MARCIO PORCIO CATONE

Sii padrone dell'argomento – Italica Res

Prima d’affrontare il discorso su Catone è bene affrontare l’argomento su come fu possibile, sin dall’inizio, instaurare una prosa a Roma che fosse prettamente greca. Se infatti, al di là delle prime forme preletterarie, quelle epiche o teatrali avevano tutte più o meno riportato, adattandole al pubblico romano, opere greche (più precisamente avevano usato, con termine latino vertere i modelli ellenici), la prosa, almeno suo inizio, è greca. Il genere storiografico, infatti, non sarà in latino, sebbene gli autori di tali opere siano famosi senatori romani, come Fabio Pittorre e Cincio Alimento, ma in greco.

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Frammento di un papiro della Repubblica di Platone

Infatti il genere storico nacque precisamente nel V sec. a. C. quando Erodoto pubblicò le Storie, attraverso le quali, giunge a raccontarci le guerre greco persiane. Il suo racconto vuole raccontarci i fatti meravigliosi e proprio per questo il suo testo (giuntoci integro) va dalla mitologia, all’etnografia, alla novellistica, oltre naturalmente agli avvenimenti politici. Più storiografico di lui è certamente Tucidide, che alla fine del V sec., ci narra a guerra tra Sparta e Atene. Egli introduce il concetto della ricerca come individuazione dei fatti reali, quindi ricerca di fonti. Ma alla base della sua opera permane un senso tragico della storia, come espressione della lotta tra Tyche (destino) e la volontà di potenza dell’uomo. Per questo anche l’uso dei discorsi dei protagonisti, a voler cercare quasi le causa psichiche del loro agire. Il suo stile diventa sublime e per questo modello per tutta la storiografia futura. Meno importante Senofonte (III sec.) di cui conserviamo diverse opere: certamente fondamentale è per l’invenzione della monografia storica di cui si servirà il nostro Sallustio. L’ultimo è Polibio, ma siamo già a Roma, nel II secolo, al tempo delle guerre cartaginesi: dallo stile scarno, ma preciso, il suo tema verte sulla motivazione che ha fatto grande Roma.  

Tutto questo:

  1. Perché essi si rivolgono alla storiografia affinché si dimostri che l’opera romana è stata necessaria e per rispondere alle accuse che quella cartaginese le muoveva contro: si rivolgevano quindi ad un pubblico internazionale;
  2. Per riprendere un genere, considerato tra i più alti della cultura greca, nella stessa lingua con cui gli iniziatori l’avevano prodotto, senza dimenticare di “romanizzarlo” scrivendolo anno per anno, secondo il costume degli Annales dei Pontefici Massimi.

Il primo a scrivere storiografia (e non solo) in latino, fu appunto, Catone.   

Notizie biografiche

Marcio Porcio Catone nasce a Tuscolo nel 234 a. C (vicino all’attuale Frosinone) da una famiglia di possidenti agrari. Ebbe una lunghissima carriera politica come homo novus (cioè senza alcun antenato che avesse già ricoperto cariche istituzionali), a partire dall’intervento militare durante la Seconda guerra Punica come tribuno militare, fino ad arrivare al consolato.

Ma la sua attività è ricordata soprattutto per il ruolo condotto da censore nel 184. Fu talmente severo verso i nuovi costumi e l’ostentazione del lusso (si dice che rimproverò un senatore in pubblico perché aveva baciato la moglie in pubblico) che fece di ciò una vera e propria arma politica contro l’affermazione dell’ellenismo. Tale posizione la mantenne anche verso la filosofia, da lui considerata come corruttrice della gioventù. Sul piano prettamente politico si distinse per aver osteggiato le scelte espansionistiche che miravano ad allargare il potere romano verso oriente e si batté affinché si estirpasse per sempre la nemica Cartagine, la cui ripresa temeva. Famosa è la sua espressione Carthago delenda est. Morì nel 149 a. C. prima che Scipione Emiliano mettesse in pratica la sua volontà con la terza e definitiva guerra punica.

Opere

Catone fu un prolifico scrittore e si esercitò nei campi dell’oratoria, della storiografia e della precettistica.

Oratoria

catone il censore - porcius cato

Statua che raffigura Catone

L’oratoria come genere precede, certamente, quella di Catone: sappiamo che grandi personaggi la utilizzarono durante il periodo repubblicano e ne conoscevano la distinzione aristotelica che la classificava in deliberativa (il consigliare o lo sconsigliare), giudiziaria (l’accusa o la difesa) e la epidittica (l’elogio o il biasimo). Ma la grande differenza che vi è fra i predecessori e Catone è la consapevolezza “letteraria” che tale arte possedeva. Infatti sappiamo da Cicerone (grande cultore di tale disciplina) che Catone lasciò ben 150 orazioni tra quelle deliberative e quelle giudiziarie e che ne curò la pubblicazione. Sempre Cicerone ci ricorda che furono famose quelle contro il lusso e quelle con cui si difese dagli attacchi dei suoi nemici politici.

Di esse non ci rimangono che frammenti, soprattutto citati da altri autori. Ma anche lui si citò: nell’opera le Origines sembra abbia riportato la sua orazione De Rhodiensibus in cui invitava il Senato Romano ad essere magnanimo verso la popolazione di Rodi che aveva mostrato scarso entusiasmo nell’appoggiare Roma durante la guerra contro il re Perseo di Macedonia. Di questa esperienza ci piace ricordare, non in un’opera retorica, ma nei Praecepta ad filium Marcum alcune definizioni che dà di quest’arte, rimaste proverbiali:

Orator est vir bonus peritus dicendi

L’oratore è un uomo onesto esperto nel parlare

e

Rem tene, verba sequentur

Possiedi l’argomento, le parole verranno da sè

in cui si mette in rilievo l’onestà intellettuale che egli considera propria di tale disciplina.

Il di Catone, il manuale del perfetto proprietario terriero – Studia Humanitatis – παιδεία

 (Il fattore) Non sia girandolone, sia sempre sobrio

Storiografia

Le Origines di Catone sono la prima opera storica della letteratura latina. Di essa ci rimangono pochi e brevi frammenti. Tuttavia sappiamo che era distribuita in sette libri che partivano dalla fondazione ai tempi suoi contemporanei:

  • Libro I: la fondazione di Roma e il periodo monarchico;
  • Libri II e III: le origini delle città italiche che contribuirono alla gloria di Roma;
  • Libri IV e V: Prima e seconda guerra punica;
  • Libro VI: Le guerre in Oriente
  • Libro VII: Avvenimenti fino alla sua morte.

Bisogna da subito ricordare che tale opera pone una netta differenza con gli Annali dei Pontifici:

LA POLEMICA CON GLI ANNALISTI

Non lubet scribere quod in tabula apud pontificem maximum est, quotiens annona cara, quotiens lunae aut solis lumine caligo aut quid obstiterit.

Non mi interessa scrivere quello che si trova registrato nella tavola del pontefice massimo, quante volte i prezzi dei viveri siano rincarati, quante volte una caligine o qualcos’altro abbia offuscato la luce della luna o del sole. 

di cui si critica l’attenzione per particolari minuti ed insignificanti. Inoltre egli si distanzia da essi per l’importanza che gli stessi Annali attribuivano ai Senatori. Infatti egli si peritò di non scrivere, nella sua opera di storico, alcun nome di un generali o di un politico, ma soltanto di piccoli uomini il cui eroismo è determinato dalla loro incredibile virtù, come ci dice di Cedicio:

 L’EROICO CEDICIO

Dii inmortales tribuno militum fortunam ex virtute eius dedere. Nam ita evenit: cum saucius multifariam ibi factus esset, tamen vulnus capitis nullum evenit, eumque inter mortuos defetigatum volneribus atque, quod san-guen eius defluxerat, cognovere. Eum sustulere, isque convaluit, saepeque postilla operam rei publicae fortem atque strenuam perhibuit illoque facto, quod illos milites subduxit, exercitum ceterum servavit.

Gli dèi immortali concessero al tribuno militare una buona sorte, grazie al suo valore. Infatti capitò ciò: pur essendo stato colpito in varie parti del corpo, tuttavia non riportò alcuna ferita mortale, e fu pertanto possibile distinguerlo tra i morti, prostrato dalle ferite e dalla perdita di sangue. Fu trasportato in salvo, guarì e in seguito spesso prestò allo Stato la sua opera di combattente indomito e valoroso; e in quell’impresa, per il fatto di aver condotto quei valorosi al sacrificio, egli salvò il resto dell’esercito.
SCUTA IMP. (I) (sec. I a.C.-III sec. d.C.)

Soldati romani con scudo

Infatti questo passo è messo in contrapposizione, come ci riporta lo scrittore tardo Aulo Gellio all’impresa di Leonida alle Termopoli. Qui egli cita il nome di Cedicio, semplice tribuno (e non quello del console); nel passo seguente cita Leonida e la sua sconfitta. Ma, come dice all’inizio del brano, gli occhi degli dei sono posati sul romano e quindi sull’esercito di Roma per la sua virtus.

Non dobbiamo dimenticare un’apertura e nel contempo una chiusura: la prima riguarda le città italiche, il cui racconto delle origini sembra altrettanto importante di quello di Roma, in quanto tutte saranno capaci di convergere e quindi formare quel vir Romanus fortemente legato al mos maiorum; dall’altra la chiusura totale verso il mondo greco e quindi verso il “circolo degli Scipioni”, che minava alle radici i valori e il modo di pensare del popolo romano.

Precettistica

Le opere precettistiche di Catone sono due: i Libri o Praecepta ad Marcum filium e il De agri cultura. Della prima abbiamo, come delle altre opere di Catone, solo frammenti. Essi dovevano essere una sorta di enciclopedia su vari argomenti come medicina, agricoltura, oratoria, diritto, nei quali venivano espressi dei principi, probabilmente dettati dall’esperienza dell’uomo politico stesso. Appare evidente, contro la moda che cominciava ad imporsi allora, la polemica contro la cultura greca, come si vede in questo passo:

CONTRO I GRECI

Dicam de istis suo loco, Marce fili, quid Athenis exquisitum habeam, et quid bonum sit illorum litteras inspicere, non perdiscere. Vincam nequissimum et indocile esse genus illorum. Et hoc puta vatem dixisse, quandoque ista gens suas litteras dabit, omnia corrumpet, tum etiam magis, si medicos suos hoc mittet. Iurantur inter se barbaros necare omnis medicina, sed hoc ipsum mercede faciunt, ut fides iis sit et facile disperdent. Nos quoque dictitant barbaros et spurcius nos quam alios Opicon appellatione foedant. Interdixi tibi de medicis.

medico della mutua romana

Medici a Roma

A suo tempo, o Marco, ti dirò di codesti Greci quello che sono venuto a sapere ad Atene, e come sia bene dare semplicemente un’occhiata alla loro letteratura, non studiarla a fondo. Ti dimostrerò che sono una razza di gente perversa e indisciplinata. E questo fa conto che te l’abbia detto un profeta: se mai codesto popolo, quando che sia, ci darà la sua cultura, corromperà ogni cosa; e tanto più se manderà qui da noi i suoi medici. Hanno fatto un giuramento fra loro, di uccidere tutti i barbari con la medicina: ma lo fanno a pagamento, perché non si diffidi di loro e possano più facilmente mandarci in rovina. An-che noi chiamano barbari, anzi più degli altri ci disprezzano infamandoci con lo sconcio appellativo di Opici (oschi, meridionali). Guardati dai medici, te lo impongo.

E’ chiaro che qui Catone non si rivolga soltanto al figlio Marco, ma voglia allontanare i giovani Romani da qualsiasi influenza che possa minare il mos maiorum e non importa se per far questo Catone dia voce, non si sa se creduta da lui a no, a tutti quei pregiudizi che abbiamo visti già operanti nei testi di Plauto.

Più importante, perché ci è giunto integro, è il De agri cultura e tale integrità è dovuta al fatto che tale testo è un vero e proprio manuale che è stato copiato e diffuso, in quanto tecnico, sin dal medioevo. E’ formato da 162 capitoli e, contenutisticamente, si possono cogliere in esso sia consigli pratico-tecnici che modus vivendi politici. Infatti è proprio come si deve condurre un fondo che  ci si rende conto anche del modo in cui l’autore concepisce i rapporti interpersonali che l’ellenismo tentava di mettere in discussione. Infatti l’ottica che presiede il testo è prettamente quella del profitto, e i lavoratori sono quelli che bisogna sfruttare per farlo rendere il più possibile. D’altra par-te bisogna ricordare che per Catone il fondo è il modo attraverso cui si può conservare il mos maiorum, mentre il commercio, con l’apertura verso nuovi mercati e nuove persone non può che metterlo in crisi. Vediamo questo passo:

Italia, m.p. catone, de agri cultura, e varrone, de rustica, XV sec., pluteo 51.2.JPG

Edizione del De Agricoltura del 1500

I DOVERI DEL PADRONE DEL PODERE

Pater familias, ubi ad villam venit, ubi larem familiarem salutavit, fundum eodem die, si potest, circumeat; si non eodem die, at postridie. Ubi cognovit quo modo fundus cultus siet, operaque quae facta infectaque sient, postridie eius diei vilicum vocet; roget quid operis siet factum, quid restet, satisne tempori opera sient confecta, possitne quae reliqua sient conficere, et quid factum vini, frumenti aliarumque rerum omnium. Ubi ea cognovit, rationem inire oportet operarum, dierum; si ei opus non apparet, dicit vilicus sedulo se fecisse, servos non valuisse, tempestates malas fuisse, servos aufugisse, opus publicum effecisse, ubi eas aliasque causas multas dixit, ad rationem operum operarumque vilicum revocat. Cum tempestates pluviae fuerint, quae opera per imbrem fieri potuerint: dolia lavari, picari, villam purgari, frumentum tranferri, stercus foras efferri, stercilinum fieri, semen purgari, funes sarciri, novos fieri; centones, cuculiones familiam oportuisse sibi sarcire; per ferias potuisse fossas veteres tergeri, viam publicam muniri, vepres recidi, hortum foderi, pratum purgari, vigas vinciri, spinas eruncari, expinsi far, munditias fieri; cum servi aegrotarint, cibaria tanta dari non oportuisse.

Villa rustica - Wikipedia

Pars rustica

Il capo di casa, quando giunge al podere, quando ha salutato il lare familiare, nello stesso giorno, se può, visiti il podere, se non lo stesso giorno, almeno il giorno seguente. Quando viene a sapere in che modo il podere sia stato coltivato, e in che modo le opere che sono state fatte e non fatte, chiami il fattore il giorno seguente di quel giorno; chieda quale delle opere sia stata fatta, quale resti da fare, e se abbastanza per tempo le opere siano state effettuate, e se possa quelle rimaste siano effettuate, e quanto di vino sia stato fatto, di frumento e di tutte le altre cose. Quando ha saputo quelle cose, è opportuno fare il conto delle opere, dei giorni; se per lui il lavoro agricolo non è evidente, il fattore dice che lui lo ha eseguito con solerzia, che i servi non stavano bene, che c’era stato cattivo tempo, che i servi erano fuggiti, che ha eseguito lavori pubblici, dopo che ha detto queste e molte altre cause, richiama il fattore a fare il conto delle opere e degli operai. Quanto il tempo è stato piovoso, (richiama il fattore) quali lavori avrebbero potuto esser fatti durante la pioggia: sarebbe stato opportuno che le botti fossero lavate, fosse messa la pece, la fattoria pulita, il frumento trasportato, il letame portato fuori, il letamaio fatto, le sementi pulite, le funi riparate, farne nuove; che i servi riparassero abiti, cappucci; durante le feste avrebbero potuto pulire le vecchie fosse, aggiustare la strada pubblica, tagliare i cespugli, zappare l’orto, pulire il prato, legare le fascine, togliere le spine, macinare il farro, fare pulizia; quando i servi si fossero ammalati, non era necessario che tanto cibo fosse dato.

E’ un passo esemplare in quanto in esso vediamo espressi i due concetti sopra illustrati: da una parte viene detto al padrone della fattoria, dopo aver, si direbbe oggi, ringraziato Dio, esattamente come comportarsi e cosa dire al fattore in caso di lavori non proprio eseguiti bene; dall’altro il modo in cui trattare i sottoposti fino ad arrivare all’assurdo, per oggi, ma non per ieri, di dar loro meno da mangiare o venderli se l’energia usata per lavorare fosse minore in quanto malati o vecchi.

PUBLIO TERENZIO AFRO

Publio Terenzio Afro - Wikipedia

Se Plauto è stato l’incontrastato “padrone” del teatro “popolare”, tanto da far sì che bastasse il suo nome per ottenere successo, Terenzio invece ha rappresentato il teatro d’èlite, portavoce di una classe aristocratica e intellettuale, che si riconosce nei nuovi valori convogliati all’interno di quello che suole definirsi come il “circolo degli Scipioni”. Con questo termine si ci riferisce non ad un movimento coeso, ma ad un gruppo di persone che ruotano intorno alla figura di Scipione Emiliano, figlio di Emilio Paolo che, con la vittoria sul re di Macedonia, portò a Roma l’intera biblioteca greca nonché il filosofo stoico Panezio. Inizia così, da parte di alcuni intellettuali e aristocratici che lo frequentarono, un nuovo modo di intendere il modus vivendi che produsse proprio due gruppi, quello scipionico, pronto ad allargare il suo modo di pensare grazie alla cultura filosofica greca e l’altro, invece, il cui massimo esponente è Catone il Censore, che vede in quest’atteggiamento un attentato ai valori tradizionali della repubblica che costituiscono il mos maiorum.  

Notizie biografiche

Terenzio nasce a Cartagine, come ci pensare il suo cognomen Afer, tra il 195/185 a.C. Sarebbe arrivato a Roma come schiavo da Terenzio Lucano, da cui prese appunto il nome, e fu in seguito protetto proprio da Scipione Emiliano e Lelio, come egli stesso ci testimonia in un suo prologo. Girarono voci molto feroci nei suoi confronti, proprio per l’amicizia con i suoi illustri protettori, sia di tipo sessuale che letterario, ma ciò sembra appartenere più alla polemica culturale che a una vera e propria vicenda biografica. Sembra morisse giovanissimo in viaggio verso la Grecia, infatti gira il rumor che fosse morto di dispiacere per aver perduto in mare un numeroso numero di commedie sulle quali aveva intenzione di lavorare. La data della sua morte si aggirerebbe nel 158, molto prima della terza guerra punica.

Terenzio: vita e opere | Studenti.it

Ritratto immaginario di Terenzio

Opere

Le commedie terenziane sono sei e ci sono tutte pervenute integralmente. Di esse si ha anche la cronologia, riportata dai manoscritti:

  1. 166 – Andria (La donna di Andro);
  2. 165 – Hécyra (La suocera);
  3. 163 – Heautontimorùmenos (Il punitore di se stesso);
  4. 161 – Eunuchus (L’eunuco)
  5. 161 – Phormio (Formione)
  6. 160 – Adelphoe (I fratelli)

Al contrario di Plauto, Terenzio non ebbe un grande successo; la maggiore attenzione data ai personaggi e ad alcuni temi non prettamente “comici”, le stesse polemiche letterarie con il confronto con il suo predecessore, non gli diedero il successo sperato. Tutto ciò lo deduciamo proprio dai prologhi i quali non presentano come nelle commedie plautine l’antefatto, ma servono a difendersi dagli attacchi dei propri detrattori e a illustrare la sua poetica:

ANDRIA
(Prologo)

Poëta cum primum animum ad scribendum adpulit,
id sibi negoti credidit solum dari
populo ut placerent quas fecisset fabulas;
verum aliter evenire multo intellegit.
Nam in prologis scribundis operam abutitur,
non qui argumentum narret, sed qui malevoli
veteris poëtae maledictis respondeat.
Nunc quam rem vitio dent quaeso animum advortite.
Menander fecit “Andriam” et “Perinthiam”;
qui utramvis recte norit ambas noverit;
non ita dissimili sunt argomento, et tamen
dissimili oratione sunt factae ac stilo;
quae convenere in “Andriam” ex “Perinthia”
fatetur transtulisse atque usum pro suis;
id isti vituperant factum atque in eo disputant
contaminari non decere fabulas.
Faciuntne intellegendo ut nihil intellegant?
Qui cum hunc accusant, Naevium, Plautum, Ennium
accusant; quos hic noster auctores habet,
quorum aemulari exoptat negligentiam
potius quam istorum obscuram diligentiam.
Dehinc ut quiescant porro moneo et desinant
Maledicere, malefacta ne noscant sua.

All’inizio, quando il poeta accostò l’animo allo scrivere, credette ciò: che fosse assegnato a lui il solo compito di far piacere le commedie che avrebbe scritto. Capisce in verità che accade molto diversamente. Infatti spreca l’energia nello scrivere prologhi non per raccontare la trama ma per rispondere alle cattiverie di un vecchio poeta malevolo. Ora, vi prego rivolgete l’animo (prestate attenzione) quale cosa diano al vizio. Menandro ha scritto un’Andria e una Perinzia, e chi conosce l’una le conosce tutte e due. Come trama non sono diverse, però diverse divengono per via del linguaggio e dello stile. Il poeta confessa che ha trasposto dalla Perinzia all’Andria, e ha usato come suoi, gli elementi che gli servivano. E’ questo che gli rinfacciano, loro, che stanno a disputare come egualmente non sia lecito contaminare delle commedie. Ma non mostrano, facendo i saputi, di non sapere nulla? Chi accusa il nostro autore, accusa Nevio, Plauto, Ennio, che egli tiene come maestri e dei quali aspira a imitare la disinvoltura piuttosto che l’oscura diligenza di questi altri. Con il che li avverto, che stiano quieti, d’ora in poi, e la smettano di calunniare, se no vedranno messe in piazza le loro porcherie.

Codice Vaticano del foglio 4° dell’Andria

In questo prologo si mette in evidenza l’acrimonia con cui un vecchio e rancoroso commediografo (Luscio Lanuvio) attacchi le novità di Terenzio e come quest’ultimo debba rispondere, affermando l’assoluta liceità sulla contaminatio. Ma è evidente che criticarlo su questo fatto era cercare un pretesto per metterlo in difficoltà, perché forse ciò che dava veramente fastidio era la novità tematica e il suo diffondersi, soprattutto se tale novità costituiva poi le parole d’ordine di un nuovo gruppo di potere assai influente a Roma:

 ADELPHOE
(Prologo)

Nam quod isti dicunt malevoli, homines nobiles
hunc adiutare adsidueque una scribere,
quod illi maledictum vehemens esse existumant,
eam laudem hic ducit maximam cum illis placet
qui vobis universis et populo placent,
quorum opera in bello in otio in negotio
suo quisque tempore usus est sine superbia.

Infatti questi maldicenti dicono che uomini nobili aiutino (il poeta) e scrivano insieme; ciò che essi reputano sia la più grande calunnia, costui la crede una grandissima lode, poiché piace a loro ciò che piace a voi tutti e al popolo, della cui opera in guerra, in ozio o negli affari, chiunque al momento opportuno ha fatto uso senza alcuna vanagloria.

E’ evidente che il riferimento su riportato si riferisca agli Scipioni che, a quanto pare, non replicarono nulla rispetto alle accuse o all’esaltazione che il commediografo fece loro. Ancora una volta, infatti, si dimostra come gli attacchi contro Terenzio oltre che rappresentare una vera e propria difesa del teatro plautino tradizionale, volessero frenare gli importanti cambiamenti che si stavano verificando in città.

Tali cambiamenti li troviamo sia nella struttura della commedia che nella presentazione dei personaggi:

  1. Minore importanza data alla figura del servo;
  2. Interventi meno frequenti delle parti “cantate” rispetto a quelle “recitate”;
  3. Approfondimento psicologico dei personaggi;
  4. Duplicazione dell’evento, affinché si mettessero in contrapposizione due modi di concepire il modus vivendi.

Adelphoe ad Ostia Antica | Eventi&Spettacoli AGR

Immagini dell’allestimento scenico ad Ostia antica dell’Adelphoe

Uno dei “temi” in cui meglio si coglie sia il concetto del raddoppiamento tematico che dei protagonisti è nell’opera più famosa di Terenzio, gli Adelphoe: è infatti la storia di due fratelli, Dèmea, rigido osservante i costumi tradizionali e Micione, scapolo e amante della vita a cui il primo ha affidato uno dei suoi figli, Eschino, mentre l’altro Ctesifone, è sotto la sua tutela. Diversi sono dunque i padri, diversi i metodi educativi. Infatti Ctesifone è innamorato di una cortigiana, Bacchide, ma non volendo che il padre lo venga a sapere, se ne assume la responsabilità Eschino. Ciò crea un forte fraintendimento con la donna di cui Eschino è innamorato, Panfila, che aspetta un bimbo. Le dicerie su di lui sembrano dare torto al metodo educativo di Micione e ragione a quello di Demea, ma alla fine, in cui tutto s’aggiusterà, si capirà che la vera ragione sta in un compromesso tra l’eccessiva autorità dell’uno e alla troppa libertà dell’altro.

L’EDUCAZIONE A CONFRONTO
(Adelphoe, Atto I, scena 1, vv. 40-67)

Atque ex me hic natus non est, sed ex fratre; is adeo
dissimili studio est iam inde ab adulescentia:
ego hanc clementem vitam urbanam atque otium
secutus sum et, quod fortunatum isti putant,
uxorem numquam habui. Ille contra haec omnia:
ruri agere vitam, semper parce ac duriter
se habere; uxorem duxit: nati filii
duo; inde ego hunc maiorem adoptavi mihi;
eduxi a parvolo, habui, amavi pro meo,
in eo me oblecto, solum id est carum mihi.
Ille ut item contra me habeat facio sedulo:
do, praetermitto, non necesse habeo omnia
pro meo iure agere: postremo, alii clanculum
patres quae faciunt, quae fert adulescentia,
ea ne me celet consuefeci filium.
Nam qui mentiri aut fallere insuerit patrem aut
audebit, tanto magis audebit ceteros.
Pudore et liberalitate liberos
retinere satius esse credo quam metu.
Haec fratri mecum non conveniunt neque placent
venit ad me saepe clamans “Quid agis, Micio?
Quor perdis adulescentem nobis? Quor amat?
Quor potat? Quor tu his rebus sumptum suggeris
vestitu nimio indulges? Nimium ineptus es.”
Nimium ipsest durus praeter aequomque et bonum,
et errat longe mea quidem sententia,
qui imperium credat gravius esse aut stabilius
vi quod fit, quam illud quod amicitia adiungitur.

Eppure questo non è nato da me, ma da mio fratello: lui è a tal punto diverso da me già sin dall’adolescenza: io ho seguito questa comoda vita di città e l’ozio e, ciò che alcuni reputano una cosa fortunata, non presi mai moglie. Quello invece tutto il contrario: vive in campagna, si trova sempre modestamente e duramente; ha preso moglie; gli sono nati due figli; di questi io adottai questo maggiore; lo educai da piccolo, lo ebbi, lo amai come mio, in lui mi diletto, solo questo mi è caro.  Faccio di tutto affinché quello, in cambio, consideri me lo stesso: elargisco, lascio fare, non ritengo necessario che tutte le cose accadano secondo il mio diritto; in ultimo, quelle cose che altri di nascosto ai padri fanno, che porta la giovane età, ho abituato il figlio a non nascondermele. Infatti chi avrà cominciato a mentire o oserà ingannare i padri, tanto più oserà mentire ed ingannare gli altri. Con il rispetto e la generosità credo è meglio trattenere i figli piuttosto che con la paura. Queste cose non vanno a genio né piacciono al fratello con me. Mi viene incontro spesso urlando: “Che fai, Micione? Perché vizi il giovane? Perché faccia l’amore? Perché beva? Perché fornisci denari per queste cose e sei troppo accomodante sul suo abbigliamento? Sei troppo indulgente!”. Egli stesso è troppo duro oltre il giusto ed il bene e sbaglia molto, secondo il mio parere, chi crede che l’autorità sia più forte e più stabile se la si ottiene con la forza, piuttosto che con l’amicizia.

E’ questo uno dei passi dove meglio si sottolinea la differenza tra il teatro plautino e quello terenziano: il primo non provoca confronti “ideologici” su cui lo spettatore debba riflettere. Qui invece Terenzio si fa portavoce di un mondo nuovo che mette in crisi l’istituto del mos maiorum. Se si guarda, infatti, alle tavole delle leggi Romane, su cui ancora venivano basati i rapporti familiari, si chiarirà sin da subito come il commediografo qui cerchi di metterli in crisi (con le dovute cautele) rappresentando un personaggio che vuole attirare simpatia nei suoi confronti, ma che il pubblico trova così nuovo e in certo qual modo troppo “greco” e intellettuale, da non riuscire a comprenderlo del tutto.

Salvatore Lo Leggio: Classici. La suocera “umana” di Terenzio (Paolo Lago)

Immagine della rappresentazione dell’Hecyra del Teatro di Smirne (2010)

Ce ne dà dimostrazione un’altra commedia, che incorse in un certo “insuccesso”, l’Hecyra. Vi si racconta di Panfilo che, pur innamorato della cortigiana Bacchide, per volere del padre, sposa Filumena. Costretto ad allontanarsi per motivi d’affari, al suo ritorno apprende che la moglie è tornata a vivere con i genitori. In un primo momento pensa che la fuga di Filumena sia da attribuire al brutto carattere di sua madre Sostrata, ma ben presto si scopre che la moglie ha abbandonato il tetto coniugale poiché è rimasta incinta a seguito alla violenza subita da parte di uno sconosciuto. Panfilo, per onore, non vuole che la moglie torni a vivere con lui, ma vuole mantenere il segreto sul vero motivo, che egli ufficialmente attribuisce al conflitto tra la sposa e la madre. Quest’ultima si dichiara pronta a ritirarsi in campagna per lasciare spazio ai due giovani sposi, mentre il padre teme che il figlio sia ancora innamorato di Bacchide. A sciogliere l’intrico è proprio la cortigiana: infatti si reca personalmente da Filumena per rassicurarla che tra lei e Panfilo tutto è finito; la madre di Filumena, riconosce nell’anello che Bacchide porta al dito lo stesso che era stato strappato alla figlia durante la violenza; Panfilo, dunque, è riconosciuto responsabile dello stupro e quindi padre legittimo del neonato; a questo punto, dopo essersi congedato con affetto e gratitudine dalla generosa Bacchide, può accogliere di nuovo in casa la moglie.

LA SUOCERA
(Hecyra, Atto IV, scena II, 577-588)

Non clam me est, gnate mi, tibi me esse suspectam, uxorem tuam
propter meos mores hinc abisse, etsi ea dissimulas sedulo.
Verum ita me di ament itaque obtingant ex te quae exoptem mihi ut
numquam sciens commerui merito ut caperet odium illam mei.
Teque ante quod me amare rebar, ei rei firmasti fidem;
nam mihi intus tuus pater narravit modo quo pacto me habueris
praepositam amori tuo; nunc tibi me certumst contra gratiam
referre, ut apud me praemium esse positum pietati scias.
Mi Pamphile, hoc et vobis et meae commodum famae arbitror:
ego rus abituram hinc cum tuo me esse certo decrevi patre,
ne mea praesentia obstet neu causa ulla restet relicua
quin tua Philumena ad te redeat.

Non è un mistero per me, figliuolo mio: tu sospetti di me e pensi che tua moglie se ne sia andata di qua a causa del mio carattere, anche se fai di tutto per nasconderlo; ma così mi aiutino gli dei e così mi possa venire da te tutto quello che desidero, come è vero che io non l’ho fatto apposta e non ho meritato che lei fosse presa d’odio per me; quanto a te, se già pensavo che tu mi volessi bene, ora me ne hai dato la certezza che tuo padre a casa mi ha raccontato come tu hai preferito me al tuo amore; ora sono decisa a contraccambiarti, perché tu sappia che la pietà filiale trova in me la sua ricompensa. Panfilo mio, credo che questo giovi a voi e al mio buon nome: ho deciso di andarmene di qua, in campagna, insieme con tuo padre; voglio che la mia presenza non sia un ostacolo e non resti alcun motivo perché la tua Filumena non ritorni da te.

E’ evidente che, sia pure nel semplice contenuto dell’opera, appaia in evidenza la centralità delle figure femminili: tuttavia esse non sono viste come “oggetti del desiderio”, ma come personaggi pensanti e generosi. Prendiamo, ad esempio, proprio Sostrata, mamma di Panfilo e suocera di Filumena: lei, per amore del figlio e della sua felicità, è disposta a rinunciare a lui e ad allontanarsi. E’ proprio un personaggio che esce dallo stereotipo di tante altre “mamme” romane, che considerano i figli propri gioielli, forgiati per la patria virtù.

Hecyra - Wikipedia

Mosaico con tre maschere che rappresentano tre donne nel teatro comico nella casa di Pompei di Cicerone

Ma vediamo il ritratto della cortigiana Bacchide:

BACCHIDE
(Hecyra, Atto V, scena III)

Haec tot propter me gaudia illi contigisse laetor:
etsi hoc meretrices aliae nolunt; neque enim est in rem nostrum
ut quisquam amator nuptiis laetetur. Verum ecastor
numquam animum quaesti gratia ad malas adducam partis.
Ego dum illo licitumst usa sum benigno et lepido et comi.
Incommode mihi nuptiis evenit, factum fateor:
at pol me fecisse arbitror ne id merito mi eveniret.
Multa ex quo fuerint commoda, eius incommoda aequomst ferre.

Sono contenta che da me gli siano venute tutte queste gioie, anche se altre cortigiane non la penserebbero così; perché a noi non conviene che uno dei nostri amanti abbia fortuna nel matrimonio; ma io, per Castore, non mi risolverò mai a certe cattiverie per il mio interesse. Io, a suo tempo, l’ho trovato buono con me, garbato, gentile. Le sue nozze mi hanno portato sfortuna, lo ammetto; meno male che io credo di non aver fatto niente per meritarlo: è’ giusto rassegnarsi ad avere dei dispiaceri da uno, quando se ne sono avuti tanti piaceri.

Ma è in questo passo che meglio si misura la distanza tra il teatro plautino e quello di Terenzio. Se nel brano precedente, pur nella novità, è una mamma che opera per il bene del figlio, è inconcepibile che a farlo sia una cortigiana, nell’immaginario collettivo una prostituta dedita al suo interesse e non certo al bene, soprattutto se tale bene le sottrae denaro. Bacchide è tutt’altro: è una cortigiana buona, o meglio una cortigiana figlia dell’ellenismo e non certo del mos maiorum che tutte quelle che non stavano in casa ad accudire ai lavori domestici erano donne di poco conto nella considerazione della società.

Tale considerazione sulla donna, ma su tutti i personaggi del suo teatro, Terenzio la esplicita in un famoso detto, che fa parte di un discorso di Cremete rivolto a Menedemo, nell’Heautontimorumenos (Il punitore di se stesso), proprio nel primo atto della commedia:

Heautontimorumenos - Wikipedia

Manoscritto dell’Heautontimorumenos dell’XI sec.

HOMO SUM
(Heautontimorumenos, Atto I, scena 1)

CHREMES:
Numquam tam mane egredior neque tam vesperi
domum revertor quin te in fundo conspicer
fodere aut arare aut aliquid ferre; denique
nullum remittis tempus neque te respicis.
Haec non voluptati tibi esse satis certo scio: “At
enim, dices, quantum hic operis fiat paenitet”.
Quod in opere faciundo operae consumis tuae,
si sumas in illis exercendis, plus agas.

MENEDEMUS
Chreme, tantumne ab re tuast oti tibi
aliena ut cures ea quae nihil ad te attinent?

CHREMES:
Homo sum: umani nihil a me alienum puto.

CREMETE: Non esco mai tanto presto al mattino, non torno mai tanto tardi la sera, che non ti veda nel tuo fondo a scavare, arare, portar pesi. Insomma, non ti dai un momento di sosta e non hai nessun riguardo: sono sicuro che questo lavoro non è per te un divertimento. Tu dirai “E’ che mi dispiace vedere quanto poco si lavora qui”. Se tutta la fatica che spendi in codesto lavoro, la mettessi a tenere sulla breccia degli altri, ci guadagneresti un tanto. MENEDEMO: Cremete, hai così poco da pensare alle cose tue, da doverti occupare dei fatti degli altri, e di quello che non ti riguarda? CREMETE: Sono un uomo, e di quello che è umano nulla io trovo che non mi riguardi.

Un'idea di vita.: "Sono un essere umano ..."

A Ravello nella costiera amalfitana viene ricordato il pensiero di Terenzio

Questo passo è inserito, proprio all’inizio delle commedia, quando Cremete, vedendo il suo vicino di casa Menedemo “ammazzarsi” di fatica, gli chiede il perché, e lui, dopo un po’ di ritrosia, gli risponde che lo fa per punirsi perché il figlio, contro le sue rimostranze, è partito a fare il mercenario in Asia, così al ritorno, in possesso del denaro, potrà amare la donna che il padre gli nega perché povera. E’ l’ultimo passo della commedia, quell’Homo sum, humani nihil a me alienum puto quello che verrà ripreso non solo come esempio del concetto di humanitas che Terenzio inaugura nella letteratura latina, ma che sarà alla base anche dell’umanesimo dapprima italiano e quindi europeo del 1400, che proprio in Terenzio e in questa espressione troverà la sua base. A questo punto bisognerà meglio chiedersi a cosa corrisponde tale humanitas.  Con essa potremo indicare quell’ideale di attenzione verso l’intero essere umano alla cui base vi è la benevolenza e la tolleranza; a livello antropologico si può dire che con lui ed il Circolo degli Scipioni si inaugura un nuovo periodo della storia Romana, che aprirà lo sguardo, sempre con più attenzione, alla filosofia e al modo di concepire la vita nella sua totalità. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TITO MACCIO PLAUTO

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Ritratto immaginario di Plauto

Parlare di Plauto significa avvicinarsi alla prima e vera personalità latina di cui possiamo leggere l’opera; e se oggi abbiamo imparato a sorridere grazie ad alcuni meccanismi narrativi, a certe figure rappresentative di vizi umani, alla trasformazione in icona di alcune caratteristiche, tanto da fare del nome di un personaggio una vera e propria identità dell’uomo, lo si deve alla grande capacità sia di mediazione, quanto di invenzione del commediografo latino.

Notizie biografiche

Su Plauto esiste una vera e propria questione proprio a partire dal suo nome: l’unica cosa certa è che fosse umbro, visto che il nome Plotus, era originario di quelle zone e che a Roma veniva pronunciato Plautus. Infatti si dice fosse nato a Sàrsina, cittadina umbra, oggi localizzata nella Romagna. Fino al secolo scorso il suo nome era tramandato con M. Accius (Attius) Plautus, dove con M. si sottintendeva il nome Marcus. Soltanto nell’Ottocento si trova un antichissimo codice il nome abbreviato in T. (Titus). Ciò chiarisce un po’ meglio la questione: sulla certa non credibilità di un cittadino romano nobile (attraverso le fonti) nell’essere un autore di commedie e quindi lo stesso Plauto non potendo avere tria nomina (nome proprio, della famiglia e cognome) si è spostato quella M. a fianco ad Accius e si è giunti a Maccus (antica maschera dell’atellana); inoltre anche Plautus nasconderebbe il significato di “piedi piatti” o “orecchie lunghe”; ambedue i termini, quindi, possono fornirci l’idea di un attore comico e quindi perfetto conoscitore dei meccanismi teatrali. Oltre questo nulla sappiamo: la voce che fosse caduto nei debiti e quindi costretto a far girare la macina, viene dedotto da un episodio di una sua commedia e quindi non può essere biografico (tale procedimento era piuttosto comune in antichità). Circa la data di nascita e di morte si è portati ad inserire la prima tra il 255-250 e la seconda (più sicura) nel 184 a.C., come ci dice Cicerone in una sua opera.

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Statua di Varrone Reatino 

Opere

Maggiori notizie abbiamo sulle opere. Bisogna innanzitutto sottolineare come Plauto fosse un autore di grandissimo successo, e ciò ha permesso alle sue opere di essere rappresentate durante tutta la storia romana. Ma tale rappresentabilità e tale riscontro fecero sì che molti altri autori sfruttassero il suo nome per ottenere un facile successo: si tramanda che, appunto, a lui attribuite, dopo la sua morte, circolassero più di 130 opere. A metter ordine a tale “confusione” toccò a Varrone Reatino, grammatico vissuto durante l’ultimo periodo della repubblica che nel De comoediis Plautinis divise tale opere in 21 certe, 19 incerte, tutte le altre sicuramente false. La tradizione manoscritta seguì le indicazioni dello studioso tanto da tramandare soltanto quelle che lui ritenne autentiche, che vengono qui trascritte in ordine alfabetico:

  • Amphitruo (Anfitrione);
  • Asinaria (La commedia degli asini);
  • Aulularia (La commedia della pentola);
  • Bacchides (Le baccanti)
  • Captivi (I prigionieri);
  • Casina (Casina);
  • Cistellaria (La commedia della cesta)
  • Curculio (Il parassita);
  • Edipicus (Edipico);
  • Menaechmi (I Menecmi, fratelli gemelli);
  • Mercator (Il mercante);
  • Miles gloriosus (Il soldato spaccone);
  • Mostellaria (La commedia del fantasma);
  • Persa (Il persiano);
  • Poenulus (Il cartaginese);
  • Pseudulus (Pseudolo);
  • Rudens (La gomena);
  • Stichus (Stico);
  • Trinummus (Le tre monete);
  • Truculentus (Lo zoticone);
  • Vidularia (Commedia del bauletto).

Di tali commedie bisogna dire che alcune mancano di alcune sezioni come Amphitruo, Aulularia, Bacchides, Casina, Cistellaria e Mostellaria; molto lacunosa, invece, ci appare l’ultima (soprattutto perché è stata tramandata come ultima nei manoscritti), Vidularia.

Tutte le commedie plautine hanno ambiente greco e questo indica che le fonti cui attinge sono tutte derivate dalla commedia nuova, soprattutto da Menandro e altri autori di cui niente ci è giunto. E’ evidente, pertanto, che egli le debba in qualche modo rielaborare: usa, infatti la tecnica del vertere (tradurre) tipica della cultura romana (basti pensare all’Odusia di Livio Andronico) che egli cita esplicitamente, insieme a quella della contaminatio, anch’essa ripresa da scrittori che lo hanno di poco preceduto, come Nevio.

Vediamo a tale proposito il prologo dell’Asinaria:

ASINARIA
(Prologo)

Hoc agite sultis, spectatores, nunciam,
quae quidem mihi atque vobis res vertat bene
grecique huic et dominis atque conductoribus.
Face nunciam tu, praeco, omnem auritum poplum.
Age nunc reside, cave modo ne gratiis.
Nunc qui processerim huc et quid mihi voluerim
dicam: ut sciretis nomen huius fabulae:
nam quod ad argumentum attinet, sane brevest.
Nunc quod me dixi velle vobis dicere
dicam: huic nomen Graece Onagost fabulae;
Demophilus scripsit, Maccus vortit barbare;
Asinariam volt esse, si per vos licet. 

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Plauti comoediae XX, Venezia, 1511, Asinaria

Ora per favore, spettatori, un po’ d’attenzione, e che questo spettacolo riesca bene per me, per voi, per questa compagnia, i capocomici, gli impresari. Tu, o battitore, fa sì che gli spettatori siano tutto orecchi. Ora riposati e sta attento che tu non l’abbia fatto gratuitamente. Ora vi dirò perché io sia qui e quale sia il mio compito: affinché voi sappiate il nome di questa commedia: infatti per quanto attiene all’argomento, è molto breve. Ora che cosa vi ho detto di volervi dire vi dirò: il nome di questa commedia greca è Onegòs, l’ha scritta Demofilo e Maccio (Plauto)  l’ha tradotta in latino; l’ha intitolata Asinaria, se a voi piace.

E’ questo, come già detto un prologo, recitato o dal capocomico o da altro attore o da un giovane ad hoc chiamato ornatus prologi e in esso troviamo appunto un dato tecnico (il vertere) su citato, e la presentazione di alcune tipologie del mondo teatrale, come grex (che oltre che gregge vuol dire anche compagnia) dominus (padrone e quindi il capocomico), conductor (conduttore e quindi anche impresario). Risulta evidente che se la commedia “originaria” fosse greca, greca ne sarà anche l’ambientazione (si tratterà, infatti, di tutte palliate).

Ma compito di Plauto è quello di fare in modo che il mondo esotico ellenico (che avrà anche la funzione di “allontanamento”) sia ben chiaro agli occhi dello spettatore, tanto da capire che dietro una qualsivoglia città greca si nasconde Roma con i suoi vizi e le sue virtù. Tutto questo è molto chiaro in un episodio del Curculio:

GORGOGLIONE CONTRO I GRECI
(Curculio 1, 289-295)

Tum isti Graeci palliati, capite operto qui ambulant,

qui incedunt suffarcinati cum libris, cum sportulis,
constant, conferunt sermones inter se drapetae,
obstant, obsistunt, incedunt cum suis sententiis,
quos semper videas bibentes esse in thermipolio,
ubi quid subripuere: operto capitulo calidum bibunt,
tristes atque ebrioli incedunt: eos ego si offendero,
ex unoquoque eorum exciam crepitum polentarium. 

Questi Greci coperti col mantello, che camminano con la testa coperta, e avanzano ben pasciuti con i libri e col paniere, come schiavi scappati discutono tra loro, si fermano, inciampano, avanzano sputando le loro sentenze, tu che li vedi sempre stare nelle taverne mentre bevono, e quando riescono a prendere qualcosa; tracannano vino caldo con i capi coperti e poi escono malinconici ed ubriachi: se io l’incontrerò, da uno di loro farò uscire la polenta ingurgitata!

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Rappresentazione del Curculio da parte di studenti americani

E’ evidente, in questi pochi versi, come Plauto applichi qui la tecnica dell’“allontanamento”, ma, nel contempo del riconoscimento:

  • se le tematiche, come vedremo in seguito, fossero svolte nell’Urbe, risulterebbero inaccettabili per lo sconvolgimento del mos maiorum (non per niente il periodo in cui venivano rappresentate era quello dei Saturnali, del “mondo alla rovescia”;
  • ma se, nel contempo, i riferimenti verso le caratteristiche della città (principalmente negative) cessassero, si avrebbe da una parte l’impossibilità della comprensione, dall’altra la caduta della comicità.

Ma per ritornare un attimo al prologo, non possiamo dimenticare che in esso oltre al modo in cui Plauto dichiara a quale modello si ispira, non bisogna dimenticare che si trova spesso l’argomento della storia stessa, svolto in forma di acrostico, come questo dell’Amphitruo:

ARGOMENTO II
(Amphitruo)

Amore captus Alcumenas Iuppiter
Mutavit sese in formam eius coniugis
Pro patria Amphitruo dum decernit cum hostibus.
Habitu Mercurius ei subservit Sosiae:
Is advenientis servum ac dominum frustra habet.
Turbas uxori ciet Amphitruo: atque invicem
Raptant pro moechis. Blepharo captus arbiter
Uter sit non quit Amphitruo decernere.
Omnem rem noscunt; geminos Alcumena enititur.

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Rappresentazione dell’Amphitruo

Giove, preso d’amore per Alcmena, ha assunto le sembianze del marito di lei, Anfitrione, mentre costui combatte contro i nemici della patria. Gli dà manforte Mercurio, travestito da Sosia; egli si prende gioco, al loro ritorno, del servo e del padrone. Anfitrione fa una scenata alla moglie; e i due rivali si danno l’un l’altro dell’adultero. Blefarone preso come arbitro, non può decidere quale dei due sia Anfitrione. Poi si scopre tutto; Alcmena dà alla luce due gemelli. 

E’ questo l’esempio di un secondo prologo: il primo detto, appunto Primum argumentum, il secondo, secundum argumentum. Dobbiamo necessariamente sapere che lo scrivere un argomento in acrostici è soprattutto esercizio raffinato di tardi grammatici e copisti, e quindi non opera di Plauto.

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Maschere del teatro comico

Ma perché uno spettatore deve, come nel caso dell’argomento dell’Anfitrione,  conoscere seppur in grandi linee, la trama della commedia? Ciò accade perché non è l’argomento in sé che interessa lo spettatore, che anzi troverà (e cercherà) la somiglianza tra le varie trame, ma il modo in cui la storia si sviluppa, la capacità del servo di gabbare chi ostacola l’ottenimento di un bene, l’alternanza “studiata” dei deverbia, parti dialogate; recitativi, lamentazioni declamate con enfasi con la presenza di un doppio flauto ed i cantica, vere parti cantate in metri diversi e accompagnate dalla musica. E’ naturale che un teatro così non richieda la presenza di individui in sé caratterizzati, ma di personaggi riconoscibilissimi dagli spettatori perché rappresentanti “tipologie”, aiutati in questo dalla “maschera” in legno indossata dagli attori.

Fra i personaggi, colui che è il vero protagonista delle commedie plautine, è quasi sempre il servo. Dobbiamo riconoscere che egli è ritratto sempre in forme positive, è colui che riesce a sovvertire le sorti in “bene” contro chi ostacola la loro riuscita. Ma non c’è nessun tentativo di riscatto: anzi a ben vedere è sempre il padroncino a ottenere i benefici migliori. Nello Pseudolus riconosciamo il servus-poeta e il servus-dux, nel Curculio  il servus-currens (Gorgoglione):

SERVUS-POËTA
(Pseudulus, vv. 394-405)

Postquam illic hinc abiit, tu astas solus, Pseudole.

Quid nunc acturu’s, postquam erili filio
largitu’s dictis dapsilis? Ubi sunt ea?
Quoi neque paratast gutta certi consili
[neque adeo argenti: neque nunc quid faciam scio.]
Neque exordiri primum unde occipias habes,
neque ad detexundam telam certos terminos.
Sed quasi poëta, tabulas cum cepit sibi,
quaerit quod nusquamst gentium, reperit tamen,
facit illud veri simile quod mendacium est,
nunc ego poëta fiam: viginti minas,
quae nusquam nunc sunt gentium, inveniam tamen.
Atque ego me iam pridem huic daturum dixeram
et volui inicere tragulam in nostrum senem;
verum is nescioquo pacto praesensit prius.
Sed conprimunda vox mihi atque oratio est;
erum eccum video huc Simonem una simul
cum suo vicino Calliphone incedere.
Ex hoc sepulcro vetere viginti minas
effodiam ego hodie, quas dem erili filio.
Nunc huc concedam, unde horum sermonem legam.

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Bronzetto di attore comico

Adesso ch’egli se n’è andato, sei qua solo, Pseudolo. Ebbene, cosa intendi fare, dopo aver generosamente elargito promesse al tuo padroncino? Su che cosa si fondano quelle promesse? Non hai niente di pronto: neppure l’ombra di un piano sicuro, né un tantino di denaro… – Né ho un’idea di quel che devo fare! – Non sai da che punto cominciare a ordire la tua tela, né sai con certezza dove finirai di tesserla… – Sì, ma come il poeta, prese le sue tavolette, cerca ciò che non esiste in nessuna parte del mondo, e tuttavia lo trova, riuscendo a rendere verosimile quel che è menzogna, così farò io: diverrò poeta, e le venti mine che attualmente non esistono in nessuna parte del mondo finirò per trovarle. Del resto, glielo avevo detto da un pezzo che gliele avrei date, e ho voluto gettare l’esca sul nostro vecchio, ma quello non so come, ne ha avuto il presentimento… ora però bisogna che io trattenga la voce e che la smetta di parlare; ecco il mio padrone Simone che arriva qui col suo vicino Callifone. Oggi caverò fuori da questo vecchio sepolcro venti mine, per  darle al mio padroncino. Mi tirerò in disparte; da qui raccoglierò la loro conversazione.

Cos’è a fare di questo personaggio un servo-poeta? Il fatto che egli, grazie alla propria fantasia, sa trasformare l’inverosimile in verosimile; cioè riesce, in qualsiasi rapporto narrativo, a creare quel patto per cui il lettore, qualunque cosa dica un autore, anche la più incredibile, la creda, altrimenti viene a cessare qualsiasi elemento edonistico. Allo stesso modo fa Pseudolo che “riuscendo a rendere verosimile quel che è menzogna”, diverrà poeta.

SERVUS-DUX
(Pseudulus, vv. 574-593)

Pro Iuppiter, ut mihi quidquid ago lepide omnia prospereque eveniunt!
Neque quod dubitem neque quod timeam meo in pectore conditumst consilium.
Nam ea stultitiast, facinus magnum timido cordi credere; nam omnes res perinde sunt
ut agas, ut eas magni facias; nam in meo pectore prius  ita paravi copias,
duplicis, triplicis dolos, perfidias, ut, ubiquomque hostibus congrediar
(maiorum meum fretus virtute dicam; mea industria et malitia fraudulenta),
facile ut vincam, facile ut spoliem meos perduellis meis perfidiis.
Nunc inimicum ego hunc communem meum atque vostrorum omnium
Ballionem exballistabo lepide: date operam modo;
hoc ego oppidum admoenire ut hodie carpitur volo;
atque huc meas legiones adducam; si hoc expugno
(facilem hanc rem meis civibus faciam)
post ad oppidum huc vetus continuo meum exercitum protinus obducam:
inde me et simul participes omnis meos praeda onerabo atque opplebo,
metum et fugam perduellibus meis me ut sciant natum.

Per Giove, come tutte le cose che faccio riescono facilmente e felicemente! Nella mia mente è riposto un piano che non dubiterò e non temerò. Infatti è pazzia quella di affidare una grande impresa ad un cuore non coraggioso; tutte le cose sono simili a come le pre-pari e a come tu le fai grandi; così ho deciso per prima cosa di preparare le truppe,  in duplici, triplici inganni, perfidie che, in qualunque luogo incontrerò i nemici (dirò fiducioso sulla virtù dei miei antenati; sulla mia capacità e la fraudolenta malizia),  facilmente li vincerò e spoglierò con le mie perfidie. Dunque io questo nemico mio, comune e di tutti voi Ballione, lo abbatterò con un colpo di balestra facilmente, fate attenzione in che mo-do; io voglio investire questa fortezza affinché sia presa oggi; e condurrò qua le mie legioni, se l’espugno (renderò facile quest’impresa per i miei concittadini) dopo di seguito condurrò immediatamente il mio esercito a questa vecchia fortezza: da dove mi caricherò mi riempirò della preda e similmente tutti i miei compagni, affinché sappiano che io sono nato per la paura e la fuga per i miei nemici.

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Scena plautina

Così come un servo può “inventare” una realtà possibile, lo stesso servo (in questo caso lo stesso Pseudolo) può immaginare l’organizzazione dei suoi piani come l’organizzazione di un piano di guerra: ne sono spia proprio le metafore che nel brano egli presenta: il lenone è la fortezza e lui il generale che deve assediarla. Tale figura non è nuova nella commedia di Plauto; in più di un’opera egli ci presenta le azioni di un servo come vere e proprie tappe vittoriose di un esercito il lotta, come nelle Bacchides.

SERVUS-CURRENS
(Curculio, vv. 280-287)

Date viam mihi, noti, ignoti, dum ego hic officium meum
facio: fugite omnes, abite et de via decedite,
nequem in cursu capite aut cubito aut pectore offendam aut genu.
Ita nunc subito, propere et celere obiectumst mihi negotium,
nec (usquam) quisquamst tam opulentus, qui mi obsistat in via,
nec strategus nec tyrannus quisquam, nec agoranomus,
nec demarchus nec comarchus, nec cum tanta gloria,
quin cadat, quin capite sistat in via de semita.

Fatemi strada, conosciuti e sconosciuti, chè io devo compiere la mia missione. Fuggite tutti, scostatevi e sgombrate la via, se non volete che correndo vi urti il capo o il gomito o il petto o il ginocchio: così improvviso, urgente pressante è l’affare che mi è capitato ad-dosso; né vi è uomo al mondo così potente, che possa farmi ostacolo nel cammino, né stratega, né tiranno, né agoranomo, né demarco, né comarco*, né personaggio tanto illustre che non debba cadere a terra e dal marciapiede precipitare a testa prima sulla strada.
*agoranomo, sovraintendente il mercato, demarco, sovraintendente i demo cittadini, comarco, capo di un villaggio.

In questo caso invece l’azione è mossa proprio dal correre del servo, che crea un’azione in cui, facendo crollare chiunque impedisca il suo affrettarsi dà luogo a commenti e situazioni esilaranti.

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Rappresentazione della Cistellaria

Questa tipologia di servo possiamo inserirla, più genericamente nella tipologia del servus callidus (servo astuto), colui che con perizia ed intelligenza si fa motore dell’azione del teatro plautino. 

Un altro personaggio importante è l’adulescens, il padroncino, verso cui il servo nutre affetto, ne condivide le passioni e combatte con lui per l’ottenimento dell’oggetto desiderato. In questo caso si tratta di una lamentatio, di uno sfogo sull’amore.

ADULESCENS
(Cistellaria, 206-228)

Iactor, crucior, agitor,
stimulor, vorsor
in amoris rota, miser exanimor,
feror, disferor, distrahor, diripior:
ita nubilam mentem animi habeo.
Ubi sum, ibi non sum,
ubi non sum, ibi est animus,
ita mihi omnia sunt ingenia;
quod lubet, non lubet iam id continuo,
ita me Amor lassum animi ludificat,
fugat, agit, adpetit, raptat, retinet,
lactat, largitur;
quod dat, non dat; deludit:
modo quod suasit, dissuadet;
quod dissuasit, id ostentat.
Maritumis moribus mecum experitur:
ita meum frangit amantem animum;
neque, nisi quia miser non eo pessum,
mihi ulla abest perdito permities.
Ita pater apud villam detinuit
me hos dies sex ruri continuos,
neque licitum interea est meam amicam visere.
Estne hoc miserum memoratu? 

Son sbattuto, son straziato, tormentato, punzecchiato, sulla ruota dell’amore rigirato ed annientato. Son stirato, strascicato, son squartato e sminuzzato, con la mente obnubilata. Dove sono io non sto, la mia mente è ove non sono, perché ho troppe cose in testa. Voglio e subito non voglio; è l’amore che si burla del mio cuore ormai sfinito. Lo sospinge, in-calza, assale, lo travolge, afferra, alletta. Offre, dà e non dà, delude. Se consiglia, poi sconsiglia; se sconsiglia, poi esorta. Mi si avventa come il mare, spezza il cuore innamorato; nel naufragio d’ogni cosa, non mi resta che affondare. Ora il padre mi trattenne in campagna per sei giorni, senza darmi tanto tempo il permesso di vedere la mia amata. Non è questa una storia dolorosa?

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Paraklausithyrion

E’ qui rappresentato un adulescens (in questo caso Agesimarco della Cistellaria), di solito innamorato, che si fa aiutare da un servo per la conquista dell’amata. Egli, naturalmente, non è felicemente “accoppiato”, perché un ostacolo si frappone, comunque, tra lui e l’oggetto da ottenere ed il suo lamento, (come in questo caso) costituisce il vero e proprio motore dell’azione. Ma affinché tale lamento risulti comico, Plauto lo amplifica con un raffinato gioco stilistico fatto di onomatopee, anafore, chiasmi, che alla fine permette al commediografo di ironizzare sulla lirica d’amore greca (assai in voga in quel periodo).  

SERENATA AI CHIAVISTELLI
(Curculio, 147-154)

Pessuli, heus pessuli, vos saluto lubens,
vos amo, vos volo, vos peto atque obsecro,
gerite amanti mihi morem, amoenissumi,
fite causa mea ludii barbari,
sussilite, obsecro, et mittite istanc foras,
quae mihi misero amanti ebibit sanguinem.
Hoc vide ut dormiunt pessuli pessumi
nec mea gratia commovent se ocius.

Chiavistelli, oh chiavistelli, vi saluto con gioia, vi amo, vi bramo, vi prego e vi supplico: assecondate il mio amore, carissimi, fate per me balli italici, saltellate, vi prego, fatela uscire, che ha succhiato il sangue a me, misero amante. Guarda come dormono, cattivi chiavistelli, che non si muovono più velocemente per me.

Anche Fedromo del Curculio è un adulescens innamorato, ai cui Plauto fa pronunciare la cosiddetta paraklausithyrion, cioè il lamento di fronte alla porta chiusa. Questo era un vero e proprio topoi della poesia d’amore greca (e lo diventerà anche per quella latina), che viene stravolto in modo comico (i chiavistelli a cui chiedere di diventare ballerini) dall’estro comico del nostro. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che questo gioco è anche rivolto a un pubblico smaliziato che, sia nel caso del lamento d’amore che di quello della serenata ai chiavistelli, si rende conto delle fonti letterarie usate e di come Plauto, con divertita capacità, le abbia stravolte.

Altro importante figura della commedia plautina è l’antagonista, che può essere sia il padre dell’adulescens, ma anche qualche altro personaggio caratterizzato da una particolarità che lo rendono riconoscibile e comico, come il lenone (possessore di una cortigiana), l’avaro o il soldato vanaglorioso.

Prendiamo come primo esempio l’avaro:

L’AVARO
(Aulularia)

Perii, interii, occidi. Quo curram? Quo non curram? Tene, tene. Quem? Quis?
Nescio, nil video, caecus eo atque equidem quo eam aut ubi sim aut qui sim
nequeo cum animo certum investigare. Obsecro ego vos, mi auxilio,
oro, obtestor, sitis et hominem demonstretis, qui eam abstulerit.
Quid ais tu? Tibi credere certum est, nam esse bonum ex vultu cognosco.
Quid est? Quid ridetis? Novi omnis, scio fures esse hic complures,
qui vestitu et creta occultant sese atque sedent quasi sint frugi.
Hem, nemo habet horum? Occidisti. Dic igitur, quis habet? Nescis?
Heu me misurum, misere perii, male perditus, pessime ornatus eo:
tantum gemiti, et mali maestitiaeque hic dies mi obtulit, famem et pauperiem.
Perditissimus ego sum omnium in terra; nam quid mi opust vita, tantum auri
perdidi, quod concustodivi sedulo? Egomet me defraudavi
animumque meum geniumque meum; nunc eo alii laetificantur
meo malo et damno. Pati nequeo.

Sono perduto, sono in rovina, sono morto. Dove vado? Dove non vado. Fermalo, fermalo. Chi ? Chi lo ferma? Non so, non vedo niente, sono cieco e perciò non posso sapere sicuramente dove andrò o dove sia o chi sia. Vi scongiuro, vi imploro, vi supplico, aiutatemi e ditemi chi è, che me l’ha tolta. Chi dici? Ho deciso di crederti, infatti riconosco che tu sei onesto dall’espressione del volto. Cosa c’è? Perché ridete? Conosco tutti, so che qui ci sono molti ladri, che si nascondano dietro la toga e siedono come persone importanti. Oh, nessuno di loro lo ha? Mi hai ucciso. Dì, dunque, chi ce l’ha? Non lo sai? Oh, me misero, sono miseramente perduto, malamente rovinato, conciato malissimo: questo giorno mi ha procurato così grande disperazione, male, tristezza, fame e povertà. Sono il più disgraziato di tutti sulla terra; infatti che vivo a fare, ho perduto tutto l’oro, che custodivo con attenzione. Mi sono privato del mio animo, della mia esistenza; ora gli altri si divertono alle mie spalle. Non posso sopportarlo.

E’ evidente che qui il bene che egli in qualche modo preserva è quello del denaro (una pentola piena d’oro) e non certo di una leggiadra cortigiana, anche se il mondo di “eros” non è affatto assente. Infatti egli crede che se un vicino di casa chiede la mano di sua figlia è perché ha saputo dell’oro e glielo vuole sottrarre; se il cuoco nomina il termine “pentola” è perché si sta riferendo ad essa, non perché vuole usarla per cucinare. Tutto ciò fa sì che lui la nasconda, ma un servo, seguendolo lo scopre e gliela ruba, comprando così la sua libertà e ottenendo la mano della figlia dell’avaro. Ma qui quello che interessa è certamente il dialogo che egli intrattiene con il pubblico, facendo di questo monologo uno dei punti più alti del metateatro plautino.

Altra figura caratteristica è quella del “miles gloriosus”:

PIRGOPOLINICE
(Miles gloriosus, 1-9)

Curate ut splendor meo sit clupeo clarior
quam solis radii esse olim quom sudumst solent,
ut, ubi usus veniat, contra conserta manu
praestringat oculorum aciem in acie hostibus.
Nam ego hanc machaeram mihi consolari volo,
ne lamentetur neve animum despondeat,
quia se iam pridem feriatam gestitem,
quae misera gestit et fartem facere ex hostibus.
Sed ubi Artotrogus hic est?

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Pirgopolinice e Astrotogo a teatro

Fate in modo che il mio scudo abbia una lucentezza più splendente di come sono soliti essere i raggi del sole quando il cielo è sereno affinché, quando venisse la necessità, giunti allo scontro, abbagli ai nemici la vista degli occhi nel campo di battaglia. Infatti io voglio consolare questa spada affinché non si lamenti né deponga il coraggio, poiché sono solito portarla oziosa ormai da tempo che misera brama di fare salcicce dei nemici. Ma ora dove è Artotogo?

Piccola presentazione a dirci la vanagloria di questo personaggio, padre di quella figura caratteristica che, nella commedia dell’arte diventerà Capitan Fracassa. Qui lo vediamo dar ordini che nessuno sente, che urla al vento a dire agli altri la sua vanagloria, e nel seguito della commedia sarà “spalleggiato” in questa dal servo, che lo utilizzerà per lasciar libero il suo padroncino di accostarsi alla ragazza che lui nasconde. Ancora l’inganno con un uomo la cui comicità deriva dalla sproporzione tra la figura che rappresenta e la realtà.

Ed infine la figura del lenone:

BALLIONE
(Pseudulus, 1, 172-188)

Auditin? vobis, mulieres, hanc habeo edictionem.
Vos, quae in munditiis, mollitiis deliciisque aetatulam agitis,
viris cum summis, inclutae amicae, nunc ego scibo atque hodie experiar,
quae capiti, quae ventri operam det, quae suae rei, quae somno studeat;
quam libertam fore mihi credam et quam venalem, hodie experiar.
Facite hodie ut mihi munera multa huc ab amatoribus conveniant.
Nam nisi mihi penus annuos hodie, convenit, cras populo prostituam vos.

Mi sentite? Per voi, donne, ecco qua i miei ordini. Voi che passate la vostra tenera età tra le raffinatezze, le mollezze, le ricercatezze, in compagnia di persone d’altissimo rango, voi, amanti di grido, oggi saprò, oggi conoscerò alla prova dei fatti chi di voi si preoccupa delle sua testa e chi del suo ventre, chi pensa al suo interesse e chi non pensa che a dormire. Oggi conoscerò alla prova dei fatti  chi di voi è destinata a diventare mia liberta e chi invece dovrò vendere. Fate in modo che oggi, da parte dei vostri amanti, mi giunga qua un mucchio di regali; perché se oggi non mi giungono provviste per un anno intero, domani farò di voi delle volgari prostitute.

Ballione, protagonista dello Pseudolo, è il tipico lenone, figura sconosciuta a Roma, ma presente nel mondo greco. Come protettore delle donne è lui che forse è il peggior antagonista dell’adulescens e, se come personaggio è capace di impedire, per pura avidità, il libero sfogarsi di un amore naturale, non potrà essere che un sceleste (scellerato), furcifer (pendaglio da forca), sociofraude (traditore di amici) fur (ladro) permities adulescentum (rovina dei giovani) e altro ancora con cui, in un pezzo famosissimo della commedia, Pseudolo lo riempirà di insulti.

Tuttavia la commedia di Plauto non è fatta solo di personaggi, ma anche di situazioni e solo per citare la più famosa ci piace ricordare il tema del doppio:

SOSIA DI FRONTE AL SUO DOPPIO
(Amphitruo 441-449)

Certe edepol, quom illum contemplo et formam cognosco meam,
quem ad modum ego sum (saepe in speculum inspexi), nimis similest mei;
itidem habet petasum ac vestitum: tam consimilest atque ego;
sura, pes, statura, tonsus, oculi, nasum vel labra,
malae, mentum, barba, collus: totus. quid verbis opust?
si tergum cicatricosum, nihil hoc similist similius.
sed quom cogito, equidem certo idem sum qui semper fui.
novi erum, novi aedis nostras; sane sapio et sentio.
non ego illi obtempero quod loquitur; pultabo foris. 

Certo, Per Polluce, quando lo guardo e riconosco il mio aspetto, come sono fatto io – spesso mi sono guardato allo specchio – certo mi assomiglia moltissimo. Ha uguale il cappello e il vestito: mi assomiglia come mi assomiglio io. Gamba, piede, statura, capelli, occhi, naso, labbra, guance, mento, barba, collo: tutto. Che bisogno c’è di parole? Se ha la schiena piena di cicatrici, non c’è una somiglianza più simile a questa. Ma, quanto più ci penso, davvero io sono lo stesso che sono sempre stato: non c’è dubbio. Conosco il mio padrone, conosco la nostra casa, ho a posto il senno e i sensi. Non dò retta a quello che dice lui: busserò alla porta».

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Rappresentazione dell’Amphitruo

Se a fare della commedia plautina una rappresentazione di tale successo “comico” che, come abbiamo visto precedentemente, altri autori si nascondevano dietro il suo nome per ottenere l’applauso del pubblico, Plauto non si limitava a lavorare sui personaggi e sugli schemi, ma soprattutto sul ritmo. Tale ritmo egli l’otteneva attraverso la sagace mescolanza nell’intera piéce di quelli che venivano detti numeri innumeri cioè l’uso assai vario della metrica. Ciò permetteva all’autore d’accompagnare il detto alla musica, laddove ce n’era, creando un’atmosfera assai “vivace” che tanto gradiva il pubblico romano. Se a ciò si accompagnano i giochi di parole, l’invenzione onomastica, un linguaggio che allude, a volte, all’osceno, il successo è assicurato.

IL TEATRO A ROMA

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Maschera tragica e comica in un mosaico di Pompei

Sappiamo già che il teatro a Roma fu un genere di importazione: se la sua antica origine, quella dell’atellana, è italica, i fescennini provengono dall’Etruria; lo stesso nome histrio sembra sia originario della regione controllata dagli Etruschi.

Sappiamo tuttavia che per tematica, soprattutto per quanto riguarda la palliata e la cothurnata (rispettivamente commedia e tragedia d’argomento greco), le maggiori in quel tempo rappresentazioni teatrali, l’influenza è certamente d’origine ellenistica. Ciò non deve apparire contraddittorio, esemplificando potremmo dire che su una struttura di tipo etrusco veniva inserito un tema d’argomento greco.

Le rappresentazioni teatrali a Roma erano d’interesse pubblico e avvenivano durante le principali festività:

  • ludi Megalenses (aprile): istituiti in onore della Magna Mater sin dal 194 a.C.; l’organizzazione teatrale era curata dagli edili curuli (in seguito anche da altri magistrati);
  • ludi Apollinares (luglio) , istituiti in onore di Apollo sin dal 212 a.C., organizzati dal pretore urbano;
  • ludi Romani (settembre), i più antichi, in onore di Giove. Tito Livio afferma che fu proprio durante questa festività che Livio Andronico nel 240 a.C. rappresentò per la prima volta il primo dramma tradotto dal greco. Anch’essi venivano organizzati dagli edili curuli;
  • ludi plebei (novembre) istituiti dal 220 a.C. sempre in onore di Giove; erano organizzati dagli edili plebei.

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Da quanto detto è evidente che l’organizzazione di uno spettacolo teatrale è di spettanza pubblica, mentre l’autore di una pièce teatrale, i capocomici e gli attori sono dei privati.

Sappiamo con certezza che le compagnie teatrali avevano un capocomico chiamato il dominus gregis dove quest’ultimo termine sta ad indicare l’intera compagnia. Era costui un liberto, come liberti erano gli altri attori, anche se non si può escludere che la “bassa manovalanza” (musicanti o attrezzisti) fossero schiavi del dominus gregis.

Per quanto riguarda i copioni non sappiamo con certezza come avvenisse il contatto tra magistrato ed autore: si può supporre che fossero i dominus gregis a sottoporre al magistrato il testo anche se nei prologhi del teatro terenziano sembra si possa alludere ad un rapporto tra autore e magistrato stesso.

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La struttura del teatro:

  1. Orchestra: parte semicircolare posta alla base della cavea e frapposta tra la scena e gli spettatori;
  2. Cavea: insieme delle gradinate divise in settori;
  3. Fronte scenico:  il fondale dipinto;
  4. Proscenio: parte del palco più vicina al pubblico (spesso rappresentava la piazza)
  5. Quinte: collocate a destra e a sinistra, inquadrano la scena, lasciando spazi per l’entrata e l’uscita degli attori
  6. Ingresso degli spettatori

L’onere era tutto in mano dello stato, i magistrati preposti avevano una somma forfettaria con la quale pagavano l’intera compagnia; tale somma variava sulla base del nome dell’autore, dello stesso capocomico, della commedia stessa; sappiamo per certo che gli spettatori non pagavano. Non sappiamo bene quale fosse il ruolo dell’autore nella rappresentazione, da alcuni prologhi possiamo supporre che facessero un po’ da registi, aiutando il capocomico nella messinscena.

Per quanto riguarda lo “spazio teatrale” fino al 55 a.C. a Roma non venne edificato alcun luogo in pietra atto allo svolgimento delle rappresentazioni. Sappiamo che ci fu qualche tentativo a seguito dell’esperienza dei due grandi commediografi latini di edificarlo, ma la linea misoneista (avversa a qualsiasi novità) di Catone il Censore prese il sopravvento.

Gli spettacoli avvenivano in strutture lignee che, dopo lo spettacolo, venivano demolite: l’allestimento scenico prevedeva un fondale che rappresentava due case o tre case, delle volte due case e un tempio; la scena si svolgeva davanti ad esse immaginando una pubblica via o una piccola piazza; per le scene d’interni si aggiungeva una piccola pensilina sopra una porta. L’allestimento era in mano ad un choragus, figura che sta tra il trovarobe e il moderno regista.

Il pubblico o stava in piedi o era seduto di fronte al ligneo palcoscenico e ci piace immaginare che le sedie se le portassero da casa. I primi certamente sono gli schiavi, i secondi artigiani e commercianti e un pubblico femminile che chiacchiera durante la rappresentazione e con bimbi in braccio che frignano. Sembra non ci fossero senatori o cavalieri ma ipotizziamo che la mancanza di qualsiasi riferimento alla loro presenza nei prologhi sia determinata da una sorta di autocensura; infatti sicuramente a loro erano riservati dei posti nella parte più comoda della platea in subsellia (panche) che permettono loro una migliore visione.

Gli attori erano tutti maschi e portavano tutti una maschera e ognuna di essa rappresenta un “tipo” scenico: vecchio, lenone, signora per bene, cortigiana, ragazza di buona famiglia, servetta, schiavo, parassito, soldato e i loro sottotipi: vecchio benevolo o arcigno, giovane dagli irreprensibili costumi e dedito ai piaceri ecc. Ciò permetteva al pubblico, all’entrata scenica di un attore, di riconoscere immediatamente il ruolo che l’attore in quel momento stava interpretando, non solo, dava anche la possibilità per uno stesso attore di svolgere più ruoli; attraverso il suo uso si utilizzavano non più di quattro o cinque attori. Fra di essi dovevano esserci perlomeno due “virtuosi” capaci di eseguire dei cantica degli assolo cantati con base flautistica (nello Pseudolo Ballione e Pseudolo).

Ricordiamo che le rappresentazioni teatrali avvenivano in orario diurno.

800px-Exteriortheatreofpompey.jpgTeatro marmoreo di Pompeo

Il primo teatro marmoreo fu edificato da Pompeo Magno nel 52 a.C., vincendo l’opposizione di senatori tradizionalisti, i quali rifiutavano l’idea di un teatro lontano da un tempio cui lo spettacolo era dedicato. Pompeo lo costruì per festeggiare il suo terzo trionfo (Sertorio in Spagna, i pirati, Mitridate) vincendo la contrarietà di coloro che temevano ogni novità inserendo all’interno di esso un tempio di Venere il cui ingresso corrispondeva con la cavea del teatro. Al contrario di quello greco, che sfruttava il terreno costruendoli al fianco di una collina, per sfruttarne il pendio naturale, il teatro di Pompeo era tutto in muratura ed occupava una porzione importante del Campo Marzio. Intorno ad esso Pompeo fece inserire un quadriportico, detto portico di Pompeo, nel quale in seguito i Romani, nelle calde giornate estive, andavano a riposarsi dalla calura estiva.

QUINTO ENNIO

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La cosiddetta testa di Ennio dal sepolcro degli Scipioni

Ennio è di due generazioni più giovane rispetto a Livio Andronico: è anche lui nato nell’attuale Puglia, più precisamente a Rudi, dove subisce l’influenza sia della cultura greca che di quella latina, ma non è esente quella locale, Osca, se lui afferma di possedere tria corda se habere dicebat quod loqui Graece et Osce et Latine. Viene a Roma a seguito di Catone il Censore che lo incontra in Sardegna, dove il nostro militava come soldato di guarnigione. Venuto nell’Urbe diviene insegnante, ma si afferma soprattutto come autore di tragedie. Non passerà molto tempo per allontanarsi dall’ideologia di Catone, diventando amico degli Scipioni: l’atto che sancisce questa sua scelta è quella di seguire il console Marco Fulvio Nobiliore come autore di versi ufficiale (con grande riprovazione del suo antico protettore) nella battaglia presso Ambracia, città greca, e su di essa scrive, ne deduciamo, una tragedia d’argomento romano (praetexta). In seguito, favorito dalla famiglia di Nobiliore e dalla casata dei nuovi amici , si dà alla composizione del suo poema epico, intitolato, come facevano i Pontefici Massimi, Annales.

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Mosaico in cui è rappresentato il poeta Ennio

Quest’opera è la prima opera latina scritta in esametri, verso tipico, di tipo quantitativo, dell’epica omerica. In essa si voleva celebrare la storia di Roma dalle origini fino ai suoi giorni. In fondo si trattava, per lui, di continuare ad avere una concezione eroica della letteratura: se con la scrittura della tragedia Ambracia aveva esaltato le gesta dell’eroe del cui seguito faceva parte, ora con il poema epico avrebbe coronato il sogno di cantare gli eroi di tutta quanta la romanità. Se anche Nevio, con il Bellum Poenicum, aveva esaltato le capacità belliche di Roma, Ennio voleva porsi al di là raccontando in un continuum narrativo la gloria della città che lo aveva onorato come grande scrittore e che ricambiava con un’opera altrettanto grande. Per questo è molto più vivo in lui il riferimento a Omero, sia per la struttura che per l’ideologia.

L’opera era forse strutturata in XVIII libri, con due prologhi, uno al primo ed uno al settimo. E’ in quest’ultimo brano che il riferimento al poeta greco diventa evidente:

somno leni placidoque revinctus
….
Visus Homerus adesse poëta

 Vinto da un sonno placido e leggero
sembrò che il poeta Omero si avvicinasse

infatti il poeta sembra quasi indicarci il suo sostituirsi al grande poeta antico. E lo fa anche perché sarà lui a riprenderne, orgogliosamente la versificazione:

… scripsere (scripserunt) alii rem
versibus quos olim Fauni vatesque canebant,
cum neque Musarum scopulos …
… ne dicti studiosus quisquam erat ante hunc
Nos ausi reserare

Gli altri scrissero la storia
Con i versi che un tempo i Fauni e gli Oracoli cantavano,
quando né le rocce delle Muse…
… né un qualche cultore della parola c’era prima di questo.
Noi abbiamo osato aprire…

Ma il dire enniano lo pone quasi al di là dello stesso Omero: egli qui si definisce infatti, dicti studiosus, cultore della parola e quindi della raffinatezza della poesia greca contemporanea.

La sua particolarità sta nell’ardito sperimentalismo con cui a volte cade nel ridicolo, come nel verso:

o Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti

o Tito Tazio, tu stesso ti attirasti tante disgrazie

dove l’allitterazione in t, viene usata, nel primo libro di retorica, come esempio da non imitare per il suono troppo duro.

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Ennio Annales in un’edizione del 1932

Ma Ennio è capace anche di pagine di grande poesia, come questo, uno dei più lunghi pervenutoci:

IL SOGNO DI ILIA

 Et cita cum tremulis anus attulit artubus lumen,
talia tum memorat lacrimans exterrita somno:
«Eurydica prognata, pater quam noster amavit,
vires vitaque corpus meum nunc deserit omne.
Nam me visus homo pulcher per amoena salicta
et ripas raptare locosque novos: ita sola
postilla, germana soror, errare videbar
tardaque vestigare et quaerere te neque posse
corde capessere: semita nulla pedem stabilibat.
exim compellare pater me voce videtur
his verbis: “O gnata, tibi sunt ante gerendae
aerumnae, post ex fluvio fortuna resistet.”
Haec effatus pater, germana, repente recessit
nec sese dedit in conspectum corde cupitus,
quamquam multa manus ad caeli caerula templa
tendebam lacrumans et blanda uoce vocabam.
vix aegro cum corde meo me somnus reliquit.»

E quando la vecchia, affrettandosi, portò con mani tremanti il lume, allora Ilia, atterrita dal sogno, piangendo così raccontò: «O figlia di Euridice amata da nostro padre, ora le forze della vita abbandonano tutto il mio corpo. Infatti ho sognato che un uomo di bell’aspetto mi trascinava attraverso ameni filari di salici e rive e luoghi a me ignoti; così dopo, sorella mia, mi sembrava di vagare e di mettermi, con lenta andatura, alla ricerca di te, ma non riuscivo ad orientarmi; su qualsiasi sentiero il mio piede vacillava. Poi mi sembrava che nostro padre mi rivolgesse queste parole: ‘Figlia, dovrai dapprima sopportare molte tribolazioni, poi la buona sorte ti sarà restituita dal fiume’. Dette queste parole, sorella, nostro padre improvvisamente scomparve, sebbene io lo desiderassi con tutto il cuore, sebbene tendessi molte volte le mani verso gli spazi azzurri del cielo, piangendo, e teneramente lo chiamassi. Proprio in quel mo-mento il sonno mi ha abbandonato lasciandomi con il cuore angosciato.

Si descrive qui il sogno premonitore di Ilia, che lo racconta a un’anziana sorellastra, figlia di Enea e della sua prima moglie Euridice (chiamata anche Creusa). Ilia, infatti, non sarebbe che la vestale Rea Silvia che incontra un uomo bello, cioè il dio Marte. Poi interviene il padre che le dice che saranno anni difficili per lei, ma il fiume la salverà, dove si mette in assoluto rilievo la mitica nascita di Romolo e Remo.

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Anfitreatro romano di Nora

Riguardo la produzione teatrale Ennio è portato maggiormente per lo stile tragico: infatti anche se ci ha lasciato i titoli di due commedie, la sua fortuna la deve a cothurnatae dove riprende il teatro d’Euripide, cioè opere con una forte introspezione psicologica. Non è possibile trarre una verità sul modo in cui affrontasse temi e personaggi, ma dai versi che ci sono rimasti delle sue tragedie, circa una ventina, (di cui due sole praetextae) sembra che egli dia anche importanza agli aspetti della natura.

LA NUTRICE DI MEDEA

Utinam ne in nemore Pelio securibus
caesa accidisset abiegna ad terram trabes,
neve inde navis inchoandi exordium
cepisset, quae nunc nominatur nomine
Argo, quia Argivi in ea delecti viri
vecti petebant pellem inauratam arietis
Colchis, imperio regis Peliae, per dolum;
nam numquam era errans mea domo efferret pedem
Medea animo aegro amore saevo saucia.

Volesse il cielo che nel bosco del Pelio mai fosse caduta a terra, tagliata dalla scure, quella trave di abete e che da qui non avesse mai avuto inizio la costruzione della nave che ora ha preso il nome di Argo perché, trasportato su di essa, il fior fiore degli eroi argivi, su ordine del re Pelia, cercò di ottenere (con l’inganno) dai Colchidi il vello d’oro dell’ariete. Ché la mia padrona Medea, dal cuore dolorante ferita da una grave passione d’amore non avrebbe mai lasciato la sua patria per andare raminga.

Pur in un così breve frammento è semplice identificare il modo attraverso cui egli cerca di raggiungere il “pathos” del lettore/spettatore dell’opera: potremo quasi dire che in questo lamento esistono solo due modi di costruire il discorso: il prendere atto della costruzione della nave e la sua terribile conseguenza, ma il dio (il fatto) non lo ha concesso.

Per l’aspetto della natura basta osservare questi versi:

LA PRIMAVERA

caelum nitescere, arbores frondescere,
vites laetificae pampinis pubescere,
rami bacarum ubertate incurvescere,
segetes largiri fruges, florere omnia

 il cielo risplendere, le piante metter fronde, le viti rigogliose sbocciare di pampini, i rami incurvarsi per l’abbondanza dei frutti i campi produrre messi in gran copia, tutta la natura fiorire

Per questi versi il discorso è completamente diverso: a dominare è la gioia della nascita, costruita qui con infiniti narrativi incoativi a dirci che essa non ha tempo, ma si ripete ciclicamente per la felicità umana.

 

 

LA CONQUISTA DEL MEDITERRANEO: L'EPICA E IL TEATRO DELLE ORIGINI

Roma, pur con un po’ di “soggezione” verso la più antica cultura greca, comincia ad elaborare delle vere e proprie opere letterarie solamente quando diventa padrona del Mediterraneo. Ma affinché ciò possa accadere deve attraversare uno dei momenti più difficili e carichi di conseguenze della sua storia. A caratterizzare il periodo infatti furono quelle che comunemente sono passate alla storia come le guerre puniche.

Roma e Cartagine, fino a quando l’Urbe non aveva raggiunto Taranto e quindi tutto lo stivale, erano andate nel complesso d’accordo: il nerbo del potere romano era nella terra, quello del potere cartaginese nel mare, nulla poteva far pensare, appunto, a un vicendevole “disturbo”. La conquista del sud Italia, invece, dopo la fuga di Pirro, portava Roma sulle coste mediterranee e, volente o nolente, ad aver a che fare con il mare, di cui la città punica si sentiva padrona. Infatti Cartagine, nata come colonia fenicia, la cui fondatrice mitica aveva il nome Ellissa o Didone, grazie alla posizione favorevole aveva intensificato la sua vocazione commerciale creando avamposti nelle maggiori coste mediterranee: sulle isole Baleari fu costituita Ibiza, in Spagna meridionale videro la luce Malaga, Cadige, Cartagena, in Sardegna furono fondate Cagliari, Sulci, Tharros ed in Sicilia Palermo, Trapani ed Erice. Fu proprio quest’ultima a creare problemi d’attrito con i signori qui presenti come Gerone di Siracusa e Terone di Agrigento, nonché con le città greche, come Catania e Messina. Lo scoppio dell’ostilità con Roma avvenne proprio nella città dello stretto.

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La situazione prima dello scoppio della prima guerra punica

Prima guerra punica

L’annoso problema sulla rivalità tra Gerone e i Cartaginesi si era in qualche modo acuito dopo la partenza di Pirro, sbilanciandosi a favore della popolazione d’origine fenicia. Quest’ultima infatti s’impadronì di quasi tutte le città della Sicilia. I mamertini, soldati mercenari d’origine capuana al soldo di Agatocle (tiranno di Siracusa), alla morte di questi, non avendo più chi li pagava, s’impadronirono di Messina, attirando l’attenzione di Gerone II che voleva ad ogni costo allontanarli. Visti alle strette chiamarono subito in aiuto i Cartaginesi, storici nemici dei greci di Siracusa, poi, visto che il loro aiuto significava sottomettersi, cambiarono e chiamarono i Romani.

Grande fu la discussione in Senato: i grandi proprietari terrieri temevano l’avventura siciliana che avrebbe significato, certamente, la guerra con Cartagine e con le città greche; il ricco ceto mercantile, invece, era favorevole all’intervento, sapendo che ciò avrebbe significato l’apertura di nuovi approdi commerciali. Di fronte a tale situazione la decisione venne demandata ai comizi popolari che di fronte alle ricche terre siciliane votarono a favore. Conquistata Messina, nel 264, dopo aver eluso la sorveglianza Cartaginese, iniziò lo scontro tra le due potenze. Gerone, che per interesse verso Messina s’era in un primo momento alleato con Cartagine, resosi conto che rischiava anch’esso di perdere l’autonomia, rovesciò l’alleanza. Se riuscirono a limitare il loro territorio alla sola parte occidentale dell’isola, era ben chiaro che la guerra con una così grande potenza poteva avvenire soltanto sconfiggendola nel mare. A tale scopo vennero montati sulle navi offerte dagli alleati navali i “rostri” che bloccavano ogni movimento alle agili imbarcazioni cartaginesi, che furono pesantemente sconfitte a Milazzo. Quindi Roma prese in esame un tentativo coraggioso: colpire il nemico al cuore. Nel 256 Attilio Regolo mise sotto assedio Cartagine, riuscendo infine a sconfiggerla. L’orgoglio del romano, che dettò condizioni di pace improponibili, rese più forte la resistenza di Cartagine che, affidatasi allo spartano Santippe, costrinse Roma ad una tragica sconfitta nei pressi di Tunisi. La guerra, quindi, continuò in Sicilia, rendendo quelle terre assolutamente desolate. Si trattò più che altro di una guerra di posizione in cui le contendenti erano ormai esauste. Quando entrò in gioco Amilcare Barca, Roma sembrò proprio capitolare, ma fu proprio il pericolo a dargli forza: approntata una nuova flotta sotto il comando di Lutazio Catulo, Roma vinse una decisiva battaglia presso le isole Egadi. Cartagine non riuscì a reagire: dovette abbandonare la Sicilia, pagare una pesante indennità e restituire, senza riscatto, i prigionieri. Il possesso della Sicilia pose Roma di fronte ad un nuovo problema, essa infatti prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare come disse Cicerone; infatti i Siciliani furono i primi sudditi, privati di ogni libertà politica e sottoposti al governo di un magistrato, di solito un ex console che per questo prende il nome di proconsole. Quindi Roma conquistò, senza colpo ferire, la Sardegna e la Corsica. I mercenari infatti, non pagati per le difficili condizioni economiche della città africana, diedero vita ad una violenta sollevazione cui rispose un altrettanto violenta repressione. Cartagine impegnata in tale difficile frangente dovette osservare inerme l’occupazione romana delle due isole a cui non aveva la forza di ribellarsi. Non dobbiamo inoltre dimenticare che l’Urbe riuscì anche a conquistare i territori dei Galli, dopo la grande paura di una nuova invasione, nell’Italia settentrionale, dando vita a due importanti città Cremona e Piacenza, nate sul corso del Po.

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Salvator Rosa: La morte di Attlio Regolo (XVII sec.)

Seconda guerra punica

La politica cartaginese postbellica era profondamente divisa: da una parte i grandi proprietari terrieri, convinti dell’impossibilità da parte della città di poter ancora essere una grande potenza marittima e quindi ora votata ad una politica sulla terraferma interna, dall’altra quella capitanata dai Barca, presi invece dalla volontà di riscatto essendo anche convinti che prima o poi il conflitto con Roma si sarebbe riacceso. Per far ciò bisognava “ridiventare grande” e quindi ripartirono da una posizione più occidentale dell’Italia. Amilcare Barca, ottenuto i pieni poteri, partì per la Spagna. In pochi anni la terra iberica passò quasi interamente nelle mani cartaginesi. Alla morte di Amilcare il potere passò ad Adrubale. Il figlio di Amilcare e suo nipote pensarono bene che, come Roma aveva colpito Cartagine ferendola al cuore, lo stesso doveva fare loro, tanto più che, scendendo in Italia sarebbe parso come liberatore delle popolazioni soggette a Roma, come quella gallica appena conquistata e le città greche del sud. Pertanto, dopo aver cercato il casus belli con l’assedio di Sagunto, città collocata all’interno della sfera d’influenza cartaginese, ma alleata con Roma, s’apprestò a scendere con un esercito ben addestrato e trentasette elefanti. Mentre a Roma si discuteva (dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur), Annibale marciò con forte velocità lasciando impreparati i Romani tanto che egli poté varcare le Alpi senza che loro riuscissero ad intercettarlo. Il primo scontro avvenne sul Ticino e, seppure con gravi perdite cartaginesi, l’esercito Romano venne distrutto: la conseguenza fu la ribellione delle popolazioni galliche appena conquistate. Quindi continuò a marciare verso sud, e di nuovo, presso il lago Trasimeno, l’esercito romano fu completamente distrutto. Roma venne invasa dal terrore e, chiamato come dictator Quinto Fabio applicò la tattica attendista, cercando di non far approvvigionare l’esercito nemico. Ma tale condotta, che procurò al generale romano la definizione di cunctator (temporeggiatore) provocò la reazione dei piccoli proprietari terrieri che vedevano i loro campi completamente distrutti. Quindi Annibale decise di passare l’inverno in Puglia, mentre a Roma si voleva attaccare battaglia subito. Fu quindi preparato un grande esercito che si andò a situare presso Canne: ma la loro distruzione fu pressoché totale. A favore di Annibale alcune città greche diedero la defezione da Roma e gli si posero a fianco. Tra di esse vi fu Capua.

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Annibale giunge a Roma: particolare affresco Musei Capitolini

La grandezza, in questo frangente, di Roma fu quella di non arrendersi e di avere le popolazioni dell’Italia centrale come fedeli alleate. Inoltre, qui si situa l’errore di Annibale; i Cartaginesi, fermandosi in Campania per attendere rinforzi (che per beghe politiche gli Annoni rifornivano col contagocce) non aveva alcuna intenzione d’attaccare direttamente Roma. Roma cominciò dalla periferia: si prese Agrigento, nonostante alcune macchine d’invenzione d’Archimede, come la leva (alla mitologia appartengono gli specchi ustori). In seguito venne presa anche Capua e distrutta per aver appoggiato Annibale e sistemò anche Filippo V che, a seguito dell’espansionismo romano nell’Illiria, dopo la fine della prima guerra punica, si era alleato con Annibale in funzione antiromana (prima guerra macedonica). Ma la sorte della guerra si giocò in Spagna.

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Thomas Ralph Spence: Archimede dirige la guerra

Fu mandato lì Publio Cornelio Scipione, che colpì la capitale cartaginese in terra spagnola: Cartagena. Ma Asdrubale, fratello minore di Asdrubale, riuscì ugualmente a raggiungere l’Italia, ma fu intercettato nelle Marche, dove venne decapitato. Quindi il Senato mandò in Africa lo stesso Scipione: costui, messosi d’accordo con Massinissa, cui aveva promesso un regno, costrinse Annibale a recarsi velocemente in Africa, ma la vittoria toccò all’esercito romano, presso Zama. A Cartagine non restava che chiedere la pace e le condizioni furono durissime: rinuncia ad ogni possesso fuori dall’Africa, consegna completa di tutta la flotta e soprattutto impossibilità di dichiarare, senza il consenso di Roma, guerra.

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La battaglia di Zama: miniatura per un’edizione trecentesca di Ab urbe condita di Livio (1350 circa)

Guerre macedoniche

Certamente Roma era ormai la padrona incontrastata di tutto il Mediterraneo orientale. L’idea che ormai fosse invincibile e che potesse allargare il suo potere in Oriente era forte, proprio perché gli eredi di Alessandro Magno erano divisi, ma anche soprattutto ricchissimi. Inoltre già aveva avuto a che fare con Filippo V. Annibale, mai domo, ottemperati i doveri verso i Romani, si alleò con il re di Siria, Antioco III. Roma aspettava il casus belli e questo gli fu offerto dai Rodiesi. Filippo V e Antioco III si allearono contro Rodi e quest’ultima chiese aiuto a Roma. Il problema politico diventava culturale; aiutarli avrebbe significato far penetrare la cultura greca con tutte le sue caratteristiche. Si raggiunse il compromesso e la guerra fu dichiarata solo a Filippo V che venne facilmente vinto grazie anche alla compattezza che le libere città greche mostrarono nel combattere con i Romani. Ridimensionato Filippo, toccò ad Antioco III, il quale, di fronte alle rivalità greche che rinacquero dopo la libertà offerta loro dai Romani, vi partecipò in modo interessato. Rifiutò lo sgombero delle truppe dalle Grecia e quindi l’esercito Romano pensò bene di attaccarlo nei suoi territori, ridimensionandone grandemente la potenza. Ma non terminò così. L’intervento romano contro Antioco aveva mostrato cosa Roma intendesse per “libertà greca”. Spaventati da un oppressore “straniero”, si rivolsero ancora a Filippo V che appariva, ai loro occhi, come l’alleato “naturale”. Ma la morte di costui, l’assassino che egli compì verso suo figlio Demetrio, considerato filo romano, l’incapacità del suo erede, Perseo, ebbero la meglio e per i Romani si trattò di costituire quattro nuove province sotto la sua diretta giurisdizione (ma l’importanza fondamentale fu che fra i macedoni catturati ci furono anche grandi intellettuali, come lo storico Polibio).

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Moneta recante l’effigie di Filippo V, re di Macedonia

La terza guerra punica

Non vi è un vero e proprio motivo per cui Roma dovesse distruggere Cartagine: il fatto che si era ripresa non costituiva pericolo, avendo accettato costei d’essere stato satellite di Roma. Ma Roma non poteva tollerare che essa tornasse, non dico ricca, ma sufficientemente prospera e colse la palla al balzo quando Massinissa, che si sentiva assolutamente coperto dall’alleanza con l’Urbe, sconfinava impunemente nei confini della città, recando morte e distruzione. Stanchi di questa situazione i Cartaginesi lo attaccarono e Roma intervenne. Dopo la sua naturale vittoria fece una semplice richiesta: distruggetevi. I Cartaginesi invece vendettero cara la pelle: tre anni ci vollero ai Romani per averla definitivamente vinta. Come sfregio gettarono sul suolo sale. Anche questo territorio divenne provincia, come quello della Spagna, il cui duro assedio terminò con la conquista della loro capitale, Numanzia. Dal 264 a. C., inizio della I guerra punica, al 146, fine della III guerra punica e 133 a. C., Roma si era trasformata, completamente. Cominciava ora il suo compito di unificare in una sola civiltà quello che, iniziato col mondo greco, diverrà sapere occidentale.

Doc. 10. Espansione nel 133 ac.jpgRoma nel 133 dopo la terza guerra punica

L’epica
Introduzione all’epica e al teatro

Che cos’è un poema epico? Se ci si dovesse riferire all’epica arcaica, cioè omerica (VI – V secolo a.C.), esso è una narrazione nella quale vengono raccontate le vicende belliche di un popolo o le peregrinazioni di un eroe, accompagnate dalla volontà divina. Abbiamo pertanto un vero e proprio intreccio tra gli uomini e gli dei, in cui s’intersecano i destini e il fine della vicenda.

L’Iliade narra l’ira di Achille verso Agamennone, che le ha sottratto la schiava. Da qui deriva il suo rifiuto di combattere a fianco dei Greci contro i Troiani, finché l’uccisione di Patroclo, amico di Achille, da parte di Ettore, eroe troiano e l’intervento dello stesso Achille, che rientra in guerra per vendicarlo, fanno terminare il racconto con i suoi funerali.

Diversa è la vicenda dell’Odissea che narra il lungo viaggio per rientrare in patria di Ulisse. Infatti l’opera si apre con Telemaco, suo figlio, che va alla ricerca di notizie del padre, scomparso da dieci anni dopo la fine della guerra. Quindi ritroviamo Ulisse naufrago nella terra dei Feaci, al cui re racconta le sue avventure (Polifemo, Circe, gli inferi, le Sirene, la perdita dei compagni) finché, grazie al loro aiuto, può tornare in patria e, combattendo contro i pretendenti di Penelope, sua moglie, riconquista il regno.

Pur nella diversità i due poemi appartengono ambedue al filone “epico-eroico”. Ad identificarli in questo genere sono alcuni aspetti strutturali:

  • ambientazione in un passato cosiddetto “mitico”
  • linguaggio formulare (che ricorda la trasmissione orale)
  • il verso (nei poemi omerici l’esametro).

Ma a caratterizzarli come “opere” fondative l’identità culturale di un popolo non bisogna dimenticare che in esse vi è racchiusa tutta la conoscenza, sia religiosa che geografica, scientifica e morale che caratterizzava un popolo, riflettendo e veicolando allo stesso tempo il suo modo d’essere.

Quando con l’avvento dello spettacolo teatrale e quindi della filosofia il mondo mitico entrò in crisi, si sostituì ad esso un epos prettamente storico, di cui, però, non abbiamo testimonianza.

Testimonianza diretta, invece, abbiamo dell’epos ellenistico, quello delle Argonautiche di Apollonio Rodio (III – II sec. a.C.), che, chiaramente, non rispondevano più alle esigenze dell’opera omerica. Infatti in esso predomina la brevità (contro i 24 canti dell’Iliade e dell’Odissea, qui solo 4) e l’intento eziologico, cioè la ricerca della spiegazione di un nome “contemporaneo” ad un fatto mitico. Ma ciò che lo caratterizza è la forte presenza di una storia d’amore, assolutamente in secondo piano in Omero.

Se, come abbiamo visto, l’epica rappresenta il modo attraverso cui i Romani cercavano di crearsi un’identità, e, per questo, impararono prima l’arte, con Livio Andronico, quindi posero mano alle proprie opere epiche con il Bellum Poenicum di Nevio e gli Annales di Ennio, fu proprio con il teatro che il contatto con il mondo greco non venne mai meno, sin dall’inizio, da quando cioè Livio Andronico, nel 240 a. C. fece rappresentare, in lingua latina, un’opera originale greca.

Ma prima d’iniziare il discorso sul teatro romano delle origini è opportuno ricordare il modo in cui si struttura il teatro a Roma:

Fabula cothurnata Cothurni, calzari greci per attori delle tragedie Tragedia d’argomento greco
Fabula praetexta Toga praetexta, indossata dai magistrati Tragedia d’argomento romano
Fabula palliata Pallio, mantello quadrato per attori delle commedie Commedia d’argomento greco
Fabula togata Toga, abbigliamento maschile Commedia d’argomento romano

Quanto detto sinora serve ad illustrare il problema secondo il quale il primo intellettuale che a Roma portò la conoscenza del poema epico aveva a sua disposizione più di un modello e se scelse Omero e, più precisamente l’Odissea, non fu propriamente casuale.

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Trasferimento di uno schiavo a Roma

Livio Andronico

Livio Andronico, infatti, da cui si fa nascere la letteratura latina, sembra sia stato il primo a scrivere un testo drammatico (di cui si racconta fosse anche attore), la prima opera in assoluto in lingua latina, era il 240 a. C.

Di lui possediamo pochissime notizie. Si sa che venne portato schiavo, dopo le guerre tarantine, da Livio Salinatore, da cui, appunto, assunse il nome. Sembra inoltre facesse attività di insegnante per i suoi figli (da qui si fa derivare la sua “traduzione” dell’Odissea di Omero) e che, per meriti culturali, fosse stato insignito della carica di direttore nel Collegium scribarum histrionumque. Sappiamo inoltre che egli fu traduttore di commedie e tragedie greche, ma che la sua fama venne subito riconosciuta per la perizia con cui riportò in latino l’opera epica di Omero.

Facendo questo lavoro Livio Andronico fu veramente il primo a porsi un problema che poi avrebbe investito, sino ad oggi, tutta la cultura occidentale e non solo: che cosa è una traduzione? Come si concepisce il passaggio da un codice linguistico ad un altro codice linguistico?

A questo tipo di domande egli rispose definendo, sin da subito, che tradurre non vuol dire riproduzione fedele, ma “adattamento” di un testo alla cultura cui si rivolge, facendo dell’opera un’opera di quella determinata cultura.

Andronico infatti si rivolgeva ad un mondo che non aveva un mito vero e proprio, se non mutuato dalla cultura greca. Pertanto era impossibile per lui strutturare un’opera con tale valenza. Più importante era quindi rivolgersi ai personaggi: se avesse scelto l’Iliade, si sarebbe trovato di fronte ad un vero e proprio “mondo greco”, ad eroi che facevano della guerra di Troia un punto di partenza imprescindibile per la loro affermazione. Partire invece dall’Odissea significava prendere Ulisse come eroe che sì veniva da Troia ma che, viaggiando, aveva toccato le terre italiane, un eroe la cui virtù e pazienza ben si addicevano ad un uomo romano, come anche la fedeltà verso Penelope, e ancora l’amore filiale di Telemaco.

Altri discorsi che vanno oltre il tema devono tuttavia tener presente un dato fondamentale: noi non possediamo che di quest’opera che una quarantina di versi: pertanto i discorsi dei critici si basano, oltre che su di essi, da ciò che gli antichi scrittori di Roma dicevano dell’opera. Partiamo da un dato essenziale: Andronico, per dare “aulicità” al suo dettato poetico usa il verso degli antichi carmina religiosi: il saturnio. Già questo è un primo passo verso la “romanizzazione” del testo: usare il verso ritenuto sacro per dare al suo testo il senso che l’originale aveva per la cultura greca.

Vediamo ora il suo primo verso:

Virum mihi, Camena, insece versutum

Quell’uomo scaltro e accorto cantami, o Camena

che vuole “tradurre” il primo verso omerico:

ἄνδρα μοι ἔννεπε, μοῦσα, πολύτροπον (Andra moi ennepe Musa polutropon),

dove il sostantivo virum e l’aggettivo versutum stanno nella stessa posizione di ἄνδρα e πολύτροπον. Grande importanza ha invece la sostituzione di Musa con Camena, divinità romane arcaiche delle fonti, che avevano la capacità profetiche e divine.

Stesso discorso per il passo in cui Omero nel canto VIII afferma

ού γάρ έγώ γε τί φημι κακώτερον άλλο θαλάσσης
άνδρα γε συγχεύαι, εί καί μάλα καρτερός είη

Io dico che non c’è niente di peggio del mare
per conciar male un uomo, anche se è tanto forte.

in Andronico esso diventa:

Namque nullum peius macerat homonem (hominem)
quamde mare saevum: vires cui sunt magnae
topper … confringent importunae undae

E infatti niente di peggio tormenta un uomo
quanto un mare crudele: colui che ha grandi forze
presto annienteranno onde che non danno scampo

dove sviluppa il senso del pathos.

Come precedentemente detto, Livio Andronico, greco di Taranto, fu il primo a rappresentare, durante i Ludi Romani uno spettacolo teatrale. Tale testimonianza ci viene dallo storico Tito Livio, che nella monumentale opera storica Ab urbe condita ci offre l’analisi delle tappe con cui Roma giunse ad una vera e propria rappresentazione teatrale, ma non ci dice se Andronico abbia presentato una tragedia o commedia, ma solo che l’originale era greco. Questo ci porta subito al problema annoso del vertere latino: come per l’epica, l’autore tarantino traduce e reinterpreta il testo greco, per assimilarlo ad un pubblico, più vasto dei fruitori di poesia, di frequentatori di teatro. Di lui non possediamo alcun frammento, ma solo otto titoli, di cui sei cothurnatae, legate al ciclo troiano (si ripete qui il discorso di come tale ciclo fosse legato ad Enea e quindi ben accetto al pubblico latino) e due palliatae.

Gneo Nevio
Anche un altro grande autore arcaico, Gneo Nevio, che, come Livio Andronico scriverà tragedie e commedie, darà vita ad un importante poema epico, il Bellum Poenicum. Anche su di lui non si hanno notizie sicure: in primo luogo sappiamo che egli fu un cittadino romano, sia pur originario della Campania, e quindi sine suffragio. Combattente durante la prima guerra punica, di cui narrò la vicenda, sembra partecipasse anche alle operazioni della seconda. Di spirito libero, conservatore politicamente, si dice che fosse stato incarcerato per volontà della famiglia dei Metelli. Infatti si schierò contro di loro, che erano fautori di una linea espansionistica, con un verso rimasto famoso:

Fato Metelli Romae fiunt consulae

Per fortuna i Metelli sono fatti consoli a Roma

Ma se a fato do il significato di sfortuna e a Romae il senso di genitivo la traduzione sarà:

Per disgrazia di Roma i Metelli saranno fatti consoli.

Pare che i Metelli diedero alla frase quest’ultimo significato se gli risposero:

Dabunt malum Metelli Neviae poetaë

I Metelli daranno un dispiacere al poeta Nevio

Il Bellum Poenicum è il primo poema storico della letteratura latina. Esso ci è pervenuto in modo assai frammentario. Ma sembra fosse formato da circa quattromila o cinquemila versi in saturnio, obbedendo così sia alla tradizione appena inaugurata da Livio per la scelta del metro, sia al poema alessandrino per la brevità della narrazione. Di esso ci sono giunti solo una sessantina di versi.

L’opera inizia (anche se non si ha certezza) narrando direttamente i fatti inerenti la guerra. Poi forse avrebbe inserito un excursus in cui descriveva l’inizio dell’inimicizia tra Cartagine e Roma, menzionando anche la storia tra Enea e Didone, e quindi, in ulti-mo tornare alla guerra.

Quello che qui interessa è che egli, pur contrapponendosi a Livio per la scelta degli argomenti, si mostra invece ben preparato linguisticamente a rifarsi al modello omerico, come nella scelta di aggettivi composti, che sembrano richiamare gli epiteti dei poemi greci:

dein pollens sagittis inclutus arquitenens
sanctus Iove prognatus Pythius Apollo

Allora il forte arciere, potente di frecce
Pizio Apollo, santo figlio di Giove

L’esempio omerico vuole anche dimostrarci come Nevio volesse inserire il mito all’interno dell’epica nazionale, ma come lo facesse non lo sappiamo, anche perché le parti rimaste sono quasi tutte per lo più legate al mito più che alla storia. Sappiamo che come Livio egli cercasse di coinvolgere il pubblico attraverso il pathos. Si vedano questi tre esempi:

                               (…) amborum uxores
noctu Troiad (Troia) exibant capitibus opertis,
flentes ambae, abeuntes lacrimis cum multis.

(…) le donne di ambedue (Anchise ed Enea)
uscivano di notte da Troia con il capo coperto,
piangenti e andavano con molte lacrime

Eorum sectam sequuntur multi mortales
multi alii e Troia strenui viri:
ubi foras cum auro illinc exibant…

Molti uomini seguivano una parte di loro
molti altri uomini coraggiosi da Troia:
quando uscivano fuori con l’oro da lì…

Senex fretus pietati deum adlocutus

Un vecchio, forte della sua pietà, si rivolse al dio.

Dell’autore campano abbiamo maggiori testimonianze sulla sua esperienza teatrale, determinate da un numero, non certo ampio, di frammenti. Egli fu più noto come autore di commedie che di tragedie, sebbene è a lui che bisogna ascrivere la nascita della praetexta a Roma. Infatti gli vengono attribuiti due titoli che appartenevano sicuramente al genere tragico: il Romulus, sulla fondazione di Roma e il Clastidium, sulla conquista del console Marcello della città insubra (in Italia nord-occidentale) di Casteggio. Inoltre sembra che egli inauguri la tecnica della contaminatio: aggiungere ad una trama parti prese da un’altra opera teatrale.

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Attori romani con maschera (affresco di epoca romana a Palermo)

Per quanto riguarda le commedie egli scrisse sia palliate che togate. Bisogna ricordare che per quanto riguarda i temi, i modi di rappresentazione, la stessa “comicità”, sia i primi autori come Nevio ed Ennio, sia quelli seguenti come Plauto e Terenzio, tutti si rifanno alla commedia nuova greca di cui noi possediamo le opere di Menandro. Infatti si suole dividere la storia della commedia greca in tre fasce: l’antica, di mezzo e nuova. Della prima possediamo l’esempio di Aristofane, la cui comicità appare molto diretta con continui riferimenti all’attualità politica, nessun esempio della seconda, mentre la terza, cui prendono spunto gli autori latini, dà più attenzione ai personaggi e alla loro psicologia (sebbene Plauto spinga più l’acceleratore sulla comicità pura e Terenzio, invece, sul sorriso).

Famosi di Nevio sono i versi dedicati ad una leggera fanciulla: molto probabilmente qui si parla di due studenti di Roma, mandati a Taranto ad approfondire lo studio di greco, che al posto di applicarsi sui libri, preferiscono trascorrere il tempo con allegre fanciulle come appunto la tarentilla (donna di Taranto): 

TARENTILLA

Quasi pila
in coro ludens datatim dat se et communem facit.

Alii adnutat, alii adnictat, alium amat, alium tenet.
Alibi manus est occupata, alii pervellit pedem;
anulum dat alii spectandum, a labris alium invocat,
cum alio cantat, at tamen alii dat digito litteras. 

Come giocando con una palla in un gruppo offre se stessa a tutti e si rende comune. Ad uno annuisce, ad un altro ammicca, un altro ancora ama, un altro lo abbraccia. La mano è occupata altrove, ad uno stuzzica il piede; ad un altro offre l’anello da guardare, dalle labbra invoca uno, con un altro canta ma pure manda lettere ad un altro con un dito.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

ALLE ORIGINI DELLA CULTURA ROMANA

Roma, come ci dice la tradizione, nasce nel 754 a. C. Le ricerche archeologiche in parte confortano tale data, affermando come le popolazioni sia che lì abitavano sia che gravitassero lì intorno si strutturassero in qualcosa di più solido; ma i Romani, invece, confortarono tale data con leggende, tutte tese a valorizzare la città.

Romolo e Remo (Rubens) - WikipediaPeter Paul Rubens – Romulo and Remo (1615)

La prima leggenda è legata all’eroe mitico Romolo: si dice che il dio Marte sedusse una Vestale, Rea Silvia, figlia del re di Alba Longa, Numitore. La donna mise al mondo due gemelli. Il principe Amulio, che aspirava al trono, ordinò che la sacrilega donna fosse sepolta viva e i neonati fossero abbandonati alla furia del fiume. Ma la cesta in cui furono posti s’incagliò tra i rami di un fico (fico Ruminale); raccolti e allattati da una lupa (Livio pensa si tratti di una prostituta) diventarono grandi sotto il pastore Faustolo e sua moglie Acca Laurenzia. Una volta adulti, uccisero Amulio e, restituito il regno a Numitore, ottennero da quest’ultimo il permesso di fondare una città. Quindi decisero chi ne sarebbe stato il primo capo e si accordarono che toccasse a colui che avesse visto più uccelli volare in cielo. Vinse Romolo, che quindi ne delimitò il confine, ma Remo, invidioso, lo superò e fu quindi ucciso dal fratello.

Eneide libro 7: riassunto, personaggi, luoghi - Studia Rapido

Pietro da Cortona: Enea giunge a Roma (1654)

A questa leggenda ne seguì e se ne intrecciò un’altra, che legava la figura di Romolo con Enea, eroe giunto da Troia dopo la distruzione della città da parte dei Greci: giunto nel Lazio egli si unì con i Latini sposando Lavinia. Il suo primo figlio Ascanio, fu quindi il progenitore di Numitore. Un’altra leggenda s’aggiunse a spiegare, oltre l’elemento latino, quello sabino, la famosa tratta delle donne sabine, a cui seguì una guerra. Tarpea, invaghitosi del loro re o pagata con ricchi gioielli, fece entrare i soldati in città. Ne seguì un’alleanza che sancì l’unione con la popolazione. Riconosciuta colpevole, Tarpea fu gettata da una rupe. Invece Romolo, scomparso durante una tempesta fu onorato come un dio.

Tarpea tradisce i Romani per l'oro dei Sabini - Studia Rapido

La morte di Tarpea

Sempre miticamente viene quindi rappresentato il periodo monarchico, racchiundendolo intorno a sette re, Romolo compreso:

  • Romolo a cui è attribuita l’alleanza con i Sabini;
  • Numa Pompilio, sabino: a lui è attribuita tutta la componente religiosa della città;
  • Tullio Ostilio, re guerriero: a lui si deve la conquista di Alba Longa (mito dei tre fratelli Orazi e Curiazi);
  • Anco Marcio fece importanti opere pubbliche: costruì il primo ponte e fondò la colonia di Ostia;
  • Tarquino Prisco dà inizio alla dinastia etrusca (e quindi ad un forte predominio di quest’elemento su quello romano); costruì il tempio di Giove, il Circo Massimo e la Cloaca Massima;
  • Servio Tullio, anch’egli d’origine etrusca: egli costruì le prime mura delle città;
  • Tarquino il Superbo: fu un despota. Suo figlio Sesto violentò la virtuosa Lucrezia, moglie del nobile Collatino. Costei per l’onore perduto s’uccise. Il marito, con Lucio Giunino Bruto, cacciò la dinastia etrusca e fondò la repubblica aristocratica (509 a.C).

I sette re, la leggenda di Roma - RAI Ufficio Stampa

I sette re di Roma

Ad indicarci che la monarchia fosse più lunga di quella prospettataci di sette re è la pochezza del numero rispetto alla lunghezza dell’età (35 anni per ognuno) e le loro caratteristiche (ad essi è affidato un particolare aspetto tipico della città, militare, politico o civile). Ciò che è certo è che l’età monarchica finì non solo per una vera e propria controffensiva aristocratica, ma anche come una ripresa dell’elemento romano contro il predominio etrusco che i tre re avevano affermato. Pertanto i patrizi dovettero muoversi su due fronti: strutturazione di uno stato oligarchico con le sue cariche e funzioni; preparazione militare per ricercare un’egemonia in Italia centrale.

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Tiziano: Lucrezia e Sesto Pompeo

Aspetto politico

La società era già divisa in età romana in tre tribù, rappresentanti l’elemento indigeno (romano/latino), sabino e forse etrusco. Ogni tribù fu a sua volta divisa in curie formate dalle gentes. Ognuna di esse ne possedeva dieci, per un totale di trenta. Esse davano vita ai comizi (le assemblee) curiati (dei gentiles). All’interno delle gentes vi erano le familiae, termine comprensivo con il quale si indicava ogni componente un vasto gruppo “familiare” guidato da un paterfamilias. Tra di essi venivano scelti i senatori, cioè coloro che anticamente facevano parte del consiglio del re. Tutto il resto della popolazione costituiva la plebs, uomini liberi, di diversa condizione economica: alcuni di loro diventavano clientes di patroni, instaurando con essi un rapporto di fides. Attraverso loro i patrizi si fornivano di fanti e quindi escludevano dalla guerra tutti coloro che non potevano permettersi un’armatura. A porre un freno fu, probabilmente la dinastia etrusca che, poggiando i desideri dei mercanti e dei commercianti allargò le centurie, portandole a 193, e dividendole su base economica. Quindi avremo 7 classi, di cui la prima, la più ricca (i patrizi) disponeva di 18 centurie; la seconda, quella dei fanti, ben 80 centurie; seguivano quindi tre classi di 20 centurie l’una, la più povera ne aveva 30, più una dei nullatenenti (proletarii) che ne possedeva 5. Il voto andava per classe: 98 la prima classe, 95 la seconda. Si allargava il potere decisionale, ma non si intaccava il potere di chi possedeva maggior peso economico. Inoltre sempre fra l’ultima età monarchica o la prima repubblicana vennero riformate le tribù su base territoriale, quattro cittadine e le altre rustiche. Ognuna di esse doveva presentare al suo interno cives cum suffragio. Alla caduta della monarchia si decise che ogni carica ed officio politico avesse, per non trasformarsi in tirannide, come requisiti la collegialità, la temporalità e l’elettività. Esse erano:

  • Il consolato: nominati in due, era la maggior carica dello stato. Il loro nome indicava l’anno in cui erano al potere; avevano in mano il potere militare (comandavano gli eserciti), legislativo, proponevano leggi;
  • La questura: amministrava il denaro pubblico, incassando i tributi e pagando i vari amministratori dello stato. All’inizio furono due, poi, mano mano crebbero, fino ad arrivare a quaranta.
  • L’edilizia: sovrintendeva a tutto ciò che si richiedeva per l’approvvigionamento ed il divertimento della città: mercati, spettacoli; presiedevano inoltre all’ingegneria pubblica, strade, edifici e all’ordine pubblico che oggi chiameremo municipale.
  • La pretura era il vero e proprio organo giurisdizionale; all’inizio due (uno urbano, l’altro esterno). Aumentarono con l’aumentare dei possedimenti statali;
  • La censura si occupava del censimento politico e militare; aggiornava le liste elettorali.

Il V° secolo fu il secolo in cui più aspra si fece la lotta tra patrizi e plebei: tale lotta ebbe effetti importanti per la repubblica come l’instaurazione di una collegialità plebea che poteva eleggere i propri rappresentanti considerati inviolabili e con facoltà di porre il veto su decisioni contrarie alla sua classe. I plebei economicamente più forti riuscirono nel corso degli anni ad entrare nelle magistrature riservate al patriziato e a far approvare alcune richieste inderogabili: il matrimonio tra patrizi e plebei e la scrittura delle tavole delle leggi.

Aspetto militare

La cacciata dei re etruschi provocò la controffensiva del lucumone (alta magistratura etrusca) di Chiusi Porsenna. Al di là della tradizione che, raccontando atti di eroismo (vedi Muzio Scevola), voleva nascondere la verità, il re etrusco riuscì ad imporsi sui Romani; ma a cacciarlo via fu una coalizione latina e dei greci di Cuma. Ripresa la libertà i Romani dovettero affrontare le varie città del Lazio, ma, visto il pericolo rappresentato dagli Equi, i Volsci e i Sabini, si allearono tra loro. Mentre l’alleanza aveva la meglio sulle popolazioni italiche, la sola Roma conquistò Veio, città etrusca. Tale vittoria costituì l’incipit di una vera e propria espansione della città Romana che, con battute d’arresto (famosa la discesa dei Galli) e strepitose vittorie (si pensi alla difficile vittoria contro i Sanniti) fece diventare l’Urbe una vera e propria potenza. Tale potenza non poteva non entrare in contatto con le più progredite città della Magna Grecia. Quando, per uno sconfinamento navale, Roma dichiarò guerra a Taranto, avamposto delle città greche in Italia, quest’ultima chiese aiuto a Pirro, re dell’Epiro. La battaglia ebbe un esito vittorioso per il re greco, grazie anche agli elefanti, sconosciuti all’esercito romano, ma furono talmente grandi le sue perdite e veloci le capacità di ripresa romana che tale vittoria non risultò decisiva. La sua ambivalenza politica, il suo orgoglio personale alla fine lo perdettero e rientrò in Grecia. Roma, conquistata Taranto, completò l’occupazione della Puglia e della Basilicata, rimanendo, così, padrona del Mediterraneo.

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Nicola Poussin: Ritratto del vincitore dei Volsci Coriolano con ai piedi la madre Veturia

La cultura

La cultura di questo periodo non può che essere ancora una cultura autoctona (intendendo con questo termine una cultura che non vede ancora la preponderante e assoluta preminenza greca) ed è per la maggior parte orale, conosciuta per le testimonianze e piccole trascrizioni di autori tardi.

Cultura epigrafica

Tuttavia la prima espressione scritta, pertanto, non letteraria, la possediamo per via epigrafica (dal greco epì grafo = scrivo sopra, pietre, vasi in argilla o ceramica, lastre tombali ect.). Fra queste ricordiamo:

  • Lapis niger: pietra nera: questo cippo, su cui sovrastava una pietra nera (da qui il nome) veniva considerato il luogo della tomba di Romolo. E’ scritto in modo bustrofedico (scrittura a nastro da sinistra verso destra e, nella riga successiva da destra verso sinistra) e la sua interpretazione è ancora assai complessa.

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Lapis niger

  • Lapis Satricanus: scoperto piuttosto di recente presso Anzio, riporta una dedica al dio Marte.

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Lapis Satricanus

Vaso di Dueno: recipiente in argilla in tre corpi con un’iscrizione a caratteri greci su ognuno di essi. Difficoltosa l’interpretazione.

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Vaso di Dueno

  • Cista Ficoroni: prende il nome dell’antiquario che la scoprì. E’ un recipiente in bronzo probabilmente atto a contenere gioielli. Tale iscrizione, databile il IV sec. A. C., è in un latino più comprensibile e meno arcaico dei precedenti:

CISTA FICORONI

 Latino arcaico

Dindia malconia fileai dedit
novios plautios med romai fecid

Latino classico

Dindia Malconia filiae dedit
Novius Plautius me Romae fecit

Dindia Malconia donò alla figlia / Novio Plauto mi fece a Roma.

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Cista Ficoroni

Fibula Praenestina: parliamo di un vero e proprio “giallo” archeologico: scoperta come la più antica testimonianza epigafrica (VII secolo) dal tedesco Helbig (1887), una studiosa nel 1980 ne denunciò la falsità; ma fu ancora un’altra studiosa, in tempi recenti ne confermò, invece, l’autenticità. La fibula così recita: Manios med fefaked Numasioi (Manio mi fece per Numerio).

Fibula prenestina - Wikipedia

Fibula Praenestina

Carmina

Un aspetto assolutamente importante rivestono i carmina. Con questo termine non è possibile riferirci alla poesia o alla prosa, ancora non delineata in questo tipo di cultura. Si tratta invece di prender coscienza di alcuni strumenti retorici che delimitano il discorso da quotidiano a rituale. Per meglio dire l’uso consapevole dell’allitterazione, dell’assonanza, del ritmo, per alcuni addirittura di una vera e propria struttura metrica, rendono questi testi appunto “rituali”, dedicati ad alcuni scopi, religiosi o laici, ma tutti rivolti a rafforzare l’identità culturale. Se d’altra parte il termine carmen, trae origine dal verbo cano, cantare, vuol dire certo che essi andavano al di là della funzione comunicativa per andare a quella rituale.

Distinguiamo, per comodità, i carmina religiosi da quelli laici. Per i primi ricordiamo:

  • Carmen Saliare: apparteneva al collegio sacerdotale dei Salii, sacerdoti del dio Marte. Costoro custodivano dodici scudi insieme alla statua del dio. Si racconta, infatti, che essendo uno scudo caduto dal cielo, in cui era raffigurata la futura potenza romana, il re Numa Pompilio ne facesse costruire altri undici uguali affinché quello non fosse rubato. La loro protezione fu affidata a codesti sacerdoti il cui nome deriva da salto, danza che costituita il rito.

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Cavaliere salio (appartenente al colleio dei Salii)

  • Carmen Lustrale: dedicato anch’esso al dio Marte, ci è stato tramandato da Catone il Censore è veniva recitato dal paterfamilias in occasione dei sacrifici di animali per la difesa delle terre dall’attacco nemico.
  • Carmen Arvale: come dice il nome stesso, è collegato ai campi. All’inizio del mese di maggio, 12 sacerdoti, detti fratres Arvales, attraverso riti quali canti, processioni, sacrifici, propiziavano la fecondità della terra per un buon raccolto. La loro conservazione, attestata da un lastrone contenente il testo (II sec. a.C.) è data certamente anche dal linguaggio arcaico, e quindi sacrale, del carme:

30054283034.jpg Edizione del 1933 del Carmen Arvale

CARMEN ARVALE

Latino arcaico

E nos, Lases, iuvate!
Neve lue rue, Marmar, sins incurrerre in pleoris!
Satur fu, fere Mars, limen Sali, sta ber ber!
Sumenis alternei advocapit conctos
E nos, Marmor, iuvato!
Triumpe!

 Latino classico

O nos, Lares, iuvate!
Neve luem, ruinam, Marmar, sinas incurrere in plures!
Satur esto, fere Mars; limen Sali; sta illic, illic!
Sermonis alternis advocabit cunctos!
O nos, Marmar, iuvato!
Trumphe!

Oh, Lari, aiutateci! / Non permettere, o Marte, che pestilenza e rovina si abbattano su tanti uomini! / Sii sazio, feroce Marte, balza sulla nostra soglia e fermati lì, lì! / Invocherà tutti i sermoni a turno! / O Marte aiutaci! / Trionfo!

Fra i carmina laici ricordiamo

  • Carmina triumphalia: purtroppo di questo tipo di carmina non ci è giunto nulla. Tuttavia, grazie agli scrittori antichi sappiamo che essi venivano svolti durante il trionfo di un comandante a cui, oltre a cantargli lodi, si cantavano versi osceni ed offensivi, in senso sia politico che apotropaico,: la prima infatti voleva indicare la parità tra il comandante e il valore dei suoi soldati; la seconda, invece, aveva la funzione di malocchio.

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Immagine di un triumphator

  • Carmina convivalia: venivano svolti durante importanti banchetti in cui con il canto i convitati cantavano le grandi gesta di un illustre antenato.

ab-ovo-usque-ad-mala-2.jpgBanchetto romano da un affresco pompeiano

 

Cultura storica e giuridica

Vogliamo indicare con cultura storica un atto aristocratico attraverso cui il pontifex maximus annotava su una tabula dealbata (tavola imbiancata) i grandi fatti avvenuti in un anno, in cui venivano scritti i nomi dei grandi magistrati, i giorni fasti e i giorni nefasti (giorno in cui si poteva o non si poteva svolgere attività giuridica), gli esiti delle battaglie, i grandi commerci e via dicendo. Tale tavola poi veniva messa in un archivio (tablinum) per una futura consultazione. Questa attività cessò durante il II° secolo.

Sempre in riferimento ad una “specie” di attività storica possiamo citare sia le laudationes funebres che gli elogia funebres.

S’intende con laudatio funebris un atto in cui un parente stretto, a seguito di una processione in cui i partecipanti indossano una maschera rappresentante gli antenati del gruppo familiare, pronuncia una lode sulla virtù del morto. Tale laudatio entrava poi negli archivi a costituire una storia (certo un po’ esaltante e non veritiera) sulla gens cui la familia appartiene.

Per elogium funebre s’intende, invece, una vera e propria epigrafe in cui tale laudatio viene estesa, in forma breve, su una pietra in cui vengono riassunte le vittorie e le cariche che il morto aveva ricoperto.

Come esempio riportiamo l’iscrizione dedicata a Lucio Cornelio Scipione del 259 a.C.

ep0103.jpgLapide con l’iscrizione dell’Elogium Scipionis (Musei Vaticani)

ELOGIUM SCIPIONIS

(omane)
Duonoro optume fuise viro
Luciom Scipione.  Filio Barbati
consol, censor, aidilis  hic fuet a(pud vos.)
Hec cepit Corsica  Aleriaque urbe
dedet tempestatebus   aide mereto (D.)

Versione latino classico

Hunc unum plurimi consentiunt Romani
bonorum optimum fuisse virum,
Lucium Scipionem. Filius Barbati,
consul, censor, aedilis hic fuit apud vos.
Hic cepit Corsicam Aleriamque urbem,
dedit Tempestatibus aedem merito.

Moltissimi Romani condividono che solo lui fosse stato un ottimo uomo fra i nobili Lucio Scipione. Figlio di Barbato costui fu presso di voi console, censore ed edile. Costui catturò la Corsica e la città di Aleria, costui costruì doverosamente un tempio alle Tempeste.

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Ricostruzione delle XII Tavole nel Museo della Civiltà Romana 

Invece, quando parliamo di cultura giuridica, ci riferiamo alle XII tavole della legge, di cui conserviamo alcuni frammenti. Ci narrano gli storici che una delle vittorie dei plebei contro i patrizi fu proprio quella di aequare legibus omnibus. A tale scopo vennero nominati decemviri legibus scribundis che lasciarono sul foro dodici leggi che, non essendo uguali per tutti sul piano del contenuto, lo erano sul piano del rispetto delle stesse. Riportiamo di esse due esempi:

I.1

Latino arcaico

Si in ius vocat, ito. Ni it, antestamino. Igitur em capito.

Latino classico

Si in ius vocat, ito. Nisi it, antestamino. Igitur eum capito.

Se (uno) chiama in giudizio (un altro), vada. Se non va, si chiami un testimone. Dunque sia preso.

IV.2

Latino arcaico

Si pater filium ter venumduit, filius a patre liber esto.

Latino classico

Si pater filium ter venum dederit, filius a patre liber esto.

Se un padre avrà venduto un figlio tre volte, il figlio sia libero dal padre.

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Dettaglio di sarcofago con Muse e maschere teatrali

Cultura teatrale

Se il grande teatro latino è innegabilmente nato sotto l’influenza greca, non mancano nella Roma arcaica, esempi, più che altro rituali, di spettacoli. Livio, grande storico romano, ci parla, nel suo testo, di Fescennini versus (versi fescennini). E’ ancora estremamente difficile dare un significato a questo termine. Importa più che altro ricordare che si tratta di una farsa popolare con scherzi piuttosto pesanti sul piano sessuale, che in età classica venivano ancora menzionati durante i riti nuziali.

Ben diversa è la fabula atellana nella quale, pur nell’improvvisazione, operavano quattro personaggi fissi: Maccus (lo sciocco), Baccus (il ghiottone e il chiacchierone), Pappus (il vecchio stupido), Dossennus (il furbo).

Un altro aspetto, di cui poco si sa (è sempre Livio a riferircene), è costituito dai Ludi scaenici. Infatti si narra che durante una pestilenza i Romani, non riuscendo a placare gli dei, chiamarono attori etruschi che diedero vita a danze accompagnate dal suono del flauto. In seguito i Romani adattarono ad essi il carattere dei fescennini e da questa mescolanza sarebbe sorta la satura.