LUCIO APULEIO

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Immagine di Apuleio

Apuleio è il più grande narratore dell’antichità, la cui opera ci è giunta in modo integrale. Il carattere “misterico” ed “iniziatico” con cui la si è letta sin dal Medioevo, ha fatto del suo romanzo la base su cui si sono costruiti racconti favolosi o meno che hanno costituito la base della nostra civiltà.

Cenni biografici
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Resti romani di Medaura

Apuleio nasce in Africa, più precisamente a Madaura, oggi situata nell’attuale Algeria, intorno al 125. La tradizione ce lo tramanda con il prenome Lucius, ma dai critici si ritiene spurio in quanto corrisponde al nome del protagonista del suo romanzo. Di famiglia ricchissima, ereditò, insieme al fratello, ben due milioni di sesterzi, ricchezza che gli permise di ricevere, sin da principio, una straordinaria educazione culturale. Studiò dapprima a Cartagine, dove forse fu iniziato al culto di Esculapio, detto anche Asclepio, dio della medicina. Durante gli studi sembra si avvicinasse anche ad altri misteri, quali quelli eleusini (dedicati a Demetra, dea dell’agricoltura). Cominciò quindi a viaggiare, portando dappertutto la sua straordinaria abilità di conferenziere. Raggiunse Alessandria, centro molto importante a livello culturale, Ierapoli (nell’attuale Turchia) e Roma, dove fu iniziato al culto di Osiride. Nel 155, nella città di Oea (l’odierna Tripoli) incontrò un suo vecchio compagno di studio, Ponziano, il quale sembra lo convinse a sposare la non bella, ma ricchissima madre Pudentilla. L’intento del suo amico era quello di allontanare dalla madre i cosiddetti cacciatori d’eredità, ritenendo Apuleio lontano da qualsiasi interesse. La morte di entrambi fece intervenire i parenti di lei contro lo scrittore, accusandolo di aver praticato la magia per far innamorare la donna e quindi intascarne l’eredità. La felice difesa dell’autore, poi riportata nel De Magia, lo liberò da ogni accusa. Dopo questo episodio Apuleio si ritirò a vivere a Cartagine, dove rivestì cariche importantissime. Sembra che lì finisse la sua vita, ma non si ha la data certa. Non si hanno notizie di lui dopo il 170.

La filosofia

I concittadini di Medaura, sua città natale, eressero una statua ad Asculapio, dio della medicina, alla cui base vi era una dedica che così recitava: “Al filosofo platonico, cittadini di Medaura” quindi la dedicarono ad Apuleio. A dire il vero il platonismo cui egli fece parte è quello detto del “platonismo medio”. Tale filosofia prese piede proprio dalla crisi dello stoicismo e dell’epicureismo, adottando un sincretismo filosofico-religioso. Infatti, se per lo stoicismo “un dio è in noi”, in quanto siamo parte di un tutto unico, l’epicureismo prevede una totale lontananza dagli dei da noi. La filosofia cui Apuleio aderisce prevede viceversa la presenza dei daimonion (dèmoni) che fungono da mediatori tra il divino e l’umano. Ciò pone una specie di gerarchia tra ciò che sta al di sopra di noi nel cielo e gli umani che popolano la terra: in basso l’uomo, in mezzo i demoni, al di sopra gli dei. Se quest’ultimi sono totalmente privi di passione, questa, mano mano che si scende, domina la vita degli uomini.

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Il daimon di Socrate

Apuleio struttura il suo credo in tre libri, che sono:

  • De mundo (Sul mondo): opera scientifica che riprende uno scritto pseudo aristotelico dallo stesso titolo;
  • De Platone et eius dogmate (Platone e la sua dottrina): sintetizza la filosofia del pensatore greco (non ci è pervenuto il terzo ed ultimo libro);
  • De deo Socratis (Il demone di Socrate): in cui illustra, partendo dal Teeto di Platone, la voce interiore e capace di consigliare Socrate nei momenti della sua vita. Tale voce Apuleio l’identifica con un demone, un “entità” tra dio e uomo, tra razionalità e passione, capace di portare le nostre istanze al mondo superiore.

Il mago

Essere mago nel II sec. d.C. voleva dire essere lo stesso che filosofo e medico, tanto le tre discipline non possedevano un così netto distacco l’una dall’altra. D’altra parte, attraverso le sue opere, soprattutto l’orazione e il romanzo, fanno di tutto per non smentire che Apuleio facesse pratica di magia: l’importante per lui è in qualche modo scrollarsi di dosso la fama di “fattucchiere” che il padre e il fratello di Ponziano volevano accreditargli e lo fece con una brillantissima orazione, da noi conservata, che prende nome o di Apologia (discorso in difesa), o più significativamente, De magia. Tramessaci in due libri (lunghezza insolita per un’orazione) si può dividere in tre parti:

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  • Dapprima Apuleio demolisce le accuse e la credibilità dei suoi accusatori. Non manca una captatio benevolentiae attraverso la quale elogia la grande cultura del giudice e quindi la sua grande tollerabilità (sembra voler richiamare qui l’“apertura mentale” di colui che lo deve giudicare che certamente saprà bene che la sua, se magia dov’essere essere, è così ritenuta dagli indotti e malevoli);
  • Nella seconda parte egli fa una distinzione tra magia bianca e magia nera:  per magia nera s’intende l’uso strumentale d’incantesimi per maledire l’altro a proprio vantaggio; per magia bianca s’intende l’uso strumentale d’incantesimi per beneficare l’altro a suo vantaggio. Apuleio nel definire le tipologie di magia, sottolinea che la bianca non è altro che la capacità, propria degli iniziati, di entrare in contatto col divino e di operare quindi, per mezzo di lui. Ciò potrà sembrare strano, ma non lo è, perché la cultura ce ne offre innumerevoli esempi, e, nel fare questi esempi, dà enorme sfoggio di erudizione.
  • L’ultima parte dell’orazione è dedicata alla storia vera e propria raccontando gli eventi che lo hanno condotto al matrimonio e termina con un vero e proprio colpo di teatro con cui si mostra l’eredità di Pudentilla e come lei avesse designato il figlio minore ad essere l’erede (quindi l’accusa è completamente infondata).

APÒLOGIA (DE MAGIA)
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Vide quaeso, Maxime, quem tumultum suscitarint, quoniam ego paucos magorum nominatim percensui. Quid faciam tam rudibus, tam barbaris? Doceam rursum haec et multo plura alia nomina in bybliothecis publicis apud clarissimos scriptores me legisse an disputem longe aliud esse notitiam nominum, aliud ar-tis eiusdem communionem nec debere doctrinae instrumentum et eruditionis memoriam pro confessione criminis haberi an, quod multo praestabilius est, tua doctrina, Claudi Maxime, tuaque perfecta eruditione fretus contemnam stultis et impolitis ad haec respondere? 

Vedi, Massimo, quale schiamazzo hanno fatto perché ho enunciato i nomi di alcuni maghi. Come comportarsi con gente così rozza, così barbara? Dovrei loro ancora insegnare che questi nomi e molti altri ancora ho letto nelle pubbliche biblioteche in opere di chiarissimi scrittori, oppure dovrei sostenere che una cosa è conoscere i nomi delle persone, un’altra cosa è praticarne le arti, e che lo studio e la cultura non devono essere considerati come la confessione di una colpa? Oppure non sarà molto meglio che io mi affidi alla tua scienza, Claudio Massimo, e alla tua compiuta erudizione, sdegnando di rispondere a gente sciocca e incivile?

La veemenza con la quale conduce l’oratio, con le sue incalzanti interrogative, mostra come la lezione ciceroniana sia ben stata assimilata da Apuleio. Tuttavia quello che manca in quest’orazione difensiva è proprio l’orazione difensiva: nessuna prova per scagionarsi, ma solo dimostrare l’ignoranza altrui e la propria cultura. Poca differenza quindi tra quest’opera e le declamationes di cui egli era un campione.

Conferenziere

E infatti egli se mago fu, lo fu realmente della parola. Capace di suscitare ammirazione agli ascoltatori, sapeva parlare di tutto e di ogni cosa come ci dimostra anche nelle due opere maggiori. Qualcuno raccolse queste orazioni, scegliendo e facendo un’antologia tra le più ricercate e preziose. Tali opere hanno preso il nome di Florida.

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Edizione del 1927

Il romanziere

Ma l’opera per cui Apuleio è famoso è certamente la Metamorfosi o meglio conosciuta come L’asino d’oro. E’ un testo in 11 libri, il cui antecedente è costituito da un testo greco, non pervenutoci, di Luciano di Samosata del quale ci è giunto un plagio intitolato Lucius o l’asino. Non è improbabile che sia l’autore latino che quello greco abbiano a loro volta rielaborato un’ulteriore fonte, di cui ci testimonia Fozio: ovvero, un’opera intitolata Metamorfosi, e attribuito ad un certo Lucio di Patre. Nell’opera di Apuleio il magico si alterna con l’epico, il tragico, il comico, in una sperimentazione di generi diversi che trova corrispondenza nello sperimentalismo linguistico: ciò non toglie, comunque, che tutto il testo sia intessuto di una forte letterarietà.

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Manifesto per una serie di conferenze su L’asino d’oro di Apuleio

L’opera racconta la storia di un giovane chiamato Lucio appassionato di magia. Originario di Patrasso, in Grecia, egli si reca per affari in Tessaglia, paese delle streghe. Là, per caso, si trova ad alloggiare in casa del ricco Milone, la cui moglie Panfila è ritenuta una maga: ha la facoltà di trasformarsi in uccello. Lucio, avvinto dalla sua insaziabile curiositas, vuole imitarla e, valendosi dell’aiuto di una servetta, Fotide, che nel frattempo è diventata sua amante, accede alla stanza degli unguenti magici della donna. Ma sbaglia unguento, e viene trasformato in asino, pur conservando coscienza ed intelligenza umana. Per una simile disgrazia, il rimedio sarebbe semplice (gli basterebbe mangiare alcune rose), se un concatenarsi straordinario di circostanze non gli impedisse di scoprire l’antidoto indispensabile. Rapito da certi ladri, che hanno fatto irruzione nella casa, durante la notte stessa della metamorfosi, egli rimane bestia per lunghi mesi, trovandosi coinvolto in mille avventure, e sottoponendosi ad infinite angherie. Ciò gli permette di diventare un muto testimone dei più abietti vizi umani; in breve, il tema è un comodo pretesto per mettere insieme una miriade di racconti. Nella caverna dei briganti, Lucio ascolta la lunga e bellissima favola di Amore e Psiche, narrata da una vecchia ad una fanciulla rapita dai malviventi: la favola racconta appunto l’avventura amorosa di Psiche e di Eros. Avendolo conquistato, ella tuttavia non può svelare il suo volto, ma vita da curiosità lo smarrisce. Lo ritroverà poi nel dolore di un’espiazione che le fa attraversare tutti gli elementi del mondo. Sconfitti poi i briganti dal fidanzato della fanciulla, Lucio viene liberato, finché, dopo altre peripezie, si trova nella regione di Corinto, dove, sempre sotto forma asinina, si addormenta sulla spiaggia e, durante una notte di plenilunio, vede apparire in sogno la dea Iside che lo conforta, gli annuncia la fine del supplizio e gli indica dove potrà trovare le benefiche rose. Il giorno dopo, il miracolo si compie nel corso di una processione di fedeli della dea e Lucio, per riconoscenza, si fa iniziare ai misteri di Iside e Osiride.

Sia l’ultima parte del romanzo che la celebre favola di Amore e Psiche sembra non abbiano alcun riferimento con le fonti sopra citate, ma siano frutto della fantasia e dell’intenzione di Apuleio, anche perché, come meglio vedremo, la favola costituisce un modello in scala ridotta dell’intero percorso narrativo del romanzo, offrendone così la corretta interpretazione. Infatti l’episodio di Iside, come quello di Amore e Psiche, hanno un evidente significato religioso: indubbio nel primo; fortemente probabile nel secondo. Certo è, comunque, che tutto il romanzo è carico di rimandi simbolici nell’itinerario spirituale del protagonista, che, proprio al termine, sembra coincidere con l’autore: la vicenda di Lucio ha, infatti, indubbiamente valore allegorico: rappresenta la caduta e la redenzione dell’uomo, di cui l’ultimo libro è certamente la conclusione religiosa; questo ce lo fa pensare sia che l’asino fosse un animale inviso alla dea Iside sia lo stesso numero dei libri, 11, che rimanda al numero dei giorni richiesti per l’iniziazione misterica, dieci per la purificazione e uno dedicato al rito religioso.

Vediamo infatti dapprima descritta la degradazione cui è costretto Lucio:
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Lucio trasformato in Asino

LA TRASFORMAZIONE DI LUCIO IN ASINO

Haec identidem asseverans summa cum trepidatione irrepit cubiculum et pyxidem depromit arcula. Quam ego amplexus ac deosculatus prius utque mihi prosperis faveret volatibus deprecatus abiectis propere laciniis totis avide manus immersi et haurito plusculo uncto corporis mei membra perfricui. Iamque alternis conatibus libratis brachiis in avem similis gestiebam: nec ullae plumulae nec usquam pinnulae, sed plane pili mei crassantur in setas et cutis tenella duratur in corium et in extimis palmulis perdito numero toti digiti coguntur in singulas ungulas et de spinae meae termino grandis cauda procedit. Iam facies enormis et os prolixum et nares hiantes et labiae pendulae; sic et aures inmodicis horripilant auctibus. Nec ullum miserae reformationis video solacium, nisiu quod mihi iam nequeunti tenere Photidem natura crescebat.

Dopo avermi così rassicurato con grande trepidazione entrò nella stanza, e tirò fuori un barattolo dal cofanetto. Io lo presi in mano, lo baciai, e poi lo pregai che mi desse la grazia di voli felici; mi spogliai in fretta di tutti i vestiti, immersi le mani avidamente nel barattolo, ne tolsi un bel po’ di unguento e mi spalmai ben bene tutto il corpo. E già tentavo di librare prima un braccio poi l’altro, come un uccello, ma non mi spuntava nessun tipi di piume, e nemmeno penne. I miei peli, invece, diventavano grossi come setole, e la pelle mi diventava dura come il cuoio, e in cima alle mani le dita non erano più superate ma si univano in un unico zoccolo, e dall’estremità della spina dorsale mi venne fuori una gran coda. La mia faccia è enorme, la bocca tutta larga, le narici dilatate, le labbra mi pendono giù: e mi crescono orripilanti orecchie pelose. E non ho nessun conforto in questa mia disgraziata trasformazione se non uno: adesso che non potevo abbracciare la mia Fotide, la verga mi era diventata enorme!

E quindi la sua iniziazione:
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L’iniziazione di Lucio ai culti di Iside

LA TRASFORMAZIONE DA ASINO A LUCIO

At sacerdos, ut reapse cognoscere potui, nocturni commonefactus oraculi miratusque congruentiam mandati muneris, confestim restitit et ultro porrecta dextera ob os ipsum meum coronam exhibuit. Tunc ego trepidans, adsiduo cursu micanti corde, coronam, quae rosis amoenis intexta fulgurabat, avido ore susceptam cupidus promissi devoravi. Nec me fefellit caeleste promissum: protinus mihi delabitur deformis et ferina facies. Ac primo quidem squalens pilus defluit, ac dehinc cutis crassa tenuatur, venter obesus residet, pedum plantae per ungulas in digitos exeunt, manus non iam pedes sunt, sed in erecta porriguntur officia, cervix procera cohibetur, os et caput rutundatur, aures enormes repetunt pristinam parvitatem, dentes saxei redeunt ad humanam minutiem, et, quae me potissimum cruciabat ante, cauda nusquam! Populi mirantur, religiosi venerantur tam evidentem maximi numinis potentiam et consimilem nocturnis imaginibus magnificentiam et facilitatem reformationis claraque et consona voce, caelo manus adtendentes, testantur tam inlustre deae beneficium.

Intanto il sacerdote, messo sull’avviso dal sogno notturno, come potetti da me constatare, e a sua volta colmo di meraviglia per l’esatta corrispondenza tra ciò che stava accadendo e gli avvertimenti divini, subito si fermò e allungando il braccio, egli stesso mi porse la corona proprio davanti alla bocca. Allora tutto trepidante, col cuore che mi batteva forte, smanioso che la promessa s’adempisse, afferrai avidamente quella corona di bellissime rose intrecciate ch’era uno splendore e la divorai. E la celeste promessa non mi deluse. Là per là persi il mio brutto e animalesco aspetto, dapprima cadde l’ispido pelo, poi la grossa pelle si assottigliò, il largo ventre si restrinse, dalle piante dei piedi, attraverso lo zoccolo, spuntarono nuovamente le dita, le braccia non furono più zampe ma, rialzatesi, ripresero le loro funzioni, la testa ritornò eretta, il viso e il capo si arrotondarono, le orecchie da enormi che erano tornarono piccole come prima, i denti, grossi come ciottoli, ripresero dimensioni umane, infine la coda, quella coda che più d’ogni altra cosa era stata la mia ossessione, scomparve. La folla rimase incantata dalla meraviglia i più devoti si prostrarono in adorazione davanti alla potenza così evidente della grande dea, alla grandiosità di quella metamorfosi e anche alla naturalezza con cui s’era compiuta, così simile a un sogno notturno, e a voce alta e in coro, levando al cielo le braccia, testimoniarono lo straordinario miracolo della dea.

I due passi possono considerarsi uno specchio dell’altro e rappresentano, come già detto il punto di partenza e il punto d’arrivo nella trasformazione di un uomo. La curiositas di Lucio, sembra dirci Apuleio, senza che essa sia accompagnata da un più profondo sentire, che non si esaurisca nella ricerca solipsistica di puro piacere (non è senza significato che il primo rimpianto sia sessuale) quale quella di vedere il mondo dall’alto sotto forma di uccello, non può essere esaudita se non accompagnata da un più profondo senso sacrale. Anche questo è sottolineato: a dargli l’unguento è una servetta tutta “sesso”, a rifarlo uomo sarà un sacerdos.

Ciò farebbe delle Metamorfosi, così, un vero e proprio romanzo mistagogico (il cui significato è portare, guidare qualcuno a considerare le realtà sacre, introdurre nelle cose nascoste cioè nei misteri), che sembrerebbe rappresentare l’esperienza stessa dello scrittore. Lo stesso definisce la sua opera fabula milesia, cioè quella narrazione di carattere erotico con un narratore omodiegetico, cioè interno alla stessa (si pensi alla storia, fortemente sessuale di Lucio uomo con Fotide, la serva di Panfila; ma anche al desiderio sessuale che suscita su una nobildonna quando lo scopre, ormai asino, essere pensante come un umano e quindi la volontà di portarlo a teatro per fare l’amore con una condannata a morte). Ma sembra essere molto più in linea con il romanzo ellenistico d’avventure, di cui la storia è piena.

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Antonio Canova: Amore e Psiche

La parte più famosa, e certamente più importante e la favola di Amore e Psiche;
Questo brano può esser letto secondo la morfologia della fiaba dello strutturalista russo Vladimir Propp. Infatti esso è così strutturata:

  • Equilibrio iniziale (inizio): amore tra Psiche e Amore;
  • Rottura dell’equilibrio iniziale (movente o complicazione): gelosia delle sorelle e fuga di Amore
  • Peripezie dell’eroe: ricerca di Amore da parte di Psiche e prove cui sottoposta da Venere;
  • Ristabilimento dell’equilibrio (conclusione): nozze fra Psiche e Amore.

Come detto, la favola di Amore e Psiche, che parte dalla fine del IV libro a buona parte del VI, ha un’importanza fondamentale nell’economia generale del romanzo, svolgendo una funzione non solo estetica, ma fornendocene invece la corretta chiave di lettura e di decodificazione dell’intero testo. Infatti, a ben guardare, la successione degli avvenimenti della novella riprende quella delle vicende del romanzo: prima un’avventura erotica, poi la curiositas punita con la perdita della condizione beata, quindi le peripezie e le sofferenze, che vengono alfine concluse dall’azione salvifica della divinità. La favola, insomma, rappresenterebbe il destino dell’anima, che, per aver commesso il peccato di hybris (tracotanza) tentando di penetrare un mistero che non le era consentito di svelare, deve scontare la sua colpa con umiliazioni ed affanni di ogni genere prima di rendersi degna di ricongiungersi al dio. L’allegoria filosofica è appena accennata (se non altro, nel nome della protagonista, Psiche, simbolo dell’anima umana), ma il significato religioso è evidente soprattutto nell’intervento finale del dio Amore, che, come Iside, prende l’iniziativa di salvare chi è caduto, e lo fa di sua spontanea volontà, non per i meriti della creatura umana.

C’ERA UNA VOLTA UN RE E UNA REGINA

Erant in quadam civitate rex et regina. Hi tres numero filias forma conspicuas habuere, sed maiores quidem natu, quamvis gratissima specie, idonee tamen celebrari posse laudibus humanis credebantur, at vero puellae iunioris tam praecipua, tam praeclara pulchritudo nec exprimi ac ne sufficienter quidem laudari sermonis humani penuria poterat. Multi denique civium et advenae copiosi, quos eximii spectaculi rumor studiosa celebritate congregabat, inaccessae formonsitatis admiratione stupidi et admoventes oribus suis dexteram primore digito in erectum pollicem residente eam ut ipsam prorsus deam Venerem religiosis venerabantur adorationibus. Iamque proximas civitates et attiguas regiones fama pervaserat deam, quam caerulum profundum pelagi peperit et ros spumantium fluctuum educavit, iam numinis sui passim tributa venia in medias conversari populi coetibus, vel certe rursum novo caelestium stillarum germine non maria, sed terras Venerem aliam virginali flore praeditam pullulasse.

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William-Adolphe Bouguereau: Psiche (1898)

Un tempo, in una città, vivevano un re e una regina che avevano tre bellissime figlie, le due più grandi, per quanto molto belle, potevano essere degnamente celebrate con lodi umane, ma la bellezza della più giovane era così straordinaria e così incomparabile che qualsiasi parola umana si rivelava insufficiente a descriverla e tanto meno a esaltarla. Insomma sia quelli della città che i forestieri, attratti in gran numero dalla fama di tanto prodigio, restavano attoniti dinanzi a un simile miracolo di bellezza: portavano la mano destra alle labbra, accostavano l’indice al pollice e la adoravano con religioso rispetto come se fosse stata Venere in persona. Anzi nelle vicine città e nelle terre confinanti si era sparsa la voce che la dea nata dai profondi abissi del mare e allevata dalla spuma dei flutti, volendo elargire la grazia della sua divina presenza, era discesa fra gli uomini o anche che da un nuovo seme di stille celesti non il mare ma la terra aveva sbocciato un’altra Venere, anch’essa bellissima, nella sua grazia virginale.

Tale bellezza suscita la gelosia della dea Venere, che non può sopportare che una donna umana possa eguagliarla se non superarla in bellezza:

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Raffaellino del Colle (attribuito): Venere e Cupido,, Loggia Farnese, Roma

LA GELOSIA DI VENERE

“En rerum naturae prisca parens, en elementorum origo initialis, en orbis totius alma Venus, quae cum mortali puella partiario maiestatis honore tractor et nomen meum caelo conditum terrenis sordibus profanatur! Nimirum communi numinis piamento vicariae venerationis incertum sustinebo et imaginem meam circumferet puella moritura. Frustra me pastor ille, cuius iustitiam fidemque magnus comprobavit luppiter, ob eximiam speciem tantis praetulit deabus. Sed non adeo gaudens ista, quaecumque est, meos honores usurpabit: iam faxo eam huius etiam ipsius inlicitae formonsitatis paeniteat”

«Ecco che io, l’antica madre della natura, l’origine prima degli elementi, la Venere che dà vita all’intero universo, sono ridotta a dividere con una fanciulla mortale gli onori dovuti alla mia maestà e a veder profanato dalle miserie terrene il mio nome celebrato nei cieli. Nessuna meraviglia, allora, se durante i riti espiatori dovrò sopportare un culto equivoco, diviso a metà e se una fanciulla che non potrà sfuggire alla morte ostenterà le mie sembianze. A nulla è valso allora che quel pastore la cui giustizia e lealtà fu dallo stesso Giove riconosciuta, per la straordinaria bellezza prescelse me fra dee tanto più illustri. Ma non se li godrà a lungo costei, chiunque sia, gli onori che mi usurpa: la farò pentire io della sua bellezza che non le spetta».

A tale scopo chiama suo figlio, Cupido, che, per punire Psiche, deve fare in modo ch’ella si innamori dell’uomo più brutto sulla terra.

Ma Psiche, pur essendo la ragazza più bella sulla terra, non gode della sua fortuna, e rimane sola. Le sorelle si sposano, ma sembra che nessuno voglia lei, e piange, nella sua solitudine, la sua bellezza, maledicendola. Allora il padre si rivolse ad un indovino che gli predisse che un mostro l’avrebbe amata: questo era il volere degli dei. Pertanto la preparasse vestendola d’oro e d’argento, e la portasse sopra una rupe, che, con ferro e con fuoco, l’avrebbe fatta sua. Il padre, pieno di timore, non può fare a meno d’obbedire.

Portata sulla rupe, accompagnata con mesto corteo, viene lasciata sola. Ma viene da subito trasportata dal vento e portata in un locus amoenus:
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Kynuko Y Craft (illustratore): Psiche portata dal vento

LOCUS AMOENUS

Psyche teneris et herbosis locis in ipso toro roscidi graminis suave recubans, tanta mentis perturbatione sedata, dulce conquievit. Iamque sufficienti recreata somno placido resurgit animo. Videt lucum proceris et vastis arboribus consitum, videt fontem vitreo latice perlucidum; medio luci meditullio prope fontis adlapsum domus regia est aedificata non humanis manibus sed divinis artibus.

Psiche dolcemente adagiata su un morbido prato, in un letto di rugiadosa erbetta sentì l’animo suo liberarsi di tutta l’angoscia e placidamente s’addormentò. Dopo aver riposato abbastanza si levò più tranquilla e vide un boschetto fitto di alberi alti e frondosi e una sorgente d’acque cristalline e, proprio in mezzo al bosco, non lontana da quella fonte, vide una reggia, costruita non dalla mano dell’uomo ma per arte divina.

 Quindi viene introdotta in una reggia stupenda, dimora più di un dio che di un uomo. Delle invisibili ancelle la curano, la invitano a godere di tutte le cose che il castello le offriva. Dopo aver riccamente mangiato, presa dalla stanchezza fu presa da dolce sonno, ma proprio allora sentì una presenza al suo fianco, era il suo sposo che dolcemente la possedette, per poi svanire all’alba. Viene stipulato un patto: lei non dovrà mai vedere lo sposo.
Nel frattempo i genitori, preoccupati della sua sorte, mandano le sorelle a cercarla. Così lo sposo la ammonì:
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François Gérard, Cupido e Psiche (1798)

LE AMMONIZIONI DI UN DIO

“Psyche dulcissima et cara uxor, exitiabile tibi periculum minatur fortuna saevior, quod observandum pressiore cautela censeo. Sorores iam tuae mortis opinione turbatae tuumque vestigium requirentes scopulum istum protinus aderunt, quarum si quas forte lamentationes acceperis, neque respondeas immo nec prospicias omnino; ceterum mihi quidem gravissimum dolorem tibi vero summum creabis exitium.” 

«Psiche, mia dolcissima e amata sposa, il destino crudele ti minaccia di un terribile pericolo, per cui ti prego dì essere molto prudente. Le tue sorelle, angosciate dalla notizia della tua morte si sono messe sulle tue tracce e presto verranno a questa rupe; se tu sentissi i loro lamenti, per carità non rispondere, non farti vedere, perché a me daresti un grande dolore ma per te sarebbe addirittura la fine.»

Le sorelle, una volta ritrovatala e vista la reggia in cui Psiche vive, e che nel frattempo è in dolce attesa del figlio di un dio, mosse dall’invidia, le fanno credere, che il marito sia un mostro orrendo:

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Le sorelle di Psiche

L’INVIDIA SI TRASFORMA IN BUGIA

“Tu quidem felix et ipsa tanti mali ignorantia beata sedes incuriosa periculi tui, nos autem, quae pervigili cura rebus tuis excubamus, cladibus tuis misere cruciamur. Pro vero namque comperimus nec te, sociae scilicet doloris casusque tui, celare possumus immanem colubrum multinodis voluminibus serpentem, veneno noxio colla sanguinantem hiantemque ingluvie profunda, tecum noctibus latenter adquiescere. Nunc recordare sortis Pythicae, quae te trucis bestiae nuptiis destinatam esse clamavit. Et multi coloni quique circumsecus venantur et accolae plurimi viderunt eum vespera redeuntem e pastu proximique fluminis vadis innatantem. Nec diu blandis alimoniarum obsequiis te saginaturum omnes adfirmant, sed cum primum praegnationem tuam plenus maturaverit uterus, opimiore fructu praeditam devoraturum. Ad haec iam tua est existimatio, utrum sororibus pro tua cara salute sollicitis adsentiri velis et declinata morte nobiscum secura periculi vivere an saevissimae bestiae sepeliri visceribus.” 

“Beata te che te ne stai tranquilla, ignara di un fatto terribile, incurante del pericolo che ti sovrasta, ma noi che stiamo sveglie la notte, preoccupate del tuo caso, siamo angosciate al pensiero delle tue sciagure. Abbiamo saputo, infatti, con tutta certezza, e non possiamo nascondertelo dato che abbiamo fatto nostre le tue sventure e il tuo dolore, che chi viene a letto con te, di nascosto la notte, è un serpente gigantesco, tutto viscide spire dal collo gonfio d’un sangue velenoso e mortale e dalle fauci enormi spalancate. Ora, ricordati dell’oracolo che ti predisse che avresti sposato un’orribile bestia. Molti contadini, e quelli che vengono a caccia da queste parti, e parecchi abitanti dei dintorni lo hanno visto all’imbrunire tornare dalla pastura e nuotare nelle acque del fiume qui vicino. E tutti dicono che non ti colmerà per molto tempo di tutte queste delizie ma che appena la tua gravidanza si sarà compiuta ti divorerà insieme con il ricco frutto del tuo ventre. Stando così le cose tu devi decidere: o ascoltare le tue sorelle così sollecite della tua vita e, scampando alla morte, vivere con noi fuori di ogni pericolo, oppure finire nelle viscere di un mostro orrendo.”

E la convincono ad ucciderlo:
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Jacopo Zucchi: Amore e Psiche

PSICHE SCOPRE L’IDENTITA’ DELLO SPOSO

Tunc Psyche et corporis et animi alioquin infirma fati tamen saevitia subministrante viribus roboratur, et prolata lucerna et adrepta novacula sexum audacia mutatur. Sed cum primum luminis oblatione tori secreta claruerunt, videt omnium ferarum mitissimam dulcissimamque bestiam, ipsum illum Cupidinem formonsum deum formonse cubantem, cuius aspectu lucernae quoque lumen hilaratum increbruit et acuminis sacrilegi novaculam paenitebat. At vero Psyche tanto aspectu deterrita et impos animi marcido pallore defecta tremensque desedit in imos poplites et ferrum quaerit abscondere, sed in suo pectore; quod profecto fecisset, nisi ferrum timore tanti flagitii manibus temerariis delapsum evolasset. Iamque lassa, salute defecta, dum saepius divini vultus intuetur pulchritudinem, recreatur animi. Videt capitis aurei genialem caesariem ambrosia temulentam, cervices lacteas genasque purpureas pererrantes crinium globos decoriter impeditos, alios antependulos, alios retropendulos, quorum splendore nimio fulgurante iam et ipsum lumen lucernae vacillabat; per umeros volatilis dei pinnae roscidae micanti flore candicant et quamvis alis quiescentibus extimae plumulae tenellae ac delicatae tremule resultantes inquieta lasciviunt; ceterum corpus glabellum atque luculentum et quale peperisse Venerem non paeniteret. Ante lectuli pedes iacebat arcus et pharetra et sagittae, magni dei propitia tela. Quae dum insatiabili animo Psyche, satis et curiosa, rimatur atque pertrectat et mariti sui miratur arma, depromit unam de pharetra sagittam et punctu pollicis extremam aciem periclitabunda trementis etiam nunc articuli nisu fortiore pupugit altius, ut per summam cutem roraverint parvulae sanguinis rosei guttae. Sic ignara Psyche sponte in Amoris incidit amorem. Tunc magis magisque cupidine fraglans Cupidinis prona in eum efflictim inhians patulis ac petulantibus saviis festinanter ingestis de somni mensura metuebat. Sed dum bono tanto percita saucia mente fluctuat, lucerna illa, sive perfidia pessima sive invidia noxia sive quod tale corpus contingere et quasi basiare et ipsa gestiebat, evomuit de summa luminis sui stillam ferventis olei super umerum dei dexterum. Hem audax et temeraria lucerna et amoris vile ministerium, ipsum ignis totius deum aduris, cum te scilicet amator aliquis, ut diutius cupitis etiam nocte potiretur, primus invenerit. Sic inustus exiluit deus visaque detectae fidei colluvie prorsus ex osculis et manibus infelicissimae coniugis tacitus avolavit.6366.jpg

Simon Vouet: Amore e Psiche

Allora a Psiche vennero meno le forze e l’animo; ma a sostenerla, a ridarle vigore fu il suo stesso implacabile destino: andò a prendere la lucerna, afferrò il rasoio e sentì che il coraggio aveva trasformato la sua natura di donna. Ma non appena il lume rischiarò l’intimità del letto nuziale, agli occhi di lei apparve la più dolce e la più mite di tutte le fiere, Cupido in carne e ossa, il bellissimo dio, che soavemente dormiva e dinanzi al quale la stessa luce della lampada brillò più viva e la lama del sacrilego rasoio dette un barbaglio di luce. A quella visione Psiche, impaurita, fuori di sé sbiancata in viso e tremante, sentì le ginocchia piegarsi e fece per nascondere la lama nel proprio petto, e l’avrebbe certamente fatto se l’arma stessa, quasi inorridendo di un così grave misfatto, sfuggendo a quelle mani temerarie, non fosse andata a cadere lontano. Eppure, benché spossata e priva di sentimento, a contemplare la meraviglia di quel volto divino, ella sentì rianimarsi. Vide la testa bionda e la bella chioma stillante ambrosia e il candido collo e le rosee guance, i bei riccioli sparsi sul petto e sulle spalle, al cui abbagliante splendore il lume stesso della lucerna impallidiva; sulle spalle dell’alato iddio il candore smagliante delle penne umide di rugiada e benché l’ali fossero immote, le ultime piume, le più leggere e morbide, vibravano irrequiete come percorse da un palpito. Tutto il resto del corpo era così liscio e lucente, così bello che Venere non poteva davvero pentirsi d’averlo generato. Ai piedi del letto erano l’arco, la faretra e le frecce, le armi benigne di così grande dio. Psiche non la smetteva più di guardare le armi dello sposo: con insaziabile curiosità le toccava, le ammirava, tolse perfino una freccia dalla faretra per provarne sul pollice l’acutezza ma per la pressione un po’ troppo brusca della mano tremante la punta penetrò in profondità e piccole gocce di roseo sangue apparvero a fior di pelle. Fu così che l’innocente Psiche, senza accorgersene, s’innamorò di Amore. E subito arse di desiderio per lui e gli si abbandonò sopra e con le labbra schiuse per il piacere, di furia, temendo che si destasse, cominciò a baciarlo tutto con baci lunghi e lascivi. Ma mentre l’anima sua innamorata s’abbandonava a quel piacere la lucerna maligna e invidiosa, quasi volesse toccare e baciare anch’essa quel corpo così bello, lasciò cadere dall’orlo del lucignolo sulla spalla destra del dio una goccia d’olio ardente. Ohimè audace e temeraria lucerna indegna intermediaria d’amore, proprio il dio d’ogni fuoco tu osasti bruciare quando fu certo un amante ad inventarti per godersi più a lungo, anche di notte il suo desiderio. Balzò su il dio sentendosi scottare e vedendo oltraggiata e tradita la sua fiducia, senza dire parola, d’un volo si sottrasse ai baci e alle carezze dell’infelicissima sposa.

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Maurice Denis: Amore e Psiche (1908)

Abbandonata, dapprima cerca d’uccidersi e, dopo essersi vendicata delle sorelle, comincia a vagare senza meta, alla ricerca del suo sposo. Dopo aver chiesto a varie dee, che non possono aiutarla, si rivolge a Venere, madre di Cupido, cui il figlio si era rifugiato, malato d’amore. Ma l’ira della dea è impacabile:

L’IRA DI VENERE

“Tandem” inquit “dignata es socrum tuam salutare? An potius maritum, qui tuo vulnere periclitatur, intervisere venisti? Sed esto secura, iam enim excipiam te ut bonam nurum condecet”; et: “Ubi sunt” inquit “Sollicitudo atque Tristities ancillae meae?” Quibus intro vocatis torquendam tradidit eam. At illae sequentes erile praeceptum Psychen misellam flagellis afflictam et ceteris tormentis excruciatam iterum dominae conspectui reddunt. Tunc rursus sublato risu Venus:””Et ecce” inquit “nobis turgidi ventris sui lenocinio commovet miserationem, unde me praeclara subole aviam beatam scilicet faciat. Felix velo ego quae ipso aetatis meae flore vocabor avia et vilis ancillae filius nepos Veneris audiet. Quanquam inepta ego quae frustra filium dicam; impares enim nuptiae et praeterea in villa sine testibus et patre non consentiente factae legitimae non possunt videri ac per hoc spurius iste nascetur, si tamen partum omnino perferre te patiemur.”luca_giordano_003_psiche_punita_da_venere (1).jpg

 Luca Giordano: Psiche punita da Venere (1702)

“Finalmente” le gridò “ti sei degnata di venire a salutare tua suocera! O forse sei venuta a far visita a tuo marito in pericolo per la ferita che gli hai procurato? Ma sta tranquilla, ti farò l’accoglienza che merita una brava nuora come te,” e soggiunse: “dove sono Angoscia e Tristezza, le mie ancelle?” e fattele entrare ad esse l’affidò perché la torturassero; e quelle, eseguendo a puntino l’ordine della padrona, cominciarono a lavorare di scudiscio sulla povera Psiche e a straziarla con torture di vario genere, poi gliela riportarono davanti. E Venere nuovamente scoppiò a ridere: “Sta a vedere che io adesso debbo commuovermi per quel suo ventre gravido che dovrebbe farmi nonna felice di una prole illustre. Sì, proprio felice: nel fiore degli anni esser chiamata nonna e il figlio di una miserabile schiava passare per nipote di Venere. Ma stupida anch’io a chiamarlo figlio, ché mica è valido il matrimonio fra persone di diversa condizione sociale celebrato, poi, così, in campagna, senza testimoni, senza il consenso del padre; perciò questo che nascerà sarà un bastardo, ammesso pure che io ti lasci portare a termine la gravidanza.”

E quindi la sottopone a prove impossibili: separare un mucchio di semi differenti; procurarsi un fiocco d’oro dalle pelli di certe pecore, feroci verso il genere umano; attingere un’urna d’acqua nello Stige. Psiche, attraverso l’aiuto di creature meravigliose, riesce a portare a termine tutte le prove.

L’ultima è quella di scendere nell’Averno e incontrare Proserpina che le farà dono della sua bellezza. Ma la curiositas spinge Psiche ad osservare dentro il cofanetto che le è stato consegnato e quindi giace come morta nel sonno infernale.

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Giulio Romano: Proserpina offre una pisside con dentro la bellezza, Palazzo Te (Mantova, 1534)

Amore, guarito ed impietositosi di lei, intercede presso il grande Giove. Egli ordina la fine delle traversie di Psiche:

IL MATRIMONIO

“Dei conscripti Musarum albo, adolescentem istum quod manibus meis alumnatus sim profecto scitis omnes. Cuius primae iuventutis caloratos impetus freno quodam coercendos existimavi; sat est cotidianis eum fabulis ob adulteria cunctasque corruptelas infamatum. Tollenda est omnis occasio et luxuria puerilis nuptialibus pedicis alliganda. Puellam elegit et virginitate privavit: teneat, possideat, amplexus Psychen semper suis amoribus perfruatur.” Et ad Venerem conlata facie: “Nec tu,” inquit “filia, quicquam contristere nec prosapiae tantae tuae statuque de matrimonio mortali metuas. Iam faxo nuptias non impares sed legitimas et iure civili congruas”, et ilico per Mercurium arripi Psychen et in caelum perduci iubet. Porrecto ambrosiae poculo: “Sume,” inquit “Psyche, et immortalis esto, nec umquam digredietur a tuo nexu Cupido sed istae vobis erunt perpetuae nuptiae.”

“O dei, iscritti nell’albo delle Muse, voi tutti certamente sapete che questo ragazzo l’ho cresciuto io stesso con le mie mani. Ora però credo sia giunto il momento di mettere un po’ a freno i suoi ardori giovanili; sono troppe ormai le favolette che corrono in giro sui suoi adulteri e su tutte le sudicerie che combina. Occorre eliminare ogni occasione e contenere la sua giovanile lussuria con i vincoli del matrimonio. La ragazza già ce l’ha, l’ha anche sverginata: che se la tenga, ci vada a letto e si goda per sempre Psiche e il suo amore.” E volgendosi a Venere: “E tu, figlia mia, per questo matrimonio con una mortale non te la prendere, non temere per il tuo casato e la tua condizione. Disporrò che queste nozze siano tra eguali, del tutto legittime quindi e conformi al diritto civile” e là per là ordinò che Mercurio andasse a prendere Psiche e la portasse in cielo: “Bevi, Psiche” le disse offrendole una coppa d’ambrosia “e sii immortale; né mai Cupido si scioglierà dal vincolo che lo lega a te e queste saranno per voi nozze eterne.”

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Raffaello Sanzio: Il matrimonio di Amore e Psiche (1517)

Ed infine:

VOLUTTA’

Sic rite Psyche convenit in manum Cupidinis et nascitur illis maturo partu filia, quam Voluptatem nominamus”.

Così Psiche andò sposa a Cupido, secondo giuste nozze e, al tempo esatto, nacque una figlia, che noi chiamiamo Voluttà.

 

IL PRINCIPATO D’ADOZIONE

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In questo periodo, tra il 96, morte di Domiziano e il 192, fine degli Antonini, con l’uccisione di Commodo, si afferma quello che storicamente viene definito il principato adottivo o l’età degli Antonini. Il primo perché, dopo l’esperienza dei Flavi che aveva riprodotto il principio della successione dinastica, si era adottato il sistema per cui, l’imperatore “adottava”, al di là dei rapporti di sangue, il “migliore” che lo avrebbe succeduto; il secondo perché, pur riferendosi solo agli ultimi imperatori, esattamente ad Antonino Pio, ma tutti legati da uno stesso sistema di scelta imperiale, si suole dare a tutto il II secolo il nome, appunto, di età degli Antonini. Non solo l’intero II secolo è detto anche “secolo d’oro” è per questo principalmente per due motivi:

  1. Un periodo di stabilità politica, dovuto al maggior coinvolgimento delle forze provinciali, che garantirono un’efficiente sistema burocratico;
  2. L’accettazione della figura dell’imperatore, che si afferma come il migliore garante e protettore dello Stato.

Gli imperatori di questo periodo sono:

  • Nerva, discendente da antica nobiltà senatoria. Egli con grande capacità politica, dopo l’uccisione di Domiziano, seppe destreggiarsi tra le forze contrapposte allora in gioco: rappresentante del Senato, lo legò ancor più a sé liberando tutti i prigionieri politici che l’ultimo imperatore flavio aveva condannato (fra di essi molti nobili); ma per non scontentare l’esercito, nominò come suo successore un valente comandante militare, Traiano, inaugurando “de facto” il criterio d’adozione; regnò per soli due anni (96-98);

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Nerva

  • Traiano, militare d’origine spagnola. Con lui, l’impero riuscì a raggiungere la massima espansione territoriale e un lungo periodo di pace interna. Per tali caratteristiche gli venne conferito il titolo di Optimus che lo associava alla figura di Giove. Conquistò, con due battaglie, la provincia della Dacia, (attuale Romania) che romanizzò con una forte penetrazione di elementi italici. Il ricco bottino procurato da tale conquista, gli permise sia di operare sul piano architettonico, facendo un nuovo foro ed inserendo in esso la colonna traiana nella quale furono scolpiti le immagini della guerra vittoriosa (politica di propaganda), sia di carattere economico, prestando denaro alla agricoltori, per ridare impulso alla produzione italica. Altre conquiste importanti furono quella dell’Arabia settentrionale, che gli permise di controllare il traffico dalle regioni Orientali, come quello delll’India verso l’Egitto. Restò poco a Roma, sempre impegnato in campagne militari, e, al ritorno di una di esse, si ammalò; prima di morire, nominò come successore Adriano, anche lui spagnolo. Regnò dal 98 al 117;

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Traiano

  • Adriano, anche lui spagnolo. Non fu amato come l’imperatore precedente, anche se anche lui riuscì a regnare per circa una ventina d’anni. Non continuò la spinta espansionistica di Traiano, ma anzi rinunciò alle conquiste più “esterne” per rafforzare il limes. A tale scopo fece costruire una forte muraglia sul Danubio e il famoso vallum Hadriani, una roccaforte in Britannia capace di tener lontane le popolazioni residenti nell’attuale Scozia. Inoltre riformò anche l’esercito: i soldati che presiedevano il confine erano gli stessi provinciali, che lo avrebbero difeso come “cosa loro”, anche se tale scelta poteva, come più tardi avvenne, dar loro troppo potere. Profondamente innamorato della cultura ellenica, risiedette per lungo tempo ad Atene e fece costruire una straordinaria villa, presso Tivoli, in cui fece riprodurre opere d’arte greche. Morì presso Napoli, nel 138, nominando come successore Antonino Pio.

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Adriano

  • Antonino Pio, nobile italico. Egli perseverò nella politica di rafforzamento imperiale, continuando ed incrementando una politica sia di aiuti verso gli agricoltori e sia verso i figli dei ceti medi che aspiravano alla cultura. Molto attento al Senato, ricevette da questo il titolo di Pius e Pater Patriae. Mostrò estrema tolleranza verso le forme religiose che pullulavano a Roma in quel periodo. Come aveva promesso ad Adriano chiamò a succedergli Marco Aurelio e Lucio Vero. Morì nel 161.

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Antonino Pio

  • Marco Aurelio, nobile Romano. Governò per un primo momento insieme a Lucio Vero (formando un’insolita diarchia) fino alla morte di quest’ultimo, e in seguito associando a sé il figlio Commodo. E’ ricordato nella storia come l’imperatore filosofo, amante della cultura e delle lettere. Ma tali amori non poté esercitarli alla luce delle continue tensioni e difficoltà che si stavano creando all’interno del suo regno; da una parte dovette fronteggiare le spinte di popolazioni provenienti dalla zona danubiana che premevano sui confini, come i Quadi e i Marcomanni, che riuscirono a raggiungere Aquileia. Costretto a richiamare Lucio Vero, di stanza in Oriente, in Europa, le sue truppe portarono nel continente e in Italia una tremenda peste bubbonica. L’imperatore filosofo, amante della pace, passò, quasi tutto il suo regno a guerreggiare per difendere l’impero. Morì in guerra nel 180.

La statua equestre di Marco Aurelio, al centro della piazza del Campidoglio, Roma | Statua equestre, Statue, EquestreStatua equestre di Marco Aurelio in piazza del Campidoglio

  • Commodo, figlio di Marco Aurelio, con lui cessa il principato adottivo. Sembra di rivivere con lui il dramma di Caligola, Nerone e Domiziano. Cercò di ricreare il potere assoluto appoggiandosi sul popolo, con giochi gladiatori, mentre la peste non era ancora terminata e lo stato viveva un forte periodo depressivo. Volle essere divinizzato come Ercole Romano. I suoi eccessi e le sue manie lo resero inviso al senato e, come degno rappresentante dei suoi predecessori, venne ucciso nel 192.

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Commodo

In linea generale tale età è caratterizzata da una buona stabilità politica: infatti la transazione morbida tra gli imperatori e l’atteggiamento “rispettoso” verso il senato, pur svuotato di potere, determinata un clima sereno, che si riflette non solo sul piano politico, ma anche su quello culturale. Non si ha più, infatti, l’esigenza di far del popolo la leva capace di fare da contraltare allo scontento dei ceti nobiliari, come era successo per gli imperatori assolutisti. Quindi una minore attenzione al lato populista, donazioni e giochi circensi ed una maggiore propensione a favorire il “ceto medio”, con organizzazioni collegiali su base professionale e con facilitazioni per l’accesso all’istruzione.

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Il vallo di Adriano in Inghilterra

Dal punto di vista di politica estera, tale impero invece si caratterizza non solo per il suo allargamento territoriale, quanto per la spinta “centro-ecumenica” cui tese. Pur allargandosi i confini, Roma cerca di restringere le distanze accogliendo nel suo sistema tutte le diversità. Non si tratta di dare la cittadinanza romana a tutti (che rimane un fenomeno elitario) quando d’assorbire la molteplicità nell’unità culturale: già abbiamo visto come i maggiori intellettuali del periodo post augusteo fossero spagnoli, ma il rapporto tra essi e l’impero è unidirezionale, dalla periferia al cuore dell’Impero; ora si tratta, viceversa, di una spinta a centrare e un’altra ad allargare l’acquisizione socio-culturale della vastità imperiale: non è un caso che proprio un imperatore, Marco Aurelio, si affiderà, nell’affidare i suoi Ricordi alla lingua greca.

Sarebbe oltremodo limitante non accennare, come ultimo aspetto, quello generalmente culturale, che si qualifica soprattutto su un piano estetizzante: la possibilità di numerose biblioteche in tutto l’impero, l’amore per la tradizione, il recupero antiquario sviluppano soprattutto un forte interesse erudito e filologico.

Per la filosofia, se i Flavi avevano visto, proprio in essa, un pericolo per la stabilità dell’impero, e la testimonianza ce la offre proprio Quintiliano quando sottomette tale “sapere” all’interno della retorica, gli imperatori di questo periodo accettano la ripresa della “neosofistica”: se la prima sofistica aveva in sé un forte aspetto politico, rivendicando a sé il ruolo di rappresentazione della libertà, qui si riprende quella delle origini, razionale, che gioca sulle sottigliezze dialettiche su qualsiasi argomento: morale, politico, consolatorio, che si sviluppa, soprattutto, con le declamationes.

Ancora importante è l’affermarsi, durante il II periodo, del sincretismo religioso: infatti l’estendersi dell’impero ed il coesistere in esso di varie forme di religiosità, avevano fatto sì che queste ultime si livellassero tutte nella comune attesa di una palingenesi; il frutto di ciò, caduta ormai la prassi di un’ideologia “politica”, sarà cercare la salvezza o una forma di riscatto personale da qualche altra parte: oracoli, presagi, interpretazioni di sogni e via discorrendo.

Anche la filosofia, almeno quella stoica che chiedeva di vivere secondo natura viene assorbita dal nascente cristianesimo. Nascono tuttavia nuove pratiche religiose-culturali: all’inizio si impone quella di Iside, presto sostituita da quella di Mitra, che in parte assorbe la prima in parte presenta caratteri originali: era questo culto portato soprattutto dai soldati stanziati nella parte orientale dell’Impero. All’inizio era identificato con il sole e quindi con la luce: prospettava l’immortalità ma solo se si fosse vissuto operando per il bene e amando il prossimo come un fratello (punti di assoluto contatto con l’incipiente religione cristiana).

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Bassorilievo con la scena del banchetto mitraico. Mitra e Sole.

I generi letterari che si sviluppano in questo periodo sono:

  • Per l’oratoria e l’epistolografia si ricorda Plinio il Giovane. Di lui si ricorda soprattutto il Panegirico a Traiano. Importante opera di carattere epidittico (discorso retorico con il quale si vuole convincere un determinato pubblico dell’eccellenza di una persona), volendo contrapporre Domiziano a Traiano, tende a sottolineare la ritrovata libertà con quest’ultimo imperatore; strano concetto di libertà, tuttavia, se essa viene elargita dall’alto. Se possiamo trovare difficoltà nel comprenderla “concettualmente” parlando, ci dice, tuttavia del migliore rapporto che c’è tra il potere e gli intellettuali.
  • Per la scrittura in versi, da una parte la ripresa della satira con Giovenale (sulla stessa linea che parte da Lucilio ed arriva sino a Persio) e la lirica con i poetae novelli che si richiamano ai neoteroi per la poesia intesa come lusus;
  • La storiografia con Tacito e la biografia di Svetonio (soprattutto De vita Caesarum, ricca di aneddoti e pettegolezzi);
  • L’erudizione con Aulo Gellio (autore delle Noctes Atticae in cui mostrando il suo interesse e curiosità per aspetti filologici, li analizza con brani di autori che senza di lui sarebbero andati sicuramente persi).
  • Il romanzo con Apuleio.

EUGENIO MONTALE

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Eugenio Montale

Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896.

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La casa in cui nacque

La sua famiglia appartiene alla buona borghesia e lui trascorrerà l’infanzia e l’adolescenza tra la città e Monterosso, borgo delle Cinque Terre, il cui paesaggio sarà fondamentale per la sua poesia.

Si diploma in ragioneria e questo sarà l’unico titolo ufficiale, in quanto preferisce approfondire da autodidatta la sua cultura; inoltre prende lezioni di canto coll’intento, poi non realizzato, di diventare baritono.

Frequenta la Biblioteca comunale di Genova dove, in piena autonomia, si formerà un ricchissimo bagaglio culturale che spazia dalla filosofia, alla letteratura, alla scienza e alla religione; grazie anche alla sorella Marianna legge e approfondisce la filosofia di Bergson, ma soprattutto sarà attratto dal pensiero di Émile Boutroux.
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Montale sodato

Nel 1917 parte per la Prima Guerra Mondiale, dopo una serie di rinvii per la sua fragile costituzione. Al fronte conosce Sergio Solmi che lo metterà in contatto con i liberali torinesi.

Torna a Genova nel 1920, dove continua ad approfondire la propria cultura e dove inizia la frequentazione degli intellettuali di quella città, fra cui quella di Camillo Sbarbaro, importante poeta ligure; nel 1922, grazie all’amico Solmi, pubblica a Torino le sue prime prove poetiche.

Il 1925 è un anno importante per Montale: un amico triestino lo mette in contatto con Umberto Saba e gli farà conoscere le opere di Svevo (che commenterà, entusiasticamente, su L’Esame); aderirà al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce; scriverà l’articolo Stile e tradizione in cui prenderà le distanze dalla triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio, in favore di una letteratura “disincantata”¸ ed infine pubblica, presso le edizioni del “Baretti” Ossi di seppia.

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Guido Peyron: Ritratto di Eugenio Montale

Nel 1927 si trasferisce a Firenze e a 31 anni trova il suo primo lavoro presso una casa editrice; dopo solo un anno viene nominato direttore del Gabinetto Viesseux, prestigioso punto di riferimento culturale della città; questo incarico si protrarrà fino al 1938, quando dovrà abbandonarlo per il rifiuto di prendere la tessera del Partito Fascista.

Montale a Firenze vivrà un periodo ricco di esperienze culturali: collabora a numerose riviste, conosce i più importanti intellettuali del tempo e traduce opere fondamentali della letteratura anglosassone, verso cui nutre forte interesse.

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Eugenio Montale

Nel 1932 pubblica un piccolo opuscolo, le cui poesie confluiranno in seguito nella raccolta Le occasioni, che vede la luce nel 1939. Quest’opera è dedicata ad una giovane studiosa americana Irma Brandeis, cantata come Clizia; conosce anche Drusilla Tanzi, moglie di un noto critico musicale (cantata come Mosca), con cui inizierà una convivenza.

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Carlo Levi: Ritratto di Montale

Nel 1940 scoppia la guerra: Montale è ancora senza lavoro e per sopravvivere traduce dall’inglese opere a lui non congeniali. Per i provvedimenti antisemiti Irma, d’origine ebraica, è costretta a fuggire dall’Italia: il poeta vorrebbe seguirla negli Stati Uniti, ma il progetto non si realizza anche per il legame con Drusilla. Rimane a Firenze dando ospitalità ad amici perseguitati dal regime: Umberto Saba, Carlo Levi.

Nel 1943 pubblica in Svizzera Finisterre, primo nucleo di quello che poi diventerà La bufera ed altro, uscito solo nel 1956.

A guerra finita collabora con il Corriere della sera con articoli di varia umanità, vari reportage, e di critica musicale; nel 1962 sposa Drusilla, rimasta vedova.

Dopo un anno la moglie muore: a lei dedicherà i versi di Xenia che confluiranno poi nella raccolta Satura del 1971.

Conosciuto ormai in Italia e all’estero, riceve molti riconoscimenti che culmineranno nell’assegnazione del premio Nobel nel 1975. Le sue ultime raccolte sono Diario del ’71 e del ’72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977).

Muore a Milano nel 1981.

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Ossi di seppia, edizione 1925

Ossi di seppia

Ossi di seppia, pubblicato da Piero Gobetti, comprende poesie scritte dal ’20 al ’25. Solo Meriggiare pallido e assorto è stata scritta nel ’16. Nella seconda edizione dell’opera, del ’28, sono aggiunte sei poesie.

L’opera si divide al suo interno in quattro parti: Movimenti, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre: tale struttura fa sì che l’opera abbia un’architettura interna unitaria, e non sia solo una raccolta di poesie.

Il titolo, che allude alla conchiglia interna della seppia, cioè ad un oggetto insignificante e privo di valore, vuole da subito significare la ricerca di una poesia bassa ed antiretorica. Ciò è dimostrato anche dal fatto che la seconda sezione che dà il titolo all’opera avrebbe dovuto intitolarsi Rottami.

Egli infatti accetta, in questa prima fase, la lezione dei crepuscolari: la sua vuol essere una poesia consapevolmente dissacratoria: d’altra parte, per Montale, la finitezza dell’uomo non può produrre messaggi: soltanto la disillusione può diventare una testimonianza da condividere con gli altri.

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Installazione marina dedica a Ossi di seppia di Montale

Ma gli ossi di seppia vogliono anche voler dire, a livello tematico, una poesia mediterranea, lo sfondo duro e aspro della natura ligure, che si traduce in un altrettanta asperità linguistica.

Infatti il paesaggio montaliano si disegna sin da subito come un paesaggio che non ha nulla di lussureggiante, che anzi esso diventa l’oggetto in cui si specchia la solitudine e il dolore dell’uomo. Non si tratta, infatti, di descrivere gli oggetti, pur nella loro assoluta nudità, ma di caricarli di un significato esistenziale, dove si sente la lezione di Schopenhauer e del suo velo di Maya: le cose, nella loro essenza non sono conoscibili; se quindi non si può attingere alla verità, non ci resta che vivere in una precaria esistenza. Questo approccio filosofico in Montale si traduce appunto in immagini di oggetti, che, come dice Boutreaux nella teoria del contingentismo rappresentano la possibilità di vedere in essi ciò che va oltre il determinismo, specchiando la realtà interiore in attesa di qualcosa di salvifico; questo nonostante la nostra inautenticità, non ci toglie la volontà di una ricerca di senso, di un miracolo che possa mostrare un barlume di verità, che lascia l’uomo sì desolato, ma in attesa.

Le ultime poesie della raccolta, quelle posteriori al ’25, mostrano una figura femminile, Arletta, che apre verso una nuova solidarietà verso gli uomini. Queste poesie costituiscono il preludio della seconda raccolta montaliana: Le Occasioni.

La poesia d’apertura, dopo un’introduzione poetica In limine è I limoni:
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Natura morta con limoni

I LIMONI

Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
 
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.
 
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
 
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
 
Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo dei cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.
 

I limoni, poesia scritta tra il 1921 ed il 1922, si offre alla prima lettura come una poesia programmatica. Già l’incipit denota quello che criticamente è stato definito come “un attraversamento dannunziano”: infatti il poeta sembra riprendere moduli del poeta pescarese per capovolgerli (richiami ci sono nella presenza femminile muta a cui il poeta si rivolge Ascoltami, vedi): la sua natura non è lussureggiante, “alcionia”; piuttosto la semplicità dei limoni. Sempre nella prima strofa troviamo inoltre la presenza di una natura riarsa, rappresentata dall’anguilla nelle pozzanghere rinsecchite. Vi è già un’attenzione verso la parola, non ungarettianamente capace di toccare l’assoluto, ma precisa, come in Pascoli, a rilevare la loro essenzialità: basti pensare ai limoni e alla loro gialla solarità.

Nella terza e quarta strofa appare quella che è stata definita una “religiosità laica”, cioè la volontà dell’uomo di scoprire un mistero, di svelare una verità. Tuttavia tale ricerca sarà un illusione; cade del tutto l’ipotesi scientista secondo cui si può raggiungere “la verità”.

Nell’ultima strofa rinasce l’illusione, che se non può garantire lo svelamento del mistero, può tuttavia riproporne l’illusione.

 
Altra poesia programmatica può considerarsi Non chiederci la parola, che viene scritta ad un anno di distanza, nel 1923:
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Progetto Muri di poesia, Leden, Olanda

NON CHIEDERCI LA PAROLA

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
 
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
 
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
 

Come ne I limoni esiste un ascoltatore, al quale il poeta rivolge l’invito di non chiedere o pretendere dalla poesia la verità. Tale tematica può facilmente ricollegarsi alla poesia crepuscolare e, andando ancora più indietro negli anni, alla Scapigliatura: si tratta infatti del tema del ruolo della poesia nella società contemporanea. Si noti come anche qui torni la parola che rimanda ad un effetto coloristico, un colore intenso in mezzo al grigio della polvere, immaginazione di verità che il poeta non può dare.

La quartina centrale sembra collegare le due strofe: vi è qui la polemica contro il conformista, l’uomo sicuro di sé, indifferente alla sua ombra schiacciata nel muro dall’implacabile sole.

L’ultima strofa riprende la prima, reiterando ancora la richiesta di una risposta risolutiva: ma Montale può offrire Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, riaffermando l’impossibilità non soltanto del dire, ma anche dell’esserci. E’ evidente la polemica con la poesia roboante dannunziana (come ne I limoni), ma vi si può scorgere anche la distanza che divide la poetica del poeta ligure da quella di Ungaretti, che offriva invece alla parola un ruolo sacrale ed assoluto. 

Altra poesia fortemente significativa della raccolta è Meriggiare pallido e assorto:

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MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
 
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
 
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
 
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
 

Poesia del 1916, scritta, appunto quando Montale aveva appena vent’anni. Si può dividere in due parti: nelle prime tre strofe c’è la descrizione di un arido paesaggio marino ligure colto nell’ora della massima canicola.

Il tempo fa l’azione “meriggia”, mandando calore; l’uomo ascolta la natura che risponde all’infuocato sole, spia i movimenti di insetti, osserva le conchiglie e ascolta, di nuovo, quasi a chiudere circolarmente le sue azioni, (il canto delle cicale diventa un tremulo cricchio dove l’allitterazione in erre sembra trasformare il canto in un suono aspro).

Nell’ultima strofa si coglie invece il dato esistenziale; per meglio dire la natura arida paesaggistica montaliana, si trasforma in un identico stato d’animo. Ma bisogna fare attenzione non è la vita desolata ad essere simboleggiata dall’oggetto, ma sembra che in Montale sia l’oggetto a simboleggiare la vita: le nostre esistenze frastagliate e doloranti sono appunto simbolo di pezzi di bottiglia che non hanno permesso di superare il muricciolo dove forse, dall’altra parte, c’è quella verità di cui è già in cerca.

Anche in questo testo vi è l’attraversamento dannunziano, proprio in una lirica dal titolo Meriggio. Com’è lì l’ora calda di un pomeriggio estivo rappresentava il momento estremo della comunione panica tra l’uomo e la natura “E sento che il mio vólto / s’indora dell’oro / meridiano, / e che la mia bionda / barba riluce / come la paglia marina” qui, la stessa aggettivazione lo rovescia “l’oro meridiano” si trasforma in “pallido e assorto”, negando ogni forma di lucentezza.

Il correlativo oggettivo montaliano è espresso con maggior forza espressiva in un’altra celeberrima poesia:

 
SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
 
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
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Girolamo Peralta: La statua della sonnolenza (2008)

Tale poesia può costituire l’esempio di quello che per Montale rappresenta l’oggettivazione (poesia degli oggetti, correlativo oggettivo) che verrà approfondita e ampliata nella raccolta successiva Le occasioni. Infatti “il male di vivere”, non è una sensazione, ma è “qualcosa” che sta fuori di noi, visto che si può incontrare. Questo qualcosa si materializza in oggetti (l’acqua in una strozzatura, una foglia, il cavallo). Non è senza significato il riferimento al rivo strozzato dantesco, Fitti nel limo dicon: Tristi fummo ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, portando dentro accidïoso fummo: or ci attristiam ne la belletta negra”. Quest’inno si gorgoglian ne la strozza, ché dir nol posson con parola integra. E’ il canto degli accidiosi quelli che vivono senza la forza di vivere: è il caso della modernità: anche la poesia non riesce ad elevarsi, strozzata nel fango dell’esistere.

Sopra gli oggetti l’indifferente divinità, il cui “miracolo” è lontano, estraneo all’uomo: anche questa lontananza viene oggettivata (la statua, la nuvola, il falco), per dire solo l’Indifferenza può liberare l’uomo dalla contingenza di un dolore non risolvibile, se non nello sguardo del miracolo a cui l’uomo non può tendere.

Un altro tema presente ne Ossi di seppia e quello del ricordo: 

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CIGOLA LA CARRUGOLA NEL POZZO
 
Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…
Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.

Stride la carrucola del pozzo, mentre l’acqua portata in superficie dal secchio sembra fondersi con la luce che la colpisce. Su di essa affiora un ricordo, si delinea l’immagine tremula e sorridente di una persona amata. Quando il poeta accosta il volto a quelle labbra femminili che crede di vedere, muove la superficie dell’acqua e fa svanire l’immagine; il cigolio della carrucola riconduce la visione al fondo oscuro del pozzo. La parafrasi del testo sembra dirci quanto sia illusoria l’idea che la memoria possa stabilire un contatto con l’altro, fosse anche un ricordo. Tutto è effimero non riusciamo a trattenere nella memoria neppure i volti amati e gli istanti di gioia: essi sono solo un barlume, un’illusione che si spegne, rifluendo nella profondità dell’inconscio.

Anche in questa poesia il concetto dell’irrecuperabilità del ricordo è espresso dal poeta attraverso immagini concrete: l’immagine del volto nell’acqua e il suo sparire, rimandano allo stato esistenziale di disinganno.

Il testo si divide in due parti, l’endecasillabo nel verso 5 divide la lirica in due parti e segna il momento dello “scacco”, in quanto contrappone al volto che si avvicina con le labbra che svaniscono.

La circolarità della lirica è scandita dal movimento di risalita (Cigola la carrucola) e di ricaduta (Ah che già stride), corrispondente a illusione e delusione.

 11 DE PISIS - Venezia Marina, 1930, olio su cartone, 50x70 cm, Collezione Piero Zanetti.jpg

Filippo De Pisis: Le occasioni

Le occasioni

La seconda raccolta poetica Le occasioni, che comprende poesie scritte dal ’28 al ’39, viene scritta nel momento della maturità poetica e nasce forse nel periodo più difficile, storicamente parlando, che Montale deve affrontare.

L’opera ha una struttura unitaria: è divisa in quattro sezioni, di cui soltanto una ha un titolo, Mottetti e presenta delle significative novità rispetto ad Ossi di seppia, e tali novità riguardano:

  1. Un allargamento della prospettiva geografica che va oltre il paesaggio ligure;
  2. La presenza della figura femminile che recupera il concetto di donna-angelo stilnovista;
  3. L’uso consapevole del “correlativo oggettivo”.

Partiamo dal primo aspetto: se in Ossi di seppia è presente il paesaggio mediterraneo con il suo sole, con la natura a “rappresentare” la possibilità del varco, in questa raccolta il paesaggio si fa cittadino (Montale vive in questo periodo a Firenze); da qui le contrapposizioni spaziali cambiano tra un dentro e un fuori, gli oggetti non sono più rintracciabili in una spiaggia, in una via, ma all’interno di stanze. Cambia inoltre la percezione psichica, l’interno come protezione, ma l’esterno anche come fuga verso l’altro.

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Monterosso, dove si trova la casa dei dognanieri

L’altra componente essenziale è la figura femminile: tra cui ricordiamo Arletta, presenza/assenza, de La casa dei doganieri, Dora Markus, donna ebrea, nell’incombere del nazismo, e soprattutto Clizia, Irma Brandeis, forse donna amata dal poeta, costretta a fuggire in quanto ebrea, appassionata di Dante; in lei forse si vivifica quella capacità di trasportare il poeta in quell’altrove, che lo conduca oltre la caducità dell’essere. Per questo la condizione psicologica del poeta assume nuove valenze, che si traducono in una percezione di disfacimento (cominciano a sentirsi le eco della guerra), ma nel contempo, nella possibilità, attraverso la donna, di darle una parvenza di senso.

In questa raccolta Montale usa un linguaggio più “alto” rispetto a quello degli Ossi di seppia, una lingua che tuttavia non vuole, come in Ungaretti, svelare l’assoluto attraverso la parola, ma che tende invece ad elevarsi per isolarsi, isolamento necessario contro la barbarie della storia, ma anche per capire meglio, “distanziandosi”, la condizione esistenziale dell’uomo. Importante per la comprensione di tale poetica è la lettura che Montale fa dell’opera di Eliot. Ambedue i poeti fanno uso del “correlativo oggettivo”: ma se nella raccolta precedente, ad esempio nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato, si usa l’oggetto per significare qualcosa, come fosse una similitudine senza il come (ricordiamo simmetrica), qui non appare il motivo da cui si genera l’oggetto; si parla infatti di occasione-spinta, cioè non ci viene più espresso il motivo da cui si origina l’immagine.

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Le gambe di Dora

DORA MARKUS
I
Fu dove il ponte di legno
mette a Porto Corsini sul mare alto
e rari uomini, quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi all’altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale fino alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s’affondava
una primavera inerte, senza memoria.

E qui dove un’antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d’Oriente,
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.

La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare.
E i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in quel lago
d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco
d’avorio; e così esisti!

II
Ormai nella tua Carinzia
di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl’irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell’acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.

La sera che si protende
sull’umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d’oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa una storia di errori
imperturbati e la incide
dove la spugna non giunge.

La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d’oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l’armonica guasta nell’ora
che abbuia, sempre più tardi.
È scritta là. Il sempreverde
alloro per la cucina
resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino.
Ma è tardi, sempre più tardi.

Dora Markus è una delle poesie più importanti di Eugenio Montale, in quanto in essa troviamo i principali temi della nuova raccolta. Ma il suo fascino sta nella distanza di tempo in cui le sue due parti sono state composte: la prima risale al 1926 e ci mostra Dora, un’austriaca presentatagli da Bobi Bazlen (intellettuale triestino, critco letterario ed editore che gli fece conoscere l’opera di Svevo) da una prospettiva esistenziale. Montale ne traccia il ritratto di donna inquieta, esule non solo dalla propria terra ma anche dalla propria vita, il cui cuore è un lago di indifferenza e che sembra affidare la propria salvezza all’immagine incantatoria di un portafortuna, quel topolino d’avorio celato nella trousse dei trucchi.

La storia aleggia sullo sfondo, come un’ombra, in questo periodo di relativa calma tra le due guerre mondiali, ma non è che un presagio, un presentimento insito nei turbamenti del vivere, nei silenzi di Dora, affacciata alla spalletta di quel ponte di Ravenna; è in quella primavera inerte, senza memoria grigia e soffocata nella periferia di ciminiere e di fumo.

Passano tredici anni, sull’Europa soffia ormai il vento di un’altra primavera, quella hitleriana. Montale dà una conclusione, se non un centro alla poesia. La prospettiva ora è mutata: Dora Markus è soltanto un ricordo, appare in questi inspiegabili disguidi della memoria, è la storia a prendere il sopravvento sulle esistenze; l’inquietudine è per quella bufera che si agita nell’aria del 1939: presto la Germania nazista invaderà la Polonia e un’apocalisse si abbatterà sul mondo intero. La sera che si protende sembra indicare proprio l’imminenza della guerra e il palpito dei motori è quello degli aerei, dei carri armati pronti a fare fuoco. Dora deve fare i conti con il suo passato, con le scelte sbagliate che non si possono ormai più cancellare, con gli smacchi del vivere. E deve fare i conti con il presente, che ha portato dalle glorie asburgiche degli antenati al nazismo, a quella fede feroce. Se nella prima parte la storia era un’ombra grigia sullo sfondo, qui è un immanente colorato di bandiere rosse con la svastica – l’anno prima l’Anschluss aveva unito l’Austria alla Germania: Dora si trova ancora una volta in una sorta di esilio. E già suonano le sirene, crepitano i fucili, si prepara l’orrore dei lager: Ma è tardi, sempre più tardi.

Ancora sulla memoria leggiamo due celebri poesie: La casa dei doganieri e Non recidere forbice quel volto. 
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Girolamo Peralta: La  casa dei doganieri (2013)

LA CASA DEI DOGANIERI
 
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
 
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
 
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta. 

E’ questa una poesia sulla memoria: l’ambiente (la casa sulla scogliera) rappresenta il “correlativo oggettivo” del rapporto che il poeta stabilisce tra il suo presente ed il suo passato. Il vento che sbatte sui muri, la banderuola che gira impazzita, i dadi il cui conto non torna più sono emblemi di una vita che trascorre incessantemente e senza senso. Ma la casa (che realmente è sul territorio di Monterosso, posta a confine tra l’Italia e la Francia) è anche, in quanto limes, quello stesso che divide la vita e la morte, cui la donna fa da segnale (è lontana, appartiene alla memoria); allora la lirica viene ad assumere anche la valenza di meditazione sulla vita e del suo nascere e morire. Ma di ciò Montale intuisce che non è possibile penetrarne il mistero, ottenere un senso.
Per questo la donna, presente nella memoria, quindi viva nel pensiero dell’autore, gli indica l’illusione il varco è qui?, cui fa da riscontro la sua vacuità, con la negazione di ogni certezza non so chi va e chi resta. La donna è, pertanto, la figura femminile che, come nello stilnovo, richiama ad una possibilità: ma Montale sceglie, fra gli amori stilnovisti, il più etereo: l’amore di lontano, quasi ad allontanare, pur indicandolo essa, ma da un punto imprecisato della mente, il raggiungimento della verità.
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Angelica Pinnella

NON RECIDERE FORBICE QUEL VOLTO

Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
 
Un freddo cala… Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre

Il non recidere dell’inizio può essere inteso come una preghiera al tempo (le forbici) di non cancellare le immagini delle persone care al poeta che non ci sono più. Ma l’ultima frase della prima strofa sembra negare tale possibilità (la mia nebbia di sempre).
La seconda strofa è il “correlativo oggettivo”, che sembra non avere rapporto con il dettato della prima strofa se non nel primo emistichio del primo verso (un freddo cala): il freddo può assumere, infatti, una doppia valenza: psichica, il vuoto della mente dopo il suo sfollarsi, ma anche come aggettivo della lama che spezza il ramo: ed il volto è come il guscio della cicala nel fango di novembre.

La donna angelo, che qui abbiamo visto nelle varie sfumature con cui Montale descrive il esserci stato, diventa elemento pregnante nella figura di Irma Brandeis, cantata con il nome di Clizia (riprende la tecnica provenzale del senhal), il cui significato rimanda alla luce (nella mitologia greca una ninfa innamorata del sole).

Essa ci appare nei Mottetti, sezione di brevi liriche all’interno dell’opera:
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Installazione di Cosentino

LO SAI: DEBBO RIPERDERTI E NON POSSO
 
Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera
di Sottoripa.
 
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall’aperto,
strazia com’unghia ai vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia
da te.
           E l’inferno è certo.
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Irma Brandeis: la Clizia montaliana

Poesia del 1934.
Prima strofa: la sua Clizia sta per allontanarsi. Ogni gesto che compie lo colpisce, con inesorabilità, come lo colpiscono le grida, l’odore di sale e la caligine che rende scura la primavera (oscura primavera: splendido ossimoro).
Seconda strofa: la città di ferro con le ciminiere; suono aspro dall’esterno (unghia sui vetri, correlativo oggettivo). La donna è stata portatrice di segni, di valenze significative. Il suo allontanamento costituisce per il poeta l’inferno del vivere.
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Maria Luisa Spaziani

TI LIBERO LA FRONTE DAI GHIACCIOLI

Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l’alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.
Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole
freddoloso; e l’altre ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.
 

Poesia del 1939
Sono passati cinque anni: la Clizia se n’è andata per sempre; la storia si fa inferno (la Germania hitleriana invade la Polonia).
Ecco che la donna-angelo ripresentarsi a lui, dall’iperuranio, l’estremità del cielo, la cui provenienza è raffigurata dai ghiaccioli. Le sue ali sono lacerate per avere passato tempeste e bufere, il suo singulto è figlio dello scombussolamento della storia.

Mezzogiorno, lei s’affaccia, rende il sole freddoloso: la gente non sa che è venuta a lui per “consolarlo” del dolore. Ma il suo ritorno non promette un viaggio al poeta, non porterà il suo pensiero oltre la spera che più larga gira, come Beatrice aveva potuto offrire a Dante, in quanto il suo viaggio è discensionale. La stessa Irma, lacerata, proietta un’ombra nera, senza speranza. Fuori, l’indifferenza della gente, che non sa che si sta preparando un altro inferno.

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Prima edizione de La bufera

La bufera e altro (1956)

Questa terza raccolta comprende poesie composte tra il ’40 e il ’54, cioè tra l’inizio della Seconda Guerra Mondiale e il primo dopoguerra. Sono questi anni cruciali per il poeta, la morte della sorella e della madre lo turbano profondamente, così come il definitivo allontanamento di Irma Brandeis; ma c’è anche la tragedia della guerra, così come la falsa illusorietà del difficile dopoguerra. La poesia di Montale, quindi, entra a contatto con la storia, per meglio dire, istituisce un rapporto problematico fra l’io e la storia.

Da qui il titolo: infatti se La bufera può alludere certamente al periodo storico, dai totalitarismi alla guerra, non può non riferirsi anche al dramma umano del poeta, che vive accadimenti privati in questo turbinio pubblico.

L’opera si articola in sette sezioni:

  • Finisterre: le liriche appartenenti a questa sezione riprendono temi e stile de Le occasioni. Un riferimento al periodo storico è certamente la lirica La bufera che ha come epigrafe un verso di un poeta francese del ’600: “I principi non hanno occhi per vedere queste grandi meraviglie: le loro mani non servono che a perseguitarci”;
  • Dopo: viene qui introdotto il personaggio di Mosca (Drusilla Tanzi)
  • Intermezzo: sezione prosastica in cui viene sottolineato il decadimento del presente:
  • Flashes e dediche: sezione centrale in cui appaiono varie donne, fra cui la poetessa Maria Luisa Spaziani. Esse appaiono come piccole ancore di salvezza, almeno sul piano individuale;
  • Silvae: è una sezione in cui si raccolgono poesie di varia ispirazione (da qui il titolo);
  • Madrigali privati: poesie dedicate alla poetessa Maria Luisa Spaziani;
  • Piccolo testamento: sezione in cui si sancisce l’estraneità del poeta con la contemporaneità.

 

Il fascismo e la guerra sono i punti di riferimento che si stagliano sullo sfondo del discorso poetico: rappresentano il caos, il disordine; ma ad esso si contrappone la volontà di capire, di trovare un senso: sono le donne che rendono possibile tale eventualità. Infatti come donne-angelo esse appaiono le sole capaci di offrire un significato rispetto alla storia. Esse sembrano assumere su di loro, come Cristo, tutto il dolore della storia. Questa fortissima tensione etica si scioglie dopo la guerra, ma appare la forte contrarietà verso il mondo contemporaneo.

Ne La bufera appare anche il tema della morte: d’altra parte la guerra e i lutti familiari non potevano eludere un tema che era già apparso nelle raccolte precedenti. Vi è qui un recupero di Pascoli: i morti, in questo assurdo presente, sono più vivi dei vivi, e ci stimolano verso un altissimo impegno di vita.

Dalla prima sezione Finisterre prendiamo la poesia che dà il titolo all’intera raccolta:

LA BUFERA

La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,
 
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)
 
il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella, –
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa…
Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
 
mi salutasti – per entrar nel buio.

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Sergio Vacchi: Ritratto di Montale

C’è ancora lei, la Clizia delle Occasioni, in questo testo del ’41. La guerra imperversa, lo sconvolgimento della natura irrompono violentemente nell’esterno e nell’interno. La donna dormiente viene colta all’improvviso, dall’irrompere della storia. Ella se ne fa carico, come una condanna a salvare l’uomo, novello Cristo per la redenzione dei peccati. Ma il suo gesto non è sufficiente. Cristo è morto, ma il dolore nel mondo non è cessato.

La poesia non ha proposizioni principali, ma solo relative: quasi a significare l’impossibilità di descrivere la guerra in modo razionale. Nella prima parte c’è la pura descrizione della guerra, metaforizzata con la bufera; s’apre poi una parentesi in cui ci viene presentato il nido di Clizia, anch’esso immerso nel caos bellico; sembra sparire ogni luce, ma solo lei è ancora capace di conservare, seppure minimale, barlume di luce. Si passa poi alla terza strofa, la più difficile: ancora la guerra metaforizzata con un lampo, e descritta con tre parole dalla forte carica ambivalente, a sottolineare il disorientamento del poeta. In questa negazione di qualsiasi dignità di vita anche l’illusione della donna salvifica viene a mancare: dopo il ciao Clizia entra nel buio, se ne va, per sempre in America.

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Fotografie di Montale

PICCOLO TESTAMENTO

Questo che a notte baluginanella
calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d’officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.
Solo quest’iride posso
lasciarti a testimonianza
d’una fede che fu combattuta,
d’una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, dell’Hudson, della Senna
scuotendo l’ali di bitume semi-
mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora.
Non è un’eredità, un portafortuna
che può reggere all’urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio
non era fuga, l’umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.

Dopo aver descritto la guerra in termini allusivi (è difficile se non impossibile descrivere il caos rovinoso), nell’ultima sezione de La bufera e altro, Montale prende posizione contro i falsi miti postbellici. Il periodo storico-culturale in cui questo testo vede la luce è assai complesso: il perdurare della guerra nel sud-est asiatico, la problematica contrapposizione tra l’America e l’URSS, il pericolo nucleare, rendevano il clima politico assai arroventato; a ciò si accompagna quasi un diktat, per gli intellettuali, di prendere posizione, soprattutto da parte del Partito Comunista (famosa la polemica Vittorini – Togliatti); è il periodo del neorealismo. Montale qui, alle accuse rivoltegli di non prendere posizione, risponde con orgoglio sull’onestà del suo operato e sulla necessità, da parte degli intellettuali di “estraniarsi” dai “falsi miti”, per conservare la piena dignità con cui testimoniare la fragilità “innata” e quindi “astorica” della fragilità umana. Tale testimonianza è possibile proprio a partire da quel barlume, quella piccola luce, di cui Clizia è stata portatrice, sola ad illuminare il difficile cammino dell’uomo. Piccolo testamento sembra preludere, stilisticamente e contenutisticamente, all’ultima produzione montaliana.

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Montale al tempo di Satura

Satura (1971)

Questa raccolta inaugura un nuovo modo di poetare di Montale: già il titolo richiama al genere in auge nella poesia latina, ed indica la presenza di vari argomenti, in cui predomina il gusto per la critica dei vizi della società contemporanea. L’opera appare divisa in quattro parti: Xenia I e II Satura I e II: i primi si strutturano come piccoli doni a Mosca; gli altri si scagliano contro la società massificata e omologata.

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Montale con la moglie Drusilla

HO SCESO, DANDOTI IL BRACCIO…

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.
 
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
 

Un vero e proprio Xenion questo che Montale dedica alla moglie morta. Mosca, così chiama Drusilla Tanzi, è lontana dalla bellezza eterea, angelica, di Clizia: le ali, sebbene spezzate di Irma Brandeis la collocavano ancora sulla scia della grande poesia dantesca e petrarchesca: qui il richiamo sembra più all’apprezzato Saba, che coglie della donna l’aspetto più umile.

Mosca tuttavia, nel suo essere dimesso, di umile ha avuto ben poco: lei è stata la vera guida di quest’uomo che non sapeva cogliere la difficoltà dell’esistere, quella che gli ha permesso di scendere le scale senza difficoltà, quella a cui lui s’appoggiava. E’ perché lei, nella sua miopia, non aveva bisogno di guardare le cose, le vedeva oltre, capiva le loro vera essenza e sapeva quindi offrire un cammino sicuro a questo poeta che ora, solo, s’appresta a percorrere l’ultimo tratto della vita

 

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Pablo Echaurren: La storia

LA STORIA
I
La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l’ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra
carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi.
Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
 
II 
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C’è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
 
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.
 

In questo testo Montale demistifica la storia come mito borghese e assoluto. Lo fa attraverso una parte destruens e una parte costruens. Attraverso l’anafora de “La storia non è”, egli afferma l’estraneità della “storia” dall’agire umano (non è di chi la pensa e di chi l’ignora) e, soprattutto non è maestra di niente. La parte costruens della storia è definita per antifrasi: è solo nella sua casualità (rete a strascico con qualche strappo). Importanti gli ultimi versi: chi scampa dalla storia, fuori dai pregiudizi è costretto all’incomprensione; solo chi vi è dentro, con tutti i modelli ideologici imposti, si crede libero e non lo è.

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Gabrielli Donelli: Ritratto di Montale

Diario del ’71 e del ’72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977)

Il nuovo corso poetico montaliano prosegue con queste due ultime raccolte. Già i titoli mostrano che il poeta vuole adottare uno stile “diaristico”, in linea con l’abbassamento stilistico e tematico inaugurato da Satura; in queste raccolte a volte si utilizza parodisticamente il linguaggio dei mass-media, altre volte si tratta di poesie brevissime, dal taglio lapidario. Si accentua qui il distacco del poeta contro il conformismo dilagante, riaffermando la propria autonomia, rispetto ai falsi miti (si ricorda qui, per inciso, come siano questi gli anni che vanno dalla contestazione studentesca sino al terrorismo).

AL MARE (O QUASI)
 
L’ultima cicala stride
sulla scorza gialla dell’eucalipto
i bambini raccolgono pinòli
indispensabili per la galantina
un cane alano urla dall’inferriata
di una villa ormai disabitata
le ville furono costruite dai padri
ma i figli non le hanno volute
ci sarebbe spazio per centomila terremotati
di qui non si vede nemmeno la proda
se può chiamarsi cosí quell’ottanta per cento
ceduta in uso ai bagnini
e sarebbe eccessivo pretendervi
una pace alcionica
il mare è d’altronde infestato
mentre i rifiuti in totale
formano ondulate collinette plastiche
esaurite le siepi hanno avuto lo sfratto
i deliziosi figli della ruggine
gli scriccioli o reatini come spesso
li citano i poeti. E c’è anche qualche boccio
di magnolia l’etichetta di un pediatra
ma qui i bambini volano in bicicletta
e non hanno bisogno delle sue cure
Chi vuole respirare a grandi zaffate
la musa del nostro tempo la precarietà
può passare di qui senza affrettarsi
è il colpo secco quello che fa orrore
non già l’evanescenza il dolce afflato del nulla
Hic manebimus se vi piace non proprio
ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile
alla morte ( e questa piace solo ai giovani)
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La natura contro il consumismo

 

DECIMO GIUNIO GIOVENALE

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Il giovane Giovenale

Di Decimo Giunio Giovenale conosciamo poco. Laziale di Aquino, nasce tra il 50 e il 60. Amico di Marziale, sembra condividi con lui la condizione sociale. Lo stesso amico poeta lo annovera tra i clientes. Sembra abbia scritto le sue opere non più giovane, infatti alcuni riferimenti interni ci fanno pensare alla prima età del principato adottivo. Nessun riferimento nella sua opera ad avvenimenti seguenti il 127, data dopo la quale va certamente posta la sua morte.

Egli è l’ultimo rappresentante del genere satirico che aveva visto in Lucilio, Orazio e Persio degni antecedenti. Ma lui lo reinterpreterà alla luce della sua età, in cui non vi era certamente libertà di parola accentuando la critica verso vizi generici che sono, dopo l’autore del periodo neroniano e gli epigrammi di Marziale, quasi diventato topoi letterari.

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Manoscritto

Satire
Le satire di Giovenale sono sedici, divise in cinque libri:

  • dalla I alla V
  • VI
  • dalla VII alla IX
  • dalla X alla XII
  • dalla XIII alla XVI

Non sappiamo se tale divisione sia originale o sia frutto di grammatici posteriori, che, nel VI secolo d.C. curarono il testo di Giovenale.
Al di là della divisione, non è possibile individuare un tema per ciascun libro. Ma è bene partire dalle motivazioni che lo hanno spinto a scrivere Satire:
Nella prima, dopo aver criticato i declamatores, giustifica il suo essere autore di satire:

E’ SEMPRE LA SOLITA SOLFA
(1, 1-14)

Semper ego auditor tantum? Numquamne reponam
vexatus totiens rauci Theseide Cordi?
Inpune ergo mihi recitaverit ille togatas,
hic elegos? Inpune diem consumpserit ingens
Telephus aut summi plena iam margine libri
scriptus et in tergo necdum finitus Orestes?
Nota magis nulli domus est sua quam mihi lucus
Martis et Aeoliis vicinum rupibus antrum
Vulcani; quid agant venti, quas torqueat umbras
Aeacus, unde alius furtivae devehat aurum
pelliculae, quantas iaculetur Monychus ornos,
Frontonis platani convolsaque marmora clamant
semper et adsiduo ruptae lectore columnae.
Expectes eadem a summo minimoque poëta.

Succube sarò sempre ad ascoltare? Mai replicherò / vessato tutto il tempo dalla Teseide del rauco Cordo? / Impunemente quello potrà recitare queste / togate e queste elegie? Impunemente avrà consumato il giorno / un Telefo che mai finisce e un non ancora concluso Oreste scritto fino / ai margini del ponderoso libro, anche sul retro? / A nessuno più è nota la sua casa che a me il bosco / di Marte e l’antro vicino alle rupi Eolie / di Vulcano; che cosa facciano i venti, quali ombre torturi / Eaco, da dove furtivamente un altro abbia strappato l’oro / del Vello, Monico che scaglia così tanti frassini, / i platani e marmi rovinati di Frontone urlano / sempre e le colonne rotte dall’assiduo lettore. / Aspetti le stesse cose da un grande o da un infimo poeta.

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Altra immagine di Giovenale

Qui Giovenale, sembra riprendere un topos della poesia satirica, che risale sin da Orazio, il rifiuto della poesia alta; nel poeta augusteo tale rifiuto viene risolto con l’excusatio; lo stesso Persio nel suo Coliambo aveva parlato del rifiuto da parte sua di “abbeverarsi” alla fonte del Parnaso; qui è la sua inutilità, da un punto di vista morale, a venir sottolineata; in Giovenale invece a prevalere è l’indignatio, come ci dice nel verso 79: Si natura negat, facit indignatio versum (se manca la natura, l’indignazione fa la poesia)

E’ DIFFICILE NON SCRIVERE SATIRE
(1, 23 -30)

Cum tener uxorem ducat spado, Mevia Tuscum
figat aprum et nuda teneat venabula mamma,
patricios omnis opibus cum provocet unus
quo tondente gravis iuveni mihi barba sonabat,
cum pars Niliacae plebis, cum verna Canopi
Crispinus Tyrias umero revocante lacernas
ventilet aestivum digitis sudantibus aurum
nec sufferre queat maioris pondera gemmae,
difficile est saturam non scrivere.

Quando un effeminato eunuco prende moglie, Mevia un Toscano / cinghiale conficca e con la mammella nuda tiene lo spiedo da caccia, / quando tutti i patrizi sfida in ricchezza uno / con il cui taglio molesto, la barba faceva risuonare a me giovane, / quando una parte della plebe del Nilo, la canaglia di Canopi / Crispino, sulla spalla richiamante il mantello di Tiro (di porpora) / ventilava un gioiello d’oro estivo sulle dita sudate / né poteva sopportare il peso di una gemma più grande, / è difficile non scrivere satira.

L’indignatio di Giovenale nasce dall’esigenza di descrivere il reale così com’è, che a lui sembra permanere anche nel nuovo clima politico dell’impero di Traiano; ma il reale descritto da lui, punta soprattutto il dito verso “una” realtà, a suo parere la più sordida e “malsana”, più che sulla totalità della realtà: altrimenti non riusciremo a capire come, per Plinio il Giovane, tale realtà sia descritta in modo favorevole e positivo, “rinnovata” grazie al nuovo clima culturale basato sulla “libertas”. Ci si potrà soffermare sulle differenze sociali tra la nobilitas di Plinio e il cliens di Giovenale: ma se mai volessimo trovare in lui un difetto è che il suo essere “inferiore” viene additato come se la colpa fosse dei nuovi mores introdotti da tempo immemorabile. Per questo, tuttavia, per non esser colpito dagli strali di chi si sente colpito, rivolgerà lo sguardo nel passato, individuando in esso le “storture” del presente.

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Giovenale riceve la maschera della poesia satirica e l’alloro poetico

La seconda satira si scaglia contro chi nasconde il vizio dietro un’apparente virtù, come per gli omosessuali.  Più riuscita la terza nella quale, colta l’occasione del desiderio espresso dall’amico Umbricio di voler lasciare Roma, si lascia andare ad uno sfogo verso la città, ormai che di Romano ha nulla:

DOVE SONO FINITI I ROMANI?
(III, 60 – 72)

(…) Non possum ferre, Quiriti,
Graecam urbem. Quamvis, Achaei quota portio faecis?
Iam pridem Syrus in Tiberim defluxit Orontes
et linguam et mores et cum tibicine chordas
obliquas nec non gentilia tympana secum
vexit et ad circum iussas prostare puellas.
Ite, quibus grata est picta lupa barbara mitra.
Rusticus ille tuus sumit trechedipna, Quirite,
et ceromatico fert niceteria collo.
Hic alta Sicyone, ast hic Amydone relicta,
hic Andro, ille Samo, hic Trallibus aut Alabandis,
Esquilias dictumque petunt a vimine collem,
viscera magnarum domuum dominique futuri.
 

Non posso sopportare, o Quiriti, / una città greca. Sebbene, gli Achei quanta proporzione della feccia siano? / Ormai da tempo l’Oronte siro si getta nel Tevere / e ha trascinato la lingua, le abitudini, le corde oblique (dell’arpa) / con il flautista e i timpani gentili con sé / e le fanciulle costrette a prostituirsi vicino al circo. / Andate, (voi) ai quali è gradita la lupa (puttana) con un barbaro mantello dipinto. / Quel tuo figlio contadino indossa i sandali, o Quirita, / e porta distintivi di vittoria sul collo spalmato di cera. / Questo dall’alta Sicione, poi questo dall’abbandonata Amidone, / questo da Andro, quello da Samo, questo da Trallibo o Alabanda, / e si dirigono verso l’ Esquilino e il colle chiamato dal vimini, / viscere di grandi case e futuri padroni.

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Roma, saeva urbs (satira III)

Anche in tale piccolo frammento di questa satira sembra che il malessere del poeta e della stessa città vada attribuito all’orientalizzazione avvenuta sin dai tempi degli Scipioni; tale impressione è rafforzata dalla lettura dell’intera satira che si può dire abbia una frattura all’interno di essa: dapprima la descrizione della città come sentina di vizi e malaffare determinato dalla presenza di questi graeculi, la cui presenza esaspera la ricchezza individuale e la presenza delle puttane da loro gestite; dall’altra elogio della campagna e dei piccoli piaceri, dove ancora resiste il mos maiorum; nella quarta satira il soggetto è fortemente sarcastico: si parla di un consilium principis convocato per decidere come preparare un rombo, e nell’ultima satira del I libro, l’accusa della differenza tra un ricco e povero nella scena di un banchetto in cui sono inserite ambedue le figure.

Come precedentemente detto il II libro è interamente occupato dalla VI satira (la più lunga della letteratura latina (661 versi): essa si presenta come una vera e propria requisitoria contro la figura femminile. L’occasione gli è fornita dal desiderio del suo amico Postumo di prender moglie. Ed è proprio all’interno dell’istituzione familiare che Giovenale osserva la sua donna: scappata la Pudicizia, le donne si sono lasciate andare ai piaceri tra i quali quelli sessuali (basti pensare a Messalina che non contenta dei piaceri coniugali, si rifugiava di notte nei bordelli a provare smisurati godimenti), quelli legati ai giochi del circo, al potere che esercitano sui mariti grazie alla loro dote, all’innamoramento verso la cultura e la lingua greca.

LA LETTERATA SACCENTE
(VI, 448 – 456)

Non habeat matrona, tibi quae iuncta recumbit,
dicendi genus, aut curvum sermone rotato
torqueat enthymema, nec historias sciat omnes,
sed quaedam ex libris et non intellegat. Odi
hanc ego quae repetit volvitque Palaemonis artem
servata semper lege et ratione loquendi
ignotosque mihi tenet antiquaria versus
nec curanda viris opicae castigat amicae
verba: soloecismum liceat fecisse marito.
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Gli amanti di Messalina

Non abbia la matrona, che si sdraia a fianco a te, / la caratteristica della parola, o con linguaggio artificioso un tortuoso / entimema* rivolti, né conosca tutta la storia, / ma qualcosa, e non comprenda (tutto) dai libri. Io odio / quella che ripete e illustra l’arte di Palamone* / istruita (in essa) sempre dalla legge e secondo le regole del parlare / reciti versi antichissimi a me sconosciuti / e rimproveri ad una amica ignorante parole non da sottolineare / dagli uomini: sia lecito al marito aver fatto (qualche) errore.

Anche qui torniamo an topos ben presente nella cultura latina: chi non ricorda con quale disprezzo Cicerone disegna Clodia, tra i cui difetti vi era anche la cultura? è certo questa una delle componenti che disturba il “maschio”, per cui la donna deve solo rispettare la casa e il marito. Ma torniamo al vecchio discorso: dov’erano le donne che sacrificavano se stesse per il bene della famiglia e della patria? Ci ritroviamo ancora una volta nella Roma Repubblicana, a dimostrare come le accuse di Giovenale, oltre ad essere anacronistiche, non sono affatto propositive. Il suo odio, infatti, sembra non sia dato dalla condizione storica, quanto da una pura e semplice misoginia. Questa satira si caratterizza anche per essere una “satira tragica”. Ci dice l’autore stesso che nel descrivere la depravazione femminile ha dovuto far riferimento spesso ai miti del passato: ciò può destare qualche perplessità, perché essi sono e vanno inseriti nel genere della tragedia, ma la differenza tra la sua e quella della tragedia sta nel fatto che la seconda si basa sul mito, lui sulla realtà. Ma forse è anche il caso di dire che nella tarda antichità comincia ad intravedersi qualche mescolamento di genere.

La VII satira, che apre il terzo libro, è complementare a tutte quelle dedicate alla povertà dei clientes, che condividono tali ristrettezze con avvocati, maestri, poeti, di contro all’avarizia dei potenti e agli stratosferici guadagni degli atleti.

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Wenceslaus Hollar: Immagine per l’edizione inglese delle Satire di Giovenale 

Da tale satira potremo quasi notare un piccolo cambiamento nell’opera di Giovenale, che tuttavia sembra muoversi tra satire in cui continua a stigmatizzare i comportamenti viziosi degli uomini, come l’VIII in cui si scaglia contro chi deturpa la memoria dei propri antenati con una vita dissoluta, sebbene appaia alla fine lo spiraglio di una virtù capace di attribuire la vera nobiltà; la IX in cui si parla di un cliens che si prostituisce al padrone; la XII contro cui si scaglia contro i cacciatori d’eredità e la XV in cui inveisce contro il cannibalismo (episodio avvenuto in Egitto); nelle altre sembra riprendere alcuni temi “più classici” che si possono richiamare alla satira diatribica, come quello della X in cui cerca di individuare il vero significato della preghiera verso gli dei, non certo quello dell’avarizia; o ancora quello del “giusto mezzo”, individuato nel mezzo di un povero pasto, capace tuttavia di soddisfare i convitati ma soprattutto la XIV dove invita i genitori ad aver rispetto verso i propri figli; egli analizza tale rapporto sotto la lente dell’avarizia.

Particolare la XIII, in cui si racconta della truffa subita da un suo amico che aveva prestato del denaro: la satira sembra una “consolatio” rovesciata, ma dove l’intento satirico si appunta sulla stupidità degli uomini e la XVI giunta talmente frammentaria da essere di difficile interpretazione (l’argomento è il privilegio di cui gode la casta militare).

Non si può terminare un discorso su Giovenale se non si ricordano alcune sue espressioni entrate, per così dire, nel linguaggio ordinario come massime; mens sana in corpore sano, panem et circenses, maxima debetur puero reverentia.

PUBLIO CORNELIO TACITO

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Publio (o Gaio) Cornelio Tacito (ritratto immaginario)

Cenni biografici

Di Cornelio Tacito non conosciamo con precisione né il praenomen (Publio secondo un manoscritto, Gaio, secondo un autore antico) né con precisione la data di nascita (tra il 54-55, così risaliamo secondo la testimonianza di Plinio il Giovane, suo amico) e neppure il luogo di nascita, forse umbra, forse celtica. Certamente iniziò la sua carriera politica sotto Vespasiano per finire sotto Traiano, senza significative interruzioni). Fu probabilmente di famiglia equestre se poté approfondire la sua educazione nella capitale e se, sin da giovane, poté scegliere come moglie la figlia di Gneo Giulio Agricola, autorevole comandante militare, grazie al quale iniziò la sua attività che rivestì durante l’intera dinastia dei Flavi. Certo dovette essere un buon oratore se, dopo essersi recato come pretore in Africa, difese le popolazioni in un processo de repetundis contro il proconsole Mario Prisco, insieme a Plinio il Giovane (famoso per il suo Epistolario); sappiamo inoltre che tra l’88 e il 93 si allontanò da Roma (non ne conosciamo il motivo) e che rivestì la carica di consul suffectus (cioè l’ottenimento della carica consolare in caso di dimissioni o morte di un console durante il suo incarico). Ottenne anche la pretura in Asia. Morì intorno al 117.

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Ponte a Nimes (città comprendente quella che un tempo era la Gallia Narborense, cioé l’attuale Provenza nel sud della Francia)

Opere
Le opere di Tacito a noi note sono:

  1. De vita Iulii Agricolae (98);
  2. De origine et situ Germanorum o Germania (98);
  3. Dialogus de oratoribus (di poco successivo al 100);
  4. Historiae (tra il 100 e il 110);
  5. Annales (tra la fine delle Historiae e la morte dell’autore).

 
Dialogus de oratoribus

Cominciamo la nostra analisi con un testo lontano dalla riflessione storica o etnografica, ma che ci riporta subito a Quintiliano, cioè la retorica. E, sebbene l’opera sia più tarda rispetto all’Agricola o alla Germania, risulta così “staccata” dal resto della sua produzione, che alcuni ne hanno messo addirittura in forse l’autenticità o la datazione, collocandola nel periodo giovanile (il manoscritto ci è giunto anonimo, ma a definirne la “paternità” è il suo essere stata tramandata insieme ad altre opere minori). Infatti l’argomento, ma soprattutto lo stile sembrano assai lontani dagli altri di Tacito. Ma se essa appare così diversa probabilmente lo si deve al genere stesso dell’opera che Quintiliano aveva poi canonizzato con uno stile neociceroniano da renderlo quasi “obbligatorio”. L’opera è strutturata come un dialogo, avvenuto nel periodo di Vespaniano, tra i maggiori oratori del tempo, e affronta il tema della decadenza. E’ composto da 42 capitoli e appare evidente come ci sia una lacuna tra il capitolo 35/36. L’io narrante è costituito da un giovane che descrive, non intervenendo, il dialogo dei tre grandi retori.

I protagonisti attribuiscono ognuno una motivazione diversa al declino dell’oratoria:

  1. Vipsano Messala ne indica le cause sul deterioramento dell’educazione (riprendendo la teoria di Quintiliano);
  2. Marco Apro afferma che l’oratoria non è peggiorata, ma è solo cambiata adeguandosi ai tempi;
  3. Curiazio Materno con la fine della libertà che non permette la facoltà di potersi esprimere senza remore.

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Tacito, come mostrato precedentemene, sembra accogliere, nella sua opera, le motivazioni che nell’età imperiale, da Petronio in poi, hanno caratterizzato la decadenza dell’oratoria e accoglie le motivazioni che i suoi predecessori avevano elaborato. Tuttavia sembra che egli debba sottolineare come la realtà a lui contemporanea sia priva di una elegante eloquenza perché manca un confronto ardente fra fazioni politiche opposte, come ai tempi di Cicerone, per poi tuttavia aggiungere  che è meglio la pace imperiale che le guerre civili.

L’ANTICA FIAMMA DELL’ELOQUENZA

Magna eloquentia, sicut flamma, materia alitur et motibus excitatur et urendo clarescit. Eadem ratio in nostra quoque civitate antiquorum eloquentiam provexit. Nam etsi horum quoque temporum oratores ea consecuti sunt, quae composita et quieta et beata re publica tribui fas erat, tamen illa perturbatione ac licentia plura sibi adsequi videbantur, cum mixtis omnibus et moderatore uno carentibus tantum quisque orator saperet, quantum erranti populo persuaderi poterat. Hinc leges adsiduae et populare nomen, hinc contiones magistratuum paene pernoctantium in rostris, hinc accusationes potentium reorum et adsignatae etiam domibus inimicitiae, hinc procerum factiones et adsidua senatus adversus plebem certamina. Quae singula etsi distrahebant rem publicam, exercebant tamen illorum temporum eloquentiam et magnis cumulare praemiis videbantur, quia quanto quisque plus dicendo poterat, tanto facilius honores adsequebatur, tanto magis in ipsis honoribus collegas suos anteibat, tanto plus apud principes gratiae, plus auctoritatis apud patres, plus notitiae ac nominis apud plebem parabat.

La grande eloquenza, come la fiamma, ha bisogno di materia che la alimenti e di movimento che la ravvivi; e nell’ardere acquista splendore. Le medesime cause favorivano anche nella nostra città l’eloquenza degli antichi. Benché infatti certi oratori della nostra epoca abbiano ottenuto tutti i successi che potevano ripromettersi in uno stato ben regolato, tranquillo e felice, tuttavia sembra che maggiori speranze si aprissero agli antichi in mezzo a quei grandiosi rivolgimenti e tumulti, allorché, essendo ogni cosa sconvolta e mancando un unico capo, ciascun oratore tanto più valeva, quanto più riusciva ad influire sulla moltitudine disorientata. Di qui le frequentissime proposte di leggi e la gran popolarità, di qui gli sproloqui dei magistrati, che quasi pernottavano sulla tribuna: di qui le accuse lanciate contro alti personaggi e le inimicizie condivise anche dalle famiglie; di qui le fazioni dei patrizi, di qui le lotte continue tra il senato e la plebe. Tutti questi mali dilaniavano sì lo stato, ma stimolavano l’eloquenza di quei tempi e le offrivano brillanti compensi; perché quanto più un cittadino s’imponeva con la parola, tanto più facilmente giungeva alle cariche pubbliche e nelle cariche stesse oltrepassava i propri colleghi, tanto più maggiore favore si procurava da parte dei potenti, tanta maggiore autorità da parte del senato, tanta maggiore notorietà e fama presso la plebe.

E ciò che dice in questo passo, posto quasi a conclusione dell’opera, affermato da Materno che, in quest’opera è l’alter ego di Tacito.

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Giulio Agricola

De vita et moribus Iulii Agricolae

Dopo la morte di Domiziano, cui segue la parentesi di Nerva, sotto la quale i critici tendono a far coincidere l’inizio della stesura di quest’operetta, e l’elezione di Traiano, a Roma si percepisce una maggiore libertà, se così si può dire, culturale. Per questo Tacito diede alle stampe un libretto il cui compito era quello di esaltare il suocero, grande comandante militare e leale uomo di Stato. Di lui infatti si racconta soprattutto l’impresa della conquista della Britannia cui dedica degli excursus che sembrano esulare dal genere biografico vero e proprio, quindi, la gelosia dei successi del generale, ed il richiamo per volontà del princeps nella Capitale, dove Agricola, per non urtare l’Imperatore, conduce vita ritirata. Rinuncia al proconsolato e la morte lo coglie ad appena cinquantatré anni (qualcuno vocifera per avvelenamento da parte di Domiziano).

L’opera consta di 46 capitoli, in cui si racconta la vita di Giulio Agricola fino al consolato, cui segue la spedizione in Britannia (e qui viene inserito un excursus che ricorda gli excursus cesariani del De Bello Gallico) e quindi il suo ritorno a Roma.

E’ difficile definire il genere di tale monografia: potremo inserirla nel genere della biografia encomiastica, oppure di una vera e propria una vera e propria laudatio funebris in onore del suocero. Infatti quello che lui vuole mettere in evidenza è come, pur sotto un pessimo imperatore, come Domiziano, si ci può comportare in modo corretto e giusto. Egli infatti sembra prendere le distanze da quel periodo in cui il suicidio stoico sembrava essere l’unica forma per salvare la propria libertà e quindi la propria dignità. Nella considerazione che l’impero è ormai una forma ineluttabile del processo storico romano, compito di un buon funzionario è quello di fare in modo che sia proprio questo, cioè l’impero e non il suo rappresentante, l’imperatore, a godere dei frutti dell’uomo onesto:

AGRICOLA DI FRONTE ALL’IMPERATORE
(42)

Proprium humanii ingenii est odisse quem laeseris: Domitiani vero natura praeceps in iram, et quo obscurior, eo inrevocabilior, moderatione tamen prudentiaque Agricolae leniebatur, quia non contumacia neque inani iactatione libertatis famam fatumque provocabat. Sciant quibus moris est inlicita mirari, posse etiam sub malis principibus magnos viros esse, obsequiumque ac modestiam, si industria ac vigor adsint, eo laudis excedere, quo plerique per abrupta sed in nullum rei publicae usum ambitiosa morte inclaruerunt.

E’ della natura umana odiare chi hai offeso; inoltre la natura di Domiziano, tanto più implacabile quanto più si teneva chiusa in se stessa, era mitigata dalla modestia e dalla prudenza di Agricola, il quale non ricercava la fama né sfidava la morte con l’ostinazione o con la vana fierezza della libertà. Sappiano coloro che ammirano i gesti di ribellione che possono esistere uomini grandi anche sotto principi cattivi e che l’obbedienza e la moderazione, quando è presente l’operosità e l’energia, si elevano a quella gloria dove molti altri per vie pericolose, ma senza utilità per lo stato, salirono illuminati da una morte ambiziosa.

Il passo mostra bene quando detto prima: ma ciò non toglie a noi il dubbio che quanto Tacito dica del suocero, tenda anche a dirlo per lui. Anch’egli, infatti, iniziò attività politica sotto Domiziano e vorrebbe essere “scagionato” dall’averla fatta sotto la tirannia del feroce imperatore.

Ma certamente uno dei passi più famosi di tutta l’opera, di cui riportiamo un frammento è nella definizione dell’imperialismo romano:

DAL DISCORSO DI CALGACO
(30)

Quotiens causas belli et necessitatem nostram intueor, magnus mihi animus est hodiernum diem consensumque vestrum initium libertatis toti Britanniae fore: nam et universi coistis et servitutis expertes, et nullae ultra terrae ac ne mare quidem securum inminente nobis classe Romana. Ita proelium atque arma, quae fortibus honesta, eadem etiam ignavis tutissima sunt. Priores pugnae, quibus adversus Romanos varia fortuna certatum est, spem ac subsidium in nostris manibus habebant, quia nobilissimi totius Britanniae eoque in ipsis penetralibus siti nec ulla servientium litora aspicientes, oculos quoque a contactu dominationis inviolatos habebamus. Nos terrarum ac libertatis extremos recessus ipse ac sinus famae in hunc diem defendit: nunc terminus Britanniae patet, atque omne ignotum pro magnifico est; sed nulla iam ultra gens, nihil nisi fluctus ac saxa, et infestiores Romani, quorum superbiam frustra per obsequium ac modestiam effugias. orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.

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Disegno del XIX sec. che illustra il discorso di Calgaco

Ogni volta che esamino le cause della guerra e la nostra critica situazione, ho grande fiducia che il giorno d’oggi e la vostra concordia  saranno l’inizio della libertà per tutta la Britannia; infatti vi siete riuniti tutti insieme voi che siete ignari di schiavitù, e non ci sono terre di là e nemmeno il mare è sicuro, dal momento che la flotta romana incombe su di noi. In tale situazione il combattimento armato, che è onorevole per i valorosi, è nel contempo anche la difesa più sicura per gli imbelli. Le precedenti battaglie, nelle quali si è combattuto contro i Romani con varia sorte, avevano una speranza e una possibilità di aiuto nelle nostri mani, perché noi i più nobili di tutta la Britannia e perciò posti proprio nelle sedi più interne senza vedere alcun lido di coloro che sono asserviti, avevamo persino gli occhi non contaminati dal contatto dell’asservimento. Lo stesso nostro isolamento e l’oscurità del nostro nome ci hanno difero fino a oggi, noi i più lontani abitanti della terra e ultimi rappresentanti della libertà; ora l’estremo confine della Bretagna è aperto e tutto ciò che è ignoto passa per prodigioso: ma ormai al di là non c’è nessun altro popolo, non c’è nulla se non flutti e scogli, ma più pericolosi i Romani, alla cui tracotanza invano si potrebbe sfuggire con l’ossequio e la sottomissione. Rapinatori del mondo, dopo che a loro che devastano ogni cosa sono venute a mancare le terre, scrutano anche il mare: se il nemico è ricco, sono avidi di denaro, se poveri, prepotenti, tali che né l’Oriente, né l’Occidente potrebbe saziare: loro soli con pari desiderio bramano le ricchezze e l’indigenza di tutti. Depredare, massacrare, rapinare essi lo chiamano con falso nome impero, e, quando fanno il deserto, lo chiamano pace.

E’ giusto ricordare che sin dalla storiografia greca, come Tucidite e Senofonte, si era soliti riportare i discorsi dei generali rivolti alle proprie truppe. Se per quelli dei militari appartenenti alla cultura “vincente” si esalta l’eroismo ed il patriottismo, per gli avversari l’estrema forza e attaccamento ai soldati e alle terre. Non si sottolinea il coraggio dell’avversario a caso, esso è utile a rafforzare la forza vincente: più il nemico ha valore più la vittoria sarà gloriosa. Lo stesso per il discorso di Calgaco ai suoi uomini. Allora perché esso è diventato più importante? Perché la capacità “icastica” tacitiana è diventata proverbiale: quello che dice il britanno ai Romani è quello che si può dire di qualsiasi imperialismo e del suo modo di giustificarsi. codex-aesinas.jpg

Codice con la fine dell’Agricola e l’inizio della Germania

E’ questa la prima opera di Tacito, quella in cui il grande futuro storico, cerca un proprio modo di porre la materia. Tacito non è mai esente dall’imparare dai modelli di cui interpreta lo stile e la struttura (abbiamo visto come gli excursus nascano da Cesare). Il modello stilistico per il De vita et de moribus Iulii Agricolae è certamente quello di Sallustio (su cui modella il discorso di Calgaco): uso di arcaismi, ellissi verbali ed infiniti storici.

Altrettanto importante è il passo dedicato alla morte del generale Agricola:

Finis vitae eius nobis luctuosus, amicis tristis, extraneis etiam ignotisque non sine cura fuit; vulgus quoque et hic aliud agens populus et ventitavere ad domum et per fora et circulos locuti sunt; nec quisquam audita morte Agricolae aut laetatus est aut statim oblitus. Augebat miserationem constans rumor veneno interceptum; nobis nihil comperti, ut adfirmare ausim. Ceterum per omnem valetudinem eius crebrius quam ex more principatus per nuntios visentis et libertorum primi et medicorum intimi venere, sive cura illud sive inquisitio erat. Supremo quidem die momenta ipsa deficientis per dispositos cursores nuntiata constabat, nullo credente sic adcelerari quae tristis audiret. Speciem tamen doloris animi vultu prae se tulit, securus iam odii et qui facilius dissimularet gaudium quam metum. Satis constabat lecto testamento Agricolae, quo coheredem optimae uxori et piissimae filiae Domitianum scripsit, laetatum eum velut honore iudicioque. Tam caeca et corrupta mens adsiduis adulationibus erat, ut nesciret a bono patre non scribi heredem nisi malum principem.

La fine della sua vita fu luttuosa per noi, triste per gli amici, anche per estranei e sconosciuti non senza rammarico; anche la folla e questo popolo che si occupa di altro vennero continuamente alla sua casa e ne parlarono nelle piazze e nei crocchi; e nessuno, sentita la morte di Agricola, si rallegrò o se ne dimenticò subito. Accresceva la commiserazione la diceria insistente che fosse stato ucciso con il veleno; nulla di accertato da parte mia per osare affermarlo. Peraltro, per tutta la sua malattia, più frequentemente della consuetudine imperiale di far visita per mezzo di messaggeri, vennero i principali liberti e i medici più fidati, sia che quello fosse preoccupazione o controllo. Certo, nell’ultimo giorno, risultava che i momenti stessi della sua agonia vennero riferiti da apposite staffette, mentre nessuno credeva che si accelerassero così cose da udire con tristezza. Tuttavia ostentò sul volto l’apparenza del dolore dell’animo, ormai tranquillizzato nel suo odio e per dissimulare più facilmente la gioia che la paura. Risultava a sufficienza che, letto il testamento di Agricola, in cui nominò Domiziano coerede insieme all’ottima moglie e alla devotissima figlia, egli si rallegrò come prova d’onore e di stima. Tanto cieca e corrotta era la sua mente dalle continue adulazioni da ignorare che da un buon padre non si può nominare erede se non un pessimo imperatore.

Siamo nella parte finale del libello: Tacito con un racconto secco ed essenziale non ci dice che il suocero fosse stato ucciso dall’Imperatore, ma lo suggerisce, sottolineando l’arrivo di medici, liberti di Domiziano, per accertarsi della sua fine. Può sorprendere che Agricola abbia lasciato parte del suo patrimonio all’Imperatore, ma era pratica comune per i Romani ricchi, affinché, con una scusa qualsiasi, non ne venissero privati da qualsiasi accusa mossa loro.

De origine et situ Germanorum

Contemporaneo all’Agricola è il De origine et situ Germanorum o più semplicemente Germania, piccolo libro composto da 42 capitoli, che viene considerato come il primo esempio di un’opera interamente etnografica a noi giunta. Certo non mancano esempi di scrittura etnografica negli excursus, come ad esempio nel De bello gallico di Cesare o nelle Historiae, a noi non giunte, di Sallustio. Ma tali esempi sono vere e proprie digressioni all’interno di opere altre, come quelle storiche. Tacito, invece, scrive un’opera che ha quell’impostazione, richiamandosi, molto probabilmente a testi simili di Seneca sull’India e sull’Egitto. Più che riportare in modo diretto il luogo che si accinge a descrivere, Tacito si serve di fonti letterarie, che riprende e abbellisce in modo stilistico. Tale riferimento è già chiaro nell’incipit:

I CONFINI DELLA GERMANIA
(I)

Germania omnis a Gallis Raetisque et Pannoniis Rheno et Danuvio fluminibus, a Sarmatis Dacisque mutuo metu aut montibus separatur: cetera Oceanus ambit, latos sinus et insularum immensa spatia complectens, nuper cognitis quibusdam gentibus ac regibus quos bellum aperuit. Rhenus, Raeticarum Alpium inaccesso ac precipiti vertice ortus, modico flexu in occidentem versus septentrionali Oceano miscetur. Danuvius molli et clementer edito montis Abnobae iugo effusus, plures populos adit, donec in Ponticum mare sex meatibus erumpat; septimum os paludibus hauritur.

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La Germania ai tempi di Tacito

La Germania, nel suo complesso è separata dai Galli, dai Reti e dai Pannoni dai fiumi Reno e Danubio, dai Sarmati e dai Daci dalla reciproca paura o dai monti: l’Oceano circonda le altre parti, abbracciando vaste penisole ed immensi spazi delle isole, di cui da non molto conosciuti genti o re, che la guerra ha svelato. Il Reno, nato dalla cima inaccessibile e precipitosa delle Alpi Retiche, volto verso occidente con una leggera curvatura, si mescola al mare del nord. Il Danubio, nato da una lieve cima di dolce pendio del monte Abnoba, tocca più popoli, finché erompe nel mare del Ponto per sei canali, il settimo si consuma nelle paludi.

In esso lo stile e i termini richiamano fortemente l’incipit cesariano (si pensi al Gallia est omnis…). Ma qual è il fine di quest’opera? Si è sempre creduto che egli volesse sottolineare la fortezza e l’integrità, seppur non civilizzata, delle popolazioni germaniche, di fronte alla decadenza dei costumi della ricca e troppo civile società romana.

FIEREZZA E PUREZZA DEI GERMANI
(IV)

Ipse eorum opinionibus accedo, qui Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos propriam et sinceram et tantum sui similem gentem exstitisse arbitrantur. Unde habitus quoque corporum, tamquam in tanto hominum numero, idem omnibus: truces et caerulei oculi, rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum valida: laboris atque operum non eadem patientia, minimeque sitim aestumque tolerare, frigora atque inediam caelo solove adsueverunt.

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Immagine di un guerriero germanico

Personalmente inclino verso l’opinione di quanti ritengono che i popoli della Germania non siano contaminati da nessun incrocio con gente di altra stirpe e che si siano mantenuti una razza a sé, indipendente, con caratteri propri. Per questo anche il tipo fisico, benché così numerosa sia la popolazione, è eguale in tutti: occhi azzurri d’intensa fierezza, chiome rossicce, corporature gigantesche, adatte solo all’assalto. Non altrettanta è la resistenza alla fatica e al lavoro; incapaci di sopportare la sete e il caldo, ma abituati al freddo e alla fame dal clima e dalla povertà del suolo.

Infatti, in questo breve passo, Tacito sembra mettere in rilievo due aspetti fondamentali:

  • La purezza della razza;
  • La forza determinata dalle avverse condizioni geografiche.

Per quanto riguarda il primo aspetto è chiara l’intenzione tacitiana di mettere in rilievo come l’essere “non contaminati” rappresenti un elemento capace di dar loro coesione valoriale e quindi forza nella loro determinazione di riaffermare le proprie esigenze, dall’altra la ripresa del topos storiografico di mettere in relazione corpo-ambiente, che qui egli utilizza per ribadire la purezza della razza germanica.

Ma quello che maggiormente emerge è che, dietro lo sguardo etnografico, si nasconda quello politico: egli è ben consapevole che un allargamento dell’Impero potesse avvenire solamente da quella parte e non nel ben più pericoloso Oriente. Tuttavia si rende anche conto della necessità di prevenire spedizioni da parte di loro (infatti Traiano aveva già lì spostato le sue truppe), perché alla loro rozzezza, ma che si potrebbe anche intendere come forza incontaminata, Roma, con l’andar del tempo non saprebbe più rispondere.

Edizione del 1658

I capolavori di Tacito sono tuttavia rappresentati dai due libri storici: Historiae ed Annales. Non ci sono giunti integri, pertanto vi è una ricca discussione critica riguardo l’ipotesi della loro lunghezza che, secondo la testimonianza rilasciataci da San Gerolamo, fosse di trenta libri; inoltre la trasmissione manoscritta ci ha trasmetto insieme le due opere secondo una versione cronologica capovolgendone la composizione. Infine, considerando per buona la testimonianza del religioso, si è ipotizzato che le due opere fossero le Historiae di 12 e gli Annales di 18 libri.

Historiae

Le Historiae costituiscono il primo grande capolavoro tacitiano. Il testo ci è giunto mutilo, possediamo soltanto i primi quattro libri e 26 capitoli del V. Non sappiamo quanto potesse essere lunga: ipotizziamo, sulla base della tradizione manoscritta 14 o 12 libri. Tali ipotesi può essere avvalorata dal fatto che San Gerolamo ci parla di un unico testo in trenta libri in cui gli Annales (che raccontava episodi precedenti) precedevano le Historiae. Cominciando quest’ultimo al capitolo sedicesimo si è giunti all’ipotesi su formulata.

L’opera, che venne strutturata seguendo la tradizione annalistica (anno per anno), doveva raccontarci gli avvenimenti successi a Roma dal 69, anno della lotta fra i quattro imperatori ed il 96, anno della morte di Domiziano. Vediamone la struttura:

Il I libro si apre con il breve regno di Galba. In esso troviamo il Proemio in cui Tacito vuole anche raccontarci come egli abbia iniziato la sua attività politica:
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Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano

NEQUE AMORE SINE ODIO
(I)

Mihi Galba Otho Vitellius nec beneficio nec iniuria cogniti. Dignitatem nostram a Vespasiano inchoatam, a Tito auctam, a Domitiano longius provectam non abnuerim: sed incorruptam fidem professis neque amore quisquam et sine odio dicendus est. Quod si vita suppeditet, principatum divi Nervae et imperium Traiani, uberiorem securioremque materiam, senectuti seposui, rara temporum felicitate ubi sentire quae velis et quae sentias dicere licet.

Quanto a me non ho conosciuto né Galba, né Otone, né Vitellio, quindi né benefici, né amore. La mia carriera politica ha avuto inizio con Vespasiano, si è svolta con Tito, ha raggiunto il suo vertice (né io lo nego) con Domiziano: ma chi professa incorrotta fedeltà al vero, di ognuno deve parlare senza amore e senza odio. Alla mia vecchiaia riservo, se la vita mi basterà, la storia del principato del divo Nerva e di Traiano: più ricco tema, e men periglioso a trattarsi per la singolare felicità del tempo presente in cui è dato pensare come piace e dire ciò che si pensa.

E’ l’ultima parte del Proemio che è stata qui riportata, che ci offre il destro per cogliere da una parte elementi, seppur indiretti della sua biografia, iniziata nell’età flaviana, l’avvio della sua attività sotto il principato adottivo, ma soprattutto il fatto, poi negato, di continuare la storia con il racconto del periodo di Nerva e Traiano. Assistiamo qui al duplice tentativo sia di giustificare se stesso sia di rivendicare l’oggettività con la quale vuole descrivere la storia. Se per la prima basta riandare a ciò che nell’Agricola ha detto del suocero, ben più difficile spiegare la seconda, dove l’oggettività a volte è piegata a giudizi non proprio positivi sugli imperatori, incapaci nel difficile compito di guidare l’impero.

In seguito ci viene raccontata la sua fine da parte di Otone e la sua proclamazione. Nel II assistiamo all’acclamazione da parte di Vitellio delle sue truppe, mentre Vespasiano e Tito si trovano in Giudea per domare la rivolta ebraica. Vi è la guerra aperta tra Vitellio e Otone. Quest’ultimo, sconfitto a Cremona, si toglie la vita. Il vincitore, quindi si dirige a Roma. Nel III assistiamo alla morte di Vitellio trucidato a Roma, mentre il IV vedrà infine l’arrivo nelle capitale di Vespasiano.

L’ultimo che possediamo, il V, si soffermerà invece su suo figlio, Tito. Alla narrazione della sua preparazione bellica, farà seguito una digressione sugli Ebrei.

Il modo attraverso cui Tacito sembra avvicinarsi a tale periodo sembra rispondere all’esigenza di cogliere, in un passato così recente, l’errore che ha portato dapprima Roma nel caos (l’anno dei quattro imperatori) e come, nel periodo successivo, quello di Nerva, ciò sia stato evitato:

GALBA A PISONE
(I, 16 – 1)

Si immensum imperii corpus stare ac librari sine rectore posset, dignus eram a quo res publica inciperet: nunc eo necessitatis iam pridem ventum est, ut nec mea senectus conferre plus populo Romano possit quam bonum successorem, nec tua plus iuventa quam bonum principem. Sub Tiberio et Gaio et Claudio unius familiae quasi hereditas fuimus: loco libertatis erit quod eligi coepimus; et finita Iuliorum Claudiorumque domo optimum quemque adoptio inveniet.

Se l’immensa mole dell’impero potesse reggersi e bilanciarsi senza una guida, sarei degno di ridare inizio alla repubblica; ma la realtà, e non da oggi, è così compromessa che la mia vecchiaia altro non può dare al popolo romano che un buon successore, e non altro la tua giovinezza se non un buon principe. Sotto Tiberio, Gaio, Claudio noi Romani siamo stati, per così dire, proprietà ereditaria di una sola famiglia: sostituisca in qualche modo la libertà l’applicazione che noi facciamo del principio della libera scelta, sicché, finita la casa Giulia e Claudia toccherà all’adozione scegliere il più degno.

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Moneta romana raffigurante Galba

Infatti il regno di Nerva, senatore eletto a Roma dopo l’uccisione di Diomiziano era stato scevro dai pericoli di successione proprio perché aveva adottato come successore Traiano (non per niente la loro età prende il nome di Principato adottivo). Ma allora perché Galba non era riuscito, pur avendo adottato Pisone? Perché Galba era stato voluto da una minoranza aristocratica, non aveva sostegni che potessero puntellarlo:

et omnium consensu capax imperii nisi imperasset
secondo l’opinione di tutti degno dell’impero, se non avesse governato

Ma perché Tacito è così sferzante nei suoi confronti? Proprio perché Galba vuole mettere d’accordo ciò che non esiste più: egli vorrebbe essere ancora il garante del mos maiorum; ma questo è in contraddizione con l’impero. Non si può infatti adottare un buon uomo, ligio al dovere, integerrimo moralmente, ma inviso alle truppe e alla gente. Ben altra tempra aveva Nerva, e ben altre capacità politiche, se aveva ottenuto per Roma un periodo di pace e, adottando Traiano, aveva scelto un princeps capace e amato da tutti.

E’ nel IV che troviamo la giustificazione dell’impero, attraverso le parole di Petilio Ceriale, comandante di un grosso esercito di otto legioni, mandato da Vespasiano per sedare delle rivolte sorte nel territorio gallico. Tacito riporta il suo discorso rivolto ai capi gallici:

IL DISCORSO DI PETILIO CERIALE

Terram vestram ceterorumque Gallorum ingressi sunt duces imperatoresque Romani nulla cupidine, sed maioribus vestris invocantibus, quos discordiae usque ad exitium fatigabant, et acciti auxilio Germani sociis pariter atque hostibus servitutem imposuerant. Quot proeliis adversus Cimbros Teutonosque, quantis exercituum nostrorum laboribus quove eventu Germanica bella tractaverimus, satis clarum. Nec ideo Rhenum insedimus ut Italiam tueremur, sed ne quis alius Ariovistus regno Galliarum potiretur. An vos cariores Civili Batavisque et transrhenanis gentibus creditis quam maioribus eorum patres avique vestri fuerunt? Eadem semper causa Germanis transcendendi in Gallias, libido atque avaritia et mutandae sedis amor, ut relictis paludibus et solitudinibus suis fecundissimum hoc solum vosque ipsos possiderent: ceterum libertas et speciosa nomina praetexuntur; nec quisquam alienum servitium et dominationem sibi concupivit ut non eadem ista vocabula usurparet.

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Antonio Tempesta: Petilio Cerviale incontra i Bavari (1612)

Gli ufficiali e e i generali romani non sono entrati nella vostra terra o in quella degli altri Galli, per un loro desiderio personale, ma perché invocati dai vostri antenati, che le discordie continue avevano spinto all’estremo, e perché i Germani, da loro chiamati in aiuto, avevano imposto la stessa schaivitù agli alleati ed ai nemici. E’ ben noto quante volte abbiamo dovuto affrontare i Cimbri e Teutoni, e con quante fatiche per i nostri eserciti e con che succedersi di avvenimenti abbiamo condotto a termine le guerre in Germania. Non ci siamo stanziati nel Reno per difendere l’Italia, ma per impedire che un altro Ariovisto si impadronisca nel regno delle Gallie. Credete forse di essere più cari a Civile, ai Batavi ed alle genti Transrenane, di quanto i vostri padri lo furono ai loro antenati? I Germani hanno sempre le stesse ragioni per invadere le Gallie: un impulso irrazionale o l’avidità e il desiderio di cambiare sede e di impadronirsi di queste terre fertilissime e delle vostre persone, abbandonando le loro paludi e le loro terre inabitabili. E’ vero che, da parte loro, mettono avanti il discorso della libertà ad altre belle parole, ma non ci fu mai nessuno che, desideroso di ridurre gli altri in schiavitù e di imporre il il proprio dominio, non abbia abusato di questi termini.

Ci dice Tacito che è l’avidità che muove la storia, avidità che spinge qualsiasi popolazione o loro comandante a soggiogare gli altri e ciò avviene per un semplice motivo: nam neque quies gentium sine armis neque arma sine stipendiis neque stipendia sine tributis haberi queunt; cetera in communi sita sunt (I popoli, infatti, non possono vivere sicuri senza le armi, e non vi sono armi senza spese, e non si può far fronte alle spese senza tributi. Tutto il resto lo abbiamo in comune). Al di là di un discorso fatto da un generale romano che chiede alle popolazioni galliche di far fronte comune contro le possibili incursioni delle popolazioni germaniche, quello che qui interessa è la stringente capacità tacitiana di dare una legge politica attraverso un parallelismo sintattico che si conclude poi con la sentenza finale che dovrebbe convincere loro.

Ma l’opera, oltre che per questi motivi politici, conserva una fortissima dignità letteraria determinata da una ripresa, con grande capacità, dell’arte sallustiana del ritratto, e, per quella parte che ci è rimasta per la descrizione magistrale delle folle, sia esse in battaglia, sia in trepida attesa per un evento.

Annales

Terminate le Historiae. Tacito non rispettò l’impegno di scrivere dell’età sua, ma si rivolse ancora più indietro e, ricollegandosi a Livio, sembra volesse riprendere il filo da lui tessuto, iniziando la sua opera Ab excessu divi Augusti (Dalla morte del divino Augusto), richiamandosi, così, in modo esplicito all’Ab Urbe condita liviano. Di quest’opera, tuttavia, ci rimangono i primi quattro libri, più un esiguo frammento del quinto e, non integro, il sesto. Poi ci sono giunti l’XI (solo 38 capitoli) ed interi dal XII al XVI. Vediamone la struttura:

I libri I-IV, il frammento del V e parte del VI contengono, dopo un breve riassunto dell’impero augusteo, l’età di Tiberio. Gli ultimi, dall’XI e il XVI gli anni riguardanti Claudio e Nerone; da come si intuisce manca forse la parte più interessante che la penna di Tacito avesse vergato, quella riferita al folle Catilina, il cui ritratto forse sarebbe stato interessantissimo sia sul piano letterario che storico.

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L’inizio dell’opera in un manoscritto

INTRODUZIONE

Urbem Romam a principio reges habere; libertatem et consulatum L. Brutus instituit. Dictaturae ad tempus sumebantur; neque decemviralis potestas ultra biennium, neque tribunorum militum consulare ius diu valuit. Non Cinnae, non Sullae longa dominatio; et Pompei Crassique potentia cito in Caesarem, Lepidi atque Antonii arma in Augustum cessere, qui cuncta discordiis civilibus fessa nomine principis sub imperium accepit. Sed veteris populi Romani prospera vel adversa claris scriptoribus memorata sunt; temporibusque Augusti dicendis non defuere decora ingenia, donec gliscente adulatione deterrentur. Tiberii Gaique et Claudii ac Neronis res, florentibus ipsis, ob metum falsae, postquam occiderant, recentibus odiis compositae sunt. Inde consilium mihi pauca de Augusto et extrema tradere, mox Tiberii principatum et cetera, sine ira et studio, quorum causas procul habeo.

I re tennero per primi il governo di Roma. Lucio Bruto fondò il regime di li-bertà e il consolato. La dittatura era temporanea: il potere dei decemviri non durava oltre un biennio, né fu a lungo in vigore il potere consolare dei tribuni militari. Né la tirannia di Silla né quella di Cinna durarono a lungo; la potenza di Pompeo e quella di Crasso in breve si raccolsero nelle mani di Cesare, e gli eserciti di Lepido e di Antonio passarono ad Augusto, il quale ridusse sotto il suo dominio col nome di principe lo Stato stanco e disfatto dalle lotte civili. Ora le fortune o le avversità del popolo Romano antico furono narrate da storici illustri, e chiari ingegni non mancarono di descrivere l’età di Augusto, fin che ne furono distolti dalla sempre crescente necessità di adulare. Le imprese di Tiberio, di Caio, di Claudio e di Nerone furono raccontate falsamente, per paura mentre essi regnavano, per influssi di odi ancor vivi dopo che furono morti. Di qui il mio disegno di riferire pochi fatti intorno ad Augusto e precisamente gli ultimi della sua vita; subito dopo mi propongo di narrare la dominazione di Tiberio e le vicende che ne seguirono, senza avversione né simpatia, essendo lontane da me le cause dell’una e dell’altra.

La lettura di questo passo ci offre una visione che, secondo l’autore, vuole essere neutra, in quanto, ormai, lontano dalle cause che hanno prodotto i “fatti” avvenuti nell’età giulio-claudia, può guardare ad essi sine ira et studio (senza rabbia né approvazione). Eppure, a voler osservare con maggiore attenzione, attraverso un sapientissimo climax l’autore sembra condurci verso il baratro del dispotismo.

Tale dispotismo sembra incarnarsi proprio nel primo successore di Augusto, Tiberio, verso cui il servilismo del senato, nonché la doppiezza dello stesso, ruotano verso un abisso storico cui Tacito guarda:

TIBERIO E IL SENATO
(I, 11)

Versae inde ad Tiberium preces. Et ille varie disserebat de magnitudine imperii sua modestia. Solam divi Augusti mentem tantae molis capacem: se in partem curarum ab illo vocatum experiendo didicisse quam arduum, quam subiectum fortunae regendi cuncta onus. Proinde in civitate tot inlustribus viris subnixa non ad unum omnia deferrent: plures facilius munia rei publicae sociatis laboribus exsecuturos. Plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat; Tiberioque etiam in rebus quas non occuleret, seu natura sive adsuetudine, suspensa semper et obscura verba: tunc vero nitenti ut sensus suos penitus abderet, in incertum et ambiguum magis implicabantur. At patres, quibus unus metus si intellegere viderentur, in questus lacrimas vota effundi; ad deos, ad effigiem Augusti, ad genua ipsius manus tendere, cum proferri libellum recitarique iussit.

Furono dunque rivolte delle preghiere a Tiberio. Ed egli, passando da un discorso all’altro, discuteva di quanto l’impero fosse vasto e della sua modestia. Solo la mente del divo Augusto poteva sopportare un peso così grande: egli aveva imparato, nello sperimentare una parte delle preoccupazioni dopo essere stato nominato da lui, quanto fosse gravoso e quanto soggetto al caso tutto il peso del governare. Quindi, in una città ricca di così tanti uomini illustri, non conferissero tutti i poteri ad una persona: un gruppo di più persone, facendo fronte comune, avrebbe ricoperto con più facilità le cariche statali. In un discorso del genere prevaleva la dignità più che la convinzione; e Tiberio usava – per sua natura o che vi fosse abituato – anche quando si trattava di discorsi che non voleva tenere nascosti, parole sempre oscure ed indecise: allora più si sforzava di nascondere nel profondo dell’animo i suoi pensieri, e più le sue parole si contorcevano nell’incertezza e nell’ambiguità. Ma i senatori, la cui unica preoccupazione era far finta di aver capito, proruppero in gemiti, lacrime e preghiere. Tendevano le mani agli dei, all’effigie di Augusto, alle sue ginocchia, quand’ecco che egli ordinò che si portasse e si leggesse il libello.

Vediamo già da subito come per Tacito il problema sia politico e riguarda il rapporto tra senato e imperatore: ambedue appaiono nel loro disfacimento: il senato è infatti disegnato sotto l’egida del più bieco servilismo, ma il vero capolavoro è il ritratto di Tiberio giocato tutto sulla doppiezza, sul suo predicare e sul suo pensare nascostamente, come fossero degli a parte teatrali, dando tragicità, certamente negativa al personaggio.

Ma tale giudizio negativo viene esacerbato con l’avvento di Nerone. I libri XIII fino al XVI, dove l’opera s’interrompe sono dedicati a lui e contengono forse le pagine più famose dello storico: l’incendio di Roma, l’uccisione di Britannico, il matricidio, la repressione con la morte di Seneca e Petronio.

Il processo involutivo dell’imperatore romano, il suo degenerare verso la “pazzia” ha la prima avvisaglia nell’ossessione (accresciuta dal sentimento di gelosia) quando decide di uccidere il fratellastro, Britannico:

LA MORTE DI BRITANNICO
(XIV, 16)

Mos habebatur principum liberos cum ceteris idem aetatis nobilibus sedentes vesci in adspectu propinquorum propria et parciore mensa. Illic epulante Britannico, quia cibos potusque eius delectus ex ministris gustu explorabat, ne omitteretur institutum aut utriusque morte proderetur scelus, talis dolus repertus est. Innoxia adhuc ac praecalida et libata gustu potio traditur Britannico; dein, postquam fervore aspernabatur, frigida in aqua adfunditur venenum, quod ita cunctos eius artus pervasit, ut vox pariter et spiritus [eius] raperentur. Trepidatur a circumsedentibus, diffugiunt imprudentes: at quibus altior intellectus, resistunt defixi et Neronem intuentes. Ille ut erat reclinis et nescio similis, solitum ita ait per comitialem morbum, quo prima ab infantia adflictaretur Britannicus, et redituros paulatim visus sensusque. At Agrippina[e] is pavor, ea consternatio mentis, quamvis vultu premeretur, emicuit, ut perinde ignaram fuisse [quam] Octaviam sororem Britannici constiterit: quippe sibi supremum auxilium ereptum et parricidii exemplum intellegebat. Octavia quoque, quamvis rudibus annis, dolorem caritatem omnes adfectus abscondere didicerat. Ita post breve silentium repetita convivii laetitia.

Era costume che i figli dei principi sedessero a mensa coi coetanei delle famiglie nobili, sotto gli occhi dei genitori ad una tavola separata e imbandita con maggior sobrietà. Qui sedeva Britannico e poiché v’era costume che un servo assaggiasse in precedenza i cibi  e bevande, per non sospendere tale consuetudine e per rivelare la morte di ambedue il delitto, si ricorse ad un trucco. Si fece portare a Britannico una bevanda innocua ma caldissima e già in precedenza assaggiata; avendola egli respinta per l’eccessivo calore, si versò allora in quella insieme con dell’acqua ghiacciata il veleno, che si diffuse per tutte le membra così rapidamente che in uno stesso momento vennero meno a Britannico la parola e la vita. I circostanti furono presi da spavento; coloro che non sapevano nulla si dileguarono, coloro, invece, che vedevano più chiaro rimasero immobili guardando fissi a Nerone.  Questi, standosene sdraiato con l’aria di nulla sapere, andava dicendo che si trattava del solito attacco di epilessia, di cui fin da bambino Britannico soffriva e che a poco a poco i sensi sarebbero tornati. In Agrippina, invece, il terrore e la costernazione si dipinsero con tale violenza sul volto, per quanto ella si sforzasse di dissimularli, che fu chiaro che ella ignorava ogni cosa, quanto Ottavia, sorella di Britannico. Con quel delitto Agrippina si vedeva strappare l’ultima carta nel gioco ed in esso vedeva un presagio del matricidio. Anche Ottavia, per quanto ancora inesperta per l’età, aveva imparato a dissimulare il dolore, l’affettuosa pietà, ogni sentimento dell’animo. Così, interrotta da un breve silenzio, continuò la gioia del convito.

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Giovanni Muzzioli: Il funerale di Britannico (1988)

E’ da una di queste, e sono molte, pagine di Tacito che capiamo la grandezza della scrittura dello storico romano. La descrizione è in primo piano, tavole imbandite separate tra gli adulti e i bambini. L’atto del veneficio, descritto da una consecutiva che sottolinea l’effetto del veleno. Quindi la scena si sposta a coloro che stanno attorno, per restringersi, zumando sui due protagonisti: la “falsa” indifferenza di Nerone ed il terrore di Agrippina per quel figlio che mostra già di essergli indipendente. Certamente tacito non lascia nulla al caso e il lemma parricidium (uccisione di un parens, quindi di un genitore), carica il lettore di attesa, che già sa che una delle più parti più intense sarà, appunto, l’uccisione della madre da parte del figlio.

Ma più famosa, ricca di notazioni “psicologiche”, è certamente il passo che descrive l’uccisione di Agrippina. La vulgata ci dice che Nerone vuole liberarsi della madre per la sua disapprovazione dell’amore del figlio verso Poppea, ma le motivazioni possono essere più politiche, vista l’ingerenza e il ricatto cui lo sottopone. Ma il gesto è pericoloso: Agrippina è ancora potente ed è amata dai militari (sorella di Germanico, fra gli uomini più venerati dai suoi soldati). Ad aiutarlo ci pensa un suo liberto, Aniceto. Il primo fallimento del piano, obbliga Nerone ad affrettare la morte della genitrice, prima che la situazione precipiti:

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Luca Ferrari: Nerone davanti al corpo di Agrippina

LA MORTE DI AGRIPPINA
(XIV, 8)

Interim, vulgato Agrippinae pericolo, quasi casu evenisset, ut quisque acceperat, decurrere ad litus. Hi molium obiectus, hi proximas scaphas scandere; alii, quantum corpus sinebat, vadere in mare; quidam manus protendere; questibus, votis, clamore diversa rogitantium aut incerta respondentium omnis ora compleri; adfluere ingens multitudo cum luminibus, atque, ubi incolumem esse pernotuit, ut ad gratandum sese expedire, donec aspectu armati et minitantis agminis deiecti sunt. Anicetus villam statione circumdat, refractaque ianua, obvios servorum abripit, donec ad fores cubicoli veniret; cui pauci adstabant, ceteris terrore inrumpentium exterritis. Cubicolo modicum lumen inerat et ancillarum una, magis ac magis anxia Agrippina, quod nemo a filio ac ne Agermus quidam: aliam fore laetae rei faciem; nunc solitudinem ac repentinos strepitus et extremi mali indicia. Abeunte dehinc ancilla, «Tu quoque me deseris» prolocuta, respicit Anicetum, trierarcho Herculeio et Obarito, centurione classiario, comitatum; ac, si ad visendum venisset, refotam nuntiaret, sin facinus patraturus, nihil se de filio credere: non imperatum parricidium. Circumsistunt lectum percussores, et prior trierarchus fusti caput eius adflixit; iam in mortem centurioni ferrum destringenti protendens uterum, «Ventrem feri» exclamavit, multisque vulneribus confecta est.

Frattanto si era sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, che si credeva del tutto accidentale, e ognuno si precipitava alla spiaggia a mano a mano che apprendeva la notizia; alcuni salivano sui moli, altri sulle barche che si trovavano a portata di mano; chi si inoltrava nel mare fin dove per la sua statura riusciva a toccare il fondo, chi tendeva le braccia; tutta la spiaggia era piena di lamenti, di invocazioni, di un vocio confuso in cui si intrecciavano domande contrastanti e risposte incerte: si andava radunando una folla immensa con le torce accese, quando giunse la notizia che Agrippina era salva, e tutti allora si avviarono per andare a congratularsi con lei, ma la vista di una minacciosa schiera di armati li costrinse a disperdersi. Aniceto circondò la villa con un cordone di uomini, quindi, sfondata la porta, fece trascinare via tutti i servi che gli si facevano incontro finché giunse davanti alla porta della stanza da letto: qui stava di guardia uno sparuto gruppo di domestici, perché tutti gli altri si erano dileguati atterriti dall’irruzione dei soldati. Nella camera, illuminata da una luce fioca, si trovava una sola ancella, mentre Agrippina era sempre più in ansia perché non arrivava nessun messo da parte del figlio e non ritornava neppure Agermo: le cose sarebbero state ben diverse, all’intorno, se gli eventi avessero preso una piega favorevole; ora invece non vi era che solitudine, un silenzio rotto da grida improvvise e tutti gli indizi di una irrimediabile sciagura. Poiché l’ancella stava per andarsene, Agrippina si volse verso di lei per dirle: «Anche tu mi abbandoni?», e allora vide Aniceto accompagnato dal trierarco Erculeio e dal centurione navale Obarito. E subito gli disse che, se era venuto per farle visita, poteva riferire a Nerone che si era ristabilita; se invece era lì per compiere un delitto, ella non poteva credere che ubbidisse a un ordine del figlio: era certa che egli non aveva comandato il matricidio. I sicari circondarono il letto e il trierarca* per primo colpì al capo con un bastone; quindi il centurione impugnò la spada per finirla, e allora Agrippina, protendendo il ventre, esclamò: «Colpisci qui», e spirò trafitta da più colpi.
*comandante di una trireme.

La descrizione che fa Tacito avvicina la figura di Agrippina ad una eroina tragica; dapprima ad essere in primo piano è la folla, la cui volubilità è messa in rilievo in modo quasi sarcastico dallo storico latino, dapprima intorno alla madre dell’imperatore e poi in una fuga repentina alla vista dei soldati. L’eroina rimane sola, quando anche l’ancella l’abbandona (ricalca l’espressione riferita a Cesare: Tu quoque) per poi offrire il petto all’assassino; ma muore anche come madre: non può credere che sia stato il figlio ad ordinarne l’uccisione.

Tutto diverso è l’atteggiamento di Nerone:

SENSI DI COLPA DI NERONE
(XIV, 10)

Sed a Caesare perfecto demum scelere magnitudo eius intellecta est. Reliquo noctis modo per silentium defixus, saepius pavore exsurgens et mentis inops lucem opperiebatur tamquam exitium adlaturam. atque eum auctore Burro prima centurionum tribunorumque adulatio ad spem firmavit, prensantium manum gratantiumque, quod discrimen improvisum et matris facinus evasisset. amici dehinc adire templa, et coepto exemplo proxima Campaniae municipia victimis et legationibus laetitiam testari: ipse diversa simulatione maestus et quasi incolumitati suae infensus ac morti parentis inlacrimans. quia tamen non, ut hominum vultus, ita locorum facies mutantur, obversabaturque maris illius et litorum gravis adspectus (et erant qui crederent sonitum tubae collibus circum editis planctusque tumulo matris audiri), Neapolim concessit litterasque ad senatum misit, quarum summa erat repertum cum ferro percussorem Agermum, ex intimis Agrippinae libertis, et luisse eam poenam conscientia, qua[si] scelus paravisset.

Cesare comprese solo a delitto compiuto l’enormità del misfatto. Per il resto della notte, ora sprofondato in un silenzio di pietra, più spesso in preda a soprassalti di paura e fuori di sé, attendeva la luce del giorno, quasi che dovesse portare la sua rovina. Gli ridiede speranza il primo atto di adulazione, quello, suggerito da Burro, dei centurioni e dei tribuni, che gli prendevano le mani e si felicitavano con lui, per essere scampato all’imprevisto pericolo e all’attentato della madre. Gli amici poi corsero ai templi e, sul loro esempio, le città più vicine della Campania manifestavano, con l’offerta di vittime e l’invio di delegazioni, la loro gioia: ed egli, con rovesciata finzione, si presentava afflitto, quasi insofferente della propria salvezza e in pianto per la morte della madre. Ma poiché non muta, come il volto degli uomini, l’aspetto dei luoghi, e poiché lo ossessionava la vista opprimente di quel mare e della spiaggia (e c’era chi credeva che si udisse, sulle alture circostanti, un suono di tromba e lamenti dal luogo in cui era sepolta la madre), si ritirò a Napoli e inviò un messaggio al senato, la cui sostanza era che avevano scoperto, con un’arma, il sicario Agermo, uno dei liberti più vicini ad Agrippina, e che lei, per rimorso, come se avesse preparato il delitto, aveva scontato quella colpa.

L’enormità del gesto pesa come un macigno nell’animo dell’imperatore, che lo sconta con atteggiamenti incoerenti, quasi infantili. A sollevarlo da tale situazione ci pensano gli adulatori e qui riesce, vinta la paura, a mistificare una maggiore tranquillità con il pianto per la madre. l’importante è uscirne indenne ed il modo è quello tipico di ogni tirannia: incolpare un innocente del proprio misfatto, facendo così della madre un’ipotetica assassina del figlio per mano di un sicario, cui lo stesso figlio non poteva a sua volta che punirla per lesa maestà.

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Il rimorso di Nerone dopo l’assassinio di sua madre – J. W. Waterhouse

Sin dal ritratto del primo imperatore fino alla efferatezze dell’ultimo della dinasta Giulio-Claudia, capiamo qual è il fine di quest’opera. Se è vero che egli l’abbia scritta e pubblicata nell’età che vede il passaggio di Traiano ad Adriano, è facile poter cogliere delle analogie con la storia del primo Impero. Infatti Traiano muore l’8 agosto del 117 in Cilicia, La notizia viene data l’11. Pochi giorni per far girare la voce (rumor, cui Tacito assegna tanta importanza) che egli aveva adottato, come successore, Adriano. Pur essendo l’unico suo parente per diritto designabile, sappiamo pure che non provava nessuna stima nei suoi confronti, preferendogli Prisco, a cui l’imperatore sembrava pensare da tempo. A tessere la trama pare vi sia stata Plotina, moglie di Traiano, fortemente legata ad Adriano. Se questa è la storia, non si può vedere, nel rapporto tra Claudio e Agrippina la stessa spinta di quest’ultima per nominare suo figlio Nerone? Ma tale modo d’agire, se fosse vero, non avrebbe influito anche sul pensiero di Tacito riguardo alla assoluta irrilevanza che il Senato, cui spettava il compito anche di consigliare o approvare, aveva avuto nell’elezione e quindi un pessimismo più forte sull’agire dell’uomo e sui suoi spazi di libertà? Tutto questo agisce nell’opera tanto da far apparire gli Annales come una vera e propria “storiografia tragica”. Egli infatti si muove tra personaggi la cui sete di potere li porta necessariamente a vivere in modo tragico. Ma questo non può essere svincolato dalla realtà. La storia di ieri va letta con l’occhio del presente ed ecco allora il paragone tra Tiberio e Domiziano, che, come il primo, nell’ultimo periodo di regno, circondato dal sospetto e dalla paura, aveva incrementato fortemente le uccisioni degli avversari politici per lesa maestà. Ed è proprio quando Tacito descrive personaggi dal fascino sinistro e ambiguo, che dà il meglio di sé. Non per niente la parte meno felice che noi possediamo è quella riguardante Claudio (mancandoci, come si è detto, quella su Caligola), ma torna a giganteggiare quando parla di Nerone. Certo forse non è proprio attendibile sul piano storico (non lo giustifica affatto); ma è proprio nella statura di questo imperatore, un intellettuale malvagio, ellenizzante, a spingerlo per farlo diventare, a sua volta un eroe tragico, circondato da altri grandi attori, tutti della stessa statura, come Messalina o Agrippina, partecipi della grande tragedia della storia.

QUINTO ORAZIO FLACCO

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Quinto Orazio Flacco

Se Virgilio, grazie all’epica, potrà fregiarsi del titolo di padre della civiltà latina, Quinto Orazio Flacco può invece considerarsi il classico per eccellenza della letteratura romana e non soltanto grazie alla lirica, ma soprattutto per il modo in cui egli seppe, attraverso essa, guardare alla realtà del suo periodo, la Roma che va dall’affermazione all’apogeo di Augusto.

Biografia
 Orazio parla molto di sé nella sua opera, anche se le informazioni maggiori le ricaviamo dal De poëtis di Svetonio.
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Venosa, la cosiddetta casa d’Orazio

Nasce l’8 dicembre del 65 a. C a Venosa, località militare posta tra l’Apulia e la Lucania. Il padre è un liberto e possiede qui una piccola proprietà. Ben presto la famiglia si trasferisce a Roma, dove il padre intraprende la carriera di coactor argentarius, cioè esattore delle imposte; tale attività gli permette di offrire al figlio la migliore educazione possibile. Orazio stesso ci racconta come sin da giovane fosse costretto ad imparare i grandi dell’età arcaica dal plagosus (manesco) Orbilio. Nel 44 a. C. decide, come gran parte della buona gioventù di allora, di recarsi ad Atene per perfezionare le sue conoscenze, ma si trova invischiato nella lotta che i triumviri Antonio, Lepido ed Ottaviano stanno conducendo contro il cesaricida Bruto. Ardente di spirito libertario, il giovane Orazio sceglie di stare con quest’ultimo e combatte, come ufficiale, nella battaglia di Filippi (42 a.C.). Orazio, in una delle sue Odi (ΙΙ, 7) parla di questa battaglia e ci rammenta come egli, allo stesso modo di Archiloco

«ἀσπίδι μὲν Σαΐων τις ἀγάλλεται, ἣν παρὰ θάμνωι,
ἔντος ἀμώμητον, κάλλιπον οὐκ ἐθέλων·
αὐτὸν δ’ ἐξεσάωσα. τί μοι μέλει ἀσπὶς ἐκείνη;
ἐρρέτω· ἐξαῦτις κτήσομαι οὐ κακίω.»

del mio scudo ora uno dei Sai si fa bello: presso un cespuglio abbandonai quell’arma perfetta a malincuore; ma salvai la vita: che m’importa di quello scudo. Vada alla malora: me ne procurerò un altro non peggiore

abbandona lo scudo e se la dà a gambe.

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Giorgio Esposito: la battaglia di Filippi (1993)

ODI
(II, 7 vv. 9-12)

Tecum Philippos et celerem fugam
sensi relicta non bene parmula,
cum fracta virtus et minaces
turpe solum tetigere mento;

Con te provai Filippi e la vergogna
dello scudo gettato nella fuga,
quando vinti ma fieri
toccammo il suolo con il mento

 

Ritornato a Roma dalla battaglia di Filippi, trovandosi in ristrettezze economiche per aver perduto il fondo paterno, si riduce a fare lo scriba quaestorius, un lavoro burocratico non senza importanza. Durante questo periodo egli, con molta probabilità, inizia a scrivere e quindi, attraverso la sua prima produzione, viene a contatto con Varo e Virgilio. Saranno loro a presentarlo, per la prima volta nel 37 a. C., a Mecenate. Un incontro non facile, perché il nostro si dimostra impacciato; ma solo dopo nove mesi nasce una vera e forte amicizia che fa sì che Mecenate gli doni un piccolo fondo in Sabina.

E sicuramente Mecenate che lo avvicina ad Augusto, che gli mostra sempre un atteggiamento cordiale e di profondo rispetto per la sua ars.

Il resto della sua vita ci appare piuttosto oscuro: ma più che oscuro forse senza eventi degna di nota, se non per le opere che periodicamente lui pubblica e che lo rendono, già per gli intellettuali contemporanei e per lo stesso imperatore, un “classico”.

Infatti fu Augusto a fare di lui un poeta ufficiale, degno erede di quel Virgilio, morto nel 19, da lui tanto ammirato quanto il poeta mantovano abbia ammirato lui, quando gli commissiona il Carmen saeculare nel 17 a. C.

Orazio muore nell’8 a. C., dopo solo due mesi dall’amico Mecenate.

Opere
 
E’ difficile fare un discorso cronologico sulle opere di Orazio, in quanto egli lavora ai libri delle stesse in modo parallelo. Sarà pertanto dato qui, in modo schematico, il genere della produzione artistica del nostro:

opere a carattere satirico e moralistico: Satire (due libri) e l’Epistole (I libro);
opere a carattere teorico o di riflessione letteraria: l’Epistole (II libro) e l’Epistula ad Pisonem (o Ars poëtica);
opere a carattere giambico e lirico: Epòdi (o Iambi) e Carmina (o Odi) (IV libri)
opere a carattere celebrativo: Carmen saeculare.
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Una vecchia edizione delle Odi e degli epodi di Orazio

Epòdi
 
Ci dice Orazio in una delle Epistole:

I GIAMBI DI ORAZIO
(I, vv. 24-26)

… Parios ego primus iambos
ostendi Latio, numeros animosque secutus
Archilochi, non res et agentia verba Lycamben. 

Io per primo i giambi di Paro
portai nel Lazio, seguendo il ritmo e lo spirito
di Archiloco, non gli argomenti e le parole che perseguitavano Licambe

da cui si può arguire che gli Epòdi hanno, come concezione, una forte ascendenza letteraria. Inizia cioè quel topos del primus, che tanta parte ebbe nella cultura augustea.

Infatti, primo poeta latino, riprende i poeti greci Archiloco (VII sec. A. C.) ed Ipponatte (IV sec. A. C.), famosi per le loro invettive ed aggressività. Tuttavia Orazio ne prende subito le distanze: se infatti vuole imitarne il metro e lo spirito, non così gli argomenti.

Gli epòdi sono 17 componenti, in cui prevale il metro, appunto epodico (che indica in un distico, che il secondo verso è più breve del precedente). Il titolo oraziano era Iambi, ma, come già in Catullo, la titolazione preminente, datagli dai grammatici medievali, è di tipo metrico. Si pensa che essi siano stati composti tra il 41 e il 30, anno della loro pubblicazione (insieme al secondo libro delle Satire) e rappresentano, a livello contenutistico una certa varietà:

  • il 3, il 4, il 6 ed il 10 riprendono il tema dell’invettiva tipica del genere greco; il 3 è un divertissement (un’invettiva contro l’aglio che gli ha cucinato Mecenate) gli altri due si rivolgono più ad un “vizio” che a persone specifiche (al contrario dei giambografi greci), soltanto l’ultimo è rivolto a Mevio, cui viene augurato un naufragio:

AUGURIO DI CATTIVO VIAGGIO
(10)

Mala soluta navis exit alite
ferens olentem Mevium.
Ut horridis utrumque verberes latus,
Auster, memento fluctibus;
niger rudentis Eurus inverso mari
fractosque remos differat;
insurgat Aquilo, quantus altis montibus
frangit trementis ilices;
nec sidus atra nocte amicum adpareat,
qua tristis Orion cadit;
quietiore nec feratur aequore,
quam Graia victorum manus,
cum Pallas usto vertit iram ab Ilio
in impiam Aiacis ratem.
O quantus instat navitis sudor tuis
tibique pallor luteus,
et illa non virilis eiulatio
preces et aversum ad Iovem,
Ionius udo cum remugiens sinus
Noto carinam ruperit!
Opima quodsi praeda curvo litore
porrecta mergos iuverit,
libidinosus immolabitur caper
et agna Tempestatibus.
 

Con funesto presagio è salpata e va la nave
che porta il fetido Mevio.
Di sferzarne entrambi i fianchi con spaventose
ondate ricordati, Austro;
Euro nero sconvolgendo il mare ne possa le gomene
e i rami spezzati disperdere;
Aquilone si levi impetuoso come quando sugli alti monti
schianta i lecci tremanti;
e nessuna costellazione nella cupa notte brilli amica
là dove tramonta Orione tempestoso;
e su acque sia portato non più calme
di quelle che ebbe l’armata dei Greci vincitori,
quando Pallade dalle ceneri d’Ilio volse la sua ira
contro la nave empia di Aiace.
Oh quanto sudore attende i tuoi marinai,
e te pallore giallastro,
e quel tuo non virile piagnucolio,
e preghiere a Giove che non t’ascolta,
quando il mar Ionio mugghiando sotto le piovose raffiche
di Noto ti fracasserà la chiglia!
Se poi una preda succulenta sul lido ricurvo
lunga distesa pascerà gli smerghi,
un lascivo capro sarà da me immolato
con un’agnella alle Tempeste.

E’ questa l’unica invettiva rivolta contro una persona (sembra fosse un mediocre poeta), ma nulla ci rimanda ad un motivo, un’occasione che abbia spinto Orazio a rivolgergli l’augurio di un naufragio: guardando il modello archilocheo, ci viene qui da pensare che si tratti di un puro esercizio letterario, tanto più che è trattato secondo lo schema del propemtikòn (augurio di buon viaggio) completamente rovesciato.
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Nave d’epoca romana sommersa (dipinto)

  • l’8 ed il 12 sono rivolti a due “vecchie libidinose” che tentano di concupirlo. La loro bruttezza fisica è accentuata da una descrizione espressionistica;
  • il 5 ed il 17 descrivono invece la maga Canidia, contro le cui arti magiche il poeta si scaglia;
  • il 7 ed il 16 da una parte ed l’1 ed il 9 sono d’argomento civile: i primi due risalgono alla disfatta di Filippi (il 7 esprime il suo sdegno per la ripresa della guerra civile, il 16 invita i Romani ad andarsene nelle Isole Felici per sfuggire alla guerra); le seconde due in prossimità alla battaglia di Azio (la numero 1, che funge da dedica a Mecenate, in cui il poeta assicura fedeltà ad Ottaviano e la 9, mostrandosi in ansia, schernisce gli avversari e si prepara a brindare per la loro sconfitta;

LA FOLLIA DELLE GUERRE CIVILI
(7)
Quo, quo scelesti ruitis? aut cur dexteris
aptantur enses conditi?
Parumne campis atque Neptuno super
fusum est Latini sanguinis,
non ut superbas invidae Karthaginis
Romanus arces ureret,
intactus aut Britannus ut descenderet
sacra catenatus via,
sed ut secundum vota Parthorum sua
urbs haec periret dextera?
Neque hic lupis mos nec fuit leonibus
umquam nisi in dispar feris.
Furorne caecus an rapit vis acrior
an culpa? Responsum date!
Tacent et albus ora pallor inficit
sic est: acerba fata Romanos agunt
scelusque fraternae necis,
ut inmerentis fluxit in terram Remi
sacer nepotibus cruor

Dove, dove vi gettate voi, scellerati?
perché impugnate le spade in disarmo?
Forse non si è sparso sulla terra e sul mare
sangue latino a sufficienza?
e non perché i romani incendiassero in guerra
le rocche altere di Cartagine
o gli indomiti britanni in catene
scendessero per la Via Sacra,
ma perché, come sperano i parti, perisse
questa città di propria mano?
Non è costume questo di lupi o leoni,
feroci solo coi diversi.
Follia cieca vi travolge? forza invincibile
o colpa? Rispondete.
Tacciono, e un pallore scolora il loro volto,
la mente attonita, sgomenta.
Certo: un fato atroce perseguita i romani,
l’infamia di aver ucciso un fratello,
quando, a maledizione dei nipoti, il sangue
di Remo bagnò innocente la terra.

Ad osservare questo epodo sembra quasi che il lettore non riconosca nella voce del poeta quella pacatezza, giusta misura, quale la tradizione gli riconosce. Infatti le incalzanti interrogative, l’esempio pregnante dei lupi e dei leoni sembrano riferirsi maggiormente al sentimento dell’ira e dell’invettiva. E’ proprio dell’epodo tale stile. Difficile collocare tale passo: alcuni lo pensano come uno fra i primi quando, appena terminata la guerra di Filippi, doveva assistere alla ribellione di Perugia il pericolo con la rottura fra Ottaviano e Antonio. Certamente è il sentimento di pace che domina, vissuto più come aspirazione che realtà: per questo la poesia si apre e chiude ad anello sul termine scelesti/scelus quasi fosse destino il travaglio per i nipoti di Romolo.

  • l’11, il 14 e il 15 sono d’argomento erotico: l’11 ed il 14 riprendono il topos dell’incapacità di riprodurre versi per il troppo amore che gli riempie il cuore e la mente, mentre il 15 è rivolto ad una donna infedele.

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Moneta raffigurante Orazio

LA BELLA INFEDELE
(15)
Nox erat et caelo fulgebat Luna sereno
inter minora sidera,
cum tu, magnorum numen laesura deorum,
in verba iurabas mea,
artius atque hedera procera adstringitur ilex
lentis adhaerens bracchiis;
dum pecori lupus et nautis infestus Orion
turbaret hibernum mare
intonsosque agitaret Apollinis aura capillos,
fore hunc amorem mutuom,
o dolitura mea multum virtute Neaera:
nam siquid in Flacco viri est,
non feret adsiduas potiori te dare noctes
et quaeret iratus parem
nec semel offensi cedet constantia formae,
si certus intrarit dolor.
et tu, quicumque es felicior atque meo nunc
superbus incedis malo,
sis pecore et multa dives tellure licebit
tibique Pactolus fluat
nec te Pythagorae fallant arcana renati
formaque vincas Nirea,
heu heu, translatos alio maerebis amores,
ast ego vicissim risero. 

Era notte e la luna scintillava
tra le luci minori delle stelle
e tu alle mie parole rispondevi
“giuro”, pronta a tradire
il santo nome degli dei – io ero
avvinto alle tue morbide braccia
come l’edera stringe l’alto leccio –
“finché sarà nemico al gregge il lupo
e Orione al marinaio
quando agita il mare nell’inverno
e fin che l’aria toccherà la chioma
mai recisa d’Apollo,
tuo e mio sarà il nostro amore” –
ma molto dovrai piangere
Neera, per questo mio essere uomo!
Perché se l’uomo c’è in questo Flacco
non patirà che tutte le tue notti
le dia a chi è il più forte
e l’ira chiederà la parte uguale.
Sarà allora infallibile il dolore,
sarà fermo
davanti alle bellezza così offesa.
Io non so chi tu sia,
più fortunato,
che superbo cammini sul mio mare.
Ma puoi essere ricco e di terre e di armenti,
ti può scorrere l’oro come un fiume,
puoi essere maestro nei misteri
di Pitagora che nacque e che risorse
e superare Nireo per bellezza –
avrai la ricompensa di un amore
che va da un altro. E sarà la mia volta,
riderò.

Un epodo “erotico” che ci permette di sottolineare la profonda differenza tra la concezione d’amore catulliana e questa d’Orazio: come sappiamo anche Clodia tradisce Catullo: ma lì vi è la rottura di un foedus, d’un patto d’amore; in Orazio ad essere colpito invece è l’orgoglio che la punirà con la stessa moneta: il tradimento. Ma non finisce qui: l’invettiva è rivolta anche a colui che l’ha sostituito: quando a sua volta sarà abbondonato dalla fedifraga Neera sarà lui a ridere. Si noti l’“incipit” che sembra aver ispirato certi notturni tassiani e leopardiani.

  • Isolati gli epodi 2 e 13: il primo è un elogio della vita di campagna (con sorpresa finale, a farlo è un usuraio), il secondo apre il tema simposiaco: è infatti un invito a bere in una notte d’inverno.

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Uva: pittura parietale

Come abbiamo già accennato a caratterizzare gli Epodi e l’estrema varietas, dall’esaltazione a Mecenate alle guerre civili; alla varietà degli argomenti risponde anche una varietà di tono, che può essere indignato, affettuoso, ironico e sarcastico.

Ma l’Orazio degli Epodi è realmente irato o “finge” di esserlo? Per rispondere basta sottolineare le differenze tra la sua poesia ed il modello: se l’una è rivolta a personaggi o situazioni specifiche (almeno quanto ci è rimasto), il poeta lucano sembra maggiormente rivolgersi a “tipi” a “situazioni generiche”. Forse non sono proprio un “falso” (d’altra parte nascono all’interno di una situazione storica ancora fluida), ma già in questa produzione in versi vi appare l’Orazio fine letterato.

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Edizione Ottocentesca delle Satire

Satire
 
A definire lo stile della satira è lo stesso Orazio:

I PADRI DELLA SATIRA
(I, 4 vv. 1-7)
Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poetae
atque alii, quorum comoedia prisca virorum est,
siquis erat dignus describi, quod malus ac fur,
quod moechus foret aut sicarius aut alioqui
famosus, multa cum libertate notabant,
hinc omnis pendet Lucilius, hosce secutus,
mutatis tantum pedibus numerisque… 

Eupoli, Cratino e Aristofano, questi poeti,
e altri, che furono gli autori della commedia antica,
se uno meritava di esser messo in berlina perché furfante o ladro,
adultero o assassino o in ogni caso
malfamato, lo bollavano senza tanti complimenti.
Da questi in tutto deriva Lucilio, che ne segue l’esempio,
mutando soltanto il metro e io ritmo.

 

che l’ascrive totalmente al poeta Lucilio, che visse, come si ricorderà in età sillana. Egli stesso ci dice che Lucilio l’avrebbe derivata dagli autori della commedia arcaica, conservando lo stile mordace irriverente, ma al contempo cambiandone il genere ed il metro. Stesso il discorso di Quintiliano che nella sua opera descrive come “poeti satirici” appunto Lucilio, Orazio e Persio. Sebbene anche Nevio ed Ennio furono autori di Satire, il poeta ed il critico latino ne danno piena paternità a Lucilio, e lo stesso Quintiliano, orgogliosamente afferma: Satura tota nostra est, rivendicando l’originalità e l’indipendenza dal modello greco. Ma a marcarne la differenza, poco dopo Orazio aggiunge:

LO STILE DI LUCILIO

(I, 4 vv. 11-14)
cum flueret letulentus, erat quod tolleret velles;
garrulus atque piger scribendi ferre laborem,
scribendi recte: nam ut multum, nil moror…

siccome scorreva fangoso, c’erano cose che avresti voluto levare;
era ciarliero e insofferente della fatica di scrivere,
di scrivere bene: perché io del molto scrivere non me ne curo.

distinguendosi dal modello e quindi mostrando la volontà di rifondare il genere, per sostituirsi e diventare a sua volta punto di riferimento.

Orazio scrive due libri di Satire in esametro, il primo tra il 40 ed il 35, anno in cui lo pubblicò, il secondo tra il 34 ed il 30. Pertanto la loro composizione coincide con quella degli Epodi.

Le prime 10 Satire del primo libro trattano:

  • Rivolta a Mecenate: si parla del raggiungimento della felicità e come tale ricerca sia illusoria; infatti raggiuntala si vuole sempre andare oltre. Per vivere se non felicemente ma in armonia con se stessi, bisognerà prendere atto di ciò che realmente ci occorre.

L’INCONTENTABILITA’ DEGLI UOMINI
(I, 1 vv. 1-20; 106-107)

Qui fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem
seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa
contentus vivat, laudet diversa sequentis?
«O fortunati mercatores» gravis annis
miles ait, multo iam fractus membra labore;
contra mercator, navim iactantibus Austris,
«Militia est potior. quid enim? concurritur: horae
momento cita mors venit aut victoria laeta.»
Agricolam laudat iuris legumque peritus,
sub galli cantum consultor ubi ostia pulsat;
ille, datis vadibus qui rure extractus in urbem est,
solos felicis viventis clamat in urbe.
Cetera de genere hoc – adeo sunt multa – loquacem
delassare valent Fabium. ne te morer, audi
quo rem deducam. si quis deus «En ego» dicat,
«iam faciam quod voltis: eris tu, qui modo miles,
mercator; tu, consultus modo, rusticus: hinc vos,
vos hinc mutatis discedite partibus. Eia,
quid statis?» nolint: atqui licet esse beatis.

 
Com’è, Mecenate, che nessuno è contento della sorte,
che la ragione gli ha dato o il caso gli gettato davanti,
e tutti invece non fanno che esaltare chi persegue una vita diversa?
«Fortunati i mercanti!», dice il soldato appensatito,
dagli anni, le membra ormai rotte dalla lunga fatica.
E il mercante, da parte sua, mentre gli Austri sballottano la nave:
« Meglio soldato. Che cos’è in fin dei conti? Ci si scontra: nel volger
di un’ora viene rapida la morte o la vittoria gioiosa».
Fa l’elogio del contadino l’esperto di diritto e di leggi,
quando sul cantare del gallo, il cliente gli batte la porta.
L’altro invece, che, per aver presentato malleverie, viene tratto in forza dalla campagna in città,
va proclamando felice chi vive in città.
Gli altri di questo genere varrebbero – tanto on numerosi – a sfinire
una lingua come quella di Fabio. Per farla breve, ascolta
dove vado a parare. Se un dio dicesse: «Ecco,
io ora farò ciò che volete: sarai mercante, tu che eri poc’anzi soldato;
tu, prima giureconsulto, sarai campagnolo. Voi da questa parte,
e voi da quest’altra, a ruoli scambiati. Ehi,
che fate lì impalati?» non vorrebbero. Eppure è dato loro di essere felici.

Il poeta ci ricorda:

est modus in rebus, sunt certi denique fines
quos ultra citraque nequit consistere rectum.

in tutto c’è dunque una misura, ci sono confini ben precisi
al di fuori dei quali il giusto non può darsi

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Auguste Rodin: Il pensatore (Parigi)

La prima satira ci porta direttamente nel nucleo ideologico del pensiero di Orazio: nell’individuazione che nessuno si contenta di ciò che è ed ha ed aspira ad essere diverso, si misura il senso dell’insoddisfazione che attanaglia l’uomo; la soluzione il poeta la trova nella misura, cioè l’equidistanza dagli eccessi (metriòtes), che sarà cantata con altri accenti nelle Odi.

  • la seconda è sempre rivolta alla ricerca del ben vivere: se si vuole far l’amore perché cercare il brivido dell’adulterio piuttosto che andare con le prostitute nate per far ciò?
  • Presentando un uomo privo del senso della misura, Orazio ci ricorda dei difetti di ognuno, prendendo in giro i saggi stoici, che pensano a se stessi come perfetti, e insegnandoci ad essere indulgenti con noi stessi.
  • E’ questa la satira in cui riconosce la paternità del genere a Lucilio. Inoltre ricorda come il padre, insegnandogli a guardare i vizi della vita altrui, lo invitasse a tenere una condotta migliore nel proprio comportamento.
  • Qui si descrive il viaggio a Brindisi affrontato insieme a Mecenate e ad altri amici;

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Colonna romana a Brindisi che segnava la fine della via Appia

VIAGGIO A BRINDISI
(I, 5 vv. 1-20)

Egressum magna me accepit Aricia Roma
hospitio modico; rhetor comes Heliodorus
Graecorum longe doctissimus; inde Forum Appi
differtum nautis cauponibus atque malignis.
Hoc iter ignavi divisimus altius ac nos
praecinctis unum: minus est gravis Appia tardis.
Hic ego propter aquam quod erat deterrima ventri
indico bellum cenantis haud animo aequo
exspectans comites. Iam nox inducere terris
umbras et caelo diffundere signa parabat.
Tum pueri nautis pueris convicia nautae
ingerere: “Huc adpelle”; “Trecentos inseris?” “Ohe
iam satis est!” Dum aes exigitur, dum mula ligatur,
tota abit hora. Mali culices ranaeque palustres
avertunt somnos; absentem cantat amicam
multa prolutus vappa nauta atque viator
certatim: tandem fessus dormire viator
incipit, ac missae pastum retinacula mulae
nauta piger saxo religat stertitque supinus.

 
Partito che fui da Roma, dalla gran città, in un modesto alloggio
Ariccia mi ospitò; ero accompagnato da Eliodoro, maestro d’eloquenza,
coltissimo: nessuno, tra i Greci, alla sua altezza. Poi Forappio,
tutta un brulicare di barcaioli e tavernieri truffaldini.
Che pigrizia, la nostra! Dividemmo il tratto in due tappe, ma sarebbe una sola
per viaggiatori un po’ più disinvolti: andando adagio l’Appia è meno faticosa.
Qui per via dell’acqua, ch’era infame, io dichiaro
guerra all’intestino; e cupo, mi riduco ad aspettare
i compagni che cenano. Ormai la notte s’accingeva
a stendere le tenebre sul mondo, a spargere le stelle in cielo.
Ed ecco, tra schiavi e barcaioli, tra barcaioli e schiavi, scoccare
scintille: “Accosta qua!”, “Quanti ne imbarchi: trecento?”, “Ehi,
basta così!”. Un’ora intera se ne va tra l’incassare i soldi
e l’aggiogar la mula. Malefiche zanzare e rane palustri
mettono in fuga il sonno. Ingaggiano una sfida un barcaiolo avvinazzato
e un viaggiatore cantano entrambi, a gara, la ragazza
lontana; finché il secondo, stanco morto, si addormenta,
e l’altro, lasciata andare al pascolo la mula, ne lega
pigramente le redini ad un masso, si corica supino, e russa.

Questa satira, di cui si riportano i solo primi versi, racconta l’esperienza di viaggio di Orazio compiuto a Brindisi, per accompagnarvi Mecenate e Cocceio Nerva, inviati in missione diplomatica da Ottaviano per rinsaldare i rapporti, che si erano fatti un po’ tesi, con Antonio. Nell’intera satira del motivo politico del viaggio e dell’importanza che esso poteva rappresentare per il rafforzamento di quel progetto di pace (che poi sapremo non riuscire) che legavano i massimi rappresentanti politici. Orazio si limita a descrivere figure, piccole macchiette, che, seppure non unite fra loro, rimandano ad un brulicare di “vita” che rendono la satira stessa assai vivace, E’ chiaro, infine, l’intento di inserirsi sulla stessa linea di Lucilio, che aveva descritto, appunto, un viaggio in Sicilia: ma non bisogna dimenticare che il tema del viaggio era molto apprezzato dai lettori di allora.

  • Ancora vengono sottolineati gli insegnamenti paterni: infatti il nobile Mecenate lo ha accolto nel suo cerchio perché, pur figlio di un liberto, gli ha trasmesso la purezza e l’integrità;
  • Viene descritto un contrasto tra due personaggi, chiamati in giudizio;
  • Il dio Priapo ci racconta le magie di una fattucchiera;
  • Qui il poeta mette in scena se stesso, che mentre passeggia viene importunato da uno “scocciatore”;

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Via Sacra

LO SCOCCIATORE
(I, 9 vv. 1–34)
 
Ibam forte via Sacra, sicut meus est mos,
nescio quid meditans nugarum, totus in illis.
Accurrit quidam notus mihi nomine tantum
arreptaque manu: “Quid agis, dulcissime rerum?”.
“Suaviter, ut nunc est”, inquam “et cupio omnia quae vis”.
Cum adsectaretur, “Num quid vis?” occupo, at ille
“Noris nos” inquit, “docti sumus”. Hic ego: “Pluris
hoc” inquam “mihi eris”. Misere discedere quaerens
ire modo ocius, interdum consistere, in aurem
dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos
manaret talos. “O te, Bolane, cerebri
felicem!” agebam tacitus, cum quidlibet ille
garriret, vicos, urbem laudaret. Ut illi
nil respondebat. “Misere cupis” inquit “abire:
iamdudum video. Sed nil agis; usque tenebo,
persequar. Hinc, quo nunc iter est tibi?”. “Nil opus est te
circumagi: quendam volo visere non tibi notum;
trans Tiberim longe cubat is prope Caesaris hortos”.
“Nil habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te”.
Demitto auricolas, ut iniquae mentis asellus,
cum gravius dorso subiit onus. Incipit ille:
“Si bene me novi, non Viscum pluris amicum,
non Varium facies: nam quis me scribere pluris
aut citius possit versus? Quis membra movere
mollius? Invideat quod et Hermogenes, ego canto”.
Interpellandi locus hic erat: “Est tibi mater,
cognati, quis te salvo est opus?”. “Haud mihi quisquam;
omnis conposui”. “Felices! Nunc ego resto.
Confice. Namque instat fatum mihi triste, Sabella
quod puero cecinit divina mota anus urna:
“hunc neque dira venena nec hosticus auferet ensis
nec laterum dolor aut tussis nec tarda podagra:
garrulus hunc quando consumet cumque: loquacis,
si capiat, vitet, simul atque adoleverit aetas”. 

Passeggiavo per combinazione lungo la Via Sacra, vecchia abitudine,
e intanto meditavo una mia sciocchezza, tutto concentrato.
Mi abborda d’improvviso un tizio di cui conosco solo il nome.
Afferra la mia mano: “Come va, carissimo?”
“Fin qui stupendamente”, gli rispondo “e t’auguro ogni bene”
Non molla, mi tallona: “Insomma, cosa vuoi?”, gli butto là. E lui:
“Dovresti pur conoscerci” dice, “siamo intellettuali”. “Avrò per te”,
gli dico, “stima ancor maggiore”. Tentando disperato di tagliar la corda
ora accelleravo il passo, ora mi fermavo a sussurrare
qualche cosa nell’orecchio del mio servo. Grondavo di sudore
fino alle calcagna. “Beato te, Bolano, spirito
bollente!”, rimuginavo a bocca chiusa. E l’altro garrulo,
ciarlava, proclamava il suo entusiasmo per le strade, la città. Io
non replicavo. “Ma tu” sogghigna, “tu non vedi l’ora di piantarmi in asso.
Da un pezzo l’ho notato. Niente da fare. Ti terrò ben stretto,
restandoti alle costole. Dove sei diretto adesso?” “Giri inutili
per te: vado a trovare una persona che certo non conosci.
E’ a letto. Sta di là dal Tevere, lontano, dalle parti dei giardini di Cesare.”
“Non ho nessun impegno, e non sono affatto pigro: t’accompagno”.
Mi si abbassano le orecchie come a un somarello rassegnato suo malgrado
quando sul dorso gli grava una soma più pesante. Quello ricomincia:
“Mi conosco bene: la mia amicizia ti sarà preziosa almeno quanto
quella con Visco e Vario. Ti sfido a trovare chi sappia scrivere
più versi e più velocemente: chi danzi con maggiore
grazia. Se udisse il mio canto persino Ermogene m’invidierebbe”.
Era giunto il momento d’interromperlo: “hai ancora la madre,
dei parenti cui stia a cuore il tuo stato di salute?”. “Più nessuno,
tutti li ho sepolti”. “Beati! Io, purtroppo, sopravvivo.
Dammi il colpo di grazia: un tragico destino incombe su di me. Una vecchia
Sabina, scuotendo l’urna, per i vaticini (ero fanciullo), lo predisse.
‘Questo ragazzo non l’ammazzeranno terribili veleni, spade nemiche,
attacchi di pleurite o tisi o podagra che rallenta il passo;
lo porterà alla tomba, un giorno o l’altro, un chiacchierone. Uscito dunque
dalla pubertà, abbia buon senso di stare alla larga dai loquaci”.

Il racconto prosegue con l’intenzione del “seccatore” di essere presentato a Mecenate, e, mostrando ad Orazio le bassezze di cui è capace pur di ottenere lo scopo. Intanto s’avvicina un amico di Orazio, che conosce bene il tipo, e per questo, vuol far dispetto al poeta, facendo lo gnorri. Poi finalmente lo scocciatore sembra esser preso da fretta improvvisa; infatti vede arrivare il suo avversario, aveva citato in giudizio, e prega Orazio di essergli testimone.
Può sembrare una satira facile, divertente, un tranche de vie costruito su un piccolo prepotente e il pavido Orazio. Ma non è così. Pur con ironia ciò che sta alla base della racconto oraziano un forte moralismo e questo viene espresso attraverso una costruzione quasi tragica: i due attori che si scambiano continue battute (il servo e poi l’amico sono quasi completamente muti), il destino avverso del protagonista, ed infine l’intervento del deus ex machina che risolve la questione.

  • In quest’ultima satira del primo libro, Orazio torna a parlare di letteratura e del suo modo di poetare. Egli è certo di essere apprezzato dai suoi docti

Il secondo libro di Satire, pubblicate, come detto nel 30, sono otto e trattano:

  • Qui Orazio si rivolge ad un giurista per ricevere risposte sulla sua attività di scrittore satirico; ascoltata la sentenza secondo cui essa è inutile, gli si risponde che questa è la sua vocazione;
  • Il contadino Ofello rivolge una lode al cibo modesto; ma anche questa satira ha valore sapienziale in quanto rimanda al concetto del “giusto mezzo”
  • Qui si sviluppa, tramite le parole di filosofo, il tema secondo cui “siamo tutti folli”;
  • Ancora, riprendendo Lucilio, una satira “gastronomica”, raccontata come fosse di norme filosofiche;
  • Appare il fantasma di Tiresia a consigliare ad Ulisse, dopo aver a lungo viaggiato a ricostruire la sua eredità;
  • Ringraziando Mercurio, per il dono fattogli da Mecenate della villa in Sabina, il poeta svolge in questa satira un appassionato elogio della vita di campagna;

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TOPO DI CAMPAGNA E TOPO DI CITTA’
(II, 6 vv. 80-117)
 
Rusticus urbanum murem mus paupere fertur
accepisse cavo, veterem vetus hospes amicum,
asper et attentus quaesitis, ut tamen artum
solveret hospitiis animum. Quid multa? Neque ille
sepositi ciceris nec longae invidit avenae,
aridum et ore ferens acinum semesaque lardi
frusta dedit, cupiens varia fastidia cena
vincere tangentis male singula dente superbo,
cum pater ipse domus palea porrectus in horna
esset ador loliumque, dapis meliora relinquens.
Tandem urbanus ad hunc “Quid te iuvat” inquit, “amice,
praerupti nemoris patientem vivere dorso?
Vis tu homines urbemque feris praeponere silvis?
Carpe viam, mihi crede, comes, terrestria quando
mortalis animas vivunt sortita neque ulla est
aut magno aut parvo leti fuga: quo, bone, circa,
dum licet, in rebus iucundis vive beatus,
vive memor, quam sis aevi brevis. “Haec ubi dicta
agrestem pepulere, domo levis exsilit; inde
ambo propositum peragunt iter, urbis aventes
moenia nocturni subrepere. Iamque tenebat
nox medium caeli spatium, cum ponit uterque
in locuplete domo vestigia, rubro ubi cocco
tincta super lectos canderet vestis eburnos
multaque de magna superessent fercula cena,
quae procul exstructis inerant hesterna canistris.
Ergo ubi purpurea porrectum in veste locavit
agrestem, veluti succinctus cursitat hospes
continuatque dapes nec non verniliter ipsis
fungitur officiis, praelambens omne quod adfert.
Ille cubans guadet mutata sorte bonisque
rebus agit laetum convivam, cum subito ingens
valvarum strepitus lectis excussit utrumque.
Currere per totum pavidi conclave magisque
exanimes trepidare, simul domus alta Molossis
personuit canibus. Tum rusticus:” Haud mihi vita
est opus hac” ait et “ valeas: me silva cavosque
tutus ab insidiis tenui solabitur ervo”.

Un rustico topo un topo urbano si dice accogliesse
nella povera tana, il vecchio ospite il vecchio amico
severo e parsimonioso, ma capace di sciogliere
il chiuso animo all’ospitalità. Che dire? Né quello
risparmiò il cece messo da parte né la lunga avena,
portando alla bocca chicchi di uva secca e lardo
per metà rosicchiato diede in pezzetti, desiderando
vincere il fastidio di chi mal toccava i singoli pezzi
con dente superbo, grazie a una cena variegata,
mentre lo stesso padrone di casa, su fresca paglia disteso,
mangiava loglio e farro, lasciando il meglio del banchetto.
Allora l’urbano disse a questi: “Che ti giova, o amico,
vivere a fatica sul dorso di un bosco a precipizio?
Vuoi tu anteporre gli uomini e la città alle selvagge selve?
Prendi la strada, credimi, o compagno, poiché le creature
terrestri vivono anime mortali ricevute in sorte
e per il grande e per il piccolo non c’è alcuna fuga dalla morte:
per questo, mio caro, finché ti è lecito, vivi beato
in mezzo ai piaceri, ricordati che la vita è breve.” Quando queste
parole convinsero il campagnolo, questi salta via leggero dalla sua casa,
poi entrambi fanno il viaggio stabilito, con il desiderio
di strisciare sotto le mura della città di notte. Già alta era la notte,
quando i due mettono le loro impronte in una ricca dimora,
dove una coperta tinta di rosso scarlatto brillava sopra
letti di avorio e restavano molti piatti da una grande cena,
rimasti da parte in cesti pieni dal giorno prima. L’ospite,
fatto sdraiare il campagnolo sul tappeto purpureo,
come uno schiavo con vesti arrotolate, corre su e giù,
porta una pietanza dopo l’altra e fa il servizio come
lo schiavo di casa, prima assaggiando tutto ciò che serve.
L’altro se ne sta sdraiato e gode della mutata sorte
e in mezzo a queste delizie, fa il convitato felice,
quando d’improvviso un grande strepito di porte li fece sobbalzare
dai letti. Allora corsero via impauriti per tutta la sala,
tremarono senza fiato, quando l’alta dimora risuonò per i latrati
dei cani molossi. Allora il topo di campagna disse: “Non fa per me
questa vita, ti saluto, la mia tana nel bosco, sicura
dai pericoli, mi consolerà dei miei pochi legumi”.

Favoletta diventata celeberrima rappresenta una specie di apologo sulla condizione umana desiderata da Orazio stesso, che rivendica per sé un ideale di vita qui rappresentato dal mus rusticus. La perizia oraziana sta tutta nel descrivere due topi reali nel loro agire ed “umani” nel loro dialogare, caratterizzati anche da un linguaggio potremo dire diverso, perché diversa è la loro classe sociale. Si nota tuttavia una certa “incoerenza” del poeta, ma a sottilinearla ci pensa Orazio stesso.

  • Secondo il costume dei Saturnali a prendere la parola è il servo Davo che fa una vera e propria predica al suo padrone Orazio, a cui il padrone riesce a porre termine con le minacce;

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Ernesto Biondi: Saturnali (1890)

DAVO RIMPROVERA ORAZIO
(II, 7 vv. 22-35)

“Laudas
fortunam et mores antiquae plebis, et idem
si quis ad illa deus subito te agat, usque recuses,
aut quia non sentis quod clamas rectius esse,
aut quia non firmus rectum defendis, et haeres
nequiquam caeno cupiens evellere plantam.
Romae rus optas, absentem rusticus urbem
tollis ad astra levis. Si nusquam es forte vocatus
ad cenam laudas securum holus ac, velut usquam
vinctus eas, ita te felicem dicis amasque
quod nusquam tibi sit potandum. Iusserit ad se
Maecenas serum sub lumina prima venire
convivam: “nemon oleum fert ocius? Ecquis
audit?” cum magno blateras clamore fugisque.

 
“Tu lodi
la maniera di vivere e i costumi del buon tempo antico, ma tu stesso,
se un dio di punto in bianco volesse farti risalire a quella età, mai ti decideresti
o perché non senti che sia migliore ciò che predichi,
o perché, privo di costanza, difendi il bene e resti impagliato
nel fango, da cui invano desideri staccare i piedi.
A Roma tu sospiri la campagna; quando sei in villa, volubile,
levi alle stelle la città lontana. Se per caso da nessuno sei invitato
a cena, esalti il tuo tranquillo piatto di legumi e, come se,
ovunque vai, andassi trascinato a forza, ti proclami così felice
e ti compiaci di non dover andare da nessuna parte. Ma lascia
che t’inviti Mecenate, ad andare da lui commensale sul tardi,
all’accendersi dei primi lumi: “nessuno mi porterà un po’ d’olio? Siete
tutti sordi?” sbraiti con grande schiamazzo e poi di corsa.

Prendendo a pretesto la festa dei Saturnali (una specie del nostro Carnevale) in cui i ruoli venivano rovesciati, Orazio può mettere in bocca al suo servo tutte le sue contraddizioni e debolezze, non potendosi, cioè su un piedistallo a stigmatizzare comportamenti altrui, ma facendosi uomo tra gli uomini con i propri vizi e le proprie virtù, descritte con ottima capacità di autoanalisi e d’ironia.

  • Qui viene descritto il banchetto di un uomo ricco ma assolutamente privo di eleganza.

Al di là delle pur necessarie precisazioni dei contenuti delle singole satire ad emergere è l’atteggiamento del poeta di fronte ad un genere che non conosceva un “modello” letterario greco da emulare, quanto invece un modello romano, certamente da superare per diventare, lui stesso, un pater di questo genere latino. E’ qui che va a commisurarsi l’ambivalenza che egli nutre verso Lucilio: come primus (così da lui, e da Quintiliano, reputato) è certamente lui, ma sarà Orazio a dover essere guardato, in futuro, come nuovo “modello” a cui ispirarsi: infatti darà alla satira quella cura formale che non contrasta anzi accentua con il sermo cotidianus che utilizza. Egli infatti li definisce Sermones, chiacchierate, che non nascondono, tuttavia un sottofondo moraleggiante. Esso trova la sua linfa, oltre che sulle convinzioni oraziane vere e proprie, tipiche del suo pensiero in ogni sua opera, sulle speculazioni filosofiche diatribiche svolte dai cinici. Queste ultime erano infatti delle demistificazioni di verità etiche attraverso esempi tratti dal quotidiano portati avanti da filosofi di strada il cui compito era di scandalizzare. Niente di tutto questo in Orazio, dove l’esempio etico viene sì stigmatizzato, ma mitigato da un profonda autoironia.

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Giacomo De Chirico: Quinto Orazio Flacco

Odi

Le Odi di Orazio sono 103 e sono suddivise in 4 libri, di cui i primi tre scritti tra il 30 e il 23, quando furono pubblicate, l’ultimo libro nel 13.

L’opera, chiamata anche Carmina, è certamente la più ambiziosa, se egli, nella I del primo libro, dedicata a Mecenate, afferma:

A MECENATE
(I, 1 vv. 29- 36)
 
Me doctarum hederae praemia frontium
dis miscent superis, me gelidum nemus
Nympharumque leves cum Satyris chori
secernunt populo, si neque tibias
Euterpe cohibet nec Polyhymnia
Lesboum refugit tendere barbiton.
Quod si me lyricis vatibus inseres,
sublimi feriam sidera vertice.
 

Ma l’edera che premia la fronte dei sapienti
mi porta tra i Celesti, un fresco bosco,
un coro di spiriti lievi del bosco,
se Euterpe sceglie il flauto,
e la Musa dell’inno tocca corde Lesbie,
mi portano lontano dalla mia gente. Mecenate,
se mi comprenderai tra i poeti che hanno nome della lira
con una mano toccherò le stelle.

Vengono qui sottolineati due aspetti fondamentali: da una parte la sottolineatura di essere tra i docti e quindi tra i poëtae, qualifica che ancora non era valida per i Sermones, ed ancora come questa scelta lo porti nell’isola di Lesbo, cioè là dove ha operato il poeta Alceo e la poetessa Saffo, cioè tra i lirici. E’ evidente che tale scelta lo allontani, ancor di più, dal vulgus; ma questo ormai è il segno di chi vuol dare vita ad una lirica che abbia su di sé l’imprimatur della classicità.

In ogni libro, pur presentando tematiche non riconducibili a temi precisi, possiamo individuare dei nuclei ispirativi che li caratterizzano:

I libro, composto di 38 componimenti si apre, con la dedica a Mecenate: maggiormente numerose appaiono le poesie che celebrano la gioia del convito, spesso accompagnate da riflessioni sulla brevità della vita:
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NON INTERROGARE IL DOMANI (I, 9)

Vides ut alta stet nive candidum
Soracte, nec iam sustineant onus
silvae laborantes geluque
flumina constiterint acuto.

Dissolve frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
deprome quadrimum Sabina,
o Thaliarche, merum diota.

Permitte divis cetera, qui simul
stravere ventos aequore fervido
deproeliantis, nec cupressi
nec veteres agitantur orni.

Quid sit futurum cras fuge quaerere et
quem fors dierum cumque dabit lucro
adpone, nec dulcis amores
sperne, puer, neque tu choreas,

donec virenti canities abest
morosa. Nunc et Campus et areae
lenesque sub noctem susurri
composita repetantur hora,

nunc et latentis proditor intumo
gratus puellae risus ab angulo
pignusque dereptum lacertis
aut digito male pertinaci.

Tu guarda come svetta il Soratte chiaro
di neve alta, quasi non regge il peso
la selva stanca, e osserva i corsi
d’acqua rappresi nel gelo acuto.
Ma sciogli il freddo dando vigore al fuoco
con altra legna, senza timore poi
il vino puro di quattr’anni
versa dall’anfora, mio Taliarco.
Il resto lascia tutto agli dèi, che appena
sul mare grosso placano i venti forti
tra loro in lotta, non stormisce
più il cipresso né l’orno vecchio.
Al tuo domani non ci pensare, segna
qualunque giorno voglia donarti il caso
a tuo guadagno e non sprezzare,
tu che sei giovane, amori e danze,
finché capelli bianchi e malanni stanno
da te lontani. Ora più spesso invece
la sera scendi al Campo, in piazza,
corri ai sussurri di chi ti aspetta,
ritorna al caro riso con cui si svela
la tua ragazza ferma nel buio fitto,
al pegno tolto dal suo braccio,
dalle sue dita che stringe piano.

L’inizio dell’ode e tratto da Alceo, ma la citazione è ben lontana dallo sviluppo, che subito piega verso la “romanizzazione” del testo e più ancora verso le tematiche tipiche della poesia oraziana. La prima avviene attraverso la descrizione di un paesaggio tipicamente laziale, la seconda, invece è strutturata secondo la grazia e la levità del dettato oraziano: dapprima il paesaggio invernale (ritratto secondo la convenzione del freddo e della neve), quindi per difendersi l’intimità, il fuoco ed il vino; terzo momento riflessione gnomica sullo scorrere del tempo e l’imprevedibilità del futuro (quid sit futurum cras fuge quaerere) per terminare con l’arrivo della primavera dove il passaggio si fa urbano e svela i giochi erotici della gioventù (di forte ascendenza ellenistica)

o ancora la celeberrima:
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Daniela Cataldi: Carpe diem

CARPE DIEM
(1,9)

Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius quidquid erit pati!
seu plures hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.

Non chiedere, o Leuconoe, (non è lecito saperlo) qual fine
abbiano a te e a me assegnato gli dèi,
e non tentare calcoli babilonesi. Quant’è meglio accettare
quel che sarà! Ti abbia assegnato Giove molti inverni,
oppure ultimo quello che ora affatica il mare Tirreno
contro gli scogli, sii saggio, filtra vini, tronca
lunghe speranze per la vita breve. Parliamo, e intanto fugge l’astioso
tempo. Afferra l’attimo, credi al domani quanto meno puoi.

Brevissimo carmen da cui generano, con naturalezza, i temi più tipici della poesia oraziana, nonché temi, oserei dire, universali per la loro valenza umana e filosofica: dalla riflessione dello scorrere del tempo e dell’esigenza di non interrogare il domani ne derivano il gusto della vita, contro la malinconia, la gioia dell’amore che sottende tutto il testo che si esprime attraverso un intima convivialità: nessun peso nell’invitarci al carpe diem epicureo, ma solo una riflessione di quanto sia importante saper godere di ciò che la vita quotidianamente ci offre.

Per la poesia erotica riportiamo questo delicato ritratto adolescenziale:

CLOE
(1, 23)

Vitas inuleo me similis, Chloe,
quaerenti pavidam montibus avis
matrem non sine vano
aurarum et siluae metu.
 
Nam seu mobilibus veris inhorruit
adventus foliis seu virides rubum
dimovere lacertae,
et corde et genitus tremit.
 
Atqui non ego te tigris ut aspera
Gaetulusve leo frangere persequor:
tandem desine matrem
tempestiva sequi viro. 

Tu mi eviti, o Cloe, come un cerbiatto
che per impervie balze la sgomenta
madre ricerchi, scosso
dal fogliame e dal vento,
che se, giungendo primavera, appena
freme una foglia, o un viscido serpente
smuove il roveto, trema
nelle gambe e nel cuore.
Ma non ti seguo, io, per lacerarti,
come una tigre o un leone getulo:
non cercare tua madre,
sei da marito ormai.
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Ritratto di giovane donna

Sa osservare Orazio, che oltre a conoscere la poesia topica dell’adolescente oggetto d’attenzione per gli uomini, di cui è spia il nome greco Cloe, letteralmente “erba tenera e verde”, le prime paure e il vago tremore di chi, non ancora donna, sente tuttavia i primi segni di un corpo trasformantesi in oggetto di desiderio; ma non manca la capacità ironica del nostro che sa ben sottolineare, sempre con leggerezza ed ironia, il passaggio del tempo.

Il II libro comprende 20 componenti in cui vengono ripresi temi già trattati come quello del convito, della morte incombente, dell’amore: Ma si ripetono anche quelli che contengono delle pillole di saggezza gnomica, tratte sempre dalla speculazione epicurea e quella cinico-stoica.

Eccone un esempio:
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Felix Vallotton: Il vento

AUREA MEDIOCRITAS
(II, 10)

Rectius vives, Licini, neque altum
semper urgendo neque, dum procellas
cautus horrescis, nimium premendo
litus iniquum.
 
Auream quisquis mediocritatem
diligit, tutus caret obsoleti
sordibus tecti, caret invidenda
sobrius aula.
 
Saepius ventis agitatur ingens
pinus et celsae graviore casu
decidunt turres feriuntque summos
fulgura montis.
 
Sperat infestis, metuit secundis
alteram sortem bene praeparatum
pectus: informis hiemes reducit
Iuppiter, idem
 
submovet; non, si male nunc, et olim
sic erit: quondam cithara tacentem
suscitat Musam neque semper arcum
tendit Apollo.
 
Rebus angustis animosus atque
fortis adpare, sapienter idem
contrahes vento nimium secundo
turgida vela.

 
Vivrai con maggior saggezza, Licinio, se non ti
spingerai sempre verso il mare aperto e se non rasenti
eccessivamente la costa pericolosa
mentre, cauto, provi orrore delle tempeste.
Chi ama la dorata via di mezzo,
sicuro evita la miseria di una casa
fatiscente e sobrio un palazzo
che susciti invidia.
Più spesso l’alto pino è scosso dai venti
e le torri elevate cadono con rovina
maggiore ed i fulmini feriscono
le cime dei monti.
Un animo ben agguerrito spera
nelle sventure e nelle fortune teme il cambiamento
della sorte. Giove ogni anno porta lo squallido inverno
ed egli stesso poi lo allontana.
Non sarà sempre così, se ora va male:
talvolta Apollo risveglia con la cetra
a musa che tace e non sempre
tende il suo arco.
Mostrati forte e coraggioso
nelle sventure; tu stesso saggiamente
ritirerai le vele gonfie per un vento
eccessivamente favorevole.

Nel verso 5 di quest’ode troviamo il concetto che, pur di Orazio, lo banalizza presso il largo volgo (cosa da lui aborrita) auream quisquis mediocritatem diligit: non si tratta, se si vuole, come già per il carpe diem di accontentarsi, ma di non vivere la vita superficialmente. E’ vero, è già stato detto, non soltanto da Orazio, ma anche da molti altri poeti greci: ma non è compito di un classicista e classico a sua volta inventare nuovi concetti, quanto dialogare e rielaborarli ed inserirli nella nuova realtà in cui il poeta stesso si trova. Potremo dire che tale atteggiamento sia fondamentale nel clima politico ed ideologico augusteo: non nascondersi e non apparire, appunto, scusarsi per non voler scrivere un “nuovo” poema (recusatio), ma sentirsi grandi poeti da voler confrontarsi Pindaro, cantore ufficiale delle idealità greche.

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Medaglia ungherese di guerra con il motto oraziano

Il III libro si apre con le sei famose odi romane, tutte datate dopo il 27.

DULCE ET DECORUM
(III, 2 vv. 13-20)
 
Dulce et decorum est pro patria mori:
mors et fugacem persequitur uirum
nec parcit inbellis iuuentae
poplitibus timidoue tergo.
 
Virtus, repulsae nescia sordidae,
intaminatis fulget honoribus
nec sumit aut ponit securis
arbitrio popularis aurae

E’ per la patria bello e pio soccombere:
la Morte incalza anche chi la evita,
né risparmia i polpacci o il tergo
timoroso di un giovane imbelle.
La virtù, ignara di ripulse sordide,
brilla di onori immacolati e fulgidi
non prende o depone le scuri
secondo il capriccio del popolo.

Come si dimostra in questo passo l’ode è di valore civile, con quello che, anche nel nostro secolo è diventato un motto militare. Qui ci troviamo di fronte ad una espressione tipicamente pindarica, che dà il segno dell’ispirazione cui sono espressione queste opere: l’esaltazione del mos maiorum, l’esaltazione della grandezza di Roma, ottenuta anche grazie ai sacrifici dei giovani, la lode verso Augusto, uomo che ha saputo, anche attraverso questi ideali, riportare la pace a Roma, non è un caso, forse che dopo la pubblicazione di tale libro, sarà affidato proprio ad Orazio il Carmen saeculare.

Le altre 24 odi, anch’esse fra le più celeberrime di Orazio, riprendono toni già cantati. Spiccano tuttavia due carmina, uno di perfezione lirica e descrittiva:
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Carl Frommel: Incisione della Fonte Bandusia

FONTE BANDUSIA
(III, 13)
 
O fons Bandusiae splendidior vitro,
dulci digne mero non sine floribus,
cras donaberis haedo,
cui frons turgida cornibus
primis et venerem et proelia destinat.
Frustra: nam gelidos inficiet tibi
rubro sanguine rivos lascivi suboles gregis.
Te flagrantis atrox hora Caniculae
nescit tangere, tu frigus amabile fessis
vomere tauris praebes et pecori vago.
Fies nobilium tu quoque fontium
me dicente cavis impositam ilicem
saxis, unde loquaces
lymphae desiliunt tuae. 

O fonte di Bandusia che brilli più del vetro
e meriti il dolce vino e le corone,
domani ti verrà dato un capretto
col gonfio delle corna che gli nascono
per destinarlo alla lotta e all’amore:
no, la creatura vivida del gregge,
arrosserà di sangue,
le tue acque di gelo.
La spietata Canicola non sa
toccarti. E offrì la frescura amata
ai tori stanchi d’aratura,
al bestiame errabondo. Anche tu
sarai tra le fontane celebrate,
perché parlo di un leccio che sovrasta
la tua grotta e la roccia da cui balza
la tua acqua purissima che parla.

Poesie tra le più celebri di Orazio. Non importa capire qui se tale fonte sia in un suo luogo d’infanzia e nella villa regalatagli da Mecenate: quel che conta è la perfetta aderenza con il leptos callimacheo, ovvero la leggerezza di una poesia breve. L’immagine tuttavia è teocritea: cioè vi è una chiara presenza della natura. Il sacrificio del capretto e l’arsura dei buoi ci rimandano a quella partecipazione emotiva con il mondo animale che, almeno per questo testo, lo fa vicino al Virgilio delle Georgiche.

Il terzo libro si chiude con una poesia in cui, a conclusione della sua fatica, si lascia andare all’orgoglio di aver fatto qualcosa d’importante:
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Anne e Patrick Poirier: Exegi monumentum aere perennius (1998, Prato, Firenze) 

ORGOGLIO DI POETA
(III, 30)

Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo impotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar, multaque pars mei
vitabit Libitinam: usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita virgine pontifex.
Dicar, qua violens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum, ex humili potens
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
quaesitam meritis et mihi Delphica
lauro cinge volens, Melpomene, comam.

Ho eretto un monumento più perenne del bronzo
più alto dell’elevate piramidi regali,
tale che non la pioggia che consuma, non l’impotente Aquilone
possa distruggere o l’innumerevole
serie degli anni e la fuga dei tempi.
Non morirò del tutto, e gran parte di me
eviterà Libitina: io continuerò a crescere
rinnovato nella lode futura, mentre il pontefice
salirà il Campidoglio con una tacita vergine.
Sarò detto, là dove il violento Aufido rumoreggia
e là dove il povero d’acqua Dauno sul rustico
popolo regnò, da umile grande
per primo aver dedotto il carme eolico
agli italici ritmi. Assumi il superbo
orgoglio con i meriti e cingimi benigna
con l’alloro delfico, o Melpomene.

I manoscritti che ci hanno tramandato le Odi oraziane, alla fine di questo componimento recano scritto: Q. Horatii Flacci carminum liber III explicit, ad indicare che con questa ode il poeta mise la parola fine alla raccolta Carmina in tre libri, del 23. L’orgoglio con cui egli esprime la sua gioia di poeta non è tuttavia da considerarsi contraddittorio rispetto al sui senso della misura, così presente nella sua produzione: è che egli si sente profondamente consapevole di aver terminato, nel riportare i metri alcaici e saffici di aver completato l’iter dei neoteroi. Roma quindi, con lui, può annoverare un’altra conquista, quella del genere lirico. Per questo se il problema del tempo che passa è stato così vivo e così fortemente accettato come uomo, ora questo tempo cessa di essere limitato ed acquista il valore dell’eternità. Eternità del tempo poetico in Orazio: ancora in Foscolo sembrano permanere le conquiste del poeta romano.

Il IV libro viene composto nel 13, dopo 10 anni della prima pubblicazione, con 15 soli componimenti. Sembra che l’insuccesso della prima raccolta lo abbia riportato verso forme più care al suo pubblico, come quello delle Epistolae: egli infatti soltanto dopo esse si deciderà per questa nuova raccolta. Anche qui vengono presentati temi come l’amore, la poesia, la riflessione sulla morte, ed altre poesie ancora civili.

Interessante è il modo in cui egli, in età ormai matura, si avvicina all’amore:

FILLIDE
(IV, 11)
 
Est mihi nonum superantis annum
plenus Albani cadus, est in horto,
Phylli, nectendis apium coronis,
est hederae vis
 
multa, qua crinis religata fulges;
ridet argento domus, ara castis
vincta verbenis avet immolato
spargier agno;
 
cuncta festinat manus, huc et illuc
cursitant mixtae pueris puellae,
sordidum flammae trepidant rotantes
vertice fumum.
 
Ut tamen noris, quibus advoceris
gaudiis, Idus tibi sunt agendae,
qui dies mensem Veneris marinae
findit Aprilem,
 
Iure sollemnis mihi sanctiorque
paene natali proprio, quod ex hac
luce Maecenas meus adfluentis
ordinat annos.
 
Telephum, quem tu petis, occupavit
non tuae sortis iuvenem puella
dives et lasciva tenetque grata
compede vinctum.
 
Terret ambustus Phaethon avaras
spes et exemplum grave praebet ales
Pegasus terrenum equitem gravatus
Bellerophontem,
 
semper ut te digna sequare et ultra
quam licet sperare nefas putando
disparem vites. age iam, meorum
finis amorum
 
– non enim posthac alia calebo
femina -, condisce modos, amanda
voce quos reddas: minuentur atrae
carmine curae.

Ho un’anfora piena di vino albano
che ha piú di nove anni, e c’è nell’orto,
Fíllide, l’apio per le tue corone;
e rigogliosa è l’edera
che fra i capelli ti farà risplendere;
brilla d’argenti la casa; e l’altare avvolto
di verbena chiede in rito
il sangue di un agnello.
Ogni mano è in faccende; in ogni luogo
corrono insieme ragazzi e fanciulle;
guizzano le fiamme esalando in cima spire
di fumo nero.
Ma sai a quali gioie
sei invitata? Le Idi, queste devi celebrare,
che dividono il mese sacro a Venere marina,
ora d’aprile:
ed è, giusto per me, giorno solenne
forse più sacro del mio compleanno, perché da oggi
conta Mecenate il fiume
dei suoi anni.
Tèlefo, il giovane che tu desideri, non fa per te:
l’ha preso una fanciulla ricca, spensierata,
e in dolci catene
cosí lo tiene avvinto.
Fuga il fuoco di Fetonte ogni insana
speranza; e Pègaso, il cavallo
alato che rifiutò l’uomo
Bellerofonte,
ti ammonisce severo a cercare solo
ciò che ti si addice e, poiché empio
è sperare oltre il lecito, ad evitare chi non t’assomiglia.
Ultimo amore mio
(nessuna piú riscalderà
il mio cuore) impara i ritmi
che con voce amabile mi ripeterai:
dileguerà al canto ogni
fosco pensiero.
 

E’ questa l’ultima poesia d’amore delle Odi. Qui il poeta invita Fillide (anch’esso nome tradizionale) ad un banchetto per il compleanno di Mecenate; dopo aver scritto i preparativi, la poesia piega verso i nuovi amori di Fillide, ma il giovane che lei ama, ama a sua volta una giovane e ricca fanciulla. Conviene va Fillide, che ricca non è, a posare il suo sguardo verso persone a lei più confacenti, al poeta stesso: il canto e la poesia, l’allevieranno la tristezza. Questo piccolo quadretto non nasconde ti temi cari: il tema simposiaco, l’amicizia per Mecenate, l’esortazione all’equilibrio, e, non ultimo, il tema dell’eternità della poesia.

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Vecchia foto del 1924

Carmen saeculare
 
Questo carme si può accostare alla sua produzione lirica, scritto in occasione dei Ludi saeculares in onore delle due divinità Apollo e Diana, protettori di Roma. Il carme venne eseguito da due cori: uno di giovani vergini e l’altro da casti ragazzi. Tale commissione, affidatagli da Augusto, oltre a dirci l’alta considerazione in cui era tenuto presso la corte augustea, ci offre il segno di come, grazie all’altezza della sua poesia, fosse stato chiamato a compiere atti ufficiali.
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Manoscritto che riporta la vita do Orazio

Epistulae
 

Le Epistolae, opera poetica oraziana, si riallaccia, stilisticamente e, in parte contenutisticamente alle Satire: non è un caso che anch’esse prendano il nome di Sermones e che il metro sia lo stesso, l’esametro dattilico.

Esse sono una raccolta di “lettere” scritte in versi e a farne un opera unitaria nella letteratura latina sembra sia stato proprio Orazio, che anche qui, come nelle Odi, dichiara orgogliosamente la sua novità. Tale opera è composta in due libri, di cui il primo in 20 componimenti e il secondo di soli 2, ma fra loro vi è la lunga e articolata Ars poetica, e scritta dopo la pubblicazione dei primi tre libri delle Odi.

La forma epistolare costringe il nostro ad una maggiore attenzione allo stile del sermo cotidianus, già precedentemente usato nelle Satire. Ma qui appare più stringente il fine morale, che prevale su quello narrativo. E’ che il nostro è invecchiato e non riesce più a ridere o sorridere come un tempo; non è che qui manchino spunti ironici, è che tutta l’opera è sottesa da una profonda malinconia, dove si acuiscono i temi dell’autàrkeia e della metriòtes, ma dove sembra si sottolinei la continua ricerca con una approfondimento critico verso se stesso che forse precedentemente mancava.

Importante tra le Epistole è l’Ars poetica, dedicata alla famiglia degli Scipioni (la datazione è incerta). Qui egli delinea la figura del perfetto poeta, ma accorda soprattutto l’importanza al teatro classico.

Ciò avviene per due ragioni:

  • Riprende il modello della Poetica aristotelica che proprio sul teatro in quanto arte che meglio sviluppa il concetto di “mimes” poneva la propria attenzione ed importanza;
  • La volontà di Augusto di ripristinare a Roma tale genere, a cui Orazio risponde per lo meno da un punto di vista teorico,

 

GIUSEPPE UNGARETTI

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Giuseppe Ungaretti

Con la personalità del poeta Ungaretti, ci muoviamo ancora una volta con la figura di un intellettuale la cui formazione avviene ai margini, fuori dai centri culturali italiani che sembravano essere punti crocevia per il passaggio di idee e di nuova cultura, come Roma, Milano o Firenze (capitali allora di un vivace dibattito all’interno delle riviste come La Voce o Lacerba).

Giuseppe Ungaretti nasce, infatti, ad Alessandria d’Egitto da genitori di origine lucchese: il padre, operaio per lo scavo di Suez, muore giovane, lasciando il bimbo Giuseppe, di soli due anni, alle cure del fratello maggiore, Costantino, e della madre, donna energica e dalla forte religiosità, che deve gestire un forno alla periferia della città, per mantenere i figli.

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Alessandria d’Egitto in una rara foto di fine ‘800

Con il lavoro, la signora Ungaretti riesce a mandare Giuseppe nella prestigiosa École Suisse Jacot, una delle più prestigiose all’interno della città africana, dove, oltre a fare delle amicizie importantissime, tra le quali quella di Moammed Sceab, il giovane Ungaretti respira un clima multiculturale, fatto di fuoriusciti e intellettuali arabi ed europei (soprattutto francofoni). Innamoratosi della letteratura, s’immerse, in questi anni di formazione, in letture poetiche che spaziavano da Dante e Leopardi a Baudelaire e Mallarmé.

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Ungaretti ad Alessandria

Uscito dalla scuola cominciò a frequentare circoli letterari in bar della città, dove entrò in contatto con il poeta greco Konstantinos Kavafis e l’italiano Enrico Rea, che lo avvicina agli ideali anarchici e socialisti.

Quando la madre cede il forno, lascia una parte del ricavato a Giuseppe, al quale, però, non frutta alcun bene, a causa d’investimenti sbagliati. Scoraggiato da questa esperienza e desideroso di conoscere la capitale della cultura europea si sposta, nel 1912, con Moammed a Parigi; qui incontra fra gli altri Marinetti e Palazzeschi, grazie ai quali comincerà a collaborare, con scritti poetici, alle riviste italiane. L’anno successivo il suo amico si suicida: tale è il dispiacere per il poeta che gli dedica una delle sue poesie più toccanti.

Nel 1914 si trasferisce quindi a Milano e l’anno successivo aderisce al partito degli interventisti. Allo scoppio della guerra si arruola volontario e viene mandato nel Carso. Qui scrive le poesie de Il porto sepolto, pubblicate da un ufficiale suo amico, Ettore Serra in soli ottanta esemplari (confluiranno, in seguito, nella maggiore raccolta, Allegria dei naufragi).

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Ettore Serra

Finito il conflitto torna a Parigi, da qui collabora, come corrispondente dall’estero, al Popolo d’Italia. Conosce Jeanne Dupoix, che sposerà nel 1920 e dal cui matrimonio nascerà Ninon e Antonietto. Tornato in Italia, dopo aver aderito al Fascismo, lasciando la sua attività di giornalista, accetterà un modesto impiego nel ministero degli Affari Esteri.

Del 1926 sono una serie di conferenze che lo porteranno in giro per L’Europa, ma è a Roma che Ungaretti troverà maggiori spunti intellettuali e da cui nascerà l’esperienza di Sentimento del tempo. Comincia a maturare in lui una spiritualità intensa che la città barocca eccita e lo sprona ad una nuova riflessione sulla vita.

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La città di São Paulo intorno agli ’30

Nel 1936, in America latina, accetta l’incarico d’insegnare Letteratura italiana all’Università di San Paolo, dove si trasferirà, con l’intera famiglia, fino al 1942. Tale periodo fu funestato, però, dalla morte di Costantino, fratello maggiore, ma soprattutto da quella del figlio Antonietto (1939).

Nel 1942 viene nominato Accademico d’Italia e riceve l’incarico di docente di Letteratura italiana all’Università di Roma (incarico che terrà per circa un decennio). Ed è proprio da quest’anno che comincerà a raccogliere l’intero corpus poetico nel volume Vita d’un uomo e a scrivere nuove raccolte poetiche come Il dolore (1947) e La terra promessa (1950), accompagnate da opere di traduzione. Ed è sempre nella città eterna che perderà la cara moglie in un’assolata giornata romana (1958).

Intorno agli anni ’60 Ungaretti è ormai considerato come uno dei più grandi intellettuali del Novecento: riceve varie lauree honoris causa, interviene spesso con letture in televisione.

Nel 1970 trascorre l’ottantaduesimo compleanno in compagnia di pochi amici (gli intellettuali più in voga in quegli anni, come il pittore Renato Guttuso e lo scrittore Goffredo Parise). Parte quindi per gli Stati Uniti, per ricevere un premio internazionale, ma al ritorno, sfibrato dalla stanchezza, muore a Milano dello stesso anno.

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Tomba di Ungaretti e della moglie

L’itinerario poetico di Ungaretti possiamo distinguerlo in tre momenti:

  • Il primo periodo coincide con l’avvento della guerra e comprende le raccolte delle poesie Il porto sepolto (1916) e Allegria dei naufragi (1919);
  • Il secondo periodo ha inizio con il trasferimento a Roma (1921) e corrisponde all’itinerario poetico di Sentimento del tempo (1933);
  • Il terzo periodo è situato nel dopoguerra ed è compreso tra Il dolore (1947), La terra promessa (1950) e Taccuino del vecchio (1960).

Primo periodo

Ungaretti si avvicina alla poesia da un luogo appartato, sebbene stimolante e dopo la temperie futurista. Sembra che con lui si sia chiusa definitivamente l’esperienza poetica che lo ha preceduto: infatti se dovessimo analizzare le ultime esperienze diremmo forse che sia gli stessi marinettiani quanto i crepuscolari scrivono programmaticamente poesie “contro”, non ancora poesie “per” disegnare, attraversandola come farà Montale o utilizzandola in modo personale, come farà Ungaretti la poesia precedente.

Giuseppe Ungaretti, infatti, con le prime esperienze poetiche, supera di colpo tutti quegli elementi dannunziani che ancora erano presenti in poeti come Gozzano e se ciò è dovuto alla lateralità della sua formazione, ripetiamo Alessandria d’Egitto e Parigi che gli ha permesso un perfetto bilinguismo, spiega ulteriormente come sia pronto con voce nuova ed autentica a raccontarci la grande emozione di dolore e di amore insieme che la guerra gli aveva permesso..

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Una delle prime edizioni de Il porto sepolto

L’allegria
Sembra che Ungaretti non si contentasse mai dei versi scritti e li rimaneggiasse in un continui lavorio di sottrazione verbale estenuante alla ricerca della purezza della lirica e della parola in essa contenuta. Un esempio è quello di Porto sepolto del ’16, composto da 32 liriche; scrive poi nel ’19 Allegria dei naufragi, in cui confluiscono le poesie scritte per la rivista Lacerba e quelle scritte in francese, dopo essere state completamente rimaneggiate. I due libretti, sempre dopo un attento lavorio, saranno raccolte nell’edizione del ’31 con il titolo definitivo de L’allegria:

IN MEMORIA

Locvizza il 30 settembre 1916.
 
Si chiamava
Moammed Sceab
 
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
 
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
 
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
 
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
 
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre in una giornata
di una
decomposta fiera
 
E forse io solo
so ancora
che visse

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Le sordide catapecchie di Rue de Carmes, dove Ungaretti condivideva la stanza con Moammed Sceab

La prima cosa che appare nel testo, prima che esso diventi poesia, è la precisazione che indica il luogo e la data in cui la scrisse. E’ una poesia in memoria, mentre sta in guerra, dove più forte è la sensazione di sradicamento e quindi ancora è intensa l’esigenza di ricercare, in un luogo di dolore, il proprio io fatte di esperienze, amicizia e amore. Ma ci dice anche come per Ungaretti la poesia sia un diario in cui segnare, nel momento in cui nascono, le impressioni che l’io poetico sente o riceve dall’esterno.

Si situa, cioè in questo testo, quel rapporto vita/poesia che è fondamentale per Ungaretti: la poesia non può nascere svincolata dal sentimento dell’esistere che ognuno prova, non può essere esercizio intellettuale, privo di riferimento al reale, ma deve partire dall’interiorità, la sola che può esprimere con verità, e per questo nuda nell’essenza verbale, la purezza della parola.

Si osservi come egli isoli, all’interno del testo, le parole forti, in maggioranza, svincolate da rapporti sintattici, poste in modo che l’occhio si fermi su di esse, nella loro solitudine. Ancora l’uso attento dei tempi verbali. Passato ed imperfetto ad indicare un’azione richiamata alla memoria, ma morta (si chiamava, amò, fu…).

In Moammed lo sradicamento, lo stesso di Giuseppe, è senza soluzione. Può cambiare nome, ma al deserto rassicurante africano, con la nenia del Corano e l’odore di caffè, non si sostituisce il deserto fatto d’aridità si sentimenti umani della città. Ma l’amico arabo di Ungaretti si è suicidato perché non aveva più Patria e soprattutto perché, come invece avviene a Giuseppe non riesce a cogliere il momento di catarsi che la poesia può offrirgli (E non sapeva / sciogliere / il canto / del suo abbandono).

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Autografo del testo

IL PORTO SEPOLTO

Mariano il 29 giugno 1916

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
 
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto

Verso i sedici, diciassette anni, forse più tardi, ho conosciuto due giovani ingegneri francesi, i fratelli Thuile, Jean e Henri Thuile. (…) Mi parlavano d’un porto, d’un porto sommerso, che doveva precedere l’epoca tolemaica, provando che Alessandria era un porto già prima d’Alessandro, che già prima d’Alessandro era una città. (…) Non se ne sa nulla, non ne rimane altro segno che quel porto custodito in fondo al mare, unico documento tramandatoci d’ogni era d’Alessandria. Il titolo del mio primo libro deriva da quel porto, il Porto sepolto.”

Così ci racconta lo stesso Ungaretti in Vita d’un uomo. Il porto sepolto diventa quindi, per il poeta, simbolo della sua ricerca, della meta della sua poesia; dice Carlo Ossola (critico letterario e professore all’università di Parigi): “il porto sepolto è il luogo delle profondità affioranti e perdute, segno e abisso, ricettacolo incontaminato di ricordi d’infanzia e civiltà favolose, approdo dopo tappe e rasure di deserto, un coagulo mitico che contiene in nuce i simboli e le matrici figurali dell’intero percorso ungarettiano”. Egli è il poeta che laggiù disceso, nei recessi più inesplorati di esso, riemerge per rivelare a tutti il mistero (del vivere) e porgerlo a tutti.

Ma la grande poesia ungarettiana de Il porto sepolto è soprattutto nella straordinaria sezione dedicata alla guerra, dove sono contenute, forse le sue liriche più famose:

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Pagina di Julian Peters

VEGLIA

Cima Quattro il 23 dicembre 1915

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
 
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
 

Dalla data posta all’inizio della poesia, veniamo a sapere che Ungaretti è appena arrivato al fronte e l’immagine che fa quasi da introduzione alle poesie dedicate alla guerra si apre, sin da subito, con un’immagine raccapricciante: un soldato morto, disegnato in una lunga strofe, senza soluzione di continuità e con un linguaggio quasi espressionistico, dove il suono aspro è denotato non solo dal martellare dei participi passati, ma anche capace di allontanare ogni illusione consolatoria (massacrato, digrignata, penetrata). Ed è proprio a fianco all’estremità del ribrezzo della morte, che lui si trova nella condizione di sentire verso l’esistenza l’amore pieno, estremo.

La pausa non è casuale: è lo stacco necessario in cui il poeta, come respirasse profondamente a dire la “verità” che la morte di un compagno gli suggerisce. Non è egoismo, ma è la piena consapevolezza che soltanto conoscendo la morte si arriva ad amare la vita.
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Soldati nel dolore

FRATELLI

Mariano il 15 luglio 1916
 
Di che reggimento siete
fratelli?
 
Parola tremante
nella notte
 
Foglia appena nata 
 
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
 
Fratelli

L’inizio della poesia è realistico: due drappelli di soldati s’incontrano durante la notte: non possono che essere dello stesso esercito, essendo la situazione colta durante una pausa, probabilmente vicino ad una trincea. Una domanda ed una conferma: l’insistere della vocale labiale f (fratelli, foglia, fragilità) quasi a sottolineare il sussurro con cui la parola viene pronunciata.

Il sentire la parola richiama fortemente nell’animo del poeta il concetto di solidarietà, determinata questa dalla fragilità dell’uomo stesso: i tre termini non sono riportati perché allitterati sembrano evocare un parlar piano perché nel climax ascendente sembra posarsi il pensiero poetico; il termine fratelli evoca l’uguaglianza nel pericolo e nel dolore, il termine foglia richiama appunta la sua fragilità, tanto più nuda in quanto esposta alla morte.

Ed è per questo che il soldato Ungaretti vorrebbe abbracciarli e lo fa costruendo il testo in modo circolare: l’ultima strofa composta dal trisillabo fratelli richiama la prima, in cui tale parola interrogativa cercava una risposta, che trova nella condivisione di un uguale destino.

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Ungaretti in trincea

SONO UNA CREATURA

Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916
 
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
 
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
 
La morte
si sconta
vivendo

La poesia è costruita su una comparazione, in cui il poeta anticipa il secondo termine di paragone, in cui viene descritta l’aridità del paesaggio.

Si trova nel Carso, dove le rocce hanno interiorizzato l’acqua, che è penetrata in loro, rendendole prosciugate, refrattarie, dunque ostili, appunto disaminate senza anima. Il suo pianto è come queste pietre (si ristabilisce così la similitudine), ma, ancora più drammaticamente, ci dice che l’abitudine al dolore è talmente interiorizzata che non riesce più ad esprimersi.

Non c’è in tale testo il contrappasso della vita, anch’essa si è inaridita in un dolore continuo che l’ha resa fredda e dura. La disperazione di un pianto che non vuole uscire sembra riflettersi in una sordità che non trova parole altre a cercare la vita: da qui l’allitterazione che troviamo quasi disperante nella ripetizione di quel così…

Ma il vero significato è nel titolo: sono una creatura. E’ un titolo (non sono mai casuali i titoli in Ungaretti e fanno sempre parte della lirica) che dichiara al mondo la sua più estrema protesta: sono una creatura, ed ho come tale il diritto di piangere.

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San Martino nel 1916

SAN MARTINO DEL CARSO

Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916
 
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
 
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
 
Ma nel cuore
nessuna croce manca
 
È il mio cuore
il paese più straziato

Anche qui una poesia desolata, dove l’immagine iniziale rimanda ad un qualcosa di scarno, lacerato: tale impressione è determinata dall’applicare la parola brandello a una casa. Se pensiamo che a tale vocabolo associamo qualcosa di strappato, come la stoffa o, per essere più violenti, la carne, ecco che rivolgerlo ad un muro rimanda all’idea di una lacerazione che oltre ad essere reale, visiva è anche psicologica.

Tale risvolto lo troviamo nella seconda strofa, della stessa lunghezza della prima. Alla distruzione delle case risponde il deserto della vita: ciò è reso, a livello fonico dalla ripresa dello stesso sintagma composto da una preposizione nella prima e da un avverbio nella seconda più la parola tanti; di tanti ad indicare abbondanza, neppure tanto ad indicare assenza.

Il ma oppositivo, oltre ad una constatazione, la ribellione della vita, nel ricordo, contro la cancellazione definitiva. Per questo il cuore del poeta non è un luogo dove le rovine denotano il paesaggio, ma è un paese straziato dal dolore perché le persone che ha amato non ci sono più.

Supera, se così si può dire, la contingenza bellica, seppure da essa trae origine una delle più importanti dell’intero percorso ungarettiano:
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 L’Isonzo a valle di Caporetto

  
I FIUMI
 
Cotici il 16 agosto 1916
 
Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna
 
Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposato
 
L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso
 
Ho tirato su
le mie quattro ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull’acqua
 
Mi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere
il sole
 
Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo
 
Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia

Ma quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara
Felicità
 
Ho ripassato
le epoche
della mia vita
 
Questi sono
i miei fiumi
 
Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre.
 
Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle distese pianure
 
Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto
 
Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo
 
Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre.

Qui il poeta, in un momento di pausa dall’azione bellica (che non viene censurata e la spia ce la offre il participio mutilato), si sdraia in una dolina (cavità del terreno) a sentire il languore (una sensazione malinconica, d’abbandono), come quando termina uno spettacolo circense (metafora della vita). Tale situazione, con l’ultima immagine fortemente evocativa, fa percepire al poeta il senso dell’universalità dell’esistere.

Il poeta si bagna nell’Isonzo: è circondato dall’acqua, lavato e purificato. Tale sensazione che il poeta prova è determinata da una ricerca non casuale di termini che rimandano al sacro: urna d’acqua (acqua come liquido amniotico, ma anche mezzo battesimale), reliquia ad indicare qualcosa di sacrale che si offre al Dio creatore della vita. Non è un caso che tali immagini richiamanti la religiosità di Cristo (Dio fatto uomo), contrastino con la presenza bellica della morte.

L’Isonzo è il fiume delle azioni belliche. Il poeta vi si immerge ed è come pietra, un minerale: ma il sasso è posto nel fondo è viene purificato dallo scorrere dell’acqua, che diventa metafora della discesa verso le fonti della vita.

Dopo la purificazione la resurrezione: il poeta tira su le sue quattro ossa (minerale, come la pietra) e cammina sull’acqua, tenendosi in bilico, come un acrobata di un circo. E’ evidente che ci troviamo di fronte a due metafore: la instabilità della vita e la religiosa. Novello Cristo Ungaretti sente su di sé il peso della difficoltà del vivere, soprattutto in una situazione bellica.

Quindi spogliatosi “dai sudici panni di guerra”, si china, come a raccogliere se stesso nel lontano tempo africano, come un nomade in preghiera a ricevere il Sole.

Da lui che è vita rifluiscono tutti gli attimi che lo hanno condotto fino a questo estremo limite difficile da superare (ritorna il binomio vita / morte, laddove qui il primo viene rafforzato dal concetto di ricordo).

Si parte dal presente, dal riconoscersi uomo: tale presa di consapevolezza fa percepire al poeta il suo essere parte di un tutto, e il dramma nasce quando questa piccola particella che è il suo io non si trova in armonia, appunto con il tutto da cui è circondato.

Ma non ora in cui l’acqua, personificata in mani che lo imbevono della loro stessa essenza lo fanno in pace con te stesso e gli permettono di far fluire in lui tutta la sua vita, ad iniziare da quella passata: si inizia dal Serchio, vicino Lucca da cui hanno origine i suoi genitori di tradizione contadina, e poi il Nilo che lo fatto nascere, lo ha visto crescere e gli ha offerto, durante l’adolescenza e la giovinezza di formarsi, d’acquisire la consapevolezza dell’esistere e di trovare se stesso, ma regalandogli anche quel senso d’illimitata libertà, metaforizzata nell’immensità del deserto. Quindi Parigi dove è diventato uomo, nella torbidezza del percepire il prendere coscienza, in una grande città dove la vita si presenta nel legame indissolubile d’amore e dolore (ricordiamo, qui, l’esperienza intellettuale, ma anche umana, con la perdita del suo migliore amico).

Tutti questi fiumi si contano ora in questo, l’Isonzo, dove il poeta, sdraiato nella notte, si lascia andare nella fluidità dell’esistere, la racchiude tra una corolla di petali che sta per aprirsi, e la offre alla notte, la dove si cela il suo mistero.

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Maurizio Frisinghelli: M’illumino d’immenso (mosaico e ceramica)

MATTINA

Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917
 
M’illumino
d’immenso
 

Dall’ampiezza del ricordo che ritrova, nel fluire del pensiero, il suo essere parte di un tutto, alla estrema brevità in cui tale concetto trova l’assolutezza dell’espressione. Due parole precedute da due monosillabi apostrofati, affinchè l’emissione di voce non si spezzi indicano il momento estremo in cui la comunione con il tutto non viene descritta, ma illuminata.

Lo fa attraverso l’integrazione del titolo all’interno dei due versi; il parallelismo dei due ternari in sequenza (il primo è sdrucciolo), e il richiamo fonico con l’allitterazione consonantica tra m e n e vocalica tra i e o.

Sentimento del tempo

La seconda stagione della poesia ungarettiana è rappresentata dalla raccolta Sentimento del tempo in cui vengono inserite tutte le liriche del poeta scritte dal 1919 al 1933.

Se nella struttura vuole richiamare la precedente opera Allegria, anch’essa divisa in sette sezioni, a livello tematico e strutturali notiamo delle importanti differenze:

  • A dominare il testo poetico è il concetto del tempo, quasi a sottolineare, nel nuovo canto, la differenza tra ciò che è eterno e ciò che è morituro;
  • La scoperta della Roma barocca, letta tuttavia nel pieno del periodo estivo: grazie anche a traduzioni della grande lirica spagnola del ’600, Ungaretti legge il barocco come un’esplosione, i cui frammenti dispersi, nel momento in cui si ritrovano, danno vita a qualcosa d’estremamente nuovo, forse più autentico;
  • La necessità di ritornare a un canto più regolare, anche nel tessuto sintattico: la parola s’accompagna in modo più disteso ad un dettato maggiormente articolato;
  • L’uso più insistito dell’analogia rispetto alla similitudine, che fanno di queste liriche, a volte, dei veri e propri testi dalla difficile interpretazione (aprirà forse alla stagione dell’Ermetismo);
  • La riscoperta del verso classico

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Un’immagine di Ungaretti con la pipa

ISOLA

A una proda ove sera era perenne
di anziane selve assorte, scese,
e s’inoltrò
e lo richiamò rumore di penne
ch’erasi sciolto dallo stridulo
batticuore dell’acqua torrida,
e una larva (languiva
e rifioriva) vide;
ritornato a salire vide
ch’era una ninfa e dormiva
ritta abbracciata a un olmo.
 
In sé da simulacro a fiamma vera
errando, giunse a un prato ove
l’ombra negli occhi s’addensava
delle vergini come
sera appiè degli ulivi;
distillavano i rami
una pioggia pigra di dardi,
qua pecore s’erano appisolate
sotto il liscio tepore,
altre brucavano
la coltre luminosa;
le mani del pastore erano un vetro
levigato da fioca febbre.

Questa poesia è stata composta nel 1925. In essa, come appare evidente, il poeta abbandona lo stile franto ed essenziale che aveva caratterizzato l’Allegria per dar vita ad una forma classica e barocca il cui significato rimane, ai più, di difficile interpretazione.

L’incipit crea un atmosfera misteriosa, lo spazio in cui si muove il protagonista, che non è definito, è senza nome, è  indefinito. Il tempo verbale dominante è il passato remoto, attraverso cui il poeta crea un effetto di sospensione mitica.

Il testo, d’altra parte, nella prima parte ci dice poco: un uomo approda sull’isola e si inoltra nel buio della vegetazione; è angosciato dal rumore di un uccello che spicca il volo; subito dopo si imbatte in una ninfa che dorme abbracciata ad un albero. La visione sembra poi chiarirsi: il protagonista giunge in un prato che ospita fanciulle addormentate, delle pecore e un enigmatico pastore.

Lo stile e analogico e le immagine polisemiche sembrano susseguirsi senza nesso logico: la ripresa sembra sia quella del locus amoenus (ninfe, uccelli, pastore) ma tutto rivissuto attraverso la lezione simbolista dei francesi, Mallarmé e Valery soprattutto.

E’ lo stesso Ungaretti che ci spiega il perché del ritorno a forme tradizionale (la ripresa dei verso endecasillabo e del novenario, in questo testo): Le mie preoccupazioni in quei primi anni del dopoguerra […] erano tutte tese a ritrovare un ordine e ciò non è distante dalla esigenza espressa dalla rivista La Ronda che proprio in quegli anni auspicava un ritorno all’ordine (e quindi alla chiarezza classica).

Tuttavia qualche linea di continuità c’è dietro l’apparenyte differenza tra i due tempi ungarettiani: la ricerca di una poesia pura e assoluta, basata sull’enfatizzazione delle pause e sul peso della parola isolata tipici de “L’Allegria” (come ci dice il critico Mengaldo).

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Gabriella Scarciglia: Di luglio (pittura ispirata alla poesia di Ungaretti)

DI LUGLIO

Quando su ci si butta lei,
si fa d’un triste colore di rosa
il bel fogliame.
 
Strugge forre, beve fiumi,
macina scogli, splende,
è furia che s’ostina, è l’implacabile,
sparge spazio, acceca mete,
è l’estate e nei secoli
con i suoi occhi calcinanti
va della terra spogliando lo scheletro.

1931: Ungaretti è a Roma, d’estate, nella canicola di un giorno di luglio. Lei, l’estate diventa furia distruttrice. Ed è lei col suo calore (con l’ellissi del soggetto, nella seconda strofa) distrugge, dissecca, arde impietosamente, aumenta la sensazione dello spazio, non fa vedere, non mostra il fine ultimo. L’estate creando crepe nel terreno, lo rende nudo, come uno scheletro.

Vi è nel testo come una forma d’ambivalenza, che va oltre la dicotomia morte / vita, amore /desolazione, presenti ne L’Allegria.

Ungaretti sembra dirci che attraverso l’esplosione della massimo vitalismo estivo, si crea il massimo dell’aridità, come il Barocco, che distrugge per ricostruire.

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LA MADRE

E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra,
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti all’Eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
 
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
 

La lirica propone il tema del rapporto fra la vita terrena e l’aldilà, sottolineato dalla certezza del poeta di ricongiungersi alla madre nella vita ultraterrena. Il sentimento dominante è il rimpianto per la perduta felicità dell’infanzia, che Ungaretti spera di recuperare quando tornerà a incontrare sua madre. In questo altro mondo la madre conserva gli atteggiamenti abituali che aveva in vita, la sua figura rievoca immagini che appartengono alla memoria e diventa un ponte tra la vita e la morte.
Il ricordo del passato torna ripetutamente (come una volta, come già ti vedevo, come quando spirasti) e crea un legame di continuità nella dimensione dell’eterno (il futuro incontro con la madre). La morte non ha più i toni tragici dell’Allegria, ma è solo un muro da valicare per ottenere il premio della gloria eterna.
Il testo presenta una struttura simmetrica: ogni strofa coincide con un periodo e con un gesto compiuto dalla madre, che danno al componimento una intonazione a tratti solenne. Il recupero delle forme poetiche tradizionali è evidenziato nella punteggiatura, nella subordinazione, che caratterizza la costruzione dei periodi in modo lineare, nelle similitudini che introducono le immagini del passato, nelle inversioni dell’ordine delle parti del discorso, che danno maggiore rilievo a una rispetto a un’altra (quando d’un ultimo battito / avrà fatto cadere il muro d’ombra; Come una volta mi darai la mano) e nella sinestesia finale degli occhi della madre, che “sospirano” di amore e di sollievo.

Il dolore

Le liriche de Il dolore vengono pubblicate nel dopoguerra, più esattamente nel 1947, e comprendono i testi composti dal 1934.
E’ indubbiamente la raccolta più personale di Ungaretti, quella in cui il poeta sperimenta il dolore, appunto, della perdita, in modo diretto, personale. Ci dice infatti in Vita d’un uomo: So che cosa significhi la morte, lo sapevo anche prima; ma allora, quando mi è stata strappata la parte migliore di me, la esperimento in me, da quel momento, la morte. Il dolore è il libro che più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi sembrerebbe di essere impudico. Quel dolore non finirà di straziarmi.
L’opera infatti può essere strutturata in tre parti tematiche:

  • nella prima troviamo le poesie dedicate alla morte del fratello Constantino, avenuta nel ’37;
  • la seconda, la più straziante, per quella del figlio, nel ’39;
  • la terza per la seconda guerra mondiale.

Già nella poesia dedicata alla madre, abbiamo visto come l’approdo ad una fede religiosa, rappresentasse una forma non dico di pacificazione ma di idealizzazione delle persone scomparse; i segni che essi lasciano permettono, infatti che il dialogo continui. Tali segni possono essere ritratti nel volto, nelle mani, nell’ombra che, pur scomparsi, s’intrattengono col poeta.

La prima poesia che apre la raccolta è dedicata al fratello:
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Ottone Rosai: Ritratto di Ungaretti

TUTTO HO PERDUTO

Tutto ho perduto dell’infanzia
e non potrò mai più
smemorarmi in un grido.
 
L’infanzia ho sotterrato
nel fondo delle notti
e ora, spada invisibile,
mi separa da tutto.
 
Di me rammento che esultavo amandoti,
ed eccomi perduto
in infinito delle notti.
 
Disperazione che incessante aumenta
la vita non mi è più,
arrestata in fondo alla gola,
che una roccia di gridi.

E’ una poesia sulla morte di Constantino e con lui sulla morte dell’infanzia. Ciò ci dice nel primo verso dove il Tutto assolutizza la sensazione della perdita tale da non poter più dimenticare se stesso in un grido di libertà. Ora l’infanzia è sotterrata, tagliata dal presente, irripetibile proprio perché viene a mancare la persona che la evocava. Il ricordo, personale si focalizza sull’amore infantile che ora non è più, trasformandosi in aridità rocciosa.

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NON GRIDATE PIU’

Cessate d’uccidere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
 
Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo
 

La poesia de Il dolore, dall’esprimere dapprima uno strazio (per usare il termine di Ungaretti) per la morte del fratello e del figlio (i versi riguardanti Antonietto si strutturano in un poemetto, dove si susseguono varie sensazioni determinate dalla perdita) si apre qui ad un dolore universale, quello creato dalla guerra.

Essa e composta da due strofe: nella prima troviamo due imperativi (cessate, gridate) che non hanno valenza di comando, ma come di preghiera, invito a terminare di profanare i loro corpi assenti. Essi hanno ancora qualcosa da insegnarci, un impercettibile sussurro che li lega a noi. Sono datori di vita, come l’erba, che cresce sopra loro. Ma l’ultimo verso, di per sé inquietante, sottolinea l’impossibilità dell’incontro: essi parlano laddove non esiste l’uomo, che calpesta e uccide la vita quand’essa nasce dal profondo della terra.

Le ultime due raccolte sono La terra promessa e Taccuino del vecchio, che possono essere considerate legate dalla stessa concezione poetica. Le parti più interessanti sono certamente quelle dedicate alla ripresa classicista del mito di Enea e Didone, tale mito permetteva al poeta di proiettare in esso tutti i temi portanti (il viaggio, l’approdo, l’abbandono, la morte) presenti nel suo itinerario poetico. Tale progetto non vide la definizione e rimase incompiuto e venne ripreso in parte nell’ultima raccolta, dove tuttavia il punto di vista veniva capovolto, ed era l’io lirico il cui approdo diventava appunto la cessazione della vita. Si ricorda, per inciso, che l’intenzione del poeta era quella di dar vita ad un vero melodramma: infatti il musicista Luigi Nono prese i frammenti (alcuni anche piuttosto lunghi) e li inserì in un tappeto musicale.

 

UMBERTO SABA

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Umberto Saba

Se per la prosa Trieste ha dato i natali ad uno dei nostri maggiori narratori del Novecento, lo stesso si può dire per la poesia, grazie alla produzione in versi di Umberto Saba.
Forse i motivi della loro importanza possono essere rintracciati in:

  • la perifericità della città di Trieste, posta al confine tra la grande cultura nazionale e le nuove esperienze culturali che sopraggiungevano dalla vicina Germania;
  • l’importanza della psicoanalisi.

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Trieste: Canale

Umberto Saba nasce a Trieste il 9 marzo del 1883, da Ugo Edoardo Poli e Felicita Rachele Coen. Certo tale nascita sarebbe stata una tra le tante nascite, se il padre dapprima non si fosse convertito all’ebraismo per sposarsi e per poi abbandonare la moglie in attesa del loro primo figlio.

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Casa della balia di Saba

Umberto non conosce il padre e la madre si rivela una donna dura, arrabbiata, non fosse perché costretta a sobbarcarsi tutte le incombenze economiche. Per tale motivo il piccolo Berto (come si definirà in una sezione della sua poesia), verrà affidato a una balia slovena, cattolica, “la Peppa”, che circonderà il piccolo di cure estremamente affettuose, visto che a lei era mancato da poco un figlio. Saranno anni felici, a cui il poeta resterà sempre legato, tanto da scegliere, per lo pseudonimo il nome Sabaz, per alcuni, dal suo cognome; per altri dal termine ebraico con cui si indica il pane).

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Trieste: P.zza Giuseppina

A tre anni Umberto dovrà lasciarla (l’allontanamento, forse, dovrà essere imputato al cattolicesimo) e fino a dieci anni sarà educato dalle zie nella città di Padova. Rientrato a Trieste si iscrive al ginnasio, ma il suo rendimento scolastico non è soddisfacente, quindi frequenta l’Imperial Accademia di Commercio e Nautica, finita la quale s’imbarcherà come mozzo in una nave mercantile.

Sempre giovane s’impiega in una ditta commerciale. Durante le ore di ozio concessegli nelle pause lavorative, approfondisce letture dei grandi poeti del passato. Quindi si reca a Pisa e a Firenze ed ha un incontro infruttuoso con Gabriele D’Annunzio (considerato da lui un mito). In seguito svolge il servizio militare a Sorrento.

Tornato a Trieste vi sposa, con cerimonia ebraica, Carolina Wöfler, da lui chiamata poeticamente Lina, dalla quale avrà l’amata figlia Linuccia.
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Saba con la moglie 

Durante i viaggi tra Firenze e Trieste, pubblica alcune raccolte di poesie (senza gran successo), ma allo scoppio della grande guerra viene richiamato alle armi. Farà una guerra sulle retrovie, considerato inabile per la battaglia.

Rientrato finalmente a Trieste, grazie all’aiuto della zia Regina, vi aprirà una biblioteca antiquaria e lì trascorrerà il resto della vita, (con l’eccezione del periodo in cui sarà costretto ad andare a Firenze per nascondersi a causa delle leggi razziali) tra crisi nervose e scrittura poetica.

Le continue cadute a livello psicologico lo condurranno alla cura psicoanalitica, grazie alla quale, pur non uscendo guarito, riuscirà a stabilire un equilibrio che gli permetterà di condurre un’esistenza che, dopo la guerra, comincia ad essere gratificata dal riconoscimento della sua grandezza poetica.

Riceverà la laurea honoris causa all’università di Roma nel 1953.

Nel 1956 muore la moglie Lina.

Stanco e malato, in una clinica di Gorizia, dalla quale non esce mai, si spegne, ad un anno di distanza, il 25 agosto.

La produzione poetica di Umberto Saba è tutta raccolta in un libro che ha avuto varie edizioni, a seconda delle aggiunte che il poeta vi inseriva, intitolato, come omaggio alla tradizione Canzoniere, e che sarà edita dapprima nel 1945 e, dopo l’aggiunta delle ultime poesie, nel 1961.

All’interno di essa varie sezioni, fra le più importanti dell’itinerario poetico di Umberto Saba: Versi militari, Casa e campagna, Trieste e una donna, Il piccolo Berto, Ultime cose.

Non bisogna dimenticare la sua attività di prosatore che si esplica in Scorciatoie e raccontini, la cui prima pubblicazione è del ’46, ed il romanzo incompiuto Ernesto, pubblicato, a cura della figlia, postumo nel 1975.

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Umberto Saba e Carletto Cerne nella Biblioteca antiquaria

Il Canzoniere rappresenta, per parole dello stesso Saba, un “autobiografia in versi” dello stesso poeta: non per niente il titolo riprende il modello petrarchesco in cui, appunto si raccontava, in modo poetico, l’amore in vita e in morte per madonna Laura. Allo stesso modo bisogna leggere l’opera del poeta triestino, perché ogni poesia, pur in sé conchiusa, non cessa di avere richiami interni e analogie con altri testi presenti nell’opera.

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Canzoniere edizione del 1921

Tale autobiografia la sottolinea egli stesso dividendo il Canzoniere in tre parti, che contengono precise raccolte poetiche (citeremo le più importanti):

  • periodo giovanile, dal 1900 al 1920: Versi militari, Casa e campagna, Trieste e una donna;
  • periodo della maturità dal 1921 al 1932: Autobiografia, Il piccolo Berto, Preludio e fughe, Ultime cose;
  • periodo della vecchiaia dal 1933 al 1954: Parole, Mediterraneo, Quasi un racconto, Sei poesie della vecchiaia.

La prima parte, o, per dir meglio il primo periodo della poesia sabiana vede come protagonista la moglie Lina e la città di Trieste.

Alla prima dedica il seguente testo:
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Il vecchio Saba con la moglie

A MIA MOGLIE
Tu sei come una giovane, una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
Così se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
 
Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa; che,
se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la sua carne.
Se l’incontri e muggire l’odi,
tanto è quel suono
lamentoso, che l’erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t’offro quando sei triste.
 
Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d’un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.
 
Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l’angusta
gabbia ritta al vederti
s’alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?
 
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere;
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.
 
Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l’accompagna.
E così nella pecchia ti ritrovo,
ed in tutte le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna.
 

Poesia tra le più celebri di Saba, inserita nella sezione Casa e campagna, anche per il suo tono dimesso, ma non per questo meno ricercato. Se vi è un tributo è certamente al Cantico francescano e se tale tributo lo abbiamo ritrovato anche in D’Annunzio, più esattamente ne La sera fiesolana, dove esso rimanda ad una luna argentea, quindi visiva, qui, invece, è all’umiltà del creato e alla perfezione silenziosa umile della donna, soprattutto di Lina, al tempo della poesia, in attesa di un figlio.

L’accostamento alle femmine animali non è casuale: viene colto nell’atteggiamento di esse qualcosa che le rende uniche: l’incedere maestoso della pollastra, il bisogno di protezione e di dolcezza della giovenca, l’amore geloso di una cagna, il senso della libertà di una rondine, la maternità di una coniglia o la laboriosità di una formica; Lina è come tutte queste qualità.

La struttura del testo poetico ci offre la possibilità di definire la poesia sabiana antinovecentista; egli non ama l’analogia, cara ai simbolisti e poi agli ermetici, suoi contemporanei; crede fermamente nella forma e nella tradizione della poesia, soprattutto al grande canone della letteratura italiana, dagli stilnovisti a Leopardi.

A tale scopo Saba trova il ricorso alla similitudine, costruita in anafora su ogni strofe, più naturale, perché figlio, appunto della tradizione. Tale similitudine fa sì che l’attenzione rimanga accesa sul “Tu” che viene illuminato dalla perfezione di Dio nell’aver creato la donna. Infatti se la donna è più vicina alla natura dell’uomo, di conseguenza è più vicina a Dio. Per questo tale poesia ha un ritmo profondamente religioso, tanto da essere considerata, da alcuni critici, come un ricalco alla laude medievale (si pensi ai bestiari).

Ma Saba, oltre a considerarla una preghiera, l’ha definita anche come “poesia infantile”: “se un bambino potesse sposare e scrivere una poesia per sua moglie, scriverebbe questa”. E’ evidente che l’immagine femminile di un bambino non può che essere quella materna, per questo, poi, tale religiosità si veste anche d’ambiguità: allora la poesia che Umberto ha dedicato a Lina, l’ha anche dedicata alla madre. La compresenza di moglie/madre è evidente e rende il testo, con parole sabiane “scandaloso”.

Rapporto tra il mondo della natura e quello umano, lo ritroviamo anche in un altro testo, sempre tratti dalla sezione Casa e campagna:

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LA CAPRA
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
 
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
 
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

Il nucleo tematico della lirica è la solitudine dell’uomo e come questa porti al riconoscimento di una fraternità universale nel dolore.

L’incipit poetico è la parola senza risposta. Solo il belato di una capra sofferente, bagnata e legata. Si vede che è sofferente, della stessa sofferenza dell’io poetico.

Nella seconda strofa si sottolinea l’identità tra la voce ed il belato: nessuna differenza: la sofferenza ha una sola voce.

La terza vede, nel viso semita dell’animale, incentrarsi il male del mondo.

Potrebbe apparire un testo semplice, ma forte è il richiamo leopardiano, soprattutto di Canto notturno di un pastore errante: lì il pastore si domanda se il mondo animale non conosca il dolore (la noia), qui Saba dà una risposta, forse quella che Leopardi mette, a chiusura della lirica in tono dubitativo forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il natale. Per Saba nessun forse, solo una certezza perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia.

In Storia e cronistoria del Canzoniere, in cui Saba spiega la genesi della sua opera, rispetto all’ultimo verso ci dice «è un verso prevalentemente visivo. Quando Saba lo trovò, non c’era in lui nessun pensiero cosciente né pro né contro gli ebrei. È un colpo di pollice impresso alla creta per modellare la figura». Ma la capra dal volto quasi umano che gli ricorda un viso semita, cioè proprio di quel popolo che ha più sofferto, per essere stato il più perseguitato della storia, non può non apparire come l’emblema “della condizione universale di dolore immanente negli uomini come nella natura” (Bàrberi Squarotti, 1960).

Altra grande protagonista della sua lirica è certamente Trieste, a cui dedica una delle sue poesie più belle, tratta da Trieste e una donna:
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Trieste città vecchia

CITTA’ VECCHIA
Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.
 
Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.
 
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.
 

Il poeta passeggia per la città, e compie un piccolo viaggio: quasi novello Dante scende agl’inferi di essa: i luoghi sono l’osteria ed il bordello, posti nel porto e i peccatori sono la prostituta, il marinaio, un vecchio che bestemmia, una donna che litiga, un sodato, ed una chiassosa ragazzina invasata d’amore; ma in questi peccatori il poeta ritrova l’infinito nell’umiltà.

Se il canto è il canto dell’umiltà, umile dev’essere il linguaggio poetico, cui le assonanze interne e le rime rimandano alla disposizione di parole, quanto mai più denotative nella rappresentatività, quanto mai più connotative rivelando in esse la divinità dell’esistere nel nome del Signore.

Sono figure portatrici di dolore, come di dolore è stata la morte di Cristo: è sintomatica la rima amore : dolore : Signore, quasi ad indicare che laddove vi è Dio non può esserci sia l’uno che l’altro.

L’ultimo è quasi un verso ossimorico, ma visto nella dicotomia sabiana tra vita ed esclusione ad essa, troviamo la certezza che dove vi è la vita vissuta nella difficoltà, là vi è Dio. Ma è come se vi sia rimpianto: il poeta ama quella vita, ma ne è escluso, l’osserva dall’esterno.

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Saba osserva il porto di Trieste

TRIESTE
Ho attraversata tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
 
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
 
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

Se il viaggio di Saba nella poesia precedente è di discesa, qui, viceversa è in ascesa, Saba qui sale dal centro popoloso, per arrivare su un’erta, dove, in isolamento osserva il sua città.

Trieste ha una grazia scontrosa: in un ossimoro la sua caratteristica: la dolcezza non affettata, come la purezza di un ragazzo che ama con gelosia. Vi è in essa come una continua dicotomia, che è lo specchio della dicotomia dell’autore stesso: Trieste è periferica, come periferico è il suo io, tra la vita e il senso di non appartenenza; tra la voglia d’amare e la paura dell’abbandono. Anche la casa, posta in alto, che s’aggrappa alla collina, sembra escludersi dal resto.

Non è un poesia sulla città in cui è nato, ma è una poesia sulla Trieste interiore riflesso della sua vita. Se in città vecchia la vedevamo solare, ora la troviamo irraggiungibile: ma ciò che non cambia è l’atteggiamento del poeta.

Che Saba sia un escluso lo capivamo dall’osservazione esterna sia in Città vecchia che in Trieste: nell’una osserva la vita del porto, a cui piacerebbe entrare, nell’altra la guarda dall’alto, l’abbraccia, ma continua a non viverla.

Sul piano stilistico notiamo la presenza di endecasillabi, settenari e quinari con rime a volte baciate: il lessico è leopardiano (erta, muricciolo, natia), poeta da lui profondamente amato.

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Edoardo Weiss con due assistenti

Dalle seconda parte scegliamo due poesie, la prima tratta dalla sezione Autobiografia (composta nel ’24), l’altra dalla sezione Il piccolo Berto (1931), raccolta dedicata al dottor Edoardo Weiss (allievo di Freud), a cui il nostro si rivolse per un trattamento psicanalitico.

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MIO PADRE E’ STATO PER ME “L’ASSASSINO”
Mio padre è stato per me «l’assassino»,
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.
 
Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.
 
Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
 
«Non somigliare – ammoniva – a tuo padre».
Ed io più tardi in me stesso lo intesi:
eran due razze in antica tenzone.

La poesia presenta un aspetto estremamente tradizionale: un sonetto a rime alternate. Come per gli altri sonetti della stessa sezione, il primo verso della poesia introduce il tema autobiografico che l’autore intende interpretare retrospettivamente: in questo caso si tratta del rapporto con la figura paterna, che Saba incontra per la prima volta a vent’anni, scoprendolo libero, infantile, dolce e molto più simile a lui di sua madre, che ai suoi occhi ha sempre incarnato la severa autorità e il senso del dovere.

Il sonetto è costruito secondo in modo simmetrico: le prime due quartine sono dedicate alla figura paterna, le due terzine alla madre. Ma tale divisione ricorre anche a livello di campi semantici: se nella prima parte a prevalere sono i significati leggeri, (ricordiamo che il termine “assassino” era un intercalare del linguaggio del parlato, qui riferito alla madre), tutti posti in rima bambino : azzurrino; e gli aggettivi composti dolce/astuto : amato/pasciuto; diverso il trattamento retorico e semantico dedicato alla madre, dove troviamo l’unico enjambement del testo, ad indicare il livello di sopportazione che la povera donna abbandonata doveva sopportare.

A tale divisione fa da chiusura l’ultimo verso gli ultimi due versi, dopo l’espressione materna, ad indicare che, i due caratteri così contrapposti (due razze in antica tenzone), fanno ora parte del proprio io: il senso di indeterminatezza e leggerezza, che lo rende estraneo della vita (come lo fu anche il padre in un certo senso), e la severità della madre che lo inibisce. Pur non avendo ancora onosciuto il dottor Weiss, è palese la lettura freudiana che il testo ci propone.

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Saba con la figlia Linuccia

MIA FIGLIA MI TIENE IL BRACCIO INTORNO AL COLLO
Mia figlia
mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;
ed io alla sua carezza m’addormento.
 
Divento
legno in mare caduto che sull’onda
galleggia. E dove alla vicina sponda
anelo, il flutto mi porta lontano.
Oh, come sento che lottare è vano!
Oh, come in petto per dolcezza il cuore
vien meno!
 
Al seno
approdo di colei che Berto ancora
mi chiama, al primo, all’amoroso seno,
ai verdi paradisi dell’infanzia.

Poesia fondamentale alla quale la lettura psicoanalitica sembra assolutamente lecita, essendo indirizzata, appunto al suo terapeuta.

Dopo una dolcissima descrizione, un amore tra un padre e una figlia, amore da lui provato solo dalla balia, la dolce Peppa, s’addormenta e l’approdo è alla sua infanzia.

La parte centrale rappresenta lo stato d’animo di Saba, un legno caduto sull’acqua che anela raggiungere la riva e non vi arriva, la mancanza di forza, la sua indeterminatezza, la noluntas di sveviana memoria, che al poeta conterraneo sembra tradursi in dolcezza, con il verso dal sapore leopardiano come in petto per dolcezza il cuore vien meno!.

Infine la catarsi, la regressione all’infanzia, con l’ultimo verso baudelairiano, laddove il poeta triestino sostituisce l’espressione dell’infanzia ai termini di amori infantili.

Dall’ultima fase, quella della maturità, le poesie che ci piace ricordare sono quattro. La prima di esse è tratta dalla sezione Parole (1933-1934), e presenta un tema inconsueto per la tradizione poetica:

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GOAL
Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non vedere l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
 
La folla – unita ebbrezza – par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano fratelli.
Pochi momenti come questi belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.
 
Presso la rete inviolata il portiere
– l’altro – è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola.
La sua gioia si fa una capriola
si fa baci che manda di lontano.
Della festa – egli dice – anch’io son parte.

Se Saba è alla ricerca di una poesia “umile” e quindi “popolare”, nel senso più alto che questo termine deve avere, essa deve trattare temi altrettanto popolari, come lo erano, certamente l’epica dei giochi funebri nella poesia classica. D’altra parte anche Leopardi aveva ottemperato a tale tradizione con A un vincitore nel pallone e Saba, accostandosi a tale tradizione, trasforma l’autore del goal in un eroe, capace di piegare la difesa avversaria e di far traboccare di gioia incontenibile i compagni ed i tifosi negli spalti. A tale scopo ricorre anche un certo innalzamento del lessico poetico, che rincorre quello epico

Ma tale episodio è posto al centro, schiacciato dalla strofa iniziale e da quella terminale, dove a prevalere sono i due portieri, come in un reale campo di calcio, posti ambedue all’estremità.

Saba non registra il gesto, né del vincitore né del portiere: quello che lo interessa è il riflesso psicologico che, in quello sconfitto, si riflette nel pudico pianto, nel vincente nella volontà di baciare chi condivide con lui la gioia.

Ma a ben leggere a prevalere sono un senso di fraterna solidarietà: il compagno s’avvicina, consola il portiere abbattuto; i compagni del realizzatore s’abbracciano, raccogliendo anche l’entusiasmo dell’uomo tra i pali.

Sono tutti legati dall’essere uomini: fratelli nell’odio e nell’amore di una medesima natura.

Il secondo testo è tratta dalla sezione 1944, scritta e pubblicata nello stesso anno, quando Firenze venne liberata dai nazifascisti.

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Carlo Levi: Ritratto di Umberto Saba

IL TEATRO DEGLI ARTIGIANELLI
Falce martello e la stella d’Italia
ornano nuovi la sala. Ma quanto
dolore per quel segno su quel muro!
 
Entra, sorretto dalle grucce, il Prologo.
Saluta al pugno; dice sue parole
perché le donne ridano e i fanciulli
che affollano la povera platea.
Dice, timido ancora, dell’idea
che gli animi affratella; chiude: «E adesso
faccio come i tedeschi: mi ritiro».
Tra un atto e l’altro, alla Cantina, in giro
rosseggia parco ai bicchieri l’amico
dell’uomo, cui rimargina ferite,
gli chiude solchi dolorosi; alcuno
venuto qui da spaventosi esigli,
si scalda a lui come chi ha freddo al sole.
 
Questo è il Teatro degli Artigianelli,
quale lo vide il poeta nel mille
novecentoquarantaquattro, un giorno
di Settembre, che a tratti
rombava ancora il cannone, e Firenze
taceva, assorta nelle sue rovine.
 

In Storia e cronistoria del Canzoniere il poeta sottolinea di non aver voluto scrivere una poesia comunista, ma di aver voluto cogliere il momento della appena ritrovata libertà in un luogo dimesso, un piccolo teatro di periferia.

Siamo nel 1944, gli alleati hanno respinto le truppe tedesche oltre la linea gotica; Saba è a Firenze, ospite di alcuni amici per essersi dovuto nascondere perché di madre ebrea.

Ancora cannoneggiano quando una parte della città è stata liberata e a festeggiarla un manipolo di uomini, donne e bambini. Una colorazione festosa, nell’incipit, che non disdegna il dolore per la guerra non ancora finita.

Entra, nella seconda strofe, un mutilato: recita il Prologo; vuol far sorridere, affinché il sorriso accomuni nel sentimento fraterno gli uomini, ormai liberi dai lutti e dai pianti: ad accompagnarli del vino rosso che ne attenui le tristezze.

La chiusa ci riporta al dolore, ad annullare il concetto di poesia celebrativa. E’ pur vero che il verso è piano, dalla sintassi semplice, con l’inserimento del discorso diretto; ma ad osservare i termini che chiudono le tre strofe ineguali, parole forti nel tessuto poetico, sembri che il sole di speranza della seconda si sperda, schiacciato dal muro e da rovine.

Il dolore, sembra dirci Saba, è insito nell’uomo e, seppur in questo caso, aperto alla speranza, forte per i numerosi lutti e la distruzione che la guerra ha causato.

Tratta dalla sezione Mediterranee (1946) leggiamo quello che può essere considerato un vero e proprio manifesto poetico del poeta triestino:

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Umberto Saba: La poesia onesta

AMAI

Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
 
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l’abbandona.
 
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.

L’autore, prendendo esplicitamente parola in prima persona, spiega al suo lettore in il fine delle sue scelte poetiche. Le trite parole (e cioè già utilizzate da molti, nel corso della tradizione poetica italiana) sono sia una scelta di stile che di contenuto: la rima fiore | amore, è la più banale cui si possa pensare, e per questo la più difficile da personalizzare e rendere originale. Ed è proprio questa la sfida di Saba, che reagisce contro la continua ricerca di nuove tecniche espressive, affermando come la vera scommessa sia quella di avvalersi della tradizione per esprimere concetti e verità nuove.

La verità che giace al fondo è secondo l’autore il fine ultimo della poesia, unico mezzo di cui l’uomo può avvalersi per scoprire i più reconditi segreti del cuore umano, la psiche tormentata che il poeta ha sempre cercato di sublimare col suo dettato poetico.

E proprio questa verità deve essere espressa dal poeta nel modo più semplice e immediato possibile, senza nascondersi dietro a tecnicismi e scelte stilistiche eccessivamente sperimentalistiche (quali quelli dei poeti a lui contemporanei, soprattutto gli ermetici).

Ancora dalla stessa sezione traiamo la lirica Ulisse:
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Umberto Saba alla finestra (1946)

ULISSE
Nella mia giovanezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

Saba è ormai vecchio quando scrive questa lirica e rievoca il periodo della giovinezza in cui, come mozzo in una nave, navigava sulle coste dalmate.

Rivivendo quei momenti e l’ambiente marino, il poeta non può non richiamarsi al mito d’Ulisse, così operante nella cultura Novecentesca (si pensi all’Ulisse di Joyce); tuttavia il confronto tra l’eroe greco e il poeta triestino può risoltura inopportuno se non si legge dietro il viaggio di Ulisse e il viaggio della vita di Saba una identica difficoltà nel superare gli ostacoli.

Qui il poeta li rivede quei pericoli e i momenti difficili della sua vita e li oggettivizza negli isolotti radenti l’acqua, coperti d’alghe, scivolosi…

La vela che sbanda è la sua anima, che cerca sicurezza, verità. Forse il porto potrebbe darle sicurezza, ma è una sicurezza inconsapevole (da lottatore, la definirebbe Svevo) quella che non dà problemi, fatta di una vita conformistica.

Ma un poeta non può fermarsi senza interrogarsi sulla verità ultima: allora il non domato spirito (sembra risentire Foscolo, che proprio ad Ulisse rivolse la sua attenzione in A Zacinto) e della vita il doloroso amore (splendido ossimoro in anafora) preferiscono andare al largo, nel mare (infinità dell’essere), ad interrogarsi ancora sul dolore universale dell’uomo, la cui fatica del vivere è resa, retoricamente con numerosi enjambement, quasi inciampi nel percorrere la difficile via dell’esistere.

Non si può chiudere il discorso su Saba, senza accennare al suo romanzo, iniziato nel ’53, ma rimasto incompiuto e ritenuto impubblicabile dallo stesso autore. Sarà infatti portato alla luce a più di vent’anni di distanza, dalla figlia Linuccia, esattamente nel 1975.

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Edizione enaudiana del romanzo (1975)

Vi si racconta la storia del sedicenne Ernesto, bellissimo adolescente, nel 1898, abbandonato dal padre prima di nascere e cresciuto con la madre, la balia ed una zia. Lavora presso il rude industriale Wilder e qui riceve le attenzioni di un operaio ventottenne con cui ha un’esperienza omosessuale. Confuso, su consiglio di un barbiere, si reca in un bordello cittadino, dove la prostituta Tania lo inizia all’amore eterosessuale. Non volendo più recarrsi al lavoro si procura il licenziamento inviando una lettera d’improperi al signor Wilder. Poiché la madre non si spiega il motivo di tale scelta e vorrebbe farlo riassumere il figlio è costretto a confessare alla madre la relazione omosessuale.

Il successivo capitolo, Emilio, disoccupato, assisterà ad un concerto di un giovanissimo violinista, strumento di cui anche lui è appassionato. Forse sarà l’inizio di un nuovo amore. Qui il romanzo s’interrompe.

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Locandina del film tratto dal romanzo di Saba (1979)

LA CONFESSIONE

«Non chiedermi nulla,» implorò Ernesto quando, fra le dita delle mani di cui si faceva schermo alla faccia, lesse negli occhi di sua madre il turbamento causato dalla sua confessione. Temeva di averle inferto un colpo mortale, di vederla, da un momento all’altro stramazzare dalla sedia, morta per colpa sua… Se non fosse stato egli stesso così turbato, avrebbe visto che le sue parole avevano procurato invece a sua madre un senso quasi di sollievo. Dall’agitazione del figlio attendeva anche peggio…

«Adesso capirai», continuò Ernesto, «perché non posso più ritornare dal signor Wilder. Non devo più rivedere quell’uomo. La signora Celestina non vedeva che il lato materiale del fatto, che gli sembrava, più che altro, incomprensibile. Le sfuggiva del tutto il suo significato – la sua determinante psicologica. Se no, avrebbe anche dovuto capire che il suo matrimonio sbagliato, la totale assenza di un padre, la sua severità eccessiva ci avevano la loro parte… Senza contare, bene inteso, l’età, e più ancora la “grazia”particolare di Ernesto, che forse traeva la sua origine proprio da quelle assenze.

«Mascalzone», esclamò, prendendosela, ad ogni buon conto, con l’uomo, «mascalzone, assassino, peggio di tuo… Abusare così di un ragazzo! Saprò bene io trovarlo, e dirgli quattro parole. Al solo vedermi, deve buttarsi in mare dalla vergogna, e subito, se non vuole che io…»

«No», disse Ernesto, «egli non ha tutta la colpa. Devi anzi, se non vuoi far andare in dispiaceri anche me, giurarmi che non cercherai mai né di vederlo, né di parlargli. Perché tu non sai, mamma… Adesso è finito; ma se ritornassi dal signor Wilder… Diceva di volermi bene, e non mi lasciava più pace… Mi portava perfino le paste».

«E vorresti che io lo lasciassi impunito, dopo quello che ha fatto a mio figlio, a un ragazzo per bene…»

«Non sono più per bene, e non sono più un ragazzo», disse, suo malgrado, Ernesto, «o almeno non lo sono più per la legge. E, se io non avessi voluto…»

«Non mi dirai, adesso, che sei stato tu a pregarlo?»

«No, mamma, a pregarlo no. Ma, … ma gli sono andato incontro a più di mezza strada. Ecco perché non devi dire niente a nessuno, meno di tutti allo zio Giovanni». (Gli era venuta in mente l’idea, più terribile di ogni altra, che sua madre potesse denunciare la cosa a suo zio, che era anche il suo tutore, e per di più, Ernesto non lo dubitava, mezzo matto… Il padre di Ernesto era stato bandito, per attività sovversive, irredentistiche, dall’Impero d’Austria, di cui Trieste era, dopo la perdita di Venezia, “la più bella gemma”; e la Legge voleva che ogni minorenne, privo per causa di morte o altra dell’assistenza paterna, avesse, almeno per la forma, un tutore). «Giurami», continuò, «che non dirai nulla allo zio; giurami, mammina. Se no…» E si mise a piangere

La signora Celestina (e fu un miracolo) capì, questa volta, che suo figlio aveva più bisogno di essere consolato che rimproverato. Il fatto – va da sé – le ripugnava e, più ancora le riusciva – come si è detto – quasi incomprensibile. Ma non ne fece – come temeva Ernesto – un caso di vita o di morte. Si accontentava che, per il buon nome di suo figlio, rimanesse tutto segreto; che nessuno, nemmeno l’aria, ne sapesse o sospettasse nulla.

«Ma lui… quell’uomo», disse, «sei sicuro che non parlerà?»

«Sicuro», si sforzò di mentire Ernesto.

«Ed anche tu non devi farlo capire a nessuno; nemmeno, guai!, a tuo cugino. Sai che ragazzo è quello». (Temeva che suo figlio fosse, oltre che un po’ esagerato, un po’ chiacchierino). «Ti ha fatto molto male?» aggiunse, sottovoce.

«Oh, mamma!» implorò Ernesto cacciandosi sempre più la testa fra le mani. (Il cugino corruttore gli sembrava, in quel momento, uno specchio di virtù).

«Figlio, povero figlio mio!» s’intenerì, ad un tratto, la signora Celestina. E seguendo questa volta l’impulso del cuore, mandò al diavolo (cioè al suo vero padre) la morale e le sue prediche inette. Si piegò sul ragazzo, e lo baciò in fronte.

«Devi giurarmi» disse, «che non lo farai più. Sono cose brutte, indecenti», (Ernesto pensò involontariamente alla “forma esterna” dei suoi componimenti scolastici, che gli aveva procurato l’inimicizia di un professore al Ginnasio), «indegne di un bel ragazzo come te. Solo i “muloni” le fanno, quelli che vendono limoni agli angoli delle strade, in Rena Vecchia, non il mio Pimpo». (Nei suoi rari momenti di espansione, la signora Celestina dava a suo figlio il nome che questi aveva dato al merlo).

Dopo il bacio della madre, e sentendo avvicinarsi il perdono, Ernesto si sentiva rinascere. Era uno dei pochi baci che avesse ricevuti da lei. La povera donna ci teneva molto ad essere – e più ad apparire – una “madre spartana”. «No pensarghe più, fio mio», disse, passando all’improvviso, e senza accorgersene, al dialetto, cosa anche questa che le accadeva di raro, «quel che te xe nato xe assai bruto, ma no ga, se nissun vien a saverlo, tanta importanza. No ti xe, grazie a Dio, una putela».

«No son una putela» protestò Ernesto «son anche sta una volta da una dona». E scoppiò in singhiozzi, come quando – fanciullo di dieci anni – aveva letto, la prima volta, il Cuore di Edmondo de Amicis. Singhiozzava proprio di gusto.

Questa seconda confessione – colla quale Ernesto credeva forse di lavarsi dalla prima – ferì più profondamente l’anima gelosa di sua madre. Come l’uomo – sebbene per motivi (almeno in parte) diversi – temeva per suo figlio le donne: quelle pubbliche per le malattie, le altre per altre ragioni. «Ed io», disse, «che ti credevo ancora innocente come un colombino».

Dal letto di ottone le rispose il gemito di un uomo pugnalato.

«Adesso, basta», disse, alzandosi, la signora Celestina. «Quello che è stato è stato. Al signor Wilder parlerò io, gli dirò che sei ammalato; o, per non mettere la bocca in male, troverò un’altra scusa. Tu non li vedrai più, né il signor Wilder, né… l’altro.

«Davvero, mamma, mi perdoni?» disse Ernesto. Desiderava un secondo bacio; ma non osava chiederlo.

«Ti ho già perdonato», disse la signora Celestina. «Alzati adesso, e va’ a fare quattro passi. Non lasciarti prendere dalla malinconia».

Ernesto si mise a sedere sul letto. Negli occhi color nocciola – lavati dal pianto – splendeva come una luce di bontà infantile.

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 Statua di Umberto Saba a Trieste

PUBLIO VIRGILIO MARONE

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Il poeta latino ritratto in un mosaico romano (Treviri, Landsmuseum).

L’importanza di Virgilio è talmente immensa nella storia del pensiero occidentale da stare al pari di Omero, Dante, Shakespeare e Goëthe. A testimoniarlo è lo stesso Dante, che nel I canto dell’Inferno, che fa da Introduzione all’intera Commedia, ce lo presenta in questo modo:

 «O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore.

Da come si evince dal testo la sua grande importanza sta nel bello stilo che in Dante vuol dire stilo tragico, lo stile più alto per la poesia epica. Ciò significa che, se il padre della letteratura italiana dichiara d’essere “umile” seguace dell’insegnamento virgiliano, se, a sua volta, la cultura italiana è stata maestra di quella europea, l’importanza di Virgilio varca realmente i confini di spazio e tempo per arrivare fino agli intellettuali del ’900, come testimoniato dal romanziere di lingua tedesca Herman Broch che dedica all’autore dell’Eneide un intero romanzo, La morte di Virgilio.

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Biografia

La biografia virgiliana ci è testimoniata da Elio Donato, che a sua volta l’aveva ripresa da una sezione del libro di Svetonio, intitolata De poëtis, andata perduta. A tale biografia si rifà lo stesso Dante:

… li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.

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Statua di Virgilio a Mantova

Sappiamo, più o meno che egli è nato nel 70 a. C. nei pressi di Mantova, più precisamente, secondo alcuni, ad Andes (località oggi collocabile nella città di Pietole in Lombardia), da agiati proprietari terrieri, se gli stessi hanno avuto la possibilità di farlo studiare dapprima a Cremona e quindi a Milano, per poi trasferirsi a Roma. L’urbe, in quel periodo era attraversata dalla guerra civile dapprima tra Cesare e Pompeo, quindi dal cesaricidio ed infine dalla guerra tra Antonio e Ottaviano contro gli assassini di Cesare. Anni fortemente problematici per il timido Virgilio, che nel frattempo si era trasferito a Napoli per seguirvi le lezioni di filosofia epicurea tenute da Sirone e Filodemo di Gadara. E’ di questi anni la notizia non confermata del primo tentativo da parte di Antonio di requisire parte dei suoi terreni per offrirli ai suoi soldati dopo la guerra di Filippi, che vide i cesaricidi sconfitti; non sappiamo se il tentativo sia fallito grazie alle influenti conoscenze di Virgilio stesso, oppure portato a termine e poi “riparato” da Augusto stesso. E’ che questo episodio lo deriviamo dalla sua prima opera ufficiale, le Bucoliche, composte tra il 42 e il 39 a. C., opera che ebbe una buona eco da far sì che lo stesso poeta venisse avvicinato da Mecenate e quindi entrasse a far parte della cerchia di Augusto.

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Mecenate

Accompagnando il volere del principe con la sua ispirazione poetica egli si accinse a scrivere le Georgiche , la cui composizione occupò quasi un decennio (38 – 29 a.C.) in cui la restaurazione agricolo-pastorale di Augusto faceva da sfondo al mondo georgico di Virgilio stesso.

Gli anni successivi furono tutti dedicati alla composizione dell’Eneide, attesa con ansia non solo dallo stesso Augusto, ma anche dagli stessi intellettuali come si può arguire da Properzio che dichiara nescio quid maius nascitur Iliade (non so che cosa di più grande nasca dell’Iliade). L’opera prese forma tra il 29 e il 19 a. C., anno della sua morte. Per Virgilio mancava l’ultima revisione (secondo il suo parere da svolgere in circa tre anni) e per far ciò si reca ad Atene, dove incontra lo stesso Augusto. Decide quindi di tornare con lui, ma durante una visita a Megara, a seguito di un’insolazione, è colto da malore e muore a Brindisi il 21 settembre del 19. Verrà seppellito a Napoli e la tradizione gli attribuisce il seguente epitaffio:

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Tomba di Virgilio a Napoli

EPITAFFIO

Mantua me genuit, Calabri rapuere tenet nunc
Partenope; cecinit pascua, rura, duces.

Mantova mi ha generato, mi ha rapito la Calabria, mi tiene ora
Napoli; ho cantato i pascoli, la campagna, gli eroi

Bucoliche

Le Bucoliche sono la prima opera virgiliana, composta tra il 42 e il 39, quando la guerra tra Ottaviano e Marco Antonio era ancora ben lontana dall’esaurirsi. Il titolo deriva direttamente dal greco e sottintende il termine carmina. Quindi Bucolica carmina sta per “Canti dei pastori”. Ogni canto si definisce ecloga o egloga (il cui significato greco è “poesia scelta”). Il modello cui Virgilio s’ispira è il poeta siracusano Teocrito, vissuto nel III secolo, i cui poemetti venivano chiamati Idilli dai grammatici, il cui successo a Roma fu enorme. Particolarmente apprezzati furono quelli d’ispirazione pastorale (non i soli nel poeta siracusano) ma che furono, quindi, ripresi e sviluppati, in modo proprio e personale da Virgilio. A dire il vero non siamo in grado di raccogliere testimonianze che ci diano il percorso di tale genere nella poesia latina: Virgilio rappresenta pertanto il poeta da cui partire e che, proprio da lui, prenderà le mosse per affermarsi in Italia nel Quattrocento con Sannazzaro e nel Settecento con il movimento poetico dell’Arcadia.

L’opera virgiliana è strutturata in dieci brevi poemetti in esametro.

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Miniatura che riporta la prima ecloga

Già dal primo possiamo individuare l’aurea poetica che li caratterizza.

TITIRO E MELIBEO
(I, 1-35)

MELIBOEUS

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui musam meditaris avena:
nos patriae finis et dulcia linquimus arva.
Nos patriam fugimus: tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas.

TITYRE

O Meliboee, deus nobis haec otia fecit.
namque erit ille mihi semper deus, illius aram
saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus.
Ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum
ludere quae vellem calamo permisit agresti.

MELIBOEUS

Non equidem invideo, miror magis; undique totis
usque adeo turbatur agris. En, ipse capellas
protenus aeger ago; hanc etiam vix, Tityre, duco.
Hic inter densas corylos modo namque gemellos,
spem gregis, a! silice in nuda conixa reliquit.
Saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset,
de caelo tactas memini praedicere quercus.
Sed tamen iste deus qui sit, da, Tityre, nobis.

TITYRE

Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi
stultus ego huic nostrae similem, quo saepe solemus
pastores ovium teneros depellere fetus.
Sic canibus catulos similes, sic matribus haedos
noram, sic parvis componere magna solebam.
Verum haec tantum alias inter caput extulit urbes
quantum lenta solent inter viburna cupressi.

 MELIBOEUS

Et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi?

 TITYRE

Libertas, quae sera tamen respexit inertem,
candidior postquam tondenti barba cadebat,
respexit tamen et longo post tempore venit,
postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit.
namque, fatebor enim, dum me Galatea tenebat,
nec spes libertatis erat nec cura peculi:
quamvis multa meis exiret victima saeptis,
pinguis et ingratae premeretur caseus urbi,
non umquam gravis aere domum mihi dextra redibat.

Melibeo: Titiro, tu che riposi all’ombra di un ampio faggio / Componi un carme silvestre su un esile flauto: / noi lasciamo i confini della patria e i dolci campi; /  fuggiamo la patria; tu, o Titiro, placido nell’ombra / fai risuonare le selve del nome della dolce Amarilli.
Titiro: O Melibeo, un dio mi ha donato questa pace / e infatti lo considererò sempre un dio, il suo altare / un tenero agnello dei nostri ovili bagnerà. / Egli ha permesso che i miei armenti vaghino e che io stesso / canti con un flauto agreste quello che desidero.
Melibeo: Non t’invidio, sono maggiormente meravigliato. In ogni parte in tutti / i campi fino a tal punto è confusione. Ecco io stesso / malato le caprette spingo avanti; questa, o Titiro, conduco a stento. / Qui tra i fitti noccioli, or ora, due gemelli, / speranza del gregge, dopo aver partorito, ha lasciato sulla nuda pietra. / Spesso questo male a noi, se la mente non fosse stata distratta, / ricordo che ce lo predisse una quercia colpita da un fulmine. / Ma tuttavia, chi sia questo dio, dicci, o Titiro.
Titiro: Una città, che chiamano Roma, o Melibeo, ho creduto, io pazzo, / simile a questa nostra, dove spesso siamo soliti / noi pastori allontanare i teneri figli degli agnelli. / Così i cagnolini simili ai cani, così i capretti alle madri / conoscevo; così ero solito confrontare le cose grandi con le piccole / In verità questa ha sollevato il capo tra le altre città, / quanto sogliono i cipressi tra i flessibili viburni.
Melibeo: E quale grande motivo avesti di vedere Roma?
Titiro: La verità, che sebbene tardi, tuttavia ha guardato me inerte / dopo che la barba cadeva più bianca a me che mi radevo; / finalmente ha volto lo sguardo e dopo lungo tempo è venuta, / da quando Amarilli mi ha, Galatea mi ha lasciato. / E infatti, lo confesserò dunque, per tutto il tempo che Galatea mi possedeva, / non vi era speranza di libertà, né cura del denaro: / sebbene molte vittime uscissero dai miei ovili, / e ricco formaggio fosse premuto per l’ingrata città / giammai tornai a casa con le mani piene di denaro.

Il poemetto prosegue con l’incontro di Titiro con un giovane che lo invita a riprendere il lavoro dei campi e a tornare ai valori della terra. Sconsolato Melibeo ricorda che la sua terra verrà requisita:

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Contadini nell’antica Roma

UN EMPIO SOLDATO AVRA’ I CAMPI COLTIVATI
(I, 70-83)

MELIBOEUS
………………..
Impius haec tam culta novalia miles habebit,
barbarus has segetes: en quo discordia civis
produxit miseros: his nos consevimus agros!
Insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vitis.
Ite meae, quondam felix pecus, ite capellae.
Non ego vos posthac viridi proiectus in antro
dumosa pendere procul de rupe videbo;
carmina nulla canam; non me pascente, capellae,
florentem cytisum et salices carpetis amaras.

TITYRUS

Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem
fronde super viridi: sunt nobis mitia poma,
castaneae molles et pressi copia lactis,
et iam summa procul villarum culmina fumant,
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.

Melibeo: Un empio soldato possederà queste maggesi così coltivate / un barbaro questi raccolti. Ecco dove la discordia / ha portato i miseri cittadini! Per questi noi abbiamo coltivato i nostri campi! / Innesta ora, o Melibeo, i peri, pianta in ordine le viti. / Andate, gregge un tempo felice, andate mie caprette. / D’ora in avanti non io, sdraiato in una verde grotta, / vi vedrò pendere lontano sospese da un rupe; / non canterò nessun canto; mentre io vi pascolo, caprette / non raccoglierete il citiso in fiore e i salici amari.
Titiro: Qui tuttavia potrai riposare tutta la notte, / sopra le verdi fronde: noi abbiamo frutti maturi, / tenere castagne e abbondante formaggio / e ormai fumano da lontano le sommità dei tetti delle case / e più grandi scendono le ombre dagli alti monti.
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Manoscritto medievale sul testo virgiliano

La prima ecloga rappresenta sia il modo attraverso cui Virgilio “rilegge” l’opera teocritea, nonché il clima poetico che il poeta mantovano ha voluto dare all’opera: se gli Idilli, infatti, rispettano proprio il loro significato (da “eidos”, vedere) rappresentando un “quadretto”, appunto “bucolico” o anche “quotidiano”, in Virgilio tale situazione si “sentimentalizza” per:

  • la creazione di un modo “mitico” in cui l’otium possa fare da contraltare alla realtà ancora sconvolta dalla guerra civile;
  • l’autobiografismo non “scoperto”, ma accennato nell’episodio della requisizione della terra che se non riguarda Virgilio direttamente, rappresenta uno vero e proprio stato d’animo dei proprietari terrieri dopo la battaglia di Filippi;
  • il servitium amoris che vedremo anche nella poesia augustea successiva, ma che qui assume quasi una certa “quotidianità” nel sottolinearne l’aspetto economico attraverso due ninfe.

Al di là dei motivi summenzionati quello che caratterizza l’opera è la fondazione di un topos che resterà presente nella poesia elegiaca latina e in quella successiva in lingua italiana: il locus amoenus, cioè la descrizione di un luogo non reale in cui prevale la bellezza e la floridezza (prati verdi, boschi frondosi, ruscelli limpidi e canti di uccelli).

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Mosaico di pastore nella basilica d’Aquileia 

La II ecloga rappresenta una storia d’amore omosessuale (il pastore Coridone si lamenta che l’amato non lo corrisponde). Non ci deve sorprendere la presenza di un amore omosessuale sia perché l’omosessualità non rappresentava allora un problema, sia perché nella poesia bucolica si scandagliava l’amore in qualsiasi forma si presentasse.

Nella III ecloga vi è una gara poetica tra i pastori Menalca e Dameta e l’indecisione del giudice Polemone che non sa a chi dare la palma del migliore. E’ pertanto un “carme amebeo”, cioè con versi pronunciati in modo alternato.

La IV ecologa è famosissima:

PUER
(IV, 1- 17)

Sicelides Musae, paulo maiora canamus!
Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae;
si canimus silvas, silvae sint consule digne.
Ultima Cumaei venit iam carminis aetas;
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo;
iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum
desinet ac toto surget gens aurea mundo,
casta fave Lucina: tuus iam regnat Apollo.
Teque adeo decus hoc haevi, te consule, inibit,
Pollio, et incipient magni procedere menses;
te duce, si qua manent sceleris vestigia nostri,
inrita perpetua solvent formidine terras.
Ille deum vitam accipiet divisque viderit
permixtos heroas et ipse videbitur illis,
pacatumque reget patriis virtutibus orbem.

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Partoriente con ostetrica

Muse Siciliane, cantiamo argomenti un po’ più elevati! / Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici; / se cantiamo i boschi, i boschi siano degni d’un console. / Ormai è giunta l’ultima profezia della sibilla cumana; / una grande serie di generazioni nasce da capo; / torna anche la Vergine, tornano i regni di Saturno; / ormai una grande progenie è mandata dall’alto cielo. / Tu al fanciullo che ora nasce, per il quale dapprima la ferrea / stirpe cesserà e sorgerà in tutto il mondo l’aurea (generazione), / sii favorevole, casta Lucina, ormai regna il tuo Apollo. / Ed essendo proprio tu console inizierà questo decoro dell’età (età splendida), / o Pollione, e inizieranno a procedere i grandi mesi, / sotto la tua guida, se rimangono alcune ombra della nostra scelleratezza, / cancellate, libereranno le terre dalla paura. / Egli accoglierà la vita degli dei, e vedrà agli dei / misti gli eroi e lui stesso sarà visto da loro, /e guiderà il mondo pacificato dalle virtù patrie.

La sua notorietà è dovuta soprattutto al fatto che essa fu alla base di quella fama cha nel Medioevo fece di Virgilio un “mago”: infatti il “puer” presente in quest’ecloga venne inteso come la prefigurazione di Gesù Cristo. E’ evidente che il senso profetico virgiliano sta tutto all’interno della visione trascendentale del periodo medioevale: oggi interessa maggiormente capire che tale riferimento non è religioso, anzi, quasi seguendo l’opposta filosofia epicurea, sotto l’egida della filìa, si tratta dell’omaggio ad un amico, Pollione, che allora stava per diventare padre. Ma come sempre in Virgilio ridurlo all’aspetto familiare, sebbene di pregevole fattura, così come è tessuto di poetica alessandrina, sembrerebbe riduttivo: nel testo poetico, infatti, appare evidente il richiamo alla mitica “età dell’oro” e dell’esigenza di un suo ritorno, a suggellare la fine del periodo di guerra a cui il poeta guarda con angoscia.

Non si può poi dimenticare come i primi versi, quasi capovolgendone il senso, sia diventati centrali per la visione poetica di Giovanni Pascoli, che proprio a partire dalla citazione sulle tamerici virgiliane, titolerà una sua fondamentale raccolta poetica Myricae (1891-1911).

La V ecloga è la più rappresentativa da un punto di vista bucolico: infatti i pastori Menalca e Mopso, in un carme amebeo, piangono la morte di Dafni, nato da una ninfa ed inventore del canto pastorale.

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Particolare della statua di Sileno (Louvre)

Nella VI ecloga troviamo il vecchio satiro Sileno, rappresentato con orecchie e zampe equine. Per scherzo viene legato da due pastorelli e costretto a cantare l’origine del mondo ed altri miti.

Nella VII ecloga ci viene presentata una gara poetica tra Coridone e Tirsi, caratterizzata anch’essa dalla forma “amebea”.

Il tema dell’VIII ecloga è la gelosia ed il tradimento: mentre il pastore Damone narra la disperazione per il tradimento dell’amata Nisa, Alfesibeo racconta l’incantesimo amoroso di una pastorella per recuperare il proprio amore.

La IX ecloga ripresenta il tema dell’espropriazione dei campi dopo la guerra: infatti Menalca è stato privato della sua terra e i pastori Licida e Meri piangono la sorte dell’amico.

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Cornelio Gallo

La X ed ultima è un omaggio a Cornelio Gallo: narra la sua infelice storia d’amore con la bella Licoride, e solo va cantando la sua tristezza nei campi solitari dell’Arcadia.

Le Bucoliche, nel loro complesso, sono un’opera nella quale vengono a convergere le aspettative degli intellettuali di quel periodo: quello di un ritorno ad un mondo in cui la pace domina sulla distruzione, la quiete sullo sconvolgimento; ma per far questo si ha bisogno di una “palingenesi”, palingenesi ben rappresentata dalla presenza del puer nella IV ecloga: infatti la nascita di un fanciullo può ben rappresentare il “nuovo”, la rigenerazione, da contrapporsi alla morte delle guerre civili non ancora concluse.

Non bisogna dimenticare come Virgilio cerchi di rappresentare questa speranza:

  • la creazione di un mondo mitico come quello dell’Arcadia;
  • l’esaltazione della poesia, posta nell’ecloga centrale, quella di Dafni, inventore del canto pastorale;
  • l’idealizzazione della vita pastorale

ma non s’allontana dalla realtà:

  • l’esproprio delle terre da parte di Ottaviano;
  • la presenza esplicita della figura d’Ottaviano;
  • Asinio Pollione, console, di cui narra la nascita del figlio;
  • Cornelio Gallo, richiamato nell’ultima ecloga.

Ecco che realtà ed immaginazione riescono a convergere nel dettato poetico: nulla di descritto appare “falso”, ma nulla “crudo”; si ripensi all’ultima scena della prima ecloga, quando Melibeo piange per la perdita del suo terreno e Titiro l’invita a riposare: nell’immagine dei camini delle case e della notte che scende dal monte, non c’è una rappresentazione veriteria, ma un paesaggio dell’anima in cui il poeta rivede con nostalgia i luoghi della sua infanzia.

Pur essendola la prima opera virgiliana bisogna sottolineare come l’autore voglia, a fronte di diverse  tematiche, infondere un tono unitario, lavorando su una struttura che, attraverso richiamo tra un’egloga e un’altra, dia un tono armonioso all’intero testo: le egloge pari hanno una struttura narrativa, le dispari dialogica; la V, posta al centro esalta la poesia bucolica, l’ultima rappresenta proprio, attraverso la narrazione della scelta di Cornelio Gallo, poeta elegiaco, per l’amore e la poesia, il punto conclusivo, se l’autore stesso la definisce, nel 1 v. extremum laborem.

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Edizione de Le georgiche virgiliane del 1777

Georgiche

Le Georgiche sono la seconda opera virgiliana, la cui composizione si situa tra il 37 ed il 30 a. C. ed hanno anch’esse, come le Bucoliche, un titolo di derivazione greca Gheorghica carmina, il cui significato rimanda alla poesia contadina.

Se il riferimento della poesia pastorale era stato Teocrito, qui Virgilio si trova in un campo assai frequentato dalla poesia greca e latina: il poema didascalico. A partire dal padre di tale genere, l’Esiodo delle Opere e i giorni dell’VII secolo fino ai Fenomeni di Arato, così famosi a Roma che lo stesso Cicerone ne fece una versione, gli Aratea, appunto, i latini si erano appropriati del genere fino a renderlo un vero e proprio capolavoro con il De rerum natura di Lucrezio.

Virgilio si trovava quindi di fronte ad un’impresa non semplice, scendere in un campo in cui gli antichi e gli alessandrini, nonché i neoteroi ed il grande Lucrezio si erano già espressi. Ma come mai intraprese tale compito?

Interea Driadum silvas saltusque sequamur
intactos, tua, Maecenas, haud iussa mollia.

Nel frattempo seguiamo i boschi e pascoli segreti
delle driadi* tuoi non lievi comandi
* driadi: ninfe delle querce

A leggere questi due versi, tratti dal terzo libro, vv. 40-41 ci accorgiamo che:

  • Ad apparire vi è il nome di Mecenate, quindi Virgilio è già entrato nell’entourage di Ottaviano, non ancora diventato Augusto;
  • L’opera sembra essere stata commissionata, più che sentita dal poeta stessa, se deve obbedire ad ordini non facili.

L’opera è strutturata in quattro libri in esametro i cui argomenti possono essere così suddivisi, come ci dice lui stesso nel proemio del libro primo:

ARGUMENTA
(I, 1-5)

Quid faciat laetas segetes, quo sidere terram
vertere, Maecenas, ulmisque adiungere vites
conveniat, quae cura boum, qui cultus habendo
sit pecori, apibus quanta experentia parcis
hinc canere incipiam. …. 

Quel che allieti le messi, a quale stella  / voltar la terra, Mecenate, e agli olmi / unir le viti, quale aver de’ buoi / cura e qual modo in allevare armenti / seguire, quanta dall’api frugali / esperienza, qui a cantare io prenda.

Quindi essi sono

  • Il lavoro dei campi;
  • L’arboricoltura;
  • L’allevamento del bestiame;
  • L’apicoltura.

Come si può vedere gli argomenti erano prettamente tecnici. Tuttavia non bisogna pensare che, pur avendo come lettore ideale l’agricola, fossero proprio i contadini i destinatari: si trattava infatti di un modello sia alessandrino che, per quanto riguarda la poesia latina, neoterico, di conciliare, come fosse una sfida, uno stile altissimo e ricercato ad un argomento umile, tecnico.

Virgilio in parte segue questo modello, ma in parte lo adotta alla sua sensibilità. Fin a partire dal primo libro, infatti, se nel modello esiodeo il lavoro era visto come una punizione divina per Prometeo (aveva donato il fuoco agli uomini, contro il volere del dio) fatta scontare agli uomini, per Virgilio invece esso è un dono divino, affinché gli uomini aguzzassero l’ingegno:

IL LAVORO, PER IL PROGRESSO DELL’UMANITA’
(1, 118-142)

Nec tamen, haec cum sint hominumque boumque labores
versando terram experti, nihil improbus anser
Strymoniaeque grues et amaris intiba fibris
officiunt aut umbra nocet. pater ipse colendi
haut facilem esse viam voluit primusque per artem
movit agros curis acuens mortalia corda,
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
Ante Iovem nulli subigebant arva coloni;
ne signare quidem aut partiri limite campum
fas erat: in medium quaerebant, ipsaque tellus
omnia liberius nullo poscente ferebat.
Ille malum virus serpentibus addidit atris,
praedarique lupos iussit pontumque moveri,
mellaque decussit foliis ignemque removit,
et passim rivis currentia vina repressit,
ut varias usus meditando extunderet artis
paulatim, et sulcis frumenti quaereret herbam,
ut silicis venis abstrusum excuderet ignem.
Tunc alnos primum fluvii sensere cavatas;
navita tum stellis numeros et nomina fecit
Pleiadas, Hyadas, claramque Lycaonis Arcton;
tum laqueis captare feras et fallere visco
inventum et magnos canibus circumdare saltus;
atque alius latum funda iam verberat amnem
alta petens, pelagoque alius trahit umida lina;
tum ferri rigor atque argutae lammina serrae
(nam primi cuneis scindebant fissile lignum),
tum variae venere artes. labor omnia vicit
improbus et duris urgens in rebus egestas.

 

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Retro di moneta del ‘600 francese con il motto virgiliano

Tuttavia, benché le fatiche di buoi ed uomini abbiano sperimentato / a proprie spese queste azioni rivoltando la terra, l’anatra testarda, / le gru dello Strimone e la cicoria dai filamenti amari / nuocciono o l’ombra nuoce. Proprio Giove volle che la via / per la coltivazione non fosse facile ed egli per primo attraverso un prodigio fece dissodare / i campi, stimolando i cuori degli uomini con i bisogni / e non permise che i suoi regni si intorpidissero in una pesante apatia. / Prima di Giove nessun agricoltore coltivava i campi / e non era neppure lecito segnare i confini o ripartire un campo / con una linea di confine; procuravano in comune e la terra da sola / più spontaneamente produceva, anche se nessuno doveva chiedere. / Egli aggiunse ai serpenti terribili il tremendo veleno, / ordinò ai lupi di cercarsi delle prede, al mare di agitarsi, / scosse via dalle foglie i mieli, tolse il fuoco / e fermò i vini che copiosamente scorrevano nei ruscelli, / perché il bisogno, attraverso la riflessione, foggiasse le arti diverse, / poco a poco, e nei solchi cercasse la pianta del frumento, / perché facesse sprizzare il fuoco nascosto nelle vene del sasso. Allora per la prima volta i fiumi sentirono su di sé gli ontani incavati; / allora il marinaio creò numeri e nomi per le stelle, / Pleiadi, Hiadi e l’Orsa splendente di Licaone; allora si scoprì come catturare coi lacci le belve, catturare col vischio / e circondare coi cani i grandi anfratti boscosi, e chi sferza il largo fiume con una rete, cercando il fondo dirigendosi al largo, chi ritrae dal mare le reti umide di lino; / allora la durezza del ferro e la lama della sega stridente (infatti i primi uomini tagliavano il legno tenero con i cunei), / allora vennero le svariate tecniche. Il lavoro ostinato vince tutto, / e come il bisogno che incalza nelle situazioni difficili.

In questo passo, tratto dal primo libro, si capisce perfettamente come il destinatario non sia il contadino alle prese con il duro lavoro dei campi, ma il cives Romanus: il concetto per cui il labor omnia vicit, infatti appartiene a quel concetto già presente nella quarta ecloga delle Bucoliche, quello della rinascita, che qui si iscrive sotto l’egida di una profonda pietas, cioè rispetto per i valori religiosi tradizionali. E’ da qui che bisogna ripartire se si vuole rifondare, dopo le guerre civile, il destino dell’Italia.

Nel secondo libro troviamo come tema quello dell’arboricoltura. Alla fine di esso vi è un appassionato elogio della vita agreste:

ELOGIO DELLA VITA CAMPESTRE
(II, vv. 458 – 474)
O fortunatos nimium, sua si bona norint,
agricolas! quibus ipsa procul discordibus armis
fundit humo facilem victum iustissima tellus.
Si non ingentem foribus domus alta superbis
mane salutantum totis vomit aedibus undam
nec varios inhiant pulchra testudine postis
inlusasque auro vestis Ephyreiaque aera
alba neque Assyrio fucatur lana veneno
nec casia liquidi corrumpitur usus olivi,
at secura quies et nescia fallere vita,
dives opum variarum, at latis otia fundis,
speluncae vivique lacus et frigida Tempe
mugitusque boum mollesque sub arbore somni
non absunt; illic saltus ac lustra ferarum
et patiens operum exiguoque adsueta iuventus,
sacra deum sanctique patres; extrema per illos
Iustitia excedens terris vestigia fecit.

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Villa Livia a Roma

O troppo fortunati, se conoscessero i loro beni / gli agricoltori! per i quali la stessa lontano dalle discordie delle armi / giustissima terra dal suolo spande un facile vitto. / Se l’alta casa dalle porte superbe un’ingente / marea non riversa al mattino da tutte le stanze al (cliente) che saluta / né osserva con la bocca aperta gli stipiti intarsiati di bella tartaruga / e vesti ricamate d’oro e bronzi d’Efira / né la bianca lana è tinta dal colore assiro / né l’uso del puro olio è corrotto dalla cannella, / ma una sicura pace e una vita che non sa sbagliare / ricca di beni diversi, ma ozi nei vasti possedimenti / grotte e laghi naturali e la fresca Tempe / e il muggito dei buoi e i dolci sonni sotto l’albero, / non mancheranno; la i boschi e i covili della fiere / e la gioventù paziente delle fatiche e contenta di poco / i culti degli dei e il rispetto inviolabile dei padri; attraverso essi gli ultimi / passi la Giustizia mosse abbandonando la terra.

E’ un passo fondamentale per comprendere quanto l’influenza lucreziana abbia operato nel lavoro dell’autore mantovano: ci troviamo qui di fronte alla contrapposizione tra la città e la vita agreste, tra il lusso sfrenato e la pacatezza dell’otium. E’ un inno all’autarkeia, all’accontentarsi del poco, ma anche del sapiens, che sa riconoscere qual è il vero bene. Sintomatico sotto questo aspetto il primo verso: “O fortunati gli agricoltori se sapessero conoscere il loro bene” in cui mostra come sia importante la consapevolezza della conoscenza. Ma egli va anche oltre Lucrezio, quando afferma che essa non può essere non accompagnata dal rispetto verso gli dei e verso i padri. Tema dominante, in seguito dell’Eneide.

Il terzo libro si apre con la prefigurazione della scrittura del poema epico. Poi prosegue con l’allevamento e con un excursus sulla lotta tra i tori e l’innamoramento dei cavalli. Si chiude con la peste di Norico, abbattutasi sulle pecore nell’attuale Austria, provincia romana, chiamata, appunto, Norico. Tale digressione si rifà alla peste d’Atene di lucreziana memoria.

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Lotta tra tori da un codice miniato (musei Vaticani)

Più importante il IV libro dove viene riportata la favola di Aristeo:

Aristeo è figlio della ninfa delle acque Cirene. Disperato per la morte delle api, si rivolge a lei che gli permette di scendere nel suo regno. Qui Aristeo può vedere il meraviglioso mondo delle acque cristalline, quindi, sotto consiglio delle madre, va ad interrogare Proteo, divinità dalle mille forme, che gli rivela che le ninfe sono adirate con lui perché ha causato la morte di una di loro, Euridice, che, mentre fuggiva alla sua furia amorosa, è morda da un serpente. Ma Euridice era anche l’amata infelice di Orfeo e Proteo racconta la sua triste storia. Per riparare al danno arrecato, Aristeo sacrifica quattro buoi e quattro giovenche; dopo nove giorni dal sacrificio torna e trova che dai corpi putrescenti sono natte le api. E’ questa l’origine della “bugonìa” (generazione dal corpo dei buoi) che spiega una credenza folcrorica del mondo romano, che da un corpo morto potesse rinascere la vita.

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Euridice morsa da un serpente inseguita da Aristeo (codice del 1400)

BUGONIA
(IV, 548-558)

Haud mora, continuo matris praecepta facessit:
ad delubra venit, monstratas excitat aras,
quattuor eximios praestanti corpore tauros
ducit et intacta totidem cervice iuvencas.
Post ubi nona suos Aurora induxerat ortus,
inferias Orphei mittit lucumque revisit.
Hic vero subitum ac dictu mirabile mostrum
aspiciunt, liquefacta boum per viscera toto
stridere apes utero et ruptis effervere costis,
immensasque trahi nubes, iamque arbore summus
confluere et lentis uvam demittere ramis.

Non v’ha indugio, d’un subito i precetti / adempie della madre. S’avvia al tempio, / erige l’are a lui indicate e quattro / tori, tra i più belli, di robusto corpo / vi guida e in egual numero giovenche / d’intatto collo. Poi, quando la nona, / aurora riportava le sue luci, / offre i funebri doni ad Orfeo e ritorna / a rivedere il bosco. Ed ecco, un nuovo / miracolo, mirabile a narrarsi, / s’offre: dei tori nei corrotti visceri / da tutto il corpo un gran brusire d’api / e un brulicare sulle rotte costole, / e gran nuvoli uscire e sulla cima / d’un albero raccogliersi, e dai rami / protesi, intorno pendere un grappolo.

Da come si dovrebbe aver capito, le Georgiche non sono certamente opera destinata ai contadini (a tale scopo provvedevano i vari libretti in prosa che circolavano copiosi nel mercato romano), ma piuttosto al ricco cittadino, latifondista (il cui terreno peraltro era lavorato dai servi), che era capace sia d’apprezzare la perizia compositiva che un richiamo ai valori che il “mito” della terra racchiudeva in sé.

In questo campo non c’è una gerarchia tra Augusto e Virgilio tramite Mecenate, ma un convergere insieme verso un progetto di “restaurazione valoriale” di cui la campagna diventava lo strumento; non per niente la Roma “virtuosa” era nata nei campi (si pensi a Catone il Censore e al suo De agricultura), ma ancor più evidente è l’acrimonia con cui descrive la Roma da fine repubblica, con i suoi cliens, il suo lusso sfrenato, l’ostentazione vuota, che un giovane intellettuale formatosi sulla scuola epicurea mal tollerava.

Da un punto di vista stilistico l’opera, pur nella varietà tematica, si può a grosso modo dividere in due: la prima parte (I e II libro) dedicati alla terra, la seconda (III e IV libro) dedicati agli animali. Ma a tenere insieme la materia è una vera e propria ricercatezza strutturale: tutti e quattro i libri si aprono con la dedica a Mecenate, inoltre ciascuno dei quattro libri si chiude con un excursus. Quest’ultimi sono posti in modo alterno: infatti nel primo e nel terzo la chiusa è fortemente drammatica: le guerre civili (I libro), la peste di Norico (III), nel secondo e nel quarto invece la conclusione è felice: l’elogio della vita campestre (II), la “bugonia” (IV).

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Virgilio con l’Eneide in mano Tra Clio (musa della storia) e Melpomene (musa della tragedia)

Eneide

L’Eneide è un poema epico in 12 libri scritto in esametri. Prima di ogni altro discorso dobbiamo chiarire cos’è un poema epico: una lunga narrazione in versi (poema) in cui si raccontano fatti eroici, leggendari o storici. Virgilio, quindi, rispettando il genere (e lo stile) che l’opera richiedeva aveva di fronte l’opera letteraria per eccellenza, quella dell’Iliade e dell’Odissea omerica. Non erano certo mancati continuatori (ed anche detrattori) del genere stesso: esempio illustre, nell’epoca augustea, sono certamente le Argonautiche di Apollonio Rodio, che tuttavia, in pieno alessandrinismo, conserva il contenuto ma riduce notevolmente la lunghezza. Roma stessa, nel momento in cui si vuole dotare di una letteratura propria, non può far di meglio che iniziare nel nome di Omero: l’Odusia di Livio Andronico è il primo tentativo di inserire gli strumenti retorici e stilistici ed adattarli linguisticamente. Nevio con il suo Bellum Poenicum o Ennio con i suoi Annales costituirono certamente per Virgilio un continuo e ricco punto di riferimento (si pensa che sia da Nevio che egli trasse alcuni spunti per la storia di Enea e Didone). Ma certamente fu Omero a dargli l’ispirazione e a fornirgli materiale che lui seppe mirabilmente elaborare.

L’Eneide è stata scritta tra il 27 ed il 19 a. C.; la redazione dell’opera a noi giunta non è quella che Virgilio prospettava: mancava ancora qualche ritocco per rendere il testo definitivo: 58 versi non sono conclusi, i cosiddetti tibicĭnes, rarissime volte si riscontra qualche leggera contraddizione. Fu stampata così come lui l’ebbe lasciata e contro la sua volontà per volere di Augusto. Essa narra:

Libro I
Il primo libro inizia con la protasi (cioè l’argomento) e l’invocazione:

PROEMIO
(vv. 1-11) 

Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam fato profugus laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum saevae memorem Iunonis ob iram,
multa quoque et bello passus, dum conderet urbem
inferretque deos Latio, genus unde Latinum
Albanique patres atque altae moenia Romae.
Musa, mihi causas memora, quo numine laeso
quidve dolens regina deum tot volvere casus
insignem pietate virum, tot adire labores
inpulerit. Tantaene animis caelestibus irae!

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Enea

Armi canto e l’uomo, che primo dai lidi di Troia / venne in Italia fuggiasco per fato, giunse e alle spiagge / lavinie, e molto in terra e sul mare fu preda / di forze divine, per l’ira ostinata della crudele Giunone, / molto sofferse anche in guerra, finch’ebbe fondato / la sua città, portato nel Lazio i suoi dei, donde il sangue / Latino e i padri Albani e le mura dell’alta Roma. / Musa, tu dimmi le cause, per quale offesa divina / Per qual dolore la regina dei numi a soffrir tante pene, / a incontrar tante angosce condannò l’uomo pio. / Così grandi nell’animo dei celesti le ire!

Sin dall’incipit del poema ci muoviamo sul solco della emulazione/confronto con i poemi omerici: arma si riferiscono alle guerre, al mondo iliaco, che fanno da sfondo all’ira dell’eroe Achille, (Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta); virum sembra maggiormente riferirsi all’uomo, in questo caso l’Ulisse dell’Odissea, per lo più iactatus terris et alto (mari) sbattuto per terre e per mare, e quindi a quel girovagare alla ricerca del suo fine. Ma qui il fine sono le altae Romae moenia, le alte mura di Roma, la fondazione della città, il suo bisogno di una rigenerazione che passasse anche per la riformulazione di un muto, quello d’Enea, che, personaggio omerico, fuggito da Troia, fonderà Roma per volontà degli dei. Per questo egli è insignis pietate “insigne per pietà”, perché ottempera a ciò che il destino (fata) hanno deciso per lui. Ma Virgilio non può non pensare di essere nato nel I secolo a. C., quanto la visione degli dei romana aveva subito un forte ridimensionamento per lo svilupparsi a Roma delle ideologie epicuree e neppure egli può fare a meno di pensare la storia come un avvenimento “casuale” determinato quasi “meccanicamente”, né, può abbracciare semplicemente la credulità popolare: ecco allora che si situa, sin da subito un rapporto dialettico, oserei dire conflittuale con il divino; da qui la sua riflessione Tantaene animis caelestibus irae! Che sottolinea il grado di difficoltà personale (che trasmetterà anche ad Enea) nel rapportarsi con la tradizione della religione romana. Non possiamo qui dimenticare la eco che tale incipit ebbe: si pensi solo all’inizio sia alferiano Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto, ma ancor più pedissequamente l’inizio della Gerusalemme Liberata di Tasso: Canto l’arme pietose e ’l capitano / che ’l gran sepolcro liberò di Cristo.

Il primo canto prosegue spiegando l’ira di Giunone, protettrice di Cartagine. Ella sapeva che nei disegni divini ci sarebbe stata la potenza di Roma, per questo cerca di ritardare l’arrivo di Enea nel Lazio. Quindi, mentre Enea naviga verso la Sicilia, con l’aiuto di Eolo (re dei venti), fa scoppiare una tremenda tempesta. Per intervento di Nettuno le acque si placano e il nostro eroe raggiunge le terre della Libia. Mentre Enea sta perlustrando il luogo, incontra la madre, trasformatasi in cacciatrice, che le racconta la storia della regina Didone, mentre Giove ispira a quest’ultima benevolenza verso gli ospiti. Venere, per essere più sicura, chiede a suo figlio Cupido, dio dell’amore, di prendere le sembianze del piccolo figlio di Enea, Ascanio. Quando i due giungeranno alla reggia, Cupido con le sue arti farà innamorare Didone dell’eroe troiano, a cui chiederà di raccontare sin dall’inizio le sue disavventure.

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Enea incontra Venere nelle vesti di cacciatrice

Libro II

Inizia il racconto d’Enea e qui, Virgilio, si mostra un vero e proprio maestro nell’istituire un parallelo con l’antecedente omerico: infatti come Ulisse ha raccontato nella terra dei Feaci le sue avventure, allo stesso modo Enea le dovrà raccontare alla regina:

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Narcisse Guérin: Enea racconta a Didone (1815)

ENEA COMINCIA A RACCONTARE…
(vv. 1-13)

Conticuere omnes intentique ora tenebant
inde toro pater Aeneas sic orsus ab alto:
«Infandum, regina, iubes renovare dolorem,
Troianas ut opes et lamentabile regnum
eruerint Danai, quaeque ipse miserrima vidi
et quorum pars magna fui. Quis talia fando
Myrmidonum Dolopumue aut duri miles Ulixi
temperet a lacrimis? et iam nox umida caelo
praecipitat suadentque cadentia sidera somnos
sed si tantus amor casus cognoscere nostros
et breviter Troiae supremum audire laborem,
quamquam animus meminisse horret luctuque refugit,
incipiam.» 

Tacquero tutti e intenti il viso tendevano. / Dall’alta sponda il padre Enea cominciò: / «Dolore indicibile tu vuoi ch’io rinnovi, o regina, / come la forza troiana e il misero regno / i Danai distrussero, le cose tristi che io vidi, / e ne fui parte grande. E chi raccontandole, / sia Mirmidone o Dolopo, o del duro Ulisse soldato, / può tenere le lacrime? E già l’umida notte del cielo / precipita e invitano al sonno cadendo le stelle. / Ma se tanto è l’amore è d’apprendere le nostre vicende, / d’udir brevemente l’angoscia estrema di Troia, / quantunque l’animo frema al ricordo e rifugga dal pianto, / comincerò.» (Rosa Calzecchi Onesti)

Anche l’incipit di questo canto è famosissimo, soprattutto perché di loro si ricorderà Dante nell’episodio in cui a Francesca ed al conte Ugolino sarà richiesto di raccontare la “radice prima” del loro dolore ed essi risponderanno come chi “piange e dice” (Francesca) e “parlar e lagrimar vedra’mi insieme” (Ugolino). Ma qui ancor più importante è l’atteggiamento che caratterizza il racconto d’Enea, e di come esso sia fautore di un infandus dolor, cioè di un dolore che non ha parole, per meglio dire inesprimibile.

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Il cavallo di Troia in un immagine del Tiepolo

Il canto secondo prosegue appunto con il racconto. Poiché i Greci non riescono ad assalire Troia, ricorrono all’inganno: costruiscono un enorme cavallo di legno e quindi lo depositano sulla spiaggia di fronte alla città e si nascondono in un’isola vicina. I Troiani, non scorgendo più i nemici e vedendo il cavallo credono che i Greci siano fuggiti. Ma il sacerdote Laooconte teme sia un inganno. Ma ecco apparire Sinone, greco, che dichiara di essere stato abbandonato dai compagni che sono fuggiti ed hanno recato in risarcimento al furto nel tempio della città quel cavallo per ottenere il perdono degli dei e raggiungere felicemente le loro terre. Laooconte non ci crede e lancia un dardo contro il ventre del cavallo, ma ecco uscire dal mare due grandi serpenti che lo avvinghiano e lo uccidono insieme ai figli.

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Il famoso gruppo di Laocoonte  nei Musei Vaticani

LAOCOONTE
(vv. 201-227)

Laocoon, ductus Neptuno sorte sacerdos,
sollemnis taurum ingentem mactabat ad aras.
ecce autem gemini a Tenedo tranquilla per alta
(horresco referens) immensis orbibus angues
incumbunt pelago pariterque ad litora tendunt;
pectora quorum inter fluctus arrecta iubaeque
sanguineae superant undas, pars cetera pontum
pone legit sinuatque immensa volumine terga.
Fit sonitus spumante salo; iamque arva tenebant
ardentisque oculos suffecti sanguine et igni
sibila lambebant linguis vibrantibus ora.
Diffugimus visu exsangues. Illi agmine certo
Laocoonta petunt; et primum parva duorum
corpora natorum serpens amplexus uterque
implicat et miseros morsu depascitur artus;
post ipsum auxilio subeuntem ac tela ferentem
corripiunt spirisque ligant ingentibus; et iam
bis medium amplexi, bis collo squamea circum
terga dati superant capite et cervicibus altis.
Ille simul manibus tendit divellere nodos
perfusus sanie vittas atroque veneno,
clamores simul horrendos ad sidera tollit:
qualis mugitus, fugit cum saucius aram
taurus et incertam excussit cervice securim.
At gemini lapsu delubra ad summa dracones
effugiunt saevaeque petunt Tritonidis arcem,
sub pedibusque deae clipeique sub orbe teguntur.

Laooconte, chiamato a sorte ministro a Nettuno, / presso l’are solenni un gran toro uccideva. / Ed ecco gemelli da Tenedo, per l’alto mare tranquillo, / (rabbrividisco a narrarlo) con giri immensi due draghi / incombon sull’acque e tendono insieme alla spiaggia. / Alti hanno i petti tra l’onde, le creste / sanguigne superan l’onde, l’altra parte sul mare / striscia dietro, s’inercan l’immense terga in volute. / Gorgoglia l’acqua e spumeggia. E già i campi tenevano, / gli occhi ardenti iniettati di sangue e di fuoco, / con le lingue vibratili lambendo le bocche fischianti. / Qua, là, agghiacciati a tal vista, fuggiamo. Ma quelli diritto / su Laocoonte puntavano: e prima i piccoli corpi / dei due figli stringendo, l’uno e l’altro serpente / li lega, divora a morsi le misere membra; / poi lui che accorreva in aiuto e l’armi tendeva, / afferrano avvinghiano fra le spire tremende. Due volte / già l’hanno annodato alla vita, due volte al suo collo / cingon le terga squamose, ardue le teste levando. / Lui con le mani tenta di sveller quei nodi, / bava le bende sacre gocciando e nero veleno, / e intanto urla orribili manda alle stelle, / come muggiti, se il toro fugga piagato dall’ara, / via dal collo scrollata la scure esitante. / E fuggono i draghi gemelli agli templi strisciando, / e cercan la rocca della Tritonia feroce, / e ai piedi di lei si nascondono sotto lo scudo rotondo.

Racconto fondamentale questo in cui s’illumina il confronto problematico che Enea personaggio ha con il divino: la morte atroce del giusto Laocoonte, resa ancora più drammatica dalla fine atroce dei suoi figli, sembra un’ingiusta punizione contro i Troiani e quindi contro se stesso, a favore di coloro che compiono un gesto empio, mentendo con Sinone, per ottenere la vittoria. Ma il rovesciamento di prospettiva avverrà proprio quando empie non appariranno le false parole del greco, ma il lancio contro ciò che, dopo l’episodio, apparirà come un vero e proprio votum. Risulta evidente l’interrogarsi di Enea sulla “giustizia” divina, ed altre prove dovrà sopportare, per capire che invece essa c’è ed è nel disegno provvidenziale che fa di lui il protagonista della rinascita.

Proseguendo il racconto vedremo come la morte del sacerdote convince i Troiani ad introdurre il cavallo di legno in città, ma durante la notte, dal suo ventre escono i guerrieri greci che fanno strage. Dapprima Enea combatte, ma quindi appare la madre Venere, ordinandogli di andar via, in quanto il suo destino è già deciso dagli dei. Quindi riesce a prendere con sé il padre, caricandolo sulle spalle, ed il figlio che gli corre accanto; dietro la moglie Creusa. Ad un certo punto, voltandosi indietro, non vede più la moglie, che, dopo averla cercata invano, gli apparirà come un’ombra, essendo morta, e gli confermerà che egli è destinato a fulgidi destini e per far ciò dovrà unirsi ad una donna regale.

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Federico Barocci: Fuga di Enea (1598)

Libro III

Prosegue il racconto di Enea, il quale va alla ricerca di una nuova terra in cui fondare la patria. Approdato con la flotta sulle spiagge della Tracia, comincia qui a costruire la sua nuova città; ma un prodigio blocca il suo progetto:

POLIDORO
(vv. 22-46)

Forte fuit iuxta tumulus, quo cornea summo
virgulta et densis hastilibus horrida myrtus.
Accessi viridemque ab humo convellere silvam
conatus, ramis tegerem ut frondentibus aras,
horrendum et dictu video mirabile monstrum.
Nam quae prima solo ruptis radicibus arbos
vellitur, huic atro licuntur sanguine guttae
et terram tabo maculant. Mihi frigidus horror
membra quatit gelidusque coit formidine sanguis.
Rursus et alterius lentum convellere vimen
insequor et causas penitus temptare latentis:
ater et alterius sequitur de cortice sanguis.
Multa movens animo Nymphas venerabar agrestis
Gradivumque patrem, Geticis qui praesidet arvis,
rite secundarent visus omenque levarent.
Tertia sed postquam maiore hastilia nisu
adgredior genibusque adversae obluctor harenae,
– eloquar an sileam? – gemitus lacrimabilis imo
auditur tumulo et vox reddita fertur ad auris:
«Quid miserum, Aenea, laceras? iam parce sepulto,
parce pias scelerare manus. Non me tibi Troia
externum tulit aut cruor hic de stipite manat.
Heu fuge crudelis terras, fuge litus avarum:
nam Polydorus ego. Hic confixum ferrea texit
telorum seges et iaculis increvit acutis.» 

C’era li accanto un’altura e sulla cima cornioli, / e un cespuglio di mirto, irte bacchette affollate. / M’avvicino, e tentando strappare da terra una verde / frasca, per ornare di rami frondosi l’altare, / orrendo – stupore a narrarlo – vedo un prodigio. / L’arbusto che, rotte le radiche, per primo dal suolo / è divelto, ecco ne colano gocce di sangue corrotto, / putredine macchia la terra. Un brivido freddo / le membra mi scuote, gelato d’orrore si ferma il mio sangue. / D’un secondo, di nuovo, il tronco flebile insisto / a svellere, a cercare le cause laggiù sotto nascoste. / Corrotto pur nella corteccia del secondo esce sangue. / Col cuore in tumulto, le Ninfe veneravo dei campi / e il padre Gradivo, sovrano delle Getiche terre, / che propiziassero quella visione, il malaugurio annullassero. / Ma quando una terza bacchetta con sforzo maggiore / afferro puntando il ginocchio contro la rena, / – parlo o taccio? – un singhiozzo straziante da sotto / l’altura risuona, e chiara mi viene agli orecchi una voce: / «Enea, perché un misero scerpi? Lascia in pace un sepolto, / lascia, non contaminar le pie mani. Non estraneo ti nacqui / in Troia, non cola questo sangue dal legno. / Oh fuggi terre crudeli, fuggi un avido lido! / Perché io son Polidoro. Qui m’inchiodò seppellendomi / ferrea selva di dardi: poi germogliarono l’aste puntute».

Veniamo a sapere che Polidoro, ultimo figlio di Priamo, era stato mandato con un grosso tesoro da Polimestore, suo genero, per fuggire la distruzione di Troia. Ma giunto qui viene ucciso, per impossessarsene. Inorridito dall’evento quindi Enea lascia la Tracia e si dirige a Delo, per consultare il sacerdote di Apollo, che gli indica come patria quella dell’“antica madre”. Pensando fosse Creta Enea vi si dirige, ma qui scoppia una pestilenza, mostrando così la contrarietà degli dei. Durante la notte Enea vede i Penati che gli indicano la strada: e l’Italia in cui egli deve andare. Enea, quindi riparte ma è costretto, da una tempesta, a fermarsi nelle isole Strofadi dove viene accolto dalle Arpie:

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Immagine di un Arpia (manoscritto medievale)

ARPIE
(vv. 214-218)

Tristius haud illis monstrum nec savio ulla
pestis et ira deum stygiis sese extulit undis.
Virginei volucrum voltus, foedissima ventris
proluvies uncaque manus et pallida semper
ora fame.

Più tristo mostro di quelle non c’è, né peggiore / peste: e per l’ira divina per l’onde di Stige s’alzarono. / Virginei volti su corpi d’uccelli, puzzo lentissima / profluvie del ventre, adunchi artigli, pallida sempre / la faccia di fame.

Se abbiamo scelto questi due passi è proprio per far capire come l’Eneide virgiliana possa fungere da stimolo per i poeti successivi: vediamo in questo caso come Dante riprenda ed unisca i due “miti” virgiliani nel XIII canto dell’Inferno, quello di Pier delle Vigne, anche se inserisce la figura di Polidoro nel Purgatorio. E’ chiaro come l’intento dei due autori, pur con la felice ripresa quasi “letterale” del poeta fiorentino sia diverso. Non è un caso che le fonti che Virgilio usa per questo passo non siano omeriche, quanto, piuttosto tragiche e di come egli si sia servito di un mito piuttosto recente, alessandrino, per Polidoro. Infatti qui si vuole sottolineare l’interesse eziologico, oltre che narrativamente tragico e pietoso, dell’episodio; si tratta insomma di spiegare l’origine del mirto e delle sue scure bacche, come frutto appunto del sangue con cui il giovane troiano bagna la pianta.

Enea cerca di cacciare le Arpie che confermeranno la fondazione della città, ma solo dopo aver patito la fame da mangiare le mense. Fuggiti dalle Strofadi, costeggiando la terra Enea e i suoi compagni sbarcano ad Azio, dove vengono accolti da Eleno, indovino troiano. Costui conforterà il nostro eroe e gli offrirà consigli per un viaggio sicuro. Ripreso il viaggio il nostro si ferma in Sicilia, dove approderà nelle terre dei Ciclopi. Qui incontrerà un greco dimenticato dai compagni. Mentre costui narra la tragica vicenda occorsa ai greci, appare da lontano Polifemo con il suo gregge. Il nostro riesce a fuggire, e, fatto il periplo dell’isola, giungono nei pressi di Trapani, dove muore Anchise. Ripartiti Enea viene ancora una volta sorpreso da una tempesta che lo lascia nelle spiagge libiche. Qui finisce il suo racconto.

Libro IV

Con il III terzo libro, quindi, termina il lungo flash-back di Enea, ed inizia uno dei canti più celebrati dell’intero poema, il quarto, dove si consuma la storia d’amore tra Enea e Didone. Questa, capendo i suoi sentimenti, si confida con la sorella Anna:GalleriaDoriaPamphilj-D19.jpg

Dosso Dossi: Didone (1519)

DIDONE FERITA DALL’AMORE
(vv. 1 – 30)

At regina gravi iamdudum saucia cura
vulnus alit venis et caeco carpitur igni.
Multa viri virtus animo multusque recursat
gentis honos, haerent infixi pectore vultus
verbaque nec placidam membris dat cura quietem.
Postera Phoebea lustrabat lampade terras
umentemque Aurora polo dimoverat umbram,
cum sic unanimam adloquitur male sana sororem:
«Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent!
Quis novus hic nostris successit sedibus hospes,
quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis!
Credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.
Degeneres animos timor arguit. Heu quibus ille
iactatus fatis! Quae bella exhausta canebat!
Si mihi non animo fixum immotumque sederet
ne cui me vinclo vellem sociari iugali,
postquam primus amor deceptam morte fefellit;
si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,
huic uni forsan potui succumbere culpae.
Anna, fatebor enim, miseri post fata Sychaei
coniugis et sparsos fraterna caede penates,
solus hic inflexit sensus animumque labantem
impulit. Adgnosco veteris vestigia flammae.
Sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat
vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras,
pallantes umbras Erebi noctemque profundam,
ante, Pudor, quam te violo aut tua iura resolvo.
Ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores
abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro».
Sic effata sinum lacrimis implevit obortis.

Ma sanguina ormai la regina in un tormento pesante, / nelle sue vene nutre una piaga, da chiuso fuoco è consunta. / Grande il valore dell’uomo, grande le assedia la mente / la gloria del nome: è fitto in cuore quel volto, / la voce: placido sonno non dà alle membra il tormento. / Illuminava la terra l’Aurora seguente col lume di Febo / e l’umida ombra aveva cacciato dal cielo, / e lei così parla, già pazza, alla fedele sorella: / «Anna, sorella, che sogni m’hanno sconvolta! / Che straordinario ospite m’è venuto in palazzo, / che portamento, che forza in cuore e nell’armi! / Credo, certo, né è fede vana, è stirpe di dei. / Un’indole ignobile, vil timore la smaschera. E quale / destino lo incalza! che guerre durate narrava! / Se immobilmente fisso non avessi nell’animo / di non legarmi a nessuno con nodo di nozze, / dacché con la morte mi tradì il primo amore; / se non odiassi per sempre talamo e fiaccole, / forse a questa unica colpa avrei potuto soccombere. / Anna, te lo confesso, dopo la morte del misero sposo / e la strage fraterna, che la casa m’insanguina, / egli solo ha scosso i miei sensi, m’ha fatto tremare / il cuore. Oh, dell’antica fiamma i segni conosco! / Ma voglio che prima la terra mi s’apra davanti, / che all’ombre il padre onnipotente mi fulmini, / all’ombre dell’Erebo pallide, e nella notte profonda, / prima che io ti vìoli, o Pudore, o sciolga il tuo vincolo. / Lui, che m’ha unita a sé per primo, il mio amore / s’è preso, e lo tenga con sé chiuso dentro il sepolcro!». / Così diceva, e il petto inondò a un tratto di lagrime.

Anna, sentita la sorella, la esorta, e vince così le flebili resistenze della regina. Giunone si accorge di ciò e, per rallentare l’arrivo dei troiani in Italia, cerca di favorire la situazione. Venere la asseconda, per non provocare ulteriori rallentamenti, sicura sempre della volontà di Giove. Sarà pertanto organizzata una battuta di caccia, durante la quale ci sarà una tempesta. Rifugiatisi in una grotta, Enea e Didone compiranno il loro atto d’amore. La situazione precipiterebbe se non intervenisse il padre Giove che, attraverso Mercurio, ordina ad Enea di abbandonare la Libia e di raggiungere l’Italia. Enea dunque si prepara all’abbandono, ma Didone è presaga di quel che sta per succedere e lo affronta a viso aperto:

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Rutilio Manetti : Enea e Didone (1630)

AT REGINA DOLOS
(vv. 296-330)

At regina dolos (quis fallere possit amantem?)
praesensit, motusque excepit prima futuros
omnia tuta timens. Eadem impia Fama furenti
detulit armari classem cursumque parari.
Saevit inops animi totamque incensa per urbem
bacchatur, qualis commotis excita sacris
Thyias, ubi audito stimulant trieterica Baccho
orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron.
Tandem his Aenean compellat vocibus ultro:
«Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum
posse nefas tacitusque mea decedere terra?
nec te noster amor nec te data dextera quondam
nec moritura tenet crudeli funere Dido?
quin etiam hiberno moliris sidere classem
et mediis properas Aquilonibus ire per altum,
crudelis? quid, si non arva aliena domosque
ignotas peteres, et Troia antiqua maneret,
Troia per undosum peteretur classibus aequor?
mene fugis? per ego has lacrimas dextramque tuam te
(quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui),
per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,
si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam
dulce meum, miserere domus labentis et istam,
oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem.
Te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni
odere, infensi Tyrii; te propter eundem
exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam,
fama prior. Cui me moribundam deseris hospes
(hoc solum nomen quoniam de coniuge restat)?
quid moror? an mea Pygmalion dum moenia frater
destruat aut captam ducat Gaetulus Iarbas
saltem si qua mihi de te suscepta fuisset
ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula
luderet Aeneas, qui te tamen ore referret,
non equidem omnino capta ac deserta viderer.

Ma la regina (chi ingannerà donna amante?) / presentì il tradimento, capi prima le mosse future, / lei che del sicuro tremava. E a lei, già fremente, la Fama / empia narrò che armavan le navi, la partenza allestivano. / Smania, fuori di sé, per tutta la città delirando / impazza, come Baccante invasata, al muover dei sacri / segni, quando al grido di Bacco l’orgia triennale / la stimola, e il Citerone con il richiamo notturno la invita. / E finalmente per prima così affronta Enea: / «Speravi anche, spergiuro, di potermi nascondere / tanta empietà? senza una parola dalla mia terra partirtene? / né il nostro amore, la destra, che pur mi hai data, / né può tenerti Didone, che morrà crudelmente? / E sotto le stelle invernali muovi le navi? / Me fuggi? oh, per queste mie lagrime, per la tua destra / (quando null’altro io stesso ho lasciato a me misera), / pel nostro amore, per le nozze recenti, / se t’ho fatto del bene, se pur qualche cosa / di me ti fu dolce, pietà della casa che cade, oh ti prego, / se posto c’è ancora per le suppliche, smetti questo pensiero! / Per te i popoli d’Africa, i sovrani dei Nomadi / m’odiano, i Tirii mi sono nemici; per te, per te solo / morto è il pudore, la gloria di prima, quell’unica / per cui salivo alle stelle. A chi mi lasci, che muoio, / ospite, ormai questo nome soltanto resta, da sposo. / Che aspetto? che le mie mura distrugga il fratello / Pigmalione? che Iarba getulo mi porti via schiava? / Se un figlio, almeno un figlio da te avessi avuto / prima della tua fuga, se nelle stanze giocare / un piccolo Enea mi vedessi, che pur avesse il tuo viso, / non del tutto delusa, non tradita sarei!»

Enea ascolta, senza controbattere, finché non può non ricordarle che egli non è padrone del suo destino e che pertanto deve partire per volontà degli dei. Lei non ci crede e gli rinfaccia il suo tradimento, allontanandosi sorretta dalle ancelle. Enea non recede dalle sue intenzioni, nonostante intervenga Anna per cercare di convincerlo a rimanere fino alla primavera. Ma ricevuto un nuovo diniego, Didone medita il suicidio. Finge con la sorella di voler preparare un nuovo rimedio per trattenere Enea o per liberarsi dall’amore che la lega a lui, poi prepara il rogo, dove si dovranno bruciare tutte le cose appartenute all’eroe. Una maga prepara il rituale a cui Didone assiste e nel far questo vede la flotta allontanarsi. Quindi lancia la sua maledizione verso Enea e la sua stirpe:

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Giovanni Francesco Romanelli: Enea abbandona Didone

LA MALEDIZIONE DI DIDONE
(vv. 612-629)

(…) Si tangere portus
infandum caput ac terris adnare necesse est,
et sic fata Iovis poscunt, hic terminus haeret,
at bello audacis populi vexatus et  armis,
finibus extorris, complexu avulsus Iuli
auxilium imploret videatque indigna suorum
funera; nec, cum se sub leges pacis iniquae
tradiderit, regno aut optata luce fruatur,
sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena.
Haec precor, hanc vocem extremam cum sanguine fundo.
Tum vos, o Tyrii, stirpem et genus omne futurum
exercete odiis, cinerique haec mittite nostro
munera. nullus amor populis nec foedera sunto.
Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor
qui face Dardanios ferroque sequare colonos,
nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires.
litora litoribus contraria, fluctibus undas
imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque.

(…) Se pur deve giungere / al porto quel maledetto, se deve toccare la terra, / così vuole il fato di Giove, fisso è questo termine, / oppresso però dalla guerra d’un popolo audace, / ramingo dalla città, strappato all’abbraccio di Iulio, / mendichi aiuto, veda strazio orrendo dei suoi. / E quando anche di pace umiliante ai patti si pieghi, / non goda del regno, non dell’amabile luce, / ma cada avanti il suo giorno, su nuda terra, insepolto. / Chiedo questo, quest’ultima voce col mio sangue effondo. / E voi, Tiri, per sempre la stirpe e tutta la razza / tormentare con l’odio, queste inferie al mio cenere / offrite. Nessun amore, mai, nessun patto tra i popoli. / E sorgi, vendicatore, oh, dalle mie ossa, / col ferro, col fuoco, perseguita i coloni Troiani, / ora, poi, non importa: quanto bastin le forze. / I lidi ai lidi contrari, all’onde supplico l’onde, / l’armi all’armi: essi e i nipoti combattano.

E quindi si prepara a morire, trafiggendosi con la spada che Enea le aveva donato.
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Claude Augustin Cayot: La morte di Didone (Museo del Louvre, 1711)

LA MORTE DI DIDONE
(vv. 651 – 671) 

«Dulces excuviae, dum fata deusque sinebat,
accipite hanc animam meque his exsolvite curis.
Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,
et nunc magna mei sub terras ibit imago.
Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi,
ulta virum poenas inimico a frate recepi:
felix, heu nimium felix, si litora tantum
numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae»
Dixit, et os inpressa toro: «Moriemur inultae,
sed moriamur», ait,«sic, sic iuvat ire sub umbras.
Hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto
Dardanus et nostrae secum ferat omina mortis».
Dixerat, atque illam media inter talia ferro
conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore
spumantem sparsasque manus. It clamor ad alta
atria: concussam bacchatur Fama per urbem.
Lamentis gemituque et femineo ululatu
tecta fremunt, resonat magnis plangoris aether,
non aliter quam si immissis ruat hostibus omnis
Carthago aut antiqua Tyros flammaeque furentes
culmina perque hominum volvantur perque deorum. 

«O spoglie, dolci fin che il fato, un dio permetteva, / la vita mia ricevete, da queste pene scioglietemi: / ho vissuto, ho compiuto la strada che m’ha dato Fortuna, / e ora sotto la terra grande andrà la mia immagine. / Città bellissima ho fatto, ho visto mie mura, / vendicato lo sposo, punito il fratello nemico: / felice, oh troppo felice, solo che le mie spiagge / mai navi dardane fossero giunte a toccare»: / Disse e premendo sul letto le labbra: «Morirò invendicata, / ma voglio morire» gridò, «così voglio scendere all’ombre. / Beva con gli occhi dal mare questo fuoco il crudele / Dardano, maledizione la morte mia con sé porti». / Parlava, e fra tali parole sul ferro la vedono / gettarsi le ancelle, e scorrer la spada di sangue / schiumante, e piene le mani. Un grido ai soffitti / altissimi sale, impazza la Fama per la città costernata. / Di lamenti, di gemiti, d’ululi freme femminei / tutto il palazzo, l’aria è tutta un gran pianto, / non altrimenti che se, entrati i nemici, crollasse / Cartagine intera, o Tiro antica, e le fiamme ruggenti / intorno ai tetti degli uomini, ai templi dei numi salissero.

Di questo quarto libro non si è voluta seguire l’analisi brano per brano, ma vederlo, attraverso diversi passi nella sua interezza e complessità. In primo luogo notiamo uno spostamento sul piano dei personaggi non senza significato: il protagonista qui, infatti, non è Enea, che invece viene relegato nel ruolo di deuteragonista, ma Didone, la donna innamorata e abbandonata. (Questo personaggio Virgilio lo riprende da Nevio, la cui infelice storia d’amore con Enea fornisce il motivo – significato eziologico – della guerra contro Cartagine). Virgilio costruisce il testo basandosi più sull’exemplum della tragedia, soprattutto quella di Euripide, e della nuova epica “patetica” di Apollonio Rodio, che su quella “classica”, “omerica” appunto. Ne sono esempio il climax ascendente con cui viene strutturato il brano: esso viene diviso in tre parti, l’innamoramento, la rottura e l’abbandono: ogni parte è progressivamente più ampia per poter quindi concentrare tutta l’attenzione sul “dramma” vissuto dalla regina, che pertanto al pari di Medea e di Fedra, analizza dentro se stessa il sentimento e il dissidio interiore che ne deriva. Per far questo il poeta Virgilio cessa d’essere obiettivo, cioè quella capacità già espressa nei primi tre canti ottenuta attraverso una narrazione di secondo grado, per concentrarsi esclusivamente sulla figura di Didone con cui s’immedesima. Tale immedesimazione può avvenire in quanto permane, in lui, la concezione dell’amore vissuto come furor, quindi, epicureisticamente, lontano dal raggiungimento dell’atarassia. E’ chiaro che, per quanto il nucleo del suo pensiero sia filosofico, questa concezione rimanga quasi una costanza nel poetare virgiliano: si va dall’impazzimento per l’abbandono in amore di Cornelio Gallo nella decima egloga, all’esaltazione dell’amore “asessuato” delle api nelle Georgiche. Ma non bisogna neppure dimenticare il suo passaggio attraverso la conoscenza e l’apprendimento della poesia neoterica: ciò per dire che se, perlomeno limitandoci a quanto sappiamo della sua scarsa biografia, egli l’amore come passione non lo visse, ebbe la fortuna e la capacità di farlo “letterariamente suo”, attraverso la conoscenza di carmina catulliani.

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Giochi sacri in Onore di Anchise (miniatura del 1430 ca)

Libro V

I Troiani, ormai in mare, vedano dalle nave innalzarsi i fumi che dalla città di Troia: sono le fiamme che si sprigionano dalla pira di Didone e, sebbene Enea non ne abbia la certezza, è preso da un certo sgomento. Quindi veleggia ancora verso la Sicilia e si ritrova nel luogo dove il padre era morto. Quindi in suo onore compie i riti funebri e i giochi sacri. Questi vengono descritti con perizia di particolari, richiamandosi alla stessa descrizione che Omero fa in onore di Patroclo, nel XXIII canto dell’Iliade. Proclamato il vincitore, Giunone decide nel frattempo di suscitare la rabbia nelle donne troiane, stanche per il lungo viaggio. Quindi decidono di bruciare un certo numero di navi. Non sapendo se lasciare le donne nell’isola, Enea si rivolge ad un oracolo, che lo esorta a proseguire il viaggio. Enea riprende il cammino, ma durante il viaggio, Palinuro, vinto dal sonno, muore e viene rapito dal mare.

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Giovanni Vasso: Mito di Palinuro (2016)

LA MORTE DI PALINURO
(vv.835-861)

Iamque fere mediam caeli Nox umida metam
contigerat, placida laxabant membra quiete
sub remis fusi per dura sedilia nautae:
cum levis aetheriis delapsus Somnus ab astris
aera dimovit tenebrosum et dispulit umbras
te, Palinure, petens, tibi somnia tristia portans
insonti; puppique deus consedit in alta
Phorbanti similis funditque has ore loquelas:
«Iaside Palinure, ferunt ipsa aequora classem,
aequatae spirant aurae, datur hora quieti.
pone caput fessosque oculos furare labori.
Ipse ego paulisper pro te tua munera inibo.»
Cui vix attollens Palinurus lumina fatur:
«Mene salis placidi vultum fluctusque quietos
ignorare iubes? mene huic confidere monstro?
Aenean credam quid enim? fallacibus auris
et caeli totiens deceptus fraude sereni?»
Talia dicta dabat, clavumque adfixus et haerens
nusquam amittebat oculosque sub astra tenebat.
Ecce deus ramum Lethaeo rore madentem
vique soporatum Stygia super utraque quassat
tempora, cunctantique natantia lumina solvit.
Vix primos inopina quies laxaverat artus,
et super incumbens cum puppis parte revulsa
cumque gubernaclo liquidas  proiecit in undas
praecipitem ac socios nequiquam saepe vocantem;
ipse volans tenuis se sustulit ales ad auras. 

E già il mezzo del cielo l’umida Notte toccava, / in placida quiete abbandonavano i corpi, / sotto i remi, e pei duri sedili distesi, le ciurme. / Ed ecco leggero dagli astri celesti il Sonno scendendo / agitò l’aria oscura e dissipò l’ombre, / te, Palinuro, cercando, a te portando il mal sogno, / o innocente. Sull’alta poppa il dio si posò, / e sembrando Forbante queste parole diceva: / «Iaside Palinuro, il mare porta le navi / da solo, uguale spira la brezza: ecco un’ora pel sonno. / Appoggia il capo, strappa gli occhi stanchi al tormento: / io posso, per poco, sostener la tua parte». / E a lui Palinuro, levando a stento le palpebre: / «E vuoi che la faccia del mare tranquillo, che l’onde assopite / io non conosca? E che d’un simile mostro mi fidi? / Enea, ma sei pazzo?, lasciarlo alle brezze bugiarde, / proprio io, tante volte ingannato dal cielo sereno?» / Queste parole diceva, e fisso e attaccato al timone, / non lo lasciava un momento, gli occhi tesi alle stelle. / Ma un ramo stillante di acqua di Lete, veleno / di stigia potenza, gli scuote il dio sulle tempie, / e mentre invano resiste gli occhi oscillanti gli chiude.  / Quel sonno improvviso gli ebbe appena sciolto le membra: / volandogli addosso, strappato un pezzo di poppa, / giù con tutto il timone lo gettò il dio nell’acqua / a capofitto, che invano chiamava e richiamava i compagni. / Poi come uccello a volo s’alzò, nell’aria sparendo.

L’episodio di Palinuro, ricco di pathos, sottolinea ancora una volta il rapporto conflittuale tra il mondo del divino e Virgilio: anche qui infatti l’insons Palinuro, fidato nocchiero del nostro eroe, sarà vittima sacrificale del patto tra Nettuno e Venere stipulato per favorire il viaggio tranquillo di Enea.

Enea, accortosi che la nave non ha più guida, ne prende il comando, mentre piange l’amico scomparso.

Libro VI

E’ questo il canto della catabasi, cioè della discesa agli inferi di Enea.

I troiani giungono a Cuma, e mentre i suoi compagni si fermano nella spiaggia alla ricerca di legna e di acqua, Enea si dirige nel tempio di Apollo e l’antro della Sibilla. Qui gli verrà confermata la permanenza nel Lazio, dove dovrà subire ancora stragi e lutti. Quindi Enea chiede di poter vedere il padre nell’Ade: per farlo dovrà trovare un ramoscello d’oro, offerta per Proserpina e seppellire Miseno, suo compagno, che contamina la flotta. Compiuti tali riti si dirige nell’Ade (regno dei morti), nel cui vestibolo sono tutti i mali che affliggono l’uomo. Al centro c’è un grande olmo, in cui sono racchiusi i sogni vani; lo dovrà seguire: e là che troverà la via che lo porterà all’Acheronte:

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Enea e la Sibilla salgono sulla barca di Caronte

CARONTE
(vv.298-316)

Portitor has horrendus aquas et flumina servat
terribili squalore Charon, cui plurima mento
canities inculta iacet, stant lumina flamma,
sordidus ex umeris nodo dependet amictus.
Ipse ratem conto subigit velisque ministrat
et ferruginea subvectat corpora cumba,
iam senior, sed cruda deo viridisque senectus.
Huc omnis turba ad ripas effusa ruebat,
matres atque viri defunctaque corpora vita
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
impositique rogis iuvenes ante ora parentum:
quam multa in silvis autumni frigore primo
lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto
quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus
trans pontum fugat et terris immittit apricis.
Stabant orantes primi transmittere cursum
tendebantque manus ripae ulterioris amore.
Navita sed tristis nunc hos nunc accipit illos,
ast alios longe summotos arcet harena.

Traghettatore orrendo, guarda quest’acque ed il fiume / Caronte, irto, pauroso: a lui la lunga dal mento, / bianca scende la barba incolta, sbarra occhi di fiamma; / sordido dalle spalle gli pende, annodato, il mantello. / Da solo spinge col palo la barca e le vele governa, / dentro il suo livido scafo i corpi trasporta, / vecchissimo. Ma cruda e salda è la vecchiezza del dio. / Qui tutta una folla ammassandosi sulle rive accorreva, / donne e uomini, corpi liberi ormai dalla vita, / di forti eroi, fanciulli e non promesse fanciulle, / giovani messi sul rogo davanti agli occhi dei padri: / tante così nei boschi, al primo freddo d’autunno, / volteggiano e cadono foglie, o a terra dal cielo profondo / tanti uccelli s’addensano, quando, freddo ormai, l’anno / di là del mare li spinge verso le terre del sole. / Stavano là, sperando d’essere i primi a passare, / e tendevan, per brama dell’altra riva, le mani. / Ma il triste nocchiero or questi accoglie, ora quelli, / altri tiene lontani e caccia via dalla spiaggia.

La Sibilla spiega ad Enea che potranno essere traghettate solo le anime dei sepolti: Palinuro, morto in mare, dovrà attendere cento anni. Enea lo incontrerà tre le anime, e sarà lo stesso Palinuro a dirci di aver raggiunto la riva, ma gli abitanti di quel luogo lo avevano ucciso e lasciato insepolto. La Sibilla gli assicurerà che avverrà anche per lui il rito funebre e il luogo riceverà il suo nome. Convinto dal ramo d’oro, (che Enea aveva precedentemente raccolto) i due vengono traghettati da Caronte e giungono all’altra riva. Qui incontrano Cerbero e Minosse.

CERBERO E MINOSSE
(vv.417-423; 432-439)

Cerberus haec ingens latratu regna trifauci
personat adverso recubans immanis in antro.
Cui vates horrere videns iam colla colubris
melle soporatam et medicatis frugibus offam
obicit. Ille fame rabida tria guttura pandens
corripit obiectam atque immania terga resolvit
fusus humi totoque ingens extenditur antro.
Quaesitor Minos urnam movet; ille silentum
consiliumque vocat vitasque et crimina discit.
Proxima deinde tenent maesti loca, qui sibi letum
insontes peperere manu lucemque perosi
proiecere animas. quam vellent aethere in alto
nunc et pauperiem et duros perferre labores.
Fas obstat, tristisque palus inamabilis undae
alligat et novies Styx interfusa coercet.

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John Martin: Enea e la Sibilla nell’Ade (1817)

Cerbero qui, gigantesco, con tre gole latrando, / rintrona quei regni, steso ferocemente nell’antro. / A lui la Sibilla, vedendo già i serpi drizzati sui colli, / gettò una focaccia sonnifera, di miele e drogata farina. / Con fame rabbiosa, tre gole aprendo, l’afferra / quello a volo: ed ecco il corpo pauroso crollò, / sdraiato in terra, immenso per tutto l’antro si stese. / Inquisitore è Minosse e scuote l’urna: di muti / egli aduna un concilio, le colpe indaga e le vite. / I luoghi vicini, in angoscia tengono quelli che morte / innocenti si dettero, di loro mano, in odio alla luce / la vita buttarono via. Oh come adesso vorrebbero / su nella luce e miseria e dure pene soffrire! / Il Fato s’oppone, e la trista palude dell’onda esecrabile / li lega, li stringe e li fascia per nove volte lo Stige.

Superati i due mostri, in una specie d’Antinferno incontrano i morti anzitempo (bambini, suicidi, condannati a morte ingiustamente;); poco lontano i morti per amore: qui incontra Didone:

ENEA E DIDONE NELL’ADE
(vv. 450-476)

Inter quas Phoenissa recens a vulnere Dido
errabat silva in magna; quam Troius heros
ut primum iuxta stetit agnovitque per umbras
obscuram, qualem primo qui surgere mense
aut videt aut vidisse putat per nubila lunam,
demisit lacrimas dulcique adfatus amore est:
«Infelix Dido, verus mihi nuntius ergo
venerat exstinctam ferroque extrema secutam?
Funeris heu tibi causa fui? per sidera iuro,
per superos et si qua fides tellure sub ima est,
invitus, regina, tuo de litore cessi.
Sed me iussa deum, quae nunc has ire per umbras,
per loca senta situ cogunt noctemque profundam,
imperiis egere suis; nec credere quivi
hunc tantum tibi me discessu ferre dolorem.
Siste gradum teque aspectu ne subtrahe nostro.
Quem fugis? extremum fato quod te adloquor hoc est.»
Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem
lenibat dictis animum lacrimasque ciebat.
Illa solo fixos oculos aversa tenebat
nec magis incepto vultum sermone movetur
quam si dura silex aut stet Marpesia cautes.
Tandem corripuit sese atque inimica refugit
in nemus umbriferum, coniunx ubi pristinus illi
respondet curis aequatque Sychaeus amorem.
Nec minus Aeneas casu percussus iniquo
prosequitur lacrimis longe et miseratur euntem.

Tra l’altre, fresca ancor di ferita, Didone fenicia / vagava per la foresta immensa. Ed ecco l’eroe / teucro le fu vicino, e la conobbe, fra l’ombre / incerta, come chi sorgere, al principiare del mese, / vede, o crede vedere, fra nubi luna; / e lasciò correr le lagrime e la chiamò con amore: / «Didone misera! e dunque era vero l’annunzio / che t’eri uccisa col ferro, che avevi voluto morire. / Di morte io ti fui causa? Per le stelle ti giuro, / pei superi, per quale valga mai pegno sotto la terra profonda, / io non volevo, regina, lasciar la tua spiaggia. / Ma la legge dei numi, che or mi fa andare tra l’ombre, / per luoghi squallidi, mucidi, entro la notte profonda, / con la sua forza mi urgeva: e non potevo, no, credere / che t’avrei dato, partendo, così disperato dolore. / Ferma il passo, oh non sottrarti al mio sguardo. / Chi fuggi? Per fato, è l’ultima volta che posso parlarti!» / Così quell’anima ardente, che torvo guardava, / Enea tentava lenir con le parole, e piangeva. / Ma lei gli occhi a terra, nemica, fissi teneva. / Né al suo parlare cambia espressione del volto, / più che se rigida roccia o scoglio marpesio là stesse. / Si scosse alla fine, e corse, nemica, a nascondersi / nel bosco ombroso: là dove il primo marito / al suo affanno risponde, uguaglia il suo amore, Sicheo. / Tanto più Enea, sconvolto dall’ingiusta sciagura, / la segue con lagrime a lungo, mentre fugge, e ne piange.

Questo passo si lega strutturalmente al IV, offrendo, così la chiusura dell’incontro/scontro/incomunicabilità, attraverso cui si delinea l’arco della storia d’amore tra Didone ed Enea. Di fronte alle crude parole rinfacciate al perfidus inimicus, cui nulla riesce a ribattere in modo convincente l’eroe troiano, qui vi è finalmente la “spiegazione” alle quale lei assiste sdegnando l’interlocutore: il passo si chiude, tuttavia, verso un segno di speranza per la donna: nell’Ade non è sola, ma è accompagnata da Sicheo, suo marito, cui si rifugia, ritrovando la fides rotta per un amore impuro.

Continuando nel cammino nell’Ade, Enea dapprima incontra i caduti in guerra, quindi, si trova di fonte ad un bivio, una strada conduce al Tartaro, dove sono puniti i malvagi, l’altra ai campi Elisi, dove risiedono i beati. Tra essi vi è Anchise. Qui il vecchio padre mostra le anime che si sarebbero reincarnate; dopo aver spiegato il mistero della metempsicosi, mostra al figlio le anime che sarebbero diventate i suoi discendenti.

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Ferdinand Bol: Enea accolto dal re Latino (Amsterdam, 1661-1663 ca)

Libro VII  

Il canto inizia con i riti funebri per Caieta, nutrice di Enea. Ripreso il viaggio, costeggiano Creta, finché giungono alla foce del Tevere. Qui il narratore, dopo una nuova invocazione, racconta la gente latina: vi è re Latino, alla cui unica figlia, Lavinia, aspirava Turno, re dei Rutuli. Il re si mostra ostile a questo matrimonio, perché troppi presagi appaiono negativi. Intanto i Troiani, giunti nel Lazio, si rendono conto che è questo il posto a cui erano destinati: infatti si avvera la profezia delle Arpie, quella per cui avrebbero mangiato le loro mense (preparate focacce di farina, vi pongono i cibi, quindi si nutrono anche di esse). Vengono accolti benevolmente dal re Latino, che si rende conto che sarà Enea destinato per sua figlia. Giunone accortasi di ciò, manda la furia Aletto per creare discordia tra i protagonisti: dapprima va da Amata, moglie di Latino, e gli intima di non dare sua figlia ad Enea, quindi si reca da Turno e lo spinge a prender le armi contro i troiani ed infine eccita i pastori del re, facendo uccidere una splendida cerva della figlia da una freccia di Ascanio. Vengono, forzando la volontà del re, aperte le porte di Giano. Nella presentazione appare, splendida, la descrizione della vergine Camilla:

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Niccolò dell’Abate: Camilla sorretta da Acca (Palazzo Poggi, Firenze)

LA VERGINE CAMILLA
(vv. 803-807; 812-817)

Hos super advenit Volsca de gente Camilla
agmen agens equitum et florentis aere catervas,
bellatrix, non illa colo calathisve Minervae
femineas adsueta manus, sed proelia virgo
dura pati cursuque pedum praevertere ventos.

(…)

Illam omnis tectis agrisque effusa iuventus
turbaque miratur matrum et prospectat euntem,
attonitis inhians animis ut regius ostro
velet honos levis umeros, ut fibula crinem
auro internectat, Lyciam ut gerat ipsa pharetram
et pastoralem praefixa cuspide myrtum.

Dopo tutti costoro, Volsca di stirpe, ecco Camilla: / squadre a cavallo guidava, caterve fiorite di bronzo, / guerriera, che mai conocchia o cestello toccò di Minerva / con le mani femminee, ma, vergine, lotte / dure imparò a sopportare, a vincere il vento correndo. (…)  Lei tutti i giovani, dalle case, dai campi, accaldandosi, / e una folla di madri ammira, e la guardano andare / a bocca aperta, stupiti, come l’onore regale / della porpora, veli le belle spalle e d’oro la fibbia / s’intrecci ai capelli, e come la licia faretra / e il pastorale mirto, armato di punta lei porti.

Appare qui la donna guerriera, quella che Dante stesso cita nel I canto dell’Inferno, madre di quelle vergine guerriere di cui, più che il poeta medievale, si nutriranno i poemi cavallereschi di Ariosto, nella figura di Bradamante e soprattutto di Tasso, disegnando, con Clorinda, forse l’apice di questa figura femminile.

Libro VIII

Sia Enea che i suoi nemici cercano alleanze per la guerra. Enea si dirige dal vecchio Evandro, che ricevutolo rivede in lui le fattezze di Anchise, e lo accoglie con benevolenza. Quindi il re racconta la storia di quella terra e in seguito gli consiglia di cercare anche l’alleanza con gli Etruschi. Nel frattempo lui garantirà un numero congruo di cavalieri, una parte dei quali verrà guidata dal suo giovane figlio Pallante. Venere, nel frattempo, preoccupata per l’imminente guerra, si rivolge a Vulcano, affinché costruisse armi invincibili per il figlio. Quando Enea le riceverà potrà ammirare, disegnate nello scudo, le future vicende di Roma, sino alla battaglia di Azio:

AGIOGRAFIA DI AUGUSTO
(vv. 671-681)

Haec inter tumidi late maris ibat imago
aurea, sed fluctu spumabant caerula cano;
et circum argento clari delphines in orbem
aequora verrebant caudis aestumque secabant.
In medio classis aeratas, Actia bella,
cernere erat, totumque instructo Marte videres
fervere Leucaten auroque effulgere fluctus.
Hinc Augustus agens Italos in proelia Caesar
cum patribus populoque, penatibus et magnis dis,
stans celsa in puppi, geminas cui tempora flammas
laeta vomunt patriumque aperitur vertice sidus.

Tra queste figure scorreva del gonfio mar vastamente / l’immagine aurea, ma spumeggiava cerulea di bianchi frangenti: / e intorno, argentei splendendo in cerchio, i delfini / spazzavano il mar con le code e il flutto solcavano. / In mezzo, flotte armate di bronzo, l’Aziaca battaglia / si poteva vedere, e sotto le belliche schiere scorgevi / spumeggiar tutto il Leucate, splendere d’oro le onde. / Cesare Augusto, di qui, gli Itali in guerra guidando, / coi padri, col popolo, con i penati e i gran dei, / ritto sull’alta poppa: e due fiamme le tempie / fortunate lampeggiano, appare sul cupo la stella paterna.

Libro IX

Mentre Enea sta cercando alleati per la guerra, Giunone spinge Turno ad attaccare battaglia; non riuscendo ad assalire le mura, dentro le quali i Troiani si sono asserragliati, pensa di bruciarne le navi, ma una magia di Cibele, con cui tale navi furono costruite, le trasforma in ninfe marine. Sbigottiti i Rutuli meditano l’attacco per il giorno seguente. Vengono pertanto predisposte le guardie: sotto le mura troiane ci sono Eurialo e Niso. Niso dice all’amico che vuole andare da Enea per avvertirlo del nemico, ma Eurialo non è disposto a lasciarlo andare solo, anche se nel campo rimane la vecchia madre.

INSIEME AD OGNI COSTO
(vv. 197-223; 367-445)

Obstipuit magno laudum percussus amore
Euryalus, simul his ardentem adfatur amicum:
«Mene igitur socium summis adiungere rebus,
Nise, fugis? solum te in tanta pericula mittam?
Non ita me genitor, bellis adsuetus Opheltes,
Argolicum terrorem inter Troiaeque labores
sublatum erudiit, nec tecum talia gessi
magnanimum Aenean et fata extrema secutus:
est hic, est animus lucis contemptor et istum
qui vita bene credat emi, quo tendis, honorem.»
Nisus ad haec: «Equidem de te nil tale verebar
nec fas, non; ita me referat tibi magnus ovantem
Iuppiter aut quicumque oculis haec aspicit aequis.
Sed si quis, quae multa vides discrimine tali,
si quis in adversum rapiat casusve deusve,
te superesse velim, tua vita dignior aetas.
Sit qui me raptum pugna pretiove redemptum
mandet humo, solita aut si qua id Fortuna vetabit,
absenti ferat inferias decoretque sepulcro.
Neu matri miserae tanti sim causa doloris,
quae te sola, puer, multis e matribus ausa
persequitur, magni nec moenia curat Acestae.»
Ille autem: «Causas nequiquam nectis inanis
nec mea iam mutata loco sententia cedit:
adceleremus» ait. Vigiles simul excitat, illi
succedunt servantque vices: statione relicta
ipse comes Niso graditur regemque requirunt.

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Jean Baptiste Louis Roman: Eurialo e Niso (Museo del Louvre, 1827)

Restò senza fiato, dal grande amore di gloria, / Eurialo: e così subito parla all’amico eccitato: / «Me dunque compagno alle imprese più grandi non vuoi / prendere, Niso? Ti lascerò solo in tanto pericolo? / Non così il padre Ofelte avvezzo alle guerre / m’educò, poiché in mezzo al terrore dei Danai, allo strazio / di Troia io son nato: non con te vissi / e del magnanimo Enea seguii fino in fondo il destino: / c’è qui, c’è un cuore che disprezza la luce, che crede / buon prezzo pagar con la vita l’onore a cui tendi». / E Niso: «No, certo, non questo di te potevo  temere, / sarebbe stata ingiustizia; così a te mi riporti in trionfo / il gran Giove, o chi altro guarda benigno l’impresa! / Ma se, tu vedi che molte sono le cose in tali frangenti, / se un caso, se un dio dovesse gettarmi nel peggio, / te vorrei vivo, più degni di vita i tuoi anni. / E poi ci sarebbe chi, vinto in battaglia o comprato con oro, / m’affidi alla terra, o se la Fortuna s’oppone, / faccia l’esequie all’assente e di tombe m’onori. / E alla tua misera madre non voglio essere causa di pianto, / a lei che sola, fra tante donne, fanciullo, / osò seguirti, e nulla per lei furon le mura d’Alceste.» / Ma quello: «Scene inutili intessi, senza costrutto; / non cede, non muta comunque la mia decisione, / facciamo presto», dice. E sveglia le scolte, e subentrano / quelli a prendere la guardia: egli lascia il suo posto, / compagno a Niso si muove e cercano il re.

Quindi insieme i due amici, dopo aver ottenuto il permesso per la loro impresa, s’infiltrano nel campo dei nemici che trovano addormentati; ne uccidono tanti e si impossessano di alcune delle loro armi, tra cui un elmo.

Interea praemissi equites ex urbe Latina,
cetera dum legio campis instructa moratur,
ibant et Turno regi responsa ferebant,
ter centum, scutati omnes, Volcente magistro.
Iamque propinquabant castris murosque subibant
cum procul hos laevo flectentis limite cernunt,
et galea Euryalum sublustri noctis in umbra
prodidit immemorem radiisque adversa refulsit.
Haud temere est visum. Conclamat ab agmine Volcens:
«State, viri. Quae causa viae? quive estis in armis?
quove tenetis iter?» Nihil illi tendere contra,
sed celerare fugam in silvas et fidere nocti.
Obiciunt equites sese ad divortia nota
hinc atque hinc omnemque aditum custode coronant.
Silva fuit late dumis atque ilice nigra
horrida, quam densi complerant undique sentes;
rara per occultos lucebat semita callis.
Euryalum tenebrae ramorum onerosaque praeda
impediunt, fallitque timor regione viarum.
Nisus abit; iamque imprudens evaserat hostis
atque locos qui post Albae de nomine dicti
Albani (tum rex stabula alta Latinus habebat),
ut stetit et frustra absentem respexit amicum:
«Euryale infelix, qua te regione reliqui?
quave sequar?» rursus perplexum iter omne revoluens
fallacis silvae simul et vestigia retro
observata legit dumisque silentibus errat.
Audit equos, audit strepitus et signa sequentum;
nec longum in medio tempus, cum clamor ad auris
pervenit ac videt Euryalum, quem iam manus omnis
fraude loci et noctis, subito turbante tumultu,
oppressum rapit et conantem plurima frustra.
Quid faciat? qua vi iuvenem, quibus audeat armis
eripere? an sese medios moriturus in enses
inferat et pulchram properet per vulnera mortem?
Ocius adducto torquet hastile lacerto
suspiciens altam Lunam et sic voce precatur:
«Tu, dea, tu praesens nostro succurre labori,
astrorum decus et nemorum Latonia custos.
Si qua tuis umquam pro me pater Hyrtacus aris
dona tulit, si qua ipse meis venatibus auxi
suspendive tholo aut sacra ad fastigia fixi,
hunc sine me turbare globum et rege tela per auras».
Dixerat et toto conixus corpore ferrum
conicit. Hasta volans noctis diverberat umbras
et venit aversi in tergum Sulmonis ibique
frangitur, ac fisso transit praecordia ligno.
Volvitur ille vomens calidum de pectore flumen
frigidus et longis singultibus ilia pulsat.
Diversi circumspiciunt. Hoc acrior idem
ecce aliud summa telum librabat ab aure.
Dum trepidant, it hasta Tago per tempus utrumque
stridens traiectoque haesit tepefacta cerebro.
Saevit atrox Volcens nec teli conspicit usquam
auctorem nec quo se ardens immittere possit.
«Tu tamen interea calido mihi sanguine poenas
persolves amborum» inquit; simul ense recluso
ibat in Euryalum. Tum vero exterritus, amens,
conclamat Nisus nec se celare tenebris
amplius aut tantum potuit perferre dolorem:
«Me, me, adsum qui feci, in me convertite ferrum,
o Rutuli! mea fraus omnis, nihil iste nec ausus
nec potuit; caelum hoc et conscia sidera testor;
tantum infelicem nimium dilexit amicum.»
Talia dicta dabat, sed viribus ensis adactus
transadigit costas et candida pectora rumpit.
Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus
it cruor inque umeros cervix conlapsa recumbit:
purpureus veluti cum flos succisus aratro
languescit moriens, lassove papavera collo
demisere caput pluvia cum forte gravantur.
At Nisus ruit in medios solumque per omnis
Volcentem petit, in solo Volcente moratur.
Quem circum glomerati hostes hinc comminus atque hinc
proturbant. Instat non setius ac rotat ensem
fulmineum, donec Rutuli clamantis in ore
condidit adverso et moriens animam abstulit hosti.
Tum super exanimum sese proiecit amicum
confossus, placidaque ibi demum morte quievit.

Intanto, mandati avanti dal borgo latino, ché altro / esercito, pronto, resta in attesa nel piano, / cavalieri venivano, e a Turno re risposte portavano; / trecento, tutti armati di scudi, e Volcente era il capo. / E già si avvicinavano al campo e alle mura arrivavano, / quando lontano, costoro vedon girare a sinistra, / e l’elmo, nell’ombre della notte lunare, tradì / l’immemore Eurialo, colpito dai raggi splendette. / Non impunemente fu visto. / Volcente gridò alla schiera: «Fermi, uomini, che cosa vi muove? chi siete in armi? / dove siete diretti?». Essi nulla rispondono, / ma rapidi fuggono al bosco e alla notte si affidano. / I cavalieri si lanciano ai passaggi ben noti / di qua, di là, tutti i bivii con guardie coronano. / La selva era vasta, di macchie e d’elci nerastri / foltissima, e densi spineti per tutto l’empivano: / radi sentieri lucevano fra intrichi nascosti. / Eurialo, l’ombra dei rami, la preda onerosa / impaccia, l’inganna l’orrore nel tentare la via. / Niso andava: già senza accorgersene ha passato i nemici, / e i boschi sacri, che poi dal nome d’Alba si dissero / Albani (allora il re Latino, pascoli folti, li aveva): / come ristette, e invano a cercar l’amico si volse, e non c’era: / «Eurialo infelice, dove mai t’ho lasciato? dove ti cerco / tutto facendo di nuovo il confuso cammino / dell’ingannevole selva?» E scruta all’indietro / le impronte recenti e le segue, s’aggira tra mute boscaglie. / Ecco, ode cavalli, strepito ode, e gli inseguitori, e i richiami: / e molto non passa, che un urlo agli orecchi / gli arriva, e vede Eurialo; già tutta la schiera / (colpa della notte e del luogo) con subito confuso tumulto / lo raggiunge, lo tiene, che tutto invano pur tenta. / Che fare? con quale forza, con quali armi oserà / strappar loro il fanciullo? o è meglio gettarsi a morire, / su quelle spade, affrettare la bella morte nel sangue? / Rapidamente flettendo il braccio palleggia l’astile, / e in alto, alla Luna rivolto, la prega così: / «Tu, dea, tu valido aiuto, soccorri il nostro pericolo, / o bellezza degli astri, o dei boschi Latonia custode. / Se mai per me sui tuoi altari il padre mio Irtaco / portò doni, se anch’io con le mie cacce ne aggiunsi, / e ne appesi alla cupola, e ai sacri fastigi ne affissi, / fammi sconvolgere tu quella folla, reggi l’arma per aria». / Disse, e con tutto il corpo tendendosi il ferro / lanciò. L’asta volando straccia l’ombra notturna, / e vien nella schiena a Sulmone, voltato, e lì stesso / s’infrange, ma passa col legno rotto i precordi. / Rotola quello, dal petto un caldo fiume versando; / già freddo, gli ultimi aneliti con lunghi singulti dà ancora. / di qua, di là guardano. E Niso, più ardente, / ancora scoccava dall’orecchio una picca: / stavan quelli confusi, e l’asta passò a Tago le tempie / stridendo, restò a intiepidirsi nel cervello trafitto. / Volcente infuria, feroce: non riesce a vedere l’autore / del colpo, né dove possa pieno di rabbia scagliarsi. / «Tu intanto, però, col sangue vendetta / mi pagherai per entrambi», gridò e col ferro sguainato / piombava su Eurialo. Allora folle, sconvolto, / Niso scoppia a gridare, non può più nel buio nascondersi, / non può sopportare così orrendo dolore. / «Me, me! qui son io che ho colpito, su me il ferro volgete / o Rutuli! Mio è tutto l’inganno, nulla osò questo, / nè avrebbe potuto: il cielo lo attesti e, consce, le stelle. Soltanto, amò troppo il suo misero amico». / Queste parole gridava, ma spinta a forza la spada / tagliò le costole, il candido petto sfondò. / S’accasciò Eurialo morto, per il bel corpo / scorreva il sangue, cadde la testa sulla spalla, pesante: / così purpureo fiore, che l’aratro ha tagliato, / languisce morendo, o chinano il capo i papaveri / sul collo stanco, quando la pioggia li grava. / Ma Niso si butta nel mezzo, solo fra tutti / Volcente ricerca, Volcente solo egli vuole. / Intorno i nemici si stringono / di qua di là tentano / di ributtarlo: e nondimeno resiste, e ruota la spada / fulminea, finché al Rutulo urlante la cacciò nella gola / e tolse, morendo, al suo nemico la vita. / Allora si buttò in terra, sull’amico già esamine, / e lì, trafitto, trovò in placida morte riposo.

Episodio celeberrimo questo di Eurialo e Niso, non solo perché viene ripresa pedissequamente da Ariosto, nelle figure di Cloridano e Medoro, ma perché ci pone il problema del superamento, in chiave concettuale, dell’idea di amicizia della filosofia di Cicerone, che aveva dedicato ad essa un libro: infatti, per il pensatore repubblicano, l’amicizia è un sentimento che, per quanto altissimo, dev’essere subordinato al bene della res publica, per Virgilio l’amicitia, va al di là e significa sacrificio, abnegazione, generosità, lo stesso concetto cui disegnerà nella sua filosofia morale lo stoico Seneca. Inoltre non bisogna dimenticare che qui Virgilio adombri le figure di Achille e Patroclo con il concetto di amore “alla greca” – ancora un omaggio al padre dell’epica Omero.

Preparandosi all’assalto, i cavalieri portano sulle lance le teste dei due giovani, così che della loro morte viene a sapere la povera madre di Eurialo. S’accende la battaglia, morti da ambedue le parti. Turno, circondato dai nemici, fugge, gettandosi nel Tevere.

Libro X 

I Rutuli continuano la battaglia, mentre tra i Troiani emerge la figura del giovane Ascanio che lotta gloriosamente. Enea s’affretta a tornare, spronato dalle ninfe marine, barche già state trasformate, con l’esercito degli alleati. Nella lotta spicca Pallante, figlio di Evandro. Ma contro lui si fa forte Turno: inutile la preghiera del giovane ad Ercole, che piange per la sua morte; il re dei Rutuli riesce a sopraffarlo e gli ruba, trionfante, il balteo. Il dolore di Enea è grande, che si vendica uccidendo moltissimi nemici: Giunone, per far sfuggire Turno dalla sua ira, prende le sembianze del Troiano e l’allontana. Intanto Enea si trova a combattere col giovane Lauso che aveva preso le difese del padre Mesenzio ferito. Quando quest’ultimo s’allontana per detergere la ferita, Enea uccide il ragazzo. Grande è il dolore del padre, che si scaglia contro Enea, ma non cerca la vita: dopo la morte del figlio essa non ha più alcuno scopo.

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Turno uccide Pallante

MESENZIO A ENEA
(vv. 900-906)

Hostis amare, quid increpitas mortemque minaris?
nullum in caede nefas, nec sic ad proelia veni,
nec tecum meus haec pepigit mihi foedera Lausus.
unum hoc per si qua est victis venia hostibus oro:
corpus humo patiare tegi. Scio acerba meorum
circumstare odia: hunc, oro, defende furorem
et me consortem nati concede sepulcro.

Nemico amaro, che gridi? che morte minacci? / Non è empio l’uccidermi, non così venni in guerra, / non con te questo patto mi ha pattuito il mio Lauso. / Solo, se esiste pietà pei vinti nemici, ti prego: / il corpo mio, che la terra lo copra. So che acerbo dei miei / m’è intorno l’odio: ti prego, dal loro furore difendendimi, / me pure concedi compagno alla tomba del figlio.

Pochissimi versi, a chiusura del canto a sollolinare l’aspetto dellas pietas, pur di fronte alla morte del guerriero: le parole usate, venia e furor (perdono e furore) sembrano sollecitare infatti la virtù del grande eroe che sa esercitare pure sui vinti (victis) un alto senso di giustizia, rendendo il padre al figlio.

Libro XI

Si raggiunge una tregua tra i due contendenti, durante la quale vengono rese esequie funebri ai morti delle due parti. Intanto nel campo dei Latini serpeggia un certo malcontento nei confronti di Turno con alcune defezioni. Enea propone, per risolvere la guerra, un duello con Turno, il quale, pur non rinunciando a combattere contro i Troiani, accetta come ultima ratio. Sa, d’altra parte, che se alcuni hanno rinunciato alla lotta, ancora valorosi eroi stanno al suo fianco, come la vergine Camilla. Cu viene raccontata la sua vita (Il padre fuggito dopo esser stato cacciato per crudeltà, porta la piccola figlia con sé. Di fronte ad un fiume in piena, la lega su una lancia e la lancia nell’altra sponda chiedendo la protezione di Diana. Dopo averla raggiunta, la nutre nei boschi, dove cresce conservando la sua verginità e dedicando la sua vita alla dea). Ma è arrivato il suo momento:

MORTE DI CAMILLA
(vv. 768-804)

Forte sacer Cybelo Chloreus olimque sacerdos
insignis longe Phrygiis fulgebat in armis
spumantemque agitabat equum, quem pellis aënis
in plumam squamis auro conserta tegebat.
Ipse peregrina ferrugine clarus et ostro
spicula torquebat Lycio Gortynia cornu;
aureus ex umeris erat arcus et aurea vati
cassida; tum croceam chlamydemque sinusque crepantis
carbaseos fulvo in nodum collegerat auro
pictus acu tunicas et barbara tegmina crurum.
Hunc virgo, sive ut templis praefigeret arma
Troia, captivo sive ut se ferret in auro
venatrix, unum ex omni certamine pugnae
caeca sequebatur totumque incauta per agmen
femineo praedae et spoliorum ardebat amore,
telum ex insidiis cum tandem tempore capto
concitat et superos Arruns sic voce precatur:
«Summe deum, sancti custos Soractis Apollo,
quem primi colimus, cui pineus ardor acervo
pascitur, et medium freti pietate per ignem
cultores multa premimus vestigia pruna,
da, pater, hoc nostris aboleri dedecus armis,
omnipotens. Non exuvias pulsaeve tropaeum
virginis aut spolia ulla peto, mihi cetera laudem
facta ferent; haec dira meo dum vulnere pestis
pulsa cadat, patrias remeabo inglorius urbes.»
Audiit et voti Phoebus succedere partem mente dedit,
partem volucris dispersit in auras:
sterneret ut subita turbatam morte Camillam
adnuit oranti; reducem ut patria alta videret
non dedit, inque Notos vocem vertere procellae.
Ergo ut missa manu sonitum dedit hasta per auras,
convertere animos acris oculosque tulere
cuncti ad reginam Volsci. Nihil ipsa nec aurae
nec sonitus memor aut venientis ab aethere teli,
hasta sub exsertam donec perlata papillam
haesit virgineumque alte bibit acta cruorem.

Sacro al Cìbelo un tempo e sacerdote, splendeva / Clorèo lontano, vistoso in frigia armatura. / Spronava schiumante cavallo: lo copriva una pelle /  irta di bronzee squame simili a penne, trapunta in oro. / Bello d’esotico turchino e di porpora, frecce scagliava / cortesi da lieto arco: e d’oro era l’arco / agli omeri appeso, d’oro l’elmetto del vate; / le pieghe fruscianti di mussola della clamide crocea / teneva raccolte con fulvo oro in un nodo; / e tunica aveva a richiami e gambiere barbariche. / Questo la vergine, o che armi troiane appender volesse / nel tempio, o per far pompa lei stessa all’oro predato, / della battaglia fra tutte le mischie, qual cacciatrice, / rincorre, lui solo, senza guardarsi, per tutte le schiere, / ardendo di brama femminea per quelle spoglie e la preda. / Ed ecco, l’arma, insidioso, trovato finalmente il momento, / scaglia Arrunte, e i superi così invoca in preghiere: / «Sommo fra i numi, Apollo, del sacro Soratte custode, / che noi sopra gli altri onoriamo; per te resinosa la fiamma / la catasta divora, e tra il fuoco, nella pietà fiduciosi, / su molta brace noi, tuoi cultori, poniamo le piante; / dammi, padre, ch’io possa con le mie armi abolir la vergogna, / tu che puoi tutto. Non spoglie o trofeo dell’uccisa / vergine, nessuna preda domando, la gloria a me l’altre / imprese daranno: soltanto, dal mio colpa abbattuta, la peste / crudele cada, e tornerò senza onore alla patria città.» / Udì Febo, e in cuore concesse che parte del voto / fosse compiuta, parte tra i soffi dell’aria disperse: / che, in subita morte travolta, abbattesse Camilla / diede all’orante, che reduce vedesse la nobile patria / non diede, e le procelle rapirono tra i venti la voce. / E dunque, come scagliata sibilò l’asta in aria, / animi e sguardi febbrili tutti rivolsero / alla regina i suoi Volsci. Ma lei non di soffio, /  non di sibilo è accorta o d’arma che corra per l’aria, / finché l’asta, venuta sotto la nuda mammella, / s’infisse, e fonda entrò e bevve sangue virgineo.

Si conclude con questo passo la raffigurazione di Camilla, donna guerriera. E’ questa la seconda rappresentazione femminile, creata dalla mente virgiliana: ma se la prima Didone, la cui figura occupa un intero canto, discende direttamente dalle grandi eroine greche ed ellenistiche, innamorate ed abbandonate; Camilla, invece, appartiene alla schiera dei giovani “eroi” sia latini che troiani portati via dalla guerra. Camilla è discendente, diversamente da Didone, dalle grandi figure guerriere mitiche, le Amazzoni, le quali, nella letteratura classica greca, vengono rappresentate “simili ai maschi”; in Virgilio invece tale figura viene addolcita da un piccolo tocco di femminilità: il desiderio di possedere un’“armatura”, non per gloria, ma per vanità (femineo praedae et spoliorum ardebat amore). Ciò non toglie, come già abbiamo visto precedentemente, l’humanitas con la quale Virgilio descrive la morte di ambedue i fronti.

Appena Turno sa della morte della bellatrix, si reca a Laurento, sua città, per difenderla. Si dirige verso essa anche Enea. Si sarebbero certamente scontrati a duello se non fosse sopraggiunta la notte.

Libro XII

 Si prepara il duello: Latino cerca di dissuadere Turno, sapendo che per destino dovrà cedere ad Enea. Anche Giunone sa della sorte dei re dei Rutuli e tenta di procrastinarne la morte. Preso l’aspetto di un guerriero di Turno, rimprovera i compagni di lasciar solo il loro re. Un prodigio spinge i Latini a riprendere coraggio, uno dei quali, scagliando una freccia uccide un troiano. Si riprende a lottare, Enea viene ferito. Guarito dalla madre, cerca Turno, che ancora una volta viene difeso da Giunone. Ma questa volta interviene Giove, che ordina alla dea di cessare di voler fermare l’esito del destino. Ella acconsente a patto che i latini conservino il nome, la lingua e i costumi, e Troia scompaia per sempre. Giove promette e afferma che la nuova città sarà il frutto della comunione tra i due popoli. Abbandonato da Giunone, può iniziare il redde rationem:

LA MORTE DI TURNO
(vv. 919-952) 

Cunctanti telum Aeneas fatale coruscat
sortitus fortunam oculis et corpore toto
eminus intorquet. Murali concita numquam
tormento sic saxa fremunt nec fulmine tanti
dissultant crepitus. Volat atri turbinis instar
exitium dirum hasta ferens orasque recludit
loricae et clipei extremos septemplicis orbes.
Per medium stridens transit femur: incidit ictus
ingens ad terram duplicato poplite Turnus.
Consurgunt gemitu Rutuli totusque remugit
mons circum et vocem late nemora alta remittunt.
Ille humilis supplex oculos dextramque precantem
protendens «Equidem merui nec deprecor» inquit:
«utere sorte tua; miseri te si qua parentis
tangere cura potest, oro (fuit et tibi talis
Anchises genitor), Dauni miserere senectae
et me seu corpus spoliatum lumine mavis
redde meis. Vicisti et victum tendere palmas
Ausonii videre; tua est Lavinia coniunx;
ulterius ne tende odiis». Stetit acer in armis
Aeneas volvens oculos dextramque repressit;
et iam iamque magis cunctantem flectere sermo
coeperat, infelix umero cum apparuit alto
balteus et notis fulserunt cingula bullis
Pallantis pueri, victum quem volnere Turnus
straverat atque umeris inimicum insigne gerebat.
Ille, oculis postquam saevi monumenta doloris
exuviasque hausit, furiis accensus et ira
terribilis: «Tunc hinc spoliis indute meorum
eripiare mihi? Pallas te hoc volnere, Pallas
immolat et poenam scelerato ex sangue sumit».
Hoc dicens ferrum adverso sub pectore condit
fervidus; ast illi solvuntur frigore membra
vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.

 Aeneas_and_Turnus.jpg

Luca Giordano: Enea uccide Turno (1600 ca)

E mentre esita, Enea vibra l’asta fatale, / scelta la sua fortuna con gli occhi, e con tutte le forze / di lontano la scaglia. Mai lanciati da macchina / murale così rombano sassi, né a scoppio di fulmine tanto / rimbomban tuoni. Vola come turbine nero, / dura morte l’asta portando, e della lorica / straccia l’orlo, e dello scudo settemplice l’ultimo giro: / penetra in pieno, stridendo, nel femore. Cade colpito / il grande Turno, sulle ginocchia, per terra. / Balzan con gemito i Rutuli in piedi e tutto rimbomba / il monte intorno e i boschi profondi ripetono l’eco. / Lui supplice tende da terra gli occhi e la destra a pregare: / «L’ho meritato, sì», esclama «e non maledico. Tu puoi / usar la tua sorte. Ma se del misero padre un pensiero / può ancora toccarti, ti prego (anche tu il vecchio padre / Anchise avesti), pietà della vecchiezza di Dauno, /  e, sia pur corpo privo di vita, se questo ti piace, / rendimi ai miei. Hai vinto, e vinto tender le mani / m’hanno visto gli Ausoni: è Lavinia tua sposa. / Di più non voglia il tuo odio». S’arrestò, aspro in armi, / Enea, rotando gli occhi, lasciò cadere la destra: / e sempre e sempre di più le parole piegavano / il cuore esitante, ma ecco brillò sulla spada, fatale, / il balteo, brillaron le cinghie dalle borchie ben note, / del fanciullo Pallante, che Turno colpì di ferita / e calpestò: e il trofeo del nemico sulle spalle portava. / Enea, come con gli occhi, ricordo d’atroce dolore, /  toccò quell’insegna, acceso di furia e nell’ira /  terribile: «Tu dunque, vestito delle spoglie dei miei, / mi sfuggirai dalle mani? Pallante con questo mio colpo, /  Pallante t’immola, e si vendica del tuo sangue assassino!» /  Così gridando, gl’immerge nel petto la spada / senza pietà. Con un fremito s’abbandonò allora il corpo, /  e la vita gemendo fuggì, angosciata fra l’ombre.

Così, allo stesso modo in cui Omero aveva terminato la sua Iliade con il duello tra Achille ed Ettore, allo stesso modo Virgilio chiude il suo poema con il duello tra Enea e Turno. Anche in questo epilogo tuttavia Virgilio non vuole smettere di sottolineare l’ambivalenza tra il ritratto tradizionale dell’eroe vittorioso (stetit acer in armis, eretto con le armi in pugno) e il nuovo concetto, seppure sfiorato solo per un attimo dell’humanitas (iam iamque magis cunctantem flectere sermo coeperat, e sempre più le parole di Turno avevano cominciato a piegare lui esitante). Ma alla fine del ritratto, forse per obbedire al modello achilleo, ecco Enea riprendere il ruolo del vendicatore, ruolo che stride col personaggio quale sinora abbiamo conosciuto.

Dopo averne percorso la trama, si tratta ora di andare a cogliere il significato che tale opera ha significato non solo per la letteratura latina in sé, ma anche, come si è cercato di dimostrare, per l’intera cultura “occidentale”.

Ciò può sembrare strano a partire dal fatto che l’opera, sin dall’incipit si presenta come non originale. Essa infatti si vuole porre sullo stesso piano, per la letteratura latina, di quella che per la letteratura greca erano stati i poemi omerici, passando attraverso la mediazione alessandrina: infatti è ellenisticamente breve, dodici canti al posto dei quarantotto complessivi omerici, ma è anche “modernamente” fedele rispetto a quelli che sono i topoi del genere epico: il viaggio (Odissea) nei primi sei libri e la guerra (Iliade) in quelli successivi; l’intervento degli dei nelle vicende degli uomini, la catabasi posta al centro della vicenda, la rassegna delle schiere combattenti e lo scudo su cui sono narrate le vicende della successiva storia di Roma. Ma tale ossequio rivolto alla grandissima epica greca lo costruisce anche facendo Roma figlia di quella civiltà (Enea è un Troiano), cioè legando il mythos romano a quello greco.

Eppure il poema si pone come assolutamente nuovo rispetto non solo ai precedenti omerici, ma anche a quei poemi che, prima di lui, erano considerati come “nazionali” nell’allora cultura romana, si pensi solo agli Annales di Ennio (non è un caso che l’uscita del poema virgiliano abbia cancellato quelli precedenti). Esso vuole porsi infatti non solo come continuatore, ma anche come “fondante” la nuova civiltà augustea: il mondo latino, infatti, è figlio di quello greco, ma lo ha superato, ponendosi su un livello più alto e maggiormente universale. Tutto questo lo incarna Enea: è lui che incarna una nuova Weltanschauung sulla quale si vuole costruire la Roma di Augusto: la pietas cioè quel profondo rispetto verso la patria, la famiglia, le tradizioni, sorretta da una profonda humanitas. Tutto ciò, tuttavia, non viene rappresentato in modo monolitico, senza alcun tentennamento da parte dell’eroe: sin dall’esordio Enea è caratterizzato dal participio passus (che sopporta, da patior), infatti molti critici hanno sottolineato l’aspetto “paziente” di Enea, di colui che sa attendere e aspettare il volere degli dei, o più correttamente del destino cui lui obbedisce. Infatti il poema sembra quasi costruirsi intorno alla crescita di Enea, crescita che tuttavia avviene sempre attraverso una rinuncia, ripercorriamole: dapprima Creusa, poi Anchise, Didone, Palinuro, Eurialo e Niso ed infine Pallante. Egli infatti sembra crescere attraverso il dolore dell’assenza; ma è l’assenza che lo fortifica lo fa “prendere” fors’anche con violenza, come negli ultimi versi, la terra e la donna che gli dei gli hanno assegnato.

Questo ci spiega perché l’Eneide è costruita attraverso la triangolazione che contrappone, nella prima parte, gli dei Giunone e Venere con la mediazione di Giove; nella seconda gli uomini Turno ed Enea, con la mediazione di Latino. All’interno di queste triangolazioni si sviluppano le vicende, per meglio dire le azioni che contrappongono la storia ed il Fato, di cui Enea è portatore. E’ proprio il peso del destino che Enea porta con sé, ma è un peso necessario, in quanto, pur profugus, iactatus, passus, (aggettivi e participi passati con valori fortemente negativi) egli riuscirà nel compito che gli hanno affidato, un pò come la Roma, sconvolta, depredata, tradita, alla fine ritrova se stessa con la figura di Augusto.

Certo, non è possibile dimenticare un altro aspetto fondamentale: Virgilio, scrivendo un testo la cui funzione è quella di esaltare la Roma di Ottaviano/Augusto, corre il rischio del’agiografia: lo supera brillantemente, facendo sì che il suo poema raccontasse una storia mitica e non storica.