MARCIO PORCIO CATONE

Sii padrone dell'argomento – Italica Res

Prima d’affrontare il discorso su Catone è bene affrontare l’argomento su come fu possibile, sin dall’inizio, instaurare una prosa a Roma che fosse prettamente greca. Se infatti, al di là delle prime forme preletterarie, quelle epiche o teatrali avevano tutte più o meno riportato, adattandole al pubblico romano, opere greche (più precisamente avevano usato, con termine latino vertere i modelli ellenici), la prosa, almeno suo inizio, è greca. Il genere storiografico, infatti, non sarà in latino, sebbene gli autori di tali opere siano famosi senatori romani, come Fabio Pittorre e Cincio Alimento, ma in greco.

P._Oxy._LII_3679.jpg

Frammento di un papiro della Repubblica di Platone

Infatti il genere storico nacque precisamente nel V sec. a. C. quando Erodoto pubblicò le Storie, attraverso le quali, giunge a raccontarci le guerre greco persiane. Il suo racconto vuole raccontarci i fatti meravigliosi e proprio per questo il suo testo (giuntoci integro) va dalla mitologia, all’etnografia, alla novellistica, oltre naturalmente agli avvenimenti politici. Più storiografico di lui è certamente Tucidide, che alla fine del V sec., ci narra a guerra tra Sparta e Atene. Egli introduce il concetto della ricerca come individuazione dei fatti reali, quindi ricerca di fonti. Ma alla base della sua opera permane un senso tragico della storia, come espressione della lotta tra Tyche (destino) e la volontà di potenza dell’uomo. Per questo anche l’uso dei discorsi dei protagonisti, a voler cercare quasi le causa psichiche del loro agire. Il suo stile diventa sublime e per questo modello per tutta la storiografia futura. Meno importante Senofonte (III sec.) di cui conserviamo diverse opere: certamente fondamentale è per l’invenzione della monografia storica di cui si servirà il nostro Sallustio. L’ultimo è Polibio, ma siamo già a Roma, nel II secolo, al tempo delle guerre cartaginesi: dallo stile scarno, ma preciso, il suo tema verte sulla motivazione che ha fatto grande Roma.  

Tutto questo:

  1. Perché essi si rivolgono alla storiografia affinché si dimostri che l’opera romana è stata necessaria e per rispondere alle accuse che quella cartaginese le muoveva contro: si rivolgevano quindi ad un pubblico internazionale;
  2. Per riprendere un genere, considerato tra i più alti della cultura greca, nella stessa lingua con cui gli iniziatori l’avevano prodotto, senza dimenticare di “romanizzarlo” scrivendolo anno per anno, secondo il costume degli Annales dei Pontefici Massimi.

Il primo a scrivere storiografia (e non solo) in latino, fu appunto, Catone.   

Notizie biografiche

Marcio Porcio Catone nasce a Tuscolo nel 234 a. C (vicino all’attuale Frosinone) da una famiglia di possidenti agrari. Ebbe una lunghissima carriera politica come homo novus (cioè senza alcun antenato che avesse già ricoperto cariche istituzionali), a partire dall’intervento militare durante la Seconda guerra Punica come tribuno militare, fino ad arrivare al consolato.

Ma la sua attività è ricordata soprattutto per il ruolo condotto da censore nel 184. Fu talmente severo verso i nuovi costumi e l’ostentazione del lusso (si dice che rimproverò un senatore in pubblico perché aveva baciato la moglie in pubblico) che fece di ciò una vera e propria arma politica contro l’affermazione dell’ellenismo. Tale posizione la mantenne anche verso la filosofia, da lui considerata come corruttrice della gioventù. Sul piano prettamente politico si distinse per aver osteggiato le scelte espansionistiche che miravano ad allargare il potere romano verso oriente e si batté affinché si estirpasse per sempre la nemica Cartagine, la cui ripresa temeva. Famosa è la sua espressione Carthago delenda est. Morì nel 149 a. C. prima che Scipione Emiliano mettesse in pratica la sua volontà con la terza e definitiva guerra punica.

Opere

Catone fu un prolifico scrittore e si esercitò nei campi dell’oratoria, della storiografia e della precettistica.

Oratoria

catone il censore - porcius cato

Statua che raffigura Catone

L’oratoria come genere precede, certamente, quella di Catone: sappiamo che grandi personaggi la utilizzarono durante il periodo repubblicano e ne conoscevano la distinzione aristotelica che la classificava in deliberativa (il consigliare o lo sconsigliare), giudiziaria (l’accusa o la difesa) e la epidittica (l’elogio o il biasimo). Ma la grande differenza che vi è fra i predecessori e Catone è la consapevolezza “letteraria” che tale arte possedeva. Infatti sappiamo da Cicerone (grande cultore di tale disciplina) che Catone lasciò ben 150 orazioni tra quelle deliberative e quelle giudiziarie e che ne curò la pubblicazione. Sempre Cicerone ci ricorda che furono famose quelle contro il lusso e quelle con cui si difese dagli attacchi dei suoi nemici politici.

Di esse non ci rimangono che frammenti, soprattutto citati da altri autori. Ma anche lui si citò: nell’opera le Origines sembra abbia riportato la sua orazione De Rhodiensibus in cui invitava il Senato Romano ad essere magnanimo verso la popolazione di Rodi che aveva mostrato scarso entusiasmo nell’appoggiare Roma durante la guerra contro il re Perseo di Macedonia. Di questa esperienza ci piace ricordare, non in un’opera retorica, ma nei Praecepta ad filium Marcum alcune definizioni che dà di quest’arte, rimaste proverbiali:

Orator est vir bonus peritus dicendi

L’oratore è un uomo onesto esperto nel parlare

e

Rem tene, verba sequentur

Possiedi l’argomento, le parole verranno da sè

in cui si mette in rilievo l’onestà intellettuale che egli considera propria di tale disciplina.

Il di Catone, il manuale del perfetto proprietario terriero – Studia Humanitatis – παιδεία

 (Il fattore) Non sia girandolone, sia sempre sobrio

Storiografia

Le Origines di Catone sono la prima opera storica della letteratura latina. Di essa ci rimangono pochi e brevi frammenti. Tuttavia sappiamo che era distribuita in sette libri che partivano dalla fondazione ai tempi suoi contemporanei:

  • Libro I: la fondazione di Roma e il periodo monarchico;
  • Libri II e III: le origini delle città italiche che contribuirono alla gloria di Roma;
  • Libri IV e V: Prima e seconda guerra punica;
  • Libro VI: Le guerre in Oriente
  • Libro VII: Avvenimenti fino alla sua morte.

Bisogna da subito ricordare che tale opera pone una netta differenza con gli Annali dei Pontifici:

LA POLEMICA CON GLI ANNALISTI

Non lubet scribere quod in tabula apud pontificem maximum est, quotiens annona cara, quotiens lunae aut solis lumine caligo aut quid obstiterit.

Non mi interessa scrivere quello che si trova registrato nella tavola del pontefice massimo, quante volte i prezzi dei viveri siano rincarati, quante volte una caligine o qualcos’altro abbia offuscato la luce della luna o del sole. 

di cui si critica l’attenzione per particolari minuti ed insignificanti. Inoltre egli si distanzia da essi per l’importanza che gli stessi Annali attribuivano ai Senatori. Infatti egli si peritò di non scrivere, nella sua opera di storico, alcun nome di un generali o di un politico, ma soltanto di piccoli uomini il cui eroismo è determinato dalla loro incredibile virtù, come ci dice di Cedicio:

 L’EROICO CEDICIO

Dii inmortales tribuno militum fortunam ex virtute eius dedere. Nam ita evenit: cum saucius multifariam ibi factus esset, tamen vulnus capitis nullum evenit, eumque inter mortuos defetigatum volneribus atque, quod san-guen eius defluxerat, cognovere. Eum sustulere, isque convaluit, saepeque postilla operam rei publicae fortem atque strenuam perhibuit illoque facto, quod illos milites subduxit, exercitum ceterum servavit.

Gli dèi immortali concessero al tribuno militare una buona sorte, grazie al suo valore. Infatti capitò ciò: pur essendo stato colpito in varie parti del corpo, tuttavia non riportò alcuna ferita mortale, e fu pertanto possibile distinguerlo tra i morti, prostrato dalle ferite e dalla perdita di sangue. Fu trasportato in salvo, guarì e in seguito spesso prestò allo Stato la sua opera di combattente indomito e valoroso; e in quell’impresa, per il fatto di aver condotto quei valorosi al sacrificio, egli salvò il resto dell’esercito.
SCUTA IMP. (I) (sec. I a.C.-III sec. d.C.)

Soldati romani con scudo

Infatti questo passo è messo in contrapposizione, come ci riporta lo scrittore tardo Aulo Gellio all’impresa di Leonida alle Termopoli. Qui egli cita il nome di Cedicio, semplice tribuno (e non quello del console); nel passo seguente cita Leonida e la sua sconfitta. Ma, come dice all’inizio del brano, gli occhi degli dei sono posati sul romano e quindi sull’esercito di Roma per la sua virtus.

Non dobbiamo dimenticare un’apertura e nel contempo una chiusura: la prima riguarda le città italiche, il cui racconto delle origini sembra altrettanto importante di quello di Roma, in quanto tutte saranno capaci di convergere e quindi formare quel vir Romanus fortemente legato al mos maiorum; dall’altra la chiusura totale verso il mondo greco e quindi verso il “circolo degli Scipioni”, che minava alle radici i valori e il modo di pensare del popolo romano.

Precettistica

Le opere precettistiche di Catone sono due: i Libri o Praecepta ad Marcum filium e il De agri cultura. Della prima abbiamo, come delle altre opere di Catone, solo frammenti. Essi dovevano essere una sorta di enciclopedia su vari argomenti come medicina, agricoltura, oratoria, diritto, nei quali venivano espressi dei principi, probabilmente dettati dall’esperienza dell’uomo politico stesso. Appare evidente, contro la moda che cominciava ad imporsi allora, la polemica contro la cultura greca, come si vede in questo passo:

CONTRO I GRECI

Dicam de istis suo loco, Marce fili, quid Athenis exquisitum habeam, et quid bonum sit illorum litteras inspicere, non perdiscere. Vincam nequissimum et indocile esse genus illorum. Et hoc puta vatem dixisse, quandoque ista gens suas litteras dabit, omnia corrumpet, tum etiam magis, si medicos suos hoc mittet. Iurantur inter se barbaros necare omnis medicina, sed hoc ipsum mercede faciunt, ut fides iis sit et facile disperdent. Nos quoque dictitant barbaros et spurcius nos quam alios Opicon appellatione foedant. Interdixi tibi de medicis.

medico della mutua romana

Medici a Roma

A suo tempo, o Marco, ti dirò di codesti Greci quello che sono venuto a sapere ad Atene, e come sia bene dare semplicemente un’occhiata alla loro letteratura, non studiarla a fondo. Ti dimostrerò che sono una razza di gente perversa e indisciplinata. E questo fa conto che te l’abbia detto un profeta: se mai codesto popolo, quando che sia, ci darà la sua cultura, corromperà ogni cosa; e tanto più se manderà qui da noi i suoi medici. Hanno fatto un giuramento fra loro, di uccidere tutti i barbari con la medicina: ma lo fanno a pagamento, perché non si diffidi di loro e possano più facilmente mandarci in rovina. An-che noi chiamano barbari, anzi più degli altri ci disprezzano infamandoci con lo sconcio appellativo di Opici (oschi, meridionali). Guardati dai medici, te lo impongo.

E’ chiaro che qui Catone non si rivolga soltanto al figlio Marco, ma voglia allontanare i giovani Romani da qualsiasi influenza che possa minare il mos maiorum e non importa se per far questo Catone dia voce, non si sa se creduta da lui a no, a tutti quei pregiudizi che abbiamo visti già operanti nei testi di Plauto.

Più importante, perché ci è giunto integro, è il De agri cultura e tale integrità è dovuta al fatto che tale testo è un vero e proprio manuale che è stato copiato e diffuso, in quanto tecnico, sin dal medioevo. E’ formato da 162 capitoli e, contenutisticamente, si possono cogliere in esso sia consigli pratico-tecnici che modus vivendi politici. Infatti è proprio come si deve condurre un fondo che  ci si rende conto anche del modo in cui l’autore concepisce i rapporti interpersonali che l’ellenismo tentava di mettere in discussione. Infatti l’ottica che presiede il testo è prettamente quella del profitto, e i lavoratori sono quelli che bisogna sfruttare per farlo rendere il più possibile. D’altra par-te bisogna ricordare che per Catone il fondo è il modo attraverso cui si può conservare il mos maiorum, mentre il commercio, con l’apertura verso nuovi mercati e nuove persone non può che metterlo in crisi. Vediamo questo passo:

Italia, m.p. catone, de agri cultura, e varrone, de rustica, XV sec., pluteo 51.2.JPG

Edizione del De Agricoltura del 1500

I DOVERI DEL PADRONE DEL PODERE

Pater familias, ubi ad villam venit, ubi larem familiarem salutavit, fundum eodem die, si potest, circumeat; si non eodem die, at postridie. Ubi cognovit quo modo fundus cultus siet, operaque quae facta infectaque sient, postridie eius diei vilicum vocet; roget quid operis siet factum, quid restet, satisne tempori opera sient confecta, possitne quae reliqua sient conficere, et quid factum vini, frumenti aliarumque rerum omnium. Ubi ea cognovit, rationem inire oportet operarum, dierum; si ei opus non apparet, dicit vilicus sedulo se fecisse, servos non valuisse, tempestates malas fuisse, servos aufugisse, opus publicum effecisse, ubi eas aliasque causas multas dixit, ad rationem operum operarumque vilicum revocat. Cum tempestates pluviae fuerint, quae opera per imbrem fieri potuerint: dolia lavari, picari, villam purgari, frumentum tranferri, stercus foras efferri, stercilinum fieri, semen purgari, funes sarciri, novos fieri; centones, cuculiones familiam oportuisse sibi sarcire; per ferias potuisse fossas veteres tergeri, viam publicam muniri, vepres recidi, hortum foderi, pratum purgari, vigas vinciri, spinas eruncari, expinsi far, munditias fieri; cum servi aegrotarint, cibaria tanta dari non oportuisse.

Villa rustica - Wikipedia

Pars rustica

Il capo di casa, quando giunge al podere, quando ha salutato il lare familiare, nello stesso giorno, se può, visiti il podere, se non lo stesso giorno, almeno il giorno seguente. Quando viene a sapere in che modo il podere sia stato coltivato, e in che modo le opere che sono state fatte e non fatte, chiami il fattore il giorno seguente di quel giorno; chieda quale delle opere sia stata fatta, quale resti da fare, e se abbastanza per tempo le opere siano state effettuate, e se possa quelle rimaste siano effettuate, e quanto di vino sia stato fatto, di frumento e di tutte le altre cose. Quando ha saputo quelle cose, è opportuno fare il conto delle opere, dei giorni; se per lui il lavoro agricolo non è evidente, il fattore dice che lui lo ha eseguito con solerzia, che i servi non stavano bene, che c’era stato cattivo tempo, che i servi erano fuggiti, che ha eseguito lavori pubblici, dopo che ha detto queste e molte altre cause, richiama il fattore a fare il conto delle opere e degli operai. Quanto il tempo è stato piovoso, (richiama il fattore) quali lavori avrebbero potuto esser fatti durante la pioggia: sarebbe stato opportuno che le botti fossero lavate, fosse messa la pece, la fattoria pulita, il frumento trasportato, il letame portato fuori, il letamaio fatto, le sementi pulite, le funi riparate, farne nuove; che i servi riparassero abiti, cappucci; durante le feste avrebbero potuto pulire le vecchie fosse, aggiustare la strada pubblica, tagliare i cespugli, zappare l’orto, pulire il prato, legare le fascine, togliere le spine, macinare il farro, fare pulizia; quando i servi si fossero ammalati, non era necessario che tanto cibo fosse dato.

E’ un passo esemplare in quanto in esso vediamo espressi i due concetti sopra illustrati: da una parte viene detto al padrone della fattoria, dopo aver, si direbbe oggi, ringraziato Dio, esattamente come comportarsi e cosa dire al fattore in caso di lavori non proprio eseguiti bene; dall’altro il modo in cui trattare i sottoposti fino ad arrivare all’assurdo, per oggi, ma non per ieri, di dar loro meno da mangiare o venderli se l’energia usata per lavorare fosse minore in quanto malati o vecchi.

BAROCCO EUROPEO

Plaza Mayor nel “Secolo d’oro”

Il barocco in Spagna

Il ’600 in Spagna viene definito il siglo de oro in quanto in questo periodo la letteratura e la pittura raggiungono i massimi vertici sia per qualità che per varietà. Infatti è difficile catalogare in un unico piano esperienze misticheggianti proprie della cultura controriformistica iberica con quelle disincantate ed ironiche del Don Chisciotte che, allo stesso modo, trovano rispondenza in un altro genere altrettanto “forte” in Spagna come il romanzo picaresco.

La lirica

La lirica spagnola raggiunge risultati altissimi nella letteratura europea del ’600. I più importanti poeti del barocco spagnolo sono Luis de Gòngora e Francisco de Quevedo.

La loro operazione, pur simile, nelle linee generali al barocco, dà a quest’ultimo un significato certamente più profondo, oserei dire, meno superficiale, di quello italiano. Infatti nella loro poesia si riflette il “disinganno” storico che porta la Spagna da essere un paese in pieno fulgore alla piena decadenza in favore dell’Inghilterra e della Francia. Se pertanto la realtà storica metaforizzata nella realtà delle cose mostra la sua “bruttezza” (splendore vs decadenza) bisogna cercare la bellezza, non più nelle cose che apparentemente sembrano evidenti, ma nella loro essenza nascosta, più profonda.

In modo semplicistico i due poeti possono essere sintetizzati così:

File:Diego Rodríguez de Silva y Velázquez - Luis de Góngora ...

Anonimo: Luis de Gongora

  • Luis de Gòngora: adotta un linguaggio ed uno stile sontuoso lavorando sulle impressioni pure; la bellezza retorica della sua poesia svela una fuga della realtà, realtà che rappresenta il disinganno “storico”; come, allo stesso modo, l’esaltazione della pienezza ideale della vita nasconde la sua precarietà nella realtà;

EN LAS HONRAS DE  LA SEÑORA REINA DOÑA MARGARITA

Máquina funeral, que desta vida
nos decís la mudanza, estando queda;
pira, no de aromática arboleda,
si a más gloriosa Fénix construida;

bajel en cuya gabia esclarecida
estrellas, hijas de otra mejor Leda,
serenan la Fortuna, de su rueda
la volubilidad reconocida,

farol luciente sois que solicita
la razón, entre escollos naufragante,
al puerto; y a pesar de lo luciente,

obscura concha de una Margarita
que, rubí en caridad, en fe diamante,
renace a nuevo Sol en nuevo Oriente.

Funebre macchina, che immobile posando di questa vita dici l’incostanza, pira non d’aromatico legname anche se a gloriosa Fenice innalzata. Vascello alla cui gabbia luminosa stelle, figlie d’altra migliore Leda placano Fortuna, della sua ruota conoscendo l’avventuroso corso, faro splendente siete che conduce la ragione fra gli scogli naufragante al porto; e malgrado tanta luce scura conchiglia d’una Margherita che, rubino in carità, in fé diamante rinasce nuovo Sole in nuovo oriente.

A LA ROSA

Ayer naciste y morirás mañana.
Para tan breve ser, ¿quién te dio vida?
¿Para vivir tan poco estás lucida?
Y ¿para no ser nada estás lozana?
 
Si te engañó su hermosura vana,
Bien presto la verás desvanecida,
Porque en tu hermosura está escondida
La ocasión de morir muerte temprana.
 
Cuando te corte la robusta mano,
Ley de la agricultura permitida,
Grosero aliento acabará tu suerte.
 
No salgas, que te aguarda algún tirano;
Dilata tu nacer para tu vida,
Que anticipas tu ser para tu muerte.

Nascesti ieri e morirai domani. Per viver così poco sei fastosa? Per esser nulla così rigogliosa? Chi ti creò, con quali stolte mani? // Ben presto svanirà in petali vani. Se ti ingannò la sua regale posa, perché nella vaghezza tua è ascosa la morte subitanea che non stani. // Quando mano robusta ti recide, lecita azione non certo proibita, violento soffio attenterà tua sorte. // Rimani salda, nessun vento stride; sboccia per dilatare la tua vita, per splendore esorcizza la tua morte.
(Laura Ricci)

E’ evidente che la rosa rappresenti per la poesia barocca un punto di riferimento importante: ma se in Italia (si ricordi il passo a lei dedicato dall’Ariosto, come metafora della verginità perduta o quello del Marino, che ne loda la bellezza, metaforizzandola in imperatrice che incede con tutta la sua forza) la rosa rappresenta la “pompa”, in Spagna diventa simbolo di decadenza, se non simbolo di se stessa, nell’attuale potenza che esorcizza la sua fine.

File:Quevedo (copia de Velázquez).jpg - Wikipedia

Juan van der Hamen: Francisco de Quevedo (XVII sec.)

  • Francisco de Quevedo: lavora sulla metafisica delle parole, astraendole dal loro uso quotidiano per sottolinearne (attraverso concetti e metafore) la loro impossibilità di riflettere un mondo deludente. Egli lavora sui contrasti, sulle antitesi che non sono puro esercizio retorico, come per Marino, ma vero e proprio contrasto ideale, conflittualità tra ciò che sarebbe bello essere e ciò che la realtà della decadenza non può più offrire

BUSCAS EN ROMA A ROMA, ¡OH PEREGRINO!

Buscas en Roma a Roma, ¡oh peregrino!, 
y en Roma misma a Roma no la hallas: 
cadáver son las que ostentó murallas, 
y tumba de sí propio el Aventino.

Yace, donde reinaba el Palatino; 
y limadas del tiempo las medallas, 
más se muestran destrozo a las batallas 
de las edades, que blasón latino.

Sólo el Tíber quedó, cuya corriente, 
si ciudad la regó, ya sepoltura 
la llora con funesto son doliente.

¡Oh Roma!, en tu grandeza, en tu hermosura 
huyó lo que era firme, y solamente 
lo fugitivo permanece y dura.

In Roma cerchi Roma, o pellegrino, e proprio in Roma Roma non ritrovi; le vantate muraglie, morti covi sono, e di sé sepolcro l’Aventino. // Giace, dove regnava, il Palatino; don limate dal tempo le medaglie; sembrano più macerie di battaglie degli evi, che blasone del latino. // Solo è restato il Tevere, corrente che bagnò la città: or sepoltura, la piange con funeste suon dolente. // Roma da quella gloria così pura fuggi ciò ch’era saldo e solamente il fuggevole ormai permane e dura.

Il teatro 

L’altro genere in cui la cultura barocca spagnola produsse opere di altissimo valore fu il teatro.

Il teatro spagnolo del siglo de oro si articola in:

  • Tragedie: generalmente incentrate su momenti di storia nazionale, che esaltano l’animo ed il coraggio degli spagnoli;
  • autos sacramentales: rappresentazioni religiose che, attraverso soggetti biblici o storici, mirano a celebrare il mistero dell’eucarestia;
  • Commedie: che possono essere o di capa y spada (contemporanee) o storiche.

Gli autori più rappresentativi del teatro spagnolo furono:

  • Lope de Vega: scrisse un’imponente mole di opere. Di lui ci restano 400 commedie sulle 1500 che pare abbia scritto, più autos sacramentales, liriche, poemetti. Le sue commedie ebbero uno straordinario successo e in lui si nota un mirabile esempio di rispondenza fra creazione artistica ed attese del pubblico. Egli offre al teatro spagnolo la canonizzazione della commedia il cui fine è l’imitazione della vita e la rappresentazione delle passioni e delle fantasie degli uomini. Essa si articolerà in tre giornate e se avrà argomento storico i personaggi dovranno essere il re, il cavaliere ed il contadino; in quelle di capa y espada la donna, l’amoroso, il vecchio e il buffone. A tenere unite le commedie di Lope de Vega è il senso dell’onore, la fedeltà al monarca e alla fede cattolica. E’ evidente che in tale scelta vengano a rompersi le unità di tempo e di luogo: rimane quella d’azione proprio perché, come già detto il suo fine è la imitazione della vita.

Félix Lope de Vega i Carpio - Turismo Las Navas

Lope de Vega

  • Calderon de la Barca: anche di lui ci restano ben 120 commedie. Egli nelle opere più rappresentative, sulla scia di Lope de Vega, approfondisce il senso dell’onore che non è più un sentimento diffuso e rassicurante del popolo spagnolo, ma diventa un indagine sull’agire umano, sul suo libero arbitrio, una riflessione sulla conquista di sé da parte dell’individuo. Riflessione che trova il suo approdo nella fede cattolica, che trova uno dei suoi massimi cantori.

LA VITA È SOGNO - Pedro Calderón de La Barca - Blog di pociopocio

Calderon de la Barca

La sua opera più importante, ma certamente il capolavoro, insieme al teatro di Shakesperare, di tutto il teatro secentesco è La vita è un sogno. Cerchiamo in modo estremamente sintetico di riportarne la trama:

Il re Basilio, polacco, scopre da certi oroscopi, che suo figlio diventerà un feroce tiranno. Fa credere che sia nato morto e lo fa rinchiudere in una torre. Sigismondo, questo è il suo nome, cresce incolto e selvaggio, non sapendo nulla delle sue origini. Soltanto l’incontro con Rosaura gli offre un momento di felicità. Prima d’escludere il figlio dalla successione, il re lo vuole mettere alla prova. Lo fa dunque addormentare e portare a corte. Qui gli si dice la sua vera origine, ma l’ineducazione e inciviltà con cui è cresciuto fanno sì che il re, facendolo di nuovo addormentare, lo riconduca nella torre. Appena svegliatosi Sigismondo non sa se quello che gli è successo è reale o è un sogno, (se fosse stato un sogno, sarebbe stato così realistico, da sembrare vita; ma allora anche la vita potrebbe essere sua volta un sogno). Tale situazione lo condurrà a maturazione: Alla abdicazione del re, il popolo reclama a gran voce Sigismondo come re, che si mostra valido combattente e, riabilitato nei confronti del padre, si farà garante di un regno di pace e felicità.

IL SOLILOQUO DI SIGISMONDO

Sueña el rey que es rey, y vive
con este engaño mandando,
disponiendo y gobernando;
y este aplauso, que recibe
prestado, en el viento escribe,
y en cenizas le convierte
la muerte, ¡desdicha fuerte!
¿Que hay quien intente reinar,
viendo que ha de despertar

en el sueño de la muerte?

Sueña el rico en su riqueza,

que más cuidados le ofrece;
sueña el pobre que padece
su miseria y su pobreza;
sueña el que a medrar empieza,
sueña el que afana y pretende,
sueña el que agravia y ofende,
y en el mundo, en conclusión,
todos sueñan lo que son,
aunque ninguno lo entiende.

Yo sueño que estoy aquí
destas prisiones cargado,
y soñé que en otro estado
más lisonjero me vi.
¿Qué es la vida?  Un frenesí.
¿Qué es la vida?  Una ilusión,
una sombra, una ficción,
y el mayor bien es pequeño:
que toda la vida es sueño,
y los sueños, sueños son.

File:Antonio de Pereda - El sueño del caballero - Google Art Project.jpg -  WikipediaAntonio de Pereda: Il sogno del cavaliere o La vita è un sogno

Sogna il re d’essere re, e vive in questo inganno disponendo degli altri governando. E gli applausi che in prestito riceve sono una gloria scolpita nel vento. La morte, la somma delle sventure, presto lo muta in cenere ed in pietra. Chi vorrà ancora un regno se saprà di doversi svegliare dal suo sogno nel sonno della morte? Sogna inquieto il ricco la ricchezza. Sogna il povero la sua misera vita. Chi s’affanna, involto nel diletto della carne, nel sogno dei suoi sensi s’affatica. Sogna chi vive negli agi consueti. Sogna chi spera ansioso ed attende. Sogna chi ferisce, umilia e offende. Tutti nel mondo sognano la vita che stanno vivendo, e non lo sanno. Io sogno d’essere qui incatenato e di vedermi sovrano ho sogna-to. La vita è una follia, la vita è una finzione, una grande illusione di ombre senza corpo. E tutto il bene del mondo non vale un respiro, perché la vita è un sogno e i sogni sono sogni.

Abbiamo visto come fenomeno estetico del barocco la confusione fra realtà ed apparenza; questa viene qui amplificata in una serie di dualismi derivanti l’un l’altro:

  • Sigismondo re e reprobo nella corte e nella torre;
  • E’ reprobo sognando d’essere a corte, mentre ciò che ha vissuto è reale;

E’ un attore (teatrante) che recita un fatto che non è reale ma è apparentemente vero e sta dicendo che ciò che recita (falsamente) vuole che il pubblico lo creda, ma lui stesso, come personaggio non sa se è vero.

  • Tirso de Molina: nasce nel 1579 a Madrid da famiglia d’origine umile. Nel ‘601 diventa frate e come cronista degli Ordine Mercenario gira a lungo la Spagna. Durante una sua permanenza a Toledo, conosce Lope de Vega che lo introdurrà nella composizione di opere teatrali. La sua attività non fu facile, visto il cattivo occhio con cui la critica cattolica controriformista guardava il suo teatro, ma ciò non permise di venir meno alla sua attività, che consta di moltissime opere delle quali ne possediamo un’ottantina. La sua opera più importante è El burlador de Sevilla y convidado de piedra pubblicata e rappresentata a Napoli nel 1625.     

Tirso de Molina - WikipediaFray Antonio Manuel de Hartalejo: Ritratto di Tirso de Molina

Don Giovanni Tenorio scappa da Napoli per aver ingannato la duchessa Isabella, penetrando furtivamente nella sua stanza con il nome del fidanzato, il duca Ottavio. Aiutato dal servo Catalinòn prende il mare e fa naufragio, riuscendo poi a sedurre la pescatrice Tisbea che lo ha raccolto e gli ha dato alloggio. Giunto a Siviglia , l’attende il matrimonio con donna Anna, figlia di don Gonzalo de Ulloa. Ma il re dispone che don Giovanni sposi l’offesa Isabella e il duca d’Ottavio sia risarcito sposando donna Anna. Costei però ama il marchese de la Mota. Don Giovanni, penetrato in casa di donna Anna, uccide il padre della fanciulla. Durante la nuova fuga seduce la giovane Aminta e si fa beffe del marito Patricio. Ritornato a Siviglia, vede in una chiesa la statua di don Gonzalo e per schernirla a invita a cena. Essa ricambia l’invito per il giorno dopo. Don Giovanni accetta. Nella cappella di Ulloa, alla fine della macabra ultima cena tra i due, il convitato, nel salutare don Giovanni, gli stringe con presa ferrea la mano e lo trascina all’inferno. 

JUAN:
La noche en negro silencio 
se extiende, y ya las cabrillas 
entre racimos de estrellas 
el polo más alto pisan. 
Yo quiero poner mi engaño 
por obra, el amor me guía 
a mi inclinación, de quien 
no hay hombre que se resista. 
Quiero llegar a la cama. 
¡Aminta! 

(Sale AMINTA, como que está acostada

AMINTA:
¿Quién llama a Aminta? 
¿Es mi Batricio?

JUAN:
No soy tu Batricio. 

AMINTA:
Pues, ¿quién? 

JUAN:
Mira de espacio, Aminta, quién soy. 

AMINTA:
¡Ay de mí! Yo soy perdida. 
¿En mi aposento a estas horas? 

JUAN:
Éstas son las obras mías. 

AMINTA:
Volvéos, que daré voces, 
no excedáis la cortesía 
que a mi Batricio se debe, 
ved que hay romanas Emilias 
en Dos Hermanas también, 
y hay Lucrecias vengativas. 

JUAN:
Escúchame dos palabras, 
y esconde de las mejillas 
en el corazón la grana, 
por ti más preciosa y rica. 

AMINTA:
Vete, que vendrá mi esposo. 

JUAN:
Yo lo soy. ¿De qué te admiras? 

AMINTA:
¿Desde cuándo? 

JUAN:
Desde agora. 

AMINTA:
¿Quién lo ha tratado? 

JUAN:
Mi dicha. 

AMINTA:
¿Y quién nos casó? 

JUAN:
Tus ojos. 

AMINTA:
¿Con qué poder? 

JUAN:
Con la vista. 

AMINTA:
¿Sábelo Batricio? 

JUAN:
Sí, 
que te olvida. 

AMINTA:
¿Que me olvida? 

JUAN:
Sí, que yo te adoro. 

AMINTA:
¿Cómo? 

JUAN:

Con mis dos brazos. 

AMINTA:
Desvía. 

JUAN:

¿Cómo puedo, si es verdad que muero? 

AMINTA:
¡Qué gran mentira! 

JUAN:
Aminta, escucha y sabrás, 
si quieres que te lo diga, 
la verdad, que las mujeres 
sois de verdades amigas. 
Yo soy noble caballero, 
cabeza de la familia 
de los Tenorios antiguos, 
ganadores de Sevilla. 
Mi padre, después del rey, 
se reverencia y se estima, 
y, en la corte, de sus labios 
pende la muertes o la vida. 
Corriendo el camino acaso, 
llegué a verte, que Amor guía 
tal vez las cosas de suerte 
que él mismo de ellas se olvida. 
Víte, adoréte, abraséme, 
tanto que tu amor me obliga 
a que contigo me case. 
Mira qué acción tan precisa. 
Y aunque lo murmure el [reino], 
y aunque el rey lo contradiga, 
y aunque mi padre enojado 
con amenazas lo impida, 
tu esposo tengo de ser, 
[dando en tus ojos envidia 
a los que viere en su sangre 
la venganza que imagina. 
Ya Batricio ha desistido 
de su acción, y aquí me envía 
tu padre a darte la mano.] 
¿Qué dices? 

AMINTA:
No sé qué diga, 
que se encubren tus verdades 
con retóricas mentiras. 
Porque si estoy desposada, 
como es cosa conocida, 
con Batricio, el matrimonio 
no se absuelve, aunque él desista. 

JUAN:
En no siendo [consumado], 
por engaño o por malicia 
puede anularse. 

AMINTA:
[Es verdad; 
mas ¡ay Dios!, que no querría 
que me dejases burlada, 
cuando mi esposo me quitas.] 

JUAN:
Ahora bien, dame esa mano, 
y esta voluntad confirma 
con ella. 

AMINTA:
¿Que no me engañas? 

JUAN:
Mío el engaño sería. 

AMINTA:
Pues jura que cumplirás 
la palabra prometida. 

JUAN:
Juro a esta mano, señora, 
infierno de nieve fría, 
de cumplirte la palabra. 

AMINTA:
Jura a Dios, que te maldiga 
si no la cumples. 

JUAN:
Si acaso 
la palabra y la fe mía 
te faltare, ruego a Dios 
que a traición y a alevosía, 
me dé muerte un hombre muerto. 
(Que vivo, Dios no permita). (Aparte )

AMINTA:
Pues con ese juramento 
soy tu esposa. 

JUAN:
El alma mía 
entre los brazos te ofrezco. 

AMINTA:
Tuya es el alma y la vida. 

JUAN:
¡Ay, Aminta de mis ojos!, 
mañana sobre virillas 
de tersa plata, estrellada 
con clavos de oro de Tíbar, 
pondrás los hermosos pies, 
y en prisión de gargantillas 
la alabastrina garganta, 
y los dedos en sortijas 
en cuyo engaste parezcan 
[estrellas las amatistas; 
y en tus orejas pondrás] 
transparentes perlas finas. 

AMINTA:
A tu voluntad, esposo, 
la mía desde hoy se inclina. 
Tuya soy. 

JUAN:
(¡Qué mal conoces (Aparte)
al burlador de Sevilla!)

undefined

Jean-Honoré Fragonard: Don Juan e la statua del commendatore

DON JUAN: Si stende la notte nel suo nero silenzio, e già le Caprette, fra grappoli di stelle, calcano il più alto Polo. Voglio mettere in opera il mio inganno. L’amore mi trascina secondo la mia naturale tendenza, alla quale nessun uomo può resistere. Voglio raggiungere il letto di Aminta! (Appare Aminta come se fosse coricata) AMINTA: Chi nomina Aminta? E’ il mio Patricio? DON JUAN: Non sono il tuo Patricio: AMINTA: Chi è dunque? DON JUAN: Guarda attentamente, Aminta, chi sono. AMINTA: Povera me! Sono perduta! In camera mia a quest’ora? DON JUAN: Queste sono le ore mie. AMINTA: Uscite, che griderò. Non oltrepassate i limiti del rispetto che si deve al mio Patricio. Badate che ci possono essere, anche in questo piccolo villaggio delle Due Sorelle donne simili alla romana Emilia ed alla vendicativa Lucrezia. DON JUAN: Ascolta due parole e nascondi nel cuore il rossore delle tue guance che ti fa più preziosa e più bella. AMINTA: Vattene, ché viene il mio sposo. DON JUAN: Sono io il tuo sposo, perché te ne stupisci? AMINTA: Da quando? DON JUAN: Da questo momento. AMINTA: Chi lo ha concertato? DON JUAN: La mia fortuna. AMINTA: E chi ci ha sposato? DON JUAN: I tuoi occhi. AMINTA: Con quale potere? DON JUAN: Con la vista. AMINTA: E lo sa Patricio? DON JUAN: Sì, che ti ha dimenticato. AMINTA: Che mi ha dimenticata? DON JUAN: Mentre io ti adoro. AMINTA: Come? DON JUAN: Con le mie braccia. AMINTA: Allontanati. DON JUAN: Come posso se sto morendo? AMINTA: Che grande menzogna! DON JUAN: Aminta, ascolta e saprai la verità, se vuoi che te la dica, giacché voi donne amate sempre la verità. Io sono nobile gentiluomo, capo della famiglia dei Tenorio, antichi conquistatori di Siviglia. Dopo il re, si stima e riverisce mio padre e nella Corte, dalle sue labbra pende la vita o la morte. Percorrendo per caso queste contrade, mi capitò di vedervi, giacché l’amore guida in tal guisa le cose che, a volte, egli stesso se ne dimentica. Ti vidi, ti adorai, arsi di te a tal punto che amore mi spinse a sposarmi con te. Che azione fatale! E anche se tutto il regno ne mormorerà, e il re si opponga e mio padre sdegnato voglia impedirlo con le minacce, io sarò tuo sposo. Che ne dici? AMINTA: Non so quel che debba dire quando le tue verità si ammantano di menzogne retoriche. Perché se sono sposata con Patricio, come ormai è cosa notoria, il matrimonio non si scioglie anche se lui voglia rinunziarvi. DON JUAN: Il matrimonio può annullarsi quando non è stato consumato, per inganno o per malizia. AMINTA: In Patricio tutto fu semplice verità. DON JUAN: Orbene, dammi la mano e conferma la tua volontà. AMINTA: Non m’inganni? DON JUAN: Mio sarebbe l’inganno. AMINTA: Giura allora che manterrai la parola promessa. DON JUAN: Giuro a questa mano, signora, inferno di fredda neve, che manterrò la parola. AMINTA: Giura innanzi a Dio, e che ti maledica se non la mantieni. DON JUAN: Se per caso non manterrò la parola e la fede mia , invoco da Dio che a tradimento e fellonia mi uccida un uomo (tra sé) (morto, perché Dio non permette che sia vivo). AMINTA: Ebbene, dopo questo giuramento sono tua sposa. DON JUAN: Fra le mie braccia ti offro l’anima mia. AMINTA: Tue sono: l’anima e la vita. DON JUAN: Oh, Aminta dei miei occhi! Domani su sandali d’argento, tempestati di chiodi d’oro poggerai i tuoi deliziosi piedi, e la tua gola d’alabastro, sarà imprigionata da preziose collane e le tue dita da anelli nei quali saranno incastonate perle così fini da sembrare trasparenti. AMINTA: Sposo mio, la mia volontà si arrende da questo momento alla tua: sono tua. DON JUAN: (tra sé) Quanto male conosci l’Ingannatore di Siviglia!
The first edition of "El burlador de Sevilla" | Biblioteca Virtual Miguel  de Cervantes

Vecchia edizione dell’opera di Tirso de Molina

Il romanzo

All’origine della nascita del romanzo moderno vi sono i cosiddetti romanzi picareschi che fioriscono dopo la pubblicazione anonima di Lazarillo di Tormes. Le caratteristiche di tale romanzo sono:

  • descrizione delle precarie giornate del picaro, delle vessazioni e dei soprusi di cui era oggetto;
  • le qualità di cui il picaro era portatore per la sua sopravvivenza: la furbizia, la capacità di adattamento e l’arte di arrangiarsi;
  • descrizione degli ambienti più dimessi della quotidianità che sottendono una rappresentazione di tipo realistico.
  • il piacere della narrazione come fatto in sé.

Sono proprio questi romanzi a fare da sfondo, a costituire il background necessario per il capolavoro secentesco di Miguel De Cervantes il Don Quijote (Don Chisciotte).

Il Don Chisciotte è il vero e proprio primo romanzo moderno della cultura europea perché:

  • è un testo che narra la realtà nei suoi molteplici aspetti attraverso diversi punti di vista;
  • è parodia dei generi già esistenti e contaminazione di stili e linguaggi diversi;
  • il personaggio principale presenta una complessità e problematicità che lo collocano a fianco dei grandi eroi epici, ma senza la loro eccezionalità e sostanza fantasiosa.

Miguel de Cervantes - WikipediaMiguel De Cervantes

L’opera di Cervantes è assai complessa: divisa in due parti, la prima pubblicata nel 1605, la seconda nel 1615, dopo che un anno prima era uscita un apocrifa continuazione del romanzo; essa rappresenta una profonda riflessione sull’uomo e sul suo rapporto con la letteratura.

Il protagonista, infatti è un uomo che diventa pazzo dopo la lettura dei poemi epici cavallereschi, che crede essere veri. Pertanto muta il suo nome in Don Chisciotte della Mancia, veste gli abiti di un suo avo, sceglie come scudiero un contadino rozzo e ignorante, ma pieno di senso pratico, Sancio Panza, e parte alla ventura.

E’ proprio attraverso i dialoghi tra il cavaliere ed il suo fido scudiero che possiamo leggere il relativismo conoscitivo tipico di questa età. Il modo con cui il protagonista guarda la realtà viene puntualmente contraddetto dal modo in cui essa si presenta al suo scudiero: ma la problematicità sta nel fatto che qualche volta Don Chisciotte si sancizza e vede una realtà che si presuppone “reale” e Sancio si donchisciottizza scambiando l’illusione con la realtà.

A moltiplicare la complessità è la seconda parte: essi sanno di essere i protagonisti di una storia scritta da qualcun altro: cioè vedono se stessi riflessi in un altrettanto storia fantastica quanto quella che essi vivono e credono essere reale. E’ un continuo gioco di specchi, di una realtà che perde il suo statuto per diventare letteratura ma di una letteratura che diventa più vera della stessa realtà.

Riportiamo uno dei passi più famosi del romanzo:

CAPÍTULO OCTAVO

DEL BUEN SUCESO QUE EL VALOROSO DON QUIJOTE TUVO EN LA ESPANTABLE Y JAMÁS IMAGINADA AVENTURA DE LOS MOLINOS DE VIENTO, CON OTROS SECESOS DIGNOS DE FELICE RECORDACIÓN 

En esto descubrieron treinta o cuarenta molinos de viento que hay en aquel campo, y así como Don Quijote los vió, dijo a su escudero: «La ventura va guiando nuestras cosas mejor de lo que acertáramos a desear; porque ves allí, amigo Sancho Panza, donde se descubren treinta o poco más desaforados gigantes con quien pienso hacer batalla, y quitarles a todos las vidas, con cuyos despojos comenzaremos a enriquecer: que esta es buena guerra, y es gran servicio de Dios quitar tan mala simiente de sobre la faz de la tierra.»
«¿Qué gigantes?» dijo Sancho Panza.
«Aquellos que allí ves», respondió su amo, «de los brazos largos, que los suelen tener algunos de casi dos leguas».
«Mire vuestra merced», respondió Sancho, «que aquellos que allí se parecen no son gigantes, sino molinos de viento, y lo que en ellos parecen brazos son las aspas, que volteadas del viento hacen andar la piedra del molino.»
«Bien parece», respondió Don Quijote, «que no estás cursado en esto de las aventuras; ellos son gigantes, y si tienes miedo quítate de ahí, y ponte en oración en el espacio que yo voy a entrar con ellos en fiera y desigual batalla».
Y diciendo esto, dio de espuelas a su caballo Rocinante, sin atender a las voces que su escudero Sancho le daba, advirtiéndole que sin duda alguna eran molinos de viento, y no gigantes aquellos que iba a acometer. Pero él iba tan puesto en que eran gigantes, que ni oía las voces de su escudero Sancho, ni echaba de ver, aunque estaba ya bien cerca, lo que eran; antes iba diciendo en voces altas:
«Non fuyades, cobardes y viles criaturas, que un solo caballero es el que os acomete.» 
Levantóse en esto un poco de viento y las grandes aspas comenzaron a moverse, lo cual visto por Don Quijote, dijo:
«Pues aunque mováis más brazos que los del gigante Briareo, me lo habéis de pagar».
Y en diciendo esto, y encomendándose de todo corazón a su señora Dulcinea, pidiéndole que en tal trance le socorriese, bien cubierto de su rodela, con la lanza en ristre, arremetió a todo el galope de Rocinante, y embistió con el primer molino que estaba delante; y dándole una lanzada en el aspa, la volvió el viento con tanta furia, que hizo la lanza pedazos, llevándose tras sí al caballo y al caballero, que fue rodando muy maltrecho por el campo. Acudió Sancho Panza a socorrerle a todo el correr de su asno, y cuando llegó, halló que no se podía menear, tal fue el golpe que dio con él Rocinante.
«¡Válame Dios!» dijo Sancho; «¿no le dije yo a vuestra merced que mirase bien lo que hacía, que no eran sino molinos de viento, y no los podía ignorar sino quien llevase otros tales en la cabeza?»
«Calla, amigo Sancho», respondió Don Quijote, «que las cosas de la guerra, más que otras, están sujetas a continua mudanza, cuanto más que yo pienso, y es así verdad, que aquel sabio Frestón, que me robó el aposento y los libros, ha vuelto estos gigantes en molinos por quitarme la gloria de su vencimiento: tal es la enemistad que me tiene; mas al cabo al cabo han de poder poco sus malas artes contra la voluntad de mi espada». «Dios lo haga como puede», respondió Sancho Panza.
Y ayudándole a levantar, tornó a subir sobre Rocinante, que medio despaldado estaba; y hablando en la pasada aventura, siguieron el camino del puerto Lápice, porque allí decía Don Quijote que no era posible dejar de hallarse muchas y diversas aventuras, por ser lugar muy pasajero; sino que iba muy pesaroso por haberle faltado la lanza y diciéndoselo a su escudero, dijo:
«Yo me acuerdo haber leído que un caballero español, llamado Diego Pérez de Vargas, habiéndosele en una batalla roto la espada, desgajó de una encina un pesado ramo o tronco, y con él hizo tales cosas aquel día, y machacó tantos moros, que le quedó por sobrenombre Machuca, y así él, como sus descendientes, se llamaron desde aquel día en adelante Vargas y Machuca. Hete dicho esto, porque de la primera encina o roble que se me depare, pienso desgajar otro tronco tal y bueno como aquel, que me imagino y pienso hacer con él tales hazañas, que tú te tengas por bien afortunado de haber merecido venir a verlas, y aser testigo de cosas que apenas podrán ser creídas.» 
«A la mano de Dios», dijo Sancho, «yo lo creo todo así como vuestra merced lo dice; pero enderécese un poco, que parece que va de medio lado, y debe de ser del molimiento de la caída.» 
«Así es la verdad», respondió Don Quijote; «y si no me quejo del dolor, es porque no es dado a los caballeros andantes quejarse de herida alguna, aunque se le salgan las tripas por ella.» 
«Si eso es así, no tengo yo que replicar», respondió Sancho; «pero sabe Dios si yo me holgara que vuestra merced se quejara cuando alguna cosa le doliera. De mí sé decir, que me he de quejar del más pequeño dolor que tenga, si ya no se entiende también con los escuderos de los caballeros andantes eso del no quejarse».
No se dejó de reír Don Quijote de la simplicidad de su escudero; y así le declaró que podía muy bien quejarse, como y cuando quisiese, sin gana o con ella, que hasta entonces no había leído cosa en contrario en la orden de caballería. 

 
Pablo Picasso Don Quixote, 1955: Descrizione dell'opera | Arthive
 

Pablo Picasso: Don Chisciotte e Sancio Panza (1955)

DEL PROSPERO SUCCESSO CHE IL PRODE DON CHISCIOTTE EBBE NELLA SPAVENTOSA E MAI PENSATA AVVENTURA DEI MULINI A VENTO, NONCHÉ D’ALTRI SUCCESSI DEGNI DI FELICE RICORDANZA
In questo mentre, scòrsero trenta o quaranta mulini a vento che sono in quella pianura, e come don Chisciotte li ebbe veduti, disse al suo scudiero: «La fortuna va guidando le cose nostre meglio di quel che potessimo desiderare; perché, vedi là, amico Sancio Panza, dove si scorgono trenta o pochi di più, smisurati giganti, con i quali penso di battagliare sì da ammazzarli tutti. Con le loro spoglie cominceremo a farci ricchi, poiché questa è buona guerra, ed è anche gran servigio reso a Dio sbarazzare da tanto cattiva semenza la faccia della terra.»
«Quali giganti?» disse Sancio Panza.
«Quelli» rispose il padrone «che tu vedi laggiù, con le braccia lunghe, che taluni ne sogliono avere quasi di due leghe».
«Guardate» rispose Sancio «che quelli che si vedono laggiù non son giganti, bensì mulini a vento, e quel che in essi sembrano braccia sono le pale che, girate dal vento, fanno andare la macina del mulino.»
«Si vede bene» rispose don Chisciotte «che in fatto d’avventure non sei pratico: son giganti quelli; che se hai paura, scostati di lì e mettiti a pregare mentre io vado a combattere con essi fiera e disuguale battaglia.»
E, così dicendo, spronò il cavallo Ronzinante, senza badare a quel che gli gridava lo scudiero per avvertirlo che, certissimamente, erano mulini a vento e non giganti quelli che stava per assalire.
Ma egli s’era così incaponito che fossero giganti da non udire le grida del suo scudiero Sancio, né, per quanto già fosse molto vicino, s’accorgeva di quel che erano; anzi andava vociando: «Non fuggite, gente codarda e vile; ché è un cavaliere solo colui che vi assale.
Si levò frattanto un po’ di vento, e le grandi pale cominciarono ad agitarsi. Il che avendo visto don Chisciotte, disse: «Ma per quanto agitiate più braccia di quelle del gigante Briareo, me la pagherete.» E così dicendo e raccomandandosi di tutto cuore alla sua dama Dulcinea, chiedendole che lo soccorresse a quel passo, ben difeso dalla sua rotella, con la lancia in resta, mosse all’assalto, al gran galoppo di Ronzinante, e attaccò il primo mulino che gli era dinanzi.
Ma, nel dare un colpo di lancia contro la pala, questa fu roteata con tanta furia dal vento che mandò in pezzi la lancia e si trascinò dietro di sé cavallo e cavaliere, il quale andò a rotolare molto malconcio per il campo. Accorse in aiuto Sancio Panza, alla gran carriera dell’asino suo, e quando giunse trovò che don Chisciotte non si poteva rimenare, tale fu il picchio che batté insieme con Ronzinante.
«Per Dio!» disse Sancio. «Non ve l’avevo detto io che badaste bene a cosa facevate, che non erano se non mulini a vento, e che solo chi n’avesse nella testa degli altri come questi poteva non saperlo?
«Chetati, caro Sancio» rispose don Chisciotte «che le cose della guerra, più che altre, son sottoposte a continua vicenda; tanto più, io penso, e così è per vero, che quel dotto Frestone, il quale mi portò via la stanza e i libri, ha cambiato questi giganti in mulini per togliermi il vanto di vincerlo, tanta è l’inimicizia che ha con me; ma alla fin fine, poco varranno le sue male arti contro la bontà della mia spada.
«Dio lo faccia, poiché lo può» rispose Sancio Panza. Aiutato quindi da lui a rialzarsi, don Chisciotte risalì su Ronzinante che s’era mezzo spallato. E discorrendo della occorsa  avventura, continuarono la via della gola di Puerto Lápice, ché, diceva don Chisciotte, lì non poteva mancare che si incontrassero tante e diverse avventure, per essere luogo molto frequentato; ma era tutto cogitabondo a causa dell’essergli venuta a mancare la lancia. E parlando col suo scudiero, gli disse: «Mi ricordo d’aver letto che un cavaliere spagnolo, chiamato Diego Pérez de Vargas, essendoglisi in una battaglia spezzata la spada, schiantò da una quercia un pesante ramo o tronco, e con esso operò tali cose, in quel giorno, ed ebbe pesti tanti mori che gli rimase il nomignolo di Pistone, e da allora in poi, tanto lui quanto i suoi discendenti si chiamarono così.
«T’ho detto questo perché dalla prima quercia o rovere che mi si presenti penso di schiantare un tronco anch’io, tale e così robusto come dovette esser quello; ed ho in mente di far con esso tali gesta che tu ritenga per gran fortuna l’aver meritato di ritrovartici e di essere testimonio di cose che appena potranno essere credute.»
«Come Dio vorrà», disse Sancio. «Credo tale e quale come voi dite; ma drizzatevi un po’ sulla vita, ché sembra pencoliate alquanto di fianco, forse perché ammaccato dalla caduta.
«È vero» rispose don Chisciotte «e se non mi lagno del dolore è perché non è permesso ai cavalieri erranti lagnarsi di ferita alcuna, anche che gliene escano fuori le budella.
«Se così è, non ho da aggiungere nulla io» rispose Sancio «però Dio sa se io mi rallegrerei ai lamenti di vossignoria quando avesse a sentir dolore in qualche parte. Di me posso dire che mi lamenterò del più piccolo dolore che abbia, se pure questo che voi dite del non lamentarsi non s’intende anche per gli scudieri dei cavalieri erranti.
Don Chisciotte non poté fare a meno di ridere della semplicità del suo scudiero. Gli affermò quindi che poteva benissimo lamentarsi come e quanto gli piacesse, ne avesse o no voglia, poiché fino allora non aveva letto nulla in contrario nell’ordine della cavalleria.

File:Honoré Daumier 017 (Don Quixote).jpg - WikipediaHonoré Daumier: Don Chisciotte su Ronzinante (1870)

Il passo è emblematico per comprendere la reale valenza del romanzo: Don Chisciotte è colui che non sa guardare la realtà se non attraverso il filtro della letteratura; si torna quasi al concetto barocco per cui è vero non ciò che è vero, ma ciò che viene rappresentato; ma soprattutto il “meraviglioso” letterario apre mondi che il reale non può dare e che cercherà con ostinazione attraverso la lettura. Sarà Sancho, con bonaria e divertita ironia, a cercare di metterlo di fronte a ciò che realmente è, ma non dimenticando, anzi accettando il suo essere inferiore, ma anche più saggio. E’ dal contrasto tra i due che sprigiona il comico ed il paradosso con cui Cervantes guarda al mondo della cavalleria che inizia a tramontare. Infatti, a voler uscire dalla profonda problematicità del testo di Cervantes, quello che rimane è il profondo senso di disinganno: la letteratura epica di cui Chisciotte si è innamorato era il riflesso di un mondo ormai perduto, che egli cerca, illusoriamente, di rifare suo. E’ il disinganno, già visto nei lirici, ad essere rappresentato, il senso di piena decadenza di una potenza che ha perso il ruolo egemone che aveva nella storia.

Il barocco in Inghilterra

In Inghilterra il barocco prende il nome di eufuismo dal romanzo Euphues di John Lyly, scritto in uno stile ricercato ed artificioso.

Per la lirica dobbiamo ricordare: Richard Crashow, William Shakespeare, autore di Sonetti e John Donne:

  • Richard Crashow: è il più fedele alle tecniche poetiche barocche. Amico del Marino ne riproduce gli schemi inseriti in una produzione dominata dal cattolicesimo: come si può vedere in questo testo, tratta da Steps to the Temple. Sacred Poems, With The Delights of the Muses:

Analysis of Richard Crashaw's Poems – Literary Theory and Criticism

Upon the Book and Picture of the Seraphical Saint Teresa

O thou undaunted daughter of desires!
By all thy dow’r of lights and fires,
By all the eagle in thee, all the dove,
By all thy lives and deaths of love,
By thy large draughts of intellectual day,
And by thy thirsts of love more large than they,
By all thy brim-fill’d bowls of fierce desire,
By thy last morning’s draught of liquid fire,
By the full kingdom of that final kiss
That seiz’d thy parting soul and seal’d thee his,
By all the heav’ns thou hast in him,
Fair sister of the seraphim!
By all of him we have in thee,
Leave nothing of my self in me:
Let me so read thy life that I
Unto all life of mine may die.

O tu, intrepida figlia di ogni desiderio! Per tutte le doti delle tue luci e dei tuoi fuochi; per lo spirito d’aquila che è in te, e l’animo di colomba; per tutte le tue vite e le tue morti d’amore; per la tua inesausta arsura di giorno intellettuale; e per le tue seti di amore più ardenti dell’arsura dell’anima; per la tua coppa traboccante di sfrenato ardore, per il tuo estremo sorso mattutino di liquido fuoco; per il Regno sconfinato di quel bacio ultimo che afferrò la tua anima morente e la suggellò col Suo, per tutti i cieli che tu possiedi in Lui, Leale sorella dei Serafini! Per tutto ciò che di Lui noi possediamo in te, deh! Rimetti il Nulla di me stesso dentro di me: Ch’io legga così la tua vita fintantoché Tutta la mia vita possa morire!

William Shakespeare - WikipediaWilliam Shakespeare

  • William Shakespeare: al di là dei capolavori teatrali, il genio di Shakespeare è già ben delineato nella sua poesia. Egli parte da una “ripresa” petrarchesca (allora assai in voga in Inghilterra), ma la integra con il concettismo secentesco, attraverso un linguaggio ricercato e raffinato;

John Donne - WikipediaJohn Donne

  • John Donne: dà vita a quella che nella letteratura inglese viene definita “poesia metafisica” di cui egli è l’iniziatore. Tale definizione indica un certo tipo di poesia in cui gli elementi sensibili trovano la loro spiegazione con elementi intellettuali e filosofici, mentre quest’ultimi si illuminano attraverso una spiegazione sensibile (in altre parole il concreto per l’astratto e l’astratto per il concreto).

Proponiamo qui due esempi; il primo tratto dall’opera poetica di William Shakespeare:

SONNET LXXIII

That time of year thou may’st in me behold
When yellow leaves, or none, or few, do hang
Upon those boughs which shake against the cold,
Bare ruin’d choirs, where late the sweet birds sang.

In me thou see’st the twilight of such day,
As after sunset fadeth in the west,
Which by-and-by black night doth take away,
Death’s second self, that seals up all in rest.

In me thou see’st the glowing of such fire
That on the ashes of his youth doth lie,
As the death-bed whereon it must expire

Consum’d with that which it was nourish’d by.
This thou perceivest, which makes thy love more strong,
To love that well which thou must leave ere long.

SONETTO 73
Contempla in me quell’epoca dell’anno / quando foglie ingiallite, poche e nessuna, pendono / da quei rami tremanti contro il freddo, / nudi cori in rovina, ove dolci cantarono gli uccelli. // Tu vedi in me il crepuscolo di un giorno, / quale dopo il tramonto svanisce all’occidente, / subito avvolto dalla morte nera, / gemella della morte, che tutto sigilla nel riposo. // Tu vedi in me il languire di quel fuoco, / che aleggia sulle ceneri della propria giovinezza, / come sul letto di morte su cui dovrà spirare, // consunto da ciò che già fu suo alimento. // Questo tu vedi, che fa il tuo amore più forte, / a degnamente amare chi presto ti verrà meno.

Shakespeare Sonnets: All 154 Sonnets With Explanations✔️

Edizione del 1609

Si vede in questo testo quanto importante sia stata la lezione del nostro Petrarca a livello europeo: egli infatti riprende il concetto del trascorrere del tempo ma lo svolge in modo estremamente personale. Egli infatti, sin dal primo verso si rivolge ad un tu e gli descrive, attraverso una triplice metafora, la sua vecchiaia (1 strofe: rami secchi; 2 strofe: tramonto; 3 strofe: lo spegnersi di un fuoco); ma sarà il distico finale a ribadire la volontà di vita e la gioia nell’essere amato del poeta che appunto, ancora metaforicamente, può rappresentare non solo la vita, ma anche la voglia di cantarla che solo l’amore può offrire.

L’altro poeta importantissimo per la cultura europea è John Donne:

BATTER MY HEART

Batter my heart, three-person’d God, for you
As yet but knock, breathe, shine, and seek to mend;
That I may rise and stand, o’erthrow me, and bend
Your force to break, blow, burn, and make me new.
I, like an usurp’d town to another due,
Labor to admit you, but oh, to no end;
Reason, your viceroy in me, me should defend,
But is captiv’d, and proves weak or untrue.
Yet dearly I love you, and would be lov’d fain,
But am betroth’d unto your enemy;
Divorce me, untie or break that knot again,
Take me to you, imprison me, for I,
Except you enthrall me, never shall be free,
Nor ever chaste, except you ravish me.

Sfascia il mio cuore, Dio in tre persone! Per ora / tu solo bussi, aliti, risplendi / e tenti di emendare. Ma perché io sorga e regga, /  tu rovesciami e tendi la tua forza /  a spezzarmi, / ad esplodermi, bruciarmi e farmi nuovo. / Usurpata città, dovuta ad altri, io mi provo / a farti entrare, ma ahi! senza fortuna. / La ragione, in me tuo viceré, / mi dovrebbe difendere ma è / prigioniera e si mostra molle o infida. / Pure teneramente io t’amo e vorrei essere /  riamato. Ma fui promesso al tuo nemico. / Divorziami, disciogli, spezza il nodo, / rapiscimi, imprigionami: se tu / non m’incateni non sarò mai libero, / casto mai se tu non mi violenti.

Donne John (1572 1631) Poems with Elegies on the Authors Dea

Edizione 1633

John Donne, pur essendo inglese, fu educato dai genitori ai valori cattolici: come ben si comprende in questa poesia. Sposatosi con Anna More, figlia del suo lord protettore, contro la volontà del padre di lei, fu imprigionato e, una volta liberato, e a seguito della morte di lei, di diede alla predicazione. A ben guardare sembra che questa poesia si leghi più a quella forza mistica, caratteristica del nostro Jacopone, che alla scientificità newtoniana: si è che egli vive il cattolicesimo con tale virulenza, con parole forti, che denotano quasi un superamento del “classicismo” rinascimentale, per riappropriarsi di quella forza, anche verbale, non immune dalla poetica barocca.

Il teatro

Già dalla metà del ’500 si era sviluppata, in Inghilterra, una forte produzione teatrale, mediata dall’arrivo nell’isola, di compagnie teatrali italiane che “esportarono” il gusto un po’ orrido e macabro tratto dalle tragedie di Seneca, allora assai in voga. E’ da questo terreno che prende le mosse il genio letterario del più grande drammaturgo europeo, William Shakespeare, che operò a cavallo tra i due secoli in una Londra che già nel 1600, con una popolazione di poco inferiore ai 200.000 abitanti, contava ben otto teatri stabili.

La pubblicazione dell’opera teatrale shakespeariana avvenne senza il controllo del-l’autore, prima in volumi separati, poi in un unico volume nel 1623 curato da due attori.

La produzione di Shakespeare suole essere divisa in quattro fasi:

  • all’inizio l’autore sembra voler saggiare tutte le possibilità dei generi teatrali; si va dalla tragedia senecana, il Tito Andronico, alla commedia plautina, La commedia degli equivoci, alle cosiddette commedie “eufuistiche” come La bisbetica domata, Pene d’amor perdute, Sogno d’una notte di mezza estate, alla tragedia sentimentale, Romeo e Giulietta, in cui il linguaggio ricercato e raffinato viene riscattato dalla tragica malinconia che permea la storia dei due amanti;

Villa Carlotta: Ancora un ultimo bacio, Giulietta. Il capolavoro di Hayez  compie 200 anni

Francesco Hayez: Romeo e Francesca sul balcone (1859)

Dal Romeo e Giulietta riportiamo la celeberrima scena del balcone:

JULIET: 
O Romeo, Romeo! Wherefore art thou Romeo?
Deny thy father and refuse thy name;
Or, if thou wilt not, be but sworn my love,
And I’ll no longer be a Capulet.

ROMEO [Aside.]:
Shall I hear more, or shall I speak at this?

JULIET: 
‘Tis but thy name that is my enemy.
Thou art thyself, though not a Montague.
What’s Montague? It is nor hand, nor foot,
Nor arm, nor face. Nor any other part
Belonging to a man. O, be some other name.
What’s in a name? That which we call a rose
By any other word would smell as sweet.
So Romeo would, were he not Romeo called,
Retain that dear perfection which he owes
Without that title. Romeo, doff thy name;
And for that name, which is no part of thee,
Take all myself.

ROMEO:
I take thee at thy word.
Call me but love, and I’ll be new baptized;
Henceforth I never will be Romeo.

JULIET: 
What man art thou, that, thus bescreened in night,
So stumblest on my counsel?

ROMEO: 
By a name
I know not how to tell thee who I am.
My name, dear saint, is hateful to myself
Because it is an enemy to thee.
Had I it written, I would tear the word.

JULIET: 
My ears have yet not drunk a hundred words
Of that tongue’s uttering, yet I know the sound.
Art thou not Romeo, and a Montague?

ROMEO:
Neither, fair maid, if either thee dislike.

JULIET: 
How camest thou hither, tell me, and wherefore?
The orchard walls are high and hard to climb,
And the place death, considering who thou art,
If any of my kinsmen find thee here.

ROMEO: 
With love’s light wings did I o’erperch these walls;
For stony limits cannot hold love out,
And what love can do, that dares love attempt.
Therefore thy kinsmen kinsmen find thee here.

JULIET: 
If they do see thee, they will murder thee.

ROMEO: 
Alack, there lies more peril in thine eye
Than twenty of their swords! Look thou but sweet,
And I am proof against their enmity.

JULIET: 
I would not for the world they saw thee here.

ROMEO: 
I have night’s cloak to hide me from their eyes;
And but thou love me, let them find me here.
My life were better ended by their hate
Than death prorogued, wanting of thy love.

JULIET: 
By whose direction found’st thou out this place?

ROMEO: 
By love, that first did prompt me to inquire.
He lent me council, and I lent him eyes.
I am no pilot; yet, wert thou as far
As that vast shore washed with the farthest sea,
I should adventure for such merchandise.

JULIET: 
Thou knowest the mask of night is on my face;
Else would a maiden blush bepaint my cheek
For that which thou hast heard me speak tonight.
Fain would I dwell on form fain, fain deny
What I have spoke; but farewell compliment!
Dost thou love me? I know thou wilt say “Ay;”
And I will take thy word. Yet, if thou swear’st,
Thou mayst prove false. At lovers’ perjuries,
They say Jove laughs.  O gentle Romeo,
If thou dost love, pronounce it faithfully.
Or if thou thinkest I am too quickly won,
I’ll frown and be perverse and say thee nay,
So thou wilt woo, but else, not for the world.
In truth, fair Montague, I am too fond,
And therefore thou mayst think my havior light;
But trust me, gentleman, I’ll prove more true
Than those that have more cunning to be strange.
I should have been more strange, I must confess,
But that thou overheard’st, ere I was ware,
My true love passion. Therefore pardon me,
And not impute this yielding to light love,
Which the dark night hath so discovered. 

ROMEO:
Lady, by yonder blessed moon I vow,
That tips with silver all these fruit-tree tops–

JULIET:
O, swear not by the moon, th’ inconstant moon,
That monthly changes in her circle orb,
Lest that thy love prove likewise variable.

ROMEO: 
What shall I swear by?

JULIET: 
Do not swear at all;
Or if thou wilt, swear by thy gracious self,
Which is the god of my idolatry,
And I’ll believe thee.

ROMEO: 
If my heart’s dear love–

JULIET: 
Well, do not swear. Although I joy in thee,
I have no joy of this contract tonight.
It is too rash, too unadvised, too sudden;
Too like the lightning, which doth cease to be
Ere one can say it lightens. Sweet, good night!
This bud of love, by summer’s ripening breath,
May prove a beauteous flow’r when next we meet.
Good night, good night! As sweet repose and rest
Come to thy heart as that within my breast!

ROMEO: 
O, wilt thou leave me so unsatisfied?

JULIET: 
What satisfaction canst thou have to-night?

ROMEO: 
The exchange of thy love’s faithful vow for mine.

JULIET: 
I gave thee mine before thou didst request it:
And yet I would it were to give again.

ROMEO: 
Would’st thou withdraw it? for what purpose, love?

JULIET: 
But to be frank and give it thee again.
And yet I wish but for the thing I have.
My bounty is as boundless as the sea,
My love as deep; the more I give to thee,
The more I have, for both are infinite.

[NURSE calls within.]

I hear some noise within. Dear love, adieu!
Anon, good nurse! Sweet Montague, be true.
Stay but a little, I will come again.

[Exit.]

ROMEO: 
O blessed, blessed night! I am afeard,
Being in night, all this is but a dream,
Too flattering-sweet to be substantial.

[Enter JULIET again.]

JULIET: 
Three words, dear Romeo, and good night indeed.
If that thy bent of love be honorable,
Thy purpose marriage, send me word tomorrow,
By one that I’ll procure to come to thee,
Where and what time thou wilt perform the rite;
And all my fortunes at thy foot I’ll lay
And follow thee my lord throughout the world.

NURSE [within.]:

Madam!

JULIET: 

I come anon.–But if thou meanest not well,

I do beseech thee–

NURSE [within.]:
Madam!

JULIET:
By and by I come.–
To cease thy strife and leave me to my grief
Tomorrow will I send.

ROMEO: 
So thrive my soul–

JULIET: 

A thousand times good night!

[Exit.]

ROMEO: 
A thousand times the worse, to want thy light!
Love goes toward love as schoolboys from their books
But love from love, toward school with heavy looks

[Enter JULIET again]

JULIET: 
Hist! Romeo, hist! O for a falc’ner’s voice
To lure this tassel gentle back again!
Bondage is hoarse and may not speak aloud,
Else would I tear the cave where Echo lies
And make her airy tongue more hoarse than
With repetition of “My Romeo!”

ROMEO: 
It is my soul that call upon my name:
How silver-sweet sound lovers’ tongues by night,
Like softest music to attending ears!

JULIET: 
Romeo!

ROMEO: 
My sweet?

JULIET: 
What o’clock tomorrow
Shall I send to thee?

ROMEO: 
By the hour of nine.

JULIET: 
I will not fail. ‘Tis twenty years till then.
I have forgot why I did call thee back.

ROMEO: 
Let me stand here till thou remember it.

JULIET: 
I shall forget, to have thee still stand there,
Rememb’ring how I love thy company.

ROMEO: 

And I’ll still stay, to have thee still forget,

Forgetting any other home but this.

JULIET: 
‘Tis almost morning. I would have thee gone–
And yet no farther than a wanton’s bird,
That lets it hop a little from his hand,
Like a poor prisoner in his twisted gyves,
And with a silken thread plucks it back again
So loving-jealous of his liberty.

ROMEO: 
I would I were thy bird.

JULIET: 
Sweet, so would I.
Yet I should kill thee with much cherishing.
Good night, good night! Parting is such sweet sorrow
That I shall say good night till it be morrow.

[Exit.]

ROMEO: 
Sleep dwell upon thine eyes, peace in thy breast!
Would I were sleep and peace, so sweet to rest!

Romeo e Giulietta - Milo Manara, romeo e giulietta

Milo Manara: Romeo e Giulietta

Giulietta: O Romeo, Romeo, perchè sei tu Romeo? Rinnega tuo padre e rifiuta il tuo stesso nome. Ovvero, se proprio non lo vuoi fare, giurami soltanto che mi ami, ed io smetterò di essere una Capuleti. Romeo: Devo continuare ad ascoltarla oppure rispondere a ciò che dice? Giulietta: E’ solamente il tuo nome ad essermi ostile: tu saresti sempre lo stesso anche se non fossi un Montecchi. Che cosa vuol dire la parola Montecchi? non è una mano, o un braccio o un viso, né un’altra parte che appartiene ad un essere umano. Oh, sii qualche altro nome! Quello che noi chiamiamo col nome di rosa, anche chiamato con un nome diverso, conserverebbe ugualmente il suo dolce profumo. Allo stesso modo Romeo, se portasse un altro nome, avrebbe sempre quella rara perfezione che possiede anche senza quel nome. Rinuncia quindi al tuo nome, Romeo, ed in cambio di quello, che tuttavia non è una parte di te, accogli tutta me stessa. Romeo: Ti prendo in parola. D’ora in avanti non sarò più Romeo. Giulietta: Chi sei tu, così nascosto dalla notte, che inciampi nei miei pensieri più nascosti? Romeo: Non so dirti chi sono, adoperando un nome. Perché il mio nome, o diletta santa, è odioso a me stesso, perché è nemico a te. E nondimeno strapperei il foglio dove lo trovassi scritto. Giulietta: Le mie orecchie non hanno ancora udito un centinaio di parole pronunciate dalla tua lingua, e nondimeno riconosco la tua voce: non sei forse tu Romeo, nonché uno dei Montecchi? Romeo: Non sono ne l’uno ne l’altro, fanciulla, se a te questo dispiace. Giulietta: E come sei giunto fino a qui? Dai, dimmi come e perché. Le mura del cortile sono irte e difficili da scalare, e questo luogo, considerando chi sei tu, potrebbe significare la morte se qualcuno della mia famiglia ti scoprisse. Romeo: Ho scavalcato le mura sulle ali dell’amore, poiché non esiste ostacolo fatto di pietra che possa arrestare il passo dell’amore, e tutto ciò che amore può fare, trova subito il coraggio di tentarlo: per questi motivi i tuoi familiari non possono fermarmi. Giulietta: Se ti vedranno ti uccideranno. Romeo: Ahimè, che si nascondono più insidie nel tuo sguardo che non in venti delle loro spade. A me basta che mi guardi con dolcezza e sarò immune alla loro inimicizia. Giulietta: Non vorrei per tutto il mondo che ti scoprissero qui. Romeo: Ho il mantello della notte per nascondermi ai loro occhi. Se tu mi ami non mi importa che essi mi scoprano. meglio perdere la vita per mezzo del loro odio, che sopravvivere senza poter godere del tuo amore. Giulietta: E chi ha saputo guidarti fino a qui? Romeo: E’ stato amore, che per primo ha mosso i miei passi, prestandomi il suo consiglio, ed io gli ho prestato gli occhi. Non sono un buon pilota: ciò nonostante, anche se fossi tanto lontana quanto la riva abbandonata dove lavano marosi del più remoto dei mari, non esiterei a mettermi in viaggio, per un carico così prezioso. Giulietta: Tu sai che sul mio volto vi è la maschera della notte, altrimenti un verginale rossore colorerebbe le mie guance, a causa di quello che mi hai sentito dire stanotte. E molto volentieri mi piacerebbe rinnegare tutto ciò che ho detto. Ma basta con le forme e i convenevoli. Mi ami? So già che risponderai sì, e che io crederò a ciò che tu  dirai. Ma se lo giuri, potresti poi dimostrarti sleale. Dicono che Giove sorrida dei giuramenti degli amanti. O, nobile Romeo, se davvero mi ami, dillo apertamente, e se credi che io mi lasci conquistare troppo facilmente, arriccerò la fronte e sarò cattiva, e mi negherò, cosicché tu abbia ragione di corteggiarmi: altrimenti, non saprei negarti niente per tutto l’oro del mondo. O bel Montecchi, io sono davvero troppo innamorata, e tu potresti interpretare questo comportamento come frivolo. Ma abbi fede in me, mio buon signore, ed io saprò dimostrarmi anche più leale di coloro che sanno offrire in modo migliore la loro modestia. Romeo: Madamigella, per quella sacra luna che inargenta le cime di quegli alberi, giuro… Giulietta: Oh, non giurare sulla luna, l’incostante luna che si trasforma ogni mese nella sua sfera, per paura che anche il tuo amore si dimostri, come la stessa luna, mutevole. Romeo: E allora su cosa dovrei giurare? Giulietta: Non giurare per niente. E se proprio devi giurare, giura sulla tua persona benedetta, che è il dio della mia idolatria: e non potrò fare a meno di crederti. Romeo: Se il caro amore del cuor mio…Giulietta: Non giurare, di grazia. Anche se la tutta la mia felicità è riposta in te, non riesco a provare nessuna felicità nel patto d’amore appena stipulato, troppo precipitato, troppo frettoloso e irriflessivo, e troppo mi somiglia il lampo che muore prima che si abbia il tempo di dire: lampeggia. Buona notte dolce amore mio! …il dolce riposo e la pace entrino nel tuo cuore. Allo stesso modo di quelli che confortano il mio seno. Romeo: Mi vuoi dunque lasciare così mal soddisfatto? Giulietta: E qual soddisfazione potresti avere tu, stanotte? Romeo: Lo scambio del voto fedele del tuo amore insieme al mio. Giulietta: Ti ho già dato il mio prima ancora che fossi tu a chiederlo: eppure mi piacerebbe che il momento di dartelo non fosse già passato. Romeo: Vorresti forse riprendertelo? E perché amore mio? Giulietta: Solo per poter essere prodiga, e dartelo di nuovo. Eppure altro non desidero se non ciò che già possiedo: la mia generosità è davvero senza limiti, come il mare, e come il mare il mio amore è profondo. E più te ne do più ne ho per me, perché entrambi sono infiniti. sento una voce, dal dentro, addio amore mio. Vengo subito, mia buona balia. O mio caro Montecchi, sii fedele a me. resta ancora un poco. Torno subito. Romeo: O notte beata! Temo che, perché siamo di notte, tutto questo non si riveli soltanto un sogno, troppo dolce e lusinghiero per essere fatto di sostanza reale. Giulietta: Tre parole, diletto Romeo, ed un’ultima buona notte. Se davvero il tuo amore è sincero e la tua intenzione è di sposarmi, fammelo sapere domani per mezzo di qualcuno che darò disposizione che ti raggiunga, cosicché potrò sapere dove e come il matrimonio verrà celebrato: e deporrò ai tuoi piedi tutte le mie fortune, e ti seguirò come il mio signo-re per il mondo intero. Balia: Madamigella! Giulietta: Arrivo subito… ma se le tue intenzione, tuttavia, non fossero belle, io ti supplico… Balia: Madamigella… Giulietta: Sono subito da te… cessa della tua corte, e lasciami sola con il mio dolore. Domani manderò qualcuno. Romeo: E così possa salvarsi l’anima mia! Giulietta: Mille volte buona notte! Romeo: Mala notte mille volte, invece, ora che la tua luce mi viene a mancare. L’amore corre verso l’amore con la gioia tipica degli scolaretti che fuggono dai loro libri, e all’incontro l’amore si separa da amore con la stessa delusione che hanno coloro che vanno a scuola. Giulietta: O Romeo, oh! Potessi avere la voce di un falconiere, per richiamare a me questo volatile! … Romeo: E’ l’anima mia che invoca il mio nome. Quale dolce suono argenteo non modula durante la notte la lingua degli amanti, soave musica all’orecchio che ascolta! Giulietta: Romeo! Romeo: Diletta? Giulietta: A che ora vuoi che, domattina, il mio messaggero venga a te? Romeo: Alle nove. Giulietta: Non ti farò aspettare. E’ come se fino ad allora debbano passare venti anni. Mi è passato di mente il motivo per cui ti ho richiamato. Romeo: Lascia che io rimanga fino a quando non saprai ricordarla. Giulietta: Ma io vorrei dimenticarla di nuovo, giacché tu resti, come mi sovvenga quanto ami la tua compagnia. Romeo: Ed io seguiterò a restare qui per costringerti a non ricordare più nulla. Giulietta: E’ quasi giorno. Vorrei che fossi già partito; ma allo stesso modo vorrei saperti non più lontano di quell’uccellino a cui una bimba capricciosa permette di saltellare un poco fuori dalla sua mano, come un povero prigioniero trattenuto dalle ritorte dita, e con un filo di seta lo riporta a sé con un piccolo strattone, tanta è la gelosia che mette nell’amare la sua libertà. Romeo: Vorrei essere io quell’uccellino! Giulietta: Anche io vorrei che tu lo fossi, diletto: eppure, per il troppo amarti, finirei con l’ucciderti. Buona notte, buona notte! Il separarsi è un dolore così dolce, che ti darei la buonanotte fino a domani mattina! Romeo: Che il suo elegga la sua dimora negli occhi tuoi, e scenda la pace nel tuo cuore! Ah, se potessi essere io il sonno e la pace per poter riposare tanto dolcemente!
  • il secondo periodo è caratterizzato dai drammi storici e da commedie. I primi hanno come riferimento la storia recente inglese Enrico IV, Enrico V, Riccardo II, Riccardo III, in cui vengono delineate forti personalità fuori da ogni schematismo ideologico. Ne è un esempio il Riccardo III la cui “malvagità” assume connotati oserei dire “metafisici”. Anche le commedie perdono la gaiezza della prima fase, pur perfette nella loro leggerezza espositiva: Molto rumore per nulla, Come vi piace. Tuttavia già da Misura per misura si nota la perdita di una certa armonia che aveva sotteso le commedie della fase precedente;

Riccardo III d'Inghilterra - Wikipedia

Riccardo III

Dal Riccardo III riportiamo l’incipit:

Now is the winter of our discontent
Made glorious summer by this sun of York;
And all the clouds that lour’d upon our house
In the deep bosom of the ocean buried.
Now are our brows bound with victorious wreaths;
Our bruised arms hung up for monuments;
Our stern alarums changed to merry meetings,
Our dreadful marches to delightful measures.
Grim-visaged war hath smooth’d his wrinkled front;
And now, instead of mounting barded steeds
To fright the souls of fearful adversaries,
He capers nimbly in a lady’s chamber
To the lascivious pleasing of a lute.
But I, that am not shaped for sportive tricks,
Nor made to court an amorous looking-glass;
I, that am rudely stamp’d, and want love’s majesty
To strut before a wanton ambling nymph;
I, that am curtail’d of this fair proportion,
Cheated of feature by dissembling nature,
Deformed, unfinish’d, sent before my time
Into this breathing world, scarce half made up,
And that so lamely and unfashionable
That dogs bark at me as I halt by them;
Why, I, in this weak piping time of peace,
Have no delight to pass away the time,
Unless to spy my shadow in the sun
And descant on mine own deformity:
And therefore, since I cannot prove a lover,
To entertain these fair well-spoken days,
I am determined to prove a villain
And hate the idle pleasures of these days.
Plots have I laid, inductions dangerous,
By drunken prophecies, libels and dreams,
To set my brother Clarence and the king
In deadly hate the one against the other:
And if King Edward be as true and just
As I am subtle, false and treacherous,
This day should Clarence closely be mew’d up,
About a prophecy, which says that ‘G’
Of Edward’s heirs the murderer shall be.
Dive, thoughts, down to my soul: here
Clarence comes.

Ora l’inverno del nostro scontento  e’ reso estate gloriosa da questo sole di York, e tutte le nuvole che incombevano minacciose sulla nostra casa sono sepolte nel petto profondo dell’oceano. Ora le nostre fonti sono cinte di ghirlande di vittoria, le nostre armi malconcie appese come trofei, le nostre aspre sortite mutati in lieti incontri, le nostre marce tremende in misure deliziose di danza. La guerra dal volto grifagno ha spianato la fronte corrugata, e ora, invece di montare destrieri corazzati per atterrire le anime di nemici impauriti, saltella agilmente nella camera di una signora al suono seducente di un liuto. ma io che non fui fatto per tali svaghi , né fatto per corteggiare uno specchio amoroso; io che sono di stampo rozzo e manco della maestà d’amore con la quale pavoneggiarmi davanti a una frivola ninfa ancheggiante, io sono privo di ogni bella proporzione, frodato nei lineamenti dalla natura ingannatrice, deforme, incompiuto, spedito prima del tempo in questo mondo che respira, finito a metà, e questa così storpia e brutta che i cani mi abbaiano quando zoppico accanto a loro, ebbene io, in questo fiacco e flautato tempo di pace, non ho altro piacere con cui passare il tempo se non quello di spiare la mia ombra nel sole e commentare la mia deformità. Perciò non potendo fare l’amante per occupare questi giorni belli ed eloquenti, sono deciso a dimostrarmi una canaglia e a odiare gli oziosi piaceri dei nostri tempi. Ho teso trappole, ho scritto prologhi infidi con profezie da ubriachi, libelli e sogni per spingere mio fratello Clarence e il re a odiarsi mortalmente; e se re Edoardo è giusto e onesto quanto io sono astuto falso e traditore, oggi Clarence dovrebbe essere imprigionato grazie a una profezia che dice che G. sarò l’assassino degli eredi di Edoardo. Tuffatevi pensieri intorno alla mia anima, ecco Clarence.

Richard III - Ian McKellen - Original Trailer by Film&Clips

Ian McKellen in una reinterpretazione cinematografica del Riccardo III  

  • la terza fase vede la nascita delle grandi tragedie shakesperiane Re Lear, Amleto, Macbeth, Otello. Questa fase è caratterizzata, a livello storico, da una certa disillusione storica: all’ottimismo e all’espansione di Elisabetta I subentra Giacomo I portando con sé l’incertezza per il futuro. Di tale incertezza sembrano farsi carico i protagonisti di queste tragedie, dove non vi è più una certezza cui appigliarsi, dove l’eroe, scandagliandosi con ferrea logica, mostra l’impossibilità della sua realizzazione, dove la libidine del potere fa entrare il protagonista in un ferreo meccanismo da cui non riesce ad uscire.

File:Pedro Américo - Visão de Hamlet.jpg - Wikipedia

Pedro Américo: Ritratto di Amleto (1893)

Dall’Amleto il celeberrimo To be or not to be:

To be, or not to be, that is the question:
Whether ‘tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune,
Or to take arms against a sea of troubles
And by opposing end them. To die – to sleep,
No more; and by a sleep to say we end
The heart-ache and the thousand natural shocks
That flesh is heir to: ‘tis a consummation
Devoutly to be wish’d. To die, to sleep;
To sleep, perchance to dream – ay, there’s the rub:
For in that sleep of death what dreams may come,
When we have shuffled off this mortal coil,
Must give us pause – there’s the respect
That makes calamity of so long life.
For who would bear the whips and scorns of time,
Th’oppressor’s wrong, the proud man’s contumely,
The pangs of dispriz’d love, the law’s delay,
The insolence of office, and the spurns
That patient merit of th’unworthy takes,
When he himself might his quietus make
With a bare bodkin? Who would fardels bear,
To grunt and sweat under a weary life,
But that the dread of something after death,
The undiscovere’d country, from whose bourn
No traveller returns, puzzles the will,
And makes us rather bear those ills we have
Than fly to others that we know not of?
Thus conscience does make cowards of us all,
And thus the native hue of resolution
Is sicklied o’er with the pale cast of thought,
And enterprises of great pitch and moment
With this regard their currents turn awry
And lose the name of action.

Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine? Morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo, perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale deve farci riflettere. E’ questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga. Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe darsi quietanza con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli, grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa, se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte, il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti? Così la coscienza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e momento per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azione.

Shakespeare, in vendita per 10 milioni sterline unico ritratto realizzato -  QdS

Ritratto di William Shakespeare

  • l’ultimo periodo vede il raggiungimento, da parte di Shakespeare, di una maggiore serenità, dettata dalla saggezza di chi è vissuto nella temperie della storia. Di questo è testimonianza La tempesta, probabilmente l’ultimo suo lavoro.

Dai passi riportati ci si rende conto che la produzione teatrale di Shakespeare travalica ogni schematismo culturale, ogni possibilità d’inquadramento all’interno di una qualsivoglia corrente letteraria. Egli incarna il suo periodo e, come Dante per il medioevo, lo trascende, parlando un linguaggio universale valido per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Tuttavia, se il suo messaggio è universale, egli è figlio di un mondo culturale e così come Dante aveva utilizzato gli strumenti conoscitivi medievali per farli propri e quindi trasferirli su un piano universale, lo stesso farà l’autore inglese con quelli della fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento.

Se infatti sono presenti in lui autori classici come Plauto o Seneca, se sul piano formale, nella sua attività poetica, è ben avvertibile la presenza di Petrarca, se pesca a piene mani nella novellistica cinquecentesca italiana, si potrebbe a buon diritto definirlo autore rinascimentale. Ma se dovessimo invece sottolineare il rifiuto di ogni equilibrio classicistico; la creazione di personaggi che vanno al di là di ogni misura umana; la mescolanza di stili ora alti, ora bassi, ora artificiosi e letterari, ora comici o grotteschi; la presenza di una realtà il più delle volte indecifrabile ci troviamo appieno in presenza di temi che abbiamo visto toccare da tutti gli intellettuali fino ad adesso esaminati da Marino a Cervantes.

John Milton, biografia e opere: Paradiso perduto e Satan's Speech |  Studenti.it

John Milton

Il poema epico

Non si può chiudere il discorso sul ’600 inglese senza un accenno al Paradiso perduto di John Milton.

Egli parte da un consapevole “classicismo umanistico-rinascimentale” (studia Omero e Virgilio; Dante, Petrarca e Tasso), tuttavia la scelta sublime dell’argomento, il contrasto tra Bene e Male, l’opposizione a forti tinte tra concili infernali e armonie celesti, fanno sì che la sua scelta classicheggiante si mescoli con elementi fortemente barocchi.

Interessante è l’esito del poema miltoniano: classicamente egli mette al centro della lotta tra bene e male l’uomo. Ma la sua visione prometeica dell’uomo fa sì che, in modo del tutto involontario, ad uscire vincitore nel conflitto sia proprio Satana, il personaggio che incarna la volontà eroica di affermazione di sé e della sua capacità di violare il limite, l’eroe che accetta, impassibilmente e con coraggio, la sconfitta. Come vediamo in questo brano:

A HEAVEN OF HELL

“Is this the region, this the soil, the clime,”
Said then the lost archangel, “this the seat
That we must change for heav’n, this mournful gloom
For that celestial light? Be it so, since he
Who now is sovran can dispose and bid
What shall be right: furthest from him is best
Whom reason hath equalled, force hath made supreme
Above his equals. Farewell happy fields
Where joy for ever dwells: hail horrors, hail
Infernal world, and thou profoundest hell
Receive thy new possessor: one who brings
A mind not to be changed by place or time.
The mind is its own place, and in itself
Can make a heaven of hell, a hell of heaven.
What matter where, if I be still the same,
And what I should be, all but less than he
Whom thunder bath made greater? Here at least
We shall be free; the almighty hath not built
Here for his envy, will not drive us hence:
Here we may reign secure, and in my choice
To reign is worth ambition though in hell:
Better to reign in hell, than serve in heaven.
But wherefore let we then our faithful friends,
The associates and copartners of our loss
Lie thus astonished on the oblivious pool,
And call them not to share with us their part
In this unhappy mansion, or once more
With rallied arms to try what may be yet
Regained in heaven, or what more lost in hell?”

Città Futura on-line

Edizione del 1678

“E’ questa la regione. è questo il suolo e il clima,” disse allora l’Arcangelo perduto, “è questa sede che abbiamo guadagnato contro il cielo. Questo dolente buio contro la luce celestiale. Ebbene. sia pure così se ora colui che è sovrano può dire e decidere che cosa sia il giusto; e più lontani siamo da lui e meglio è, da lui che ci uguagliava per ragione e che la forza ha ormai reso supremo sopra i suoi uguali. Addio, campi felici, dove la gioia regna eternamente. E a voi salute, orrori, mondo infernale; e tu, profondissimo inferno, ricevi il nuovo possidente: uno che tempi o luoghi mai potranno mutare la sua mente. La mente è il proprio luogo, e può in sé fare un cielo dell’inferno, un inferno del cielo. Che cosa importa dove, se rimango me stesso; e che altro dovrei essere allora se non tutto, e inferiore soltanto a lui che il tuono ha reso il più potente? Qui almeno saremo liberi; poi-ché l’Altissimo non ha edificato questo luogo per poi dovercelo anche invidiare, non ne saremo cacciati: vi regneremo sicuri, e a mio giudizio regnare è una degna ambizione, an-che sopra l’inferno: meglio regnare all’inferno che servire in cielo. Quindi perché lasciare gli amici fedeli, gli alleati e i partecipi di questa nostra perdita, giacere così attoniti sul-l’acque immemoriali, e non chiamarli con noi a condividere la loro sorte in questa dimora infelice, o a tentare con noi nuovamente, riprese le armi, ciò che ancora può essere riconquistato in cielo, o ciò che ancora di più può essere perduto nell’inferno?”

Il barocco in Francia

La lirica

Il barocco in Francia è fortemente caratterizzato dagli avvenimenti storici che sconvolsero il paese a cavallo tra il Cinque e Seicento. Le lotte tra cattolici e protestanti, la conseguente guerra civile, il numero estremamente alto di vittime, avranno un’eco sulla poesia di Théodore Agrippa D’Aubigné, in cui il macabro, la morte, le violente passioni dominano.

Tuttavia esiste un altro aspetto del barocco francese che investe non soltanto la letteratura o l’arte in genere, ma penetra nel costume e nel modo di essere delle classi aristocratiche: è il cosiddetto preziosismo che si risolve in una forte ricercatezza formale nello scrivere e nel parlare, riflesso di una elegante società, fatta di giochi di società e di pubbliche letture.

Il teatro

Dalla salita al potere di Richelieu (1624) si opera in Francia un processo di normalizzazione, di epurazione di ogni atteggiamento centrifugo, dell’accentramento del potere nelle mani di un monarca assoluto (Luigi XIV). Ciò rendeva le istanze barocche, di per se stesse centrifughe, non adatte al nuovo clima culturale, che tornerà ad un bisogno di razionalità che solo il ritorno agli antichi, cioè al classico, poteva garantire.

Questo bisogno lo assolveranno tre grandi uomini di teatro: i tragediografi Corneille e Racine, ed il commediografo Molière.

Biografia Pierre Corneille, vita e storia

Ritratto di Pierre Corneille

Pierre Corneille: I temi fondanti delle sue tragedie sono: l’onore, il patriottismo, la generosità, la santità, temi ben rispondenti al processo normalizzatore di Richelieu, e a cui devono aggregarsi i cittadini dopo un periodo violento di passioni e di morte. Egli utilizza questi temi all’interno di tragedie classiche d’argomento romano in cui recupera le unità aristoteliche, e il cui stile, pur sublime, non abdica mai alla chiarezza espositiva che deve portare ad una “massima morale”.

Il primo dei suoi capolavori è certamente il Cid, d’ambientazione medievale (Corneille, in seguito, si dedicherà, come già detto a temi maggiormente classici) in cui si racconta lo scontro tra onore e amore, dove a prevalere è certamente il primo. Infatti don Rodrigo deve vendicare l’offesa fatta al padre dal genitore della donna amata. Ed è proprio il concetto d’onore ad averla vinta, condiviso fino in fondo anche dalla donna, che rinuncia a lui, pur di non vedere venir meno quei valori che la Francia di Richelieu a quel tempo propugnava (a cui in altre opere si aggiungerà quella del patriottismo). Quello detto risulta evidente nel brano che abbiamo scelto:

Rodrigo (il Cid) per vendicare l’onore offeso del padre uccide in duello Don Gomés, padre della sua promessa sposa Chimène. Seguendo ciò che loro impone l’onore familiare, i due fidanzati si separano, e Chimène chiede vendetta al re. Anche quando Rodrigo torna vittorioso da una battaglia contro i Mori, Chimène insiste nella sua richiesta, promettendo la sua mano a chi ucciderà il Cid. Si presenta a sfidare il Cid a duello Don Sanche, che viene battuto. Ma per un equivoco Chimène crede Rodrigo ucciso: disperata si lascia sfuggire un grido d’amore. Sarà il re a riunire gli orgogliosi innamorati, imponendo loro un anno di attesa prima delle nozze. 

ATTO III, SCENA 4

DON RODRIGUE
Eh bien! sans vous donner la peine de poursuivre,
Assurez-vous l’honneur de m’empêcher de vivre.

CHIMÈNE

Elvire, où sommes-nous, et qu’est-ce que je voi?
Rodrigue en ma maison! Rodrigue devant moi!

DON RODRIGUE
N’épargnez point mon sang; goûtez, sans résistance,
La douceur de ma perte et de votre vengeance.

CHIMÈNE
Hélas!

DON RODRIGUE
Écoute-moi

CHIMÈNE
Je me meurs.

DON RODRIGUE
Un moment.

CHIMÈNE
Va, laisse-moi mourir.

DON RODRIGUE
Quatre mots seulement;
Après, ne me réponds qu’avec cette épée.

CHIMÈNE
Quoi! du sang de mon père encor toute trempée!

DON RODRIGUE
Ma Chimène…

CHIMÈNE
Ôte-moi cet objet odieux
Qui reproche ton crime et ta vie à mes yeux.

DON RODRIGUE
Regarde-le plutôt pour exciter ta haine,
Pour accroître ta colère, et pour hâter ma peine.

CHIMÈNE
Il est teint de mon sang.

DON RODRIGUE
Plonge-le dans le mien,
Et fais-lui perdre ainsi la teinture du tien.

CHIMÈNE
Ah! quelle cruauté, qui tout en un jour tue
Le père par le fer, la fille par la vue!
Ôte-moi cet objet, je ne puis le souffrir:
Tu veux que je t’écoute, et tu me fais mourir!

DON RODRIGUE
Je fais ce que tu veux, mais sans quitter l’envie
De finir par tes mains ma déplorable vie;
Car enfin n’attends pas de mon affection
Un låche repentir d’une bonne action.
L’irréparable effet d’une chaleur trop prompte
Déshonorait mon père, et me couvrait de honte.
Tu sais comme un soufflet touche un homme de coeur.
J’avais part à l’affront, j’en ai cherché l’auteur:
Je l’ai vu, j’ai vengé mon honneur et mon père;
Je le ferais encor, si j’avais à le faire.
Ce n’est pas qu’en effet, contre mon père et moi,
Ma flamme assez longtemps n’ait combattu pour toi:
Juge de son pouvoir : dans une telle offense
J’ai pu délibérer si j’en prendrais vengeance.
Réduit à te déplaire, ou souffrir un affront,
J’ai pensé qu’à son tour mon bras était trop prompt,
Je me suis accusé de trop de violence ; 
Et ta beauté, sans doute, emportait la balance,
À moins que d’opposer à tes plus forts appas
Qu’un homme sans honneur ne te méritait pas;
Que malgré cette part que j’avais en ton âme,
Qui m’aima généreux me haïrait infâme;
Qu’écouter ton amour, obéir à ta voix,
C’était m’en rendre indigne et diffamer ton choix.
Je te le dis encore, et, quoique j’en soupire,
Jusqu’au dernier soupir je veux bien le redire:
Je t’ai fait une offense, et j’ai dû m’y porter
Pour effacer ma honte, et pour te mériter;
Mais, quitte envers l’honneur, et quitte envers mon père,
C’est maintenant à toi que je viens satisfaire:
C’est pour t’offrir mon sang qu’en ce lieu tu me vois.
Je fait ce que j’ai dû, je fais ce que je dois.
Je sais qu’un père mort t’arme contre mon crime;
Je ne t’ai pas voulu dérober ta victime:
Immole avec courage au sang qu’il a perdu
Celui qui met sa gloire à l’avoir répandu.

CHIMÈNE
Ah ! Rodrigue ! il est vrai, quoique ton ennemie,
Je ne puis te blâmer d’avoir fui l’infamie;
Et, de quelque façon qu’éclatent mes douleurs,
Je ne t’accuse point, je pleure mes malheurs.
Je sais ce que l’honneur, après un tel outrage,
Demandait à l’ardeur d’un généreux courage:
Tu n’as fait le devoir que d’un homme de bien;
Mais aussi, le faisant, tu m’as appris le mien.
Ta funeste valeur m’instruit par ta victoire;
Elle a vengé ton père et soutenu ta gloire:
Même soin me regarde, et j’ai, pour m’affliger,
Ma gloire à soutenir, et mon père à venger.
Hélas ! ton intérêt ici me désespère.
Si quelque autre malheur m’avait ravi mon père,
Mon âme aurait trouvé dans le bien de te voir
L’unique allégement qu’elle eût pu recevoir;
Et contre ma douleur j’aurais senti des charmes,
Quand une main si chère eût essuyé mes larmes,
Mais il me faut te perdre après l’avoir perdu;
Cet effort sur ma flamme à mon honneur est dû;
Et cet affreux devoir, dont l’ordre m’assassine,
Me force à travailler moi-même à ta ruine.
Car enfin n’attends pas de mon affection
De lâches sentiments pour ta punition.
De quoi qu’en ta faveur notre amour m’entretienne,
Ma générosité doit répondre à la tienne:
Tu t’es, en m’offensant, montré digne de moi;
Je me dois, par ta mort, montrer digne de toi.

DON RODRIGUE
Ne diffère donc plus ce que l’honneur t’ordonne:
Il demande ma tête, et je te l’abandonne;
Fais-en un sacrifice à ce noble intérêt,
Le coup m’en sera doux, aussi bien que l’arrêt.
Attendre après mon crime une lente justice,
C’est reculer ta gloire autant que mon supplice.
Je mourrai trop heureux mourant d’un coup si beau.

CHIMÈNE
Va, je suis ta partie, et non pas ton bourreau.
Si tu m’offres ta tête, est-ce à moi de la prendre?
Je la dois attaquer, mais tu dois la défendre;
C’est d’un autre que toi qu’il me faut l’obtenir,

Et je dois te poursuivre, et non pas te punir.

DON RODRIGUE
De quoi qu’en ma faveur notre amour t’entretienne,
Ta générosité doit répondre à la mienne;
Et pour venger un père emprunter d’autres bras,
Ma Chimène, crois-moi, c’est n’y répondre pas:
Ma main seule du mien a su venger l’offense,
Ta main seule du tien doit prendre la vengeance.

CHIMÈNE
Cruel ! à quel propos sur ce point t’obstiner?
Tu t’es vengé sans aide, et tu m’en veux donner!
Je suivrai ton exemple, et j’ai trop de courage
Pour souffrir qu’avec toi ma gloire se partage.
Mon père et mon honneur ne veulent rien devoir 
Aux traits de ton amour, ni de ton désespoir.

DON RODRIGUE
Rigoureux point d’honneur ! hélas ! quoi que je fasse,
Ne pourrai-je à la fin obtenir cette grâce?
Au nom d’un père mort, ou de notre amitié,
Punis-moi par vengeance, ou du moins par pitié.
Ton malheureux amant aura bien moins de peine
À mourir par ta main qu’à vivre avec ta haine.

CHIMÈNE
Va, je ne te hais point.

DON RODRIGUE
Tu le dois.

CHIMÈNE
Je ne puis

DON RODRIGUE
Crains-tu si peu le blâme, et si peu les faux bruits ?
Quand on saura mon crime, et que ta flamme dure,
Que ne publieront point l’envie et l’imposture!
Force-les au silence, et, sans plus discourir,
Sauve ta renommée en me faisant mourir.

CHIMÈNE
Elle éclate bien mieux en te laissant la vie;
Et je veux que la voix de la plus noire envie
Élève au ciel ma gloire et plaigne mes ennuis,
Sachant que je t’adore et que je te poursuis.
Va-t’en, ne montre plus à ma douleur extrême
Ce qu’il faut que je perde, encore que je l’aime.
Dans l’ombre de la nuit chace ben ton départ;
Si l’on te voit sortir, mon honneur court hasart.
Le seule occasion qu’aura la médisance,
c’est de savoir qu’ici j’ai soffert ta précence:
ne lui donne point lieu d’attaquer ma vertu.

DON RODRIGUE
Que je meure!

CHIMÈNE
Va-t’en.

DON RODRIGUE

A quoi te résous-tu?

CHIMÈNE
Malgré des feux si beaux, qui troublent ma colère,
Je ferai mon possible à bien venger mon père;
Mais malgré la rigueur d’un si cruel devoir,
Mon unique souhait est de ne rien pouvoir.

DON RODRIGUE

Ô miracle d’amour!

CHIMÈNE
Ô comble de misères!

DON RODRIGUE
Que de maux de pleurs nous coûteront nos pères!

CHIMÈNE
Rodrigue, qui l’eût cru?

DON RODRIGUE

Chiméne, qui l’eût dit?

CHIMÈNE
Que notre heur fût si proche, et sitôt se perdît?

DON RODRIGUE
Et que si près du port, contre tout le apparence
Un orange si prompt brisât notre esperànce?

CHIMÈNE
Ah! Mortelles douleurs!

DON RODRIGUE
Ah! Regrets superflus!

CHIMÈNE
Va.t’en, encore un coup, je ne t’écoute plus.

DON RODRIGUE
Adieu: je vais traîner une mourante vie,
Tant que par ta poursuite elle me soit ravie.

CHIMÈNE
Si j’en obtiens l’effet, je t’engage ma foi
De ne respirer pas un moment après toi.
Adieu: sors, et surtout garde bien qu’on te voie.

ELVIRE (gouvernante de Chimène)
Madame, quelques maux que le ciel nous envoie…

CHIMÈNE
Ne m’importune plus, laisse-moi soupirer,
Je cherche le silence et la nuit pour pleurer.

POËMES DRAMATIQUES de T. CORNEILLE - ...
 

Edizione del 1664

RODRIGO: Risparmiatevi dunque un ozioso  processo.  L’onor della mia morte, prendetevelo adesso. XIMENA: Elvira, dove siamo? Che vedo accanto a te? Rodrigo in casa mia! Lui qui, davanti a me! RODRIGO: Prendetevi il mio sangue. Non mi oppongo. Vi spetta. Il conforto  di uccidermi e di farvi vendetta. XIMENA: Ahimè! RODRIGO: Ti prego, ascoltami. XIMENA: Muoio! RODRIGO: Solo un momento. XIMENA: Va, lasciami morire. RODRIGO: Due parole, e acconsento che, poi, solo con questa spada tu mi risponda. XIMENA: Che? L’arma che del sangue di mio padre ancor gronda? RODRIGO: Mia Ximena! XIMENA: Nascondi questo orrore, che grida a me che lui è morto, e tu vivi, omicida. RODRIGO: Guardala bene, invece, per sentirti più piena d’odio e d’ira, e per darmi più presto la mia pena. XIMENA: E’ tinta del mio sangue! RODRIGO: Toglile quel colore, dalle quello del mio, piantandomela in cuore. XIMENA: Che crudeltà! In un giorno, prima il padre hai trafitto, ed ora me, mostrandomi  l’arma del tuo delitto. Nascondila ai miei occhi, mi fa troppo soffrire. Tu chiedi ch’io ti ascolti, e vuoi farmi morire? RODRIGO: Ti obbedisco. Ma questo bramo: che l’inumano mio destino si chiuda qui, ora, per tua mano. Non aspettarti, infatti, ch’ io faccia, per amore, vile ammenda di un giusto atto riparatore. Quel che accadde in un attimo, ahimè, d’ira fatale per l’onor di mio padre e mio era letale. Sai quanto un generoso da uno schiaffo sia leso. Ho cercato colui che anche me aveva offeso. L’ho trovato. Ho ridato a mio padre l’onoreE a me. Lo rifarei, se dovessi. L’amore,  Certo, abbastanza a lungo, ha prima combattuto per te, contro mio padre e me. Tanto hai potuto, benché l’offesa fosse enorme. Sono giunto a esitare se farne o no vendetta; al punto di chiedermi, dovendo o subire l’affronto o ferir te, se anch’io non fossi troppo pronto ad agire, accusandomi d’esser troppo violento io stesso. E avresti avuto tu, credo, il sopravvento se il dubbio non mi avesse costretto a ponderare che un uomo senza onore non ti può meritare. Che ho un posto nel tuo cuore, ma che tu lo hai donato a un generoso, e un vile lo avresti detestato. Che ascoltare il mio amore, e obbedirgli a tal segno sviliva la tua scelta, e mi rendeva indegno del tuo. Sì, lo ripeto, seppur con un sospiro, e lo griderò fino all’ultimo respiro: ti ho offesa, e quest’offesa io fui costretto a farti per lavar la mia onta e, sì, per meritarti. Ma all’onore ed al padre, ciò che dovevo ho dato. Ora con te il mio debito deve essere saldato. Son venuto ad offrirti il mio sangue. Sapevo cosa dovevo a loro, e so cosa ti devo. Tuo padre è morto, ed ora, per lui, devi colpire chi lo uccise. Il colpevole è qui, pronto a subire. Coraggio, immola al suo il sangue di chi a terra lo sparse, e se ne gloria. Finisci questa guerra. XIMENA: Ah, Rodrigo, è ben vero, ti combatto. Ma in cuore non posso biasimarti se hai difeso il tuo onore. Per quanto la mia accusa possa farsi aspra e dura, io non incolpo te, piango la mia sventura. So che cosa l’onore, dopo un simile oltraggio, imponeva all’ardore di un nobile coraggio. Tu hai fatto ciò che deve ogni uomo ben nato. Ma nel farlo, anche a me ciò che devo hai mostrato. Quel funesto valore ti ha dato una vittoria che vendica tuo padre, che salva la tua gloria, e insegna a me che anch’io a questo son costretta: a difender la gloria e il padre; a far vendetta. Ma sono disperata per te. Se altri eventi mi avessero privata di mio padre, i momenti di sollievo possibili, certo da te soltanto li avrei avuti, dalla gioia di averti accanto. E il pianto, meno amaro, certo, sarebbe stato se una mano a me cara me lo avesse asciugato. Ma devo perder te, dopo averlo perduto; Questo sforzo violento sul mio amore, è dovuto al mio onore: un tremendo dovere mi divide da te, vuole ch’io chieda la tua morte, e mi uccide. Non aspettarti, infatti, che, invocando rigore nel punirti, il mio affetto possa infiacchirmi il cuore. Se pur forte è la voce che in tua difesa sale nel mio petto, io nell’animo devo esserti uguale. L’offendermi, ti ha reso degno di me. La sorte vuol ch’io mi mostri degna di te con la tua morte. RODRIGO: Dunque, senza più indugi, dà all’onore il suo corso. La mia testa, io te l’offro. Fanne, senza rimorso, ciò che richiede questo tuo nobile progetto. Mi sarà dolce il colpo, come lo è il tuo verdetto. Attendere da un lento tribunale il giudizio è differir la gloria che cerchi, e il mio supplizio. Data da te, la morte per me sarà felice. XIMENA: Non sono il tuo carnefice, ma la tua accusatrice. Se mi offri la tua testa, spetta forse a me prenderla? Io la devo attaccare, ma tu devi difenderla. Spetta ad altri decidere per me della tua sorte: Io devo perseguirti, ma non darti la morte. RODRIGO: Se pur forte è la voce che in mia difesa sale nel tuo petto, tu devi d’animo essermi uguale. Se chiedi che altri vendichi per te il tuo genitore, credimi, mia Ximena, mostri meno valore. L’offesa di mio padre da me solo ho lavata. Da te sola la morte del tuo sia vendicata. XIMENA: Crudele! Perché insisti su questo? Tu hai saputo vendicarti da solo, e a me vuoi dare aiuto? Io seguirò il tuo esempio. Ne ho il coraggio, e non voglio che divider la gloria con te debba il mio orgoglio. Mio padre ed il mio onore non attendon ragione da te, né per amore né per disperazione. RODRIGO: Duro punto d’onore! Dunque non posso fare nulla che questa grazia da te possa impetrare? Per tuo padre o per quanto resta di una passione, colpisci! Per vendetta, fallo, o per compassione! Capisci che morire per tua mano è migliore sorte, per me, che vivere odiato dal mio amore? XIMENA: Io non ti odio, Rodrigo. RODRIGO: Ma tu devi. XIMENA: Non posso. RODRIGO: Ma non temi che il biasimo ti si scateni addosso? Sapendo ciò che ho fatto, e che il tuo amore dura, che cosa non diranno l’invidia e l’impostura? Costringile al silenzio, scaccia ogni esitazione, uccidimi, e fa salva la tua reputazione. XIMENA:  Ma lasciandoti in vita io aumento il suo splendore. Voglio che anche la voce dell’invidia peggiore debba esaltarmi, e insieme compiangermi, sapendo che ti adoro, e per te la morte sto chiedendo. Vattene, che i miei occhi non debban più guardare l’uomo che devo perdere, e non so non amare. Sii cauto, nell’uscire. Hai la notte a favore, ma bada! Se ti vedono, metti a rischio il mio onore. Questo appiglio soltanto può aver la maldicenza: saper che ho tollerato io, qui, la tua presenza. Fa che la mia virtù non venga denigrata. RODRIGO: Dammi la morte! XIMENA: Vattene. RODRIGO: Che vuoi fare, ostinata? XIMENA: Malgrado il grande amore che contrasta il mio sdegno, nel vendicar mio padre porrò tutto il mio impegno. Ma nel compiere in pieno questo duro dovere, ciò che spero è di chiedere, e di non ottenere. RODRIGO: Oh, prodigio d’amore! XIMENA: Oh, colmo di sventura! RODRIGO: Esser chi siamo, quale gloria! Quale jattura! XIMENA: Chi mai lo avrebbe detto? RODRIGO: Chi lo avrebbe creduto? XIMENA: Che a un passo dalla gioia, tutto avremmo perduto? RODRIGO: Che un turbine improvviso, a sì breve distanza dal porto, avrebbe infranto ogni nostra speranza? XIMENA: Ah, dolori mortali! RODRIGO: Ahimè, vani rimpianti! XIMENA: Basta! Va via, ti prego. Non perdere altri istanti. RODRIGO: Addio. Trascinerò questa languente vitaFino a che il re ti ascolti, e per me sia finita. XIMENA: Se otterrò ciò che chiedo, nello stesso momento, lo giuro, il mio respiro con il tuo sarà spento. Addio. Va. Abbi cura di non farti vedere. ELVIRA: Le afflizioni che il cielo su di noi fa cadere… XIMENA: Taci, lasciami sola. Ora voglio soltantoIl silenzio, e la notte, per sciogliere il mio pianto.

Il Cid (Corneille) - WikipediaRappresentazione de Le Cid del 1875

Jean Racine: poeta estremamente complesso, la cui grandezza sta tutta nel tormento morale che permea la sua giansenista religiosità. Anche lui parte da un recupero eroico della classicità, ma se in Corneille l’eroe vive sotto il segno plutarchiano della volontà, in Racine l’eroe si “diseorizza” e analizza il suo tormento, ne scandaglia le piaghe. Non è un caso che l’amore, non presente, se non in modo marginale, in Corneille, diventi tema dominante in Racine. Il suo capolavoro è la Fedra eroina classica già cantata da Euripide e da Seneca, che egli “cristianizza”, consapevole del suo orrendo peccato, ella invoca quella grazia che gli dei le negheranno, in quanto incapace di accettarla. Vediamo il punto più drammatico di questa tragedia:

Jean Racine: biografia e opere | Studenti.it

Jean Racine

Le fonti principali sono costituite dall’Ippolito di Euripide e dalla Fedra di Seneca, ma l’autore riporta a nuova e originalissima vita facendo della protagonista una vittima del fato “né completamente colpevole, né completamente innocente”. Seconda moglie di Teseo, scomparso durante un viaggio, Fedra è consumata da un male misterioso che finisce per confessare alla nutrice Enone: ama il figliastro Ippolito. Viene intanto annunciata la morte di Teseo. Convinta che il suo amore non sia ormai più colpevole, Fedra svela la propria passione a Ippolito, suscitando l’indignazione del giovane. Ma Teseo torna incolume. Per salvare Fedra, Enone accusa di incestuoso amore Ippolito che viene cacciato dal padre. Fedra, sconvolta dal rimorso, vorrebbe confessare a Teseo la verità, ma la notizia che Ippolito ama, riamato, la principessa Aricia, suscita in lei una violenta crisi di gelosia. Aricia lascia nel frattempo intendere a Teseo che Ippolito è innocente. Turbato il re apprende poi che Enone si è uccisa buttandosi in mare e che Fedra vuole morire. Supplica Nettuno di non tener conto della maledizione invocata contro il figlio, ma è troppo tardi. Si viene infatti a sapere che, atterriti da un mostro marino, i cavalli di Ippolito si sono imbizzarriti e hanno causato la sua morte. Fedra confessa la verità e si uccide.

OENONE
Madame, au nom des pleurs que pour vous j’ai versés,
Par vos faibles genoux que je tiens embrassés,
Délivrez mon esprit de ce funeste doute.

PHÈDRE
Tu le veux. Lève-toi.

OENONE
Parlez: je vous écoute.

PHÈDRE
Ciel! que vais-je lui dire? Et par où commencer?

OENONE
Par de vaines frayeurs cessez de m’offenser.

PHÈDRE
O haine de Vénus! O fatale colère!
Dans quels égarements l’amour jeta ma mère!

OENONE
Oublions-les, Madame. Et qu’à tout l’avenir
Un silence éternel cache ce souvenir.

PHÈDRE
Ariane, ma soeur! de quel amour blessée,
Vous mourûtes aux bords où vous fûtes laissée!

OENONE
Que faites-vous, Madame6? Et quel mortel ennui
Contre tout votre sang vous anime aujourd’hui?

PHÈDRE
Puisque Vénus le veut, de ce sang déplorable
Je péris la dernière, et la plus misérable.

OENONE
Aimez-vous?

PHÈDRE
De l’amour j’ai toutes les fureurs.

OENONE
Pour qui?

PHÈDRE
Tu vas ouïr le comble des horreurs.
J’aime… A ce nom fatal, je tremble, je frissonne.
J’aime…

OENONE
Qui?

PHÈDRE
Tu connais ce fils de l’Amazone,
Ce prince si longtemps par moi-même opprimé?

OENONE
Hippolyte! Grands Dieux!

PHÈDRE
C’est toi qui l’as nommé.

OENONE
Juste ciel! tout mon sang dans mes veines se glace.
O désespoir! ô crime! ô déplorable race!
Voyage infortuné! Rivage malheureux,
Fallait-il approcher de tes bords dangereux?

PHÈDRE
Mon mal vient de plus loin. A peine au fils d’Egée
Sous les lois de l’hymen je m’étais engagée,
Mon repos, mon bonheur semblait s’être affermi,
Athènes me montra mon superbe ennemi.
Je le vis, je rougis, je pâlis à sa vue;
Un trouble s’éleva dans mon âme éperdue;
Mes yeux ne voyaient plus, je ne pouvais parler;
Je sentis tout mon corps et transir et brûler.
Je reconnus Vénus et ses feux redoutables,
D’un sang qu’elle poursuit tourments inévitables.
Par des voeux assidus je crus les détourner:
Je lui bâtis un temple, et pris soin de l’orner;
De victimes moi-même à toute heure entourée,
Je cherchais dans leurs flancs ma raison égarée,
D’un incurable amour remèdes impuissants!
En vain sur les autels ma main brûlait l’encens:
Quand ma bouche implorait le nom de la Déesse,
J’adorais Hippolyte; et le voyant sans cesse,
Même au pied des autels que je faisais fumer,
J’offrais tout à ce Dieu que je n’osais nommer.
Je l’évitais partout. O comble de misère!
Mes yeux le retrouvaient dans les traits de son père.
Contre moi-même enfin j’osai me révolter:
J’excitai mon courage à le persécuter.
Pour bannir l’ennemi dont j’étais idolâtre,
J’affectai les chagrins d’une injuste marâtre;
Je pressai son exil, et mes cris éternels
L’arrachèrent du sein et des bras paternels.
Je respirais Oenone, et depuis son absence,
Mes jours moins agités coulaient dans l’innocence.
Soumise à mon époux, et cachant mes ennuis,
De son fatal hymen je cultivais les fruits.
Vaine précautions! Cruelle destinée!
Par mon époux lui-même à Trézène amenée,
J’ai revu l’ennemi que j’avais éloigné:
Ma blessure trop vive a aussitôt saigné,
Ce n’est plus une ardeur dans mes veines cachée:
C’est Vénus tout entière à sa proie attachée.
J’ai conçu pour mon crime une juste terreur;
J’ai pris la vie en haine, et ma flamme en horreur.
Je voulais en mourant prendre soin de ma gloire;,
Et dérober au jour une flamme si noire:
Je n’ai pu soutenir tes larmes, tes combats;
Je t’ai tout avoué; je ne m’en repens pas,
Pourvu que de ma mort respectant les approches,
Tu ne m’affliges plus par d’injustes reproches,
Et que tes vains secours cessent de rappeler
Un reste de chaleur tout prêt à s’exhaler.

ENONE: In nome delle lacrime che ho per voi versate, per le deboli ginocchia che tengo abbracciate, fate che un dubbio atroce da voi mi venga tolto. FEDRA: Tu lo vuoi? Alzati! ENONE: Parlate: ascolto. FEDRA: Cielo! da dove comincio? che sto per dire?ENONE: Cessate, con vani timori, di farmi soffrire. FEDRA: Oh odio di Venere! Oh fatal livore! In quali eccessi finì mia madre per amore! ENONE: Dimentichiamoli, signora, e l’avvenire d’eterno silenzio ne copra il sovvenire. FEDRA: Arianna, sorella, dall’amore lacerata sulle sponde moristi dove fosti abbandonata. ENONE: Che fate, signora? E quale mortale tedio il sangue vostro ha preso ora d’assedio? FEDRA: Venere lo vuole: di quel sangue deplorevole muoio per ultima, io, la più miserevole. ENONE: Siete innamorata?FEDRA: Dell’amore ho tutti i furori. ENONE: Per chi? FEDRA: Stai per udire il culmine degli orrori… Amo… Rabbrividisco a quel nome fatale. ENONE: Chi? FEDRA: Quel che dall’Amazzone, lo sai, ebbe il natale, quel principe lungamente da me perseguitato. ENONE: Ippolito? FEDRA: Tu l’hai nominato! ENONE: Cielo! Il mio sangue s’è nelle vene gelato! Disperazione! colpa! retaggio dannato! Sfortunato viaggio! Sponde dolorose, doveva avvicinarsi alle tue rive insidiose! FEDRA: Da lontano viene il mio male. Quando fui fidanzata e al figlio d’Egeo fui dalle leggi d’Imene legata, la calma e la gioia sembravano divenute certezza; Atene del mio superbo nemico mi mostrò la fierezza: lo vidi, arrossii, sbiancai per averlo veduto: un turbamento scosse il mio cuore sperduto; i miei occhi non vedevano, non potevo parlare; sentivo il mio corpo raggelarsi e bruciare; riconobbi Venere e il suo fuoco mortale, del sangue che perseguita tormento fatale. Con assidue promesse mi lusingai di sviarlo: le eressi un altare e mi curai d’adornarlo; io stessa di vittime continuamente cinta, nei loro fianchi cercavo la mia ragione vinta: rimedi impotenti per un amore insano! Inutile incenso bruciò la mia mano: se la mia bocca implorava il nome divino adoravo Ippolito, lo vedevo vicino. Ai piedi di quell’ara che facevo fumare, offrivo tutto a quel dio che non osavo invocare. Col-mo della sventura! sempre l’evitavo ma nel paterno aspetto il suo volto trovavo. Contro me stessa, infine io mi rivoltai: incitando il mio cuore lo perseguitai. Per bandire il nemico che idolatravo sentimenti d’ingiusta matrigna ostentavo; sollecitai il suo esilio; e le mie grida eterne lo strapparono al seno e alle braccia paterne. Respiravo, Enone; mentre lui era assente giorni più calmi passavo innocente; sottomessa al mio sposo celavo le mie pene i frutti coltivando del suo fatale imene. Vane precauzioni! Ah crudele destino! Dal mio stesso sposo fui condotta a Trezene; rividi il nemico che avevo allontanato: la mia ferita di nuovo ha sanguinato. Non è più ardore nascosto nelle vene: è Venere, intera, che la sua preda tiene. Sentii per il mio crimine un giusto terrore: la vita presi in odio, la mia fiamma in orrore; morendo volevo del mio onore aver cura e sottrarre alla luce quella fiamma oscura: non sopportai le tue lacrime, il tuo accanimento. Ti ho confessato tutto; ora non me ne pento purché tu, rispettando la morte mia che viene, con ingiusti rimproveri non mi dia altre pene, purché tu cessi infine di rinvigorire un resto di calore che sta per svanire.

File:Phèdre et Hippolyte par Pierre-Narcisse Guérin, 1802 - Musée du  Louvre.jpg - WikipediaPierre-Narcisse Guérin: Fedra e Ippolito (1815)

Molièreanch’egli recupera, alla luce di una “normalizzazione” razionale della società, la grande lezione dei classici (si pensi a L’Avaro modellato sull’Aulularia di Plauto). Osservatore della società egli ne mette “razionalmente” in ridicolo gli atteggiamenti, i vizi, i falsi perbenismi che permeano il modus vivendi dell’aristocrazia, attraverso una critica che, utilizzando il comico, lo metteva in ridicolo. Amato dal monarca, che vedeva in lui un “moralizzatore”, veniva utilizzato dallo stesso in funzione antinobiliare (di cui critica la cultura barocca ne Le preziose ridicole) e antigesuitica. I suoi capolavori sono il Tartufo ed il Misantropo dove il riso si fa amaro per l’analisi spietata che conduce, nel primo, contro l’arrivismo travestito da falsa devozione e, nel secondo, l’amara solitudine in cui è costretto chi non si piega agli accomodamenti sociali e richiesto di un giudizio dice sempre la verità.

Molière il Commediante: nasce il drammaturgo francese - Periodico DailyNicolas Mignard: Moliére (1658)

Tartufo, un falso devoto, ha saputo così bene entrare nelle grazie di Orgon e di sua madre Madame Pernelle, che spadroneggia nella casa del suo benefattore. Sordo alle richieste della moglie Elmire e degli altri membri della famiglia che vedono l’ipocrisia di Tartufo, Orgon lo stima anzi degno di sposare sua figlia. Non esita a cacciare di casa il figlio Damis quando questi gli rivela che Tartufo ha cercato di sedurre Elmire, facendo poi donazione al supposto sant’uomo di tutti i suoi averi. Infine Elmire convince suo marito a nascondersi sotto una tavola, mentre lei fingerà di corrispondere alla passione di Tartufo. Orgon scopre così la lussuria, l’ingratitudine e l’ipocrisia del suo protetto. Vistosi scoperto, l’impostore vuole utilizzare la donazione per impadronirsi dei beni di Orgon ma, riconosciuto dalla polizia che lo cercava da tempo, viene arrestato.

TARTUFFE (apercevant Dorine)
Laurent, serrez ma haire, avec ma discipline,
Et priez que toujours le Ciel vous illumine.
Si l’on vient pour me voir, je vais aux prisonniers,
Des aumônes que j’ai, partager les deniers.

DORINE
Que d’affectation, et de forfanterie!

TARTUFFE
Que voulez-vous?

DORINE
Vous dire…

TARTUFFE (Il tire un mouchoir de sa poche)
Ah! mon Dieu, je vous prie,
Avant que de parler, prenez-moi ce mouchoir.

DORINE
Comment?

TARTUFFE
Couvrez ce sein, que je ne saurais voir.
Par de pareils objets les âmes sont blessées,
Et cela fait venir de coupables pensées.

DORINE
Vous êtes donc bien tendre à la tentation;
Et la chair, sur vos sens, fait grande impression?
Certes, je ne sais pas quelle chaleur vous monte:
Mais à convoiter, moi, je ne suis pas si prompte;
Et je vous verrais nu du haut jusques en bas,
Que toute votre peau ne me tenterait pas.

TARTUFFE
Mettez dans vos discours un peu de modestie,
Ou je vais, sur-le-champ, vous quitter la partie.

DORINE
Non, non, c’est moi qui vais vous laisser en repos,
Et je n’ai seulement qu’à vous dire deux mots.
Madame va venir dans cette salle basse,
Et d’un mot d’entretien vous demande la grâce.

TARTUFFE

Hélas! très volontiers.

DORINE (en soi-même)
Comme il se radoucit!
Ma foi, je suis toujours pour ce que j’en ai dit.

TARTUFFE
Viendra-t-elle bientôt?

DORINE
Je l’entends, ce me semble.
Oui, c’est elle en personne, et je vous laisse ensemble.

TARTUFFE
Que le Ciel à jamais, par sa toute bonté,
Et de l’âme, et du corps, vous donne la santé;
Et bénisse vos jours autant que le désire
Le plus humble de ceux que son amour inspire.

ELMIRE
Je suis fort obligée à ce souhait pieux:
Mais prenons une chaise, afin d’être un peu mieux.

TARTUFFE
Comment, de votre mal, vous sentez-vous remise?

ELMIRE
Fort bien; et cette fièvre a bientôt quitté prise.

TARTUFFE
Mes prières n’ont pas le mérite qu’il faut
Pour avoir attiré cette grâce d’en haut:
Mais je n’ai fait au Ciel nulle dévote instance
Qui n’ait eu pour objet votre convalescence.

ELMIRE
Votre zèle pour moi s’est trop inquiété.

TARTUFFE
On ne peut trop chérir votre chère santé ;
Et pour la rétablir, j’aurais donné la mienne.

ELMIRE
C’est pousser bien avant la charité chrétienne;
Et je vous dois beaucoup, pour toutes ces bontés.

TARTUFFE
Je fais bien moins pour vous, que vous ne méritez.

ELMIRE
J’ai voulu vous parler en secret, d’une affaire,
Et suis bien aise, ici qu’aucun ne nous éclaire83.

TARTUFFE
J’en suis ravi de même ; et sans doute84 il m’est doux,
Madame, de me voir, seul à seul, avec vous.
C’est une occasion qu’au Ciel j’ai demandée,
Sans que, jusqu’à cette heure, il me l’ait accordée.

ELMIRE
Pour moi, ce que je veux, c’est un mot d’entretien,
Où tout votre cœur s’ouvre, et ne me cache rien.

TARTUFFE
Et je ne veux aussi, pour grâce singulière,
Que montrer à vos yeux mon âme tout entière;
Et vous faire serment, que les bruits que j’ai faits85,
Des visites qu’ici reçoivent vos attraits,
Ne sont pas, envers vous, l’effet d’aucune haine,
Mais plutôt d’un transport de zèle qui m’entraîne,
Et d’un pur mouvement…

ELMIRE
Je le prends bien aussi,
Et crois que mon salut vous donne ce souci.

TARTUFFE (Il lui serre les bouts des doigts)
Oui, Madame, sans doute; et ma ferveur est telle…

ELMIRE
Ouf, vous me serrez trop.

TARTUFFE
C’est par excès de zèle.
De vous faire autre mal, je n’eus jamais dessein,
Et j’aurais bien plutôt…
(Il lui met la main sur le genou.)

ELMIRE
Que fait là votre main?

TARTUFFE
Je tâte votre habit, l’étoffe en est moelleuse.

ELMIRE
Ah! de grâce, laissez, je suis fort chatouilleuse.
(Elle recule sa chaise, et Tartuffe rapproche la sienne.)

TARTUFFE
Mon Dieu, que de ce point l’ouvrage est merveilleux!
On travaille aujourd’hui, d’un air miraculeux;
Jamais, en toute chose, on n’a vu si bien faire.

ELMIRE
Il est vrai. Mais parlons un peu de notre affaire.
On tient que mon mari veut dégager sa foi,
Et vous donner sa fille; est-il vrai, dites-moi?

TARTUFFE
Il m’en a dit deux mots: mais, Madame, à vrai dire,
Ce n’est pas le bonheur après quoi je soupire;
Et je vois autre part les merveilleux attraits
De la félicité qui fait tous mes souhaits.

ELMIRE
C’est que vous n’aimez rien des choses de la terre.

TARTUFFE
Mon sein n’enferme pas un cœur qui soit de pierre.

ELMIRE
Pour moi, je crois qu’au Ciel tendent tous vos soupirs,
Et que rien, ici-bas, n’arrête vos désirs.

TARTUFFE
L’amour qui nous attache aux beautés éternelles,
N’étouffe pas en nous l’amour des temporelles.
Nos sens facilement peuvent être charmés
Des ouvrages parfaits que le Ciel a formés.
Ses attraits réfléchis brillent dans vos pareilles:
Mais il étale en vous ses plus rares merveilles.
Il a sur votre face épanché des beautés,
Dont les yeux sont surpris, et les cœurs transportés;
Et je n’ai pu vous voir, parfaite créature,
Sans admirer en vous l’auteur de la nature,
Et d’une ardente amour sentir mon cœur atteint,
Au plus beau des portraits où lui-même il s’est peint.
D’abord j’appréhendai que cette ardeur secrète
Ne fût du noir esprit une surprise adroite;
Et même à fuir vos yeux, mon cœur se résolut,
Vous croyant un obstacle à faire mon salut.
Mais enfin je connus, ô beauté toute aimable,
Que cette passion peut n’être point coupable;
Que je puis l’ajuster avecque la pudeur,
Et c’est ce qui m’y fait abandonner mon cœur.
Ce m’est, je le confesse, une audace bien grande,
Que d’oser, de ce cœur, vous adresser l’offrande;
Mais j’attends, en mes vœux, tout de votre bonté,
Et rien des vains efforts de mon infirmité.
En vous est mon espoir, mon bien, ma quiétude:
De vous dépend ma peine, ou ma béatitude;
Et je vais être enfin, par votre seul arrêt,
Heureux, si vous voulez; malheureux, s’il vous plaît.

ELMIRE
La déclaration est tout à fait galante:
Mais elle est, à vrai dire, un peu bien surprenante.
Vous deviez, ce me semble, armer mieux votre sein,
Et raisonner un peu sur un pareil dessein.
Un dévot comme vous, et que partout on nomme…

TARTUFFE
Ah! pour être dévot, je n’en suis pas moins homme;
Et lorsqu’on vient à voir vos célestes appas,
Un cœur se laisse prendre, et ne raisonne pas.
Je sais qu’un tel discours de moi paraît étrange;
Mais, Madame, après tout, je ne suis pas un ange;
Et si vous condamnez l’aveu que je vous fais,
Vous devez vous en prendre à vos charmants attraits.
Dès que j’en vis briller la splendeur plus qu’humaine,
De mon intérieur vous fûtes souveraine.
De vos regards divins, l’ineffable douceur,
Força la résistance où s’obstinait mon cœur;
Elle surmonta tout, jeûnes, prières, larmes,
Et tourna tous mes vœux du côté de vos charmes.
Mes yeux, et mes soupirs, vous l’ont dit mille fois;
Et pour mieux m’expliquer, j’emploie ici la voix.
Que si vous contemplez, d’une âme un peu bénigne,
Les tribulations de votre esclave indigne;
S’il faut que vos bontés veuillent me consoler,
Et jusqu’à mon néant daignent se ravaler,
J’aurai toujours pour vous, ô suave merveille,
Une dévotion à nulle autre pareille.
Votre honneur, avec moi, ne court point de hasard;
Et n’a nulle disgrâce à craindre de ma part.
Tous ces galants de cour, dont les femmes sont folles,
Sont bruyants dans leurs faits, et vains dans leurs paroles.

De leurs progrès sans cesse on les voit se targuer;
Ils n’ont point de faveurs, qu’ils n’aillent divulguer;
Et leur langue indiscrète, en qui l’on se confie,
Déshonore l’autel où leur cœur sacrifie:
Mais les gens comme nous, brûlent d’un feu discret,
Avec qui pour toujours on est sûr du secret.
Le soin que nous prenons de notre renommée,
Répond de toute chose à la personne aimée;
Et c’est en nous qu’on trouve, acceptant notre cœur,
De l’amour sans scandale, et du plaisir sans peur.

Jean Auguste Dominique Ingres Luigi XIV a cena con da molière, 1837, 69×59  cm: Descrizione dell'opera | Arthive

Jean-Leon Gerome: XIV invita Molière per condividere la sua cena (1862) 

TARTUFO: (scorgendo Dorina si mette a parlare ad alta voce al suo servo che è di là) Lorenzo, riponete il cilicio e la disciplina e pregate il Cielo che v’illumini. Se viene qualcuno a cercarmi, io vado a visitare i carcerati, a distribuire le elemosine che ho raccolto. DORINA: (tra sé) Che affettazione! Che furfanteria! TARTUFO: Cosa desiderate?DORINA: Volevo dirvi… TARTUFO (tira fuori un fazzoletto) Oh Dio! vi prego, non parlate ancora, prendete questo fazzoletto. DORINA: Perché? TARTUFO: Copritevi il seno, ch’io non lo veda. Siffatti spettacoli offendono le anime e ispirano cattivi pensieri. DORINA: Allora siete facile alle tentazioni, la carne impressiona troppo i vostri sensi! Davvero non sapevo che vi venissero i calori. Per me, non sono così pronta a certe bramosie, e potrei vedervi nudo da capo a piedi: tutta la vostra pelle non riuscirebbe a tentarmi. TARTUFO: Abbiate un po’ di modestia quando parlate, altrimenti non mi resta che lasciarvi ai casi vostri. DORINA: No, no, sarò io a lasciarvi in pace. Ho solo due parole da dirvi. La signora scenderà qui a momenti, e vi chiede la cortesia di un breve colloquio. TARTUFO: Oh, molto volentieri. DORINA (tra sé) Come diventa dolce! Per me l’ho sempre detto e ci credo. TARTUFO: E verrà subito? DORINA: E’ lei, mi sembra. Sì, proprio lei. Vi lascio soli. TARTUFO: Sempre sia lodato il Cielo, per la sua infinita bontà, e possa sempre donarvi la salute del-l’anima e del corpo, e coprire di benedizione i vostri giorni, conforme al desiderio del più umile dei cuori ispirati dall’amor divino. ELMIRA: Vi sono obbligatissima per queste sante parole di augurio. Non vogliamo sederci, per stare più comodi? TARTUFO: (seduto) Vi siete dunque rimessa? ELMIRA: (seduta) Completamente guarita. La febbre ormai è scomparsa. TARTUFO: Le mie modeste preghiere non hanno il merito che occorre per poter dire d’aver ottenuto per voi la grazia celeste. Ma in tutte le mie suppliche c’era un pensiero per la vostra convalescenza. ELMIRA: Troppa pena s’è data per me la vostra devozione. TARTUFO: Mai abbastanza per la salute che più d’ogni altra mi è cara, e a tal segno, che avrei sacrificato volentieri la mia. ELMIRA: Tanta carità cristiana è veramente sublime: vi sono obbligatissima per la vostra bontà. TARTUFO: Faccio poco, molto meno di quanto non meritiate. ELMIRA: Volevo parlarvi in segreto, e sono tranquilla, perché qui nessuno ci ascolta. TARTUFO: Ne sono felice anch’io. E’ davvero una cosa dolcissima, signora, trovarmi qui da solo a sola, con voi. E’ un’occasione che ho invocato più volte dal Cielo, e sol ora mi è finalmente concessa. ELMIRA: Io per me non desidero che poche parole ma sincere, col cuore: non dovete nascondermi nulla. (Damide, senza farsi vedere, schiude lo sportello della credenza in cui s’è nascosto, per ascoltare il colloquio). TARTUFO: Anch’io desidero, grazie a Dio, di rivelarvi tutto il mio cuore. Il chiasso che ho fatto per visite che qui rendono omaggio alla vostra bellezza, vi giuro che non è stato mica per un risentimento contro di voi. Voglio dire che sono stato preso da un impeto di zelo, un moto sincerissimo… ELMIRA: Appunto, l’avevo capito che era così e credo che se vi date tanta pena è per la mia salvezza. TARTUFO (stringe la punta delle dita di Elmira) Certo, signora, certo, e mi sento così infervorato… ELMIRA: Oh, mi stringete troppo. TARTUFO: Eccesso di zelo, scusatemi, non pensavo minimamente di farvi male. Preferisco piuttosto… (Le mette la mano sulle ginocchia). ELMIRA: E questa mano che c’entra? TARTUFO: Palpavo il vestito, signora, che stoffa! ELMIRA: Oh, vi prego, lasciate: soffro tanto il solletico. (Elmira si ritrae con la sedia; Tartufo si fa più avanti). TARTUFO: (palpa lo scialle di Elmira) Oh Dio, che bello questo lavoro, che ricamo! Oggigiorno si è arrivati a dei veri miracoli. Cose mai viste, dico, in tutti i generi. ELMIRA: E’ vero. Ma torniamo al nostro discorso. Corre voce che mio marito voglia venir meno ai suoi impegni e darvi in isposa la figlia. E’ proprio vero? TARTUFO: Sì, mi ha detto qualcosa, ma, signora, se volete sapere la verità, non è questa la meta della mia beatitudine. Altrove, altrove io vedo l’incanto meraviglioso di quella felicità che desidero e spero. ELMIRA: Certo, voi non amate nessuna cosa di questa terra. TARTUFO: Oh, nel mio petto non c’è un cuore di sasso. ELMIRA: E invece io sono sicura che ogni vostra aspirazione è rivolta al Cielo e non si abbassa a desiderare nulla, quaggiù. TARTUFO: L’amore dell’eterna bellezza non può soffocare in noi gli amori terreni. Ai nostri sensi è così facile subire il fascino delle meravigliose creazioni di Dio. Il raggio divino si riflette negli esseri come voi, ma in voi sola risplende in tutta la sua rara magnificenza. Sul vostro volto ha profuso bellezze che abbagliano la vista, inebriano i cuori. E io non posso guardarvi, o creatura di perfezione, senza riconoscere in voi l’Autore dell’Universo, senza sentire il petto infiammato d’amore di fronte al più bel ritratto che Egli abbia mai dipinto a sua immagine e somiglianza. Dapprima ebbi timore che questo fuoco secreto fosse un astuto inganno del Maligno, e decisi perfino che dovevo fuggire il vostro sguardo. Vedevo in voi l’ostacolo vivente della mia salvazione. Ma poi compresi, finalmente, o adorabile bellezza! che in questa passione mia non può esserci ombra di colpa, che non c’è contraddizione con la mia purezza, e per questo sento che il mio cuore si può confidare. Sono stato troppo audace, lo ammetto, osando farvi offerta del mio cuore. Ma nelle mie preghiere ho rimesso tutto alla vostra bontà, e non mi aspetto nulla dalle mie povere forze. Siete voi la mia speranza, il mio bene, la mia pace, da voi attendo la dannazione o la beatitudine. Eccomi al vostro giudizio, signora: felice, se volete, o infelice, se a voi così piacerà. ELMIRA: Dichiarazione degna d’un perfetto corteggiatore. Ma a dirvi il vero, mi sorprende alquanto. Mi pare che dovreste armare meglio il vostro petto contro certi pensieri. Rifletteteci un po’: un sant’uomo come voi, col nome che vi siete fatto… TARTUFO: Sono un uomo di Chiesa, ma son sempre un uomo. E al cospetto delle vostre celestiali bellezze l’anima è conquistata e non ragiona più. Lo so, un discorso come questo, fatto da me, può sembrarvi strano. Ma, in fin dei conti, signora, io non sono un angelo; e se volete condannare la confessione che vi ho fatto, dovreste incolpare un po’ anche il fascino della vostra persona. Da quando vidi splendere questa luce più che umana, voi diventaste la regina dell’anima mia. L’ineffabile dolcezza del vostro sguardo divino superò l’ostinata resistenza del cuore. Fu più forte di tutto, preghiere, lacrime, digiuni: tutti i miei desideri si rivolsero a voi. E non ve l’hanno forse già detto mille volte i miei sguardi, i miei sospiri? Ora sono stato più esplicito, e vi ho parlato. Ah, se voi voleste considerare con un po’ di benevolenza le tribolazioni del vostro indegno servo, se voi foste così pietosa da consolar-mi un poco, se vi degnaste di scendere sino a me che son nulla, oh, in eterno io sentirei per voi, o creatura ineffabile, il culto sconfinato della mia devozione. La vostra virtù, accanto a me, non corre alcun rischio, non ha da temere disavventure da parte mia. Questi damerini di corte di cui s’invaghiscono le femmine agiscono senza discrezione e poi sono vanitosi, parolai, non fanno che menar vanto delle loro conquiste. Ogni minimo favore lo spiattellano a tutti. Non sanno tenere la bocca chiusa, e guai a fidarsi di questa gente che disonora l’altare dell’anima. Le persone come noi no: covano la fiamma in segreto e si può avere fiducia illimitata. L’amore per la nostra reputazione è una garanzia assoluta per la persona amata che solo in noi, se accetta la nostra offerta, può trovare l’amore senza lo scandalo e il piacere senza il timore.

BAROCCO ITALIANO


600.jpg
Cartina dell’Italia del ‘600

IL ’600 IN ITALIA

Il “barocco” si può definire come qualcosa che è ciò che non è, per meglio dire il “barocco” non è tutto ciò che prima costituiva un fatto artistico. Sua caratteristica, infatti, è il rifiuto del “classicismo”, quindi il rifiuto di come l’arte si era sviluppata sin dalle origini o sotto forma di stile “classico” o di contenuti ritenuti tali. Non per niente una delle caratteristiche di questo periodo è la “polemica tra antichi e moderni”, sottolineando la superiorità dei secondi di contro alla tradizionale superiorità dei primi.

Il suo nome deriva, secondo alcuni, da una perla irregolare, non sferica; secondo altri da un procedimento della scolastica che dava vita ad un “falso sillogismo”: proprio dal significato del nome, è evidente, infatti, che ciò che caratterizza il “barocco” è l’irregolarità (come la pietra) o lo stupore (come il falso sillogismo).

Collana di perle barocche coltivate in acqua dolce con chiusura in oro bianco - Julia's Pearls

Collana con pietre barocche

Già il “manierismo” della seconda metà del ’500, aveva messo in crisi le certezze rinascimentali: basti pensare a come Tasso, ridisegnando il poema epico sotto i dettami della Poetica aristotelica, lo aveva messo in crisi con squarci lirici ed elementi problematici, o ancora a Guicciardini che già aveva mostrato l’imprevedibilità del reale, per renderci conto di come questo processo culminerà in una mancanza di certezze, di punti di riferimento che porterà gli intellettuali del XVII secolo alla percezione del vuoto che circonda il loro rapporto con il mondo. Questa percezione di vuoto fornisce agli intellettuali la possibilità di “riempirlo” in vari modi, assai diversificati, che permettono la definizione di “barocco” ad autori lontanissimi tra loro, si pensi a Giovanbattista Marino e a Galileo Galilei per l’Italia, ma lo stesso può dirsi per tutta la letteratura europea (con le dovute eccezioni che vedremo in seguito).

Per una maggiore comprensione del barocco è bene non parlare di singoli autori, bensì cercare di capire, attraverso i generi, il modo in cui il barocco, da un punto di vista letterario, introduce novità destinate a rivoluzionare il modo di concepire la poesia, il poema, il romanzo, il teatro.

Il barocco in Italia

 La lirica

In Italia la lirica barocca trova come massimo esponente Giambattista Marino, tanto che si suole definirla marinismo. Egli non innova soltanto la poesia, ma anche lo “status” dell’intellettuale: ambizioso e spregiudicato riuscirà a fare del mestiere dell’intellettuale una vera e propria professione, “vendendosi”, se così si può dire, al migliore “offerente”. Non per niente si suole definire anche la sua vita barocca: falsario andò in prigione, fuggiasco, violento: come la sua poesia, anche la sua biografia è in eccesso.

File:Frans Pourbus the Younger - Portrait of Giovanni Battista Marino.jpg - Wikipedia

Frans Pourbus il Giovane: Ritratto di Giovanni Battista Marino (1621)

La lirica marinista possiede come fondamento i precetti dell’edonismo e della meraviglia (è del poeta il fin la meraviglia … chi non sa far stupir vada alla striglia). L’edonismo è strettamente legato alla capacità del poeta di suscitare “meraviglia” nel lettore: questo fatto dà vita a due aspetti fondamentali:

  • la poesia si rivolge ad un pubblico e ne deve rispettare le attese;
  • la “meraviglia” si ottiene con soluzioni formali inattese, da suscitare stupore per la “bravura” tecnica del poeta.

Sul piano retorico pertanto la lirica marinista adotta i concetti e le acutezze (originali combinazioni ed estensioni dei significati delle parole), ma soprattutto la figura della metafora. Ne deriva un’arte puramente cerebrale, il cui scopo è quello di lavorare fondamentalmente sul significante.

Prendiamo, ad esempio, questo sonetto, ricco di reminiscenze della letteratura classica e petrarchesche e come egli le reinterpreta facendone qualcosa di “nuovo” e “meraviglioso”:

TRANQUILLITA’ NOTTURNA

Pon mente al mar, Cratone, or che ’n ciascuna
riva sua dorme l’onda e tace il vento,
e Notte in ciel di cento gemme e cento
ricca spiega la veste azzurra e bruna.

Rimira ignuda e senza nube alcuna
nuotando per lo mobile elemento,
misto e confuso l’un con l’altro argento,
tra le ninfe del ciel danzar la Luna.

Ve’ come van per queste piagge e quelle
con scintille scherzando ardenti e chiare,
volte in pesci le stelle, i pesci in stelle.

Sì puro il vago fondo a noi traspare

che fra tanti dirai lampi e facelle:
Ecco in ciel cristallin cangiato il mare.

Guarda attentamente il mare, Cratone, ora che in ogni / suo punto riposa l’onda e tace il vento, / e la notte, tempestata di infinite stelle, / distende nel cielo la sua veste color azzurro cupo. // Osserva con attenzione (la luna) nuda e senza essere velata dalle nuvole / nuotando nel mare, misto tra il colore argento dei due elementi, / danzare tra le stelle del cielo. // Vedi come vanno per questi tratti di mare e di cielo, scherzando con le scintille brillanti e chiare, le stelle trasformate in pesci e i pesci in stelle. // Ci appare a noi così puro il bel fondo, che dirai tra tante luci e fiaccole: “Ecco il mare, mutato in un cielo cristallino”.

MARINO (Giambattista), Rime (1606) - Fondation Barbier-Mueller pour l'étude de la poésie italienne de la Renaissance

Edizione delle Rime di Marino del XVII sec.

Abbiamo qui, infatti, l’uso della “metafora continuata”: se il cielo per colore e immensità è metafora dello spazio marino, è normale che a sua volta quest’ultimo diventi metafora della volta celeste; ne consegue che la luce che appare nel cielo e riflette se stessa nel mare, illumina d’argento i dorsi dei pesci, ma anche il chiarore “argenteo” delle stelle. Quindi i due si confondono: non esistono più due entità, ma la metamorfosi d’entrambi (da qui la meraviglia del lettore).

La metafora continuata appare anche in quest’altro testo di Marino:

DONNA CHE SI PETTINA

Onde dorate, e l’onde eran capelli,
navicella d’avorio un dì fendea;
una man pur d’avorio la reggea
per questi errori preziosi e quelli;

e, mentre i flutti tremolanti e belli

con drittissimo solco dividea,
l’òr delle rotte fila Amor cogliea,
per formarne catene a’ suoi rubelli.

Per l’aureo mar, che rincrespando apria

il procelloso suo biondo tesoro,
agitato il mio core a morte gìa.

Ricco naufragio, in cui sommerso io moro,
poich’almen fur, ne la tempesta mia,
di diamante lo scoglio e ’l golfo d’oro!

Onde dorate e le onde erano i capelli / un giorno una navicella d’avorio fendeva; / la guidava una mano d’avorio / in questi e quei viaggi fra le onde preziose; // e mentre le onde tremolanti e belle / divideva con un nettissimo solco / Amore raccoglieva l’oro dei capelli spezzati / per formare così catene a chi si ribella. / Per il biondo mare, che increspandosi apriva / il tempestoso suo biondo tesoro, / il mio cuore agitato andava verso la morte. // Ricco naufragio,  nel quale io sommerso muoio; / perché almeno furono, nella mia tempesta / lo scoglio di diamante ed il golfo d’oro.

In questo sonetto, infatti, al di là di ciò che rappresenta di scenografico, con colori accecanti e sgargianti – bianco, biondo, oro – ciò che colpisce è che la metafora, che come nell’altro testo, esplicitata nel primo verso, viene rispettata nell’intero dettato poetico, per cui se le onde sono metafora dei ricci dei capelli della donna, quest’ultimi sono a loro volta metafora delle onde.

Un altro elemento fortemente presente nella poesia del napoletano è la sensualità: essa, seppur suscita scalpore, non s’allontana da una parte dal concetto amore pagano, dall’altra della donna colta in movimento, come in questo piccolo madrigale (piccolo componimento con tema pastorale):

Rubens: Venere allo specchio (1612)

NINFA MUNGITRICE

Mentre Lidia premea
dentro rustica coppa
a la lanuta la feconda poppa,
i’ stava a rimirar doppio candore,
di natura e d’amore;
né distinguer sapea
il bianco umor da le sue mani intatte,
ch’altro non discernea che latte in latte.

Mentre Lidia strizzava alla pecora la mammella ricca di latte in un rustico secchio, io guardavo con attenzione al duplice biancore del latte e della donna, e non sapevo riconoscere il colore del latte da quello delle sue pure mani, da non distinguere che l’identico colore bianco in ambedue (latte e mani)

Dove continua ad esser presente il concetto metamorfico della bianchezza lattea della donna, ma che qui viene “concettualizzato” nell’arguzia finale della confusione nella distinzione dell’uno o dell’altro.

Come abbiamo sinora visto la poesia marinista ha, come oggetto precipuo del suo cantare più che l’oggetto, lo sguardo di chi lo vede; e cioè l’atto del guardare (e quindi d’indagare) a farsi vero protagonista. A tale scopo non poteva mancare una raccolta (Galeria, 1620) in cui l’arte rappresenta se stessa (e non più la realtà):

LUCREZIA

Donna, a torto ti dié l’etate antica
titolo di pudica;
ché, se quel sen piegasti
che fu d’osceno amar sozzo ricetto
non già però lasciasti
di goderne illegittimo diletto.
Se volevi lodata esser da noi,
dovevi prima ucciderti e non poi.

Lucrezia, immeritatamente l’età antica ti attribuì la fama di pudica, perché seppure t’uccidesti colpendoti in quel ventre che fu un immondo ricettacolo di un osceno amore (violenza sessuale), non hai tuttavia tralasciato di goderne in illegittimo piacere. Se volevi che noi ti essere lodata da noi, dovevi ucciderti prima, non dopo.

File:Lucretia by Artemisia Gentileschi.jpg - Wikipedia

Artemisia Gentileschi: Lucrezia (1625)

Il piccolo madrigale infatti, al di là del tema e il modo in cui è condotto, certamente poco ortodosso, si basa sulla visione che Marino fa di un quadro rappresentante la donna romana. Come già abbiamo visto in Tasso, nel giardino d’Armida, quando Rinaldo beve la bellezza di lei riflessa in uno specchio e quell’immagine a fornire l’altra realtà, così come in Marino è il quadro ad essere oggetto di poesia.  

La meraviglia, oltre che sul piano formale si ottiene anche grazie all’allargamento del poetabile. Ad esempio, per quanto riguarda la figura femminile, essa si frantuma sia da un punto di vista corporeo che tipologico:

  • vengono scritte poesia sugli occhi, sulle mani, sui capelli biondi, neri, rossi etc., sui piedi e via discorrendo;
  • donne brutte, pidocchiose, nell’atto di cucire, di lavorare la terra etc. etc.
  • da ciò si deduce un consapevole e ricercato antipetrarchismo.

Per quest’ultimo aspetto prendiamo ad esempio una poesia di un minore, che tuttavia è indicativa di un certo gusto: 

Toilette della bella nana another 2 works par Enrico Albricci sur artnet

Enrico Albricci: Toilettes della bella nana (XVIII sec.)

GIOVAN LEONE SEMPRONIO
LA BELLA NANA

Per ascender al ciel folli giganti
fecer col gran Tonante alte contese;
e per far guerra a mille cori amanti
la bella nana mia dal ciel discese.

E certo la fe’ tal destin cortese,
perché, qualor mi s’offerisce avanti,
del corpo suo con le mie luci accese
tutti io rimiri ad un sol guardo i vanti.

Ma convien, per veder fra quai confini
ha posti il paradiso i suoi tesori,
che gli altri inalzin gli occhi, e ch’io li chini.

E s’io vo’ vagheggiar la dea de’ cori,
non la posso mirar ch’io non m’inchini,
né mi posso inchinar, ch’io non l’adori

Per salire al cielo i folli giganti / fecero contro Giove tonante grandi battaglie; / e per fare la guerra a mille cuori amanti / la mia bella nana scese dal cielo. // E certo la rese tale un destino gentile / perché ogni volta che mi appare davanti / con i mei occhi accesi del corpo suo / tutte le bellezze io osservi con un solo sguardo. // E’ necessario, per vedere fra quali confini / il paradiso ha posto i suoi tesori, / che gli altri alzino gli occhi, e che invece io li chini. // E se io voglio desiderare la dea dei cuori, / non la posso osservare se non m’inchino, / né mi posso inchinare che io non l’adori.

Se il fine è quello di suscitare meraviglia nel lettore attraverso gli strumenti retorici più raffinati e l’allargamento del poetabile, è evidente che i poeti marinisti non lasciano spazio ad interessi ideali o morali, per meglio dire questi due aspetti sono del tutto assenti.

Se i temi morali ed ideali sono spenti, non lo è altrettanto il tema della morte. L’estetica barocca, come già detto, si rivolge al pubblico ed è quindi non “eterna” come quella classica, ma transuente, destinata perciò a morire. Tale concetto trova espressione nell’immagine dell’orologio:Il tempo fugace e la caducità della vita secondo Time e Ciro di Pers - Il Superuovo

CIRO DI PERS
OROLOGIO A RUOTE

Mobile ordigno di dentate rote
lacera il giorno e lo divide in ore,
ed ha scritto di fuor con fosche note
a chi legger le sa: sempre si more.

Mentre il metallo concavo percuote,
voce funesta mi risuona al core;
né del fato spiegar meglio si puote
che con voce di bronzo il rio tenore.

Perch’io non speri mai riposo o pace,
questo, che sembra in un timpano e tromba,
mi sfida ognor contro all’etá vorace.

E con que’ colpi onde ’l metal rimbomba,
affretta il corso al secolo fugace,
e perché s’apra, ognor picchia alla tomba.

Congegno mobile di ruote dentate / scandisce il giorno e lo divide in ore / e porta scritto sul quadrante in caratteri tristi / per chi li sa interpretare: si muore ogni momento. // Mentre percuote la campana con il suo martello / una voce triste mi riecheggia nel cuore; / e non si può spiegare meglio la natura malvagia del fato / che con questa voce cupa del bronzo. // Affinché io non possa aspirare mai ad un vero riposo o a una vera pace, / questo oggetto, che assomiglia a un timpano e a una tromba, / mi costringe continuamente a battermi contro il tempo. // E con quei colpi che fanno risuonare il metallo, / accelera la corsa del tempo già di per sé fugace, / e picchia continuamente sulla pietra tombale affinché si apra.Tipi di orologio creati tra XIV - XVI secolo ed evoluzione -

Orologio della prima metà delo ‘600

Questo celebre sonetto “descrive”, attraverso il meccanismo dell’orologio, il trascorrere del tempo; riflettendo su questo tema emerge il concetto fortemente controriformistico del Memento mori. Non troviamo in esso un proliferare di metafore, quanto piuttosto un andamento analitico che sembra ripercorrere nel primo verso uno stile maggiormente “scientifico”, per poi abbandonarsi ad una tematica riflessiva: tale riflessione viene sottolineata dall’utilizzo di termini forti come “lacera”, “fosche”, “funeste”, “fugace”. Tutto il sonetto tuttavia sembra convergere nel verso finale, di stile concettoso, in cui il battagio picchia sulla tomba. 

Il poema epico

Il poema epico, pur presente nel ’600 italiano con gli stanchi epigoni del Tasso, si sgretola, se non nella forma nel contenuto, grazie ad Alessandro Tassoni con La secchia rapita (1630) e Giambattista Marino con l’Adone (1623).

Alessandro Tassoni è consapevole di aver scritto un’opera di “nuova spezie” in quanto narra “un’impresa mezzo eroica e mezzo civile” ed è scritta in due stili “grave e burlesco”. Il nuovo genere inaugurato da Tassoni è il poema eroicomico: esso parte da un fatto storico svoltosi negli ultimi anni dell’Impero di Federico II, una rissa tra bolognesi e modenesi, ma non ne rispetta la cronologia.

Caratteristiche principali del poema sono:

  • rovesciamento parodico delle virtù eroiche dei cavalieri e delle eroine (il conte di Culagna vs Tancredi e Renoppia vs Clorinda);
  • mescolanza stilistica che dà vita ad un plurilinguismo tipicamente barocco.

La secchia rapita poema eroicomico di Alessandro Tassoni patrizio modenese, colle dichiarazioni di Gaspare Salviani romano, s?aggiungono la prefazione, e le annotazioni di Giannandrea Barotti ferrarese, le varie lezioni de? testi a penna, e di molte edizi

Edizione del 1744

Come assaggio dello stile e dell’intento di Tassoni prendiamo un brano in cui si racconta una disavventura del Conte di Culagna:

LA SECCHIA RAPITA

Il conte in fretta mangia e si diparte,
ché non vorria veder la moglie morta.
Vassene in piazza ov’eran genti sparte
chi qua, chi là, come ventura porta.
Tutti, come fu visto, in quella parte
trassero per udir ciò ch’egli apporta.
Egli cinto d’un largo e folto cerchio
narra fandonie fuor d’ogni superchio.

E tanto s’infervora e si dibatte
in quelle ciance sue piene di vento,
ch’eccoti l’antimonio lo combatte
e gli rivolta il cibo in un momento.
Rimangono le genti stupefatte;
ed egli vomitando, e mezzo spento
di paura, e chiamando il confessore,
dice ad ognun ch’avvelenato more.

Il Coltra e ‘l Galiano, ambi speziali,
correan con mitridate e bollarmeno,
e i medici correan con gli orinali
per veder di che sorte era il veleno.
Cento barbieri e i preti co i messali
gl’erano intorno e gli scioglieano il seno,
esortandolo tutti a non temere
e a dir devotamente il Miserere.

Chi gli ficcava olio o triaca in gola,
e chi biturro o liquefatto grasso;
avea quasi perduta la parola,
e per tanti rimedi era già lasso:
quand’ecco un’improvisa cacarola
che con tanto furor proruppe a basso,
che l’ambra scoppiò fuor per gli calzoni
e scorse per le gambe in su i taloni.

– O possanza del ciel, che cosa è questa?
disse un barbier quando sentí l’odore;
questo è un velen mortifero ch’appesta,
io non sentii giammai puzza maggiore.
Portatel via, che s’egli in piazza resta,
appesterà questa città in poche ore. –
cosí dicea, ma tanta era la calca,
ch’ebbe a perirvi il medico Cavalca.

Come a Montecavallo i Cardinali
vanno per la lumaca a concistoro
stretti da innumerabili mortali
per forza d’urti e con poco decoro;
cosí i medici quivi e gli speziali
non trovando da uscir strada né fòro,
urtati e spinti, senza legge e metro
facean due passi innanzi e quattro indietro.

Ma poiché l’ambracane uscí del vaso
e ‘l suo tristo vapor diffuse e sparse;
cominciò in fretta ognun co’ guanti al naso
a scostarsi dal cerchio e a ritirarse;
e abbandonato il conte era rimaso,
se non ch’un prete allor quivi comparse,
ch’avea perduto il naso in un incendio,
né sentia odore; e ‘l confessò in compendio.

Confessato che fu, sopra una scala
da piuoli assai lunga egli fu posto,
e facendo a quel puzzo il popol ala,
il portâr due facchini a casa tosto:
quivi il posaro in mezzo de la sala,
chiamaro i servi, e ognun s’era nascosto;
fuor ch’una vecchia, che v’accorse in fretta
con un zoccolo in piede e una scarpetta.

Alessandro Tassoni: biografia e opere | Studenti.it

Alessandro Tassoni

Il Conte mangia in fretta e s’allontana / perché non vorrebbe vedere la moglie morta. / Va in una piazza dove ci sono persone sparse / da una parte e dall’altra, come girassero a caso. / Tutti, appena lo videro, in quella parte (dove lui era) / si portano, per ascoltare le notizie che egli porta / Egli, circondato da ogni parte da una folta massa di persone / racconta fandonie che superano qualsiasi eccesso; // E tanto si eccita e si agita / in quei suoi discorsi pieni di bugie / che subito l’antimonio comincia a disturbarlo / e gli sconvolge in un attimo il cibo nel ventre. / Rimangono le persone stupefatte; / ed egli vomitando, e mezzo morto / di paura, e chiamando il confessore / afferma che egli sta morendo avvelenato. // Coltra e Damiano, entrambi farmacisti, / correvano con medicamenti / e dottori s’avvicinavano con gli orinali / per scoprire di che tipo fosse il veleno ingerito. / Cento barbieri e i preti con il messale / lo attorniano e gli liberano il petto / esortando tutti a non temere / e a dire con devozione “Miserere”. // Chi gli faceva ingerire olio e triaca / e chi burro o grasso sciolto. / Aveva quasi perso la parola, / e per i tanti medicinali era ormai sfinito; / quand’ecco un’improvvisa cacarella / che con tanta irruenza scoppiò in basso, / che il profumo scoppiò fuori i calzoni / ed uscì attraverso le gambe fino ai talloni. // “Oh, potenza del cielo! Cos’è questo?” disse un barbiere quando sentì la puzza: / “questo è un veleno mortifero che appesta; / io non ho mai sentito puzza maggiore. / Portatelo via; che se egli resta in piazza, / appesterà tutta la città in poche ore”. / Così diceva: ma tanta era la calca, / che il medico Cavalca corse in pericolo di vita. // Come i cardinali nel Quirinale / vanno nel concistoro sulla scala a chiocciola / stretti fa innumerevoli persone / a forza di spinte e con poco decoro, / così qui i medici e gli speziali / non trovando il modo per uscire dalla calca / urtati e spinti, senza ordine e misura / facevano due passi avanti e quattro indietro. // Ma poiché la cacca uscì dal corpo / diffuse e mandò nell’aria il suo pestifero puzzo / tutti subito si portarono il guanto al naso / e ad allontanarsi dal cerchio e a ritirarsi / ed il Conte rimase solo: se non che un prete che qui allora comparse / in quanto aveva perduto il naso in un incendio. // Dopo aver ricevuto l’assoluzione, sopra una scala / a pioli molto lunga fu messo; / e, facendo la folla ala a quel gran puzzo / due facchini lo portarono subito a casa. / Qui lo posero in mezzo ad una sala; / chiamarono i servi, ma tutti si erano nascosti / ad eccezione d’una vecchia che accorse subito / con ai piedi uno zoccolo ed una scarpetta.

 

Per quanto riguarda l’Adone il disfacimento del poema epico è svolto con maggiore evidenza. Vediamone la trama:

Amore vuole vendicarsi con sua madre Venere che l’ha picchiato e Apollo gli consiglia di farla innamorare di Adone, dunque fa in modo che il giovane arrivi a Cipro, dimora della dea. Venere incontra Adone e, colpita dalla freccia di Amore, si innamora del giovane; lo osserva mentre dorme e lo sveglia con un bacio, quindi si fa medicare il piede ferito da una rosa. Così anche Adone s’infatua della dea. Quindi i due iniziano un percorso di conoscenza. I due amanti visitano i giardini della vista e dell’odorato: il primo permette all’autore una descrizione dell’occhio, di una galleria di pitture e la narrazione della storia del pavone, il secondo invece la descrizione del naso, dell’orto dei profumi e della vita di Amore. Si visitano i giardini dell’udito, con la descrizione dell’orecchio, di un’uccelliera e del giardino della musica, e poi del gusto, con la descrizione dell’orto fruttifero, della bocca. Giunti nel giardino del tatto, Venere e Adone vengono uniti in matrimonio da Mercurio. Consumato il matrimonio in una piccola stanza, proseguono con diletto la loro vita matrimoniale. Passano dai piaceri dei sensi a quelli dell’intelletto. Sotto la guida di Mercurio i due sposi passano a visitare i tre cieli tolemaici iniziando dalla Luna dove il dio accompagnatore, prendendo spunto dalle macchie che si vedono, tesse le lodi di Galileo. Raggiunto il cielo di Venere vedono passare in rassegna le donne più celebri del futuro. Gelosia avvisa Marte della vita felice della coppia e questi dalla sua reggia (descritta) si precipita a Cipro. Venere fa fuggire Adone, dandogli un anello contro cui non valgono incanti e che lo manterrà fedele. Una ninfa conduce Adone alla dimora sotterranea della maga Falsirena. Questa tende insidie amorose al giovinetto che, sempre fedele a Venere, tenta la fuga ed è imprigionato. Gli è sottratto l’anello fatato, ma gli appare Mercurio e gli spiega le insidie che ancora lo aspettano. Trasformato per sbaglio dalla stessa Falsirena in pappagallo, può volare via dalla prigione. In questa forma si sottrae, grazie a Mercurio, ad un agguato di Vulcano e assiste agli amori di Marte e Venere nel giardino del tatto. Su consiglio di Mercurio torna nel regno sotterraneo di Falsirena per recuperare la forma prima e il suo anello, ma contro il monito del suo consigliere sottrae a Falsirena anche le armi di Meleagro, che portano morte. Ritrova Venere sotto specie di zingara che gli legge la mano: nuova occasione per metterlo in guardia contro i pericoli della caccia. I due tornano agli amori. Per distrarlo dalla noia incipiente Venere propone una partita a scacchi Adone vince, anche se con la frode, e si guadagna così il regno di Cipro: premio che accetta, ma potere che non intende esercitare. Adone partecipa al concorso di bellezza attraverso i quale si intende eleggere il re di Cipro. Pur vincendo la prova perde il pegno della vittoria, che gli è conferita solo dopo una serie di riconoscimenti. Venere subito lo distoglie dal regno a favore dei soliti trastulli. Venere deve essere presente alle feste che si danno a Citera in suo onore. Adone le strappa la concessione di poter cacciare nel parco di Diana. Durante il viaggio Venere tenta inutilmente di far conferire l’immortalità ad Adone. Marte tende ad Adone un agguato nel parco, coadiuvato da Diana: irritano un cinghiale contro Adone. Questi lo affronta con le armi di Meleagro, fatali a chi le porta, e per di più colpisce la belva con una freccia di Cupido, infondendogli furia amorosa. Un vento che scopre la coscia di Adone eccita la fiera al bacio e all’amoroso assalto in cui gli morde l’anca. Venere avvisata accorre e assiste alla morte del suo amato, piangendolo a lungo. Si cerca e si processa il cinghiale, che viene assolto, intese le ragioni amorose che l’hanno mosso. Si celebrano i funerali. Venere trasforma il cuore di Adone in anemone e indice tre giorni di giochi in onore del defunto.
  • Rimane, per definirlo poema epico, solo il dato formale, la divisione in canti e l’utilizzo dell’ottava;
  • il confronto che l’autore istituisce consapevolmente con il Tasso porta a rivelarne alcuni aspetti fondamentali: non più un poema di guerra, ma un poema d’amore; non più Virgilio come riferimento, ma Ovidio.
  • Al nucleo tematico originario (l’amore tra Adone e Venere) che costituisce il filo rosso dell’immenso poema, Marino aggiunge una lunga serie di digressioni che fanno del poema stesso una vera e propria enciclopedia che compendiava tutto il sapere secentesco.
  • La direzione principale che sorregge l’opera è quella dell’erotismo e della sensualità, che si traduce, nei versi, in un’immaginazione sbrigliata ed accesa, in cui primeggia la descrizione coloristica e lussureggiante che mostra il poeta in adorazione estatica verso la realtà del suo tempo che viene trasfigurata attraverso l’arte.
  • Se l’arte supera o modella la natura, Marino utilizzerà uno stile che, come nella sua lirica, vedrà il trionfo del significante sul significato. Ma anche di uno stile che si conformava alle attese di un’aristocrazia che si voleva raffinata e preziosa. Ancora una volta Marino fa del pubblico il suo vero giudice.
  • Tuttavia l’importanza del poema sta nella filosofia di fondo che lo sottende: Marino figlio del suo tempo, non è esente dalle sollecitazioni che il pensiero scientifico allora propugnava: anche i suoi eroi devono sperimentare attraverso i sensi (gusto, tatto, olfatto, vista, udito) la conoscenza del reale, che si traduce poi in un’estrema voluttà del piacere. Non per niente l’opera verrà messa all’indice dalla Chiesa controriformista.

A dimostrazione di come Marino, pur trattando una genere epico, assai diverso dalla lirica, persegua nei suoi artifici retorici , è utile riferirci a questo celeberrimo passo:

Venere e Adone (Tiziano New York) - Wikipedia

Tiziano: Venere e Adone

ELOGIO DELLA ROSA

Rosa riso d’amor, del ciel fattura,
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
dela terra e del sol vergine figlia,
d’ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor del’odorifera famiglia,
tu tien d’ogni beltà le palme prime,
sovra il vulgo de’ fior donna sublime.

Quasi in bel trono imperadrice altera
siedi colà su la nativa sponda.
Turba d’aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia dintorno e ti seconda
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto
porti d’or la corona e d’ostro il manto.

Porpora de’giardin, pompa de’ prati,
gemma di primavera, occhio d’aprile,
di te le Grazie e gli Amoretti alati
fan ghirlanda ala chioma, al sen monile.
Tu qualor torna agli alimenti usati
ape leggiadra o zefiro gentile,
dai lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.

Non superbisca ambizioso il sole
di trionfar fra le minori stelle,
ch’ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle,
egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu sole in terra, ed egli rosa in cielo.

big_Moneghini-0444 58x72.jpg

Giuseppe Volò: Natura morta con rose e biscotti (XVII sec.)

Rosa, sorriso di amore, creatura del cielo, / rosa divenuta rossa per il mio sangue, / decoro del mondo e ornamento della natura, / vergine figlia della terra e del sole, / delizia e preoccupazione di ogni ninfa e pastore, / vanto della profumata famiglia (dei fiori), / tu sei la prima in bellezza, / signora eccelsa trai fiori comuni. // Come una imperatrice su di un bel trono / tu stai là dove sei nata. / Un vorticare dolce e piacevole di brezze  / ti muove intorno come una corte e ti segue / e una schiera armata di guardie pungenti / ti protegge e ti circonda. / E tu orgogliosa della tua dignità regale / porti una corona d’oro e il manto di porpora. // Rosso  dei giardini, orgoglio dei prati / germoglio  di primavera, luce  di aprile, / di te le Grazie e gli Amoretti alati / fanno ghirlande per i capelli , gioielli  per il  seno. / Tu quando  tornano a suggere gli alimenti consueti / un’ape gentile o un venticello leggero / offri loro da bere in un calice (rosso) come il rubino / gocce di rugiada e di nettare. // Non si inorgoglisca il sole ambizioso / di troneggiare fra le stelle minori, / perché tu fra i ligustri e le viole / mostri le tue grazie superbe e belle. Con le tue bellezze incomparabili / tu sei lo splendore dei campi della terra, il sole di quelli del cielo, / egli nella sua orbita, tu sul tuo stelo / tu sole in terra, lui rosa in cielo.

Infatti anche qui, come in Onde dorate vi è la “metafora continuata”: infatti se la rosa è la regina dei fiori, le sue spine sono diventano le guardie, i venti il corteggio e gli stami la corona. Ancora è da sottolineare la “non celata” bravura che egli manifesta nel descrivere la rosa: sono ben sette i modi in cui la definisce: riso, fattura, pregio, fregio, delizia e cura, onor, donna; è palese l’intento agonistico del poeta rispetto alla tradizione.

Eppure, in questo poema, non mancano spunti legati alla speculazione scientifica-filosofica; si veda qui un altro famosissimo passo dell’Adone in cui il poeta elogia Galilei e le sue scoperte scientifiche:

ELOGIO DI GALILEO

Tempo verrà che senza impedimento
queste sue note ancor fien note e chiare,
mercé d’un ammirabile stromento
per cui ciò ch’è lontan vicino appare
e, con un occhio chiuso e l’altro intento
specolando ciascun l’orbe lunare,
scorciar potrà lunghissimi intervalli
per un picciol cannone e duo cristalli.

Del telescopio, a questa etate ignoto,
per te fia, Galileo, l’opra composta,
l’opra ch’al senso altrui, benché remoto,
fatto molto maggior l’oggetto accosta.
Tu, solo osservator d’ogni suo moto
e di qualunque ha in lei parte nascosta,
potrai, senza che vel nulla ne chiuda,
novello Endimion, mirarla ignuda.

E col medesmo occhial, non solo in lei
vedrai dapresso ogni atomo distinto,
ma Giove ancor, sotto gli auspici miei,
scorgerai d’altri lumi intorno cinto,
onde lassù del’Arno i semidei
il nome lasceran sculto e dipinto.
Che Giulio a Cosmo ceda allor fra giusto
e dal Medici tuo sia vinto Augusto.

E verrà un giorno che senza alcuna fatica / queste sue caratteristiche (della luna) saranno ancora più chiare e conosciute / grazie ad un straordinario strumento / per cui ciò che è lontano appare vicino / e con un occhio chiuso e l’altro intento all’osservazione / studiando alcuno il pianeta della luna / potrà avvicinarlo per un piccolo cannocchiale e due lenti (poste all’estremità) // Del telescopio, ignoto in questa età, / per te, Galileo, sarà l’opera intrapresa / l’opera che al senso della vista di ciascuno, benché lontano, / avvicina l’oggetto in modo molto maggiore. / Tu solo, osservatore di ogni suo movimento circolare, / e di qualunque parte in lei nascosta / potrai, senza che alcun velo possa coprirla / nuovo Endimidione (mitico personaggio che la luna, ogni notte, scendeva a baciare) vederla nuda. // E con lo stesso occhiale non solo vedrai in lei / da vicino ogni atomo distinto / ma sotto i miei auspici (è Marte che parla) di Giove / altri satelliti scorgerai (scoperti da Galilei, che li chiamò Medicei) che gli girano intorno. / Che Giulio Cesare ceda il posto a Cosimo II (granduca di Toscana) è cosa giusta, e dal tuo Medici sia vinto Augusto.

 

La prosa

Se l’esperienza poetica, sul nostro versante, appare un po’ deludente alla luce degli splendidi risultati ottenuti dalle altre letterature europee, diverso è il discorso sulla prosa, dove troviamo un panorama assai ricco e variegato che tocca tutti gli aspetti del reale: la prosa scientifica di Galileo Galilei, quella politica di Torquato Accetto, quella storiografica di Paolo Sarpi ed infine quella filosofica di Tommaso Campanella. A ciò e necessario aggiungere la produzione assai ricca di veri e propri romanzi cavallereschi o mitologici.

Prima di addentrarci sul discorso dell’autore più rappresentativo dell’intero ‘600, Galileo Galilei, occorre spiegare il motivo per cui nasce e si sviluppa nell’intero continente una “curiosità scientifica”, apportatrice di grandissime novità.

Sappiamo che nel Medioevo fino al ‘500 ogni disciplina  era ricondotta alla teologia: era quest’ultima, infatti a raccogliere al suo interno ogni forma di sapere, perché, attraverso essa, si riusciva a concepire il reale e quindi la natura, come unico disegno della volontà creatrice. Il metodo, era quello deduttivo: si parte da un presupposto generale o da un sillogismo, riconosciuta la sua validità, se ne deduce la validità di tutto ciò che ne consegue. Tale metodo entra in crisi perché:

  • la scoperta dell’America che mette in luce come la visione scientifica derivata da quella aristotelica e quindi cristianizzata non poteva spiegare ciò che al tempo della sua speculazione “non esisteva”;
  • le nuove tecnologie che mettono nelle mani strumenti capaci di “vedere” e quindi “indagare” cose prima “invisibili” e di conseguenza “inindagabili”;
  • la scoperta della circolazione del sangue da parte di William Harvey (1578-1657);
  • il bisogno degli stati di tecnologie sempre più raffinate per i loro allargati traffici commerciali e per le esigenze belliche.

Affinché potesse nascere pertanto una nuova capacità scientifica era necessaria una rivoluzione sia epistemologica (cioè sul piano delle conoscenze scientifiche), sia metodologia (ossia sugli strumenti attraverso cui tali conoscenze si raggiungono). Tali principi portarono a:

  • la delimitazione del campo della ricerca ai fenomeni sensibili;
  • la definizione di scienza come metodo sperimentale, fondato sulla conoscenza diretta della natura;
  • esplicitazione di un metodo scientifico che fosse svincolato dalla filosofia e quindi da qualsiasi astrazione metafisica.

Ciò porta a considerare la natura non come frutto di una creazione trascendentale, ma come fenomeno immanente, in cui l’uomo non è che uno dei fenomeni (tramonto anche della centralità dell’uomo umanistico/rinascimentale) ed è traducibile (intuizione galileiana) in termini matematici, quindi in dati oggettivi e verificabili. Si sposta pertanto il compito dello scienziato: un tempo si cercava il perché finale e metafisico dei fenomeni, ora si tratta di spiegare il come del loro essere: per questo bisogna verificare le cose attraverso l’esperienza diretta, da qui la scienza sperimentale. Da ciò si deduce che viene a cessare la differenza tra sapere teorico e sapere pratico, dipendendo il primo dal secondo e quindi la scoperta della “tecnica” che permette a sua volta una conoscenza per l’appunto sperimentale (Galilei,  durante il soggiorno a Venezia, grazie alla specialissima abilità dei vetrai di Murano, poté perfezionare il cannocchiale e il microscopio).

Bacon, Copernico, Galilei, Descartes

Prima d’addentrarci nello scienziato Galilei, vediamo l’apporto, fondamentale per capire il nostro metodo scientifico, come i tre grandi pensatori secenteschi lo elaborarono:

  • Francis Bacon: filosofo inglese (1561-1626) che applica un metodo induttivo sperimentale (metodo che muove dallo studio delle esperienze sensibili per arrivare ad una definizione generale ed universale). Dal latino inducere, cioè condurre, trarre per mezzo del particolare. Si trattava, infatti, di catalogare dei dati sensibili in tavole comparative da cui risalire alle cause prime dei fenomeni;
  • René Descartes: filosofo francese (1596-1650). La sua ambizione è quella di rifondare l’intero sistema del sapere su basi razionaliste. Bisognava, per lui, non accettare nulla che non fosse da lui personalmente meditato, quindi ripensare il tutto sulla base della sua soggettiva capacità raziocinante. Affinché ciò sia possibile bisogna partire dalle cose più semplici che potessero arrivare alla mente vergine in modo irrefutabile. Quindi partire dalle elementari verità rifondate su base razionale per costruire un nuovo metodo di conoscenza. Da qui il suo cogito ergo sum;
  • Galileo Galilei, scienziato italiano (1564-1642). Il suo metodo (ai margini della speculazione filosofica) integra l’indagine sperimentale del mondo sensibile (“sensate esperienze”) con il ragionamento matematico (“necessarie dimostrazioni”): si tratta cioè dapprima di osservare, quindi tradurre tale osservazione in dati matematici-geometrici, quindi dedurre un ipotesi generali. Il passo successivo è la sperimentazione a tavolino di tale ipotesi che se confermata mostra la veridicità dell’ipotesi stessa che diventa, quindi,   E’ pur vero che per Galilei se un fenomeno è traducibile in dati matematici non c’è bisogno di alcuna “sperimentazione” essendo la matematica una scienza oggettiva e quindi senza alcun bisogno di verifica.

File:Galileo Galilei01.jpg - Wikipedia

Statua di Galileo Galilei a Firenze

Galileo Galilei

E’ il primo scrittore che si serve dell’italiano nell’ambito della prosa scientifica, nella cui lingua enuncia la nascita del metodo scientifico moderno.

La sua importanza si può così sintetizzare:

  • inaugura il “metodo sperimentale” (campo scientifico);
  • introduce il volgare nella trattatistica scientifica (campo letterario);
  • è l’emblema di un mondo che non si accontenta più di “verità” rivelate e che per questo entra in conflitto con la Chiesa.

Cenni biografici

Galileo Galilei nasce a Pisa nel 1564, dove studia: tra gli intellettuali  e nelle università, intanto, si era acceso un dibattito sul poema cavalleresco e il giovane studente si era sin da subito schierato per Ariosto. Sempre a Pisa mostra interesse per le materie scientifiche. Nel 1585 abbandona l’Università (senza aver concluso un corso di studi regolare), ma vi rientrerà nel 1589 come docente di matematica. Nello stesso anno si trasferisce a Padova: sono anni molto fruttuosi per la sua attività di “scienziato” in quanto la Repubblica di Venezia mostra un clima molto più aperto e tollerante rispetto alla Toscana (soprattutto da un punto di vista religioso). Ritornerà nel granducato chiamato da Cosimo II come “primario matematico e filosofo”. Aveva in quello stesso anno pubblicato un’opera il Sidereus nuncius, in cui, grazie al telescopio, da lui perfezionato, aveva rese note le sue scoperte: le macchie lunari, le fasi di Venere e i satelliti di Giove. La Chiesa, di fronte alle scoperte di Galilei, mostra tutte le sue perplessità: infatti se alcuni gesuiti accettano le scoperte dello scienziato, molti altri si mostrano preoccupati per le ripercussioni che esse potrebbero avere in campo teologico. Galilei è convinto che far condividere il suo sapere a più gente possibile avrebbe convinto anche la Chiesa a prendere atto delle sue scoperte e per questo pubblica in volgare affinché le sue teorie possano raggiungere un più largo pubblico. Nel 1615 viene denunciato e le sue teorie sono considerate inconciliabili con la fede cattolica. Viene inoltre messa al bando, ufficialmente, la teoria “eliocentrica” copernicana e a Galilei non viene permesso di diffondere alcuna teoria che possa contrastare con quella ecclesiastica. L’elezione di Urbano VIII del 1623, papa intellettualmente aperto e vivace, suscitò nello scienziato fiorentino, nuove speranze; infatti è di questo periodo l’elaborazione e, in seguito, la pubblicazione dell’opera più importante di Galilei Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), in cui metteva a confronto il sistema tolemaico e quello copernicano. Nonostante il clima inaugurato dal pontefice sembrasse più tollerante, equilibri interni alla Chiesa stessa, il rigore contro ogni teoria eterodossa, fecero sì che Galilei comparisse di fronte al Tribunale dell’Inquisizione (1633) e lì abiurasse le proprie tesi, venne inoltre condannato al “carcere formale”. Segregato forzatamente nella sua dimora, sottoposto ad un controllo feroce, il nostro visse un periodo estremamente difficile, dovuto anche alla morte di sua figlia che amorosamente lo accudiva; ciò non gli impedì di far giungere in Olanda il frutto delle sue ricerche. Muore nel 1642.

La casa natale di Galileo Galilei, Pisa Podcast - Loquis

La produzione galileliana è completamente legata al suo percorso “scientifico” che conosce come tappe, per citare quelle più note, lo studio sull’oscillazione del pendolo, l’invenzione del cannocchiale, le macchie lunari e i satelliti di Giove. Tali conquiste non potevano passare inosservate da parte di chi deteneva nei paesi cattolici il sapere, cioè la Chiesa, soprattutto nel momento in cui la sua posizione è di difesa, di contro a qualsiasi novità che potesse metterne in crisi il potere. Siamo certi che le grandi intelligenze gesuitiche sapessero che le affermazioni dei più grandi scienziati erano veritiere: volevano soltanto che non fossero divulgate. 

Per i rapporti tra scienza e fede è importantissima una lettera che il nostro scrive al frate benedettino, suo allievo, il dicembre del 1613:  

A DON BENEDETTO CASTELLI IN PISA (Firenze, 21 dicembre 1613)

Molto reverendo Padre e Signor mio Osservandissimo,

(…) I particolari che ella disse, referitimi dal Sig. Arrighetti*, mi hanno dato occasione di tornar a considerare alcune cose in generale circa ‘l portar la Scrittura Sacra in dispute di conclusioni naturali ed alcun’altre in particolare sopra ‘l luogo di Giosuè**, propostoli, in contradizione della mobilità della Terra e stabilità del Sole, dalla Gran Duchessa Madre, con qualche replica della Serenissima Arciduchessa.
Quanto alla prima domanda generica di Madama Serenissima, parmi che prudentissimamente fusse proposto da quella e conceduto e stabilito dalla P. V., non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti d’assoluta ed inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti ed espositori, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, e anco talvolta l’obblivione delle cose passate e l’ignoranza delle future. Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi alI’incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d’esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n’additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti.
Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all’incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura. Anzi, se per questo solo rispetto, d’accomodarsi alla capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati, non s’è astenuta la Scrittura d’adombrare de’ suoi principalissimi dogmi, attribuendo sino all’istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà asseverantemente sostenere che ella, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra o di Sole o d’altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle parole? E massime pronunziando di esse creature cose lontanissime dal primario instituto di esse Sacre Lettere, anzi cose tali, che, dette e portate con verità nuda e scoperta, avrebbon più presto danneggiata l’intenzion primaria, rendendo il vulgo più contumace alle persuasioni de gli articoli concernenti alla salute.
Stante questo, ed essendo di più manifesto che due verità non posson mai contrariarsi, è ofizio de’ saggi espositori affaticarsi per trovare i veri sensi de’ luoghi sacri, concordanti con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto o le dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri. Anzi, essendo, come ho detto, che le Scritture, ben che dettate dallo Spirito Santo, per l’addotte cagioni ammetton in molti luoghi esposizioni lontane dal suono litterale, e, di più, non potendo noi con certezza asserire che tutti gl’interpreti parlino inspirati divinamente, crederei che fusse prudentemente fatto se non si permettesse ad alcuno l’impegnar i luoghi della Scrittura e obbligargli in certo modo a dover sostenere per vere alcune conclusioni naturali, delle quali una volta il senso e le ragioni dimostrative e necessarie ci potessero manifestare il contrario. E chi vuol por termine a gli umani ingegni? chi vorrà asserire, già essersi saputo tutto quello che è al mondo di scibile? E per questo, oltre a gli articoli concernenti alla salute ed allo stabilimento della Fede, contro la fermezza de’ quali non è pericolo alcuno che possa insurger mai dottrina valida ed efficace, sarebbe forse ottimo consiglio il non ne aggiunger altri senza necessità: e se così è, quanto maggior disordine sarebbe l’aggiugnerli a richiesta di persone, le quali, oltre che noi ignoriamo se parlino inspirate da celeste virtù, chiaramente vediamo ch’elleno son del tutto ignude di quella intelligenza che sarebbe necessaria non dirò a redarguire, ma a capire, le dimostrazioni con le quali le acutissime scienze procedono nel confermare alcune lor conclusioni?
Io crederei che l’autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell’istesso Spirito Santo. Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darei con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima particella e in conclusioni divise se ne legge nella Scrittura; qual appunto è l’astronomia, di cui ve n’è così piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti. Però se i primi scrittori sacri avessero auto pensiero di persuader al popolo le disposizioni e movimenti de’ corpi celesti, non ne avrebbon trattato così poco, che è come niente in comparazione dell’infinite conclusioni altissime e ammirande che in tale scienza si contengono. (…)

Di Firenze, li 21 Dicembre 1613
Di Vostra Paternità molto Reverenda
Servitore Affezionatissimo
Galileo Galilei

*Alla corte del granduca Cosimo II de’ Medici si era tenuta una discussione intorno al problema tra scienza e fede, o meglio come conciliare le teorie del moto terrestre con alcuni passi biblici.
** “Fu allora che Giosuè si rivolse al Signore, in quel giorno in cui Dio diede l’Amorreo in potere d’Israele, e gridò al cospetto di tutto il popolo: «O sole, fermati su Gàbaon, e tu luna, sulla valle d’Aialon!» E il sole si fermò e la luna ristette, fino a che il popolo si fu vendicato dei suoi nemici”

File:Pulzone, Scipione - Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana - 1590.jpg - Wikipedia

Scipione Pulzone: Ritratto di Cristina Lorena

I particolari che lei disse, riportatimi dal signor Arrighetti, mi hanno offerto l’occasione per riconsiderare l’opportunità di servirsi delle Sacre Scritture quale autorità in merito a questioni scientifiche e soprattutto quel passo di Giosuè, proposto dalla granduchessa Madre (Cristina di Lorena, madre di Cosimo II), con qualche replica della Serenissima Arciduchessa (Maria Maddalena d’Austria, moglie di Cosimo II).  
Riguardo alla prima domanda generica della Arciduchessa, mi sembra che molto prudentemente fosse proposto dalla stessa e conceduto e stabilito dalla Paternità Vostra (Castelli stesso) che la Sacra Scrittura non può mai mentire ed errare, ma i suoi giudizi d’assoluta ed inviolabile verità. Solamente io avrei aggiunto che, sebbene la Scrittura non può errare, potrebbe talvolta sbagliare qualcuno dei suoi interpreti e divulgatori, in diversi modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e molto frequentato, quando si fermano al significato letterale, perché in questo modo si paleserebbero non solo contraddizioni, ma addirittura gravi eresie e bestemmie, dal momento che sarebbe necessario allora dare a Dio piedi, mani e occhi ed anche sensazioni fisiche e di natura umana come l’ira, il pentimento l’odio e talvolta la dimenticanza delle cose passate e l’ignoranza delle future. Per cui, siccome nella Bibbia ci sono molte affermazioni che se prese nel loro senso letterale non corrispondono al vero, ma sono così formulate per rendere comprensibili le verità agli intelletti ignoranti e ingenui del volgo, così rivolgendosi a coloro che per cultura si distinguono dalla plebe è necessario che gli studiosi della Bibbia dichiarino i veri significati e spieghino le ragioni per cui quelle verità siano state semplificate con quel linguaggio.
Siccome, dunque, la Scrittura in molti passi non solo è passibile di interpretazione, ma necessariamente ha bisogno di spiegazioni che vadano al di là dell’apparente senso letterale, mi pare che nelle discussioni scientifiche dovrebbe essere adottata come elemento di giudizio solo alla fine, poiché derivando entrambe dalla volontà divina, sia la Bibbia, che è stata ispirata dallo Spirito Santo, sia la natura, che è scrupolosissima esecutrice degli ordini di Dio; e siccome, inoltre, nella Scrittura è parso opportuno dire molte cose che all’apparenza e nel loro significato letterale non corrispondono alla verità, per venire incontro alle capacità di comprensione del popolo, mentre al contrario essendo la natura rigorosissima ed immutabile nel suo funzionamento e non curandosi affatto che le sue cause nascoste e i suoi meccanismi siano compresi o no dagli uomini, per cui essa non trasgredisce mai le leggi impostele da Dio; è evidente che tutto ciò che riguarda i fenomeni naturali, sia che ci venga dall’esperienza dei sensi, sia che venda dedotto per via di ragionamento e dimostrazioni matematiche, non debba essere messo in dubbio da quei passi della Scrittura che all’apparenza affermassero una verità diversa, poiché il modo d’esprimersi della Bibbia non è così rigoroso com’è il modo d’esprimersi della natura. Anzi, se per facilitare la comprensione delle genti rozze e ignoranti la Bibbia non si è astenuta dall’enunciare per via di metafora alcuni dei suoi più importanti dogmi, attribuendo perfino a Dio qualità del tutto estranee alla sua essenza, chi vorrà sostenere in tutta certezza che essa, accantonando la premura di facilitate la comprensione agli ignoranti, nel parlare anche solo di passaggio della Terra o del Sole e di altro fenomeno naturale, abbia scelto di usare le parole nel loro senso rigorosamente letterale? E soprattutto pronunciando in merito agli esseri creati affermazioni molto lontane dal principale e primo proposito delle Sacre Scritture, anzi cose tali che, fatte conoscere nel loro significato più profondo, avrebbero più facilmente, compromesso il raggiungimento dell’obbiettivo primario, rendendo il popolo restio a lasciarsi persuadere ad accettare gli insegnamenti riguardanti la salvezza dell’anima. Chiarito questo punto ed essendo ancora più evidente che due verità non possono contraddirsi, è compito dei divulgatori cercare di trovare il senso nascosto nei testi sacri che devono concordare con quell’evidenza naturale che la capacità sensoriale o le dimostrazioni scientifiche rende certa e sicura. Anzi, essendo le Scritture, sebbene ispirate dallo Spirito Santo, per le ragioni sopra dette ammettono in molti luoghi spiegazioni lontane dal semplice significato letterale e, per di più, non potendo noi asserire con certezza che tutti gli interpreti parlino con l’ispirazione divina, sarebbe opportuno  che non si usassero alcuni passi biblici per dimostrare come vere le verità della natura, che, una volta per via sensoriale o razionale, potrebbero rivelarci verità contrarie a quelle lette. E chi vuole porre un limite all’intelligenza umana? chi vorrà asserire che ormai si conosce già tutto quello che si dovrebbe conoscere? Ed è per questo, al di là degli insegnamenti concernenti la salvezza ed il rafforzamento della fede cristiana, sulla cui verità non può sorgere mai una dottrina valida ed efficace, sarebbe forse opportuno non aggiungere altri dogmi senza alcuna necessità: e se così dovesse essere, quanta maggiore confusione si creerebbe se ad aggiungere nuove verità su richiesta di persone che noi non sappiamo se ispirate dall’intelligenza divina che sarebbe necessaria non dico a correggere ma a capire le dimostrazioni che le acutissime scienze procedono nel confermare le loro conclusioni? Io credo che la Bibbia abbia come unico fine quello di convincere gli uomini di quei dogmi e di quelle verità soprannaturali, che essendo necessarie alla salvezza dell’anima e superando ogni comprensione umana, non possono essere comunicati da alcuna scienza, ma possono soltanto essere ispirati dallo Spirito Santo. Ma non credo sia necessario credere che lo stesso Dio, che ci ha dotato della capacità sensoriale, della parola e dell’intelligenza, abbia voluto, subordinando l’utilizzo di questi mezzi, darci attraverso altri strumenti, le nozioni che attraverso essi possiamo raggiungere e soprattutto riguardo quelle scienze delle quali si legge nelle Scritture una parte insignificante o con tesi non concordanti e frammentarie, come l’astronomia, di cui si parla talmente poco da non trovarsi nominati neppure i pianeti. Perciò se gli scrittori sacri avessero avuto l’intenzione d’insegnare la disposizione e i movimenti dei corpi celesti, non ne avrebbero parlato così poco che corrisponde quasi al niente rispetto alle conoscenze altissime e stupefacenti che in tale scienza si contengono.    

File:Justus Sustermans - Portrait of Maria Maddalena of Austria.jpg - Wikimedia Commons

Justus Sustermans: Ritratto di Maria Maddalena d’Austria

E’ una lettera fondamentale per capire la novità rivoluzionaria del pensatore toscano (la stessa che ebbe Machiavelli per la politica). Si parte dall’assunto che Galilei è sia cristiano che scienziato e che quindi crede in ambedue: tuttavia sono diverse le modalità con cui Dio ha scritto sia la verità di fede che la verità della natura; se la prima è stata trasmessa attraverso le parole le quali bisognano di una esegesi per poter essere comprese, la natura è oggettiva, diremo indifferente all’uomo; essa è nella sua evidenza e per comprenderne i meccanismi bisognano i sensi e l’obiettività razionale (matematica). La prima per essere compresa ha bisogno dell’allegoria, che certamente non si può applicare alla seconda. Infatti per Galilei il fine della Bibbia è diverso (e non contraddittorio) da quello scientifico: il primo ha il compito di guidare l’uomo sulla via della fede, insegnandogli i dogmi fondamentali della verità cristiana; il secondo ha il compito di conoscere, attraverso la facoltà dell’uomo di utilizzare ciò che Dio gli ha donato, la verità della sua creazione naturale. Galilei insomma afferma non solo che i due saperi non sono sovrapponibili, ma che, capovolgendo il metodo controriformista che aveva rimesso la teologia come sapere ultimo, sarebbe opportuno che gli esegeti della Bibbia cerchino d’accordarsi alla verità scientifica, innalzando quest’ultima al di sopra della stessa teologia. Infatti dimostrando l’inattendibilità di alcuni episodi biblici se non letti allegoricamente, l’attendibilità naturale non interpretata e quindi palesamente non veritiera, farà cadere completamente tutto l’impianto biblico. Dirà in un’altra lettera indirizzata a Cristina di Lorena che la fede insegna “come si vadia al cielo” mentre la scienza “come vadia il cielo”. 

La differenza tra fede e scienza viene sottolineata attraverso il metodo “sperimentale” inaugurato da Galilei: esso mostra l’imprescindibilità tra ragionamento matematico e sperimentazione concreta, in altre parole se la realtà viene metaforicamente concepita come un insieme di leggi matematiche, queste ultime potranno essere utilizzate per verificarne l’applicabilità ai fenomeni fisici ed astronomici. Ed è proprio matematicamente che si giustifica la teoria eliocentrica di Copernico.

Justus Sustermans: Ritratto di Galileo Galilei

L’opera in cui lo scienziato espone la validità del metodo sperimentale e della teoria eliocentrica è Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo in cui, attraverso un dialogo d’origine filosofica mostra e sottolinea la non scientificità della teoria geocentrica.

Il dialogo è suddiviso in quattro giornate; vengono presentati tre personaggi:

  • Il nobile fiorentino Salviati che propugna l’idea copernicana;
  • Simplicio fautore dell’aristotelismo;
  • Il nobile veneziano Sagredo, che si offre come mediatore tra i due.

Pur, per poter essere accettato, tenendo una “impostazione” neutrale, la chiave di volta del Dialogo è proprio nel personaggio di Sagredo: la sua volontà d’imparare, la sua voglia di conoscere, danno forza “scientifica” ai ragionamenti di Salviati, a cui Simplicio non può che contrapporre la “forza” dell’aristotelismo (a cui la teologia controriformistica torna a far riferimento). Ciò fa pendere, necessariamente, il discorso del Dialogo verso le teorie galileiane.

ELOGIO DELL’INTELLIGENZA

SAGR. Estrema temerità mi è parsa sempre quella di coloro che voglion far la capacità umana misura di quanto possa e sappia operar la natura, dove che, all’incontro, e’ non è effetto alcuno in natura, per minimo che e’ sia, all’intera cognizion del quale possano arrivare i più specolativi ingegni. Questa cosí vana prosunzione d’intendere il tutto non può aver principio da altro che dal non avere inteso mai nulla, perché, quando altri avesse esperimentato una volta sola a intender perfettamente una sola cosa ed avesse gustato veramente come è fatto il sapere, conoscerebbe come dell’infinità dell’altre conclusioni niuna ne intende.
SALV. Concludentissimo è il vostro discorso; in confermazion del quale abbiamo l’esperienza di quelli che intendono o hanno inteso qualche cosa, i quali quanto piú sono sapienti, tanto piú conoscono e liberamente confessano di saper poco; ed il sapientissimo della Grecia, e per tale sentenziato da gli oracoli, diceva apertamente conoscer di non saper nulla.
SIMP. Convien dunque dire, o che l’oracolo, o l’istesso Socrate, fusse bugiardo, predicandolo quello per sapientissimo, e dicendo questo di conoscersi ignorantissimo.
SALV. Non ne seguita né l’uno né l’altro, essendo che amendue i pronunziati posson esser veri. Giudica l’oracolo sapientissimo Socrate sopra gli altri uomini, la sapienza de i quali è limitata; si conosce Socrate non saper nulla in relazione alla sapienza assoluta, che è infinita; e perché dell’infinito tal parte n’è il molto che ’l poco e che il niente (perché per arrivar, per esempio, al numero infinito tanto è l’accumular migliaia, quanto decine e quanto zeri), però ben conosceva Socrate, la terminata sua sapienza esser nulla all’infinita, che gli mancava. Ma perché pur tra gli uomini si trova qualche sapere, e questo non egualmente compartito a tutti, potette Socrate averne maggior parte de gli altri, e perciò verificarsi il responso dell’oracolo.
SAGR. Parmi di intender benissimo questo punto. Tra gli uomini, signor Simplicio, è la potestà di operare, ma non egualmente participata da tutti: e non è dubbio che la potenza d’un imperadore è maggiore assai che quella d’una persona privata; ma e questa e quella è nulla in comparazione dell’onnipotenza divina. Tra gli uomini vi sono alcuni che intendon meglio l’agricoltura che molti altri; ma il saper piantar un sermento di vite in una fossa, che ha da far col saperlo far barbicare, attrarre il nutrimento, da quello scierre questa parte buona per farne le foglie, quest’altra per formarne i viticci, quella per i grappoli, quell’altra per l’uva, ed un’altra per i fiocini, che son poi l’opere della sapientissima natura? Questa è una sola opera particolare delle innumerabili che fa la natura, ed in essa sola si conosce un’infinita sapienza, talché si può concludere, il saper divino esser infinite volte infinito.
SALV. Eccone un altro esempio. Non direm noi che ’l sapere scoprire in un marmo una bellissima statua ha sublimato l’ingegno del Buonarruoti assai sopra gli ingegni comuni degli altri uomini? E questa opera non è altro che imitare una sola attitudine e disposizion di membra esteriore e superficiale d’un uomo immobile; e però che cosa è in comparazione d’un uomo fatto dalla natura, composto di tante membra esterne ed interne, de i tanti muscoli, tendini, nervi, ossa, che servono a i tanti e sí diversi movimenti? Ma che diremo de i sensi, delle potenze dell’anima, e finalmente dell’intendere? non possiamo noi dire, e con ragione, la fabbrica d’una statua cedere d’infinito intervallo alla formazion d’un uomo vivo, anzi anco alla formazion d’un vilissimo verme?
SAGR. E qual differenza crediamo che fusse tra la colomba d’Archita ed una della natura?
SIMP. O io non sono un di quegli uomini che intendano, o ’n questo vostro discorso è una manifesta contradizione. Voi tra i maggiori encomii, anzi pur per il massimo di tutti, attribuite all’uomo, fatto dalla natura, questo dell’intendere; e poco fa dicevi con Socrate che ’l suo intendere non era nulla; adunque bisognerà dire che né anco la natura abbia inteso il modo di fare un intelletto che intenda.
SALV. Molto acutamente opponete; e per rispondere all’obbiezione, convien ricorrere a una distinzione filosofica, dicendo che l’intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o vero extensive: e che extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come un zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune cosí perfettamente, e ne ha cosí assoluta certezza, quanto se n’abbia l’intessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di piú, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore.
SIMP. Questo mi pare un parlar molto resoluto ed ardito.
SALV. Queste son proposizioni comuni e lontane da ogni ombra di temerità o d’ardire e che punto non detraggono di maestà alla divina sapienza, sí come niente diminuisce la Sua onnipotenza il dire che Iddio non può fa-re che il fatto non sia fatto. Ma dubito, signor Simplicio, che voi pigliate ombra per esser state ricevute da voi le mie parole con qualche equivocazione. Però, per meglio dichiararmi, dico che quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l’istessa che conosce la sapienza divina; ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente piú eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice intuito: e dove noi, per esempio, per guadagnar la scienza d’alcune passioni del cerchio, che ne ha infinite, cominciando da una delle piú semplici e quella pigliando per sua definizione, passiamo con discorso ad un’altra, e da questa alla terza, e poi alla quarta, etc., l’intelletto divino con la semplice apprensione della sua essenza comprende, senza temporaneo discorso, tutta la infinità di quelle passioni; le quali anco poi in effetto virtualmente si comprendono nelle definizioni di tutte le cose, e che poi finalmente, per esser infinite, forse sono una sola nell’essenza loro e nella mente divina. Il che né anco all’intelletto umano è del tutto incognito, ma ben da profonda e densa caligine adombrato, la qual viene in parte assottigliata e chiarificata quando ci siamo fatti padroni di alcune conclusioni fermamente dimostrate e tanto speditamente possedute da noi, che tra esse possiamo velocemente trascorrere: perché in somma, che altro è l’esser nel triangolo il quadrato opposto all’angolo retto eguale a gli altri due che gli sono intorno, se non l’esser i parallelogrammi sopra base comune e tra le parallele, tra loro eguali? e questo non è egli finalmente il medesimo che essere eguali quelle due superficie che adattate insieme non si avanzano, ma si racchiuggono dentro al medesimo termine? Or questi passaggi, che l’intelletto nostro fa con tempo e con moto di passo in passo, l’intelletto divino, a guisa di luce, trascorre in un instante, che è l’istesso che dire, gli ha sempre tutti presenti. Concludo per tanto, l’intender nostro, e quanto al modo e quanto alla moltitudine delle cose intese, esser d’infinito intervallo superato dal divino; ma non però l’avvilisco tanto, ch’io lo reputi assolutamente nullo; anzi, quando io vo considerando quante e quanto maravigliose cose hanno intese investigate ed operate gli uomini, pur troppo chiaramente conosco io ed intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle piú eccellenti.
SAGR. Io son molte volte andato meco medesimo considerando, in proposito di questo che di presente dite, quanto grande sia l’acutezza dell’ingegno umano; e mentre io discorro per tante e tanto maravigliose invenzioni trovate da gli uomini, sí nelle arti come nelle lettere, e poi fo reflessione sopra il saper mio, tanto lontano dal potersi promettere non solo di ritrovarne alcuna di nuovo, ma anco di apprendere delle già ritrovate, confuso dallo stupore ed afflitto dalla disperazione, mi reputo poco meno che infelice. S’io guardo alcuna statua delle eccellenti, dico a me medesimo: “E quando sapresti levare il soverchio da un pezzo di marmo, e scoprire sí bella figura che vi era nascosa? quando mescolare e distendere sopra una tela o parete colori diversi, e con essi rappresentare tutti gli oggetti visibili, come un Michelagnolo, un Raffaello, un Tiziano?”. S’io guardo quel che hanno ritrovato gli uomini nel compartir gl’intervalli musici, nello stabilir precetti e regole per potergli maneggiar con diletto mirabile dell’udito, quando potrò io finir di stupire? Che dirò de i tanti e sí diversi strumenti? La lettura de i poeti eccellenti di qual meraviglia riempie chi attentamente considera l’invenzion de’ concetti e la spiegatura loro? Che diremo dell’architettura? che dell’arte navigatoria? Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi piú reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane, e la chiusa de’ nostri ragionamenti di questo giorno: ed essendo passate le ore piú calde, il signor Salviati penso io che avrà gusto di andare a godere de i nostri freschi in barca; e domani vi starò attendendo amendue per continuare i discorsi cominciati, etc.

undefined
 

Edizione del 1632

Sagr.: Mi sembra estremamente temerario prendere l’estensione della capacità intellettiva umana come misura di quanto possa e sappia fare la natura, mentre, al contrario, non esiste fenomeno naturale, per minimo che sia, alla cui piena comprensione possano arrivare le persone inclini alla speculazione filosofica. Questa inutile presunzione di voler capire il tutto, non può avere che origine dal non aver capito mai nulla, perché, quando qualcuno avesse provato anche una sola volta a capire perfettamente un’unica cosa ed avesse sperimentato una sola volta, cosa significa sapere, capirebbe come non saprebbe nulla delle infinite altre cose.
Salv.: Perfettamente coerente e persuasivo è il vostro discorso; a conferma del quale abbiamo l’esperienza di coloro che capiscono e hanno capito qualcosa, i quali, quanto più sanno, tanto più riconoscono e liberamente confessano di saper poco; ed il più sapiente della Grecia (Socrate), e per tale indicato dagli oracoli, diceva apertamente di non sapere nulla.
Simp.: Si deve dunque dire, o che l’oracolo, o che Socrate stesso, fosse bugiardo, indicandolo uno come il più sapiente e dichiarando il filosofo di riconoscersi estremamente ignorante.
Salv.: Non ne deriva necessariamente né l’una né l’altra conclusione, dal momento che tutti e due gli enunciati possono essere veri. L’oracolo giudica Socrate il più sapiente tra gli uomini, la cui sapienza è limitata; riconosce Socrate di non saper nulla rispetto alla sapienza assoluta, che è infinita; e considerato che il molto, il poco e il niente sono uguali riguardo l’infinito (perché per giungere, ad esempio, al numero infinito ha lo stesso effetto sommare le migliaia, le decine e gli zeri), per questo riconosceva Socrate la sua sapienza finita esser nulla rispetto all’infinita, che non possedeva. Ma dal momento che tra gli uomini vi è qualche sapere, e questo non è ugualmente distribuito a tutti, Socrate ne poté avere più degli altri, e perciò il responso degli oracoli è veritiero.
Sagr.: Mi sembra di capire benissimo questo punto. Tra gli uomini, signor Simplicio, si trova la facoltà di operare, ma non è ugualmente condivisa da tutti. Non c’è dubbio che la potenza di un imperatore è assai maggiore rispetto a quella di un cittadino privato; ma sia la prima che la seconda sono un nulla rispetto all’onnipotenza divina. Tra gli uomini vi sono quelli che comprendono meglio l’agricoltura di molti altri; ma saper piantare un tralcio di vite in una fossa, che cosa ha a che fare col saperlo far radicare, concimare, scegliere da quel tralcio una parte buona per farne foglie ed un’altra per farne semi, un’altra ancora per formare i viticci, e ancora per i grappoli, e per l’uva e per i semi dell’uva, che son tutte opere della sapientissima natura? Questa è una sola cosa particolare che fa la natura, e ad essa sola si riconosce infinita sapienza; quindi si può concludere che il saper divino è infinitamente infinito.
Salv.: Ecco un altro esempio. Non diremo noi che il saper scoprire in un pezzo di marmo una statua ha elevato l’ingegno di Buonarroti molto di più al di sopra degli ingegni degli altri uomini? E questa operazione non è altro che imitare un solo atteggiamento e il disporre le membra esteriormente e superficialmente in un’immagine d’uomo immobile; e questo che cosa è in confronto d’un uomo nato dalla natura, composto da tanti organi interni ed esterni, di tanti muscoli, tendini, nervi ed ossa, che servono a svariasti movimenti? Ma che cosa dire dei sentimenti e delle facoltà dell’anima e, per ultimo, della sua capacità intellettiva? Non possiamo noi dunque dire, e con ragione, che la realizzazione di una statua è infinitamente inferiore alla realizzazione di un uomo vivo, anzi, di più, alla realizzazione di un vilissimo verme?
Sagr.: E che differenza potremo trovare tra la colomba meccanica di Archita ed una vera e naturale?
Simp.: O io non sono una persona intelligente o in questo vostro discorso c’è una palese contraddizione. Voi, fra i maggiori apprezzamenti, anzi il più grande, attribuiti all’uomo, donatogli dalla natura, indicate quello della capacità intellettiva. Ma poco fa affermavate che il sapere di Socrate non valeva nulla; dunque bisognerà ammettere che neanche la natura abbia capito il modo con cui realizzare un intelletto che tutto intenda.
Salv.: La vostra obiezione è molto opportuna, e per risponderle è necessario ricorrere ad una distinzione filosofica, affermando che ci sono due modi per conoscere, cioè intensive (intensamente, in profondità) oppure extensive (per quantità), per quanto riguarda la quantità delle cose da conoscere che sono infinite, la capacità umana è nulla, per quanto essa possa accogliere mille concetti, perché mille rispetto all’infinito equivale a zero; ma riferendoci alla capacità intensive, in quanto tale termine contiene in sé l’intensità, cioè la perfezione, possiede in sé un’assoluta certezza, quanta ne ha la natura (Dio) stessa; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè l’aritmetica e la geometria, delle quali certamente l’intelletto divino ne sa di più, perché le conosce tutte; ma quei concetti che ha appreso l’intelletto umano, credo che loro comprensione pareggi quella divina nella certezza della loro obiettività, poiché arriva a capirne la necessità (sono come sono e non possono essere altrimenti), e sulle quali non sembra poterci essere maggiore sicurezza.
Simpl.: Questo mi sembra un argomentare risoluto e temerario.
Salv.: Queste sono affermazioni comuni e assai lontane dalla temerarietà o risolutezza e non tolgono nulla alla maestà divina, così come non diminuisce la sua onnipotenza il dire che Dio non  può fare che le cose non siano accadute. Ma temo, signor Simplicio, che voi vi preoccupiate per aver ricevuto le mie parole con qualche equivoco. Perciò, per meglio illustrare ciò che voglio dire, affermo che quanto alla verità di cui ci offrono la conoscenza le dimostrazioni matematiche, questa è la stessa che conosce la sapienza divina; ma pur vi concederò che il modo con cui Dio conosce le infinite proposizioni, di cui noi ne possediamo solo poche, è estremamente più eccellente del nostro, che procede per dimostrazioni  e passaggi, di conclusione in conclusione, mentre il Suo modo di conoscere è puramente intuitivo: e dove noi, per esempio, per acquisire la conoscenza di alcune proprietà del cerchio, che ne possiede infinite, cominciando da quella più semplice e prendendola come sua definizione, passiamo da questa ad un’altra, quindi alla terza e poi alla quarta, ecc.; l’intelletto divino con la semplice intuizione della sua essenza, comprende, senza un percorso logico che si dipana nel tempo, tutta l’infinità delle sue proprietà, le quali, poi, sono anche potenzialmente contenute nelle definizioni di tutte le cose, e che poi essendo infinite, forse sono una sola cosa nella loro essenza e nella mente di Dio. Il che neanche nella mente dell’uomo è del tutto sconosciuto, ma è offuscato da una spessa e densa nebbia, la quale viene in parte diradata e resa più chiara quando padroneggiamo alcune conclusioni fermamente dimostrate e possedute in modo immediato da noi, che, tra esse, possiamo velocemente superarle: perché insomma che altro è (quando) nel triangolo il quadrato (costruito sul lato) opposto all’angolo retto uguale agli altri due (costruiti sui cateti) che gli sono intorno, e, allo stesso modo, quando due parallelogrammi hanno la base comune e le altezze uguali? e questo non è lo stesso che dire c’è equivalenza tra due superfici che combaciano se sovrapposte e che hanno la stessa estensione?  Ora tutti questi passaggi, che l’intelletto nostro acquista nel tempo e nello spazio, l’intelletto divino, come la luce, li supera in un attimo, che è lo stesso che dire che li ha sempre tutti presenti. Pertanto concludo che il nostro modo di arrivare alla conoscenza, in quanto al come ci arriviamo e al numero delle cose da noi conosciute, è infinitamente superata dalla conoscenza divina; ma non per questo la svaluto tanto da reputarla assolutamente nulla; anzi, quando considero quante e così meravigliose cose hanno studiato e operato gli uomini, molto chiaramente riconosco e capisco che la mente umana è opera di Dio, e delle più eccellenti.
Sagr.: Molte volte ho considerato, a proposito di quanto state dicendo, quanto grande sia l’acutezza dell’ingegno umano e mentre ripasso nella mia mente così tante meravigliose invenzioni trovate dagli uomini, così nelle arti in genere come nella letteratura, e poi rifletto sulle cose che so, e sentendomi così lontano dal poter solo aggiungere qualcosa di nuovo, ma anche di apprendere quelle già trovate, confuso dallo stupore e afflitto dalla disperazione, mi sento, a dir poco, infelice. E se io guardo qualche statua delle più eccellenti, dico a me stesso: “E quando potresti svelare dietro un pezzo di marmo, e scoprire, quindi, una così bella forma, che in esso era nascosta?, quando (sapresti) mescolare e stendere sopra una tela o su di una parete diversi colori, e con essi rappresentare tutti gli oggetti visibili, come un Michelangelo, un Raffaello, un Tiziano?”. Se io osservo quello che hanno ritrovato gli uomini nel suddividere in modo armonico gli spazi musicali, nello stabilire regole e precetti per poterli usare con gioia infinita dell’udito, quando potrò smettere di meravigliarmi? Che dire di così tanti e diversi strumenti? La lettura dei grandissimi poeti, di quale meraviglia riempie chi attentamente considera l’invenzione retorica e il suo sviluppo? E ancora che dire dell’architettura? Cosa dell’arte della navigazione? Ma tra tutte le straordinarie invenzioni, quale somma mente fu quella di chi immaginò il modo di comunicare i suoi più nascosti pensieri a qualsiasi altra persona, benché distante nello spazio e nel tempo? Comunicare con quelli che stanno nelle Indie, parlare con chi non è ancora nato né nasceranno se non fra mille o diecimila anni? E con quale facilità! Basta mettere insieme venti piccoli caratteri da niente sopra un foglio di carta. Sia questo il sigillo di tutte le cose ammirevoli dell’uomo ed il termine dei nostri ragionamenti in questa giornata; ed essendo già passate le ore più calde, credo che il signor Salviati avrà piacere di prendere un po’ di fresco su una gondola per i canali veneziani, e domani starò qui ad aspettarvi per riprendere i discorsi cominciati…

File:Félix Parra - Galileo Demonstrating the New Astronomical Theories at the University of Padua - Google Art Project.jpg - Wikimedia Commons

Félix Parra – Galileo Demonstrating the New Astronomical Theories at the University of Padua

L’opposizione della Chiesa a quest’opera (e a tutto il pensiero galileiano che quest’opera racchiudeva) fu ferma e netta, costringendo il nostro ad una formale abiura. In senso generale, ciò che disturbava la Chiesa era:

  • il logico rifiuto alla teoria eliocentrica che metteva, in ultima analisi, in dubbio la verità della Bibbia e l’aver utilizzato una branca del sapere, quella matematica, come unica capace d’interpretare il mondo al posto della regina del sapere che doveva continuare ad essere la teologia;
  • il relativismo della verità che, in quanto sperimentale, si offriva a nuove sperimentazioni e quindi a nuovi livelli interpretativi.

File:Galileo before the Holy Office - Joseph-Nicolas Robert-Fleury, 1847.png - Wikipedia

Nicolas Fleury Galileo di fronte al Santo Uffizio (1847)

Torquato Accetto con il trattato Della dissimulazione onesta ci offre un testo che, riscoperto nel 1928 da Benedetto Croce, appare oggi come un capolavoro della prosa secentesca. Secondo l’autore la dissimulazione è in sé una scelta morale, in quanto il suo fine è quello di non subir danno, piuttosto che quello di far credere ciò che non è. Simulare è porre un velo per nascondere, a ciò si è costretti da una società formalistica e vuota come quella del ’600. D’altra parte anche la natura dissimula, non mostrandoci, o meglio velando il comune destino di morte. Attraverso questo velo essa non solo si “nasconde” ma anche protegge la sua bellezza.

Torquato Accetto. Della Dissimulazione Onesta - copertina

Edizione del 1943

Grande importanza ha, da un punto di vista storiografico l’opera del veneziano Paolo Sarpi: Istoria del Concilio tridentino (1619). Paolo Sarpi si era contrapposto alla Chiesa quando quest’ultima aveva richiesto l’estradizione da Venezia di due sacerdoti accusati di reati comuni. Il nostro, investito dal Senato veneziano, aveva ribadito l’incongruenza dell’intervento ecclesiastico in quanto i reati non riguardavano la sfera religiosa ma quella civile. Questa presa di posizione permise al nostro di approfondire le problematiche esistenti all’interno della Chiesa che egli analizzò nel suo capolavoro:

  • L’Istoria del Concilio tridentino mette in luce l’occasione mancata dalla Chiesa per riformarsi secondo i dettati evangelici: essa, invece si era cristallizzata in una forma gerarchica e di potere, tracciando in questo modo un solco difficilmente colmabile tra i paesi riformati ed essa stessa;
  • Il forte moralismo, la ricerca della verità, uno stile asciutto ed aderente alle cose (il nostro era amico di Galileo Galilei) fanno sì che questo testo si colleghi maggiormente alla Storia d’Italia di Guicciardini che alla temperie propriamente barocca, quasi fosse un baluardo della ragione di contro all’ipocrisia e al vuoto magniloquente di tanta cultura contemporanea.

File:Paolo Sarpi 2.jpg - Wikimedia Commons

Paolo Sarpi

Ci leggiamo l’introduzione all’opera:

INTRODUZIONE 

Il proponimento mio è di scrivere l’istoria del concilio tridentino, perché, quantonque molti celebri istorici del secol nostro nelli loro scritti n’abbiano toccato qualche particolar successo, e Giovanni Sleidano, diligentissimo autore, abbia con esquisita diligenza narrate le cause antecedenti, nondimeno, poste tutte queste cose insieme, non sarebbono bastanti ad un’intiera narrazione.
Io immediatamente ch’ebbi gusto delle cose umane, fui preso da gran curiosità di saperne l’intiero, et oltre aver letto con diligenza quello che trovai scritto e li publici documenti usciti in stampa o divulgati a penna, mi diedi a ricercar nelle reliquie de’ scritti de prelati et altri nel concilio intervenuti, le memorie da loro lasciate e li voti, cioè pareri detti in publico, conservati dagli auttori proprii o da altri, e le lettere d’avisi da quella città scritte, non tralasciando fatica o diligenzia, onde ho avuto grazia di vedere sino qualche registri intieri di note e lettere di persone ch’ebbero gran parte in quei maneggi. Ora avendo adunque tante cose raccolte, che mi possono somministrar assai abbondante materia per la narrazione del progresso, vengo in risoluzione di ordinarla.
Racconterò le cause e li maneggi d’una convocazione ecclesiastica, nel corso di 22 anni per diversi fini e con varii mezi, da chi procacciata e sollecitata, da chi impedita e differrita, e per altri anni 18 ora adunata, ora di-sciolta, sempre celebrata con vari fini, e che ha sortita forma e compimento tutto contrario al dissegno di chi l’ha procurata et al timore di chi con ogni studio l’ha disturbata: chiaro documento di rasignare li pensieri in Dio e non fidarsi della prudenza umana.
Imperoché questo concilio, desiderato e procurato dagli uomini pii per riunire la Chiesa che principiava a dividersi, per contrario ha cosí stabilito lo schisma et ostinate le parti, che ha fatto le discordie irreconciliabili; e maneggiato dai principi per riforma dell’ordine ecclesiastico, ha causato la maggior deformazione che sia mai stata doppo che il nome cristiano si ode, e dalli vescovi adoperato per racquistar l’autorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano, gliel’ha fatta perder tutta intieramente, et interessati loro stessi nella propria servitú; ma temuto e sfugito dalla corte di Roma come efficace mezo per moderare l’essorbitante potenza, da piccioli principii pervenuta con varii progressi ad un eccesso illimitato, gliel’ha talmente stabilita e confermata sopra la parte restatagli soggietta, che non fu mai tanta, né cosí ben radicata.
Non sarà perciò inconveniente chiamarlo la Illiade del secol nostro, nella esplicazione della quale seguirò drittamente la verità, non essendo io posseduto da passione che mi possi far deviare.

Edizione del 1757

Ho intenzione di scrivere la storia del concilio tridentino (di Trento) poiché sebbene molti celebri storici di questo secolo, nei loro scritti, abbiano toccato qualche avvenimento particolare di esso, e Giovanni Sleidano (Johann Philippson, cosiddetto perché nato a Sleiden, presso Colonia), eccellentissimo autore, abbia con squisita profondità gli avvenimenti che portarono alla convocazione del concilio, nondimeno, quand’anche fossero tutti raccolti insieme, non si avrebbe una storia complessiva (dell’avvenimento).
Io non appena ebbi il piacere di conoscere le decisioni degli uomini, fui preso da curiosità di conoscerle nella loro interezza, e, oltre ad aver letto con attenzione ciò che trovai scritto, sia i documenti stampati che vergati a penna, mi misi a ricercare quello che restava negli scritti dei prelati e di altri intervenuti al concilio, e le lettere ufficiali, scritte da quella città, non tralasciando nulla per fatica e con diligenza, per cui ho avuto l’onore di vedere perfino registri interi pieni di annotazioni e di lettere di gente che ebbero gran parte in quegli affari. Ora, avendo raccolto così tante cose, che mi possono offrire sovrabbondante materia per la narrazione ed il suo sviluppo, mi accingo ad esporla con ordine.
Racconterò le cause ed i maneggi di una convocazione ecclesiastica nel corso di 22 anni, con diversi fini e diversi mezzi, da chi voluta e sollecitata, da chi impedita e procrastinata, e per altri 18 anni, ora radunata, ora disciolta, sempre celebrata con diverse finalità, e che ha avuto natura e risultato completamente contrari dal proponimento di chi l’ha bandita e dal timore di chi l’ha temuta e fortemente osteggiata; chiara testimonianza per rimettersi con rassegnazione alla volontà di Dio, non fidandosi dell’operare umano.
Sebbene questo concilio, desiderato e messo in pratica dagli uomini pii, per riunire la Chiesa, che cominciava a dividersi (tra cattolici e protestanti), tuttavia, al contrario, ha radicalizzato lo Scisma e rese ostili le due parti, rendendo la divisione irreversibile; strumentalizzato dai sovrani per intervenire all’interno delle cose ecclesiastiche, ha causato il maggior disordine, che si sia mai visto dalla nascita del cristianesimo; e adoperato dai vescovi per riacquistare la loro autorità, passata in gran parte al solo pontefice, gliela tolta tutta, riducendo i vescovi a maggior servitù del papa stesso; ma (tale concilio) temuto e sfuggito dalla corte di Roma per limitare l’esorbitante potenza dei piccoli principi, che col passar del tempo era di-ventata illimitata, ha confermato la sua (del papa) potenza sopra i paesi dichiaratasi cattolici, come mai.
Così non sarà sconveniente definirla la Iliade del nostro secolo, nell’esposizione della quale seguirò direttamente la verità non essendo posseduto da alcuna passione che mi possa sviare.

E’ evidente che la pagina di Sarpi, nonostante dichiari nella esplicazione della quale seguirò drittamente la verità, non essendo io posseduto da passione che mi possi far deviare, mostri come l’autore voglia sottolineare la “mancata” voglia di riformare che la Chiesa ha mostrato. Il suo libro è infatti un’opera “militante” che sottolinea la piega autoritaria, non dialogante, anzi “arrogante”, che non ha risolto il conflitto tra protestanti e cattolici, ma l’ha solo sancito. Bisogna aggiungere, tuttavia, che Paolo Sarpi non approderà mai ad una rottura con la Chiesa, in quanto rimarrà fedele alla sua teologia, ciò che rimarca è la mancata volontà di “riformarsi”.

Tommaso Campanella - Wikipedia

Ritratto di Tommaso Campanella

Tommaso Campanella è un filosofo, la cui vita è indice di un’età che nega la libertà e l’anelito verso essa. Domenicano, fu più volte incarcerato per le sue idee eterodosse e più volte rimesso in libertà per volontà di alcuni mecenati. Il suo pensiero si esprime attraverso vari generi, fra cui anche quello più prettamente lirico. La sua opera più importante è La città del sole; in quest’opera disegna una società “utopica”, in cui viene cancellata la proprietà privata (anche quella delle mogli e dei figli) e guidata da un re-sacerdote, il Metafisico, e da tre magistrati. Il re rappresenta l’Universo che è Dio, essendo sapienza, potenza e amore.

Il teatro

Il teatro ha, nel ’600 un’importanza enorme. Esso infatti incarna:

  • lo spirito del tempo grazie alle sue scenografie e la sontuosità esteriore;
  • l’immaginario barocco grazie al quale il teatro si fa metafora della vita, ma lo stesso mondo diventa un palcoscenico teatrale in cui si rappresenta la vita;
  • il fine controriformistico di educare le masse attraverso storie edificanti e meravigliose.

L’apporto teatrale italiano nelle cultura europea fu estremamente ambivalente: figlio del teatro umanistico, con la ripresa dei modelli plautini e/o terenziani, esso veniva letto o semi rappresentato in spazi ristretti, che potevano essere l’interno delle corti o addirittura di palazzi signorili. La distinzione tra teatro elitario e teatro come fatto scenico si protrae in quei generi piuttosto tradizionali, come la tragedia o la commedia. Per quanto riguarda la tragedia, così fortemente legata alle regole aristoteliche delle tre unità (di tempo, di luogo e d’azione), l’unico nome di una certa rilevanza è quello di Federico Della Valle.

Tutte le opere - Federico Della Valle - Libro Usato - Mondadori - i classici moadori | IBS

Edizione del 1957 delle opere di Federico della Valle

Federico Della Valle (1560-1924),  si legò dapprima alla corte Sabauda e se ne allontanò in polemica con la politica espansionistica del piccolo Stato per passare il resto della vita a Milano, sotto il diretto controllo del governo spagnolo. Il suo teatro, centrato principalmente intorno a figure femminili, mostrano un senso cupo dell’esistenza, venato da un fondo pessimistico che vede nel contrasto tra l’agire dell’uomo e il potere un motivo d’estremo disinganno. Questa dicotomia si inserisce all’interno di una profonda cultura cattolica, che la risolve nell’accettazione severa e piena d’angoscia della volontà di Dio. Tale contrasto è palese nel suo capolavoro, La reina di Scozia:

MARIA STUARDA AL PATIBOLO

MAGGIORDOMO
Appoggiata al mio braccio,
come partir di qui vista l’avete,
con la sinistra man, anzi con tutte
le membra che da sé si reggean male,
salito ha lunga scala; e in salendo,
con bassa voce, ma con alto affetto
espresso nei sospiri,
pregava et invocava il Padre e ‘l Figlio,
lor rimembrando la pietà infinita,
la bontà eterna, il sangue e l’aspra morte
e i merti de la Madre,
che fu Vergine sempre. Indi salita
a la sala crudel, veduto ha incontro
orribile apparecchio. Alto s’ergeva
per non so quanti gradi, intorno cinto
e coperto di panni oscuri e neri,
un catafalco, e ‘n mezzo a duo gran faci
pendea da sottil corda, in fra duo legni
ampio ferro lucente. Èssi fermata
alquanto a rimirar; indi, rivolta
a me, che non avea spirto né sangue,
e la reggea tremante: «Eccoti» ha detto
«la real pompa e ‘l seggio di reina
di duo gran regni a un tempo. Così piace, 
amico, a Chi creommi e così sia.»
(…)

«Credo», ha detto la cara mia reina,
«credo» ha detto «che qui, fra tanti e tanti,
uniti a rimirar la morte mia,
alcun v’avrà, che con pietà risguardi
la tragedia crudel de la mia vita
e lo stato terribile et indegno,
ov’io sono condotta, ov’è condotta
una donna innocente, una reina
e di Scozia e di Francia, e giusta erede
d’Inghilterra, ov’io moro. A ciò m’han tratta
la poca fede altrui e la mia molta
credulità; se credula può dirsi
donna che crede a donna,
la qual prega e scongiura;
e reina a reina,
la qual promette e giura;
e nepote, che crede ad una zia
non offesa giammai, ma sempre amata
et onorata sempre. E veramente
non ha la fé luogo sicuro in terra,
poich’a me manca quella fé in quel petto
ch’a me sì ferma la promise. Pure,
il ridirlo che giova? O pur che giova
il dolersi nel punto ov’io mi trovo,
in cui convien morir? Iddio pietoso
a chi offende perdoni et a l’offesa,
la qual son io; ma quanto giustamente,
le colpe udite e giudicatel voi.
(…)
Ed eccomi a morire”.

CORO
Accetti Dio ‘l tuo sangue,
o martire reina
a sua gloria et a tua:
la qual, poich’è sicura,
teco allegrarmi, teco, ahimé devrei.
Ma troppo, troppo è ‘l danno
di restar io qui senza te, mia duce,
mio sostegno e conforto.

MAGGIORDOMO
Prende vigor quest’alma
in pensar ch’ella siede ora beata
fra le genti beate.
Giunta al fine di queste sue parole,
s’è rivolta al supplicio, e,
rimirando il ferro,
fermata alquanto, è parsa inorridirsi;
e fra l’orror gli occhi ha rivolti al cielo,
sì fissi che parea che ‘n ciel volesse
figger anco se stessa. Alto sospiro
è stato il fin del breve rapimento,
e s’è mossa qual uom che ‘l sonno lassi;
e, serratasi al petto
la croce, che pur sempre ha ritenuto
ne la man destra, con la manca mano
ha cominciato a sciôrsi intorno al collo
la vesta e, sciolta a ripiegarla indietro;
né potendolo far agevolmente
da se medesma, il manigoldo fiero
stesa ha la man per aiutarla; et ella:
«Amico, ha detto, questo a te non tocca:
mano men lorda il faccia».

CORO
O regio sangue,
come ritieni in su’l morir gli spirti
nobili, eccelsi!

MAGGIORDOMO 
Era su’l fero palco,
in disparte una donna,
moglie, cred’io, d’alcun dei guardiani;
a lei s’è volta, e con benigno modo
e con la bocca tinta anco di riso,
«Sorella», ha detto, «prendi tu la noia
d’aiutarmi a morir; ripiega, prego,
la vesta e ‘l velo che la gola cinge,
e dàlla nuda al ferro». Lacrimosa
s’è la femina mossa e riverente
ha nudato il bel collo.

CAMERIERA
Ahi collo, ahi gola,
quante volte t’ornâr queste mie mani
di bianchissime perle, e quante vidi
il lor candor vinto dal tuo candore!
Or t’ha tronco aspro ferro, e tetro sangue
t’è orrido monile.

MAGGIORDOMO
Indi con sol duo passi s’è accostata
a la terribil falce, che ‘n mirarla
spirava orror, sì ampia e sì radente;
e ginocchion s’è posta. La pietosa
donna, traendo da la vesta un panno
bianco, sottil, l’ha ripiegato in giro
e, tremante e piangente, sopra gli occhi
gliel’ha annodato; e, mentre il nodo stringe,
la mia reina dice: «Grazie a Dio,
ch’io trovo in Inghilterra chi m’aiti,
e chi m’abbia pietà. Ma tu, sorella,
se t’è cara mercede, o segno almeno
d’animo grato in infelice donna,
abbracciami ti prego: ecco t’abbraccio,
per segno che m’è cara l’opra tua;
e lasciami morir». Così le ha cinto
il collo caramente e l’ha baciata.
Quinci, alzata la fronte inverso il cielo,
s’è ferma alquanto et umilmente poscia
abbracciata la Croce, il collo ha steso
sotto l’orrida falce.

CORO
Ahi, che si parte
il cor imaginando!

MAGGIORDOMO
Il fier ministro,
in rimirarla tale, ha tronco tosto
la corda, onde pendeva il mortal ferro;
il qual precipitando s’è sommerso
ne le candide carni, in quel bel collo.
Così, stese le membra da una parte
e da l’altra la testa, ella è rimasa
cadavero tremante, onde si sgorga
per grosse canne il sangue; e s’è veduta
la dolcissima bocca,
con trar gli spirti estremi,
riaprirsi e serrarsi, graziosa
anco nei moti de la morte orrenda.

CAMERIERA
Ahi cielo; a qual dolor, lassa, mi serbi,
se questo non m’occide?

CORO 
Moristi, ahimé, moristi,
o bellissima donna,
o dolcissima e cara,
o reina, o padrona.
Noi che farem? Dove n’andrem? Che fie
di questa amara vita che ci avanza?
Piangiam, sorelle, ohimé,
ché giustissimo è ‘l pianto
di chi tante sventure insieme accoglie
sovra debili spalle.
Piango la morte altrui,
piango la vita mia,
piango l’aspra ruina
de la mia patria amata!

Nessuna descrizione della foto disponibile.

Francesco Hayez: Maria Stuarda sale sul patibolo (1857)

MAGGIORDOMO: L’avete vista andare via da qui, appoggiata al mio braccio con la mano sinistra, anzi con tutto il suo fragile e vacillante corpo ed ha salito la lunga scala (del patibolo); e nel salire pregava ed invocava Dio Padre e Gesù, ricordando la loro pietà infinita, l’eterna misericordia, il sangue di Cristo e la morte crudele e i meriti della Madonna, che rimase sempre vergine. Quindi salita sulla scala che la conduceva ad una morte crudele, ha visto di fronte a sé l’orribile patibolo. Si innalzava in alto non so per quanti gradini, circondato da stoffe scure e nere, un catafalco, e in mezzo a due candelabri, pendeva una corda sottile, che sosteneva una lama lucente. (La donna) si è fermata a riguardarla, quindi rivolta a me che ero rimasto senza fiato e raggelato dalla paura, reggendo tremando, ha detto: «Eccoti il fasto reale e la sedia regale della regina Di Francia e di Scozia. Questo vuole, Colui che mi ha messo al mondo, e così sia». (…)  Ha detto la mia regina: «Credo che qui, tra tanta gente convenuta ad osservare la mia morte, vi sarà alcuno che guardi con pietà la crudele tragedia della mia vita e lo stato terribile ed indegno a cui sono ridotta, dove è portata una donna innocente, una regina di Francia e di Scozia e giusta erede d’Inghilterra, dove io muoio. A ciò mi hanno portato la poca fede d’Elisabetta d’Inghilterra e la mia troppa credulità; se ingenua può definirsi una donna che crede ad una donna che prega e scongiura; e la regina alla regina che promette e giura ed una nipote che crede alla zia (Elisabetta), mai offesa, ma sempre rispettata ed onorata da me. E veramente non esiste fedeltà sulla terra, dal momento che mi manca quella fedeltà che mi era stata promessa. Eppure il ripeterlo ora a cosa serve? Oppure a che serve il dolersi nello stato in cui mi trovo in cui devo morire? Dio perdoni a chi mi offende e a me offesa, ma le mie colpe giudicatele voi. (…) Sono pronta a morire. CORO: Dio accetti il tuo sacrificio, o martire regina, per la sua gloria e la tua, la quale gloria è certamente con te e con te, ahimè,  dovrei rallegrarmi. Ma troppo è il dolore nel restare qui senza te, mia guida, mio sostegno, mio conforto. MAGGIORDOMO: Il mio spirito prende forza nel pensare che ora lei è salita tra le genti beate. Dopo queste parole si è rivolta al patibolo e, soffermatasi un po’, guardando la lama, è sembrata rabbrividire e in preda all’orrore, ha rivolto gli occhi al cielo, talmente fissamente da voler anche lei fissarsi in esso. Infine ha emesso un breve sospiro e si è mossa come un uomo appena svegliato. e tenendo al petto la croce, che non ha mai lasciato, con la mano destra, con la sinistra ha cominciato a sciogliersi la veste intorno al collo e una volta sciolta, a ripiegarla indietro e non potendolo fare con facilità da sola, il feroce carnefice stende la mano per aiutarla, ma lei, fiera: «Amico, questo non devi farlo tu, ma una mano meno sporca di sangue innocente». CORO: O sangue reale, come conservi sul punto di morte, gli spiriti nobili, alti! MAGGIORDOMO: C’era sul catafalco, in disparte, una donna, moglie, penso, di uno dei guardiani; rivolta a lei in modo benevolo e con un sorriso ha detto: «Sorella, prendi tu l’incombenza d’aiutarmi a morire; ripiega la veste e il velo che circonda la gola ed offrila nuda alla lama. Piangendo la donna s’avvicina e le denuda il collo. CAMERIERA: Oh, collo, quante volte ti adornarono queste mani di bianchissime perle e quante volte le vidi confondersi con il chiarore della tua pelle: ora ti taglia il crudele ferro e da collana ti fa il sangue versato. MAGGIORDOMO: Dopo con soli due passi si è avvicinata al patibolo che solo a guardarlo incuteva terrore, la cui lama era così grande e così affilata e si è messa in ginocchio. la donna pietosa ha preso un panno sottile bianco e, tremante e piangente, piegandolo le ha coperto gli occhi, e mentre stringe il nodo la regina dice: «Grazie a Dio trovo in Inghilterra chi m’aiuta e chi prova per me pietà. ma se tu sorella, vuoi una ricompensa o un segno che ti rimanga di un animo infelice, abbracciami, ti prego: ecco io ti abbraccio per significarti che la tua opera mi è gradita e ora lasciami morire». Così le ha abbracciato il collo caramente e l’ha baciata sulla fronte. Quindi ha alzato gli occhi al cielo e, fermata un poco, e dopo, con umiltà, abbracciata la croce, ha steso il collo sotto l’orrida falce. CORO: Come si spezza il cuore al solo immaginare! MAGGIORDOMO: Il feroce boia nel vederla così ha tagliato prontamente la corda da cui pendeva la lama che, precipitando, si è conficcata nella morbida carne, in quel bel collo. Così il corpo da una parte, la testa dall’altra, di lei è rimasto un tremante cadavere da cui sgorga a fiotti il sangue e si è vista la bocca, aprendosi e chiudendosi di scatto, esalare l’ultimo respiro, bella anche nell’espressione di una morte orrenda. CAMERIERA: O cielo, quale disgrazia mi riservi se questa ora non mi uccide? CORO: Sei morta, ahimè sei morta, bellissima donna, dolcissima e cara, regina, signora. Che faremo noi? Dove andremo? Cosa sarà ella vita che ci rimane? Piangiamo, sorelle perché è giusto piangere per chi sopporta tali dolori su deboli spalle: Piango la morte di lei, piango per la mia vita, piango la crudele sciagura dell’amata mia patria.  

La descrizione della morte di Maria Stuarda non è rappresentato ed è raccontato da maggiordomo della regina, che è stato testimone oculare dell’evento. Tuttavia questo escamotage, direi necessario a livello di rappresentazione, non lede la drammaticità del racconto, ottenuto da un’aggettivazione spesso binaria, da allitterazioni che creano sospensione e paura, ricorso di parole che sul piano semantico rimandano alla crudeltà e all’orrore. Ma non mancano neppure descrizioni macabre (tipiche della visione della morte controriformista) con il corpo della regina diviso in due o con il diadema di sangue nel collo.  Ma non si può dimenticare l’opposizione tra divino e umano: da una parte il biancore della pelle, lo sguardo verso l’alto, la croce; dall’altra la lama, i panni neri, il boia. Ma il più grande contrasto si ha tra la fede e la giustizia, dall’altro la storia e la politica.

Commedia dell'Arte, ecco la 12° edizione | Università Cattolica del Sacro Cuore

Maschere della commedia dell’arte

Ma la vera importanza che il teatro italiano ebbe in Europa furono su quei generi che permettevano una maggiore libertà che, in quanto esenti da riferimenti di tipo classico o normativo, potevano raggiungere, attraverso la libertà espressiva, esiti inusati. Questi furono la commedia dell’arte, che si basava su canovacci sui quali l’attore improvvisava. Essa infatti prevede l’eclissi dell’autore a favore dell’attore che si specializzava in ruoli fissi (il giovane innamorato, il vecchio, la giovane e via discorrendo) da cui deriveranno le maschere come Arlecchino, Pulcinella, Brontolone, Colombina etc. etc. e il teatro in musica, cioè del melodramma i cui iniziatori furono Ottavio Rinuccini per i testi e Claudio Monteverdi per la musica.

La commedia dell’arte ebbe vasta notorietà in tutta Europa ed influenzò fortemente il teatro di Moliere.

PUBLIO TERENZIO AFRO

Publio Terenzio Afro - Wikipedia

Se Plauto è stato l’incontrastato “padrone” del teatro “popolare”, tanto da far sì che bastasse il suo nome per ottenere successo, Terenzio invece ha rappresentato il teatro d’èlite, portavoce di una classe aristocratica e intellettuale, che si riconosce nei nuovi valori convogliati all’interno di quello che suole definirsi come il “circolo degli Scipioni”. Con questo termine si ci riferisce non ad un movimento coeso, ma ad un gruppo di persone che ruotano intorno alla figura di Scipione Emiliano, figlio di Emilio Paolo che, con la vittoria sul re di Macedonia, portò a Roma l’intera biblioteca greca nonché il filosofo stoico Panezio. Inizia così, da parte di alcuni intellettuali e aristocratici che lo frequentarono, un nuovo modo di intendere il modus vivendi che produsse proprio due gruppi, quello scipionico, pronto ad allargare il suo modo di pensare grazie alla cultura filosofica greca e l’altro, invece, il cui massimo esponente è Catone il Censore, che vede in quest’atteggiamento un attentato ai valori tradizionali della repubblica che costituiscono il mos maiorum.  

Notizie biografiche

Terenzio nasce a Cartagine, come ci pensare il suo cognomen Afer, tra il 195/185 a.C. Sarebbe arrivato a Roma come schiavo da Terenzio Lucano, da cui prese appunto il nome, e fu in seguito protetto proprio da Scipione Emiliano e Lelio, come egli stesso ci testimonia in un suo prologo. Girarono voci molto feroci nei suoi confronti, proprio per l’amicizia con i suoi illustri protettori, sia di tipo sessuale che letterario, ma ciò sembra appartenere più alla polemica culturale che a una vera e propria vicenda biografica. Sembra morisse giovanissimo in viaggio verso la Grecia, infatti gira il rumor che fosse morto di dispiacere per aver perduto in mare un numeroso numero di commedie sulle quali aveva intenzione di lavorare. La data della sua morte si aggirerebbe nel 158, molto prima della terza guerra punica.

Terenzio: vita e opere | Studenti.it

Ritratto immaginario di Terenzio

Opere

Le commedie terenziane sono sei e ci sono tutte pervenute integralmente. Di esse si ha anche la cronologia, riportata dai manoscritti:

  1. 166 – Andria (La donna di Andro);
  2. 165 – Hécyra (La suocera);
  3. 163 – Heautontimorùmenos (Il punitore di se stesso);
  4. 161 – Eunuchus (L’eunuco)
  5. 161 – Phormio (Formione)
  6. 160 – Adelphoe (I fratelli)

Al contrario di Plauto, Terenzio non ebbe un grande successo; la maggiore attenzione data ai personaggi e ad alcuni temi non prettamente “comici”, le stesse polemiche letterarie con il confronto con il suo predecessore, non gli diedero il successo sperato. Tutto ciò lo deduciamo proprio dai prologhi i quali non presentano come nelle commedie plautine l’antefatto, ma servono a difendersi dagli attacchi dei propri detrattori e a illustrare la sua poetica:

ANDRIA
(Prologo)

Poëta cum primum animum ad scribendum adpulit,
id sibi negoti credidit solum dari
populo ut placerent quas fecisset fabulas;
verum aliter evenire multo intellegit.
Nam in prologis scribundis operam abutitur,
non qui argumentum narret, sed qui malevoli
veteris poëtae maledictis respondeat.
Nunc quam rem vitio dent quaeso animum advortite.
Menander fecit “Andriam” et “Perinthiam”;
qui utramvis recte norit ambas noverit;
non ita dissimili sunt argomento, et tamen
dissimili oratione sunt factae ac stilo;
quae convenere in “Andriam” ex “Perinthia”
fatetur transtulisse atque usum pro suis;
id isti vituperant factum atque in eo disputant
contaminari non decere fabulas.
Faciuntne intellegendo ut nihil intellegant?
Qui cum hunc accusant, Naevium, Plautum, Ennium
accusant; quos hic noster auctores habet,
quorum aemulari exoptat negligentiam
potius quam istorum obscuram diligentiam.
Dehinc ut quiescant porro moneo et desinant
Maledicere, malefacta ne noscant sua.

All’inizio, quando il poeta accostò l’animo allo scrivere, credette ciò: che fosse assegnato a lui il solo compito di far piacere le commedie che avrebbe scritto. Capisce in verità che accade molto diversamente. Infatti spreca l’energia nello scrivere prologhi non per raccontare la trama ma per rispondere alle cattiverie di un vecchio poeta malevolo. Ora, vi prego rivolgete l’animo (prestate attenzione) quale cosa diano al vizio. Menandro ha scritto un’Andria e una Perinzia, e chi conosce l’una le conosce tutte e due. Come trama non sono diverse, però diverse divengono per via del linguaggio e dello stile. Il poeta confessa che ha trasposto dalla Perinzia all’Andria, e ha usato come suoi, gli elementi che gli servivano. E’ questo che gli rinfacciano, loro, che stanno a disputare come egualmente non sia lecito contaminare delle commedie. Ma non mostrano, facendo i saputi, di non sapere nulla? Chi accusa il nostro autore, accusa Nevio, Plauto, Ennio, che egli tiene come maestri e dei quali aspira a imitare la disinvoltura piuttosto che l’oscura diligenza di questi altri. Con il che li avverto, che stiano quieti, d’ora in poi, e la smettano di calunniare, se no vedranno messe in piazza le loro porcherie.

Codice Vaticano del foglio 4° dell’Andria

In questo prologo si mette in evidenza l’acrimonia con cui un vecchio e rancoroso commediografo (Luscio Lanuvio) attacchi le novità di Terenzio e come quest’ultimo debba rispondere, affermando l’assoluta liceità sulla contaminatio. Ma è evidente che criticarlo su questo fatto era cercare un pretesto per metterlo in difficoltà, perché forse ciò che dava veramente fastidio era la novità tematica e il suo diffondersi, soprattutto se tale novità costituiva poi le parole d’ordine di un nuovo gruppo di potere assai influente a Roma:

 ADELPHOE
(Prologo)

Nam quod isti dicunt malevoli, homines nobiles
hunc adiutare adsidueque una scribere,
quod illi maledictum vehemens esse existumant,
eam laudem hic ducit maximam cum illis placet
qui vobis universis et populo placent,
quorum opera in bello in otio in negotio
suo quisque tempore usus est sine superbia.

Infatti questi maldicenti dicono che uomini nobili aiutino (il poeta) e scrivano insieme; ciò che essi reputano sia la più grande calunnia, costui la crede una grandissima lode, poiché piace a loro ciò che piace a voi tutti e al popolo, della cui opera in guerra, in ozio o negli affari, chiunque al momento opportuno ha fatto uso senza alcuna vanagloria.

E’ evidente che il riferimento su riportato si riferisca agli Scipioni che, a quanto pare, non replicarono nulla rispetto alle accuse o all’esaltazione che il commediografo fece loro. Ancora una volta, infatti, si dimostra come gli attacchi contro Terenzio oltre che rappresentare una vera e propria difesa del teatro plautino tradizionale, volessero frenare gli importanti cambiamenti che si stavano verificando in città.

Tali cambiamenti li troviamo sia nella struttura della commedia che nella presentazione dei personaggi:

  1. Minore importanza data alla figura del servo;
  2. Interventi meno frequenti delle parti “cantate” rispetto a quelle “recitate”;
  3. Approfondimento psicologico dei personaggi;
  4. Duplicazione dell’evento, affinché si mettessero in contrapposizione due modi di concepire il modus vivendi.

Adelphoe ad Ostia Antica | Eventi&Spettacoli AGR

Immagini dell’allestimento scenico ad Ostia antica dell’Adelphoe

Uno dei “temi” in cui meglio si coglie sia il concetto del raddoppiamento tematico che dei protagonisti è nell’opera più famosa di Terenzio, gli Adelphoe: è infatti la storia di due fratelli, Dèmea, rigido osservante i costumi tradizionali e Micione, scapolo e amante della vita a cui il primo ha affidato uno dei suoi figli, Eschino, mentre l’altro Ctesifone, è sotto la sua tutela. Diversi sono dunque i padri, diversi i metodi educativi. Infatti Ctesifone è innamorato di una cortigiana, Bacchide, ma non volendo che il padre lo venga a sapere, se ne assume la responsabilità Eschino. Ciò crea un forte fraintendimento con la donna di cui Eschino è innamorato, Panfila, che aspetta un bimbo. Le dicerie su di lui sembrano dare torto al metodo educativo di Micione e ragione a quello di Demea, ma alla fine, in cui tutto s’aggiusterà, si capirà che la vera ragione sta in un compromesso tra l’eccessiva autorità dell’uno e alla troppa libertà dell’altro.

L’EDUCAZIONE A CONFRONTO
(Adelphoe, Atto I, scena 1, vv. 40-67)

Atque ex me hic natus non est, sed ex fratre; is adeo
dissimili studio est iam inde ab adulescentia:
ego hanc clementem vitam urbanam atque otium
secutus sum et, quod fortunatum isti putant,
uxorem numquam habui. Ille contra haec omnia:
ruri agere vitam, semper parce ac duriter
se habere; uxorem duxit: nati filii
duo; inde ego hunc maiorem adoptavi mihi;
eduxi a parvolo, habui, amavi pro meo,
in eo me oblecto, solum id est carum mihi.
Ille ut item contra me habeat facio sedulo:
do, praetermitto, non necesse habeo omnia
pro meo iure agere: postremo, alii clanculum
patres quae faciunt, quae fert adulescentia,
ea ne me celet consuefeci filium.
Nam qui mentiri aut fallere insuerit patrem aut
audebit, tanto magis audebit ceteros.
Pudore et liberalitate liberos
retinere satius esse credo quam metu.
Haec fratri mecum non conveniunt neque placent
venit ad me saepe clamans “Quid agis, Micio?
Quor perdis adulescentem nobis? Quor amat?
Quor potat? Quor tu his rebus sumptum suggeris
vestitu nimio indulges? Nimium ineptus es.”
Nimium ipsest durus praeter aequomque et bonum,
et errat longe mea quidem sententia,
qui imperium credat gravius esse aut stabilius
vi quod fit, quam illud quod amicitia adiungitur.

Eppure questo non è nato da me, ma da mio fratello: lui è a tal punto diverso da me già sin dall’adolescenza: io ho seguito questa comoda vita di città e l’ozio e, ciò che alcuni reputano una cosa fortunata, non presi mai moglie. Quello invece tutto il contrario: vive in campagna, si trova sempre modestamente e duramente; ha preso moglie; gli sono nati due figli; di questi io adottai questo maggiore; lo educai da piccolo, lo ebbi, lo amai come mio, in lui mi diletto, solo questo mi è caro.  Faccio di tutto affinché quello, in cambio, consideri me lo stesso: elargisco, lascio fare, non ritengo necessario che tutte le cose accadano secondo il mio diritto; in ultimo, quelle cose che altri di nascosto ai padri fanno, che porta la giovane età, ho abituato il figlio a non nascondermele. Infatti chi avrà cominciato a mentire o oserà ingannare i padri, tanto più oserà mentire ed ingannare gli altri. Con il rispetto e la generosità credo è meglio trattenere i figli piuttosto che con la paura. Queste cose non vanno a genio né piacciono al fratello con me. Mi viene incontro spesso urlando: “Che fai, Micione? Perché vizi il giovane? Perché faccia l’amore? Perché beva? Perché fornisci denari per queste cose e sei troppo accomodante sul suo abbigliamento? Sei troppo indulgente!”. Egli stesso è troppo duro oltre il giusto ed il bene e sbaglia molto, secondo il mio parere, chi crede che l’autorità sia più forte e più stabile se la si ottiene con la forza, piuttosto che con l’amicizia.

E’ questo uno dei passi dove meglio si sottolinea la differenza tra il teatro plautino e quello terenziano: il primo non provoca confronti “ideologici” su cui lo spettatore debba riflettere. Qui invece Terenzio si fa portavoce di un mondo nuovo che mette in crisi l’istituto del mos maiorum. Se si guarda, infatti, alle tavole delle leggi Romane, su cui ancora venivano basati i rapporti familiari, si chiarirà sin da subito come il commediografo qui cerchi di metterli in crisi (con le dovute cautele) rappresentando un personaggio che vuole attirare simpatia nei suoi confronti, ma che il pubblico trova così nuovo e in certo qual modo troppo “greco” e intellettuale, da non riuscire a comprenderlo del tutto.

Salvatore Lo Leggio: Classici. La suocera “umana” di Terenzio (Paolo Lago)

Immagine della rappresentazione dell’Hecyra del Teatro di Smirne (2010)

Ce ne dà dimostrazione un’altra commedia, che incorse in un certo “insuccesso”, l’Hecyra. Vi si racconta di Panfilo che, pur innamorato della cortigiana Bacchide, per volere del padre, sposa Filumena. Costretto ad allontanarsi per motivi d’affari, al suo ritorno apprende che la moglie è tornata a vivere con i genitori. In un primo momento pensa che la fuga di Filumena sia da attribuire al brutto carattere di sua madre Sostrata, ma ben presto si scopre che la moglie ha abbandonato il tetto coniugale poiché è rimasta incinta a seguito alla violenza subita da parte di uno sconosciuto. Panfilo, per onore, non vuole che la moglie torni a vivere con lui, ma vuole mantenere il segreto sul vero motivo, che egli ufficialmente attribuisce al conflitto tra la sposa e la madre. Quest’ultima si dichiara pronta a ritirarsi in campagna per lasciare spazio ai due giovani sposi, mentre il padre teme che il figlio sia ancora innamorato di Bacchide. A sciogliere l’intrico è proprio la cortigiana: infatti si reca personalmente da Filumena per rassicurarla che tra lei e Panfilo tutto è finito; la madre di Filumena, riconosce nell’anello che Bacchide porta al dito lo stesso che era stato strappato alla figlia durante la violenza; Panfilo, dunque, è riconosciuto responsabile dello stupro e quindi padre legittimo del neonato; a questo punto, dopo essersi congedato con affetto e gratitudine dalla generosa Bacchide, può accogliere di nuovo in casa la moglie.

LA SUOCERA
(Hecyra, Atto IV, scena II, 577-588)

Non clam me est, gnate mi, tibi me esse suspectam, uxorem tuam
propter meos mores hinc abisse, etsi ea dissimulas sedulo.
Verum ita me di ament itaque obtingant ex te quae exoptem mihi ut
numquam sciens commerui merito ut caperet odium illam mei.
Teque ante quod me amare rebar, ei rei firmasti fidem;
nam mihi intus tuus pater narravit modo quo pacto me habueris
praepositam amori tuo; nunc tibi me certumst contra gratiam
referre, ut apud me praemium esse positum pietati scias.
Mi Pamphile, hoc et vobis et meae commodum famae arbitror:
ego rus abituram hinc cum tuo me esse certo decrevi patre,
ne mea praesentia obstet neu causa ulla restet relicua
quin tua Philumena ad te redeat.

Non è un mistero per me, figliuolo mio: tu sospetti di me e pensi che tua moglie se ne sia andata di qua a causa del mio carattere, anche se fai di tutto per nasconderlo; ma così mi aiutino gli dei e così mi possa venire da te tutto quello che desidero, come è vero che io non l’ho fatto apposta e non ho meritato che lei fosse presa d’odio per me; quanto a te, se già pensavo che tu mi volessi bene, ora me ne hai dato la certezza che tuo padre a casa mi ha raccontato come tu hai preferito me al tuo amore; ora sono decisa a contraccambiarti, perché tu sappia che la pietà filiale trova in me la sua ricompensa. Panfilo mio, credo che questo giovi a voi e al mio buon nome: ho deciso di andarmene di qua, in campagna, insieme con tuo padre; voglio che la mia presenza non sia un ostacolo e non resti alcun motivo perché la tua Filumena non ritorni da te.

E’ evidente che, sia pure nel semplice contenuto dell’opera, appaia in evidenza la centralità delle figure femminili: tuttavia esse non sono viste come “oggetti del desiderio”, ma come personaggi pensanti e generosi. Prendiamo, ad esempio, proprio Sostrata, mamma di Panfilo e suocera di Filumena: lei, per amore del figlio e della sua felicità, è disposta a rinunciare a lui e ad allontanarsi. E’ proprio un personaggio che esce dallo stereotipo di tante altre “mamme” romane, che considerano i figli propri gioielli, forgiati per la patria virtù.

Hecyra - Wikipedia

Mosaico con tre maschere che rappresentano tre donne nel teatro comico nella casa di Pompei di Cicerone

Ma vediamo il ritratto della cortigiana Bacchide:

BACCHIDE
(Hecyra, Atto V, scena III)

Haec tot propter me gaudia illi contigisse laetor:
etsi hoc meretrices aliae nolunt; neque enim est in rem nostrum
ut quisquam amator nuptiis laetetur. Verum ecastor
numquam animum quaesti gratia ad malas adducam partis.
Ego dum illo licitumst usa sum benigno et lepido et comi.
Incommode mihi nuptiis evenit, factum fateor:
at pol me fecisse arbitror ne id merito mi eveniret.
Multa ex quo fuerint commoda, eius incommoda aequomst ferre.

Sono contenta che da me gli siano venute tutte queste gioie, anche se altre cortigiane non la penserebbero così; perché a noi non conviene che uno dei nostri amanti abbia fortuna nel matrimonio; ma io, per Castore, non mi risolverò mai a certe cattiverie per il mio interesse. Io, a suo tempo, l’ho trovato buono con me, garbato, gentile. Le sue nozze mi hanno portato sfortuna, lo ammetto; meno male che io credo di non aver fatto niente per meritarlo: è’ giusto rassegnarsi ad avere dei dispiaceri da uno, quando se ne sono avuti tanti piaceri.

Ma è in questo passo che meglio si misura la distanza tra il teatro plautino e quello di Terenzio. Se nel brano precedente, pur nella novità, è una mamma che opera per il bene del figlio, è inconcepibile che a farlo sia una cortigiana, nell’immaginario collettivo una prostituta dedita al suo interesse e non certo al bene, soprattutto se tale bene le sottrae denaro. Bacchide è tutt’altro: è una cortigiana buona, o meglio una cortigiana figlia dell’ellenismo e non certo del mos maiorum che tutte quelle che non stavano in casa ad accudire ai lavori domestici erano donne di poco conto nella considerazione della società.

Tale considerazione sulla donna, ma su tutti i personaggi del suo teatro, Terenzio la esplicita in un famoso detto, che fa parte di un discorso di Cremete rivolto a Menedemo, nell’Heautontimorumenos (Il punitore di se stesso), proprio nel primo atto della commedia:

Heautontimorumenos - Wikipedia

Manoscritto dell’Heautontimorumenos dell’XI sec.

HOMO SUM
(Heautontimorumenos, Atto I, scena 1)

CHREMES:
Numquam tam mane egredior neque tam vesperi
domum revertor quin te in fundo conspicer
fodere aut arare aut aliquid ferre; denique
nullum remittis tempus neque te respicis.
Haec non voluptati tibi esse satis certo scio: “At
enim, dices, quantum hic operis fiat paenitet”.
Quod in opere faciundo operae consumis tuae,
si sumas in illis exercendis, plus agas.

MENEDEMUS
Chreme, tantumne ab re tuast oti tibi
aliena ut cures ea quae nihil ad te attinent?

CHREMES:
Homo sum: umani nihil a me alienum puto.

CREMETE: Non esco mai tanto presto al mattino, non torno mai tanto tardi la sera, che non ti veda nel tuo fondo a scavare, arare, portar pesi. Insomma, non ti dai un momento di sosta e non hai nessun riguardo: sono sicuro che questo lavoro non è per te un divertimento. Tu dirai “E’ che mi dispiace vedere quanto poco si lavora qui”. Se tutta la fatica che spendi in codesto lavoro, la mettessi a tenere sulla breccia degli altri, ci guadagneresti un tanto. MENEDEMO: Cremete, hai così poco da pensare alle cose tue, da doverti occupare dei fatti degli altri, e di quello che non ti riguarda? CREMETE: Sono un uomo, e di quello che è umano nulla io trovo che non mi riguardi.

Un'idea di vita.: "Sono un essere umano ..."

A Ravello nella costiera amalfitana viene ricordato il pensiero di Terenzio

Questo passo è inserito, proprio all’inizio delle commedia, quando Cremete, vedendo il suo vicino di casa Menedemo “ammazzarsi” di fatica, gli chiede il perché, e lui, dopo un po’ di ritrosia, gli risponde che lo fa per punirsi perché il figlio, contro le sue rimostranze, è partito a fare il mercenario in Asia, così al ritorno, in possesso del denaro, potrà amare la donna che il padre gli nega perché povera. E’ l’ultimo passo della commedia, quell’Homo sum, humani nihil a me alienum puto quello che verrà ripreso non solo come esempio del concetto di humanitas che Terenzio inaugura nella letteratura latina, ma che sarà alla base anche dell’umanesimo dapprima italiano e quindi europeo del 1400, che proprio in Terenzio e in questa espressione troverà la sua base. A questo punto bisognerà meglio chiedersi a cosa corrisponde tale humanitas.  Con essa potremo indicare quell’ideale di attenzione verso l’intero essere umano alla cui base vi è la benevolenza e la tolleranza; a livello antropologico si può dire che con lui ed il Circolo degli Scipioni si inaugura un nuovo periodo della storia Romana, che aprirà lo sguardo, sempre con più attenzione, alla filosofia e al modo di concepire la vita nella sua totalità.