allo stesso modo là nell’Inferno dai piedi della roccia partivano degli scogli che attraversavano argini e fossati fino a raggiungere quel pozzo che li termina e raccoglie.

La topografia con cui il canto si apre è precisamente descritta : un cerchio in cui sono iscritti dieci centri concentrici, attraversati, come fossero i raggi di una ruota, da ponti di roccia: tale descrizione così dettagliata presenta già  una particolarità: la parola Malebolge è d’invenzione dantesca e “bolgia” nel medioevo significava “borsa, sacca”. Quindi il luogo è come se fosse composto da dieci sacche di “mala gente”, non più guardati da “mostri animali” (Gerione è come se soprassedesse alla complessità), ma da veri e propri diavoli: I ruffiani e seduttori, stipati nella prima bolgia, vendono frustati nel deretano da diavoli, riprendendo una forma di punizione piuttosto in voga nelle città medioevali per i peccati a sfondo sessuale.the-inferno-canto-18-1.jpgGustave Doré: Ruffiani e seduttori

Fra di essi Dante individia Venedico Caccianemico, suo contemporaneo, che ha costretto sua sorella Ghisola a prostituirsi con Obizzo d’este e Giasone (maestoso, tra gli altri dannati) che ha ingannato e poi lasciate sole Ifisile e Medea.lecchino-5.jpg

Giovanni Stradano: Gli adulatori (1857)

Nella seconda bolgia i peccatori sono immersi nella merda: qui riconosce Alessio Interminei da Lucca e la Taide della commedia l’Eunuco di Terenzio.

Ci sono alcune particolarità da rivelare in questo canto e che verranno riprese nell’ottavo cerchio: la disumanizzazione dei peccati e dei peccatori che tendono sempre più a non volersi fare riconoscere e l’accoppiamento classico / contemporaneo delle anime.malebolge_by_nivalis70-d7s72ot.jpgNivalis ’70: Gli adulatori

Per quanto riguarda Taide, i pochi versi a lei riferiti, ci dicono di una cattiva interpretazione del testo da parte di Dante, conosciuto attraverso il De amicitia di Cicerone: nella commedia, infatti, nell’atto III, scena I, Trasone chiede al servo Gnatone, che a nome di lui aveva presentato il dono: “Magnas vero agere gratias Thais mihi?” (Dunque Taide mi ringrazia?) e Gnatone risponde: “Ingentes” (ti ringrazia moltissimo); Dante scambia Thais per un vocativo, facendolo diventare: “Ho io, Taide, grandi benemerenze presso te?”, “Non grandi, straordinarie”, come fossero ricompense per i favori che la puttana Taide riceva dal suo drudo.

Canto XIX
Ottavo cerchio
III Bolgia (Simoniaci)

O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.
Già eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.
O somma sapïenza, quanta è l’arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte!
Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d’un largo tutti e ciascun era tondo.
Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori;
l’un de li quali, ancor non è molt’anni,
rupp’io per un che dentro v’annegava:
e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
d’un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l’altro dentro stava.
Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.
«Chi è colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti»,
diss’io, «e cui più roggia fiamma succia?».
Ed elli a me: “Se tu vuo’ ch’i’ ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de’ suoi torti».
E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace:
tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace».
Allor venimmo in su l’argine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.
Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.
«O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa»,
comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto».
Io stava come ’l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,
richiama lui per che la morte cessa.
Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?».
Tal mi fec’io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch’è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.
Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:
“Non son colui, non son colui che credi”»;
e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: «Dunque che a me richiedi?
Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;
e veramente fui figliuol de l’orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l’avere e qui me misi in borsa.
Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.
Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,
allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.
Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi
e ch’i’ son stato così sottosopra,
ch’el non starà piantato coi piè rossi:
ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver’ ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.
Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
ne’ Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge».
Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non “Viemmi retro”.
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l’anima ria.
Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
E mentr’io li cantava cotai note,
o ira o coscïenza che ’l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.
I’ credo ben ch’al mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.
Però con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.
Né si stancò d’avermi a sé distretto,
sì men portò sovra ’l colmo de l’arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.
Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.
Indi un altro vallon mi fu scoperto.

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
 ciascun da l’altra costa li occhi volse,
 quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.
Lo Navarrese ben suo tempo colse;
 fermò le piante a terra, e in un punto
 saltò e dal proposto lor si sciolse.
Di che ciascun di colpa fu compunto,
 ma quei più che cagion fu del difetto;
 però si mosse e gridò: «Tu se’ giunto!».
Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
 non potero avanzar; quelli andò sotto,
 e quei drizzò volando suso il petto:
non altrimenti l’anitra di botto,
 quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
 ed ei ritorna sù crucciato e rotto.
Irato Calcabrina de la buffa,
 volando dietro li tenne, invaghito
 che quei campasse per aver la zuffa;
e come ’l barattier fu disparito,
 così volse li artigli al suo compagno,
 e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.
Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
 ad artigliar ben lui, e amendue
 cadder nel mezzo del bogliente stagno.
Lo caldo sghermitor sùbito fue;
 ma però di levarsi era neente,
 sì avieno inviscate l’ali sue.
Barbariccia, con li altri suoi dolente,
 quattro ne fé volar da l’altra costa
 con tutt’i raffi, e assai prestamente
di qua, di là discesero a la posta;
 porser li uncini verso li ’mpaniati,
 ch’eran già cotti dentro da la crosta.
E noi lasciammo lor così 'mpacciati.
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Gustave Doré: Alichino alle prese con Ciampolo

Già mi capitò di vedere i cavalieri muoversi verso il campo, e lanciarsi in combattimento e mettersi in assetto, e qualche volta anche scappare, abbandonando il campo per mettersi in salvo; di vedere drappelli fare ispezioni nella vostra terra, o Aretini, e di vedere fare scorrerie, razzie, e di vedere combattere nei tornei e correre nelle giostre; e, a seconda dei casi, si davano segnali ora con trombe, ora con campane, oppure con i tamburi e con bandiere o fuochi accesi dai castelli, con modalità tradizionali nostrane oppure imparate dagli stranieri; ma mai mi capitò di vedere con una così diversa cornamusa (come quella di Barbariccia) mettere in moto cavalieri o pedoni, e neppure navi che si muovessero per cenni di terra o per apparire di stelle. Noi proseguivamo quindi il cammino con i dieci demoni: ahi che terribile compagnia! ma è normale che in chiesa ci siano i santi, e nelle taverne i golosi. Stavo sempre attento anche alla pece, per vedere tutte le condizioni della bolgia e delle persone che dentro di essa ardevano. Come fanno i delfini, quando lanciano segnali ai marinai facendo emergere l’arco della loro schiena, così che abbiano cura di mettere al sicuro la loro nave da una imminente tempesta, allo stesso modo, a volte, per ridurre la sofferenza della loro punizione, alcuni peccatori venivano a galla mostrando la schiena, per reimmergerla di nuovo subito dopo, all’istante. E così come sull’orlo dell’acqua di un fosso se ne stanno le rane con solo la loro testa fuori all’aria, celando in questo modo nell’acqua le zampe ed il grosso corpo, allo stesso modo se ne stavano da tutte le parti i peccatori; ma non appena si avvicinava loro Barbariccia, (per evitare la punizione) subito si ributtavano dentro la pece bollente. Vidi quindi, ed ancora il mio cuore rabbrividisce quando ci penso, un dannato rimanere invece a galla, come fa ogni tanto una rana intontita, quando ci si avvicina, mentre la sua vicina è già saltata via; allora Graffiacane, che era il più vicino a quel miserabile, con il suo uncino gli afferrò i capelli tutti ricoperti di pece e lo tirò fuori dalla fossa, tanto che mi parve una lontra. Io avevo già imparato il nome di tutti quei demoni, avendoli notati quando furono chiamati uno ad uno da Malacoda, ed, anche, quando si chiamavano, stavo attento a chi di loro rispondeva.
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William Blake: Ciampolo tormentato dai diavoli

«Oh Rubicante, fa’ in modo di mettergli addosso i tuoi unghioni, per scuoiarlo!» gridarono tutti insieme quei maledetti demoni. Ed io dissi allora a Virgilio: «Maestro mio, se puoi, fai in modo di conoscere il nome di quell’anima disgraziata caduta nelle mani dei suoi nemici.» La mia guida allora si avvicinò a lui; chiedendogli di dove fosse, da dove venisse, e l’altro rispose: «Io sono nato nella Navarra (in Spagna). Fui messo al servizio di un signore locale da mia madre, che mi aveva dato alla luce dalla relazione con furfante, sperperatore dei propri beni ed anche della sua vita (suicida). In seguito entrai nella corte del valoroso re Tebaldo: e là mi misi a fare il barattiere; di quelle mie azioni pago ore le conseguenze in questa pece calda.» A quel punto Ciriatto, dalla cui bocca sporgevano, una per parte, due zanne come ad un cinghiale, gli fece sentire come (con la zanna) fosse capace di stracciare la carne. La povera anima era finito come un topo tra gatte malvagie; ma Barbariccia lo strinse tra le sue braccia, e disse agli altri: «State lontani voi, mentre io lo tengo così, come inforcato.» E al mio maestro Virgilio rivolse quindi la sua faccia: «Fai le tue domande» disse, «adesso, se desideri sapere altro da lui, prima che intervenga qualcun’altro e lo faccia a pezzi.» La mia guida allora domandò: «Dimmi adesso: tra tutti i peccatori, ne conosci tu qualcuno che sia stato italiano ed ora si trova immerso nella pece?». E quello rispose: «Io mi allontanai, proprio poco fa, da uno che abitò vicino all’Italia: potessi stare ancora immerso là nella pece insieme a lui! non sarei ora qui a temere né le unghie né gli uncini.» Allora Libicocco disse «Abbiamo già aspettato troppo»; e gli afferrò quindi il braccio con il suo bastone uncinato, in modo da, stracciando, strappargli un pezzo di carne viva. Anche Draghignazzo volle afferrarne il corpo in basso alle gambe; ma Barbariccia allora, loro comandante, si volse tutti intorno verso di loro con modi molto più aggressivi. Quando tutti i demoni si furono un poco calmati, al peccatore, che stava ancora guardando la ferita subita, Virgilio domandò senza esitare oltre: «Chi è colui dal quale ti sei malauguratamente separato, come hai detto tu di aver fatto, per finire poi su questa riva?» Ed egli rispose: “E’ frate Gomita, quello che abitava in Gallura, maestro di ogni tipo di truffa, che, avuti in mano i nemici del suo padrone, lì tratto in un modo che può ancora essere motivo di vanto per ciascuno di loro. Ricevette del denaro e li lasciò liberi con un processo sommario, come dice lui nel suo gergo (sardo); ma anche negli altri suoi incarichi agì non solo come barattiere, ma come il re dei barattieri. Insieme a lui si trova anche il signor Michele Zanche di Logudoro; e di parlare della loro Sardegna non si stancano mai le loro due lingue. Ohimé, vedete anche voi l’altro demone che digrigna i suoi denti: Io continuerei anche a parlare, ma temo che egli si stia preparando a grattarmi la rogna di dosso.» A queste parole Barbariccia, il grande capo, si rivolse a Farfarello che stava stralunando gli occhi per vibrare il colpo e ferire Ciampòlo e disse: «Fatti più in là, allontanati, uccellaccio maligno». «Se voi volete vedere e sentire» riprese a parlare allora Ciampòlo, ripreso un poco il coraggio, «anime Toscane o Lombarde, io ne farò venire a galla qualcuna; ma è necessario che i diavoli Malebranche stiano un pò distanti, cosicchè i miei compagni non abbiamo a temere la loro vendetta; allora io, stando seduto in questo stesso posto in cui mi trovo, pur trovandomi da solo, ne farò venire a riva sette, mettendomi solo a fischiettare, come siamo soliti fare quando qualcuno si tira a galla, fuori dalla pece, e vede che non ci sono pericoli.» Cagnazzo, sentendo una simile proposta, alzò il muso scrollando il capo in segno di disapprovazione, e disse: «Senti che inganno si è inventato per riuscire a scapparci, ributtandosi nella pece.» Ma Ciampòlo, che in fatto di inganni era un grande esperto, rispose: «Se al limite inganno qualcuno, inganno i miei compagni, che richiamo esponendoli a pericoli maggiori.» Alichino non seppe allora trattenersi, e, in contrapposizione agli altri demoni, disse all’anima: «Sappi che se tu ti getterai giù nella fossa, io non ti correrò certo dietro, ma verrò ad afferrarti volando veloce con le ali sopra la pece: lasciamolo pure libero sull’argine e noi andiamo a nasconderci dietro il pendio, e vediamo se da solo vale più di tutti noi.» Oh lettore, sentirai adesso di una gara mai vista: ogni demonio si girò, rivolgendo il proprio sguardo verso l’altro pendio della bolgia, primo tra tutti Cagnazzo, che sembrava essere quello più difficile da convincere. Ciampòlo, il navarrese, colse al volo il momento giusto: puntò bene entrambi i piedi a terra e nello stesso istante spiccò un salto, liberandosi da Barbariccia, il loro gran comandante. Ogni diavolo si sentì punto dal rimorso, ma più di tutti si sentì punto Alichino, che era stato la causa; perciò spiccò subito il volo gridando: «Ora ci sei! Sei mio». Ma gli servì a poco: perché le sue ali non riuscirono a battere in velocità la paura di Ciampòlo: questo si immerse subito nella pece, l’altro dovette tirarsi dritto e tornare indietro a mani vuote: non diversamente l’anatra, improvvisamente, si tuffa sott’acqua quando sente avvicinarsi il falcone, che torna su in alto nel cielo sconfitto e per questo adirato. Calcabrina, arrabbiato per la beffa subita, volò subito dietro ad Alichino sperando che Ciampòlo riuscisse a scappare, così da poter attaccare lite con il compagno; perciò, non appena il barattiere si fu messo al riparo sotto la pece, rivolse subito i propri artigli verso Alichino, lo afferrò e lo trascinò così preso sopra il fosso. Ma a sua volta Alichino si comportò da bravo rapace, riuscendo ad afferrare a sua volta l’altro con i propri artigli, ed entrambi caddero così nel bel mezzo della pece bollente. Il calore spinse subito tutti e due a lasciare la presa; ma non riuscirono comunque a sollevarsi dalla pece, tanto avevano le ali impiastrate ed appesantite. Barbariccia allora, tanto addolorato per quanto era accaduto, così come lo erano gli altri, fece volare quattro suoi demoni dalla riva opposta, tutti dotati di bastoni uncinati, e velocemente, da una parte e dall’altra, scesero lungo la riva fino alla pece: allungarono i loro uncini verso i due demoni tutti invischiati; che oramai erano già cotti dall’esterno fino al dentro; e noi li lasciammo così, imbarazzati per l’accaduto.
L’incipit del canto è legato, in modo fortemente ironico, al canto precedente, facendo sì che fra i due non ci fosse alcuna frattura, ma che costituissero un solo episodio, una solo cerchio, una sola bolgia e gli stessi protagonisti. Eppure qualcosa di diverso c’è ed è la presenza dei dannati: se nel precedente a farla da padrone erano stati i diavoli, cui spalla era la paura di Dante, qui, una volta che si è già venuto a sapere chi sono e come si comportano lo sguardo è posato sui dannati.
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William Blake: La lotta tra i diavoli
Questi ultimi sin dall’inizio sembrano usciti dai bestiari medievali in un crescendo di ributtante similitudine: dapprima delfini che mostrano la schiena, quindi rane appiattite a gracidare osservando il mondo ed il modo per scampare il pericolo ed infine la lontra, tirata su con un pendaglio. Tra questi dannati vi è il protagonista, Ciampolo: nessuna umanità in lui (d’altra parte è difficile averne in questa lotta serrata con i diavoli), ma “figuralmente” la capacità di continuare a barattare con essi per trarne vantaggio.
In ultimo la stupidità dei diavoli, che probabilmente si odiano e fanno a gara loro stessi contendendosi i dannati. E’ stato proprio il barattiere spagnolo a giocare con loro mettendo in luce l’inconsistente boria e l’imbecillità che li contraddistingue: lancia una sfida che il diavolo Alichino raccoglie e perde e per la rabbia di essersi fatto fuggire un dannato Calcabrina lo va a colpire dando vita alla famosa zuffa tra diavoli. Insomma pur rotti dai vizi della vita si fanno fregare da un piccolo furfante, ma a far vincere quest’ultimo è l’intelligenza di Ciampolo di cui sembra che a loro difetti del tutto. 

Canto XXIII
Ottavo cerchio
V Bolgia (I barattieri)
VI Bolgia (Gli ipocriti)

Il canto si lega con i precedenti due: i diavoli “sconfitti” in astuzia da Ciampolo, sono stati visti perdere la battaglia e l'”onore” da Virgilio e Dante e sanno che essi non sono affatto lieti che, scampando, possano in seguito raccontarlo in giro. Pertanto s’affrettano a raggiungere il declivio che li porterà alla sesta gioia essendo stato detto loro (falsamente) che il ponte atto a traghettarli è crollato. Infatti mentre corrono sentono alle loro spalle i diavoli; Virgilio prende in braccio Dante e, lasciandosi scivolare tra le pietre, non lo pone in terra finché non giunge alla sesta bolgia, osservando i diavoli che, grazie alla provvidenza divina, s’arrestano di colpo perché non è concesso loro di superare il luogo da loro presieduto. 

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Denis Forkas: Gli ipocriti

Scampato il pericolo il nostro trova un manipolo di persone che camminano, in lacrime, lentamente, con il volto prostrato dalla fatica. Infatti indossano un mantello, come i monaci cluniacensi, fuori color d’oro e dentro piombati; noi li seguiamo nel loro giro, ma procedono talmente lentamente che noi, più veloci, ci imbattiamo sempre in volti nuovi. Ad un certo punto uno, guardando biecamente da sotto in su, invita loro ad andare più lentamente, informandoli di essere nella bolgia degli ipocriti e d’essere Catalano, un frate gaudente di Bologna. Quindi incontrano un uomo conficcato nudo in terra sopra ilm quale essi devono passare: è Caifa e con lui è qui tutto il sinedrio che ha condannato Gesù. Virgilio, rivolgendosi al frate, gli chiede se ci fosse, sulla destra, un modo d’uscire dalla sesta bolgia: quando viene a sapere che non è il ponte della quinta bolgia crollato, come gli aveva detto Malacoda (che chissà dove voleva portarli) ma quello della sesta, Virgilio si rabbuia, prendendosi anche lo sberleffo del frate che gli ricorda che lo sanno anche nell’Università di Bologna che il diavolo è falso, facendosi beffe dell’ingenuità del grande poeta latino.

Canto XXIV
Ottavo cerchio
VII Bolgia (I ladri)

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Bartolomeo Pagani: I ladri (1825)

Come sappiamo dal canto precedente per raggiungere il ponte che copre la settima bolgia, Dante e Virgilio si devono inerpicare sull’argine che li divide: cammino assolutamente non facile che metaforicamente sta ad indicare la fatica che il peccatore deve affrontare per raggiungere la salvezza; questo ci dice l’estrema attenzione che il poeta dedica alla descrizione del luogo (la solita esigenza realistica in un luogo fantastico) finalizzata a farci percepire la stanchezza che il Dante protagonista prova, la sua esigenza di riprender fiato ed il rimprovero di Virgilio che lo sprona a vincere l’affaticamento che qui risulta quasi nullo rispetto a quello che l’aspetterà nella montagna del Purgatorio.

Quindi spostando lo sguardo in soggettiva, con una focalizzazione interna, il poeta mentre sale, con difficoltà nel ponte, dapprima sente delle voci, quindi invita Virgilio ad andare nell’atro argine e qui vede un incredibile groviglio di serpenti:

Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,
né tante pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta l’Etïopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
Tra questa cruda e tristissima copia
corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:
con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
Ed ecco a un ch’era da nostra proda,
s’avventò un serpente che ’l trafisse
là dove ’l collo a le spalle s’annoda.
Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com’el s’accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e ’n quel medesmo ritornò di butto.
Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce.
E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo,
quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era ’l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!
Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana».
E ïo al duca: «Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù ’l pinse;
ch’io ’l vidi omo di sangue e di crucci».
E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,
e di trista vergogna si dipinse;
poi disse: «Più mi duol che tu m’ hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l’altra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’io fui
ladro a la sagrestia d’i belli arredi,
e falsamente già fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.
E detto l’ ho perché doler ti debbia!».

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Claudio Buz: Vanni Fucci

La Libia non si può più vantare delle sue spiagge; perché anche se produce chelidri, iaculi e faree e cencri e anfisibene, svariate specie di serpi, non può dire di avere mai avuto serpenti così pestiferi e velenosi nemmeno mettendosi insieme a tutta l’Etiopia ed a tutte le terre che si trovano sopra al Mar Rosso, a tutto il deserto arabico. In mezzo a questa gran quantità di serpenti feroci correva della gente nuda tutta spaventata, senza la speranza di poter trovare un rifugio o la pietra elitropia, che dà invisibilità: avevano le mani legate dietro la schiena con dei serpenti; le serpi ficcavano la coda e la testa tra le mani ed i reni dei dannati, di qua e di là, ed si annodavano poi sul dorso. Improvvisamente un dannato che si trovava dalla nostra parte, fu assalito da un serpente e trafitto là dove il collo si unisce alle spalle. Mai fu scritta né una “o” né una “i” tanto velocemente, quanto ci impiegò quel disgraziato a prendere fuoco e bruciare, tanto che divenne tutto cenere mentre cascava al suolo; e dopo che fu così ridotto a cenere in terra, la sua polvere si raccolse da sola e nello stesso istante ritornò di colpo ad essere la medesima figura di prima, così come i grandi saggi del passato dichiarano che la Fenice muore per poi subito rinascere, quando si avvicina ai cinquecento anni di vita: lei che quando è in vita non si nutre né di biada né di erba, ma solo di lacrime d’incenso e d’amomo, ed il suo drappo funerario sono il nardo e la mirra. Ed al modo di chi cade, e non sa come sia accaduto, se a causa di un demone che lo ha strattonato in terra, o per un altro tipo ostacolo che lega e non lo lascia stare in piedi, che quando si rialza, si guarda intorno tutto smarrito a causa della grande angoscia che ha provato, e guardandosi intorno sospira; allo stesso modo fece il peccatore quando si rialzò. Oh quant’è severa la potenza di Dio, che per punire i peccatori sferra tali colpi! La mia guida Virgilio gli domandò chi dunque egli fosse; ed egli rispose: «Io sono piovuto dalla Toscana, non molto tempo fa, per finire in questa bolgia feroce. Mi piacque la vita bestiale e non quella umana, essendo io un bastardo; io sono Vanni Fucci detto Bestia, e Pistoia fu la tana degna della mia esistenza». E io dissi a Virgilio: «Digli di non scappare, e chiedigli quale colpa lo ha spinto quaggiù; perché io l’ho conosciuto come uomo sanguinario e litigioso, non come ladro». E il peccatore che aveva capito le mie parole, non finse di non aver udito, ma si rivolse a me tutta la sua attenzione ed anche il volto, che si colorò di rosso per la triste vergogna; poi mi disse: «Mi dispiace di più che tu mi abbia incontrato qui nella miseria in cui mi vedi, piuttosto che non la stessa morte con cui fui tolto alla vita. Io non posso negarti quanto tu mi chiedi: io sono stato sistemato in questa bolgia dell’inferno perché fui io che derubai dei bei arredi la Sagrestia di San Giacomo a Pistoia, delitto la cui colpa fu però assegnata falsamente ad altri. Ma affinché tu non possa godere per avermi visto quaggiù, se mai uscirai da questi luoghi bui, apri bene le orecchie alla mia predizione, e ascolta: prima Pistoia vedrà cacciati da sé i Neri: ma poi Firenze sostituirà nuovamente i Banchi con i Neri, cambiando governo e leggi. Per opera di Marte, dalla Valle di Magra soffierà un vento con nuvole scure; e si abbatterà una tempesta impetuosa e terribile sopra il territorio di Pistoia, dove si combatterà duramente; il vento violento spazzerà poi via la foschia che lo avvolge con una forza tale che ogni Bianco ne resterà ferito. E questo te l’ho predetto così che tu te ne possa dolere!”.

Il brano qui presentato si può dividere in due parti:

  • la sfida letteraria con i classici, in questo caso l’Ovidio delle Metamorfosi, nella rappresentazione della Fenice che costituisce la prima metamorfosi che avvengono nella bolgia;
  • la presentazione di Vanni Fucci che occupa l’ultima parte dell’intero canto. 
In questa VII bolgia risulta addirittura scoperto il contrappasso: la presenza dei serpenti, popolarmente giudicati infigardi, astuti, mimetici e il loro passarsi i corpi con i dannati, indica appunto il furto presentati qui in forma parossistica (soprattutto nel canto seguente con questo costituisce un dittico); ma più importante è la figura di Vanni Fucci: il rapporto tra la “bestia” (vita bestial dice della sua esistenza il peccatore) e Dante è nullo, se invita Virgilio a parlare con lui evitando appunto alcuna forma di dialogo; lo ha riconosciuto come assassino, ma non come ladro e sarà lo stesso Fucci a rivelargli il furto sacrilego di cui è incolpato. La vergogna per esser stato scoperto lo rende ancora più cattivo nei confronti di Dante, tanto da profetizzare il suo esilio, ma questa volta al contrario delle precedenti (quella di Farinata, con la consapevolezza dolorosa di un destino comune chi li accomunerà, quella di Brunetto Latini doloroso, ma pieno di orgoglio per il discepolo preferito) la predizione di Vanni è piena di rabbia e di vendetta, oserei dire contenta di poter far provare dolore, lo stesso che egli ha sentito, mescolato alla vergogna, per il riconoscimento. 

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Priamo della Quercia: canto XXIV

Canto XXV
Ottavo cerchio
VII Bolgia
(I ladri)

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Giovanni Stradano: I ladri (1857)

L’inizio del canto XXV inizia allo stesso modo con cui si era interrotto il XXIV, all’ira espressa verbalmente da Vanni Fucci ne segue il gesto osceno rivolto contro Dio, reo di averlo fatto riconoscere da un vivo:

Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!». 
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
come dicesse “Non vo’ che più diche”; 
e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.

Dopo aver finito di parlato il ladro alzò entrambe le mani facendo il gesto delle fiche (pugno chiuso e pollice tra l’indice e il medio) gridando: «Prendi, Dio, le rivolgo direttamente a te!». Da quel momento in poi i serpenti mi diventarono simpatici, perché uno di essi lo avvolse subito intorno al collo, come a dire: «Non voglio che tu parli ancora»; e un’altra si attorcigliò alle sue braccia, legandolo e rilegandolo, ponendosi più volte sul petto del dannato, cosicché non potesse con le braccia dare uno scossone per liberarsi.

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Francesco Scaramuzza: Vanni Fucci (XIX sec.)

Segue quindi l’invettiva contro Pistoia  (paese originario di Vanni) e la sua fuga, quindi prosegue il racconto, con la descrizione del centauro Caco:

El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?». 
Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia. 
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s’intoppa.
Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco. 
Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino; 
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece».

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Il centauro Caco

Egli fuggì e non poté più dire una parola; e intanto vidi un centauro avvicinarsi, tutto pieno di rabbia, gridando: «Dov’è, dov’è quel dannato non ancora piegato dalla pena?». In tutta la Marenna toscana non credo ci siano tante bisce, quante ne aveva quel centauro sulla schiena, fino a dove cessa la natura di cavallo e inizia l’aspetto umano. Sopra le spalle, dietro alla nuca, si trovava un dragone con le ali dispiegate; che sputava fuoco contro chiunque incontrasse sulla sua via. Il mio maestro Virgilio mi disse: «Questo centauro è Caco, il quale, nella grotta che si trova sotto il monte Aventino, spesso fece un lago con il sangue delle sue vittime. Non corre sulla riva del Flegetonte insieme ai centauri suoi fratelli a causa dell’astuto furto che compì sottraendo parte della mandria condotta da Ercole, quando l’ebbe vicino; furto a causa del quale egli cessò poi le sue azioni malvagie sotto la mazza di Ercole, che forse gli diede cento colpi, ma furono talmente forti, che forse egli non sentì nemmeno i primi dieci».

Mentre Virgilio parla si sentono le voci di tre ladri di cui assistiamo le metamorfosi, la cui consapevolezza della perizia letteraria dello scrittore, gli fa dire di aver superato le capacità linguistica di Lucano e di Ovidio:

Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l’un nomar un altro convenette, 
dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
mi puosi ’l dito su dal mento al naso. 
Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che ’l vidi, a pena il mi consento. 
Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia. 
Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia; 
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
e dietro per le ren sù la ritese. 
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
per l’altrui membra avviticchiò le sue. 
Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era: 
come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e ’l bianco more. 
Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se’ né due né uno». 
Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti. 
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
divenner membra che non fuor mai viste. 
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo. 
Come ‘l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa, 

sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe; 
e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso. 
Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse. 
Elli ’l serpente e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
fummavan forte, e ’l fummo si scontrava. 
Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca. 
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ’nvidio; 
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte. 
Insieme si rispuosero a tai norme,
che ’l serpente la coda in forca fesse,
e ’l feruto ristrinse insieme l’orme. 
Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse. 
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
e ’l misero del suo n’avea due porti. 
Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ’l pel suso
per l’una parte e da l’altra il dipela, 
l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso. 
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie; 
ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne. 
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia; 
e la lingua, ch’avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta. 
L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa. 
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra,
com’ ho fatt’io, carpon per questo calle».
Così vid’io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra. 
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi, 
ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato; 
l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.

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William Blake: La metamorfosi del ladro fiorentino

Io non li conoscevo; ma accadde allora, come può capitare che accada a volte per caso, che l’uno dovette chiamare l’altro per nome, dicendo: «Cianfa dove sarà rimasto?»: perciò io, affinché il duca prestasse loro attenzione, mi misi l’indice sulla bocca, dal mento al naso, per farlo stare zitto. Se tu ora, lettore, stenti a credere in quello che io ora sto per scrivere, non ci sarà certo da sorprendersi, perché pure io che lo vidi con i miei occhi, faccio fatica a ritenerlo vero. Mentre io tenevo il mio sguardo bene concentrato sui tre dannati, un serpente con sei zampe che si lancia all’improvviso su uno di loro, e gli si avvinghia tutto addosso. Con le zampe di mezzo gli circondò la pancia, con quelle anteriori gli afferrò le braccia; poi gli addentò entrambe le guance; poi distese le zampe posteriori in mezzo alle cosce, e tra esse mise la coda che ritorse poi su lungo i reni del dannato. Non ci fu mai una edera così tanto avvinghiata ad un albero come quell’orribile animale tutto attorcigliato con le sue membra intorno a quelle di quell’infelice. Poi si fusero insieme come fossero fatti di cera calda e mischiarono quindi anche il loro colore, tanto ché né l’uomo né il serpente sembravano essere più quelli di prima, come accade alla carta quando la si mette davanti alla fiamma, che va prendendo un colore bruno che non è comunque ancora nero, mentre il bianco va via via scomparendo. Gli altri due dannati li stavano a guardare e gridavano entrambi: «Ohimè, Agnello, come stai cambiando! Vedi come ormai non sei né uomo né serpente e nemmeno uomo e serpente». Le due teste erano già divenute una sola, quando, nell’unica faccia, apparvero due figure mischiate tra loro, quella d’umana e quella di serpente, ma entrambe irriconoscibili. Si fecero due braccia dalle quattro iniziali; le cosce, le gambe, il ventre e il busto divennero delle membra mostruose, mai viste prima. Ogni aspetto originale era stato cancellato: quella figura deforme non assomigliava più né all’uomo né al serpente; e in questa sua nuova forma se ne andò infine a passo lento, instabile. Come il ramarro sotto la l’opprimente caldo dei giorni di afa, passando da una siepe all’altra, sembra un lampo quando attraversa la strada, tanto è veloce, allo stesso modo sembrava procedere, venendo verso il ventre degli altri due, un serpentello fiammeggiante (Francesco Cavalcanti), di color bluastro e nero come un grano di pepe; e in quella parte, l’ombelico, dalla quale riceviamo il nostro primo nutrimento quando siamo nel ventre materno, trafisse uno di loro; e poi cadde a terra davanti al dannato che aveva trafitto. Il ferito (Buoso Donati) stette a guardarlo ma non disse nulla; anzi, con i piedi immobili, sbadigliava come se avesse sonno o gli stesse venendo la febbre. Lui guardava il serpente, e il serpente fissava lui; l’uno dalla ferita, e l’altro dalla bocca emettevano un fumo intenso, e i due flussi si scontravano. Taccia Lucano là dove scrive delle sorti del povero Sabello e di Nassidio, e stia anzi ora a sentire quello che ora parte dall’arco del mio dire. Taccia anche Ovidio riguardo a Cadmo e Aretusa; perchè se lui muta Cadmo in serpente e Aretusa in fonte nella sua poesia, io non lo invidio affatto la sua arte; poiché mai arrivò a mutare due nature così diverse, come quella umana e quella del serpente, una nell’altra, così che entrambe le forme fossero disposte a scambiarsi la propria materia. Insieme i due si risposero l’un l’altro con tali leggi, che mentre il serpente divideva la coda come una forca, il ferito stringeva i piedi a formare un unico membro. Le gambe e più su le sue stesse cosce si saldarono insieme tra loro tanto che in poco della giuntura non rimase più alcun segno visibile. La coda aperta del serpente prendeva invece la forma delle gambe, che andavano scomparendo nell’uomo, e la sua pelle si faceva più molle, mentre quella dell’uomo diventava al contrario più dura e squamosa. Vidi poi che le braccia dell’uomo rientravano nel corpo dalle ascelle, mentre le zampe anteriori del serpente, che erano corte, si allungavano tanto quanto le braccia dell’uomo si accorciavano. Poi le zampe posteriori, attorcigliandosi e fondendosi diventarono il membro (il pene) che l’uomo pudicamente cela, e l’altro misero dannato spingeva fuori dal suo due nuovi arti. Questo succedeva mentre il fumo avvolgeva l’uno e l’altro in un colore nuovo, e generava peli sulla pelle del serpente facendo nello stesso tempo perdere all’uomo, quello che prima era serpente si alzò e l’altro cadde a terra, senza smettere però mai di guardarsi fissi negli occhi, sotto i quali ciascuno di loro andava cambiando faccia. Quello che era in piedi, accorciò il muso da serpente verso le tempie, e dalla materia in più che rimase si formarono le orecchie, che sporsero dalle gote che prima ne erano prive: dalla materia che non passo indietro e che era presente in abbondanza, si formarono quindi il naso e si ingrossarono le labbra nella giusta misura, tanto quanto conveniva. Quello che giaceva a terra, allungò il muso all’infuori, e ritirò le orecchie dentro la testa come è solita fare la lumaca con le sue corna; e la lingua, che prima aveva unita e capace a parlare, si divise e divenne biforcuta, mentre quella dell’altro, prima divisa,si saldò in unico pezzo; poi il fumo cessò di uscire dai loro corpi. L’anima che si era tramutata in bestia, fuggì via per la valle sibilando, mentre l’altro le sputò dietro e riprese a parlare. Quindi gli voltò le spalle appena riacquistate, e disse all’altro: «Io voglio che Buoso corra, come ho fatto io, a carponi, per questo sentiero». Così io vidi le anime dannate della settima bolgia mutare e trasformarsi; e qui la novità della materia trattata mi valga da scusa se la mia arte ha generato un poco di confusione. E sebbene i miei occhi fossero un po’ confusi per quanto appena visto, e l’animo mio fosse smarrito, i due dannati non mi poterono sfuggire alla vista, così che io riuscii a riconoscere bene Puccio Sciancato; che era l’unico, dei tre compagni giunti prima presso di noi, che non era stato trasformato: l’altro era Francesco Guercio dei Cavalcanti, quello la cui morte tu, Gaville, piangi.

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Manoscritto del XIV secolo con l’illustrazione dell’ultima metamorfosi

E’ un canto che, iniziatosi con l’icastica scena di Vanni Fucci, ancora stagliatosi come “personaggio forte” nella bolgia dei ladri, cessa di parlare dell’uomo, per soffermarsi nello sguardo attonito, ed insieme ammaliato, di un Dante contemplatore le metamorsi come castigo divino. Se la prima, presente nel canto precedente, ci mostrava un Vanni Fucci continuamente morente e risorgente (dove l’immagine icastica – paragonata a quella della Fenice – appare quasi funzionale al personaggio), qui le trasformazioni cancellano quasi del tutto i protagonisti di esse, lasciandoci appena il ricordo di tre ladri fiorentini dai nomi appena accennati e senza passato, per concentrarsi nella mirabilia di ciò che succede: la seconda è la fusione di un uomo ed un serpente che dà vita ad una forma mostruosa, che non conserva nulla né della prima, né della seconda natura, la terza la lo scambio simmetrico tra una serpe e un uomo, risolto stilisticamente in terzine che mostrano, alternativamente, ciò che accade in una natura e nell’altra. Lo stesso Dante si rende conto dell’estrema perizia lessicale che contraddistingue questo passo tanto che lo stesso Francesco De Sanctis lo definì “il più grande sforzo dell’immaginazione umana”.

Canto XXVI
Ottavo cerchio
VIII Bolgia
(I consiglieri fraudolenti)

La prima parte del canto, ricollegandosi alla bolgia dei ladri, inizia con un’apostrofe a Firenze, riconosciuti in mezzo alle metamorfosi dei dannati. Quindi inizia sottolineando il concetto d’ “ingegno” che lui deve limitare, ma che il protagonista del canto non seppe frenare, diventando il simbolo di chi, per conoscere, supera i limiti posti da Dio: 

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Gaspare Landi: Ulisse e Diomede rubano la statua di Atena

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.
E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso».
«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?».
Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».
«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!».
Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto».
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
“.

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo
,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».

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Miniatura del XIV secolo

Mi rattristai quindi, e mi rende ancora triste oggi riportare alla mente ciò che allora vidi, e limito quindi il mio ingegno più di quanto non sia solito fare perché non corra senza essere guidato dalla virtù; così che, sa la mia buona stella o la divina provvidenza mi hanno fatto dono dell’ingegno, io non possa usarlo contro di me, recandomi danno, come farebbe un nemico invidioso. Quante il contadino che si riposa in collina, d’estate, quando il sole, che illumina il mondo, ci mostra la sua faccia in modo meno nascosto, non appena, al tramonto, le mosche lasciano il posto alle zanzare, vede lucciole giù per la vallata, presenti forse anche là dove prima vendemmiava ed arava: di altrettante fiamme risplendeva tutta quanta l’ottava bolgia, così come me ne resi conto non appena giunsi là dove riuscivo a scorgere il fondo della valle. E come Eliseo, colui che ottenne vendetta per mezzo di orsi, vide la partenza del carro su cui si trovava Elia quando i cavalli che lo trainavano si levarono dritti al cielo, e non era in grado di seguirne il percorso con gli occhi riuscendo a vedere nulla d’altro che una sola fiamma salire in cielo simile ad una nuvoletta: allo stesso modo si muoveva ogni fiammella che vedevo, lungo la gola di quel fossato, senza lasciare intravedere il peccatore rapito in essa, ed ognuna al proprio interno ne nascondeva uno. Io stavo sul ponte, sporto in avanti per vedere meglio, tanto che se non mi fosse aggrappato da un masso sporgente, sarei di certo caduto giù anche senza essere stato spinto. E Virgilio, che mi vide tanto attento, mi disse: «Dentro quei fuochi ci sono gli spiriti dannati; ciascuno è ricoperto di quel fuoco da cui è bruciato.» «Mio maestro», risposi, «sentendotelo anche dire, sono ora più certo di ciò che vedo; ma già prima avevo pensato che le cose stessero come tu dici, e già volevo domandarti: chi c’è in quel fuoco che viene verso noi, diviso in alto in due fiamme, tanto che sembra essere stato generato dalla pira sulla quale furono bruciati i cadaveri di Eteocle e del fratello Polinice?» Mi rispose la mia guida: «Là dentro scontano la loro pena Ulisse e Diomede, che così come insieme suscitarono l’ira di Dio, insieme ne subiscono le conseguenze; e dentro alla loro fiamma piangono l’inganno fatto a Troia con il famoso cavallo, che aprì la via dalle quale uscì Enea, fondatore di Roma. Piangono anche per la triste astuzia a causa della quale Deidamia, anche se ormai morta, piange ancora della perdita del suo Achille, ed anche per rapimento di Palladio.» «Se possono, seppure dentro a quelle fiamma, parlare», dissi allora io, «maestro, ti prego intensamente e ti prego ancora, così che la mia preghiera valga quanto mille, di non impedirmi di rimanere qui ad aspettare fino a ché quella fiamma a doppia punta sia qui giunta; vedi quanto mi sporgo, spinto dal desiderio di parlare con loro, verso quella fiamma!» E Virgilio mi disse quindi: «La tua preghiera e degna di molta lode, e perciò sono disposto ad esaudirla; ma trattieniti però dal parlare con loro. Lascia parlare me, ho ben capito ciò che tu vorresti chiedere loro; perché altrimenti loro, essendo greci, non si degnerebbero di ascoltarti.» Quando la fiamma giunse là dove la mia guida ritenne che fosse tempo e luogo di parlare, sentii lui esprimersi in questo modo: «O voi, che vi trovate ad essere in due dentro ad un solo fuoco, per i meriti acquistati davanti a voi quando fui in vita, per i meriti acquistati davanti a voi, molti o pochi che furono, quando, ancora al mondo, scrissi gli immortali versi, fermatevi qui un poco; e uno di voi, Ulisse, ci racconti dove, per sua colpa, andò a morire smarrito nei suoi viaggi.» Il corno, la metà maggiore della fiamma accesa in tempi antichi incominciò ad agitarsi, mormorando e vibrando come fa la fiamma affaticata dal vento; vibrò la propria punta di qua e di là, quasi come fosse una lingua che parlava, buttò fuori la voce e disse quindi: «Quando mi separai da Circe, che mi sequestrò per più di un anno sul monte Circello vicino a Gaeta, prima ancora che Enea attribuì questo nome alla città, né l’affetto verso mio figlio Telemaco, né la pietà verso il mio vecchio padre Laerte, né il doveroso amore che avrebbe dovuto rendere felice la mia sposa Penelope, poterono vincere l’ardente desiderio, che sentivo in me, di esplorare il mondo, per divenire un esperto conoscitore suo, dei vizi e delle virtù dell’uomo. quindi mi spinsi verso il mare aperto con solo una nave e quel piccolo gruppo di compagni che mai mi abbandonò. Vidi l’una e l’altra costa del mediterraneo, fino alla Spagna e fino al Marocco, vidi la Sardegna e tutte le altre isole bagnate da quel mare. Io ed i miei compagni di viaggio eravamo ormai vecchi e lenti quando giungemmo a quello stretto passaggio dove Ercole costruì le sue due colonne, come limiti invalicabili, affinché l’uomo non si fosse spinto oltre; lasciai alla mia destra Siviglia ed alla mia sinistra Ceuta. “Fratelli”, dissi ai miei compagni, “che affrontando mille pericoli siete infine giunti all’estremo occidente del mondo abitato, in questa tanto breve vigilia della pace dei sensi, che ancora vi resta da vivere, non vogliate negarvi la possibilità di conoscere, il mondo disabitato, seguendo verso Ovest il cammino del sole. Tenete a mente le vostre origini: non siete nati per viver una vita inutile, come bestie, ma siete nati invece per vivere di virtù e di conoscenza.” Stimolai talmente i miei compagni, con queste poche parole, a proseguire oltre, che, l’avessi voluto, a stento sarei stato in grado di trattenerli; voltata la nostra poppa verso oriente, dove sorge il sole, utilizzammo i remi, come fossero ali, per il nostro folle volo, procedendo sempre in direzione sud-ovest. Già incominciavamo a vedere di notte tutte le stelle dell’emisfero australe, e la stella polare tanto bassa all’orizzonte che infine non emerse più dal livello del mare. Già per cinque volte si era riaccesa e per tante volte spenta la luce emanata dalla faccia della luna rivolta verso la terra, da quando avevamo fatto quel passo estremo, quando ci apparve alla vista una montagna (la montagna purgatoriale), scura per la distanza, e mi sembrava tanto alta quanto mai avevo potuto vederne prima d’allora. A quella vista ci rallegrammo, ma subito iniziò invece il pianto; poiché da quella terra inesplorata si scatenò un vortice che percosse la prua della nostra nave. La fece girare su sé stessa per tre volte insieme al mare circostante; alla quarta volta fece alzare in cielo la poppa ed andare in basso la prua, affondandoci, come a Dio piacque, finché il mare si richiuse sopra di noi.»

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Anonimo lombardo XIV secolo

Quando Dante inizia la sequenza che vede protagonista Ulisse, non può continuare ad utilizzare un linguaggio freddo, oggettivo quanto la descrizione metamorfica di uomo/serpente che aveva caratterizzato il canto precedente e nemmeno continuare, come l’inizio del canto, con il tono tra il rammaricato e l’iroso dell’apostrofe verso Firenze, ma deve adeguare il paesaggio e il mito religioso all’altezza del protagonista: per il primo una sera estiva, con le lucciole a illuminare l’oscura notte; per il secondo l’episodio di Elia che salito al cielo su un carro infiammato, non lasciò che a Eliseo, suo compagno, l’immagine luminosa senza poter percepire più l’uomo. L’ardore del sapere (lo stesso dell’uomo greco) spinge Dante a voler investigare con più attenzione il fondo della bolgia tanto che, se non fosse stato tenuto da Virgilio, sarebbe caduto. La curiosità del poeta è attirata da una fiamma biforcuta che fascia i corpi di Ulisse e Diomede. Qual è il peccato di Ulisse che lo costringe tra i consiglieri fraudolenti? L’aver “scovato” con un inganno Achille, che la madre Teti aveva nascosto nell’isola di Sciro con panni femminili dove si era unito alla dolce Deiamira e portato con sé in guerra e di aver sottratto la statua di Atena che i troiani  aveva posto nel tempio per placare la sua ira contro di loro. Forse sono queste le colpe; eppure il canto non ci è noto per questo ma per il discorso stesso di Ulisse. A condurre il colloquio sarà Virgilio, forse per una di queste tre ragioni:

  • l’alterigia di Ulisse che non avrebbe permesso a un “poeta volgare” di rivolgersi a lui;
  • l’ignoranza incolpevole di Dante della lingua greca;
  • la riconoscenza verso Virgilio che con la sua Eneide aveva svolto un ruolo di mediazione culturale tra l’epica greca e quella latina.   

Ma cosa sapeva Dante di Ulisse (di Diomede conosceva la fine, avendola Virgilio raccontata nell’Eneide): quasi nulla. Quello che era giunto di lui nelle parole di Ovidio, Cicerone e Orazio era la somma curiosità, l’avidità di conoscere il mondo, così lontano dall’immagine ulissiaca che lo vuole a casa cum parentibus, cum uxore et cum filio, come dice l’oratore arpinate nel De Officiis. Forse Dante non seppe mai che, nel racconto omerico, Ulisse era tornato a casa; quello che lui ci racconta è un folle volo verso la “morte”: Dante sa che, oltre lo stretto di Gibilterra, c’è il vuoto, il mondo inconoscibile per gli uomini e ciò che lui fa, orgogliosamente, è quello di sfidare l’intelligenza umana con quella divina, non riconoscendo i limiti che Dio stesso ha posto (State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria, dirà nel Purgatorio) all’uomo. Ma rivolgendo la prospettiva si può anche dire che Dante rivendichi in qualche modo la capacità dell’uomo d’investigare in quel meraviglioso verso in cui incita l’uomo: Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza, ma forse non si può collegare il poeta fiorentino ad un orgoglio preumanista se è proprio ciò, insieme ai peccati succitati, a fare di Ulisse un dannato e del suo racconto una delle più belle pagine dell’intera Comedìa per la sua ambiguità e complessità semantica.

Canto XXVII
Ottavo cerchio
VIII Bolgia
(I consiglieri fraudolenti)

Il canto XXVII continua il precedente sia per luogo che peccatori, ma se ad essere protagonista prima era un personaggio tratto dalla storia antica, per Dante esistente, nel nuovo canto è un suo contemporaneo, il romagnolo Guido di Montefeltro.

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Bartolomeo Pinelli: Guido di Montefeltro (1825)

Il canto si muove tutto su un livello di fraintendimento allo stesso modo del XIX, quando il papa Niccolò III aveva scambiato Dante per Bonifacio VIII. Ed è ancora questo odiato papa ed essere qui evocato come portatore di male. 

Dapprima, nascosto dalla fascia di fuoco che lo circonda, il dannato si avvicina chiedendo quale fosse la situazione della Romagna e riceve la risposta di un luogo perennemente rissoso, pieno di piccoli tiranni che fanno la guerra l’un con l’altro; quindi richiesto chi fosse risponde alla luce del malinteso sapendo che il richiedente, in quanto come lui dannato, non potrà mai riportare nel mondo la sua memoria. Quindi parla di sé come uomo avvezzo all’inganno, fino alla maturità, quando pentendosi, divenne francescano al fine di espiare la peccaminosa vita fino ad allora condotta. Da frate venne avvicinato da Bonifacio VIII, il quale gli chiese aiuto per combattere i suoi avversari politici (i Colonna) ed ottenere, con fraudolenza, la vittoria definitiva. Di fronte ai dubbi di Guido il papa stesso rispose:

E poi mi disse: «Tuo cor non sospetti: 
     finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
     sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss’io serrare e disserrare,
     come tu sai: però son due le chiavi,
     che il mio antecessor non ebbe care.»

Bonifacio così mi disse: «Non ti preoccupare, già da ora ti assolvo (dal peccato) e tu insegnami ad abbattere Palestrina (dove si erano rifugiati i Colonna). Io posso aprire e chiudere il Cielo, come sai, dal momento che ho le due chiavi che il mio predecessore (Celestino V) non volle possedere.

1103guido.jpgSuloni Robertson: Guido di Montefeltro

Di fronte al comando papale, Guido tornò a peccare e sul punto di morte venne conteso tra Francesco e un diavolo, che, proprio per l’ultimo gesto colpevole, se lo portò nell’inferno, dove Minosse con la sua coda lo confinò nell’ottava bolgia tra i consiglieri fraudolenti. 

Canto XXVIII
Ottavo cerchio
IX Bolgia
(Seminatori di scandali)

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Giovanni Stradano: I seminatori di discordia (1857)

Questo è forse uno dei canti “meno amati” della Divina Commedia, in cui sembra prevalga il gusto dell’orrido. Ci troviamo infatti nella bolgia in cui si puniscono i seminatori di scisma e di discordia e così come essi hanno voluto portare divisioni all’interno delle comunità, essi sono mutilati dalla spada del diavolo che, passandogli davanti ricevono fendenti recidendo parte del loro corpo, le quali si ricompongono nel loro percorso circolare per poi subirle di nuovo di fronte a lui.

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Dante e Maometto

Dante li osserva non appena ricevuta la pena, quindi agli occhi suoi il primo che appare è Maometto (considerato nel Medioevo non fondatore di una nuova religione, ma scismatico) lacerato con taglio netto dal mento all’ano, a cui pendono le interiora fino allo stomaco; al suo fianco Alì, anch’egli a sua volta scismatico rispetto allo scisma maomettano: e lui è squarciato dal mento fino all’attaccatura dei capelli; Pier da Medicina (seminatore di discordia in Romagna) ha un foro nella gola, in modo che, ad ogni parola pronunciata, questa si riempia di sangue ed inoltre gli è stato tagliato il naso e un orecchio; a fianco ha Curione, colui che consigliò a Cesare il passaggio del Rubicone dando inizio alla guerra civile, a cui è stata rimossa la lingua; segue ancora Mosca de Lamberti uno degli iniziatori della lotta tra guelfi e ghibellini, con entrambi gli arti superiori privi di mani e quando solleva le braccia il suo volte si ricopre di sangue.

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William Blake: I seminatori di discordia

Ma certamente l’immagine che colpisce di più nell’intero canto è quella di Bertrand de Born:

Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia; 
e ’l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: “Oh me!”. 
Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com’esser può, quei sa che sì governa. 
Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ’l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue, 
che fuoro: “Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s’alcuna è grande come questa. 
E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma’ conforti. 
Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d’Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli. 
Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch’è in questo troncone. 
Così s’osserva in me lo contrapasso”.

Io vidi di certo, e mi sembra ancora di vederlo, un busto d’uomo senza testa che procedeva, come procedevano tutti gli altri dannati di quel triste gregge; e teneva il proprio capo per i capelli, portandoselo dietro a penzoloni come fosse una lanterna; e il capo ci guardava, e diceva: “Oh me!”. Egli faceva di sé luce a se stesso, ed erano due in uno e uno in due: come ciò possa succedere, lo sa solo colui che così ha deciso, Dio. Quando fu giunto fino ai piedi del ponte, alzò il braccio in alto tenendo appesa la testa, per avvicinare a noi le sue parole, che furono: “Ora vedi la mia pena durissima tu che, respirando ancora, vai visitando i morti: vedi se c’è un’altra pena dura come questa. E perché tu possa portare mie notizie nel mondo, sappi che io sono Betram de Born, colui che diede al giovane Re d’Inghilterra (Enrico) i cattivi consigli. Io feci diventare nemici tra loro padre e figlio: Achitofel non fece peggio di me con Assolone e Davide, dando i suoi malvagi suggerimenti. Visto che io divisi persone così legate tra loro, porto il mio misero cervello diviso dal midollo spinale di questo mio troncone, che è il suo principio. Così in me è osservata la legge del contrappasso (corrispondenza tra pena e colpa).

Che qui Dante faccia, come già capitato nella “sarabanda dei diavoli”, uso d’un linguaggio “comico, con rime difficili (lulla: pertugia: trulla: minugia) il cui significante rimanda ad un significato altrettanto osceno, risulta palese; d’altra parte è lo stesso Dante ad avvertirci, nei primi versi, della difficoltà che lui stesso ha incontrato nel “dipingere” l’intera bolgia. Di “immagini” in effetti si tratta: non incontriamo personaggi, li vediamo, sebbene parlino, ma nulla ci dicono di loro. Forse, come già detto, ad emergere è l’ultimo, proprio per l’icasticità con cui viene presentato, con la sua testa tenuta per mano, il braccio steso e il corpo monco: sarà lui ad insegnarci cos’è il contrappasso, citato per la prima volta da Dante stesso, che così chiaramente colpisce i dannati della nona bolgia.

Canto XXIX
Ottavo cerchio
IX – X Bolgia
(Seminatori di scandali – Falsatori di metalli)

Il canto inizia con la commozione di Dante, commozione inspiegabile per Virgilio, di fronte alla macelleria che si è trovato di fronte: ma non è questo il vero motivo: è che si accorto troppo tardi di un suo parente, Geri del Bello, cugino del padre che, mentre lui stava a colloquio con Bertrand de Born, gli aveva rivolto minaccioso il dito ma, vedendo uno della sua famiglia “indifferente”, aveva voltato le spalle e se n’era andato. Ma perché tale fatto influenza così tanto la psicologia dantesca? Forse perché egli è morto “invendicato” e non c’è stato nessuno, della famiglia dell’Alighieri, che si è preso la briga di lavare l’onta procuratagli dalla famiglia dei Sacchetti, sua nemica. Ma che Dante voglia dirci altro? Forse che, con il suo atteggiamento, vissuto con difficoltà perché ancora non totalmente condiviso socialmente, voglia por fine a quel susseguirsi senza fine di vendette che continuavano ad insanguinare la città?

6b1ddbe9e4acaf72da93e9bee9d04aee.jpgGustave Doré: Geri il Bello

Dopo questo episodio Dante entra nella X ed ultima bolgia dove sono puniti gli alchimisti o i falsari delle moneta: se nella bolgia precedente si entrava in una macelleria, qui si entra in grande ospedale dove i lamenti della malattia si elevano a tal punto da ferire l’udito del pellegrino. Fra di essi riconosce due senesi, attaccati uno all’altro a grattarsi la rogna ed un emiliano. Il contrappasso: forse l’alterazione di un elemento della natura fa trasformare patologicamente i dannati, costretti a convivere con la loro infermità per l’eternità.    

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William Blake: I falsari

Canto XXX
Ottavo cerchio
X Bolgia
(Falsatori di persona, di moneta, di parola)

Il canto XXX riprende, senza soluzione di continuità, quello precedente: ci troviamo sempre nella decima bolgia, in cui sono puniti i falsari. Stilisticamente il canto è costruito attraverso il contrasto tra il registro alto e quello basso, come si preannuncia al suo inizio. Infatti al mito ovidiano di Atamante che ha scambiato la moglie per una leonessa e per questo ne uccide i figli e quello di Ecuba, che latra a mo’ di cane per la morte di Polissena, quasi contrasta con l’immagine di due maiali che scappano appena liberati dal recinto e corrono come fanno qui i due falsari di persona, Gianni Schicchi (che si scambiò con Buoso Donati, nel letto agonizzante, per carpirne l’eredità) e Mirra (falsando la sua persona, riuscì a portare a compimento il sacrilego gesto), che nel loro correre si mordono come porci che addentano tutto.

Canto-30-Inferno-Dante.jpgPriamo della Quercia: canto XXX

Nella seconda sequenza lo stile si alterna tra l’elegiaco ed il surreale come si evince dai pensieri e dalla descrizione del maestro Adamo, falsario della moneta: 

Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.
La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ’l viso non risponde a la ventraia, 
faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte. 
«O voi che sanz’alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo»,
diss’elli a noi, «guardate e attendete 
a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo. 
Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga 
che ’l male ond’io nel volto mi discarno.
La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga. 
Ivi è Romena, là dov’io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai. 
Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista. 
Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c’ ho le membra legate? 
S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,
io sarei messo già per lo sentiero, 
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
e men d’un mezzo di traverso non ci ha. 
Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia».

Ne vidi uno, che avrebbe avuto la forma di liuto se l’inguine gli fosse stato separato dove normalmente nell’uomo si divide in due. La grave idropisia, che rende sproporzionate le membra a causa del liquido vitale o della linfa che vengono male elaborate, così che il viso non rispecchia il ventre (viso magro e ventre gonfio) lo costringeva a tenere le labbra aperte come fa il tubercolotico, che per la sete febbrile ripiega un labbro verso il mento e l’altro verso l’alto. «O voi che vi trovate, senza alcuna pena, ed io non so il perché, in questo mondo triste”, disse egli a noi, “guardate e riflettete sulla miseria di maestro Adamo: in vita io ebbi in abbondanza quello che volli, e ora, ahimé! desidero solo una gocciolina d’acqua. I ruscelletti che dalle verdi colline del Casentino scendono giù fino all’Arno, facendo diventare i lori corsi freddi e molli, mi stanno sempre davanti agli occhi, e non invano, perchè la loro immagine m’inaridisce sempre più, più dell’idropisia, che mi smagrisce sempre più il volto. La severa giustizia divina che mi tormenta trae la sua origine dal luogo dove io peccai per rendere i miei sospiri sempre più frequenti e veloci. Nel Casentino si trova Romena, là dove io falsificai la moneta fiorentina con impressa l’immagine di San Giovanni Battista; e per questo motivo io lasciai il mio corpo arso lassù in terra (morii bruciato vivo). Ma se io potessi vedere qui, dannata insieme a me, la triste anima di Guido II o d’Alessandro I o del loro fratello Aghinolfo, non scambierei di certo la vista di loro con la possibilità dissetarmi a Fonte Branda. Dentro questa bolgia c’è già una di queste anime, se quelle ombre rabbiose che girano intorno dicono il vero; ma a cosa mi serve saperlo, se ho le membra tanto legate da non poter vedere? Se io fossi ancora tanto agile che poter almeno, in cent’anni, muovermi anche solo di qualche centimetro, mi sarei già messo in cammino lungo il sentiero, cercandolo tra questa gente contraffatta, anche se la bolgia ha un circuito di undici miglia, ed è larga non meno di mezzo miglio. Io sono qui in mezzo a tali anime a causa loro: loro m’indussero a coniare fiorini mescolando tre carati di metallo falso».

Jan Van der Straet, Maestro Adamo e Sinone - Inferno - Canto XXX, Illustrazione, 1587.jpg Giovanni Stradano: I falsari (1857)

In questo passo, che fanno di maestro Adamo una figura non di secondo piano dell’intera cantica, si possono sottolineare la precisione lessicale con cui Dante descrive la condizione della malattia, utilizzando in modo analitico i termini della scienza medica del tempo. La deformazione fisica non lede tuttavia la capacità del protagonista di vagheggiare luoghi freschi e ricchi di vegetazione con fonti che stillano acqua, vagheggiamento che la divina giustizia provoca per esacerbare la pena. A tale vagheggiamento non viene  meno quello della vendetta, che tuttavia ripete lo stessa tonalità del precedente: al vagheggiamento si sostituisce il rimpianto di chi è impossibilitato nel movimento, che non permette lui di “vedere” puniti chi lo ha spinto a peccare.

A isolare l’episodio e l’intervento “comico” della rissa tra maestro Adamo e Sinone, falsatore di parole (indusse con un inganno a far entrare il cavallo di legno nella città di Troia decretandone la distruzione). Infatti ad introdurre il personaggio e lo stesso Sinone che risponde ad una domanda di Dante sull’identità di peccatori che esalano vapore per l’altissima febbre da cui sono afflitti. Forse irato per esser stato “scoperto” comincia una vera e propria lite, che Dante osserva con tale curiosità da essere rimproverato da Virgilio, che, visto il pentimento di Dante, poi lo perdona.

Canto XXXI
Pozzo dei giganti

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Gustave Doré: I giganti

Ed è proprio il richiamo alla vergogna che si richiama l’incipit del XXXI canto, immediatamente superato da un improvviso suono che richiama l’attenzione di Dante che rivolge lo sguardo al luogo di provenienza. La visuale non era chiara, come se si fosse al crepuscolo o in mezzo ad una nebbia. Dante crede di vedere le torri di una città, ma Virgilio chiarisce subito che si tratta di giganti, peccatori di quello che i greci definiscono “hybris” orgoglio che fa sfidare loro con la potenza di Dio. Essi sono nel contempo guardiani e dannati, costretti a porsi intorno al pozzo, al fondo del quale vi è il Cocito, il lago ghiacciato. Essi sono poggiati intorno al pozzo con metà corpo all’interno del terreno e l’altro che emerge e colui, fra di loro, che si mostrò maggiore peccatore è inoltre punito avendo il suo tronco circondato di catene.

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Jesse Glass: Nembrot

Il primo che incontra è Nembrot, gigante che si rivolge ai pellegrini con linguaggio incomprensibile: infatti egli è il responsabile della confusione delle lingue con la costruzione della torre di Babele. Il secondo è Fialte, le cui braccia sono legate dietro con una pesante catena: egli tentò, insieme ad altri Titani, la scalata all’Olimpo per cui furono colpiti dalle folgori di Giove. Infruttuoso il tentativo di Dante di vedere Briareo, posto lontano, ed incontrano Anteo (che combatté contro Ercole) al quale Virgilio rivolge parole gentili, pregandolo di “accompagnare” con la mano lui e Dante al fondo del pozzo (ricorda l’episodio di Gerione). Allungata la mano, fattosi salire Virgilio che prende Dante, li deposita con leggerezza sulla nuova zona infernale. 

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William Blake: Nembrot raccoglie Dante

Canto XXXII
Nono cerchio
Prima zona: Caina
(Traditori di congiunti)

Seconda zona: Antenora
(Traditori politici)

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Gustave Doré: Dante con Bocca degli Abati

Dapprima il canto s’apre con una dichiarazione di poetica in cui Dante ammette di non avere un linguaggio talmente “aspro” attraverso il quale descrivere la crudeltà che il nuovo luogo gli offre (ci ricorda l’inizio della canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro, con l’utilizzo della stessa parola): si tratta di un lago ghiacciato dove sono immersi i traditori, all’infuori del capo. I peccatori battono i denti per il freddo e le lacrime che gli scorgono dagli occhi per il forte dolore, si ghiacciano improvvisamente facendo loro chiudere gli occhi. Dante dovrebbe stare attento a non calpestarli, ma passando (non essendo ancora accorto di come funziona), ne colpisce due, i fratelli Alessandro e Napoleone Alberti che, attraverso una lotta fratricida, si uccisero a vicenda); quindi, passando nell’Antenora, s’imbatte in Bocca degli Abati, il quale si rifiuta di confessare il suo nome, nonostante il poeta gli strappi i capelli ghiacciati, ma non vi è bisogno, essendogli rivelato da un dannato vicino. Ma l’acme del canto vi è dal verso 124, dove s’incontrano due anime, di cui una morde con rabbia il capo dell’altro:

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Kateřina Machytková: Canto XXXII

Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.
«O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi ’l perché», diss’io, «per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch’io parlo non si secca».

Noi ci eravamo già allontanati da lui, quando io vidi due dannati ghiacciati in una sola buca, in modo che il capo dell’uno faceva da cappello all’altro; e come si mangia il pane per fame, così quello che stava sopra aveva i denti conficcati nell’altro là dove il cranio si congiunge alla nuca: non diversamente Tideo rose le tempie a Menalippo per rabbia, come costui rodeva il teschio e il resto della testa all’altro. «O tu che mostri in modo così bestiale l’odio contro costui che stai divorando, dimmi il perché» dissi io, «a questo patto: che se tu hai un buon motivo per lagnarti così di lui, potendo sapere chi siete e quale è la sua colpa, lassù nel mondo io contraccambierò, se non mi si seccherà la lingua con cui io ora parlo».
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Gustave Doré: Il conte Ugolino e il cardinal Ruggieri

Come ci ha preannunciato Dante, lo stile del canto è “aspro”, cioè consono alla freddezza del canto, come se lo stesso lago ghiacciato del Cocito stridesse sotto il peso dei due pellegrini. L’altezza dello stile si nota proprio alla fine grazie al riferimento al poema di Stazio che ci racconta che Tideo, durante l’assedio di Tebe, ferito a morte da Melanippo, dopo averlo ucciso, si fece portare la testa e cominciò a divorarla. In questo modo il poeta fiorentino, attraverso la tecnica della suspence, ci prepara al grande canto del conte Ugolino.

Canto XXXIII
Nono cerchio
Seconda zona: Antenora
(Traditori politici)

Terza zona: Tolomea
(Traditori degli ospiti)

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Conte Ugolino

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo.
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio disse:
“Tu guardi sì, padre! che hai?”.
Perciò non lagrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”.
Queta’ mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno».

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Auguste Rodin: Il conte Ugolino

L’anima dannata sollevò la propria bocca dal suo bestiale pasto, pulendola con i capelli di quel capo che aveva roso da dietro, sulla nuca. Cominciò poi a dire: «Tu vuoi che io rinnovi quel dolore disperato che mi opprime già il cuore solo a pensarci, prima ancora di cominciare a parlarne. Ma se le mie parole devono essere il seme che dà come risultato l’infamia per il traditore di costui che mordo, mi vedrai allora piangere e parlare allo stesso tempo. Io non so chi tu sia né in che modo sei venuto quaggiù nell’inferno; ma mi sembri un vero fiorentino dal modo in cui ti sento parlare. Tu devi sapere che io fui il conte Ugolino, e questo sotto di me, che mordo, è l’arcivescovo Ruggieri: ora ti dirò perché gli sono vicino e lo tratto in questo modo. Come, grazie ai suoi perfidi intrighi, fidandomi di lui, io fui fatto prigioniero e venni poi ucciso, non occorre che te lo racconti; invece, ciò che non puoi certamente aver saputo, cioè di quanto la mia morte sia stata crudele, potrai ascoltarlo da me e ti renderai quindi conto delle offese che ricevetti. Una piccola finestra nella mia oscura prigione, la quale è detta ora “torre della fame” per la mia morte, e dove converrebbe rinchiudere anche altre persone, attraverso la sua stretta apertura mi aveva lasciato vedere parecchie lune nuove, prima che io feci quel sogno funesto che mi squarciò il velo che nasconde il futuro. Questa altra anima dannata mi apparve come guida e signore della schiera che dava la caccia al lupo ed ai suoi piccoli verso il monte San Giuliano, a causa del quale i pisani non possono vedere Lucca. Scortati da cagne (la plebe) affamate, bene addestrate e avide, le famiglie dei Gualandi, dei Sismondi e dei Lanfranchi, costui aveva mandato in prima fila. Dopo una breve corsa, cominciarono a sembrare stanchi il lupo ed i suoi piccoli, e le cagne, con le loro zanne aguzze, mi sembrava che dilaniassero i loro fianchi. Quando, prima che iniziasse il nuovo giorno, mi fui svegliato, sentii piangere nel sonno i miei giovani figli, che si trovavano a letto con me, e li sentii anche chiedere del pane. Saresti ben crudele se non provassi dolore solo pensando a quello che il sogno preannunciava al mio cuore di padre; se non piangi per questo, allora per cosa sei solito piangere? I mie figli si erano già svegliati e si avvicinava l’ora in cui in genere il cibo ci veniva portato, ed in ognuno era sorto il dubbio a causa del precedente sogno; sentii qualcuno che inchiodava la porta inferiore di quell’orribile torre; guardai pertanto in viso i miei poveri figli senza riuscire a proferire a parola. Non piansi, tanto il terrore mi lasciò impietrito: loro invece piangevano; e mio figlio Anselmuccio mi disse: “Padre, perché ci guardi in quel modo?” Pertanto non piansi né diedi a mio figlio una risposta per tutto quel giorno e nemmeno per tutta la notte seguente, finché si fece un nuovo giorno. Non appena un piccolo raggio di sole entrò in quel doloroso carcere ed io vidi sui visi dei miei quattro figli la stessa mia consapevolezza per la nostra condanna a morte, l’immenso dolore mi spinse a mordermi entrambe le mani; ed essi, pensando fossi stato spinto a quel gesto dalla fame, subito si alzarono in piedi e dissero: “Padre, sarebbe per noi molto meno doloroso se tu mangiassi noi invece di te stesso: tu ci hai rivestito di queste misere carni, tu hai il diritto ora di togliercele.” Mi quietai allora un poco per non rattristarli ulteriormente; rimanemmo in silenzio per tutto quel giorno e per il seguente; terra crudele, perché non ti sei aperta per inghiottirci? Giunti al quarto giorno di digiuno, mio figlio Gaddo, disperato, mi si getto ai piedi dicendomi: “Padre, perché non mi aiuti?” E detto questo morì; e come vedi ora me, vidi io allora cadere a terra gli altri tre rimasti, uno dopo l’altro, tra il quinto ed il sesto giorno di prigionia; io incominciai perciò, ormai cieco, a brancolare sopra ciascuno di essi e per due giorni gridai il loro nome, dopo che furono morti. Infine il digiuno vinse il dolore, smisi di gridare e poi morii.»

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William Blake: Il conte Ugolino con i figli

Il canto del Conte Ugolino è tra i più celebrati dell’intera Commedia dantesca, insieme a quello dedicato a Paolo e Francesca di cui riprende anche un verso o, per meglio dire, un atteggiamento dei due protagonisti rispetto alla richiesta di sapere cosa e perché sono giunti nel luogo destinato al loro peccato: dirò come colui che piange e dice afferma Francesca (canto V, v. 126) e qui parlare e lagrimar vedrai insieme dice Ugolino (canto XXXII, v. 9). Forse un altro punto di contatto tra i due canti è l’atteggiamento “emotivamente” molto forte di Dante (lo svenimento per il primo, l’ira per il secondo che si traduce in un’invettiva contro Pisa). Ma ci fermiamo qui, forse perché quest’ultimo canto presenta un insieme di punti interrogativi di difficile soluzione, che molto probabilmente derivano dal fatto che non ci viene ben chiarito il peccato: un tradimento politico fatto da Ugolino verso l’arcivescovo Ruggeri (Ugolino ghibellino, ma per rientrare nella città di Pisa messosi d’accordo con i Guelfi – primo tradimento) ma lo stesso di Ruggeri verso Ugolino (chiamato per “accordarsi” sul suo tradimento e invece rinchiuso in una torre – secondo tradimento), e tutto sembra finire qui. Ma il canto non si ricorda per il peccato del traditore della patria, ma forse nella pausa tra le fine del canto precedente e l’inizio di questo, dove prevale un clima “orrorifico”: un uomo morde ferocemente la nuca del suo nemico nel punto in cui il collo si unisce con il cuoio capelluto e utilizza proprio i capelli per pulirsi la bocca sanguinolente. L’incipit, con l’anticipazione dell’aggettivo sul sostantivo (anastrofe), coglie come immagine quasi statica nella sua atrocità, l’atteggiamento di profonda rabbia del conte contro il suo nemico, rabbia di cui sente l’urgenza di rivelare il perché, a riscattare lo “schifo” del presente con una motivazione forte. Come Francesca sembra che anche a lui il rinnovare con le parole il triste ricordo procuri un “disperato dolor”, e quindi inizia con il suo drammatico racconto: una torre (dopo lui definita “Torre della fame”) in cui vengono chiusi lui con i suoi quattro figlioli. Quindi il sogno rivelatore (non bisogna dimenticare l’importanza dei sogni nei racconti classici e biblici) in cui si vedono un lupo e quattro lupacchiotti rincorsi da nere cagne fino ad essere raggiunti. Quando si sveglia, i figli gli chiedono il pane: è l’ora del pasto, ma al posto del pane si sente la porta della torre che viene chiusa ermeticamente. L’inutile attesa del cibo, vedere i propri figli denutrirsi fino a spegnersi, ha condotto quest’uomo all’estremo dolore. E’ pertanto un canto sull’amore filiale e sulla pietas che non dovrebbe mai venir meno rispetto al dettato evangelico di “offrire ai bisognosi”, soprattutto quando a non rispettare tale precetto è un rappresentante della chiesa. Ma quello che ha fatto di questo passo uno dei più celebrati è anche l’ambiguità dell’ultimo verso del suo racconto che ha fatto credere, a livello popolare ed anche a critici attrezzati, che il conte Ugolino si fosse macchiato del peccato di cannibalismo necrofilo verso i figli. E’ evidente che così non è: tale peccato non lo avrebbe confinato nell’Antenora dove sono posti i peccatori politici. Il meraviglioso verso ci dice solamente che anche lui morì di fame.

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Giuseppe Diotti: Il conte Ugolino

Nel prosieguo del canto Dante passa nel terzo cerchio, quello della Tolomea, che “ospita” i traditori degli ospiti: essi subiscono una diversa pena, sono sdraiati supini in terra e le lacrime che sgorgano fanno un tutt’uno con il ghiaccio, quasi non permettessero al dolore di fuoriuscire. Qui incontra frate Alberigo, che fece uccidere Manfredi e Alberghetto che lo avevano offeso, invitandoli, con la scusa della rappacificazione, e trucidandoli alla portata della frutta.

Canto XXXIV
Nono cerchio
Quarta zona: Giudecca
(Traditori dei benefattori)

Lucifero

062v.jpgPriamo della Quercia: canto XXXIV

«Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira»,
disse ’l maestro mio, «se tu ’l discerni».
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando l’emisperio nostro annotta,
par di lungi un molin che ’l vento gira,
veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, ché non lì era altra grotta.
Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.
Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura ch’ebbe il bel sembiante,
d’innanzi mi si tolse e fé restarmi,
«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco
ove convien che di fortezza t’armi».
Com’io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
però ch’ogne parlar sarebbe poco.
Io non morì e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s’ hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.
Lo ’mperador del doloroso regno
da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno,
che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant’esser dee quel tutto
ch’a così fatta parte si confaccia.
S’el fu sì bel com’elli è ora brutto,
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand’io vidi tre facce a la sua testa!
L’una dinanzi, e quella era vermiglia;
l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa
sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand’ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid’io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto s’aggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti
gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla.
«Quell’anima là sù c’ ha maggior pena»,
disse ’l maestro, «è Giuda Scarïotto,
che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due c’ hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;
e l’altro è Cassio, che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto».
Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l’ali fuoro aperte assai,
appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra ’l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov’elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’om che sale,
sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.
«Attienti ben, ché per cotali scale»,
disse ’l maestro, ansando com’uom lasso,
«conviensi dipartir da tanto male».
Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo.
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com’io l’avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;
e s’io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto ch’io avea passato.
«Lèvati sù», disse ’l maestro, «in piede:
la via è lunga e ’l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede».
Non era camminata di palagio
là ’v’ eravam, ma natural burella
ch’avea mal suolo e di lume disagio.
«Prima ch’io de l’abisso mi divella,
maestro mio», diss’io quando fui dritto,
«a trarmi d’erro un poco mi favella:
ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc’ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».
Ed elli a me: «Tu imagini ancora
d’esser di là dal centro, ov’io mi presi
al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.
Di là fosti cotanto quant’io scesi;
quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto
al qual si traggon d’ogne parte i pesi.
E se’ or sotto l’emisperio giunto
ch’è contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto
fu l’uom che nacque e visse sanza pecca;
tu hai i piedi in su picciola spera
che l’altra faccia fa de la Giudecca.
Qui è da man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,
fitto è ancora sì come prim’era.
Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo,
e venne a l’emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella ch’appar di qua, e sù ricorse».
Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto
d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
col corso ch’elli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d’alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.

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Gustave Doré: Lucifero

«Le insegne del re dell’Inferno avanzano verso di noi; perciò guarda davanti a te», disse il mio maestro, «e prova a riconoscerlo.» Come quando una nebbia fitta si espande, o quando sul nostro emisfero cala la notte, ciò che vedevo sembrava da lontano un mulino fatto girare dal vento, mi sembrò inizialmente di intravedere quel tipo di congegno; poi a causa del vento fui costretto a ripararmi dietro alla mia guida, non essendoci una grotta, un altro riparo. Mi trovavo già, e lo ricordo con orrore per metterlo in versi, là dove tutte le anime dannate erano coperte di ghiaccio, e potevano essere intraviste così come una pagliuzza imprigionata nel vetro. Alcune stavano distese; altre stavano dritte, alcune con il capo ed altre con i piedi in alto; altre curve come un arco e con il volto rivolto verso terra. Quando fummo avanzati tanto che a Virgilio piacque di mostrarmi Lucifero, creatura che un tempo era stata molto bella, il mio maestro si tolse da davanti e mi fece fermare, dicendo: «Ecco Dite ed ecco il luogo nel quale conviene che tu ti armi di coraggio.» Quanto gelai per la paura e rimasi senza forze in quel momento, non chiedermelo, lettore, perché non lo racconterò, ogni frase sarebbe insufficiente a descriverlo. Non morii ma neanche rimasi vivo; immagina dunque tu, se hai un poco d’intelletto, come rimasi allora, privo sia della vita che della morte. L’imperatore di quel regno, tanto doloroso, emergeva dal petto in su fuori da quel blocco di ghiaccio; e mi avvicino di più io alle dimensioni di un gigante, di quanto un gigante possa avvicinarsi alle dimensioni delle sue braccia: immagina quindi quanto fosse immenso il resto del suo corpo, se le sole braccia erano tanto grandi! Se in precedenza fu tanto bello quanto è ora mostruoso, e se contro il suo creatore, contro Dio, osò alzare la testa da ribelle, deve ben da lui avere origine ogni male. E quanto rimasi stupito ed inorridito quando vidi che la sua testa aveva tre facce! Una davanti, ed era di colore rosso acceso per l’odio; le altre due facce si aggiungevano alla prima delineandosi dalla metà di ciascuna spalla, ed alla loro sommità si congiungevano tra loro: la faccia destra era di un colore tra il bianco ed il giallo (debolezza); la faccia di sinistra era del colore nero (ignoranza) di quelli, gli Etiopi, che vengono da dove il Nilo scende a valle. Da sotto a ciascuna faccia uscivano due grandi ali, proporzionate alla grandezza di quel mostruoso uccellaccio: non vidi mai vele di navi tanto grandi. Le due ali non avevano penne, ma erano simili a quelle del pipistrello; e Lucifero le agitava tanto da generare tre venti: a causa dei quali il fiume Cocito era completamente congelato. Lucifero piangeva con i suoi sei occhi, e dai suoi tre mentigocciolavano le sue lacrime e la sua bava insanguinata. In ogni bocca stritolava infatti tra i denti un peccatore, come fosse ognuna una gramola, così da infliggere la giusta pena ai tre disgraziati. Per quei peccatori i morsi inflitti da Lucifero erano nulla in confronto ai graffi ricevuti, che talvolta erano tanto duri da lasciare la loro schiena completamente scuoiata. «Quell’anima là in alto, nella bocca centrale, che subisce la punizione peggiore», disse Virgilio, «è Giuda Iscariota, che sta con la testa all’interno della bocca ed agita le gambe di fuori. Riguardo agli altri due, che invece stanno con testa di fuori, quello che pende dalla faccia di colore nero è Bruto: guarda come si contorce per il dolore senza emettere urla! l’altro invece, che sembra tanto in carne, è Cassio. Ma sulla terra si sta facendo già notte, è quindi già ora di partire, poiché abbiamo ormai visto tutto ciò che c’era da vedere.» Come la mia guida voleva, mi tenni stretto al suo collo; Virgilio scelse quindi il tempo ed il luogo giusto, e quando le ali si furono sufficientemente aperte, con un balzo si aggrappò alle costole pelose di Lucifero; di ciuffo in ciuffo scese quindi lungo il suo folto pelo e le croste di ghiaccio che lo circondavano. Quando fummo giunti là dove la coscia si piega, proprio in corrispondenza della sporgenza dell’anca, il mio maestro, con grande fatica ed affanno, si capovolse, mettendo la testa là dove prima aveva le gambe, e si aggrappò al pelo di Lucifero come per risalire, tanto che credetti di dover tornare ancora nell’inferno. «Tieniti bene aggrappato, perché con scale di questo tipo», disse il mio maestro, ansimando come un uomo sfinito, «dobbiamo allontanarci da tutto questo male.» Poi sbucò fuori attraverso il foro in una roccia e mi mise a sedere sull’orlo di essa; quindi con un piccolo salto mi si avvicinò lasciando il pelo di Lucifero. Io alzai lo sguardo credendo di vedere Lucifero nella stessa posizione in cui l’avevo visto poco prima, ma lo vidi invece capovolto, con le gambe in alto; e se rimasi quindi perplesso per ciò che vidi,lo pensi pure la gente rozza, ignorante, che non può capire la natura di quel punto della terra che avevo appena attraversato. «Alzati in piedi;» mi disse Virgilio «poiché la strada da percorrere è ancora lunga e difficile, ed il sole si trova già a metà strada della terza ora.» Non era la sala di un palazzo il luogo in cui ci trovavamo in quel momento, ma una grotta naturale scarsamente illuminata e con suolo irregolare. «Prima di allontanarmi da questo abisso, mio maestro,» dissi non appena mi fui alzato, «parlami un poco, così da togliermi qualche dubbio: dove si trova la ghiaccia? E costui, Lucifero come ha fatto a finirci così, sottosopra? e come ha fatto, in così poco tempo, il sole a passare dalla sera al mattino?» E Virgilio mi rispose: «Tu credi ancora di trovarti al di là dal centro della terra, dove io mi aggrappai al pelo di Lucifero, verme malefico che perfora il mondo. Tu sei stato di là dal centro della terra finché discesi; quando mi sono capovolto, allora tu hai oltrepassato il punto centrale, verso il quale vengono attirati tutti i pesi, da qualunque direzione provengano. E sei quindi ora arrivato sotto l’emisfero australe, contrapposto a quello nostro, boreale, ricoperto dalle terre emerse, e sotto lo zenit del quale si consumò, morì, Cristo, l’uomo che nacque e visse senza macchiarsi di peccati; tu poggi ora i piedi su quel piccolo piano circolare che costituisce l’altra faccia della Giudea. Qui è mattino quando di là è invece sera; e Lucifero, che con il suo pelo ci ha fatto da scala, è ancora conficcato nel punto in cui è caduto allora. Cadde giù dal cielo da questa parte della terra; e le terre, che prima anche da questo lato erano emerse, per paura di lui si inabissarono, nascondendosi nel mare, e si spinsero, nella fuga, fino al nostro emisfero; forse per scappare da Lucifero, la terra che costituisce il monte del purgatorio, e che è qua visibile, lasciò intorno a Lucifero il vuoto, una caverna, e corse verso l’alto.» Laggiù dove ci trovavamo c’era una galleria, lontana da Belzebù tanto quanto è lunga la sua stessa tomba, che scoprimmo non grazie alla vista ma grazie al suono che da essa proveniva, generato dallo scorrere di un piccolo ruscello, che discendeva attraverso un buco in un sasso, da esso creato per erosione, con il proprio corso tortuoso ed un poco in pendenza. Virgilio ed io entrammo in quel cammino nascosto per poter ritornare nel modo illuminato dal sole; senza badare a concederci un poco di riposo, tanto era il desiderio di uscire all’aperto, iniziammo a risalire, lui per primo ed io al suo seguito, fino a che riuscii ad intravedere un poco di tutte quelle cose meravigliose che il cielo offre alla vista, attraverso un foro tondo nella roccia. E uscimmo quindi all’aperto a rivedere le stelle.

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Codex Altonesis

Nell’ultimo canto dell’Inferno, Dante non incontra nessun peccatore, vi cammina sopra in quanto essi, traditori dei benefattori, sono sotterrati nel ghiaccio in posizione, oserei dire, plastica: chi in piedi chi sdraiato, chi a testa in giù; la loro tomba e il loro silenzio tombale stanno quasi ad indicare che nel profondo inferno viene a mancare qualsiasi elemento che possa rimandare alla “storia”, ai “vissuti” dei dannati, che, nell’estremo dolore dell’espiazione eterna del peccato, faceva pur sperare loro in un ricordo nella vita terrena, di cui Dante stesso era mediatore. La loro fissità sembra rimandarli alla “meccanicità” dell’intera struttura del canto, in cui anche l’Inferni rex sembra, più che l’espressione del male assoluto, quello di un’assoluta solitudine che si traduce in una meccanicità d’atteggiamenti (più macchina infernale che angelo caduto) che maciulla con le tre bocche i tre peccatori senza neanche accorgersi che i pellegrini gli stanno davanti.

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Francesco Scaramuzza: Lucifero

L’apparizione è improvvisa per Dante: spostandosi all’improvviso Virgilio, alle cui spalle si era posizionato Dante, Lucifero gli appare nella sua grandezza fisica, abnorme, con tre facce (rossa, gialla e nera – odio, debolezza e ignoranza), cui sembrano corrispondere le tre fiere del I canto, in cui maciulla i tre, secondo Dante, più grandi peccatori: Giuda, traditore di Gesù, con il corpo dentro la bocca di Lucifero e le gambe fuori e ai lati da una parte Bruto e dall’altra Cassio, traditori di Cesare, ambedue con il capo esterno ed il corpo nella bocca. Ad ognuna delle tre facce rispondono due ali dalla conformazione membranosa ed il loro continuo sbattere crea il ghiaccio del Cocito. Non c’è drammaticità nell’incontro nessun dialogo, Lucifero non è che uno strumento nelle mani di Dio, addirittura, lui Re degli Inferi, meno libero dei suoi sudditi. Basta loro cogliere il momento della massima apertura alare per balzare sul suo corpo e fare dei suoi peli uno scala. Raggiunto il femore – che rappresenta il centro della terra – Virgilio con gran sforzo, si capovolge insieme a Dante, tanto che a quest’ultimo pare aver cambiato prospettiva: davanti a sé ha ora i piedi di Lucifero e non più la testa. Spiega Virgilio che ciò è avvenuto perché quando il re delle tenebre è caduto si è conficcato al centro della terra. Le terre per non aver contatto con lui si sono raccolte formando la montagna purgatoriale mentre le altre sono state spinte nell’emisfero boreale, che è quello abitato: per questo si sono capovolti, ora si trovano nell’emisfero australe e sarà tutto capovolto: al giorno di un emisfero corrisponderà la notte dell’altro e, più importante ancora, se a Dante sembra essere disceso nell’imbuto infernale, invece egli è salito, iniziando la sua ascesa verso il Creatore.

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Codice manoscritto: L’uscita di Virgilio e Dante dall’Inferno

Ma non possiamo terminare senza perlomeno citare il senso di luce che comincia a trasparire in questo canto per diventare “importante” nel Purgatorio, fondamentale nel Paradiso; da puntino in lontananza all’inizio della “natural burella” al cielo stellato che, riavvicinandolo alla naturalità degli astri, lo avvicina allo splendore divino.

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