LA SCAPIGLIATURA

BrecciaPortaPia-1.jpgBreccia di Porta Pia

L’Italia all’indomani dell’unità è un paese che presenta delle contraddizioni interne che, nell’immediato danno voce a problemi di difficilissima soluzione:

  • dal punto di vista politico si trattava di rendere effettiva una unità politica che presentava ancora differenze notevoli tra le popolazioni del paese;
  • dal punto di vista culturale era necessario invece che gli intellettuali – che nell’età precedente avevano avuto un compito ben preciso che potremo riassumere con il termine di patriottismo, trovassero un nuovo ruolo e una nuova collocazione in un Italia che non rispecchiava i sogni che loro stessi e la generazione che li aveva preceduti avevano nutrito.

Il Regno d’Italia nasce nel 1861, sebbene termini completamente la sua annessione nel 1866 con il Veneto e nel 1870 con Roma. Sin da principio questo nuovo stato si mostrava al cospetto europeo come un paese fortemente arretrato, con un’economia ancora profondamente agricola, una limitatissima borghesia ed un livello culturale drammaticamente “basso”. Tutto ciò veniva aggravato dalla frattura esistente tra Nord e Sud e di come lo stesso re (che, pur dinanzi ad una nuova nazione, continuò a chiamarsi Vittorio Emanuele II) volle “conquistare” il Sud. Era questa la sensazione che molte popolazioni meridionali provarono ed infatti molti di loro, sentendosi estranei al processo risorgimentale, si ribellarono, dando vita al cosiddetto “brigantaggio”.

A tutto questo si aggiunge, dopo la presa di Roma, la frattura che si venne a creare tra laici e cattolici: frattura che comportò ufficialmente sino al ’19 (quando nacque il Partito Popolare di Don Sturzo) il divieto da parte dei credenti di partecipare alla vita civile e politica dello stato (quella che diventerà l’aristocrazia nera) con il non expedit (non conviene, non è opportuno). Ciò determinò nella costruzione di questa nuova realtà nazionale il mancato apporto di un’importante componente della società italiana, quale quella cattolica, nonché la difficoltà di instaurare un pur qualsivoglia dialogo a cui la Chiesa, almeno nei primi anni del nuovo regno, si mostrava completamente sorda. 

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Milano: Via Laghetto intorno al 1870, quando ancora c’era l’acqua del naviglio

La prima risposta culturale a questo stato di cose lo diede Milano, con un movimento che venne definito “Scapigliatura”.

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Tranquillo Cremona: Ritratto di Cletto Arrighi

INTRODUZIONE A LA SCAPIGLIATURA E IL 6 FEBBRAIO

Avvenne che, un bel giorno, dovendo pur trovare un titolo mi trovai nella necessità o di coniare un neologismo o di andare a pescare nel codice della lingua qualche parola vecchia che rendesse pressapoco il concetto del mio qualsiasi romanzo. Prima dunque di osare, consultai sua maestà il Vocabolario, se mai nella sua infinita sapienza avesse saputo additarmi un mezzo di salvezza. Cerca e ricerca, finalmente trovai una parola acconcia al caso mio; perché s’ha un bel dire, ma la nostra lingua, per chi la vuol frugare un po’ a fondo, non manca proprio di nulla, e sa dare a un bisogno parole vecchie anche per idee nuove, nello stesso modo che i Francesi sanno fabbricare parole nuove, per idee che hanno tanto di barba.
Però, in quella maniera che potrei star garante che scapigliatura non è una parola nuova, sarei in un bell’imbarazzo se volessi persuadervi che la è molto usata e conosciuta.
Infatti fra le tante persone a cui domandai che cosa intendessero per scapigliatura, parte inarcò le ciglia, come a dire: non l’ho mai sentita a menzionare, e parte mi rispose così a tentoni, chi: l’atto dello scapigliarsi, chi: una chioma arruffata, e chi, finalmente – e costui fu un letterato – una vita da débauché; definizioni tutte o false o inesatte e, in ogni modo, lontane le mille miglia da quel significato in cui mi ero proposto di adoperarla io.
Quell’io che credevo di aver rubato il lardo alla gatta, da quelle risposte n’ebbi una delusione che mi afflisse moltissimo – ben inteso, per quanto può affliggere una delusione filologica – e avrei messo il cuore in pace, e lasciato nel dimenticatoio la povera incompresa, se una certa rincalzante smania di spuntare le cose un po’ difficili – confesso un mio debole – non mi ci avesse incaponito sopra.
Ed ecco lettori, se il permettete, ch’io la prendo per mano e ve la presento.
In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità d’individui d’ambo i sessi – v’è chi direbbe: una certa razza di gente fra i venti e i trentacinque anni non più, pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo, indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati, turbolenti – i quali – e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere, e per … mille e mille altre cause e mille altri affetti il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo – meritano di essere classificati in un nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre.
Questa casta o classe – che sarà meglio detto – vero pandemonio del secolo – personificazione della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese.
La Scapigliatura milanese è composta di individui di ogni ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile della scala sociale. Plebe, medio ceto e aristocrazia; foro, letteratura e commercio; celibato e matrimonio, ciascuno vi porta il suo tributo, ciascuno vi conta qualche membro d’ambo i sessi; ed essa li accoglie tutti in un amplesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili… Da un lato un profilo più italiano che Meneghino, pieno di brio, di speranza e di amore, e rappresenta il lato simpatico e forte di questa numerosa classe, inconscia delle proprie forze, anzi della propria esistenza, propagatrice delle brillanti utopie, focolare delle idee generose, anima di tutti gli elementi geniali, artistici e politici del proprio paese, che ogni causa o grande o folle fa balzar d’entusiasmo, che conosce della gioia la sfumatura arguta del sorriso, e lo scroscio franco e prolungato, ed ha le lagrime del fanciullo sul ciglio e le memorie feconde nel cuore.
Dall’altro invece un volto smunto, solcato, cadaverico, su cui stanno le impronte delle notti passate nello stravizio e nel giuoco, su cui si adombra il segreto del dolore infinito, e i sogni tentatori di una felicità inarrivabile e le lagrime di sangue, e le tremende sfiducie e la finale disperazione.

Come già riportato nel titolo del brano, la Scapigliatura, come movimento letterario, trova il suo nome e il suo modo d’essere dall’introduzione di un romanzo del milanese Cletto Arrighi, giornalista e autore di feuilleton.

Cosa ci dice l’introduzione a La Scapigliatura e il 6 febbraio? In primo luogo l’identità tra il significato del termine e a chi lo vuole attribuire: se scapigliato vuol dire dai capelli disordinati attraverso una risemantizzazione (attribuzione di un nuovo significato) ora indicherà una certa razza di gente fra i venti e i trentacinque anni non più, pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo, indipendenti come l’aquila delle Alpi, e in seguito li ricollegherà a Milano, capitale allora di una incipiente industrializzazione e città meglio collegata alle novità culturali che allora provenivano soprattutto dalla Francia.

Detto chi sono l’Arrighi ci dice come sono e cosa fanno: inquieti, travagliati, turbolenti – i quali – e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere. In parole semplici sono “poveri”, emarginati e, come dice ancora l’autore fanno “gruppo” e li accoglie tutti in un amplesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili…

Sulla base di tale testo si così definire la scapigliatura:

  • un fenomeno generazionale, che connota da subito la breve durata del loro movimento: 1860 – 1880. Molti muoiono in giovane età (per uso di alcol o di droghe) o abbandonano la scrittura; altri s’imborghesiscono (Arrigo Boito diventerà un celeberrimo librettista verdiano, dapprima tanto odiato);
  • Milano: sebbene gli scapigliati non provengano tout court dalla città meneghina (anche il Piemonte avrà una parte importante) rappresenta pur sempre il centro più all’avanguardia dell’intera penisola, nel quale è presente la forte contraddizione tra l’Italia pre e post unitaria.
  • La scapigliatura rappresenta una casta o nuova classe, ma non una scuola: eterogenee sono le esperienze come diversi sono gli esiti. Nonostante questo tra di loro condividono ideali e modi di pensare.
  • Se eterogenei sono gli esiti, non altrettanto si può dire contro chi e cosa si rivolgono: opposizione contro i modelli dominanti e l’autoritarismo paterno. Il loro faro è il ribellismo figlio della loro voglia di bruciare l’esperienza e di porsi come “altri”.
  • Identità tra esperienza biografica, indole e pratica letteraria. E’ inscindibile il binomio tra “ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca”. La contraddizione tra ideale e reale sarà quasi un loro leitmotiv.
  • La loro esperienza si traduce in un fatto estetico e nella ricerca di un nuovo concetto di “bello”.

Quali sono i miti polemici contro cui si scagliano?

  • sul piano sociale rifiutano il perbenismo e la grettezza spirituale, per meglio dire le convenzioni della classe liberal-borghese, uscita trionfatrice dal processo risorgimentale. Proprio perché è la classe dalla quale provengono essi vogliono mettere in atto una vita autentica, libera, miserabile ma sincera. Per questo i loro atteggiamenti “irregolari” sono spessi esibiti con fierezza, l’uso ed abuso di alcol e droghe, sessualità libera e spesso deviante.
  • sul piano economico rifiutano il modello borghese fondato sul denaro e si pongono dalla parte degli sfruttati ed emarginati. Nella loro letteratura entra a far parte il proletario urbano, anche se tale presenza non riesce (come in Francia) a tradursi in una precisa scelta di classe né in progetto politico.
  • sul piano politico denunciano il fallimento dell’ideale risorgimentale, del concetto di Patria e della libertà. Non è un caso che alcuni scapigliati dopo aver preso le armi per liberare l’Italia dall’oppressore straniero, vedono i loro ex compagni adesso rivolgerle contro masse inermi di contadini estranei al processo unitario.
  • Sul piano religioso annunciano la morte di Dio, ormai ridotto ad una serie di ritualizzazioni prive di significato. In alcuni di loro appaiono anche temi che potremo ricondurre alla blasfemia. Si sente tuttavia a volte l’esigenza di una religiosità più interiore.
  • Sul piano letterario sono contro il Romanticismo e i suoi stanchi epigoni (soprattutto Prati ed Aleardi). Ma il rapporto più complesso è certamente con Manzoni, il quale viene difeso da alcuni come modello di una letteratura universale e per la sua rivoluzione linguistica, chi lo avversa come reazionario. Non bisogna dimenticare che la loro avversione è per quel tipo di letteratura liberal cattolica romantica italiana; non rifiutano viceversa il senso del mistero e dell’irrazionale che invece è figlio della letteratura nordica, soprattutto tedesca.

Ci sembra necessario ora posare lo sguardo sulle più importanti personalità, soffermandoci sia su alcuni esiti poetici sia su quelli prosastici che, proprio in quanto caratteristici di questa età, ci danno la misura dei limiti che tale movimento ebbe, ma nel contempo di come, all’interno di tali limiti, essi siano riusciti a porsi come prima “avanguardia” nazionale e a far sì che proprio da loro partissero poi le esigenze per rinnovare la letteratura sul piano della realtà (verismo) e nel contempo su quello dell’irrazionalità (simbolismo/decadentismo).

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Arrigo Boito

Il primo che incontriamo è Arrigo Boito (1842-1918). Passa gli anni ’60 viaggiando per l’intera Europa e, al ritorno a Milano, per mezzo di Emilio Praga s’avvicina alla Scapigliatura. Scrittore, sperimenta la fiaba di carattere nordico con il prosimetro Re Orso, con accenti satirici e grotteschi ed intanto scrive su giornali recensioni musicali. Musicista egli stesso dà in scena il Mefistofele (1868) cercando di ricreare l’atmosfera wagneriana. I suoi versi vengono pubblicati soprattutto su riviste. Partecipa alla terza guerra d’indipendenza e al ritorno si stacca dall’ideologia e dalla letteratura giovanile e si fa librettista delle ultime opere verdiane (Otello e Falstaff).

Di lui riportiamo quello che, insieme al testo di Emilio Praga, è considerato il manifesto poetico della Scapigliatura:

DUALISMO

Son luce ed ombra; angelica
farfalla o verme immondo,
sono un caduto chèrubo
dannato a errar sul mondo,
o un demone che sale,
affaticando l’ale,
verso un lontano ciel.

Ecco perché nell’intime

cogitazioni io sento
la bestemmia dell’angelo
che irride al suo tormento,
o l’umile orazione
dell’esule dimone
che riede a Dio, fedel.

Ecco perché m’affascina

l’ebbrezza di due canti,
ecco perché mi lacera
l’angoscia di due pianti,
ecco perché il sorriso
che mi contorce il viso
o che m’allarga il cuor.

Ecco perché la torbida
ridda de’ miei pensieri,
or mansüeti e rosei.
or violenti e neri;
ecco perché, con tetro
tedio, avvicendo il metro
de’ carmi animator.

O creature fragili
dal genio onnipossente!
forse noi siam l’homunculus
d’un chimico demente,
forse di fango e foco
per ozïoso gioco
un buio Iddio ci fé

E ci scagliò sull’umida

gleba che c’incatena,
poi dal suo ciel guatandoci
rise alla pazza scena,
e un dì a distrar la noia
della sua lunga gioia
ci schiaccerà col piè.

E noi viviam, famelici
di fede o d’altri inganni,
rigirando il rosario
monotono degli anni,
dove ogni gemma brilla
di pianto, acerba stilla
fatta d’acerbo duol.

Talor, se sono il dèmone
redento che s’indìa,
sento dall’alma effondersi
una speranza pia
e sul mio buio viso
del gaio paradiso
mi fulgureggia il sol.

L’illusïon – libellula
che bacia i fiorellini
L’illusïon – scoiattolo
Che danza in cima i pini
L’illusïon – fanciulla
che trama e si trastulla
colle fibre del cor,

Viene ancora a sorridermi
nei dì più mesti e soli
e mi sospinge l’anima
ai canti, ai carmi, ai voli;
e a turbinar m’attira
nella profonda spira
dell’estro idëator.

E sogno un’Arte eterea
che forse in cielo ha norma,
franca dai rudi vincoli
del metro e della forma,
piena dell’Ideale
che mi fa batter l’ale
e che seguir non so.

Ma poi, se avvien che l’angelo
fiaccato si ridesti,
i santi sogni fuggono
impäuriti e mesti;
allor, davanti al raggio
del mutato miraggio,
quasi rapito, sto.

E sogno allor la magica
Circe col suo corteo
d’alci e di pardi, attoniti
nel loro incanto reo.
e il cielo, altezza impervia.
derido e di protervia
mi pasco e di velen.

E sogno un’Arte reproba
che smaga il mio pensiero
dietro le basse imagini
d’un ver che mente al Vero
e in aspro carme immerso
sulle mie labbra il verso
bestemmïando vien.

Questa è la vita! l’ebete
vita che c’innamora,
lenta che pare un secolo,
breve che pare un’ora;
un agitarsi alterno
fra paradiso e inferno
che non s’accheta più!

Come istrïon, su cupida
plebe di rischio ingorda,
fa pompa d’equilibrio
sovra una tesa corda,
tale è l’uman, librato
fra un sogno di peccato
e un sogno di virtù.

La poesia del 1863 è composta da sette strofe di settenari con rima abcbdde. L’ultimo verso tronco di ogni strofa, rima con l’ultima della strofa seguente. In essa appare il tema dell’inconciliabilità degli opposti che nel poeta vuol dire aspirare verso l’assoluto e contemporaneamente cadere nel vizio. Tale dualità sembra riprendere sia da una parte temi baudelairiani che gli scapigliati mostrano di conoscere assai bene sia quello fondamentale della delusione tra l’ideale preunitario ed il reale borghese, negatore di ogni bellezza del presente. Per questo è necessario cantare ciò che risponde alla bellezza assoluta etera, ma, essendo negato dalla meschinità della realtà, non rimane che rivolgersi ad una verità (materiale) che mente ad una Verità (ideale).

In Boito il tutto è reso con un verseggiare “cantabile” (non per niente è un musicista” che ne attenua l’asprezza del dettato, ciò che tuttavia tiene il testo (e l’intera scapigliatura) al di qua di una novità letteraria (come in Francia Baudelaire), utilizzando un lessico e repertori retorici che si richiamano alla tradizione.

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Tranquillo Cremona: Emilio Praga sul letto di morte

Il poeta più importante e una delle personalità più emblematiche della Scapigliatura milanese è Emilio Praga (1839-1875). Figlio di una ricca famiglia industriale anche lui trascorre la giovinezza nel viaggiare e conoscere i luoghi e le personalità più importanti della cultura europea. A Milano conosce Cletto Arrighi, di cui diventerà amicissimo fino ad un litigio violento che metterà fine alla loro relazione. Discreto pittore cercherà di mettere in atto quella fusione delle arti che è una delle mete più importanti dell’estetica scapigliata. Dopo la nascita del figlio Marco nel 1862 e la morte del padre cade in miseria si lascerà trascinare dall’abuso di alcol e droghe. Separatosi dalla moglie, impossibilitato di vedere il figlio, si spegnerà in miseria nel 1875.

La poesia che vi presentiamo è nella raccolta poetica Penombre (1864) :

PRELUDIO

Noi siamo i figli dei padri ammalati;
aquile al tempo di mutar le piume,
svolazziam muti, attoniti, affamati,
sull’agonia di un nume.

Nebbia remota è lo splendor dell’arca,
e già dall’idolo d’or torna l’umano,
e dal vertice sacro il patriarca
s’attende invano;

s’attende invano dalla musa bianca
che abitò venti secoli il Calvario,
e invan l’esausta vergine s’abbranca
ai lembi del Sudario…

Casto poeta che l’Italia adora,
vegliardo in sante visïoni assorto,
tu puoi morir!… degli anticristi è l’ora!
Cristo è rimorto!

O nemico lettor, canto la Noja,
l’eredità del dubbio e dell’ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boja,
il tuo cielo, e il tuo loto!

Canto litane di martire e d’empio;
canto gli amori dei sette peccati
che mi stanno nel cor, come in un tempio,
inginocchiati.

Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro,
e l’Ideale che annega nel fango…
Non irrider, fratello, al mio sussurro,
se qualche volta piango,

giacché più del mio pallido demone,
odio il minio e la maschera al pensiero,
giacché canto una misera canzone,
ma canto il vero!

Questa poesia è stata composta un anno dopo rispetto a quella di Boito e rappresenta, come già detto, un’altra lirica manifesto. E’ composta da 7 strofe di quattro versi, di cui tre endecasillabi e in modo alternato un settenario ed un quinario. Lo schema delle rime è ABAb.

Tale testo si può dividere nettamente in due parti: nelle prime 4 strofe si rappresenta tutto ciò che il poeta rifiuta, la religione cristiana – abbastanza ricco è il vocabolario che si riferisce a quest’area semantica, arca dell’Alleanza, il vitello d’oro, il Calvario, il Sudario – e il più alto rappresentante che della religione fa il suo fulcro letterario, Manzoni. Nella seconda viene invece sottolineato il vuoto e la noia, e la figura del “nemico lettore” che bisogna scandalizzare (temi ripresi dalla poesia di Baudelaire, ben conosciuta dal Praga). La verità non può quindi far altro che svelare la degradazione che la noia tende a ricoprire. Anche qui, come nella precedente poesia di Boito, il dualismo tipico della lirica scapigliata si inscrive in uno sperimentalismo letterario che gioca sull’eccesso, ma che non sdegna di misurarsi anche nell’elegiaco, quando il nemico lettore nella settima strofe diventa fratello.

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Iginio Ugo Tarchetti

Sul piano della prosa l’autore più rappresentativo è certamente Iginio Ugo Tarchetti (1839 – 1869). Partecipa alla carriera militare fino al 1965, per poi dedicarsi alla letteratura. I suoi autori, dai quali trasse ispirazione per la sua opera, sono il tedesco Hoffmann e l’americano Poe. Da essi prese spunto per i suoi Racconti fantastici. Srisse anche un romanzo-pamphlet antimilitarista, intitolato Una lucida follia. Ma il suo capolavoro, rimasto incompiuto e terminato (l’ultimo capitolo) dal suo amico Salvatore Farina, è certamente Fosca.

A cinque anni dall’avvenimento, il militare Giorgio, vuole rievocare nella carta un periodo particolarmente doloroso della sua vita, caratterizzato dall’amore per due donne completamente antitetiche: Clara e Fosca. I ricordi iniziano quando il giovane militare, in congedo per malattia, decide di abbandonare il suo paese per recarsi a Milano, a far visita ad un amico. Qui Giorgio incontra Clara, una giovane donna ricca di bellezza e virtù con la quale intrattiene una tenera relazione amorosa, nonostante Clara sia sposata con un impiegato di un’amministrazione governativa. La relazione dura solo due mesi, quando Giorgio, viene richiamato e trasferito a nuova destinazione. Di stanza in un piccolo villaggio, Giorgio è spesso ospite nella casa del colonnello, comandante della guarnigione. E’ qui che il giovane fa conoscenza con la cugina di questo, Fosca, descritta dal proprio medico come «la malattia personificata, l’isterismo fatto donna, un miracolo vivente del sistema nervoso». Fosca è una donna di rara bruttezza affetta da una grave malattia, ma allo stesso tempo dotata di un’acuta sensibilità e di una raffinata cultura: Giorgio presto inizia a subirne l’oscuro fascino, tanto da non riuscire ad evitarla e da essere costretto ad instaurare con la donna un morboso legame sentimentale. Da questa relazione Fosca sembra trarre nuovo vigore e quasi guarire dalla sua malattia, a scapito però di Giorgio, che si sente deperire e avvicinare alla morte. Con la complicità del medico, il giovane riesce a ottenere un trasferimento provvisorio a Milano, che in seguito dovrà diventare definitivo. Tuttavia, negli ultimi giorni di soggiorno in casa del colonnello succede l’irreparabile: Fosca, alla fine del romanzo, muore logorata dalla malattia in seguito ad una morbosa nottata trascorsa con l’amato, mentre Giorgio, sfidato a duello dal colonnello, è colto da un malore e si rende conto di essere vittima della stessa malattia della donna. Sopravvissuto al duello, Giorgio apprenderà solo dopo quattro mesi di malattia della morte di Fosca, avvenuta tre giorni dopo il duello. Il romanzo si chiude con una lettera del medico, che consiglia a Giorgio di viaggiare e distrarsi, in modo da poter guarire completamente.

FOSCA

Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca.
Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) e mi trovai solo con essa. Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, cosí vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, – ché anzi erano in parte regolari, – quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora cosí giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati – occhi d’una beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta; v’era ancora qualcosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita distinta; i suoi modi erano così naturalmente dolci, così spontaneamente cortesi che parevano attinti dalla natura più che dall’educazione: vestiva colla massima eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua orribilità era nel suo viso.
Certo ella aveva coscienza della sua bruttezza, e sapeva che era tale da difendere la sua reputazione da ogni calunnia possibile; aveva d’altronde troppo spirito per dissimularlo, e per non rinunziare a quegli artifici, a quelle finzioni, a quel ritegno convenzionale a cui si appigliano ordinariamente tutte le donne in presenza d’un uomo.
Me le era presentato da me stesso nell’entrare. Allorché fui seduto a tavola, ella venne a prender posto vicino a me, e mi disse con dolcezza:
«Vi vedo solo, e mi permetto di farvi un poco di compagnia. Desiderava di conoscervi, e di ringraziarvi personalmente dei libri che mi avete mandato. Mio cugino mi aveva parlato di voi, e avrei voluto vedervi un po’ prima. Ma come fare? Sono sempre cosí malata!»
Fui colpito dalla soavità della sua voce, piú ancora di quanto nol fossi stato dalla sua bruttezza.
«Ora mi sembrate però guarita» risposi io.
«Guarita! – esclamò ella sorridendo – mi pare di no. L’infermità è in me uno stato normale, come lo è in voi la salute. Vi ho detto che ero malata? Fu un abuso di parole. Ne faccio sempre. Per esserlo converrebbe che io uscissi dalla normalità di questo stato, che avessi un intervallo di sanità. Ho voluto tenermi chiusa parecchi giorni nella mia stanza, ecco tutto; ne aveva le mie ragioni; ho attraversato un periodo di profonda malinconia.»
Vedendo che la conversazione minacciava sì presto di trascinarci nel campo delle confidenze, mi astenni dal risponderle.
«Non sapete — ella riprese dopo un istante di silenzio e con tuono diverso di voce – che quel romanzo di Rousseau mi ha entusiasmata? Ne conosceva il soggetto, e ne aveva avuto sott’occhi alcuni sunti, ma non l’aveva mai letto.»
«Avete avuto troppo premura di restituirmelo, è libro che vuol essere meditato.»
«E’ vero, se il meditarvi sopra non fosse cosa pericolosa.»
«Parmi anzi utile.»
«Utile sí, certamente. Voleva dire pericolosa per la nostra pace, per noi donne, per… me. Vi sono delle letture che mi fanno male.»
«Voi sapete – io dissi per tenermi da capo sulle generali – che Rousseau, così virtuoso nei suoi libri, ha esposto cinque figliuoli alla ruota di Parigi?»
Essa mostrò di non aver compreso quell’artificio; accennò del capo come avesse voluto dire: “Altro è l’uomo, altro le sue opere”, e riprese: «Credo che il meditare sui libri e il rileggerli sia cosa sommamente inutile, anzi sommamente nociva; a meno che in tutta la vita non se ne leggesse che uno solo, e questo fosse tale da instillarci principi retti e da fortificarvici. Di libri educativi non ve ne può essere che uno, pena la contraddizione, giacché ogni uomo ha vedute opposte, o per lo meno diverse. Il leggere molti libri, il meditare su molti non ha altro effetto che quello di renderci dubbiosi sulle nostre idee, incerti nei nostri pensamenti; non si sa più a che cosa credere, e spesso si finisce col non credere più a nulla. Sono convinta che ogni libro che non diverte, fallisce il suo scopo; che ogni libro che fa pensare, nuoce. L’obiettivo d’ogni lavoro letterario dovrebbe essere la fantasia – non la testa che si guasta, non il cuore che sanguina – ma l’immaginazione che si esalta e gioisce. Non avete mai provato l’ebbrezza dell’immaginazione?»
«Qualche volta. Ma credete che i suoi piaceri siano innocenti?»
«O non vi è innocenza, o lo sono. Credo che possiamo non commettere una colpa, ma non possiamo non immaginarla. Non vi è azione senza idea di azione; bisognerebbe escludere il merito di fare o non fare. I traviamenti dell’immaginazione sono naturali, spontanei, direi quasi obbligatori; son essi che costituiscono il valore morale delle nostre azioni.»
«Queste teorie hanno tanto di specioso quanto hanno poco di vero; – io dissi – ma, se non sono in errore, vostro cugino vi ha accusata con me di far un abuso della lettura.»
«Sorvolo sui libri – rispose ella mestamente – come sarei sorvolata sulla vita, se la vita fosse stata per me. Ho letto una volta di un fiore la sommità del cui calice è sparsa di un polline dolce e salutare, e il fondo di un polline amaro e velenoso; le farfalle che vi si fermano troppo, vi muoiono; così è di tutte le cose; così è della vita. Non leggo né per imparare, né per pensare – abborro i libri di morale e di metafisica – leggo per dimenticare, per conoscere quali sono le gioie che il mondo dispensa ai felici e per goderne quasi di un eco. E’ tutto ciò che io posso fruire dell’esistenza; fuggire dalla realtà, dimenticare molto, sognare molto. Voi comprendete – aggiunse ella con aria di mesta ironia – il bisogno che io ho di attenermi a questo sistema, non avete che a guardarmi.

La presentazione di Fosca sembra ripercorre l’intento scapigliato di épater le bourgeois, descrivendo l’iperbolica bruttezza della protagonista, come personaggio principale di una “storia d’amore”. Tale bruttezza non è data da una deformità particolare, ma dalla sua eccessiva magrezza che ne lascia intravedere lo scheletro. Ecco allora che possiamo vederla come raffigurazione della morte stessa, come se Tarchetti abbia voluto rendere, all’interno di una storia contemporanea, il vecchio mito di eros e thanatos. Ma Fosca non è solo una malata (di cosa non è dato sapere, sembra più un dato esistenziale): in lei si agitano forti passioni, una vita intensa dettata da uno sguardo penetrante che invita di più all’ideale di una vita (i suoi grandi occhi). Tale ideale non può che vivificarsi nella letteratura che rifiuta ogni forma di pragmatismo e perbenismo, proprio come la scuola scapigliata insegna. Ella pertanto piena di sogni trascina verso di sé il militare, in uno scambio di vita/morte, trasmettendo l’inutilità del vivere, quando questo è realizzato nelle forme ormai desuete del romanticismo, Chiara.

Forse Tarchetti sentiva già dentro di sé la malattia (morirà di tisi), se sentirà l’esigenza di portarla dentro una pagina scritta. L’episodio che racconta, inoltre, le occorse veramente (s’innamora a Parma di un’epilettica, non bella, e la sua malattia sembra attrarlo) e suscitò, nella società d’allora, grande scandalo;

L’attrazione morbosa verso la morte sembra essere per lui un leit motiv, come si dimostra in un’altra celeberrima poesia:

MEMENTO!

Quando bacio il tuo labbro profumato,
cara fanciulla, non posso obbliare
che un bianco teschio vi è sotto celato.

Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,
obbliar non poss’io, cara fanciulla,
che vi è sotto uno scheletro nascosto.

E nell’orrenda visïone assorto,
dovunque o tocchi, o baci, o la man posi,
sento sporgere le fredda ossa di morto.

Gli esiti più alti, a parte il caso di Fosca, vennero tuttavia da due scrittori che potremmo dire “a latere” dell’esperienza scapigliata, di cui non condivisero a volte né il modus vivendi, né l’ideologia socialista/anarchica.

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Carlo Dossi

Il primo di loro è Carlo Dossi (1849 – 1910), di nobile famiglia lombarda. Diverrà un eccellente ambasciatore diplomatico, dapprima a Bogotà, quindi ad Atene e sarà a capo della segretaria di Crispi. Alla morte di quest’ultimo si ritira a vita privata. Ingegno precocissimo dà alle stampe il suo capolavoro L’altrieri a soli diciotto anni:

INTRODUZIONE 

I mièi dolci ricordi! Allorchè mi trovo rincantucciato sotto la cappa del vasto camino, nella oscurità della stanza – rotta solo da un pàllido e freddo raggio di luna che disegna sull’ammattonato i circolari piombi della destra – mentre la gatta pìsola accovacciata sulla predella del focolare, ed anche il fuoco, dai roventi carboni, dal leggier crepolìo, sonnecchia; oppure quando, seduto sulla scalèa che dà sul giardino, stellàndosi i cieli, sèntomi in faccia alla loro sublime silenziosa immensità, l’ànima mia, stanca di febbrilmente tuffarsi in segni di un lontano avvenire e stanca di battagliare con mille dubbi, colle paure, cogli scoraggiamenti, strìngesi ad un intenso melancònico desiderio per ciò che fu. Io li evòco allora i mièi amati ricordi, io li voglio; li voglio, uno per uno, contare come la nonna fa co’ suòi nipotini. Ma essi, sulle prime, mi si tìrano indietro: quatti quatti èrano là sotto un bernòccolo della mia testa; io li annojo, li stùzzico; quindi han ragione se fanno capricci. Pure, a poco a poco, il groppo si disfa; uno, il men timoroso, caccia fuori il musetto; un secondo lo imita: essi comìnciano ad uscire a sbalzi, a intervalli, come la gorgogliante aqua dal borbottino. Ed èccomi – a un tratto – bimbo, sovra una sedia alta, a bracciuoli, con al collo un gran tovagliolo. La sala è calda, inondata dal giallo chiarore di una lucerna a olio e, intorno intorno alla tàvola dalla candidìssima mappa, dai lucenti cristalli, quà e là arrubinati, dalla scintillante argenterìa, vi ha molti visi – di chi, non sovvengo – visi rossi ed allegri, da gente rimpinzita. E lì, due mani in bianchi guanti, pòsano nel mezzo, su un piatto turchino, quel dolce che è la vera imàgine dell’inverno, che così bene rappresenta la neve e le foglie secche. Io batto le palme, e… Io mi trovo un cialdone, gonfio di lattemiele, appiccicato al naso… E tutto rovina. Segue una tenebrìa: a mè par d’èssere solo, solìssimo, in una profonda caverna in cui l’aqua stilla, gelata, lungo le pareti; in cui la terra risuona. E mi fu detto ch’io ebbi molto bìbì… Sia! doppiamente presto che sopra un teatro, la scena si muta. Rimpolpato, rimpennato, stavolta le rondinelle mi scòrgono in un giardino a capo di una viuzza orlata dall’una e dall’altra banda con cespi di sempreverdi. Il cielo è d’un azzurro smagliante; l’àura, fresca, odorosa. Una bambina con i capelli sciolti spunta all’estremo della viuzza e corre spingendo davanti a sè un cerchio. Com’ella mi giunge, si arresta, si sbassa: stringèndomi colle sue manine le guancie, m’appicca uno di quelli schietti baci che làsciano il succio. E il cerchio intanto, abbandonato, traballa, disvìa… giravoltando, cade. Ma, col sangue che questo baciozzo attira, vien, pelle pelle, ogni ricordo dei tempi andati. E’ la paletta che sbracia il caldano. Spiccatamente io comincio a vedere, io comincio a sentire. E tò, in un salone (che stanzettina mi sembra adesso! ) entro una màchina di una sèggiola, mia nonna, ammagliando una bianca calzetta eterna, col suo ricco e nero amoerre dal fruscìo metàllico e con intorno allo scarno adunco profilo, un cuffìone a nastri crèmisi e a pizzi: vicino a lei, sul lùcido intavolato, rùzzola, da mè lanciata, una trottola. Strìduli suoni d’un ansante organetto sàlgono dalla strada. Io, sùbito, dimenticando il favorito pècoro di cartone e gli abitanti di una gigantesca arca di Noè, delle cui verniciate superfici sèntomi ancora ingommate le mani, balzo al poggiuolo, arràmpico sul balaustrata e giù vedo un microcosmo di cavalieri e di dame che salterèllano convulsi sullo sfiatato istrumento. – Oh i belli! i belli! – grido applaudendo… e lascio cadere verso quel cenciosello, che con un berretto, da guardia civica, del padre, cerca d’impietosire impannate e vetriere, il mio più lampante soldo. In questa, uno zoccolare dietro di mè. E’ Nencia, la bambinaja: sobbràcciami d’improvviso, mi porta via – mi porta, in làgrime e sgambettando, in una càmera dove stà un tepido bagno. E lì, essa e mamma, mi svèstono, mi attùffano, m’insapònano da capo a piedi. Imaginate la bizza! Ma il martirio finisce: tocco il paradiso. Sciutto, incipriato, rinfoderato in freschi lini dal sentor di lavanda, mamma mi piglia sulle ginocchia… Giuochiamo a chi fà il bacio più pìccolo. Un barbaglio di quelle graziose paroline, dolce segreto fra ogni madre e il suo mimmo, le nostre labbra, nel baciucchiarsi, pispìgliano. E babbo sopraviene; ei vuole averne la parte sua, naturalmente! – Cattivo babbino – dico io schermèndomi – tu punci, tu… – Oh, i mièi amati ricordi, èccovi. Mentre di fuori, ai lunghi sospiri del vento, frèmono, piègansi le pelate cime degli àlberi e batte i vetri la pioggia – qui vampeggia il più allegro fuoco del mondo, scoppietta, trèmolo illuminando lieti visi dai colori freschìssimi; quì, un mucchio di crepitanti marroni, or or spadellati, forma il centro del cìrcolo… Amici mièi, novelliamo.

Pagina esemplare, che mostra la distanza dalla narrazione per farsi quasi lirica, in cui nulla succede se non il liberarsi di pensieri senza alcuna casualità. Lo distanzia dalla grande prosa Novecentesca l’atto volontaristico della riesumazione memoriale, ma lo riscatta dalla produzione contemporanea un modernissimo uso della lingua, che mescola registri (dagli altissimi termini boccacciani “arrubinare” ai balbettii infantili (bibì, punci). Lo apparenta alla scapigliatura non certo la vita, ma il suo anticonformismo letterario, che lo farà riscoprire da grandissimi intellettuali del secolo scorso come grande maestro.

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Vittorio Imbriani

Stessa sorte toccherà al napoletano, pur essendo vissuto a lungo nel Nord, Vittorio Imbriani (1840 – 1886), lontanissimo da qualsiasi accesso anarcoide, ma tutore rigorosissimo ed anche conservatore della tradizione. Fu considerato vicino alla scapigliatura per la ricerca di una scrittura irregolare, fortemente anticlassica. Ciò si può evincere dalla pagina tratta da uno dei suoi romanzi più famosi Dio ci scampi dagli Orsenigo (1887):

UOMINI AL CLUBBE

Maurizio, frattanto, ito al circolo, al clubbe, trovò, che alquanti scapestrati, pari suoi, giocavano al lanzichenecco, ch’è, press’a poco, il nostro zecchinetto; e le poste eran grosse. Si fermò, a guardare. Lo invitarono, a sedere al tavolino, ma se ne scusò. Il marchese Barberinucci, (cui, se vi ricorda, egli doveva diecimila lire, per le quali aveva firmata una cambiale,) il contino Capecchiacci, il cavalier Bacherini, il maggior De Cristoforis, il tenente Vermaleone ed alcuni altri astanti, a motteggiarlo, sulla sua prudenza, sul suo rinsavimento: e che brutto vizio era il giuoco! e’ farebbe, pur, bene, a guarirsene! Maurizio s’arrovellava, internamente; ma, pure, si schermiva, barzellettando, spiritoseggiando, con disinvoltura, deplorando la soppressione de’ conventi, che non gli permetteva di ritirarsi, in uno asilo romito, dal tumulto del mondo. «In un convento?» disse il Bacherini. «In un convento un mi ci ritirerei: piuttosto, in un monistero, sì,» Esaurito l’incidente, quando l’attenzione di tutti era, ben, rivolta, al giuoco, Maurizio, che vi assisteva, con gli occhi intenti e sbarrati, sentì mettere un braccio, sotto al suo. Si voltò. Gli era il marchese Barberinucci, che il trasse, nel vano d’una finestra. Questo marchese, bisogna figurarselo un uomo sulla cinquantina; tutto ritinto e ripicchiato; col naso e le gote, corrosi dal salso; un po’ guercio; frequentatore della piú alta società; ghiottone matricolato; fortunatissimo giocatore; donnajuolo esimio. Non isbarcava, in Fìrenze, ondechessia, una nuova… ehm ehm! c’intendiamo! ch’ei non fosse de’ primi, a spingere una ricognizione su quel terreno! Veramente, lo spendere, che faceva, era sproporzionato, a’ mezzi suoi confessabili; veramente, nessuno avrebbe saputo indicare, in quale angolo di Toscana, d’Italia o del mondo, fossero i feudi antichi suoi, le proprietà sue presenti; nondimeno, tutti il qualificavano di perfetto gentiluomo. Così, neppure gli ammiratori piú sfegatati (ne avea. Chi non ne ha? Un sot trouve, toujours, un plus sot, qui ‘l admire!) avrebber potuto specificare, quali meriti intrinseci, quali servigi, resi alla patria, gli avessero fruttata la nomina, a grand’uffiziale di non so quale ordine. Mah! nell’Italia nostra, i meriti ed i servigi vengono, così, stranamente, valutati! si ha un’idea, così, incomprensibile della parola gentiluomo! Gentiluomo non è l’uomo di prosapia illustre; non è l’uomo di nobili costumi e gentili; non è il gentleman inglese. E… guardatevi intorno; e vedrete, quante villane carogne pretendono e ricevono del gentiluomo, a tutto pasto. Il Barberinucci prese, come dicevamo, il Della-Morte, per sotto al braccio; ed il trasse, nel vano di una finestra: «Fai bene, a ‘un giocare; ecco! Chi ha fortuna in amore ‘un giôchi a carte». ‘Un giochi, goffaggine fiorentina delle piú sconce, per non giuochi. Fortunato in amore, Maurizio! lui, che aveva perduta quell’Almerinda, tanto cara! lui, oppresso, infeliciato, da quest’esosa Radegonda! Agli orecchi suoi, le parole del Barberinucci, di Bista Barberinucci, sonavano, con un senso ironico, che non era, nell’intenzione di chi le pronunziava. Balbettò qualche parola di diniego. «Non istare a sciorinarmi frottole, ecco!» replicò il marchese. «Ma sai, che, te, sei un gran porco, di horrer drietro, a tante femminacce, aendo in casa quer pezzo di donna, che nascondi, agli amici?» «Aaahn! capisco, adesso, cosa vuoi dire. Ma t’assicuro, che è una fortuna d’amore, onde io mi sbrigherei, piú che volentieri». Il Barberinucci sorrise, come chi trova, alla bella prima, quella carta, che s’era accinto a cercare, fra un mucchio enorme di scritture, senza alcuna lusinga di rinvenirla od, almeno, di potervi metter su la mano, presto. «Intendo! Toujours perdrix!» E proseguì «O chi è? O come si chiama? O da quando hai preso, a mantenerla, te? O con chi la staa, prima? Ti hosta molto, eh? O perché la un si ede, mai, alle Hascine? Ecco, una bella donna è!» Dapprima, il Della-Morte tacque, imbarazzato. Gli si affollarono, innanzi alla mente, i sacrificî, fatti, per lui, dalla Radegonda; qual donna la si fosse: e fin le diecimila lire, offertegli, la mattina: e, da lui, condizionatamente, accettate; e sulle quali contava, per pagare, appunto, l’interlocutore. Stette, quindi, per contraddirgli, per disingannarlo, dal supporre, nella signora Salmojraghi-Orsenigo, una femmina da conio. Ma perché prendersi tanto incomodo? ma che gliene importava? Sorrise, adunque, di quel fatuo riso, che può valer, per un’affermazione, e che suol farsi, trattandosi di femmine, quando vogliamo far credere ciò, che si reputa malfatto il divulgare, e che, spesso, non è vero. Non s’è spifferato un esplicito sì, quindi, niuno ha il dritto di chiamarci ned indiscreti né menzogneri. Con quel sorriso, Maurizio si scostò, dal Barberinucci, sclamando: «Ah! se sapessi! Non tutto quel, che luce, è oro. Darei qualunque cosa, per esser liberato, da quella pittima! Maledetto il momento, in cui la presi! La trovi bella tanto? A me, piace, neppure». E prese a camminar, su e giú, per salotto, soffermandosi, però, in ogni giravolta, presso il tavolino da giuoco.

Dio ne scampi dagli Orsenigo è una sfottitura delle istanze sentimentali dei romanzi, con una satira dove ogni ingenuità cade sotto la sferza della coscienza ironica. E’ uno dei romanzi più arditi del suo tempo, ma segnato da una pedagogia castigatoria, come se qualcuno ci dicesse: «Adesso vi faccio vedere io come vanno a finire tutte le favole sull’amore, con le belle fantasie romantiche!» Ovvero, come termina il capitolo XVI: «Cosa vuol dire fare i conti senza l’oste!».

Ma la pagina presentata è un ardito esempio di anti manzonismo proprio laddove l’autore milanese era più celebrato, la lingua. Se infatti nei Promessi sposi Manzoni si fa garante di una lingua media che egli trova nel fiorentino parlato dai colti, Imbriani utilizza lo stesso fiorentino capovolgendolo in maniera sarcastica ed indicando, senza alcuna remora, come l’operazione dello scrittore romantico fosse falsa e fuorviante. Ed è proprio nel suo sarcasmo contro il grande maestro, sia nella trama del romanzo che nella lingua, possiamo avvicinare Imbriani alla scapigliatura.
Ma è come voler dire che ogni autore, che all’indomani dell’Unità abbia sentito l’esigenza di allontanarsi dal passato per dare una nuova prospettiva culturale, sia lui appartenuto o no al movimento scapigliato, si debba ascrivere a quel sentimento “ribellistico” che animava i discorsi sul fare letterario.

 
 
 
 

LA LINEA REALISTA IN EUROPA: DAL ROMANTICISMO AL NATURALISMO

Sembra quasi naturale che la cultura positivista, figlia dello “scientismo” più che della “teorizzazione” e della “riflessione sul sé”, abbia come principale sbocco culturale la pittura e la letteratura romanzesca. Per quest’ultima è ben evidente che tale movimento trovi maggior sfogo là dove un romanzo d’ambientazione contemporanea era già nato e che aveva preso il nome generico di “realismo”: Dickens in Inghilterra e Stendhal, Balzac e Flaubert in Francia, l’esplosione della grande narrativa russa.

Francia
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Stendhal

Stendhal è lo pseudonimo di Henry Beyle, nato nel 1783 e morto piuttosto giovane nel 1841. E’ autore di due importantissimi romanzi Il rosso e il nero del 1830 e La Certosa di Parma del 1839. L’essere nel passaggio che condurrà la letteratura dall’attenzione verso l’io nei rapporti con la realtà, sia essa naturale che reale (la lirica leopardiana, il romanzo manzoniano) al modo in cui la realtà influenza l’uomo, lo rende un autore estremamente importante.

Julien Sorel de Il rosso e il nero è ancora un uomo “eccezionale”, al centro dell’attenzione nella cui ottica si muove la narrazione, ma è anche determinato dall’ambiente in cui si trova ad agire; l’ammirazione per Napoleone all’inizio, che gli fa tentare la scalata sociale attraverso la carriera militare, la Restaurazione che gli fa spostare le sue armi verso le donne per la sua strategia d’affermazione, sembrano già adombrare un conflitto di classe. Dirà infatti ai giudici, che lo condannano per un omicidio:

DIFESA DI JULIEN SOREL

Signori giurati
L’orrore del disprezzo che, al momento di morire, credevo di poter sfidare, mi fa prendere la parola. Signori, non ho l’onore di appartenere alla vostra classe: voi vedete in me un contadino che si è ribellato contro la bassezza del proprio destino.
Non vi chiedo nessuna grazia, non mi faccio nessuna illusione, la morte mi attende; essa sarà giusta. Ho potuto attentare ai giorni di una donna di ogni rispetto, di ogni omaggio. La signora era stata per me come una madre. Il mio delitto è atroce, esso è “premeditato”. Ho perciò meritato la morte, signori giurati. Ma quand’anche fossi meno colpevole, vedrei degli uomini che, senza esser trattenuti da quel che la mia giovinezza può meritare di pietà, vorranno punire in me e scoraggiare quella classe di giovani che, nati in una condizione inferiore e oppressi in qualche modo dalla povertà, hanno avuto la fortuna di procurarsi una buona educazione e l’audacia di mescolarsi a quella che l’orgoglio dei ricchi chiama società.
Ecco il mio delitto, signori; ed esso sarà punito con tanta più severità, in quanto io non sono affatto giudicato dai miei pari. Non scorgo sui banchi dei giurati qualche contadino arricchito, ma soltanto borghesi indignati…

Ma non bisogna dimenticare l’asciuttezza della narrazione, fatta di concretezza, che lui definisce da “codice civile”, ad allontanarlo da ogni forma d’immaginifico, come nell’Ivanhoe di Walter Scott o di lirismo, come, appunto, I Promessi Sposi, manzoniani.

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Honoré De Balzac

Honoré De Balzac (1799 – 1850) è certamente uno dei più prolifici narratori francesi e ciò non soltanto a fini economici (per recuperare denaro in avventure finanziare fallimentari), ma anche per una forma, oseremo dire con un termine moderno, “compulsiva”, quella di voler rappresentare l’intera società francese del suo periodo. Comédie humaine (Commedia umana) è il progetto letterario in cui vuole descrivere ogni aspetto sociale del suo tempo. Egli li divide in tre “studi”: il primo Studi di costume del XIX secolo, il secondo, Studi filosofici ed il terzo Studi analitici. Il primo di essi si suddivide a sua volta in sottogeneri ed avrà descrizioni di vita privata, vita militare, politica e di campagna.
Insomma nella mente di Balzac vi era l’intenzione di scrivere un’opera-mondo in cui venisse racchiuso tutto il reale: per questo userà il termine dantesco; così come quest’ultimo ha rappresentato ha rappresentato l’intera umanità nell’aldilà, egli vuole descrivere in un al di qua di spazio (la Francia della Restaurazione) e di tempo (la prima metà dell’800).

In tale messe di opere (ben 137 romanzi), tuttavia si può scorgere un disegno comune che tutte le sottende:

  • il romanzo sociale è credibile soltanto se lo sono i personaggi che lo compongono; la loro plausibilità è dato dalla definizione dei rapporti con l’ambiente in cui vivono, condizionandoli nel loro essere e nel loro agire;
  • da qui un’attenzione estrema per gli elementi esterni in cui il protagonista è inserito. Egli li impregna di sé e ne è a sua volta impregnato.
  • descrizione degli ingranaggi che sottendono la società: egli arriva a capire fondamentalmente quali sono meccanismi che determinano la ricchezza, l’avidità, l’astuzia che una società sottomessa al denaro attua per affermare se stessa;
  • la creazione di una miriade di personaggi che non terminano la loro azione in un solo romanzo, ma possono riapparire in altri, denotando l’onnicomprensività e la ciclicità della propria narrazione.

E’ difficile scegliere in tale grande massa di romanzi quelli che potremo definire capolavori di Balzac: certamente non si possono dimenticare La cugina Bette, Papà Goriot, Il colonello Chabert. Ma certamente uno dei più celebrati è Eugenie Grandet:

Quest’ultimo narra la storia di Eugenia Grandet, vittima di una società che nel denaro e nel profitto individua i valori fondamentali. Suo padre, la cui abilità nei commerci è pari all’avarizia, ha realizzato una grossa fortuna ma fa vivere nelle più meschine ristrettezze la sua famiglia. L’amore di Eugenia per il cugino Carlo non può realizzarsi perché questi a causa dei dissesti familiari del padre, parte per le Indie a cercare fortuna. Eugenia lo attende con devoto e romantico affetto per cinque anni, ma quando, arricchito, Carlo ritorna, sposa una giovane di nobile famiglia. Eugenia, che intanto è rimasta orfana e ricca ereditiera accetta rassegnata un matrimonio puramente formale (cioè a condizione che non venga consumato) con un anziano pretendente. Rimasta ben presto vedova, passa le sue solitarie giornate dedicandosi ad opere di beneficenza.

LA FAMIGLIA GRANDET

Nel vano della finestra più vicina alla porta stava una sedia di paglia montata su una predella, allo scopo di elevare la signora Grandet a un’altezza che le permettesse di vedere i passanti. Un tavolino da lavoro di legno di ciliegio scolorito riempiva il vano, e la poltroncina di Eugenia Grandet era lì accanto. Da quindici anni, tutte le giornate della madre e della figlia trascorrevano tranquillamente in quell’angolo, in un lavoro assiduo; dal mese di aprile sino al mese di novembre. Il primo giorno di questo mese, esse potevano prendere il loro domicilio invernale accanto al camino: soltanto quel giorno, infatti, Grandet permetteva che si accendesse il fuoco nella sala: e lo faceva spegnere il trentun marzo, senza badare né ai primi freddi della primavera né a quelli dell’autunno. Uno scaldapiedi, alimentato con la brace del fuoco della cucina che Nanon riserbava alle padrone giocando d’astuzia, aiutava la signora e la signorina Grandet a trascorrere le mattine o le serate più fresche dei mesi di aprile e di ottobre.
Madre e figlia rammendavano tutta la biancheria della casa, e dedicavano tanto coscienziosamente le loro giornate a quell’umile lavoro da operaie che, se Eugenia voleva ricamare un collettino per la madre, era costretta a sacrificare le ore del sonno, ingannando il padre per avere un po’ di luce, poiché da molto tempo l’avaro misurava le candele alla figlia e a Nanon, così come la mattina dosava il pane e le provviste necessarie al consumo giornaliero.
La grande Nanon era forse l’unica creatura umana capace di accettare il dispotismo del suo padrone. Tutta la città invidiava ai Grandet l’erculea Nanon, la quale, così chiamata per la sua statura di cinque piedi e due pollici, apparteneva alla famiglia da trentacinque anni, e, benché ricevesse soltanto sessanta lire di salario, era considerata la più ricca domestica di Saumur. Infatti quelle sessanta lire, accumulate per trentacinque anni, le avevano consentito recentemente di accendere un vitalizio di quattromila lire presso il notaio Cruchot. Quel risultato delle lunghe e persistenti economie di Nanon era sembrato enorme, e tutte le altre serve, vedendo assicurato alla povera sessantenne il pane per la vecchiaia, ne provavano invidia, senza pensare a qual prezzo di duro servaggio esso era stato conquistato.
A ventidue anni la povera ragazza era così repellente che non si era potuta collocare presso alcuno, e quella ripugnanza era certo molto ingiusta, poiché il suo viso sarebbe stato assai ammirato sulle spalle di un granatiere della guardia; ma in ogni cosa occorre, come si suol dire, l’opportunità.
Costretta a lasciare una fattoria incendiata dove sorvegliava le mucche, essa venne a Saumur in cerca di un posto, animata da quel robusto coraggio che non si rifiuta a niente. Grandet, il quale pensava allora di prender moglie e voleva già metter su casa, notò quella ragazza che tutti respingevano e, poiché nella sua qualità di bottaio era buon conoscitore della forza fisica, intuì quali vantaggi si sarebbero potuti trarre da una creatura femminile dalla statura erculea, ben piantata sui propri piedi come una quercia di sessant’anni sulle proprie radici, dai fianchi robusti, dal dorso quadrato, dalle mani da carrettiere e dall’onestà vigorosa quanto la sua intatta virtù. Né le verruche che ornavano quel viso marziale, né il colorito rossiccio, né le braccia nerborute, né i cenci della Nanon spaventarono il bottaio, che era ancora nell’età in cui si ha il cuore sensibile; anzi, egli vestì, calzò, nutrì la povera ragazza, le diede un salario e la fece lavorare senza maltrattarla troppo.
Vedendosi così accolta, Nanon pianse di gioia in segreto e si affezionò sinceramente al bottaio, il quale, d’altronde, la sfruttò feudalmente. Infatti Nanon faceva tutto: rigovernava la cucina, faceva il bucato, andava a lavare la biancheria alla Loira, la riportava sulle spalle; si levava appena era giorno, si coricava tardi; faceva da mangiare per tutti i vendemmiatori durante i raccolti, sorvegliava i braccianti, difendeva come un cane fedele la proprietà del padrone; infine, ciecamente fiduciosa in lui, obbediva senza commenti ai suoi più assurdi capricci. Nel famoso anno 1811, il cui raccolto costò pene inaudite, dopo vent’anni di servizio Grandet decise di regalare a Nanon il suo vecchio orologio, unico dono che essa mai ricevette da lui; infatti, benché egli le passasse le proprie scarpe vecchie (essa poteva portarle), era impossibile considerare come un regalo il profitto trimestrale delle scarpe di Grandet, tanto erano logore. Insomma la necessità rendeva talmente avara quella povera ragazza, che Grandet finì col volerle bene come si vuol bene a un cane, e Nanon si era lasciata mettere al collo un collare guarnito di aculei le cui punzecchiature non la ferivano più. Se Grandet affettava il pane con troppa parsimonia, essa non se ne lagnava; anzi partecipava allegramente ai vantaggi igienici derivanti dal severo regime di quella casa, dove mai nessuno era malato.
Eppoi Nanon faceva parte della famiglia: rideva quando Grandet, si rattristava, gelava, si riscaldava, lavorava con lui. E quante dolci ricompense in quel cameratismo! Il padrone non aveva mai rimproverato alla serva né le pesche primaticce o le peschenoci, né le prugne o le susine mangiate sotto l’albero.
«Su, fanne una scorpacciata, Nanon» le diceva nelle annate in cui i rami piegavano sotto il peso dei frutti, che i fattori erano costretti a gettare ai maiali. 

Il piccolo brano presentato non fa che confermare l’oggettività ricercata dall’autore; nessun commento, ma poche notazioni a renderci il clima. Descrizioni della mobilia, degli alimenti, della fisicità degli stessi personaggi ci dicono molto più dei rapporti personali, ad esempio, tra la madre e la figlia rispetto a papà Grandet e di quest’ultimo verso Nanon, di quanto ci possa dire un intervento chiarificatore dell’autore.

Un’importante notazione sull’intera produzione balzacchiana ce la lascia Engels, coautore con Marx del Manifesto: “Balzac, che io ritengo maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire, ci dà nella Comèdie humaine un’eccellente storia realista della società francese, poiché, sotto forma di una cronaca, egli descrive quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la spinta sempre crescente della borghesia in ascesa contro la società nobiliare che, dopo il 1815, si era ricostituita ed era ritornata a inalberare, nei limiti  delle sue possibilità, il vessillo della vieille politesse française (vecchia eleganza francese). Egli descrive come gli ultimi avanzi di questa società, per lui esemplare, andavano a poco a poco soggiacendo all’assalto del ricco e volgare villan rifatto o venivano da lui corrotti (…) e intorno a questo quadro centrale raggruppa una storia completa della società francese dalla quale io, perfino nelle particolarità economiche (ad esempio la ridistribuzione della proprietà reale e personale dopo la Rivoluzione francese) ho imparato più che da tutti gli storici, gli economisti, gli statisti di professione di questo periodo messi insieme.”

Perché tale giudizio è importante? Perché ci fa riflettere sul rapporto tra ideologia e letteratura: Balzac era politicamente un legittimista, eppure descrive i meccanismi economici molto meglio di qualsiasi “rivoluzionario” intento a cambiare la società.

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Gustave Flaubert

Gustave Flaubert (1921 – 1880) è certamente colui che meglio di qualunque altro ha saputo rappresentare il passaggio tra l’idealismo ed il realismo. Figlio della generazione successiva a quella di Stendhal e di Balzac egli vive pienamente le speranze e la seguente delusione della rivoluzione borghese del ’48 francese, la Restaurazione sotto Luigi Filippo e quindi il secondo Impero di Napoleone III, l’espansione economica e lo sviluppo delle forze democratiche e la nascita della filosofia positivista.

Sul piano culturale, gli anni ’50, vedono la reazione di un gruppo di intellettuali verso la libertà “stilistica e contenutistica” della letteratura romantica e realizzano una poesia in cui torna in auge la perfezione formale cercando un dettato di cristallina bellezza e di oggettiva descrizione, dove proprio al lirismo si contrappone il dettato di un oggettivo realismo depurato da ogni incrostazione sentimentale. Sono questi i cosiddetti “Parnassiani”. Questo può in parte spiegare la ricercatezza, oseremo dire, quasi maniacale verso la forma di scrittura di Flaubert, ma non ne limita la sua importanza quasi rivoluzionaria sul piano del romanzo europeo. Tale importanza è derivata proprio da un atteggiamento tipico della sua “personalità”. Attenti studi hanno rivelato che il sottofondo delle sue aspirazioni è prettamente romantico e questo si accorda in un primo momento con la sua giovinezza: la famiglia, le idee, la rivoluzione; poi la morte delle persone a lui molto care, il padre e la sorella (1846), l’involuzione ed il neo cesarismo napoleonico lo portano ad una forma di nevrosi che lo condurrà ad analizzare l’inevitabile scontro tra sogno e realtà, vivificandolo nella figura di Emma Bovary. Ma l’incapacità del personaggio è la sua, se arriverà a dire “Madame Bovary c’est moi”.

Charles Bovary, modesto medico di provincia, sposa in seconde nozze Emma Rouault, figlia di un proprietario terriero. Emma, il cui temperamento sognatore è stato nutrito dalle letture romantiche dell’adolescenza, è presto delusa dalla mediocrità del marito, che pure l’ama profondamente e dalla vita che gli offre. Comincia a intristire: Bovary, preoccupato del suo stato, si traferisce a Yonville, nella speranza che il cambiamento d’aria le giovi. A Yonville Emma è corteggiata da Léon, praticante notaio: ma il giovane non osa dichiararsi e parte per Parigi. Emma si lascia sedurre da Rodolphe Boulanger, un banale dongiovanni di provincia, e ha un breve periodo di felicità; ma non tarda a stancare l’amante con i suoi eccessi. Rodolphe, spaventato dall’idea di fuggire insieme, l’abbandona. Emma ne è sconvolta, e cerca freneticamente di stordirsi. A Rouen ritrova Léon, più ardito dopo il soggiorno parigino; convinta di riuscire a legarlo a sé, ben presto stanca anche lui. Comincia così la sua degradazione: si indebita con un usuraio, all’insaputa del marito e non sa come pagarlo. Chiede inutilmente aiuto a Léon e a Rodolphe; poi. Disperata, si uccide. Charles Bovary, assillato dal ricordo della moglie, alla quale ha perdonato i tradimenti, si lascia lentamente morire.

IL CARCERE QUOTIDIANO

Per tenersi al corrente, si abbonò all’ “Alveare medico”, un giornale nuovo di cui gli erano pervenuti i prospetti; lo leggeva, in parte, dopo cena, ma il tepore della stanza, insieme con la fatica della digestione, facevano sì che in capo a cinque minuti, fosse addormentato; rimaneva là, con il mento appoggiato alle mani e i capelli arruffati come una criniera che arrivavano fino al piede della lampada. Emma lo guardava e alzava le spalle. Perché non aveva almeno per marito uno di quegli uomini accesi di taciturno fervore che lavorano di notte in mezzo ai libri e che, giunti ai sessant’anni, l’età dei reumatismi, portano finalmente una piccola spilla a forma di croce sull’abito nero di cattivo taglio? Emma avrebbe desiderato che il nome di Bovary, ora il suo nome, fosse illustre, le sarebbe piaciuto vederlo nelle librerie, leggerlo nei giornali, noto in tutta la Francia. Ma Charles non aveva ambizioni! Un medico di Yvetot, con il quale si era trovato ultimamente per un consulto, lo aveva quasi mortificato addirittura al capezzale del paziente e davanti a tutti i parenti riuniti. Quando Charles, la sera, raccontò il fatto, Emma si accalorò molto contro il collega del marito. Quest’ultimo fu intenerito dall’atteggiamento di sua moglie: la baciò sulla fronte con gli occhi pieni di lacrime. Ma Emma era esasperata e piena di vergogna, lo avrebbe preso volentieri a schiaffi. Andò nel corridoio, aprì la finestra e rimase a respirare l’aria fresca per calmarsi.
«Che disgraziato! Povero disgraziato!» ripeteva, mordendosi le labbra.
Si sentiva sempre più irritata dal suo modo di comportarsi. Con il passare degli anni Charles prendeva abitudini grossolane; alla fine del pranzo era solito tagliuzzare i tappi delle bottiglie vuote; dopo aver mangiato si passava la lingua sui denti. Sorbiva il brodo producendo gorgoglii chioccianti a ogni cucchiaiata, e, poiché cominciava a ingrassare, gli occhi, già piccoli, sembravano spostarsi verso le tempie, spinti verso l’alto dalle gote gonfie di adipe.
A volte Emma gli ricacciava nel panciotto il bordo rosso delle maglie, gli raddrizzava la cravatta o buttava via i guanti consumati che egli stava per infilare. Ma non faceva questo per lui, bensì per se stessa, per una specie di estensione del suo egoismo, di irritazione nervosa. Altre volte gli parlava di ciò che aveva letto, un brano di un romanzo, una nuova commedia o l’ultimo aneddoto sul gran mondo riportato dal giornale; dopotutto, Charles era qualcuno, un orecchio sempre disposto ad ascoltare, un’approvazione sempre pronta. La cagnolina stessa riceveva le sue confidenze ed ella ne avrebbe fatte anche ai ceppi del caminetto e al bilanciere della pendola.
In fondo al cuore continuava a sperare che accadesse qualcosa di diverso. Come i marinai in pericolo, volgeva sguardi disperati sulla solitudine della sua vita, cercando di scorgere una vela bianca lontana fra le brume dell’orizzonte. Non sapeva che cosa stava aspettando, quale vento avrebbe spinto verso di lei l’avvenimento desiderato, a quale lido l’avrebbe fatta approdare, se si sarebbe trattato di una scialuppa o di un vascello a tre ponti carico di angosce o pieno di felicità fino ai boccaporti. Ogni mattino, al risveglio, sperava che ciò avvenisse, proprio quel giorno, e ascoltava ogni rumore, si alzava di soprassalto, e si stupiva che ancora non accadesse nulla; poi, al tramonto, sempre più triste, desiderava di essere all’indomani.
Tornò la primavera. Emma provò a volte un senso di soffocamento, ai primi calori, quando fiorirono i peri. Fin dai primi giorni di luglio, cominciò a contare sulle dita quante settimane mancavano per arrivare al mese di ottobre, nella speranza che il marchese di Andervilliers forse avrebbe dato ancora un ballo alla Vaubyessard. Ma tutto il mese di settembre trascorse senza che giungessero lettere o visite.
Dopo quella delusione, il suo cuore rimase vuoto ancora una volta, e la serie delle giornate tutte uguali ricominciò.
Ormai si sarebbero susseguite dunque, così, tutte in fila, monotone, anonime, e senza portare con sé proprio nulla? Le altre esistenze, per quanto piatte fossero, avevano almeno la probabilità di un avvenimento imprevisto, e gli avvenimenti imprevisti provocano talora peripezie senza fine, e tutto cambia. Soltanto per lei non succedeva mai niente, Dio aveva voluto così! L’avvenire si presentava come un corridoio nero in fondo al quale v’era una porta sprangata.
Non si interessò più di musica. Perché sonare? Chi l’avrebbe ascoltata? Dal momento che non avrebbe mai potuto esibirsi con un abito di velluto con le maniche corte, a un concerto, su un pianoforte Erard, facendo correre le dita leggere sui tasti d’avorio, e sentire intorno a sé, circondarla come una brezza, un mormorio estatico, non valeva la pena di annoiarsi a studiare. Lasciò in fondo a un cassetto anche i fogli da disegno e i ricami. A che serviva? A che serviva? E poi, cucire la innervosiva.
“Ho già letto tutto” si diceva.
E restava lì a far arroventare le molle nella brace del camino o a guardar cadere la pioggia.
Che tristezza, la domenica, quando sonava il vespro! Ascoltava con una concentrazione attonita battere a uno a uno i rintocchi sordi della campana. Sul tetto un gatto camminava lentamente facendo la gobba, sotto i raggi di un pallido sole. Il vento sollevava nugoli di polvere sulla strada maestra. Di tanto in tanto, un cane lontano ululava: e la campana, a intervalli regolari, continuava i suoi rintocchi monotoni che si perdevano nella campagna.
Intanto la gente usciva di chiesa. Le donne avevano gli zoccoli lucidati, i contadini le bluse nuove, i bambini piccoli, senza cappello, saltellavano davanti a loro; tutti si avviavano verso casa. E fino a notte cinque o sei uomini, sempre gli stessi, restavano a giocare al turacciolo, davanti alla porta dell’osteria.
Fu un inverno freddo. I vetri, la mattina, erano coperti da uno strato di gelo e la luce che filtrava attraverso essi, biancastra come quella dei vetri smerigliati, si manteneva talvolta uguale per tutta la giornata. Alle quattro del pomeriggio bisognava già accendere il lume.
Nelle belle giornate, Emma scendeva in giardino. La brina aveva posato sui cavoli merletti d’argento con lunghi fili chiari che andavano da un cespo all’altro. Gli uccelli tacevano, tutto sembrava addormentato, la spalliera coperta di paglia, e la vigna, simile a un grande serpente malato sotto la sporgenza del muro, dove, avvicinandosi, era possibile scorgere i centopiedi trascinarsi sulle innumerevoli gambe. In mezzo agli abeti nani, il curato con il tricorno, che leggeva il breviario, aveva perduto il piede destro e il gesso, sfaldandosi con il gelo, gli aveva coperto di croste bianche il viso.
Poi rientrava, chiudeva la porta, attizzava il fuoco e abbandonandosi al calore del caminetto sentiva ripiombare su di sé, ancora più pesante, la noia. Desiderava scendere in cucina a chiacchierare con la domestica, ma una specie di pudore la tratteneva.
Tutti i giorni alla stessa ora il maestro di scuola, la berretta nera di seta sul capo, apriva le imposte di casa sua e la guardia campestre passava con la sciabola sul camiciotto. La sera e la mattina, i cavalli della posta, a tre a tre, attraversavano la strada per andare a bere al fontanile. Di tanto in tanto la campanella della porta di un’osteria tintinnava e quando c’era vento si sentiva cigolare sui ganci che lo reggevano il catino d’ottone che serviva da insegna alla bottega del barbiere. Questa bottega era decorata da una vecchia illustrazione di un giornale di moda incollata contro un vetro e da una testa femminile di cera dai capelli gialli. Anche il parrucchiere si lamentava della sua vocazione soffocata, del suo avvenire rovinato, e sognava una bottega in qualche grande città, come Rouen, per esempio, sul porto, vicino al teatro, e intanto passeggiava su e giù tutto il giorno, fra la chiesa e il municipio, imbronciato e in attesa di clientela.
Quando la signora Bovary alzava gli occhi, lo vedeva sempre là, come una sentinella, di guardia con la papalina di traverso e una giacca di raso.
Nel pomeriggio, talvolta, dietro i vetri della sala, nella via, compariva una testa d’uomo, dai favoriti neri e dal volto abbronzato, sul quale si stendeva lentamente un largo sorriso dolce che scopriva i denti bianchi. Subito si facevano sentire le note di un valzer e sopra l’organino, in una minuscola sala da ballo, ballerini alti un dito, dame in turbante rosa, tirolesi in giacchettino, scimmie in marsina nera, cavalieri in pantaloni a coscia giravano e giravano fra le poltrone, i divani, le mensole, moltiplicandosi nei pezzetti di specchio tenuti insieme da una carta d’oro. L’uomo girava la manovella guardando a destra e a sinistra e verso le finestre. Di tanto in tanto lanciava contro un paracarro un lungo getto di saliva scura e appoggiava su un ginocchio il suo strumento, la cui cinghia dura gli stancava la spalla; ora triste e lenta, ora gioiosa e veloce, la musica dell’organino si diffondeva attraverso una tendina di taffetà rosa o una grata di ottone ad arabeschi. Erano motivi in voga nei teatri, motivi che venivano cantati nei saloni, che accompagnavano, la sera, le danze sotto i lampadari splendenti, echi del mondo dai quali Emma veniva raggiunta. E allora sarabande senza fine si srotolavano nella sua mente: come una baiadera su un tappeto a fiori il suo pensiero saltellava con le note, ondeggiava di sogno in sogno, di malinconia in malinconia. L’uomo, dopo aver ricevuto l’elemosina che gli veniva gettata nel berretto, copriva l’organino con una vecchia coperta turchina, se lo passava sulla schiena e si allontanava con passo pesante. Emma lo guardava andar via.
Soprattutto all’ora dei pasti sentiva di non poterne più: in quella stanzetta al pianterreno, dove la stufa faceva fumo, la porta cigolava, i muri trasudavano e i pavimenti erano sempre umidi, le sembrava che tutta l’amarezza della sua esistenza le venisse servita nel piatto e, come il fumo del bollito, salivano dal fondo dell’anima sua altrettante zaffate di tedio insulso. Charles mangiava con lentezza, Emma sgranocchiava qualche nocciolina o si divertiva, appoggiata a un gomito, a disegnare linee con la punta del coltello, sulla tela cerata.

E’ evidente nel passo come, attraverso la tecnica del punto di vista interno, senza passare all’io narrante, egli riesca, con incredibile “precisione” a leggere i pensieri della sua giovane protagonista: tutto è visto attraverso gli occhi di lei, l’autore sparisce completamente, alienando da sé qualsiasi forma di commento. Probabilmente questo fece accusare l’autore di aver scritto un’opera amorale, in quanto legittimava l’adulterio, ma egli non invita ad alcuna azione: è talmente “preciso” nell’identificazione che si perde la capacità di distinguere tra autore e personaggio. E’ proprio questa capacità che fa di Emma una donna il cui nome diventa una vera e propria tipologia a cui si attribuisce, appunto, il nome di “bovarismo”: Insoddisfazione spirituale; tendenza psicologica a costruirsi una personalità fittizia, a sostenere un ruolo non corrispondente alla propria condizione sociale; desiderio smanioso di evasione dalla realtà, soprattutto in riferimento a particolari situazioni ambientali, sociologiche e sim. (Enciclopedia Treccani)

Se una forma di realismo che, grazie all’opera di Flaubert, affina sempre più le sue armi nella capacità di descrizione oggettiva è con i fratelli Edmond e Jules de Goncourt che trova la teorizzazione di un nuovo sentire che prenderà, appunto, il nome di “naturalismo”.

Questi due scrittori (Edmond, 1822-1896), Jules (1830 – 1870), nel romanzo Germanie Lacertaux (1865), programmano un nuovo compito che una narrazione deve assumere, quello di rappresentare scientificamente il degrado della società nei suoi strati più umili. Infatti la loro opera narra la storia di una serva, malata di isteria, che si degrada progressivamente, fino alla morte, per una passione amorosa. E’ ispirato ad un caso vero, quello di una domestica dei due fratelli.

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Fratelli de Goncourt

LA PREFAZIONE A GERMAINE LACERTAUX

Dobbiamo chiedere scusa al pubblico per questo libro che gli offriamo e avvertirlo di quanto vi troverà. Il pubblico ama i romanzi falsi: questo è un romanzo vero.
Ama i romanzi che dànno l’illusione di essere introdotti nel gran mondo: questo libro viene dalla strada.
Ama le operette maliziose, le memorie di fanciulle, le confessioni d’alcova, le sudicerie erotiche, lo scandalo racchiuso in un’illustrazione nelle vetrine di librai: il libro che sta per leggere è severo e puro. Che il pubblico non si aspetti la fotografia licenziosa del Piacere: lo studio che segue è la clinica dell’Amore.
Il pubblico apprezza ancora le letture anodine e consolanti, le avventure che finiscono bene, le fantasie che non sconvolgono la sua digestione né la sua serenità: questo libro, con la sua triste e violenta novità, è fatto per contrariare le abitudini del pubblico, per nuocere alla sua igiene.
Perché mai dunque l’abbiamo scritto? Proprio solo per offendere il lettore e scandalizzare i suoi gusti? No.
Vivendo nel diciannovesimo secolo, in un’epoca di suffragio universale, di democrazia, di liberalismo, ci siamo chiesti se le cosiddette «classi inferiori» non abbiano diritto al Romanzo; se questo mondo sotto un mondo, il popolo, debba restare sotto il peso del «vietato» letterario e del disdegno degli autori che sino ad ora non hanno mai parlato dell’anima e del cuore che il popolo può avere. Ci siamo chiesti se possano ancora esistere, per lo scrittore e per il lettore, in questi anni d’uguaglianza che viviamo, classi indegne, infelicità troppo terrene, drammi troppo mal recitati, catastrofi d’un terrore troppo poco nobile. Ci ha presi la curiosità di sapere se questa forma convenzionale di una letteratura dimenticata e di una società scomparsa, la Tragedia, sia definitivamente morta; se, in un paese senza caste e senza aristocrazia legale, le miserie degli umili e dei poveri possano parlare all’interesse, all’emozione, alla pietà, tanto quanto le miserie dei grandi e dei ricchi; se, in una parola, le lacrime che si piangono in basso possano far piangere come quelle che si piangono in alto.
Queste meditazioni ci hanno indotto a tentare l’umile romanzo di “Suor Filomena”, nel 1861; e adesso ci inducono a pubblicare “Le due vite di Germinia Lacerteux”.
Ed ora, questo libro venga pure calunniato: poco c’importa. Oggi che il Romanzo si allarga e ingrandisce, e comincia ad essere la grande forma seria, appassionata, viva, dello studio letterario e della ricerca sociale, oggi che esso diventa, attraverso l’analisi e la ricerca psicologica, la Storia morale contemporanea, oggi che il Romanzo s’è imposto gli studi e i compiti della scienza, può rivendicarne la libertà e l’indipendenza. Ricerchi dunque l’Arte e la Verità; mostri miserie tali da imprimersi nella memoria dei benestanti di Parigi; faccia vedere alla gente della buona società quello che le dame di carità hanno il coraggio di vedere, quello che una volta le regine facevano sfiorare appena con gli occhi, negli ospizi, ai loro figli: la sofferenza umana, presente e viva, che insegna la carità; il Romanzo abbia quella religione, che il secolo scorso chiamava con il nome largo e vasto di Umanità; basterà questa coscienza: ecco il suo diritto.

Nello scrivere il romanzo i fratelli de Gouncourt si fondano su una ricerca rigorosa che vuole fare delle loro pagine un “documento umano”, cui le tecniche scientifiche di allora offrivano gli strumenti per renderlo, secondo le loro parole “vero”. Ma non è solo questo il loro intento. Si tratta, infatti, di trovare un nuovo soggetto per le classi popolari nel quale riflettersi. Sino ad allora esse erano state “abbindolate” da storie tardo romantiche dei feuilletons che apparivano sulle pagine dei giornali, creando falsi sogni (gli stessi di cui si era abbeverata Emma). Si trattava ora di prendere coscienza della loro triste condizione anche se gli argomenti, per tale scopo, dovevano essere degradati e brutti. Ciò fa del romanzo naturalista francese un’arma politica “progressista” legata alle lotte della popolazione sfruttata.

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Émile Zola

Émile Zola (1840 – 1902) è il più grande narratore rappresentante della narrativa naturalista francese e non solo. Egli, prima di diventare scrittore, visse nella miseria, conoscendo a fondo la “reale” difficoltà economica che i ceti popolari dovevano subire. Lavora dapprima nella casa editrice Hachette, all’inizio come fattorino, poi con sempre maggiori responsabilità. Quindi si dedica alla professione di giornalista, che continua, poi, per tutta la vita. La pubblicazione di Teresa Raquin (1867) gli reca una certa popolarità e progetta, sulla scorta di Balzac, di scrivere un ciclo di romanzi cui rappresentare l’intera società francese, dalla degradazione più abietta alla società ricca borghese: tale ciclo prende il nome di I Rougon-Macquart, storia naturale e sociale di una famiglia sotto il secondo impero, che iniziato nel 1871 termina nel 1893 e comprende venti volumi. Tra questi i più importanti sono:

  • Il ventre di Parigi (1873): descrizione della degradazione della popolazione povera parigina;
  • L’Assomair (L’ammazzatoio) (1877): romanzo in cui si affronta il tema dell’alcolismo;
  • Nanà (1880): rappresentazione della ricca e corrotta borghesia tramite la vita di una cortigiana;
  • Germinal (1885): grandioso affresco della vita dei minatori;
  • La bestia umana (1890): che ha per sfondo il mondo ferroviario.

Per esemplificare il “progressismo zoliano” e per sottolineare l’opera che è universalmente considerata come il capolavoro verista, scegliamo una pagina da Germinal:

La vicenda si svolge nel Nord della Francia tra il 1866 e il 1869. Stefano Lantier viene licenziato dall’officina meccanica in cui lavora per aver preso a schiaffi il suo principale. Arriva alla miniera del Voreux e viene assunto come minatore nella squadra di Maheu, di cui fanno parte anche tre dei suoi figli, Zaccaria, Caterina e il giovane Gianlino. Stefano subisce presto il fascino del “soffio di rivolta” che proviene dalla miniera, nonché della bella Caterina, ma essendo timido non riesce a esprimere i propri sentimenti alla ragazza, la quale inizia una relazione con il violento Chaval. A contatto con il miserabile mondo dei minatori, oppresso dallo sfruttamento e dalla miseria, Stefano si forma una propria coscienza politica. Le sue idee, vicine al socialismo riformista, si scontrano con quelle anarchico-rivoluzionarie dell’operaio russo Souvarine che, contrario a ogni forma di autorità, sogna l’abolizione dello Stato borghese e una nuova fratellanza tra gli uomini, da raggiungere anche attraverso la violenza. Quando la compagnia mineraria manifesta l’intenzione di ridurre i già magri salari, su incitamento di Stefano i minatori scendono in sciopero. Per vincere la resistenza degli operai, la compagnia assume manodopera dal Belgio e chiama l’esercito a difesa della miniera. Dopo due mesi la situazione precipita: i soldati sparano sulla folla dei minatori e delle loro famiglie, uccidendo tredici persone, tra le quali anche Maheu, il padre di Caterina. Sconfitti, gli operai sono costretti a tornare al lavoro. Chi non si arrende è l’anarchico Souvarine, che incurante del fatto che centinaia di operai stiano lavorando all’interno della miniera, sabota le impalcature; nel crollo muoiono molti minatori e tra essi anche Caterina. Stefano, rimasto illeso, decide di partire per Parigi per continuare lì la sua lotta politica, sicuro che un giorno le idee di giustizia e di uguaglianza possano trionfare.

I SOLDATI SPARANO SUGLI SCIOPERANTI

Allora, come a un segnale, la folla esplose in insulti, in imprecazioni. I pochi gridi che s’elevavano ancora di “Evviva i soldati! a morte l’ufficiale!” naufragarono presto nel clamore generale: “Abbasso le brache rosse!” 
Ma sotto la gragnuola degli insulti, la truppa, irrigidita nella consegna, manteneva la stessa impassibilità, lo stesso silenzio con cui aveva accolto gli inviti a fraternizzare, gli amichevoli tentativi di insubordinazione.
Alle sue spalle, il capitano aveva sguainato la spada; e siccome la folla premeva sempre di più addosso agli uomini, minacciando di schiacciarli contro il muro, ordinò di incrociare le baionette. Una doppia siepe di punte d’acciaio accolse i petti dei dimostranti.
Arrestata: «Ah i mangiapani a ufo!» imprecò l’Abbruciata. Ma già, dopo aver indietreggiato un istante la folla si ributtava avanti, sprezzante della morte e come esaltata dal rischio.
Più di tutti s’esponevano le donne, incitate dalla Maheu e dalla Levaque che strillavano: «Uccideteci, uccideteci dunque! Vogliamo i nostri diritti.»
Levaque, a rischio di tagliarsi, aveva abbrancato tre baionette in una volta e dava strattoni, tirava a sé per disinastarle; con una forza che l’ira moltiplicava, le storceva, per spezzarle, le lame; mentre, pentito d’essersi lasciato indurre a seguirlo, placido Bouteloup lo guardava fare, tenendosi a rispettosa distanza.
«Fate, che vediamo! fate un po’ se ne avete il coraggio!» li sfidava Maheu; e si sbottonava la giacca, tirava via la camicia, offriva nudo il petto villoso. E spaventoso di insolenza e di coraggio si spingeva contro le baionette obbligando, per non infilzarlo, i soldati ad arretrare. E siccome la punta di una l’aveva ferito, come pazzo proprio contro quella incalzava: gli entrasse dentro, gli si conficcasse nel costato.
«Vigliacchi, non osate, eh! Dietro a noi ce ne sono diecimila come noi. Uccideteci pure; ve ne resteranno sempre da uccidere! Siccome i soldati avevano l’ordine di non sparare se non in caso di assoluta necessità, la loro situazione si faceva critica».
(…)
Ormai i dimostranti erano oltre cinquecento; ma a quelli che facevano sul serio s’erano mescolati dei curiosi che si divertivano a stare a vedere. Tra questi Zaccaria e la moglie, venuti lì come a uno spettacolo, al punto che s’eran tirati dietro i figlioli. Con un nuovo gruppo proveniente da Réquillart, arrivò col fratello la Mouquette; lui, adocchiato l’amico Zaccaria, sogghignando venne a dargli una manata sulle spalle; mentre la sorella, accesissima, correva a mettersi in prima fila coi più scalmanati.
Il capitano intanto lanciava continue occhiate sulla strada di Montsou; prevedendo che si troverebbe presto a malpartito se i rinforzi non arrivavano, l’ufficiale, per intimorire la folla, ordinò ai soldati di caricare i fucili. Ma la coperta minaccia ottenne solo di esasperare maggiormente gli animi; i dimostranti risposero al gesto con parole di sfida e di dileggio.
«Vedi?» le donne sghignazzavano. «Partono per i tiri, questi conigli vestiti da soldati!» 
La Maheu si buttò avanti con tanto impeto che il sergente le chiese che ci venisse a fare lì con quel marmocchio in braccio; Estella infatti s’era svegliata e ora si aggrappava piangendo al seno della madre.
«Che te ne importa a te?» rispose lei. «Spara adesso, se n’hai il coraggio!» 
Sprezzanti, gli uomini scotevano il capo: macché, non un colpo partirebbe. «Hanno cartucce a salve,» asserì Levaque. E Maheu: «Vorrei vedere anche questa! Che siam mica cosacchi? Non si tira sui compatrioti, perdìo!»
Altri osservavano che comunque, non facevano soggezione le pallottole a chi tornava, come loro, dalla campagna di Crimea. Per cui tutti seguitavano a buttarsi sui fucili, così pigiati che se in quel momento una scarica fosse partita, ne sarebbe seguìto un macello.
Alla Mouquette l’idea, l’idea sola, che dei soldati potessero sparare su delle donne, faceva veder rosso.
(…)
Allora, per calmare l’evidente nervosismo dei suoi uomini, il capitano procedette all’arresto dei più scalmanati; ma la Mouquette si sottrasse, sgattaiolando fra le gambe dei compagni. Levaque e altri due vennero condotti nella stanza dei capisquadra e lì guardati a vista. Di lassù intanto si sporgevano Négrel e Danseart e invitavano il capitano a far rientrare la truppa e a chiudersi dentro; ma l’ufficiale si rifiutò di farlo: le porte d’accesso alla ricevitoria non presentavano alcuna garanzia di resistenza a un assalto e a lui toccherebbe l’onta di vedersi disarmare.
Gli stessi soldati, d’altronde, avrebbero sentito come un disonore ritirarsi davanti a dei poveracci calzati di zoccoli.
Questo gesto di forza fece alla prima una certa impressione; ma un’impressione che durò poco. Bentosto un clamore s’alzò: la folla protestava contro l’arresto, esigeva l’immediato rilascio dei prigionieri; ai quali – già qualche voce gridava – si stava facendo la pelle. E, come al segnale d’un’azione concertata in anticipo, tutti, a un tratto, obbedendo a un impulso collettivo, corsero ad armarsi, da un cumulo lì vicino, di mattoni; i bambini recandone uno alla volta, le donne riempiendosene la sottana. In breve ogni dimostrante n’ebbe ai suoi piedi una provvista e il tiro cominciò. In testa alle donne si piantò l’Abbruciata; la vecchia spezzava i mattoni sull’ossuto ginocchio, e con la destra e la sinistra a vicenda li lanciava. A tirare, la Levaque si sfiancava: grassa com’era, disponeva di così poca forza che, per non mancare tutti i colpi, doveva esporsi; invano, nella speranza di ricondurla a casa, ora che il marito era all’ombra, Bouteloup la tirava indietro. Alla sassaiola, tutte si eccitavano. La Mouquette che a spezzare i mattoni sulla ciccia delle cosce se le era insanguinate, adesso li lanciava interi. Anche i ragazzi s’erano uniti alle donne; e Berto insegnava a Lidia come si tirava meglio, lanciando di sotto in su a gomito piegato. E i proiettili fioccavano, grandinavano, abbattendosi con sordi tonfi. Trascinata dall’esempio, tutto a un tratto anche Caterina si trovò in prima fila, a lanciare anche lei tra quelle furie i suoi spezzoni con tutta la forza delle magre braccia.
(…)
Sotto il grandinare dei mattoni, la poca truppa spariva. Fortuna che i proiettili passavano quasi tutti sopra le teste; di colpi, lì dietro, il muro era sforacchiato. Un attimo l’idea di ritirarsi, fece salire il sangue al viso dell’ufficiale ma per farlo era tardi; al minimo cenno di ripiegamento, la folla gli avrebbe fatto gli uomini a pezzi. Lui perdeva sangue dalla fronte, per un mattone che gli aveva spaccato la visiera. Nelle file, parecchi erano i feriti; l’esasperazione era giunta al limite oltre il quale l’istinto di conservazione prende il sopravvento sul sentimento di disciplina. A una mazzata che quasi gli aveva slogato la spalla, il sergente aveva smozzicato una bestemmia. La recluta, col viso scorticato in due punti e un pollice stritolato, non poteva più reggersi su un ginocchio senza vedere le stelle; che ci si sarebbe prestati ancora un pezzo a fare i fantocci da tiro a segno? Un colpo di rimbalzo aveva raggiunto all’inguine il veterano, che, dallo spasimo, s’era quasi lasciato sfuggir di mano lo schioppo. Più di una volta già il capitano era stato lì per ordinare il fuoco e tutte le volte era riuscito sinora a dominarsi. E solo adesso, davanti all’infierire dei forsennati, apriva per farlo la bocca, quando i fucili spararono da sé: prima tre colpi; poi cinque; poi una scarica intera; infine, un colpo in ritardo, che echeggiò isolato nel sepolcrale silenzio.
Lo sbalordimento impietrò un attimo la folla. La truppa aveva dunque sparato? A bocca aperta, ne dubitava ancora, quando, con lo squillo di cessato fuoco, lacerarono l’aria le grida dei feriti. Allora, allo stupore, sottentrò il panico; fu un impazzito sbandarsi, un fuggi fuggi generale. Ai primi tre colpi, Berto e Lidia s’erano afflosciati uno sull’altro: la piccina, colpita al viso; lui, attraversato da una pallottola sotto la clavicola sinistra. Lidia, fulminata, non si moveva più; lui invece si trascinava, cercava, nelle convulsioni dell’agonia, di prendere fra le braccia l’altra, quasi a rinnovare il loro unico abbraccio. E Gianlino che, arrivato finalmente da Réquillart, sgambettava gonfio di sonno tra il fumo degli spari, capitò giusto in tempo per assistere a quell’abbraccio e veder Berto spirare. I cinque successivi colpi avevano abbattuto l’Abbruciata e Richomme. Questi, ferito al dorso e caduto in ginocchio, s’era rovesciato su un fianco; e ora rantolava per terra, col pianto ancora negli occhi. La vecchia, con la gola squarciata, era crollata da ritta con un sinistro scricchiolio di vecchia carcassa; uno sbocco di sangue le aveva strozzato in bocca l’ultima bestemmia A questo punto lo scroscio di fucileria aveva spazzato il terreno e falciato nel raggio di cento passi i capannelli di curiosi che ridevano alla battaglia. Una pallottola era entrata in bocca a Mouquet, che, stramazzando ai piedi di Zaccaria e Filomena, aveva spruzzato di sangue i due bambini. Nello stesso istante, la Mouquette riceveva due pallottole nel ventre. Vedendo i soldati spianare il fucile, istintivamente la ragazza, nel suo buoncuore, s’era buttata davanti a Caterina, gridandole di ripararsi; il colpo ricevuto in sua vece, con un urlo l’aveva fatta cadere lunga distesa sulle reni. Stefano accorse per rialzarla; ma lei d’un segno gli fece capire che non ne valeva la pena. E finché non ebbe finito di rantolare, seguitò a sorridere a lui e a Caterina, come se, andandosene, fosse felice di vederli insieme.
Tutto pareva finito, anche l’eco dello scroscio s’era perduto lassù contro la facciata delle case operaie, quando partì quell’ultimo sparo isolato. Colpito in pieno cuore, Maheu girò su se stesso e cadde bocconi con la faccia in una pozzanghera. Senza capire, la moglie si chinò: «Ehi, vecchio, che fai? Sta’ su! Non hai mica niente, eh?» Per voltargli la faccia, dovette mettersi Estella sotto il braccio: «Parla, dunque! hai male da qualche parte?» Maheu aveva lo sguardo vacuo; alla bocca, una schiuma sanguigna. Allora la donna capì. Si calò nel fango a sedere; e tenendo sotto il braccio la bambina come un involto, restò a guardare il suo uomo inebetita.
Lo spiazzo davanti alla miniera era sgombro. Livido, ma senza dare altrimenti a divedere turbamento per il disastro della sua vita, il capitano s’era tolto, poi rimesso d’un gesto secco il chepì sfondato; mentre con la stessa impassibilità i suoi uomini ricaricavano i fucili. Alla finestra della ricevitoria, s’erano sporte un attimo le facce sgomente di Négrel e di Danseart; e dietro di loro s’era intravisto Souvarine: una ruga gli sbarrava la fronte, come a ribadirvi il chiodo d’un’idea fissa. All’imbocco lassù del borgo operaio, Bonnemort pareva una statua; calava una mano sul bastone, con l’altra si faceva schermo agli occhi, come per non perdere nulla del massacro dei suoi.
I feriti urlavano; i morti si irrigidivano, marionette cui s’è rotto il filo tra le pozzanghere e le chiazze di carbone che il disgelo scopriva. E in mezzo a quei cadaveri d’uomini rattrappiti e come rimpiccioliti, magri dell’atroce magrezza della fame, – sinistro ammasso di carname, spiccava la carogna di Trombetta. A fianco di Caterina, Stefano, rimasto illeso, aspettava ancora che la ragazza, venuta meno per il dolore e la stanchezza, fosse in grado di alzarsi, quando il tonare d’una voce lo fece trasalire. Era il reverendo Ranvier che tornava da dir messa; e che, agitando le braccia in aria, invocava sugli assassini la punizione del Cielo. Come invaso da furore profetico, annunziava prossimo sulla terra l’avvento del regno della giustizia, la scomparsa della borghesia, sterminata dal fuoco celeste; di quella borghesia che metteva il colmo alla sua iniquità facendo massacrare i lavoratori e i diseredati di questo mondo.

Germinal, il cui titolo riprende il nome dato al mese di aprile dalla Rivoluzione Francese, descrive le brutali condizioni di sfruttamento nelle quali vivevano i minatori francesi a fine Ottocento. Per farlo, Zola si documenta sulla vita di miniera e su alcuni scioperi svoltisi nel 1869, sfociati in scontri tra minatori e soldati. Per poter descrivere in maniera oggettiva la vita dei minatori, Zola trascorre con loro alcuni giorni nelle baracche e scende perfino nei pozzi minerari.
Egli vede nei minatori la forza che potrà far sorgere una nuova epoca e una nuova forza, quella “proletaria”, con il compito di cambiare il mondo.

Il brano coglie i minatori del centro minerario di Montsou nel momento cruciale di uno sciopero che dura da due mesi: a difesa della miniera è stato schierato l’esercito, davanti al quale si agita una folla composita e urlante, piena d’odio nei confronti dei padroni della miniera e dei soldati posti lì a loro difesa. Prevale la descrizione dei comportamenti collettivi dei due gruppi che si fronteggiano. La massa dei minatori si infiamma in maniera compatta, a gara contrasta i soldati in un miscuglio incontenibile di voci, urla, spintoni. A loro volta i soldati si trovano di fronte a una situazione senza via d’uscita: non vogliono sparare su dei civili, ma non vogliono neanche subire la loro furia (molti militari sono rimasti feriti da un lancio di mattoni). Espressione di questa difficile scelta è il comportamento del capitano e dei suoi uomini: il primo non si decide a «ordinare il fuoco», ma quando sta per dare l’ordine «i fucili spararono da sé». La descrizione dell’eccidio, cruda e violenta, punteggiata di dettagli brutali, è particolarmente potente e realistica.

Anche qui troviamo applicate da Zola messe in pratica le teorie del Naturalismo: l’impersonalità, che prevede l’assenza di commenti da parte dell’autore, per non alterare l’oggettività della narrazione; le parole dei personaggi sono riportate per lo più attraverso il discorso diretto; mentre le parti narrative sono caratterizzate da un linguaggio analitico, preciso nelle descrizioni.

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Guy De Maupassant

Guy De Maupassant (1850 – 1893) è l’autore naturalista francese che sviluppò la sua capacità narrativa nel genere “racconto”, arrivando ad esiti straordinari che tanta fortuna hanno poi avuto nello sviluppo della narrazione breve.

Figlio di un padre violento e di una madre nevrotica ebbe una vita difficile, rattristata per di più dalla follia del fratello. Divenne amico di Flaubert che lo introdusse nei salotti letterati e trascorreva il tempo dividendosi tra giornalismo e le gite sulla Senna in compagnia di amici e canottieri. Le sue composizioni letterarie si esercitarono, come già detto, in più di trecento novelle, che divise in più raccolte; ma compose anche due famosi romanzi Una vita (1883) e Bel-Ami (1885). Morì nel 1893, dopo esser stato colpito da una crisi di follia, in una clinica psichiatrica. Il suo primo racconto Boule de suif, pubblicato nel 1800, è considerato, ancora oggi, il suo capolavoro:

La storia racconta la vicenda di una di quelle che vengon chiamate allegre, Palla di sego (questo il soprannome della protagonista), durante l’occupazione prussiana viaggia in diligenza verso Le Havre, con rispettabili signori borghesi, un “democratico”, due suore; il viaggio però viene interrotto da un ufficiale prussiano che minaccia di non far proseguire il convoglio se Palla di sego non gli si concede. Dopo un giorno intero di discussioni, i viaggiatori riescono a convincere la prostituta a sacrificarsi. Ma quando il viaggio riprende, si crea il vuoto intorno a lei: le suore pregano, le signore dell’alta società la osservano con occhi di condanna, il democratico fischietta la Marsigliese.

 PALLA DI SEGO

Finalmente, appena la diligenza fu attaccata, con sei cavalli al posto di quattro, a causa del tiro più faticoso, una voce dal di fuori chiese: «Son saliti tutti?» Una voce da dentro rispose: «Sì.» La diligenza partì.
Andavano avanti piano piano, di passo. Le ruote affondavano nella neve, tutta l’ossatura gemeva tra sordi scricchiolii: le bestie scivolavano, soffiavano, fumavano; e la gigantesca frusta del cocchiere schioccava incessantemente, volteggiando da ogni lato, e svolgendosi come un sottile serpente, d’improvviso attorcigliandosi sulle groppe piene, che si tendevano in uno sforzo più violento.
A poco a poco la luce aumentava. I leggeri fiocchi, che un viaggiatore – autentico figlio di Rouen – aveva paragonato ad una pioggia di cotone, non cadevano più. Una sporca luce filtrava attraverso i nuvoloni scuri e pesanti che facevano apparire più splendida la bianchezza della campagna dove ogni tanto appariva una fila di grandi alberi coperti di brina, o una capanna incappucciata di neve.
Nella diligenza i passeggeri si guardavano incuriositi al triste chiarore dell’alba.
In fondo, ai posti migliori, sonnecchiavano uno di fronte all’altro i coniugi Loiseau, venditori di vino all’ingrosso in via Grand-Pont.
Già commesso d’un mercante che s’era rovinato con gli affari, Loiseau ne aveva comprato il magazzino, e aveva fatto fortuna. Vendeva a pochissimo prezzo dei vini pessimi ai piccoli minutanti di campagna, ed era considerato, dai conoscenti e dagli amici, un furbo di tre cotte, un vero normanno astuto e gioviale.
La sua fama di mariolo era così salda, che una sera, alla Prefettura, il signor Tournel, rinomato autore di barzellette e di canzoncine, spirito sottile e mordace, una celebrità locale, vedendo le signore un po’ insonnolite, aveva proposto di giocare a “Loiseau vole”: la freddura attraversò i salotti del prefetto, arrivò in quelli di città, e fece ridere per un mese tutte le ganasce della provincia.
Loiseau, inoltre, era famoso per i suoi scherzi d’ogni genere, per le sue spiritosaggini buone e cattive; e nessuno parlava di lui senza aggiungere: «Quel Loiseau, non ce n’è un altro come lui».
Basso di statura, aveva la pancia a pallone sormontata da un viso rubicondo tra le fedine brizzolate.
Sua moglie, alta, robusta, risoluta, forte di voce e rapida nel decidere, rappresentava l’ordine e la contabilità della ditta, che animava con la sua allegra attività.
Accanto ad essi, più dignitoso, perché appartenente ad una casta superiore, stava il signor Carré-Lamadon, persona ragguardevole, ben collocato nei cotoni, proprietario di tre filande, ufficiale della Legion d’Onore e membro del Consiglio generale. Finché era durato l’Impero, era stato a capo dell’opposizione benevola, soltanto per farsi pagar più cara la sua adesione alla causa che egli – per usare la sua espressione – combatteva ad armi cortesi. La signora Carré-Lamadon, assai più giovane di lui, era la consolazione degli ufficiali di buona famiglia mandati di guarnigione a Rouen. Stava di fronte al marito, molto vezzosa, molto carina, raggomitolata nella pelliccia, e guardava con occhio afflitto l’interno desolato della diligenza.
I suoi vicini, il conte e la contessa Hubert de Bréville, portavano uno dei nomi più antichi e più nobili di Normandia. Il conte, vecchio gentiluomo di grande stile, cercava di accentuare con palesi accorgimenti la sua naturale somiglianza con il re Enrico IV il quale, secondo una gloriosa leggenda di famiglia, avrebbe ingravidato una signora di Bréville per cui il marito di quest’ultima fu fatto conte e governatore di una provincia.
Collega di Carré-Lamadon al Consiglio generale, il conte Hubert rappresentava nel dipartimento il partito orleanista. La storia del suo matrimonio con la figlia d’un piccolo armatore di Nantes era sempre rimasta misteriosa. Ma siccome la contessa aveva gran tono, sapeva ricevere meglio di chiunque, – si diceva pure che fosse stata benvoluta da un figlio di Luigi Filippo – era ricercata dalla nobiltà e il suo salotto era il primo della regione, l’unico dove fosse sopravvissuta l’antica cortesia e dove fosse difficile entrare.
Si dice che il patrimonio dei Bréville, tutto in beni immobili, fruttasse cinquecentomila lire di rendita.
Queste sei persone, che occupavano il fondo della carrozza, rappresentavano la parte della società fornita di rendite, serena e forte, la gente onesta provvista di Religione e di Principii.
Per una strana combinazione tutte le donne stavano sullo stesso sedile; le altre vicine della contessa erano due suore che sgranavano lunghi rosari biascicando paternostri e avemarie. La prima era vecchia, e aveva il viso butterato dal vaiolo, come se le avessero sparato una scarica di mitraglia a bruciapelo. L’altra, dall’aria molto patita, aveva una testina graziosa e malaticcia su un petto da tisica consumata dalla fede divorante che crea i martiri e gli esaltati.
Di fronte alle due suore, un uomo e una donna attiravano tutti gli sguardi.
L’uomo, assai noto, era Cornudet il democratico, il terrore delle persone perbene. Da vent’anni egli inzuppava il suo barbone fulvo nella birra di tutti i caffè democratici. S’era mangiato, insieme ai fratelli e agli amici, un bel gruzzolo, ereditato dal padre pasticciere, e aspettava con impazienza la venuta della repubblica per ottenere finalmente il posto che s’era meritato con tante bevute rivoluzionarie.
Il quattro di settembre, forse in seguito a uno scherzo, credette d’essere stato nominato prefetto, ma quando tentò d’insediarsi, gli uscieri, rimasti arbitri della situazione, si rifiutarono di riconoscerlo, costringendolo ad andarsene. Buon compagnone, d’altronde, inoffensivo e servizievole, s’era incaricato, con ardore senza pari, d’organizzare la difesa. Aveva fatto scavare delle buche, nelle pianure, aveva fatto abbattere i giovani alberi delle foreste vicine, aveva seminato trappole su tutte le strade, e all’avvicinarsi del nemico, soddisfatto dei suoi preparativi, aveva ripiegato in fretta verso la città. Pensava, ora, di essere più utile a Le Havre, dove sarebbero state necessarie nuove fortificazioni.
La donna, una di quelle che vengon chiamate allegre, era rinomata per la sua floridezza, che le aveva procurato il soprannome di Pallina. Piccina, tutta tonda, grassa grassa, con le dita rigonfie strozzate alle falangi, simili a rosari di salsicciotti, aveva la pelle lustra e tesa, un enorme seno che le gonfiava il vestito: pure, era appetitosa e desiderata, tanto piacevole a vedersi era la sua freschezza. Il suo viso era una mela rossa, un bocciolo di peonia vicino a schiudersi; vi si aprivano, in alto, due magnifici occhi neri ombreggiati da lunghe e folte ciglia, e sotto una bella bocca piccola, umida, da baci, guarnita di dentini lucenti e microscopici.
Ella aveva inoltre – si diceva – moltissime inestimabili qualità.
Appena la riconobbero, indignati bisbiglii corsero tra le donne oneste, e le parole «prostituta», e «vergogna pubblica» furono pronunciate così forte ch’ella alzò il capo, e fece scorrere sui vicini uno sguardo così ardito e provocante che subito si fece un gran silenzio, e tutti abbassarono gli occhi, eccettuato Loiseau, il quale la guardava eccitato.

unnamed.jpgPaul Emile Boutigny: illustrazione per Boule de Suif (titolo originale della novella)

E’ la parte centrale, quella che qui viene riportata, in cui, con un tratto di penna l’autore ci descrive l’insensatezza e l’ipocrisia di ciò che quel piccolo microcosmo dentro la diligenza, ma che sembra rappresentare, agli occhi dell’autore, l’intera società, considera il bene ed il male. Nel brano su riportato è la posizione all’interno della diligenza a diventare sintomatica: i piccolo borghesi che abitano la carrozza si siedono prepotentemente dalla parte dei buoni e lasciano dal lato opposto la ragazza che per vivere usa il suo corpo, ma che ha energia, ideali e altruismo da vendere. L’iniziale illusione di poter entrare a far parte della schiera dei “giusti” (offre da mangiare ai compagni di viaggio che non vi avevano provveduto, acconsente a giare con l’ufficiale prussiano, per permettere loro un viaggio sicuro) è seguita da una brusca ricaduta, Palla di sego torna a essere una reietta. Guy De Maupassant lascia parlare i fatti: non è la posizione sociale, il lavoro che troppe volte – per necessità – ci si trova a svolgere…non è il privilegio di nascita, il conto in banca, la casa, gli abiti, gli oggetti…sono altre le cose che qualificano una persona! I cosiddetti “giusti”, spesso, sono più meschini e ipocriti, decisamente più deplorevoli e detestabili di coloro che sono costretti a viaggiare sulla corsia opposta.

Inghilterra

L’Ottocento inglese non vede trascolorare vari periodi culturali ben definiti, come abbiamo visto in Francia che, senza soluzione di continuità passa da un realista “romantico” come Stendhal ad un naturalista come Zola. Infatti tale periodo è quasi tutto interamente dominato dalla regina Vittoria, che permea di sé quasi l’intero secolo. Durante il suo regno, l’Inghilterra vede un incremento del già avviato processo industriale, ottenuto anche attraverso lo sfruttamento di un sempre crescente uso di manodopera infantile. Sarà proprio questo l’argomento che sarà materia del più grande ed esemplare narratore inglese, Charles Dickens.

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Charles Dickens

Charles Dickens (1812 – 1870), la cui infanzia e adolescenza passa da avide letture a lavori degradanti, non può non conservare che un vivido ricordo delle sue condizioni da bambino e di tutti gli altri minori occupati nelle fabbriche. Riscattatosi grazie alla sue capacità, farà di essi l’oggetto della sua narrativa, ma non riuscirà mai né radicalizzare i racconti, tanto da farli diventare grimaldelli con cui incentivare una lotta sociale, in quanto la sua cifra (e quella della stessa regina Vittoria) si ferma ad un umanitarismo riformistico, ben lontano dalle quelle che saranno le denunce zoliane. Tale caratteristica è forse anche dovuta al modo di fruizione dei romanzi di Dickens: quasi l’intera sua produzione uscì a puntate in riviste, dapprima di altrui proprietà, poi edite da lui stesso. Ciò fa sì che il suo pubblico non possa che essere piccolo-borghese, ben consapevole di un necessario aiuto alle classe inferiori, ma ben lontano da qualsiasi rigurgito ribellistico.

Uno dei suoi romanzi più famosi è certamente il David Copperfield, del 1849:

La storia ripercorre per intero la vita di David. Nel 1820 sei mesi dopo la morte del padre, David vive felicemente solo con la madre e la buona governante Peggotty. Quando ha ormai compiuto sette anni, la madre, sentendosi sola, si risposa con Mr. Murdstone, un uomo severo, freddo e inflessibile; ancora più intrattabile e crudele è sua sorella zitella Jane Murdstone, che viene a vivere con loro. Il bambino non prova alcuna simpatia né per il patrigno né per la sorella di lui, e costoro non accettano il suo atteggiamento. Murdstone, con la scusa che il figliastro non è abbastanza diligente negli studi, non esita a picchiarlo, affermando che ciò non può fargli altro che bene. Tuttavia, a seguito di una di queste frequenti punizioni corporali, David gli morde una mano e a quel punto, per infliggergli un ulteriore castigo, il patrigno allontana il bambino dalla madre mandandolo in un collegio privato gestito da un suo conoscente. Qui David fa la conoscenza di Steerforth, un ragazzo più grande ammirato dalla maggior parte degli alunni, e il compagno Traddles, che rimarrà uno dei suoi migliori amici. Il severo e spietato preside Creakle è autore di continue angherie contro i ragazzi e, spesso e volentieri, fa anch’egli ricorso alle punizioni corporali. Tornato a casa per le vacanze, David trova un nuovo fratellino e una madre completamente oppressa dal marito, succube e priva di volontà, che muoiono entrambi poco tempo dopo. Poco dopo inizia a subire pressioni e violenze psicologiche attuate nei suoi confronti da Mr. Murdstone e sua sorella. David è di conseguenza costretto a lasciare il collegio: viene mandato a lavorare come garzone in una fabbrica situata a Blackfriars, il cui proprietario è un commerciante di vini amico e socio d’affari di Mr. Murdstone. Intanto, la ex governante Peggotty si sposa con Mr. Barkis. In questo periodo, il giovane David alloggia presso la famiglia Micawber. Mr. Micawber (tanto buono e innocuo quanto finanziariamente inetto), non essendo in grado di badare alle spese di casa, è arrestato per debiti, dove rimane parecchi mesi prima d’essere rilasciato trasferendosi con l’intera famiglia a Plymouth. David decide di scappare da Londra per raggiungere la casa della zia a Dover.  Dopo mille avventure raggiunge l’abitazione di questa, l’unica parente che gli è rimasta, l’eccentrica e capricciosa ma affettuosa Betsey Trotwood (maritata, pur vivendo separata dal marito); costei ospita in casa uno strano coinquilino chiamato Mr. Dick e una giovane domestica, Janet. Nonostante il tentativo perpetrato da Murdstone di riottenere la custodia del figliastro, la vecchia zia lo accoglie con sé. Col prezioso aiuto di Mr. Dick, Mrs. Betsey riesce a pagare a David gli studi e l’affitto di una stanza presso l’avvocato Wickfield, dove il ragazzo diventa confidente della figlia di lui, Agnes. Rivede anche l’amico Steerforth, al quale, durante una visita compiuta insieme da Peggotty, presenta l’amica d’infanzia Emily, nipote adottata della sua ex governante. Il romantico ma egoista Steerforth seduce a insaputa dell’amico la giovane Emily: la ragazza era promessa al cugino Ham e poco tempo prima delle nozze i due amanti fuggono nella notte, portando la disperazione in casa Peggotty. Peggotty si dedica a lungo a ricercare le tracce della nipote, che alla fine viene ritrovata grazie ad un’amica (una prostituta di nome Martha Endell). Emigrano in Australia con i Micawber, ma Emily non si sposa più. Terminati gli studi, David incomincia il tirocinio presso lo studio legale “Spenlow e Jorkins” e conosce la figlia di Spenlow, Miss Dora, finendo per innamorarsene. Deve al contempo guardarsi dal subdolo, viscido, arrivista e fraudolento impiegato Uriah Heep, i cui misfatti vengono alla fine rivelati grazie all’aiuto del provvidenziale Micawber. David diventa cronista parlamentare e sposa la bella ma ingenua Dora. Dopo qualche anno la moglie muore a causa d’un aborto spontaneo, e David si ritrova da solo nei momenti più difficili. In questo frangente David scopre le virtù di Agnes e inizia a provare un intenso e sincero affetto per lei. Alla fine del libro David sposa Agnes, che da sempre era segretamente innamorata di lui. Troveranno così la felicità: avranno quattro figli, e alla bambina daranno il nome della zia Betsey.

LA DURA SCUOLA DELLA VITA

Sono ora così esperto del mondo, che quasi non so più meravigliarmi di nulla; ma pure mi fa una certa sorpresa pensare che si potesse a quell’età così facilmente abbandonarmi. Ragazzo pieno d’intelligenza e dotato di acute facoltà d’osservazione, vivo, ardente, delicato, estremamente sensibile fisicamente e mentalmente, sembra strano che nessuno si scomodasse a muovere un dito per aiutarmi. Ma nessuno si scomodò; ed io diventai, a dieci anni, un piccolo lavorante, in servizio della ditta Murdstone e Grinby.
Il magazzino di Murdstone e Grinby era sulla riva del fiume, giù a Blackfriars. I moderni restauri hanno cambiato la faccia ai luoghi; ma era nell’ultima casa in fondo a una stradetta angusta, che s’incurvava e discendeva sino al fiume, con alcuni scalini all’estremità, per chi doveva pigliare una barca. Vecchia e decrepita costruzione, con una banchina propria che si sporgeva sull’acqua quando la marea era alta, e nel fango quando la marea era bassa, era tutta quanta invasa letteralmente dai topi. Le stanze coi pannelli scolorati dal sudiciume e dal fumo, forse, d’un centinaio d’anni; i pavimenti e le scale in rovina; le strida acute e le mischie dei vecchi topi grigi nei sotterranei, e il sudicio e il putridume di quel luogo son nel mio spirito cose non di molti anni fa, ma di questo momento. Mi son tutte presenti innanzi, come nella mala ora che le vidi la prima volta, con la mano tremante in quella del signor Quinion.
Il commercio della ditta Murdstone e Grinby comprendeva varie specie di traffici, ma il più importante era costituito dalla fornitura di vini e liquori a una certa Compagnia di battelli, che non so dove andassero principalmente, ma dei quali alcuni di certo approdavano alle Indie Orientali e Occidentali. So che un effetto di quel commercio era una gran quantità di bottiglie vuote, che certi uomini e certi ragazzi erano occupati ad esaminare contro luce e, dopo aver messe da parte le incrinate, a risciacquarle e lavarle. Quando non c’erano bottiglie vuote, c’era da incollar le etichette sulle piene, o da ficcare i turaccioli adatti, o da suggellare i turaccioli, o da schierare in cassette le bottiglie coi turaccioli già suggellati. Tutto questo io dovevo fare, e fui uno dei ragazzi così occupati. Ve n’erano tre o quattro, con me. Il mio posto di lavoro fu fissato in un angolo del magazzino, dove il signor Quinion poteva vedermi, se gli piaceva di salire sull’ultimo piolo del suo sgabello, attraverso una finestra a fianco del tavolino. Ed ivi fu chiamato, la prima mattina di quella mia nuova vita, che cominciava sotto così favorevoli auspici, il maggiore dei ragazzi, perché m’insegnasse il mestiere. Si chiamava Mick Walker, e portava un grembiule sbrindellato e un berretto di carta. Mi raccontò che suo padre era battelliere, e prendeva parte, con un berretto di velluto, alla processione del Lord Mayor. M’informò inoltre che noi avevamo come compagno un altro ragazzo, e me lo presentò col nome straordinario di Fecola di Patate. Scopersi, però, che quel nome non gli era stato dato a battesimo, ma appiccicato nel magazzino, per il color del suo viso, che era pallido d’un bianco di farina. Il padre di Fecola era barcaiuolo, ma anche pompiere in un gran teatro, dove una giovane parente di Fecola – forse la sorellina – rappresentava i folletti nelle pantomime. Non c’è parola che possa esprimere la mia segreta angoscia nell’ora che mi trovai precipitato fra quella gente. Confrontavo quelli che oramai sarebbero diventati i miei compagni d’ogni giorno con quelli della mia infanzia più felice – per non dire con Steerforth, Traddles, e gli altri; e sentivo crollar tutte le speranze che avevo vagheggiate, d’istruirmi e di segnalarmi un giorno.
(…)
La sera, all’ora stabilita, m’apparve il signor Micawber. Mi lavai le mani e la faccia, per far maggior onore alla sua dignità; e prendemmo insieme la via di casa, come credo debba ora chiamarla. Il signor Micawber s’occupò di farmi apprendere i nomi delle vie e notare l’aspetto delle case alle cantonate, mentre s’andava innanzi, perché potessi dirigermi facilmente la mattina appresso. Arrivati alla sua casa (la quale al pari di lui era frusta; ma, come lui anche, sfoggiava la maggior pompa possibile), egli mi presentò alla signora Micawber, una donna pallida e appassita, non più giovane, che sedeva nel salotto (il primo piano era assolutamente sfornito di mobili, e aveva le tendine abbassate per gli occhi dei vicini) con un bambino al petto. Il bambino era uno di due gemelli; e posso dire qui che non una volta, nel tempo della mia dimora colà, mi accadde di vedere entrambi i gemelli distaccati contemporaneamente dalla signora Micawber. Uno era sempre occupato a sorbire un rinfresco. V’erano altri due bambini; il signorino Micawber, di circa quattro anni, e la signorina Micawber di circa tre. Questi, e una servetta di color bruno, che aveva il vizio di sbuffar col naso, come i cavalli, e m’informò, dopo mezz’ora, che era orfana ed era uscita dal vicino ospizio di San Luca, completavano la famiglia. La mia camera era di sopra, al di dietro, piccola, molto poveramente arredata e parata di certa carta che rappresentava alla mia immaginazione infantile una gran quantità di ciambelle azzurre. – Non pensavo mai – disse la signora Micawber, dopo esser salita su, gemello e tutto, a mostrarmi la camera, e sedendosi per riprender fiato – non pensavo mai prima di maritarmi, quando ero con papà e mamma, che un giorno avrei dovuto appigionare delle camere in casa mia. Ma mio marito è adesso in condizioni difficili, e ogni considerazione del nostro sentimento intimo si deve far tacere.
Io dissi: «Sì, signora.»
(…)

Il centro del portone di casa era interamente coperto da una gran targa di ottone su cui era inciso: «Istituto per Signorine della signora Micawber»: ma non mi risultò che alcuna signorina avesse mai frequentato quel collegio, o lo frequentasse, o si proponesse di frequentarlo, né che fosse mai stato fatto il minimo preparativo per riceverne una. Gli unici visitatori che io vidi, o di cui udii parlare, erano i creditori. Quelli arrivavano a tutte le ore e alcuni di essi erano decisamente feroci. Un certo tale dalla faccia sporca, credo che fosse un calzolaio, era solito infilarsi nel corridoio già alle sette del mattino e gridare dalle scale al signor Micawber: «Venite fuori! Non siete ancora uscito, lo sapete bene. Volete pagarmi o no? Non nascondetevi; lo sapete che è una bassezza. Se fossi in voi non sarei così meschino. Mi pagate o no? Dovete pagarmi, mi sentite? Venite fuori!» Non ricevendo risposta a queste intimazioni, passava pieno di furia alle espressioni: «Imbroglioni» e «ladri»; e poiché anche queste rimanevano senza effetto, ricorreva a volte all’estremo espediente di attraversar la strada e tuonare verso le finestre del secondo piano, dove sapeva che c’era il signor Micawber. In queste occasioni il signor Micawber era trascinato dal dolore e dall’umiliazione (me ne accorsi una volta dalle strida di sua moglie) fino al punto di mostrar di agire contro se stesso con un rasoio; ma mezz’ora dopo si puliva con estrema cura le scarpe e usciva mugolando un motivetto con un’aria più aristocratica che mai. La signora Micawber possedeva una non minore elasticità. L’ho vista cadere in deliquio alle tre, davanti alla cartella delle tasse, e, alle quattro, mangiare cotolette di vitello impanate e bere birra calda, il tutto pagato con due cucchiai da tè portati al monte dei pegni.
(…)
In questa casa e con questa famiglia trascorrevo le mie ore di libertà. Provvedevo da solo alla mia colazione con una pagnottina da un penny e un penny di latte. Tenevo un’altra pagnottina e un pezzetto di formaggio su di un particolare scaffale di una particolare credenza per farne la mia cena quando tornavo la sera. Tutto ciò apriva un vuoto nei miei sei o sette scellini, lo so fin troppo; stavo nel magazzino tutto il giorno e dovevo mantenermi con questa somma per tutta la settimana. Dal lunedì mattina al sabato sera non avevo consigli, né guida, né incoraggiamento, né conforto, né assistenza, né aiuto di alcun genere né da parte di alcuno che possa ricordare, quanto è vero che spero di andare in paradiso!
(…)
So di non esagerare, inconsciamente e involontariamente, la scarsità delle mie risorse e le difficoltà della mia vita. So che, se mai il signor Quinion mi dava uno scellino, in qualsiasi momento, lo spendevo in un desinare o in una merenda. So che lavoravo dalla mattina alla sera, cencioso fanciullo, con uomini e ragazzi volgari. So che vagabondavo per le strade nutrito scarsamente e male. So che, se non fosse stato per la grazia divina, sarei potuto facilmente divenire, tanta era la cura che ci si prendeva di me, un ladroncello o un piccolo vagabondo.

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David Copperfield in fabbrica

E’ evidente la distanza di un brano come questo, non dico col romanzo zoliano, più tardo, ma anche col romanzo flaubertiano: in primo luogo la mozione degli affetti, ovvero sia il sentimentalismo (… mi abbiano cacciato via, nonostante gli anni che avevo), ciò non toglie alla pagine una certa attenzione al dato sociale, la vita della fabbrica, ma, ancora (ricordiamo che il romanzo uscì a puntate) un “dato” più leggero, che può spingere fino al sorriso (l’episodio del calzolaio). A tale proposito non mi sembra inopportuno ricordare che Dickens divenne famoso con un romanzo “comico” come Il Circolo Pickwick.

Un altro grande romanzo è Tempi difficili del 1854:

Thomas Gradgrind è un ricco mercante in pensione che vive nella città industriale di Coketown, in Inghilterra, che dedica la sua vita alla filosofia del razionalismo, dell’interesse personale e della realtà. Cresce i figli maggiori, Louisa e Tom, secondo questa filosofia e non permette loro di impegnarsi in attività di fantasia. Fonda una scuola e prende in simpatia uno degli studenti, il fantasioso Sissy Jupe che, dopo la scomparsa del padre, è diventato intrattenitore al circo. Ma i figli di Gradgrind, crescendo, diventano infelici: Tom è un egoista; Louisa ha una profonda confusione interiore e si sente come se mancasse qualcosa di importante nella sua vita. Alla fine Louisa sposa l’amico di Gradgrind, Josiah Bounderby, proprietario di una fabbrica e ricco e banchiere, anche se è molto più grande di lei. Tom diventa apprendista nella banca Bounderby, e Sissy rimane alla casa di Gradgrind per prendersi cura dei bambini più piccoli. Nel frattempo, Stephen Blackpool, un operaio povero degli stabilimenti di Coketown, lotta contro il suo amore per Rachael: lui è già sposato con un’orribile donna alcolizzata che sparisce per mesi almeno una volta all’anno. Consultando Bounderby per un parere legale, Stephen scopre che il divorzio è concesso solo ai ricchi. Fuori casa di Bounderby, incontra la signora Pegler, una strana vecchia con una devozione inspiegabile verso Bounderby. James Harthouse, un giovane ricco londinese, arriva a Coketown per intraprendere la carriera politica come discepolo di Gradgrind, che è anche membro del Parlamento. Il giovane mostra subito interesse per Louisa e decide di sedurla con l’aiuto della signora Sparsit, un’ex aristocratica che è caduta in disgrazia e che lavora per Bounderby. Gli operai, esortati da un portavoce, Slackbridge, cercano di formare un sindacato a cui solo Stephen rifiuta di aderire perché sente che uno sciopero sindacale non farebbe altro che aumentare le tensioni tra datori di lavoro e dipendenti. Ma, quando si rifiuta di spiare i suoi compagni, viene licenziato da Bounderby. Louisa, colpita dall’integrità di Stephen, va a trovarlo prima che lasci Coketown e lo aiuta dandogli dei soldi. Stephen lascia Coketown sperando di trovare lavoro agricolo nel paese ma dopo un po’ di tempo la banca dove era stato visto bighellonare viene derubata e lui viene accusato di rapina. La signora Sparsit, testimone dell’amore di Harthouse per Louisa, accetta di incontralo a Coketown in tarda notte. Louisa si rifugia in casa del padre e gli confida che la sua educazione l’ha portata a sposare un uomo che non ama, freddo e infelice e che lei, invece, ama Harthouse. La donna è disperata e Gradgrind, ammutolito, inizia ad avere dubbi sulla sua filosofia fondata sulla razionalità e l’interesse personale. Sissy, follemente innamorato di Louisa, convince Harthouse a lasciare Coketown per sempre. Bounderby, furioso perchè sua moglie lo ha lasciato, raddoppia gli sforzi per catturare Stephen. Quando Stephen cerca di ritornare in città, cade in un pozzo minerario chiamato Old Hell Shaft. Rachael e Louisa lo ritrovano ma lui muore dopo uno struggente addio a Rachael. Gradgrind e Louisa si rendono conto che è il vero responsabile della rapina in banca. Con l’aiuto di amici circensi, cercano di ritrovarlo ma vengono fermati da Bitzer, un giovane che ha frequentato la sua scuola e che incarna tutte le qualità del razionalismo indipendente che Gradgrind aveva sposato per anni. Sleary, il titolare del circo, aiuta Tom a fuggire dall’Inghilterra. La signora Sparsit, ansiosa di aiutare Bounderby a trovare i ladri, trascina la signora Pegler, nota socia di Stephen Blackpool, da Bounderby, pensando che possa essere una potenziale testimone. Dopo aver scoperto che la signora Pegler è la sua vera madre, con rabbia, Bounderby spara contro la signora Sparsit e la manda via. Cinque anni dopo, morirà da solo per le strade di Coketown.  Gradgrind abbandona la sua filosofia della razionalità e impiega il suo potere politico per aiutare i poveri. Tom capisce il suo errore ma muore senza mai vedere di nuovo la sua famiglia. Sissy si sposa e crea una grande e affettuosa famiglia. Louisa, invece, rimarrà tutta la vita senza marito né figli ma verrà accolta e amata dalla famiglia di Sissy, scoprendo finalmente l’affetto tra esseri umani.

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Illustrazione di Coketown

COKETOWN, LA CITTA’-FABBRICA

Coketown, verso la quale dirigevano i loro passi Gradgrind e Bounderby, era un trionfo di fatti; non c’era la benché minima traccia di fantasia lì, non più di quanto ce ne fosse nella signora Gradgrind. Prima di eseguire l’intera melodia, facciamo risuonare la nota dominante: Coketown. Era una città di mattoni rossi o, meglio, di mattoni che sarebbero stati rossi, se fumo e cenere lo avessero consentito. Così come stavano le cose, era una città di un rosso e di un nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio; una città piena di macchinari e di alte ciminiere dalle quali uscivano, snodandosi ininterrottamente, senza mai svoltolarsi del tutto, interminabili serpenti di fumo. C’era un canale nero e c’era un fiume violaceo per le tinture maleodoranti che vi si riversavano; c’erano vasti agglomerati di edifici pieni di finestre che tintinnavano e tremavano tutto il giorno; a Coketown gli stantuffi delle macchine a vapore si alzavano e si abbassavano con moto regolare e incessante come la testa di un elefante in preda a una follia malinconica. C’erano tante strade larghe, tutte uguali fra loro, e tante strade strette ancora più uguali fra loro; ci abitavano persone altrettanto uguali fra loro, che entravano e uscivano tutte alla stessa ora, facendo lo stesso scalpiccio sul selciato, per svolgere lo stesso lavoro; persone per le quali l’oggi era uguale all’ieri e al domani, e ogni anno era la replica di quello passato e di quello a venire.
Questi attributi di Coketown erano in gran parte inseparabili dall’industria che dava da vivere alla città; su questo sfondo, in contrasto, c’erano gli agi del vivere che si diffondevano in tutto il mondo; c’erano la raffinatezza e la grazia del vivere che contribuivano – non indaghiamo in quale misura – a creare quella gentildonna elegante che storceva il nasino al solo sentir nominare il luogo or ora descritto.
Non c’era nulla a Coketown che non stesse a indicare una industriosità indefessa. Se i seguaci di una setta religiosa decidevano di erigere una chiesa – cosa che avevano fatto i seguaci di diciotto sette – ne saltava fuori un pio magazzino di mattoni rossi, sormontato, a volte (ma soltanto negli esemplari più raffinati), da una campana racchiusa in una specie di gabbia per uccelli. Unica eccezione era la Chiesa Nuova: un edificio intonacato che, sopra alla porta principale, aveva un campanile quadrato con in cima quattro pinnacoli simili a robuste gambe di legno. In città tutte le insegne degli edifici pubblici erano negli stessi identici austeri caratteri bianchi e neri. La prigione avrebbe potuto essere l’ospedale, l’ospedale avrebbe potuto essere la prigione, il municipio avrebbe potuto essere o l’uno o l’altro oppure tutti e due, o anche qualsiasi altra cosa, perché nulla, nelle linee aggraziate di quegli edifici, serviva a identificarli. Fatti, fatti, fatti dappertutto nell’aspetto materiale della città; fatti, fatti, fatti dappertutto in quello immateriale. Era un fatto la scuola di M’Choakumchild, era un fatto la scuola di disegno, erano fatti i rapporti fra padrone e operaio; solo fatti si estendevano fra l’ospedale in cui si veniva alla luce e il cimitero, e quello che non si poteva esprimere in cifre, che non si poteva comperare al prezzo più basso e vendere a quello più alto, non esisteva, non sarebbe esistito mai, nei secoli dei secoli, Amen.
In una città così dedita al fatto, così trionfalmente sicura della sua supremazia, naturalmente tutto andava a gonfie vele, vero? Be’, non proprio. No? Povero me!
No. Dai suoi altiforni la città non usciva splendente e radiosa come un pezzo d’oro purificato dal fuoco. C’era innanzitutto un mistero imbarazzante: chi erano i seguaci delle diciotto sette religiose? Di chiunque si trattasse non erano certamente gli operai. Strana sensazione quella che si provava alla domenica mattina, quando, passeggiando per le strade, ci si rendeva conto quanto fossero pochi coloro che, rispondendo al barbaro richiamo della campana che faceva impazzire la gente con i nervi a pezzi o ammalata, lasciavano i loro alloggi, le loro anguste stanze, gli angoli delle strade dove indugiavano con aria svogliata, guardando quelli che si recavano in chiesa o alla cappella, come se la cosa non li riguardasse affatto. Non erano soltanto i forestieri a notare tanta indifferenza; a Coketown stessa era sorta un’associazione i cui membri, a ogni sessione della camera dei Comuni, inoltravano indignate petizioni, sollecitando l’emanazione di una legge che imponesse con la forza a quella gente di diventare religiosa. Veniva poi la Lega della Temperanza, la quale protestava perché quella stessa gente si ubriacava, – che si ubriacasse era certo, tanto di statistiche lo provavano – e dimostrava (durante l’ora del tè) che nessun argomento umano o divino (tranne una medaglia) l’avrebbe persuasa a non farlo. Veniva poi il chimico e farmacista il quale, statistiche alla mano, dimostrava che, quando quella gente non si ubriacava, si metteva a fumare oppio. Seguiva il cappellano della prigione, uomo di vasta esperienza, che con una mole di statistiche superiore a tutte le precedenti, dimostrava che quella stessa gente frequentava luoghi ignobili, nascosti ai più, dove ascoltava ignobili canzoni e guardava ignobili danze e, chissà?, magari anche ci partecipava.
(…)
Venivano poi i signori Gradgrind e Bounderby, i due gentiluomini che in quel momento attraversavano Coketown, entrambi eminentemente pratici, che, se necessario, avrebbero potuto fornire altre statistiche, frutto della loro personale esperienza e confermate da casi che loro stessi avevano visto e conosciuto; da tutto questo risultava chiaro – anzi era l’unica cosa chiara – che questa era tutta gentaglia, signori, che non sarebbe mai stata riconoscente per quello che si faceva per il loro bene; che era sempre in subbuglio, che non sapeva quello che voleva, che viveva di quanto c’era di meglio e comperava burro fresco; che insisteva nel volere vero caffè e non voleva sentirne parlare di carne che non fosse di prima scelta e che, nonostante tutto questo, era sempre scontenta e intrattabile. In breve era la morale della vecchia filastrocca:

C’era una vecchietta: sapete cosa faceva?
Da mangiar e da bere in tavola metteva;
Mangiare e bere erano tutta la sua dieta,
Eppur la vecchietta non se ne stava mai quieta.

Coketown è una tipica città industriale, una città moderna, efficiente, concreta, dove tutto è finalizzato al lavoro, alla produttività: è quindi uno dei luoghi dove l’Inghilterra costruisce la sua ricchezza e la sua potenza. Tutto ciò ha però dei costi: gli edifici di Coketown sono privi di colori, i vicoli sono angusti e bui e, inoltre, la città stessa è uniformità, tutta uguale (era un trionfo del fatto, poiché non si era lasciata corrompere dalla fantasia). Da notare è anche l’uniformità dei suoi abitanti, dei loro pensieri e comportamenti meccanicizzati: operosa, ordinata, è diventata come la merce che produce, anonima e sempre uguale.

I toni con cui Dickens ritrae questa realtà non hanno la crudezza e la violenza di quelli del naturalista francese Émile Zola, per cui provocare il lettore è parte del gioco: qui la realtà passa attraverso il filtro dell’umorismo, del sorriso sarcastico che deforma. (Barberi Squarotti).

Russia

La letteratura russa si era già affacciata in Europa con forza e capacità durante il primo Ottocento, grazie a personalità come Puškin e Lermontov. E saranno proprio costoro i “padri” della grandissima fioritura del secondo Ottocento che farà della narrativa russa, insieme alla francese, un punto di riferimento imprescindibile della cultura europea (non ci sembra inopportuno segnalare che sarà proprio il paese transalpino a fare da mediatore).

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Nikolaj Vasil’evič Gogol’

Alla base del realismo russo sta la “narrativa umanitaria” la cui attenzione è rivolta alle miserrime condizioni della servitù della gleba e la nascita del relativo movimento per la loro emancipazione. A tale narrativa parteciperà anche Nikolaj Vasil’evič Gogol’, che sebbene in modo non esaustivo, tocca tale tematica soprattutto nel romanzo Anime morte (1842).

Pavel Ivanovič Čičikov viaggia attraverso la Russia comprando a poco prezzo “anime morte”, cioè i nomi dei contadini (“anime” nella Russia zarista”) morti dopo l’ultimo censimento e sui quali i proprietari erano tenuti a pagare la tassa governativa sino al censimento successivo. Il suo piano è di servirsi di quelle “anime” (vive solo per la legge) per ottenere le assegnazioni di terre concesse a chi dimostrava di possedere un certo numero di servi della gleba. Il romanzo è un vasto affresco della Russia rurale e provinciale quale si offre agli occhi di Čičikov attraverso i proprietari, le case, le locande, i cocchieri, i contadini, i notabili di provincia. Spiccano tra i molti personaggi appunto i proprietari con cui conduce le trattative: lo sdolcinato Manilov, pigro e distratto; la vecchia Korobočka, avida e calcolatrice; l’invadente Nozdriov, mitomane e beone, l’unico che intravede la truffa e non gli vende “anime morte”; Sobakevič, l’uomo alla buona ma accorto negli affari; l’avarissimo Pliuškin. Čičikov a un certo punto riesce a passare per milionario nella piccola città dove ha preso dimora, viene adulato, vezzeggiato e ogni porta gli è aperta. Ma lentamente affiora la verità e Čičikov si affretta a partire.

LE ANIME MORTE 

«Permetta che le chieda di accomodarsi su questa poltrona» disse Manilov. «Qui starà più comodo.» «Permetta, mi siederò sulla sedia.» «Permetta che non glielo permetta» disse Manilov con un sorriso. «Quella poltrona è riservata ai miei ospiti: volente o nolente vi si deve sedere.» Čičikov si sedette. «Permetta che le offra una pipetta.» «Grazie, non fumo» rispose Čičikov teneramente e quasi con aria di rammarico. «Come mai?» chiese Manilov, pure teneramente e con aria di rammarico. «Non ho mai preso l’abitudine, ho paura; dicono che la pipa faccia male.» «Permetta che le faccia osservare che si tratta di un pregiudizio. Anzi ritengo che fumare la pipa sia molto più salutare che fiutare tabacco. Nel nostro reggimento c’era un tenente, ottima persona, di grande cultura, che non si toglieva mai la pipa di bocca non solo a tavola, ma anche, con licenza parlando, in qualsiasi altro posto. Ed ecco che ha già più di quarant’anni, ma, ringraziando Dio, finora è sano come un pesce.» Čičikov osservò che infatti eran cose che capitavano e che in natura si riscontravano molti fenomeni inspiegabili anche per una mente aperta. «Ma permetta prima una domanda…» disse con una voce in cui si sentiva un’espressione strana o quasi strana, e subito dopo chissà perché si guardò alle spalle. Anche Manilov chissà perché si guardò alle spalle. «Quanto tempo fa ha consegnato la lista per il censimento?» «Oh, è ormai molto tempo; o per meglio dire non ricordo.» «E quanti contadini le sono morti da allora?» «Non lo saprei dire; credo che occorra chiederlo al fattore. Ehi, ragazzo! chiama il fattore, oggi dovrebbe essere qui.» Comparve il fattore. Era un uomo sulla quarantina, sbarbato, che portava la finanziera ed evidentemente conduceva una vita assai pacifica, perché la sua faccia era di una grassezza soffice, mentre il colore giallastro della pelle e gli occhi piccini mostravano che sapeva fin troppo bene cosa fossero trapunte e piumini. Si vedeva subito che aveva fatto carriera come la fanno tutti i fattori dei signori; era stato prima semplicemente un ragazzetto di casa capace di leggere e scrivere, poi aveva sposato una qualche Agaška-dispensiera, favorita del padrone, era diventato lui stesso dispensiere, e poi anche fattore. E divenuto fattore agiva, chiaramente, come tutti i fattori; se la intendeva con i più ricchi del villaggio e oberava di tributi i più poveri, si svegliava dopo le otto del mattino, aspettava il samovar e beveva il tè. «Ascolta, mio caro, quanti contadini ci sono morti da quando abbiamo consegnato la lista?» «Come sarebbe a dire quanti? Ne son morti tanti da allora» disse il fattore con un colpo di singhiozzo, che cercò di dissimulare coprendosi un po’ la bocca con la mano. «Sì, confesso che lo pensavo anch’io» intervenne Manilov, «proprio così, ne sono morti moltissimi!» Qui si rivolse a Čičikov e aggiunse ancora: «Infatti, moltissimi.» «E pressappoco in che numero?» domandò Čičikov. «Sì, in che numero?» ripeté Manilov. «E come si fa a dire il numero? Non si sa mica quanti ne sono morti, nessuno li ha contati.» «Già, infatti» disse Manilov, rivolgendosi a Čičikov, «anch’io supponevo che ci fosse un’alta mortalità; non si sa proprio quanti ne siano morti.» «Per favore, contali» disse Čičikov, «e fa’ una bella lista dettagliata con tutti i nomi.» «Sì, con tutti i nomi» disse Manilov. Il fattore disse: «Sissignore!» e se ne andò. «E per quali motivi le occorre?» domandò Manilov quando fu uscito il fattore. Questa domanda sembrò mettere in difficoltà l’ospite, sul suo viso apparve una certa espressione tesa, che lo fece perfino arrossire: era la tensione per esprimere qualcosa che mal si piegava alle parole. E in effetti Manilov finì coll’udire cose così strane e insolite, quali orecchio umano non aveva mai sentito prima. «Lei domanda per quali motivi? Ecco quali: vorrei comprare dei contadini…» disse Čičikov, s’impappinò e non finì il discorso. «Ma permetta che le domandi» disse Manilov, «come desidera comprare i contadini: con la terra o semplicemente per trasferirli, cioè senza terra?» «No, non è che voglia proprio dei contadini» disse Čičikov, «voglio avere i morti…» «Come? Mi scusi… sono un po’ duro d’orecchio, mi è parso di sentire una parola alquanto strana…» «Intendo acquistare i morti che però sulla lista del censimento figurino come vivi» disse Čičikov. Manilov lasciò subito cadere a terra il cannello con la pipa turca, aprì la bocca, e così restò, a bocca aperta, per diversi minuti. I due amici, che avevano ragionato dei piaceri dell’amicizia, restarono immobili a fissarsi negli occhi, come quei ritratti che nei tempi andati si appendevano uno di fronte all’altro ai due lati di uno specchio. Finalmente Manilov raccolse la pipa col cannello e lo guardò in viso di sotto in su, cercando di scoprire se non ci fosse qualche sorrisetto sulle sue labbra, se non avesse scherzato; ma non si vedeva nulla di simile, anzi il suo viso sembrava perfino più serio del solito; poi si chiese se l’ospite non fosse per caso impazzito di colpo, e con terrore lo guardò intensamente; ma gli occhi dell’ospite erano perfettamente limpidi, in essi non c’era il fuoco selvaggio, inquieto, che guizza negli occhi di un pazzo, tutto era normale e a posto. Per quanto Manilov si scervellasse pensando a come doveva comportarsi e a cosa doveva fare, non trovò niente di meglio che soffiare dalla bocca il fumo che vi era rimasto, in un filo sottilissimo. «E così, desidererei sapere se lei mi può cedere, o vendere, o quel che riterrà più opportuno, questi soggetti che non sono vivi in realtà, ma lo sono formalmente per la legge.» Ma Manilov era così confuso e imbarazzato che lo guardava e basta. «Mi pare che lei faccia qualche difficoltà?…» osservò Èièikov. «Io?… no, non è questo» disse Manilov, «ma non riesco a capire… mi scusi… io, naturalmente, non ho potuto ricevere un’educazione così brillante come quella che, per così dire, trapela da ogni suo gesto; non sono maestro nell’arte di esprimermi… Forse qui… nella spiegazione da lei ora enunciata… si cela dell’altro… Forse ha voluto esprimersi così per amor del bello stile?» «No» riprese Èièikov, «no, intendo la cosa così com’è, cioè proprio le anime che sono già morte.» Manilov si smarrì completamente. Sentiva che doveva fare qualcosa, porre qualche domanda, ma quale domanda? Il diavolo lo sapeva. Andò a finire che soffiò nuovamente il fumo, però non più dalla bocca, bensì attraverso le narici. «E così, se non ci sono ostacoli, con l’aiuto di Dio si potrebbe passare a stipulare un contratto di compravendita» disse Èièikov. «Come, un contratto di vendita di anime morte?» «Ah, no!» disse Èièikov. «Scriveremo che sono vive, così come effettivamente risulta dalla lista del censimento. Sono abituato a non scostarmi in nulla dalle leggi civili, benché per questo abbia sofferto nella mia carriera, ma deve scusarmi: il dovere per me è cosa sacra, la legge… io ammutolisco dinanzi alla legge.» Queste ultime parole piacquero a Manilov, ma il senso della faccenda in sé continuava a sfuggirgli, e invece di rispondere si mise a succhiare così forte il suo cannello, che questo alla fine cominciò a gorgogliare come un fagotto. Sembrava che volesse tirarne fuori un parere rispetto a una circostanza così inaudita; ma il cannello gorgogliava e basta. «Forse lei ha dei dubbi?» «Oh! per carità, niente affatto. Non dico questo perché abbia, sì insomma, dei pregiudizi critici su di lei. Ma mi permetta di chiedere se questa transazione o, per meglio esprimersi, per così dire, questo negozio, se dunque questo negozio non sarà in contrasto con la legislazione civile e gli ulteriori intenti della Russia?» Qui Manilov, fatto un lieve cenno col capo, guardò in faccia Èièikov con aria molto significativa, mostrando in tutti i lineamenti del suo viso e nelle labbra serrate un’espressione così profonda che, forse, non si era mai vista su volto
umano, tranne forse nel caso di qualche ministro troppo intelligente, e anche lì solo di fronte alla questione più intricata. Ma Èièikov disse semplicemente che una tale transazione, o negozio, non sarebbe stata affatto in contrasto con la legislazione civile e gli ulteriori intenti della Russia, e un minuto dopo aggiunse che l’erario ne avrebbe tratto addirittura profitto, poiché avrebbe incassato l’imposta di registro prevista dalla legge. «Dunque lei ritiene?…» «Ritengo che sarà una buona cosa.» «Ah, se sarà buona, allora è un’altra faccenda: non ho nulla in contrario» disse Manilov e si tranquillizzò del tutto. «Ora non resta che accordarsi sul prezzo.» «Come sul prezzo?» disse nuovamente Manilov e si fermò. «Davvero lei crede che prenderò denaro per delle anime che in un certo senso hanno concluso la loro esistenza? Se le è venuto questo desiderio, per così dire, fantasioso, da parte mia gliele cedo gratis e mi assumo gli oneri del contratto di compravendita.» Sommamente riprovevole sarebbe lo storico degli avvenimenti qui presentati, se tralasciasse di dire che l’ospite fu invaso dalla contentezza dopo tali parole pronunciate da Manilov. Per quanto fosse posato e riflessivo, a questo punto per poco non fece un saltello a somiglianza di un caprone, il che, come è noto, avviene soltanto nei più forti accessi di gioia. Si voltò così impetuosamente sulla poltrona, che si squarciò il tessuto di lana che ricopriva il cuscino; perfino Manilov lo guardò con una certa perplessità. Mosso dalla riconoscenza, Èièikov si mise a snocciolare tanti ringraziamenti, che l’altro si confuse, arrossì tutto, fece un cenno di diniego col capo e solo alla fine riuscì a dire che era una cosa da nulla, che egli avrebbe voluto davvero dimostrare in qualche modo l’inclinazione del suo cuore, il magnetismo dell’anima, mentre le anime morte in un certo senso erano un’assoluta inezia.

La parte riportata dal romanzo ci descrive, in un quadretto, la tecnica con cui Čičikov circuisce i notabili cui si rivolge. E’ certamente una pagina che strappa il sorriso, ma il sorriso è amaro quando ci si accorge che ciò che di cui realmente parla è una società arcaica nella quale i servi, legati alla terra e al possidente, erano considerati alla stregua degli altri animali domestici, venduti, comprati e sfruttati. Un mondo in cui l’aristocrazia e la burocrazia zarista dominavano senza intralci un popolo che viveva nella miseria. Il sarcasmo che attraversa l’intero romanzo, denuncia una forte critica sociale e un rigoroso atto di accusa contro un sistema profondamente iniquo. Sotto il titolo Le Anime morte bisognava quindi riconoscere non i servi deceduti ma i gretti personaggi della buona società, incapaci di umanità.

Tutto questo Gogol’ lo affronta con un’accentuata volontà satirica che porta alla caricatura, all’accentuazione delle linee di carattere, spinte fino al grottesco. Cifra stilistica che conserva anche nell’altro suo capolavoro, I racconti di Pietroburgo, pubblicati dopo la sua morte, di cui ci piace ricordare perlomeno Il cappotto ed Il naso.

Il secondo grande autore russo su cui ci soffermiamo è Ivan Aleksandrovič Gončarov (1812 -1891), la cui fama è legata soprattutto al romanzo Oblomov (1859).

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Ivan Aleksandrovič Gončarov

Oblomov è un uomo di non comuni qualità di cuore e di intelligenza, che vive nell’indolenza più assoluta. Il suo amico, Štol’c chiama il suo vivere di rendita, sonnecchiare, contemplare “oblomovismo”. Per Štol’c il lavoro è vita, energia; per Oblomov un impaccio. Servito dal fedele e rozzo Zachàr, Oblomov vegeta e sogna, ogni specie di sogni, nei quali domina Oblomovka, la proprietà dei suoi avi, che, per pigrizia, sta lasciando andare in rovina. Ama la giovane Ol’ga, si fidanza con lei, ma la lascia, atterrito dalla richiesta di lei di un radicale mutamento di vita, di una più attiva partecipazione alla gestione del patrimonio. Ol’ga sposerà poi Štol’c, Oblomov la sua padrona di casa, Agafja Matveena, semplice e rozza, ma brava massaia. Štol’c amministrando Oblomovka l’ha fatta rifiorire e ha salvato Oblomov da una truffa che rischiava di rovinarlo. Ma è troppo tardi per scuoterlo dal torpore in cui è caduto. Poco dopo Oblomov muore, lasciando un figlio, di cui si occuperà Štol’c, e un ricordo incancellabile quanto conturbante della sua mitezza d’animo.

OBLOMOV

Ma che cosa faceva in casa? Leggeva? Scriveva? Studiava?
Sì: se gli capitava fra le mani un libro o un giornale, lo leggeva.
Se sentiva parlare di una qualche opera degna di nota, gli veniva voglia di conoscerla; cercava, chiedeva il libro e, se glielo portavano presto, ci si buttava a capofitto, cominciava a farsi un’idea del soggetto… ma quando gli bastava ancora un passo per impadronirsene completamente, lo vedevi già sdraiato, con lo sguardo apatico fisso al soffitto e con il libro abbandonato, lasciato a mezzo, incompreso.
Il disinteresse si impadroniva di Il’ja Il’ič ancor più in fretta dell’entusiasmo, ed egli non tornava mai più al libro interrotto.
A suo tempo aveva studiato, come gli altri, come tutti, cioè fino a quindici anni in collegio; poi i genitori, dopo lunga lotta, avevano deciso di mandare Iljuša a Mosca, dove il giovane, volente o nolente, aveva seguito i corsi sino alla fine. Il carattere timido e apatico gli aveva impedito di manifestare appieno la sua ignavia e la sua incostanza nella scuola, dove non si facevano eccezioni per i figli viziati. Dacché era obbligato, in classe restava composto, ascoltava ciò che dicevano gli insegnanti perché non era possibile fare altrimenti, e con fatica, sudando e sospirando, imparava le lezioni.
Egli considerava tutto ciò come un castigo del cielo per i nostri peccati.
Non guardava al di là della riga sotto la quale l’insegnante, nell’assegnare il compito, aveva lasciato un segno con l’unghia; non faceva domande, non chiedeva spiegazioni.
Gli bastava ciò che era scritto nel quaderno, e non manifestava curiosità importune nemmeno quando non comprendeva quello che ascoltava e imparava. Se in qualche modo riusciva ad arrivare in fondo a un testo di statistica, di storia, di economia politica, era più che soddisfatto.
Ma quando Stolz gli portava dei libri che riteneva bisognasse leggere, oltre quelli di scuola, Oblomov lo guardava a lungo, in silenzio.
«Anche tu, Bruto, sei contro di me?», concludeva con un sospiro prendendo i libri. Queste eccessive letture gli sembravano gravose e contro natura.
A che servivano tutti quei quaderni, buoni solo a far sprecare carta, tempo e inchiostro? A che servivano i libri di scuola? A che servivano, infine, sei o sette anni di clausura, la severità, le punizioni, il tormento di assistere alle lezioni, il divieto di correre, di scatenarsi, di divertirsi prima di aver finito i compiti?
«Ma quando potrò vivere?», ripeteva a se stesso. «Quando farò finalmente fruttare questo capitale di conoscenze, la maggior parte delle quali, ci scommetto, non mi serviranno a niente nella vita? L’economia politica, per esempio, l’algebra, la geometria… a che mi serviranno nelle mie terre?».  
(…)  
Dopo la morte dei vecchi, l’economia del villaggio non solo non migliorò, ma, come è dato vedere dalla lettera dello starosta, andò peggiorando. Era chiaro che Il’ja Il’ič doveva andare di persona sul posto per ricercare le cause del calo progressivo del suo reddito.
Egli si proponeva di farlo, ma poi rimandava sempre, in parte perché un viaggio era per lui un’impresa quasi nuova e sconosciuta. In tutta la sua vita aveva fatto un solo viaggio, lentissimo, senza cambiar cavalli, in mezzo a piumini, cofani, valigie, prosciutti, panini, arrosti e bolliti di ogni genere, in compagnia di alcuni servitori.
Così aveva fatto il suo unico viaggio dal paese natio a Mosca, viaggio che considerava come il modello di tutti i viaggi.
E adesso aveva sentito dire che non si viaggiava più così: si galoppava a rotta di collo!
Il’ja Il’ič aveva rimandato il viaggio anche perché non era preparato ad occuparsi dei suoi affari.
Non era davvero come il padre e come il nonno, lui. Aveva studiato, conosceva il mondo: tutto ciò lo aveva portato a diverse considerazioni che a loro erano estranee. Comprendeva che non solo il profitto non era un peccato, ma che era dovere di ogni cittadino contribuire con un lavoro onesto al benessere generale. Per questo la maggior parte del disegno di vita che egli tracciava nella sua solitudine era dedicata a un progetto nuovo di zecca, aderente alle esigenze dei tempi, riguardante la riorganizzazione della proprietà e il governo dei suoi contadini.
Egli aveva ben chiara in testa l’idea fondamentale del progetto, le sue suddivisioni e parti principali: rimanevano solo i particolari, i preventivi e le cifre.
Già da alcuni anni lavora infaticabilmente al suo progetto, ci pensa, ci riflette quando è in piedi, quando è coricato, quando è fra la gente; ora completa, ora modifica diversi paragrafi, ora cerca di farsi tornare in mente ciò che aveva pensato il giorno prima e dimenticato durante la notte; ma a volte, improvvisamente, come una folgore, gli balena in testa un’idea nuova e inaspettata… e il lavoro ricomincia.
Egli non è un qualsiasi piccolo esecutore di un’idea altrui, già pronta: è il creatore e l’esecutore delle sue proprie idee. Non appena si alza dal letto la mattina, dopo aver preso il tè, si stende subito sul divano, appoggia il capo sulle mani, e medita, senza risparmio di forze, fino al momento in cui si sente il cervello pesante per l’eccessiva fatica e la coscienza gli dice: hai lavorato abbastanza, oggi per il bene comune. Solo allora egli decide di riposarsi e abbandona l’atteggiamento solerte per assumerne un altro sollecito e severo, e più consono alle fantasticherie e al piacere. Liberatosi dalle preoccupazioni degli affari, Oblomov amava ripiegarsi in se stesso e vivere nel mondo che si era creato.
Era in grado di apprezzare il godimento che procurano i pensieri elevati; non era estraneo alle afflizioni del genere umano. A volte piangeva amaramente, nel fondo del cuore, per le sventure dell’umanità, provava sofferenze sconosciute, pene indicibili, e anche lo struggimento e il desiderio di luoghi lontani, forse in quel mondo nel quale avrebbe voluto trascinarlo Stolz…
Dolci lacrime gli scorrevano sulle gote.
Gli capita anche di provare disprezzo per i vizi umani, per la calunnia, per il male di cui è pieno il mondo, e si infiamma del desiderio di spronare l’uomo a guardare le sue piaghe, e d’improvviso si accendono in lui vividi pensieri che si muovono e si accavallano come le onde del mare, poi si sviluppano in propositi, gli bruciano il sangue; i muscoli cominciano a guizzare, le vene si tendono, i propositi si trasformano in aspirazioni: mosso da una forza morale, cambia posizione due o tre volte in un minuto, con gli occhi scintillanti si alza a metà sul letto, tende una mano, gira attorno uno sguardo ispirato… Ecco, ecco che la sua aspirazione si realizza, diventa azione… e allora, Signore! Quali miracoli, quali felici conseguenze ci si potrebbero attendere da uno sforzo così grande!
Ma, attenzione, il mattino è passato in un baleno, il giorno già declina, e con esso declinano e tendono al riposo le forze esauste di Oblomov: tempeste ed emozioni si placano nell’anima, la testa si svuota dei pensieri, il sangue scorre più lento nelle vene. Assorto, Oblomov si gira adagio sulla schiena e, fissando afflitto la finestra e il cielo, segue tristemente con gli occhi il sole che si corica maestoso dietro un palazzo di quattro piani.
E quante, quante volte aveva accompagnato così il calar del sole!

L’inettitudine di Oblomov, che qui viene presentata attraverso l’“indifferenza” culturale e l’“incapacità” economica del protagonista, secondo un critico russo, Dobroljubov, è lo specchio di quella generazione, i russi colti della prima metà dell’Ottocento, che era stata forse la prima generazione di russi ad avere contatti frequenti con l’Occidente, avevano vinto Napoleone, si erano spinti fino a Parigi, avevano letto gli illuministi, avevano frequentato le lezioni dei filosofi tedeschi, e, le teste piene di libertà, uguaglianza, fratellanza e idealismo, la notte stellata sopra di loro, la forza morale dentro di loro, erano tornati in Russia, la loro patria, dove c’era ancora la servitù della gleba, e uno stato corrotto e arretrato e avevano scoperto infine che non potevano far niente. Tutto il loro sapere, tutta la loro scienza non serviva a niente, perché c’era un apparato statale piramidale, con a capo lo zar, che decideva lui, cosa bisognava fare, loro dovevano solo servire, si diceva così, vale a dire ubbidire, e, se non volevano servire, ritirarsi in campagna e non dare troppo fastidio.

Ma forse non è solo questo: possono leggersi in lui echi fatalistici, o nuovo Candide che rifiuta la brutalità del presente o forse ancora, un’attitudine innata (qui portata alle estreme conseguenze) dell’animo umano, a cui, guarda caso, è stato dato il nome di “oblomovismo”.

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Ivan Sergeevič Turgenev

Ivan Sergeevič Turgenev (1818-1883) è quello che forse meglio rappresenta la situazione della Russia dello zar Alessandro che, liberando i servi della gleba, mise in difficoltà i grandi proprietari terrieri, ma anche gli stessi contadini che si trovarono così liberi, ma, fuori dalla campagna, privi di qualsiasi possibilità. All’interno di questa situazione in movimento, nacquero vari gruppi di contestazione radicale, che cercavano di far recuperare alla Russia tutto quel tempo perduto in uno inamovibile sinora sistema feudale. Ma tale opposizione non sa ancora essere propositiva, forme d’anarchismo o di socialismo marxista si mescolavano in battagliere minoranze. Tra queste il nichilismo.

A descrivere tale movimento fu proprio Turgenev nel suo romanzo Padri e figli del 1862:

Quando nella casa di campagna del proprietario terriero Nikolaj Kirsànov arriva il figlio Arkadij, appena laureato, con l’amico Evvegnij Bazàrov, si delinea subito il conflitto fra le nuove e le vecchie generazioni. Bazàrov è un giovane medico, fiducioso nella sola realtà delle scienze sperimentali: un nichilista, come lo definisce l’autore, usando un termine che avrebbe poi avuto grande fortuna. Le sue idee hanno il potere di turbare il buon Kirsànov e di irritare suo fratello, lo scettico ed elegante Pavel. In una città vicina i due giovani incontrano la bella vedova Anna Odincova e Bazàrov prova per lei una passione che diventa disperata quando ella, pur attratta da lui, gli fa capire che non vuole imprevisti nella sua calma esistenza. Rifugiatosi, dopo un duello con Pavel, nella fattoria dei suoi genitori che lo ammirano devotamente, Bazàrov, poco dopo, facendo un’autopsia, contrae un’infezione mortale che non vuole curare, e decide di lasciarsi morire. La Odincova, accorsa, lo assiste nelle ultime ore con pietà, ma senza amore.

CONSERVATORI E NICHILISTI

Lo scontro avvenne quel giorno stesso al tè della sera. Pavel Petròvič venne in salotto, già pronto per la battaglia, irritato e risoluto. Aspettava soltanto un pretesto per slanciarsi sul nemico; ma il pretesto si fece aspettare a lungo. Bazàrov, in generale, parlava poco in presenza dei «vecchietti Kirsànov» (così egli chiamava i due fratelli) e quella sera non si sentiva in vena e beveva in silenzio una tazza dopo l’altra. Pavel Petròvič ardeva tutto d’impazienza; i suoi desideri furono alla fine appagati.
Il discorso cadde su uno dei possidenti vicini. «Porcheria, aristocratuccio», osservò tranquillamente Bazàrov, il quale lo aveva incontrato a Pietroburgo.
«Permettetemi di domandarvi» cominciò Pavel Petròvič e le labbra gli tremarono, «secondo le vostre convinzioni le parole “porcheria” e “aristocratico” indicano la stessa cosa?»
«Ho detto “aristocratuccio”», proferì Bazàrov, bevendo pigramente un sorso di tè.
«Precisamente; ma suppongo che siate dello stesso parere anche sugli aristocratici come sugli aristocratucci. Considero mio dovere dichiararvi che io non condivido codesta opinione. Oso dire che mi conoscono tutti come liberale e amante del progresso; ma è appunto per questo stimo gli aristocratici, quelli autentici. Ricordatevi, egregio signore» a queste parole Bazàrov alzò gli occhi su Pavel Petròvič «ricordatevi, egregio signore», ripeté egli con insistenza, «gli aristocratici inglesi. Essi non cedono un iota dei propri diritti, e perciò rispettano i diritti degli altri; esigono l’adempimento dei doveri verso di loro, e perciò compiono i propri doveri. L’aristocrazia ha dato la libertà all’Inghilterra e la sostiene.»
«Abbiamo sentito questo ritornello molte volte»; replicò Bazàrov; «ma cosa volete dimostrare?»
«Con “questo” voglio dimostrare, egregio signore» Pavel Petròvič, quando si arrabbiava, diceva con intenzione “questo” e “quello”, benché sapesse che la grammatica non ammette tali parole. In questa bizzarria si rivelava un residuo delle tradizioni dell’epoca di Alessandro. I pezzi grossi d’allora, in rare occasioni, quando parlavano la lingua materna, adoperavano alcuni “questo” altri “quello”; come a dire siamo russi di puro sangue, e nello stesso tempo siamo magnati, ai quali è concesso trascurare le regole scolastiche, «con “questo” voglio dimostrare che senza un sentimento della propria dignità, senza il rispetto di se stessi (ma nell’aristocratico tali sentimenti sono sviluppati) non c’è nessuna solida base per il… “bien public”… per l’edificio sociale. La personalità, egregio signore, ecco l’importante; la personalità umana dev’essere forte, poiché su di essa si costruisce tutto. So benissimo, ad esempio, che trovate ridicole le mie abitudini, il mio abbigliamento, la mia pulizia, infine; ma tutto ciò deriva dal sentimento del rispetto che ho per me stesso, dal sentimento del dovere, sissignore, sì, del dovere. Vivo in campagna, nella solitudine, ma non mi disprezzo, ma rispetto in me l’uomo».
«Permettete, Pavel Petròvič», profeì Bazarov, «voi rispettate voi stesso, e intanto ve ne state lì con le mani in mano; quale utili ne deriva per il «bien public»? Se non vi rispettate, fareste lo stesso».
Pavel Petròvič impallidì.
«Questa è un’altra questione. Non mi tocca affatto di spiegarvi ora perché me ne sto qui con le mani in mano, come vi siete espresso. Voglio solo dire che l’aristocricismo è un “principe”, e che senza “principes” ai nostri giorni possono vivere solo persone amorali e vuote. L’ho detto ad Arkadij il giorno dopo il suo arrivo e lo ripeto ora a voi. Non è così, Nikolaj? Nikolaj Petròvič annuì col capo.
«Aristocraticismo, liberalismo, progresso, principi», diceva intanto Bazàrov. «A pensarci bene, quante parole straniere e… inutili! A un uomo russo non occorrono neanche gratis».
«E che cosa allora gli occorre, secondo voi? A sentir voi, ci troviamo fuori dell’umanità, fuori delle sue leggi. Abbiate pazienza, la logica della storia esige… »
«Ma a che ci occorre questa logica? Noi possiamo benissimo farne a meno».
«Come?»
«Ma sì. Voi, spero, non avete bisogno della logica per mettervi in bocca un pezzo di pane, quando avete fame. A che ci servono queste astrazioni?» Pavel Petròvič agitò le mani.
«Non vi capisco proprio. Voi offendete il popolo russo. Io non capisco come si possa non riconoscere i “principes”, le regole! In forza di che cosa, dunque, agite voi?»
«Io vi ho già detto, zio, che noi non riconosciamo alcuna autorità.» s’intromise Arkadij.
«Agiamo in forza di ciò che riconosciamo utile», proferì Bazàrov. «Nell’epoca attuale, la cosa più utile è la negazione: e noi neghiamo.»
«Tutto?»
«Tutto.»
«Come! non solo l’arte, la poesia…. ma anche…. è pauroso dirlo….»
«Tutto» ripetè con inesprimibile calma Bazàrov.
Pavel Petròvič lo guardò fisso. Non si aspettava tanto, mentre Arkadij arrossiva addirittura per la soddisfazione.
«Tuttavia, permettete», disse Nikolaij Petròvič. «Voi negate tutto e, più esattamente, demolite tutto… Ma bisogna pure costruire.»
«Questo non è affar nostro…. Prima bisogna far piazza pulita.»
«La condizione attuale del popolo lo esige» soggiunse con sussiego Arcadij, «noi dobbiamo soddisfare queste esigenze, non abbiamo il diritto di abbandonarci all’esaurimento dell’egoismo personale.»
Quest’ultima frase, evidentemente, non piacque a Bazàrov; sapeva di filosofia, cioè, di romanticismo, poiché Bazarov chiamava romanticismo anche la filosofia; ma non trovò confutare il suo giovane discepolo.
«No, no» esclamò con uno slancio improvviso Pavel Petròvič, «non voglio credere che voi, signori, conosciate esattamente il popolo russo, che siate i rappresentanti delle sue esigenze, delle sue aspirazioni! No, il popolo russo non è quale lo immaginiate. Esso rispetta santamente le tradizioni, è patriarcale, non può vivere senza la fede…» 
«Non ho intenzione di discutere su questo argomento»: interruppe Bazàrov, «sono anzi pronto ad ammettere che in questo voi abbiate ragione».
«Ma se ho ragione…»
«Questo non dimostra niente lo stesso.»
«Non dimostra proprio niente» ripeté Arkadij con la sicurezza di un esperto giocatore di scacchi che abbia previsto una mossa, evidentemente pericolosa, dell’avversario e non sia perciò punto confuso.
«Come non dimostra niente?» borbottò Pavel Petròvič stupito. «Voi dunque andate contro il vostro stesso popolo?»
«E se fosse anche così?» esclamò Bazàrov. «Il popolo suppone che quando romba il tuono sia il profeta Elia che viaggia in cielo sul carro. E che? devo dargli ragione? E poi, s’egli è russo, non sono russo anch’io?» 
«No, non siete russo dopo tutto quello che avete detto ora! Io non posso riconoscervi come russo».
«Mio nonno arava la terra» rispose con altera fierezza Bazàrov. «Domandava a chiunque dei vostri stessi contadini: in chi di noi, in voi o in me, egli riconoscerebbe meglio il proprio connazionale. Voi non sapete nemmeno parlare con lui».
«Mentre voi gli parlate e lo disprezzate nel tempo stesso».
«E perché no, se merita disprezzo? Voi censurate la mia tendenza; ma chi vi ha detto che essa sia in me casuale, che non sia provocata dallo stesso spirito popolare, in nome del quale così vi battete?»
«E come no? Sono proprio indispensabili i nichilisti?»
«Se siamo indispensabili o no, non tocca a voi il decidere. Nemmeno voi vi considerate inutile.»
«Signori, signori, senza casi personali, vi prego!» esclamò Nikolàj Petròvič, e si alzò.
Pavel Petròvič sorrise, e messa una mano sulla spalla del fratello, lo costrinse a seder di nuovo.
«Non inquietarti» proferì. «Non mi lascerò trasportare, proprio in seguito a quel sentimento di dignità, che il signor… il signor dottore schernisce così crudelmente. Permettete», continuò rivolgendosi di nuovo a Bazàrov «voi, forse, pensate che la vostra dottrina sia una novità? Ve lo immagine inutilmente. Il materialismo, che voi predicate, è stato in circolazione più di una volta ed è sempre risultato inconsistente…»
«Un’altra parola straniera!» interruppe Bazàrov. Cominciava a stizzirsi e il suo viso aveva assunto un color rame, grossolano. «In primo luogo, noi non predichiamo nulla; non è nelle nostre abitudini».
«Che cosa fate allora?»
«Ecco quel che facciamo. Prima, in un’epoca abbastanza recente, noi dicevamo che i nostri funzionari si fanno corrompere col denaro, che non abbiamo né strade, né commercio, né una giusta magistratura…»
«Ma sì, sì, voi siete coloro che smascherano i colpevoli, dli accusatori; vi chiamate così, se non mi sbaglio. Con molte delle vostre accuse convengo anch’io, ma…»
«E poi ci siamo accorti che chiacchierare, chiacchierare sempre solo delle nostre piaghe non valeva la pena, che ciò conduce solo alla volgarità e al dottrinarismo; abbiamo visto che anche i nostri sapientoni, i cosiddetti uomini d’avanguardia e accusatori non sono buoni a nulla, che ci occupiamo delle sciocchezze, discutiamo di non so che arte, di creazione incosciente, di parlamentarismo, di avvocatura, e il diavolo sa di cos’altro, quando si tratta del pane quotidiano, quando la più grossolana superstizione ci soffoca, quando tutte le nostra società per azioni vanno a gambe all’aria, unicamente per assenza di uomini onesti, quando la libertà stessa, di cui si preoccupa il governo, difficilmente ci farà pro’, perché il nostro contadino si contenta di derubare se stesso, pur d’ubriacarsi in osteria».
«Così» proruppe Pavel Petròvič «così: vi siete persuasi di tutto ciò e avete deciso di non occuparvi seriamente di nulla nemmeno voi».
«E abbiamo deciso di non occuparci di nulla» – ripeté cupo Bazàrov. Provò a un tratto contro se stesso il dispetto di essersi tanto dilungato dinanzi a quel signore..
«Ma solo d’ingiuriare?»
«Anche d’ingiuriare».
«E’ questo si chiama nichilismo?»
«E questo si chiama nichilismo», – ripeté di nuovo Bazàrov stavolta con particolare insolenza.
(…)
«Noi demoliamo, perché siamo una forza» osservò Arkadij.
Pavel Petròvič guardò il nipote e sorrise.
«Sì, e la forza non è tenuta a render conto» proferì Arkadij e s’impettì.
«Disgraziato!» – strillò Pavel Petròvič, che, decisamente, non era più in grado di trattenersi oltre, «almeno tu pensassi che cosa tu sostieni in Russia con la tua sciocca e volgare sentenza! No, questo può far perdere la pazienza anche a un angelo! La forza! Anche nel selvaggio calmucco, anche nel mongolo, c’è la forza; ma che ci serve? A noi preme la civiltà, sissignore; sì, egregio signore; a noi ci premono i suoi frutti. E non ditemi che questi frutti sono meschini; l’ultimo imbrattatele, un “barbouilleur”, uno strimpellatore, a cui danno un soldo per sera, anche quelli sono più utili di voi, perché rappresentano la civiltà, e non la rozza forza mongola! Vi immaginate di essere uomini d’avanguardia, ma stareste bene in un carro calmucco! La forza! Ma ricordatevi alla fine, o forti signori, che siete quattro uomini e mezzo in tutto; mentre gli altri sono milioni, i quali non vi permetteranno di calpestare le proprie sacrosante credenze, i quali vi schiacceranno!
«Se ci schiacceranno, ne trarremo le conseguenze» proferì Bazàrov. «Solo non è detta l’ultima parola. Non siamo così pochi come voi supponete».

La pagina è costruita come un vero e proprio scontro generazionale, in cui si affrontano due modi differenti, per storia e per cultura, d’affrontare il mondo. Il vecchio Pavel Petròvič raffigura, oserei dire, quasi romanticamente, l’ideale in cui si concentra il concetto di patria, fatto di storia e tradizioni, che permettono di essere russi in quanto penetrato in esse; di fronte Bazàrov, colui che “materialisticamente” non crede più in nulla (nihil) e che costituisce quella intellighenzia giovanile, fortemente moralistica e ribellistica, che pur provenendo dalla piccola borghesia ne ripudiava completamente i valori.

Ma l’importanza del romanzo non sta solo nella precisione realistica, quasi “scientifica”, con cui si cercano d’individuare le motivazioni che stanno dietro i due mondi, ma nella capacità di dare spessore ai personaggi, facendo di essi non dei meri rappresentanti di una ideologia. Così vedremo in Bazàrov, il ribelle, il cui atteggiamento può apparire a volte supponente, quanta sofferenza nasconda.

Ma certamente i due narratori russi di questo periodo che diventeranno veri e propri punti di riferimento per tutti coloro che dovranno scrivere un romanzo, sono Lev Nikolaevič Tolstoj e Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

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Lev Nikolaevič Tolstoj

Lev Nikolaevič Tolstoj (1828 – 1910) fu un uomo dall’apparente vita tranquilla: nato da una antica famiglia nobiliare compì studi regolari, fece una brillante vita mondana, partecipò come ufficiale ad una guerra contro popolazioni ribelli, sposò la donna amata da cui ebbe 13 figli e si avviò verso una vecchiaia avendo creato una “bella” e “tradizionale” famiglia patriarcale. Tuttavia non fu un uomo sereno: sempre alla continua ricerca di qualcosa che riuscisse in qualche modo a placarlo, approdò ad una concezione cristiano-evangelica e mistico-populista che lo portarono a scelte radicali che gli misero contro la famiglia. Allontanatosi da casa, ormai vecchio, si ammala e muore. Scrisse numerose opere, ma qui si analizzeranno i romanzi Guerra e pace (1869) e Anna Karenina (1877).

Guerra e pace si apre con un quadro dell’alta società di Mosca nel 1805, alla vigilia della guerra contro Napoleone. In mezzo a una folla mondana, preoccupata da intrighi personali, emergono alcuni personaggi dall’anima inquieta e viva: Pierre Bezuchov, goffo e sensibile, appena tornato dall’estero dove lo ha mandato a istruirsi il padre naturale, il vecchio principe Bezuchov; il suo amico, il principe Andrej Bolkonskij, sarcastico, orgoglioso, intelligente, già deluso dal suo recente matrimonio con l’infantile Lisa; i giovanissimi ragazzi Rostov, cioè Vera, Nikolaj, Petja, e soprattutto la gaia, appassionata, tenera Nataša. Molto diversi dalla loro fredda e compassata sorella maggiore, i tre fratelli le preferiscono la cuginetta Sonja, che vive con loro e ama Nikolaj. Alla vita moscovita è contrapposta la vita in campagna, osservata dalla casa dei Bolkonslij (Lysye Gory), nella quale vive in volontario esilio il vecchio e dispotico padre di Andrej, che esercita il suo potere sulla figlia Marja, dolcissima e profondamente religiosa e su tutti gli abitanti della casa: dal vecchio cameriere Tichon a Mlle Bourienne, dama di compagnia di Marja, dall’intendente Alpatič, all’architetto Michail Ivanovič, ammesso per capriccio alla sua tavola. La guerra arriva, turbando quel mondo. Le battaglie si susseguono, e sembrano inutili. A Napoleone, che prepara piani secondo la logica bellica, si oppone Kutuzov, comandante delle armate russe, che preferisce adattare la sua strategia al mutare delle circostanze, passando a volte, agli occhi dei brillanti ufficiali, per debole. Andrej, arruolatosi, dimentica le vicende personali cercando un significato alla tempesta che lo trascina insieme a tanti. Pierre, rimasto a Mosca, è divenuto ricco alla morte del padre che lo ha nominato suo erede universale, e il bel mondo gli ha scoperto improvvisamente brillanti qualità. Il principe Vasilij Kuragin, con abili intrighi, riesce a fargli sposare la figlia Hélene, bellissima, presuntuosa e corrotta. Scoperte le indedeltà della moglie, Pierre si batte col rivale Dolochov, si separa da Hélene, e crede di trovare sollievo alla profonda inquietudine che lo tormenta nella massoneria, progettando l’emancipazione dei servi. Andrej, ferito ad Austerlitz, torna in licenza a Lysye Gory. La sera stessa la moglie muore dando alla luce un bambino. L’enigma di quella morte lo restituisce a un’angosciosa insoddisfazione, finché non incontra a un ballo Nataša, della quale si innamora profondamente. Ella accetta di sposarlo, ma le nozze vengono differite per l’opposizione del padre di Andrej. Questo ritardo offende e turba Nataša, e mentre Andrej è in viaggio, si lascia affascinare dal vanitoso e bello Anatolij Kuragin, fratello di Hélene. Fallito il progetto di venir rapita da lui, grazie all’intervento di un’energica zia, Marja Dmitrevna, rotto il fidanzamento con Andrej, Nataša è come spenta. Andrej, gravemente ferito a Borodino, riconoscerà nell’infermeria Anatolij, appena amputato di una gamba. Cade in quel momento il suo rancore verso di lui e Nataša, che ritroverà, più di prima, tenera, seria e innamorata, mentre lo trasportano ormai morente, durante la grande ritirata che precede l’incendio di Mosca. Andrej muore ormai rappacificato con se stesso, assistito da Nataša e da Marja, fuggita da Lysye Gory di fronte all’avanzare delle truppe, dopo la morte del padre. Vedovo, dopo la morte misteriosa di Hélene, Pierre è rimasto a Mosca, col vago progetto di uccidere Napoleone. Fatto prigioniero dai francesi, incontra tra gli altri prigionieri l’uomo che gli indica la via spirituale da seguire: il sorridente, paziente, pio soldato-contadino Platon Karataev. La vita dei Rostov ha subito mutamenti: Vera ha sposato Boris Berg; Petja è morto, appena arruolato; è finito l’idillio tra Sonja e Nikolaj. Alla fine della guerra Pierre rivede Nataša a Mosca: l’ama da tempo, ma esita a dichiararsi. Nataša accetterà con gioia di sposarlo. Si uniscono infine anche Nikolaj e Marja, ch’egli amava da quando l’aveva salvata da un ammutinamento di contadini a Lysye Gory durante la guerra. Le nuove famiglie vengono mostrate, nell’epilogo, nel 1820: i protagonisti sono invecchiati, Nataša, assorbita dai suoi compiti di madre e moglie, ha perso molto del fascino poetico di un tempo. Marja e Pierre sono i personaggi spiritualmente più forti. Simbolo delle generazioni future, fa una breve e significativa apparizione Nikolen’ka, il figlio del principe Andrej.

E’ questo testo uno dei più complessi e più importanti di tutta la letteratura europea. I temi presenti in esso non vogliono soltanto “raccontare” realisticamente un periodo storico ben definito, ma presentarcelo nella sua multiforme varietà. La sua caratteristica, infatti, è quella di offrirci un’epica rappresentazione della totalità della vita nei suoi vari aspetti, che va dall’alterigia dei generali di guerra alla semplice paura del soldato appena arruolato, dalle sale bellamente arredate alla povera casupola del contadino, e pur ruotando attorno alla nobiltà, ci mostra come essa possa essere ben influenzata da un pio contadino. Per meglio dire non esiste “realtà” che non sia in relazione con tutte le altre “realtà” e con la storia più in generale.

La concezione della storia tolstojana la possiamo leggere in una famosa pagina:

L’OCCUPAZIONE E L’INCENDIO DI MOSCA

Sebbene laceri, affamati, esausti, e ridotti alla metà degli effettivi iniziali, i soldati francesi che entrarono in Mosca formavano ancora un esercito ben ordinato. Era un esercito esausto, spossato, ma ancora combattivo e pericoloso. Ma fu tale solo fino al momento in cui i suoi soldati non si sistemarono negli appartamenti. Non appena gli uomini dei vari reggimenti cominciarono a sparpagliarsi nelle ricche case vuote, l’esercito, da allora, si dissolse per sempre e al suo posto si formò qualcosa cui non si poteva dare il nome né di abitanti né di soldati, qualcosa di mezzo fra i due: un’accozzaglia di saccheggiatori. Quando, dopo cinque settimane, quegli stessi uomini uscirono da Mosca, non esisteva più un esercito. C’era invece una moltitudine di saccheggiatori, ciascuno dei quali si portava via, sui veicoli o indosso, un mucchio di cose che gli sembravano preziose e necessarie. Lo scopo di tutti quegli uomini, nel lasciare Mosca, non consisteva più, come prima, nel conquistare con la forza delle armi, ma unicamente nel conservare quanto avevano arraffato. Come la scimmia che, ficcata la mano nella stretta imboccatura di una brocca e afferrata una manciata di noci, non apre più il pugno per non perdere ciò che ha agguantato e con ciò segna la propria rovina, così i francesi, nel lasciare Mosca, dovevano evidentemente andare incontro alla rovina poiché portavano via con sé ciò che avevano rubato; ma abbandonare quanto avevano rubato per loro era impossibile com’è impossibile per la scimmia aprire il pugno pieno di noci. Dieci minuti dopo l’entrata in città di tutti i reggimenti francesi, non restava più un solo soldato o un solo ufficiale. Dalle finestre delle case si scorgevano uomini in cappotto e ghette che, ridendo, passeggiavano all’interno degli appartamenti; nelle cantine, negli interrati, altri la facevano da padroni con le provviste; nei cortili, altri ancora aprivano o sfondavano le porte dei depositi e delle scuderie; nelle cucine accendevano fuochi, con le maniche rimboccate friggevano, impastavano; spaventavano, facevano ridere e vezzeggiavano le donne e i bambini. E dappertutto, nelle botteghe e nelle case, di quegli uomini ce n’era un gran numero: quello che non c’era più, ormai, era l’esercito.
In quella stessa prima giornata i comandanti francesi impartirono ordini su ordini vietando alle truppe di sparpagliarsi per la città, proibendo severamente ogni violenza contro gli abitanti e ogni saccheggio, convocando l’esercito, per quella sera stessa, a un appello generale; ma ad onta di qualsiasi provvedimento, quegli uomini che finora avevano costituito un esercito si disperdevano per la ricca città deserta, ricca di comodità e di provviste. Come una mandria affamata procede unita per una campagna spoglia, ma subito si sbanda e si disperde, irrefrenabilmente, non appena capita su ricchi pascoli, in modo altrettanto irrefrenabile si sparpagliava qua e là per la città opulenta quell’esercito.
Abitanti, a Mosca, non ce n’erano e i soldati venivano assorbiti dalla città come l’acqua dalla sabbia e, irraggiandosi a stella dal Cremlino dove erano dapprima entrati, si allontanavano, disperdendosi, in tutte le direzioni. I soldati di cavalleria, entrando in una casa di mercanti abbandonata con tutte le suppellettili, e trovandovi stalle sufficienti non solo per i loro cavalli, ma anche per altri, andavano comunque a occupare un’altra casa accanto perché sembrava loro migliore. Molti occupavano un certo numero di case, segnando col gesso sulla porta il nome di chi le aveva occupate, litigavano, e persino si azzuffavano con gli altri reparti. Ancora prima di essersi sistemati a dovere, i soldati correvano in strada a vedere la città e, sentendo dire che tutto era stato abbandonato, si precipitavano dove si poteva fare man bassa di cose preziose. I comandanti andavano in giro per fermare i soldati e senza volerlo erano trascinati anche loro nel saccheggio. Al Karetnyj Rjad erano rimaste intatte le botteghe dei carrozzai, e là si affollavano i generali per scegliersi carrozze e calessi. I pochi abitanti rimasti invitavano nelle loro case i comandanti sperando, in tal modo, di sottrarsi al saccheggio. Di ricchezze ce n’erano un’infinità e non se ne vedeva la fine; dappertutto, tutt’intorno ai luoghi occupati dai francesi, si stendevano altri luoghi non ancora esplorati, non ancora occupati, in cui ai francesi sembrava dovessero esserci ancor maggiori ricchezze. E così Mosca li attirava e li assorbiva sempre più lontano, sempre più lontano. Allo stesso modo in cui versando dell’acqua sulla terra arida, insieme all’acqua scompare anche la terra, così per il fatto che un esercito affamato era entrato in una città ricca e vuota, rimase distrutto l’esercito e andò distrutta la ricca città: ne nacque fango, ne nacquero incendi e saccheggi.
I francesi hanno attribuito l’incendio di Mosca “au patriotisme féroce de Rastopchine”; i russi al fanatismo dei francesi. In realtà, cause dell’incendio di Mosca – nel senso di poter attribuire le responsabilità di tale incendio a una o più persone – non c’erano e non ci potevano essere. Mosca bruciò perché era stata messa in condizioni tali in cui qualsiasi città di legno si sarebbe incendiata, a parte che in città vi siano o non vi siano centotrenta malconce pompe da incendio. Mosca doveva andare a fuoco a seguito del fatto che gli abitanti ne erano partiti, con la stessa necessità con cui deve prender fuoco un mucchio di trucioli sui quali, per parecchi giorni di fila, cadano scintille di fuoco. Una città tutta di legno, in cui, anche quando sono presenti i legittimi proprietari delle case e la polizia, quasi ogni giorno, d’estate, scoppiano degli incendi, non può non andare a fuoco quando in essa gli abitanti non ci sono, e al loro posto vivono soldati che fumano le pipe, accendono falò sulla Piazza del Senato con le sedie del Senato stesso e si cuociono da mangiare due volte al giorno. Basta che, anche in tempo di pace, delle truppe si accampino nei villaggi di una data contrada, perché il numero degli incendi di quella contrada diventi subito più alto. In che misura doveva allora aumentare la probabilità di incendi in una deserta città di legno in cui si era accampato un esercito straniero? Le patríotisme féroce de Rastopèin e il fanatismo dei francesi non hanno, qui, proprio nessuna colpa. Mosca prese fuoco per le pipe, per le cucine, per i falò, per la negligenza dei soldati nemici, che abitavano nelle case ma non ne erano i proprietari. Se pure vi furono degli incendi dolosi (cosa peraltro dubbia, perché nessuno aveva motivo di appiccare fuoco e, in ogni caso, si sarebbe trattato di azioni rischiose e complesse), non è possibile cercare in essi la causa di tutto, perché anche senza questi i fatti sarebbero andati nello stesso modo.
Per quanto attraente fosse per i francesi far ricadere la colpa sulla ferocia di Rastopèin, e, per i russi, accusare il criminale Bonaparte, per poi mettere, in un secondo momento, una fiaccola eroica nelle mani del loro popolo, non si può non vedere che una causa immediata di questo genere non poté esistere alle origini di questo incendio, perché Mosca doveva bruciare, come deve bruciare ogni villaggio, ogni fabbrica, ogni casa che i proprietari abbandonano e in cui entra gente estranea a farla da padrone a cucinarsi i pasti. Mosca fu incendiata dagli abitanti, è vero; ma non da quelli che vi erano restati, bensì da quelli che ne erano partiti. Mosca, occupata dal nemico, non restò intatta – come Berlino, Vienna e altre città – soltanto perché i suoi abitanti non avevano fatto gli onori di casa, non avevano consegnato le chiavi ai francesi, ma l’avevano abbandonata.

Non è una vera e propria pagina di storia, ma di riflessione morale sulla stessa. Tolstoj infatti vuole qui riflettere sul perché di fronte alla presa francese della città, si siano sviluppati così tanti incendi e perché l’esercito vincitore risultasse, infine, così debole e vulnerabile. La motivazione è una sola: l’arrivo di un esercito affamato da giorni e giorni di digiuno e l’allontanamento dei moscoviti dalla città. L’esercito napoleonico un tempo forte e disciplinato, diventa rilassato e saccheggiatore. La ricchezza della città ha indebolito l’uomo: ecco la riflessione morale. Vi è infatti quasi un senso di giustizia che sovrasta l’episodio: il vincitore risulterà poi essere vinto dalla sua grettezza e avidità. Non manca un’ultima notazione, legata dall’imprescindibile legge della causalità: date determinate premesse (il vuoto della città e la prepotenza degli uomini) non ne può che derivare una sola ed inevitabile conseguenza, la distruzione, attraverso il fuoco, della città stessa.

Uno dei personaggi centrali dell’immensa epopea russa è certamente il principe Andrej:

LA MORTE DEL PRINCIPE ANDREJ

Il principe Andrej rimase in piedi, indeciso. La granata roteava fumando, come una trottola, fra di lui e l’aiutante disteso a terra, sull’orlo del campo e del prato, vicino a un cespuglio d’assenzio.
«Possibile che sia la morte?» pensò il principe Andrej guardando con uno sguardo assolutamente nuovo e invidioso l’erba, l’assenzio e la striscia di fumo che si avvolgeva uscendo dalla nera palla roteante. «lo non posso, non voglio morire, io amo la vita, amo questa erba, la terra, l’aria…» Pensava a questo e nello stesso tempo si ricordò che lo stavano guardando.
«Vergogna, signor ufficiale!» disse all’aiutante. «Che…» ma non terminò la frase.
Nello stesso istante si udì uno scoppio, come un tintinnio di vetri infranti, l’odore soffocante della polvere, e il principe Andrej fu proiettato da una parte; e, sollevando in aria un braccio, cadde bocconi.
Alcuni ufficiali corsero verso di lui. Dalla parte destra del ventre si allargava sull’erba una grande macchia di sangue.
Chiamati, i militi si fermarono con la barella dietro gli ufficiali. Il principe Andrej giaceva bocconi, il volto abbandonato fra l’erba, e respirava con un rantolo affannoso.
«Be’, perché state lì fermi, venite qui!»
I contadini si avvicinarono e lo presero per le spalle e per le gambe, ma egli emise un gemito doloroso e, guardandosi fra loro, i contadini lo deposero di nuovo a terra.
«Sollevatelo, adagiatelo, tanto è lo stesso!» gridò una voce.
Lo sollevarono per le spalle e lo deposero sulla barella.
«Ah, Dio mio! Dio mio! Che è?… Il ventre? E’ la fine! Ah, Dio mio!» si udirono delle voci fra gli ufficiali.
«Ha sibilato rasente il mio orecchio,» disse l’aiutante.
I contadini, caricatasi la barella sulle spalle, si avviarono in fretta verso il posto di medicazione lungo il sentiero calpestato dai loro stessi passi.
«Andate al passo… Eh!… zoticoni!» gridò un ufficiale, fermando per le spalle i contadini che camminavano in modo irregolare e facevano sussultare la barella.
«Mettiti al passo, su, Chvedor, oh Chvedor,» disse un contadino davanti.
«Ecco, così, bene,» disse con gioia il contadino che reggeva la barella da dietro, prendendo il passo.
«Eccellenza? Eh? Principe?» disse con una voce tremante Timochin che era accorso, guardando la barella.
Il principe Andrej aprì gli occhi e, dalla barella in cui la sua testa era sprofondata, guardò chi parlava, e poi abbassò di nuovo le palpebre.
I militi portarono il principe Andrej verso la foresta dove stavano i furgoni e dove si trovava il posto di medicazione. Il posto di medicazione consisteva in tre tende montate al margine d’un boschetto di betulle e con le cortine rialzate. Nel boschetto di betulle c’erano furgoni e cavalli. I cavalli mangiavano l’avena nei sacchi, e i passerotti svolazzavano intorno e beccavano i granelli che cadevano. I corvi, sentendo l’odore del sangue, svolazzavano fra le betulle, gracchiando impazienti. Intorno alla tenda, su un’estensione di terreno di più di due ettari, stavano sdraiati, seduti, in piedi, uomini insanguinati vestiti nei modi più disparati. Intorno ai feriti, con facce meste e attente, facevano cerchio gruppi di soldati-barellieri, che gli ufficiali addetti a mantenere l’ordine invano scacciavano da quel luogo. Senza dare ascolto agli ufficiali, i soldati stavano appoggiati alle barelle e guardavano attentamente ciò che succedeva davanti a loro, come se cercassero di comprendere il significato dello spettacolo. Dalle tende giungevano ora lamenti alti e rabbiosi, ora gemiti pietosi. Ogni tanto ne uscivano di corsa gli infermieri per cercare acqua e indicavano quei feriti che si dovevano portar dentro. Aspettando presso la tenda il loro turno, i feriti rantolavano, gemevano, piangevano, gridavano, imprecavano, chiedevano vodka. Alcuni deliravano.
Camminando fra i feriti non ancora medicati, i militi portarono il principe Andrej, in quanto comandante di reggimento, vicino a una delle tende, e quindi si fermarono in attesa di ordini. Il principe Andrej aprì gli occhi e per un pezzo non riuscì a capire che cosa succedesse intorno a lui. Si ricordò del prato, dell’assenzio, del campo, della nera palla roteante e del suo appassionato slancio d’amore per la vita. A due passi da lui, parlando forte e attirando su di sé l’attenzione generale, stava un bel sottufficiale, alto e scuro di capelli, con la testa fasciata, che si appoggiava a un ramo secco. Era stato ferito alla testa e a una gamba da pallottola di fucile. Intorno a lui si era raccolta una folla di feriti e di barellieri che ascoltavano avidamente ciò che egli diceva.
«Quando li abbiamo cacciati di là, quelli hanno piantato tutto, persino il re gli abbiamo preso!» gridava il militare, guardandosi attorno con gli occhi neri scintillanti. «Se soltanto le riserve fossero arrivate al momento giusto, fratello mio, non ne restava neanche il segno, perché te lo dico io…»
Come tutti gli altri che ascoltavano il racconto, anche il principe Andrej guardava il sottufficiale con uno sguardo scintillante e provava un senso di consolazione. «Ma non è forse tutto eguale ormai?» pensava. «E che cosa succederà di là e che cos’è successo qui? Perché mi dispiaceva tanto separarmi dalla vita? C’era qualcosa in questa vita che io non ho capito e non capisco.»
Uno dei medici, con il camice insanguinato, e con le piccole mani insanguinate, in una delle quali teneva un sigaro fra il mignolo e il pollice (per non insudiciarlo); questo medico, uscì dalla tenda, sollevò il capo e si mise a guardare intorno, ma al di sopra dei feriti. Evidentemente aveva voglia di riposarsi un po’. Dopo aver girato lo sguardo per un certo tempo, a destra e a sinistra, sospirò e abbassò gli occhi.
«Sì, subito,» rispose alle parole dell’infermiere che gli indicava il principe Andrej, e diede ordine di portarlo nella tenda.
Tra la folla dei feriti che aspettavano si levò un mormorio.
«Si vede che anche nell’altro mondo soltanto i signori hanno diritto di vivere,» proferì uno di loro.
Il principe Andrej fu portato dentro e deposto su un tavolo appena ripulito dal quale un infermiere faceva scolare via qualcosa. Il principe Andrej non poté distinguere in tutti i particolari ciò che c’era nella tenda. Lo distraevano i gemiti lamentosi che venivano da varie parti e un lancinante dolore alla coscia, al ventre e alla schiena. Tutto quello che vedeva intorno a sé si fondeva per lui in un’unica impressione generale di corpi umani nudi e insanguinati che sembravano riempire tutta la tenda bassa, come alcune settimane prima, in quella calda giornata d’agosto, gli stessi corpi riempivano lo stagno fangoso lungo la strada di Smolensk. Sì, erano quegli stessi corpi, quella stessa chair à canon, la cui vista già allora, come un presagio del presente, gli aveva suscitato orrore.
Nella tenda c’erano tre tavoli. Due erano occupati, sul terzo fu deposto il principe Andrej. Per un certo tempo lo lasciarono solo ed egli vedeva involontariamente ciò che si faceva sugli altri tavoli. Sul tavolo più vicino c’era un tartaro, probabilmente un cosacco a giudicare dalla divisa gettata lì accanto. Lo tenevano quattro soldati. Un medico con gli occhiali gli tagliava qualcosa nella schiena, bruna e muscolosa.
«Uh, uh!…» grugniva il tartaro, e a un tratto, sollevando in su la sua nera faccia camusa dai larghi zigomi, scoprendo i denti bianchi, cominciò a dibattersi, a contorcersi e a stridere con un urlo prolungato, lacerante e acuto. Su un altro tavolo, vicino al quale si affollavano molte persone, giaceva supino un uomo grande e robusto con la testa abbandonata indietro (i suoi capelli ricciuti, il loro colore e la forma stessa della testa parvero stranamente noti al principe Andrej). Alcuni infermieri facevano forza sul petto di quell’uomo e lo tenevano fermo. Un grande piede robusto, con movimenti rapidi e frequenti, si contraeva senza posa con febbrili trasalimenti. Quest’uomo singhiozzava in modo convulso e quasi soffocava. Due medici, uno dei quali era pallido, e tremava, facevano in silenzio qualcosa sull’altra gamba, rossa di sangue, di quell’uomo. Finito di operare il tartaro, sopra il quale fu gettato un cappotto, il dottore con gli occhiali si avvicinò al principe Andrej, pulendosi intanto le mani.
Gettò uno sguardo alla faccia del principe Andrej e si voltò in fretta.
«Svestitelo! Che cosa aspettate?» gridò con ira agli infermieri.
Quando l’infermiere gli sbottonò i bottoni e gli tolse gli abiti con mani frettolose dalle maniche rimboccate, il principe Andrej si ricordò della prima e più lontana infanzia. Il dottore si chinò proprio sopra la ferita, la tastò e sospirò profondamente. Poi fece un segno a qualcuno. E un dolore lancinante nelle viscere fece perdere i sensi al principe Andrej. Quando si riebbe, le ossa spezzate del femore erano state estratte, dei lembi di carne erano stati recisi e la ferita bendata. Gli spruzzarono dell’acqua in viso. Non appena il principe Andrej aprì gli occhi, il dottore si chinò su di lui, lo baciò senza dire una parola sulle labbra e si allontanò in fretta.
Dopo la sofferenza patita, il principe Andrej provava un senso di beatitudine che da tempo non provava. Alla sua immaginazione si presentavano, non come passato, ma come realtà presente, tutti i momenti migliori e più felici della sua vita, specialmente la più remota infanzia, quando lo spogliavano e lo mettevano sul lettino, quando la njanja lo cullava cantando, quando, coprendosi la testa col cuscino, egli si sentiva felice per il solo fatto di essere vivo.
Intorno a quel ferito, la forma della cui testa sembrava nota al principe Andrej, si davano da fare i dottori: lo sollevavano e lo calmavano.
«Fatemi vedere… Oooooh! Oh! Oooooh!» si sentiva il suo gemito rotto da singhiozzi, atterrito e rassegnato dalla sofferenza.
Ascoltando quei gemiti, al principe Andrej veniva voglia di piangere. Forse perché moriva senza gloria, forse perché gli dispiaceva lasciare la vita, quegli irrevocabili ricordi d’infanzia, forse perché soffriva, perché gli altri soffrivano e quell’uomo gemeva così pietosamente davanti a lui, gli veniva voglia di piangere lacrime infantili, buone, quasi liete.
Mostrarono al ferito la gamba amputata dentro uno stivale sporco di sangue raggrumato.
«Oh! Oooooh!» singhiozzò come una donna.
Il dottore che stava davanti al ferito, nascondendone la faccia, si allontanò.
«Dio mio! Che è questo? Perché è qui?» disse il principe Andrej.
Nell’uomo infelice, che singhiozzava privo di forze, a cui avevano appena amputato la gamba, egli riconobbe Anatole Kuragin. Sorreggevano a braccia Anatole e gli offrivano dell’acqua in un bicchiere di cui egli non riusciva ad afferrare l’orlo con le labbra tremanti e gonfie.
«Sì, è lui; sì, quell’uomo che è legato a me cosi intimamente da un qualche cosa,» pensò il principe Andrej senza capire ancora chiaramente chi fosse l’uomo che stava davanti a lui. «In che cosa consiste il legame di quest’uomo con la mia infanzia, con la mia vita?» Si domandava senza trovare risposta. E a un tratto al principe Andrej si presentò un nuovo, inaspettato ricordo che veniva dal mondo dell’infanzia, della purezza, dell’amore. Ricordò Nataša come l’aveva vista la prima volta a un ballo nel 1810, con l’esile collo e le braccia sottili, col suo viso pronto all’entusiasmo, spaventato, felice, e l’amore e la tenerezza per lei si risvegliarono nella sua anima più vivi e forti che mai. Adesso ricordava quale legame esistesse fra lui e quell’uomo che lo stava guardando attraverso le lacrime che riempivano i suoi occhi gonfi. Il principe Andrej ricordò tutto, e una compassione esultante e piena d’amore per tutti gli uomini riempirono il suo cuore felice.
Egli non seppe più contenersi e pianse lacrime tenere, d’amore per gli uomini, per se stesso e per i propri e i loro sbagli.
«La commiserazione, l’amore per i fratelli, per coloro che ci amano; l’amore per coloro che ci odiano, l’amore per i nemici, sì, quell’amore che Dio ha predicato sulla terra, che mi ha insegnato la principessina Mar’ja e che io non capivo; ecco perché mi dispiaceva di lasciare la vita, ecco quello che ancora mi restava, se fossi vissuto. Ma adesso è troppo tardi. Lo so!»

L’episodio della morte del principe Andrej ci porta verso la profonda religiosità che anima lo scrittore russo. Il momento in cui è strutturato il racconto è decisamente giocato tra l’eroismo di Andrej e l’incredibile felicità che prova nel percepire l’essere ancora in vita. Ha bisogno di sentire la morte, per apprezzare la vita, per amarla, per riviverla nel passato e nel presente. Il presente è Anatole Kuragin, personaggio decisamente negativo nel romanzo, ma che qui acquista un valore che va al di là della sua vita, strumento di un amore universale che trascende il contingente che rende l’uomo simile a Dio.

L’altro grande romanzo di Tolstoj è Anna Karenina:

Anna, moglie insoddisfatta dell’alto funzionario Karenin, si innamora del bell’ufficiale Vronskij. Il marito le impone il rispetto delle formalità sociali, ma Anna, rimasta incinta dell’amante, fugge con lui in Italia. La società pietroburghese mette al bando l’adultera, il marito non le concede il divorzio e le impedisce di vedere il figlio nato da loro matrimonio: disperata per l’isolamento in cui viene a trovarsi, per la crescente incomprensione con l’amante di cui è gelosa senza ragione, Anna si uccide buttandosi sotto il treno. Altro protagonista del romanzo è il potente Levin, ansioso di trovare una fede autentica e deciso a costruirsi una vita familiare e serena e austera con la moglie Kitty, lontano dalle fatue beghe della società moscovita. Troverà nelle semplici parole di un contadino la spinta verso un rinnovamento interiore di tipo evangelico.

IL SUICIDIO DI ANNA

«Sì, mi agita molto, e la ragione è data per liberarsene; perciò bisogna liberarsene. E perché non spegnere la candela, quando non c’è più nulla da guardare, quando fa ribrezzo guardare tutto? Ma come? Perché questo capotreno è passato di corsa sulla traversa? perché gridano quei giovani, in quello scompartimento? Perché parlano, perché ridono? Tutto è menzogna, tutto inganno, tutto malvagità…».
Quando il treno entrò in stazione, Anna uscì tra la folla degli altri passeggeri e, allontanandosi da loro come da lebbrosi, si fermò sulla banchina, cercando di ricordare perché era arrivata là e cosa avesse intenzione di fare. Tutto quello che prima le sembrava possibile, adesso era così difficile a considerarsi, specialmente tra la folla rumoreggiante di tutte quelle persone deformi, che non la lasciavano in pace. Ora i facchini accorrevano da lei, offrendole i loro servigi, ora dei giovani, battendo coi tacchi le assi della banchina e discorrendo forte, la esaminavano, ora quelli che venivano incontro si facevano di lato non dalla parte giusta. Ricordatasi che voleva proseguire, se non ci fosse stata risposta, fermò un facchino e domandò se era venuto un cocchiere con un biglietto per il conte Vronskij.
«Il conte Vronskij? Per incarico suo sono stati qui proprio ora. Venivano incontro alla principessa Sorokina con la figlia. E il cocchiere com’è?»
Mentre ella parlava col facchino, Michajla, rosso e allegro, con un elegante pastrano turchino e la catena, evidentemente orgoglioso d’avere eseguito così bene la commissione, le si avvicinò e le porse un biglietto. Ella aprì e il cuore le si strinse ancor prima di leggere.
«Mi dispiace molto che il biglietto non m’abbia trovato. Verrò alle dieci» scriveva Vronskij con una scrittura trascurata.
«Ecco! Me l’aspettavo!» si disse con un sorriso cattivo.
«Va bene, allora va’ a casa» disse piano, rivolta a Michajla. Ella parlava piano perché la rapidità dei battiti del cuore le impediva di respirare.
«No, non ti permetterò di tormentarmi» ella pensò, rivolta con minaccia, non a lui, né a se stessa, ma a chi le imponeva di tormentarsi, e si incamminò per la banchina lungo la stazione.
Due cameriere che camminavano sulla banchina si voltarono a guardarla, facendo ad alta voce qualche apprezzamento sul suo vestito: «sono veri» dissero dei pezzi ch’ella aveva addosso. I giovani non la lasciavano in pace. Di nuovo le passarono accanto, guardandola in viso e gridando fra le risa qualcosa con voce contraffatta. Il capostazione, passando, le domandò se partiva. Un ragazzo, venditore di kvas, non le toglieva gli occhi di dosso.
«Dio mio, dove andare?» ella pensava, allontanandosi sempre più sulla banchina.
Alla fine si fermò. Le signore e i bambini, che erano venuti a incontrare un signore con gli occhiali e che ridevano e parlavano forte, tacquero, esaminandola, quand’ella giunse alla loro altezza. Ella affrettò il passo e si allontanò da loro verso l’orlo della banchina. Si avvicinava un treno merci. La banchina si mise a tremare e a lei parve d’essere di nuovo in viaggio.
E a un tratto si ricordò dell’uomo schiacciato al suo primo incontro con Vronskij e capì quello che doveva fare. Dopo essere scesa con passo veloce, leggero, per i gradini che andavano verso le rotaie, si fermò accanto al treno che le passava vicinissimo. Guardava la parte sottostante dei carri, le viti e le catene e le ruote alte di ghisa del primo carro che scivolava lento, e cercava di stabilire con l’occhio il punto mediano fra le ruote anteriori e le posteriori e il momento in cui questo punto mediano sarebbe stato di fronte a lei.
«Là» si diceva, guardando nell’ombra del carro la sabbia mista a carbone di cui erano sparse le traverse «là, proprio nel mezzo, e lo punirò, e mi libererò da tutti e da me stessa».
Voleva cadere sotto il primo vagone che giungesse alla sua altezza nel punto mediano; ma il sacchetto rosso che aveva preso a togliere dal braccio, la trattenne, ed era già tardi; il punto mediano le era passato accanto. Bisognava aspettare il vagone seguente. Un sentimento simile a quello che provava quando, facendo il bagno, si preparava a entrar nell’acqua, la prese, ed ella si fece il segno della croce. Il gesto abituale della croce suscitò nell’anima sua tutta una serie di ricordi verginali e infantili, e a un tratto l’oscurità che per lei copriva tutto si lacerò, e la vita le apparve per un attimo con tutte le sue luminose gioie passate. Ma ella non staccava gli occhi dalle ruote del secondo vagone che si avvicinava. E proprio nel momento in cui il punto mediano fra le ruote giunse alla sua altezza, ella gettò indietro il sacchetto rosso, ritirò la testa fra le spalle, cadde sulle mani sotto il vagone e con movimento leggero, quasi preparandosi a rialzarsi subito, si lasciò andare in ginocchio. E in quell’attimo stesso inorridì di quello che faceva. «Dove sono? che faccio? perché?». Voleva sollevarsi, ripiegarsi all’indietro, ma qualcosa di enorme, di inesorabile le dette un urto nel capo e la trascinò per la schiena. «Signore, perdonami tutto!» ella disse, sentendo l’impossibilità della lotta. Un contadino, dicendo qualcosa, lavorava su del ferro. E la candela, alla cui luce aveva letto il libro pieno di ansie e di inganni, di dolore e di male, avvampò di una luce più viva che mai, le schiarì tutto quello che prima era nelle tenebre, crepitò, prese ad oscurarsi e si spense per sempre.

Non diverso dal trapasso del principe Andrej è la morte di Anna. Qui il tutto è visto nei singoli istanti, come se l’occhio del narratore si soffermasse non solo sulle cose, ma sulle sensazioni “deformare” della protagonista. L’ambiente che la circonda è “uno schifo”, le altre persone, nella stazione, sono “come lebbrosi” e “deformi”. La realtà in cui si trova è straniata, tanto da portarla fuori da sé. Quindi Anna la cerca la morte, indaga il punto in cui lasciarsi andare, ma solo allora, nel momento di cadere, si sente invasa da un senso d’illuminazione sulla bellezza dell’esistere.

Nell’intero romanzo non troviamo una semplice storia d’amore e tradimento; vi è in esso l’intrecciarsi di vari filoni della narrazione, i differenti modi di vivere il ruolo di moglie o l’istituzione familiare, la contemporanea rappresentazione di ambienti sociali diversi tra loro trasformano la storia di un adulterio in una globale visione del mondo moscovita e dei problemi morali sul destino dell’uomo che il credente Tolstoj poneva come centrali nella sua riflessione.

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Fëdor Michajlovič Dostoevskij

Contemporaneo a Tolstoj, con cui condivide l’importanza letteraria, è Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821 1881). Tuttavia i temperamenti, le tematiche e le strategie narrative sono molto differenti tra loro. Autore di numerosi romanzi, scritti per ottemperare i numerosi debiti, dovuti anche alla sua passione per il gioco, l’autore russo parte, in un primo momento, dalla descrizione degli ambienti degradati, mostrando pietà verso gli uomini subalterni ed emarginati dalla società. Un fatto biografico, piuttosto importante, oltre a minarlo psicologicamente, determinerà un profondo mutamento nella sua produzione. Nei romanzi della seconda fase, infatti, procede ad un’analitica e spietata analisi dell’uomo, che lo porta a superare il cosiddetto realismo per inaugurare il romanzo psicologico novecentesco e, in qualche modo, anticipare le teorie freudiane.

Tipico di questa seconda fase è il romanzo Memorie del sottosuolo (1865):

Il romanzo è diviso in due parti: la prima s’intitola “Il sottosuolo”, la seconda “A proposito della neve fradicia”. Tutto il romanzo ha la struttura di un lungo monologo. Nella prima parte il protagonista, rivolgendosi a un ipotetico interlocutore, parla di se stesso, dell’educazione ricevuta, della formazione del proprio carattere, del complesso di qualità e difetti da lui definito “sottosuolo”, che costituiscono la personalità nascosta, celata a tutti, affiorante solo a seguito di una dettagliata analisi. Nella seconda parte il narratore ripercorre alcuni episodi della sua vita, dove con più evidenza gli si è manifestato il “sottosuolo”. Solitudine, malinconia lo spingono a seguire, non invitato e non desiderato, alcuni compagni di studi a una cena. Umiliato dal loro atteggiamento, oltraggiato pubblicamente, vendica l’offesa subita su Liza, una prostituta incontrata in una casa di tolleranza: le fa un quadro del destino degradante e spaventoso che l’attende tra debiti, malattie e percosse. Dopo qualche giorno Liza ricompare, con la nostalgia di una vita pura. Accolta con volgarità e violenza, rimane ugualmente convinta della sofferenza profonda dell’uomo che la maltratta. Egli la caccia, mettendogli in mano un biglietto di cinque rubli per umiliarla. Ella fugge, e solo dopo la sua scomparsa il narratore scopre il biglietto sul tavolo, testimonianza della sua meschinità e della profonda dignità di Liza.

L’UOMO DEL SOTTOSUOLO

Sono un uomo malato… Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole. Credo di avere mal di fegato. Del resto, non capisco un accidente del mio male e probabilmente non so di cosa soffro. Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se rispetto la medicina e i dottori. Oltretutto sono anche estremamente superstizioso; be’, almeno abbastanza da rispettare la medicina. (Sono abbastanza colto per non essere superstizioso, ma lo sono.) Nossignori, non voglio curarmi per cattiveria. Ecco, probabilmente voi questo non lo capirete. Be’, io invece lo capisco. Io, s’intende, non saprei spiegarvi a chi esattamente faccia dispetto in questo caso con la mia cattiveria; so perfettamente che neppure ai medici potrò farla non curandomi da loro; so meglio di chiunque altro che con tutto ciò nuocerò unicamente a me stesso e a nessun altro. E tuttavia, se non mi curo, è per cattiveria. Il fegato mi fa male, e allora avanti, che faccia ancor più male! È già da molto tempo che vivo così: una ventina d’anni. Ora ne ho quaranta. Prima lavoravo, ma adesso non lavoro. Ero un impiegato cattivo. Ero villano e ne ricavavo piacere. Infatti non prendevo bustarelle, dunque dovevo pur gratificarmi in qualche modo. (Pessima battuta; ma non la cancellerò. L’ho scritta pensando che sarebbe risultata molto arguta; ma ora che mi son reso conto che volevo soltanto pavoneggiarmi in modo disgustoso, apposta non la cancellerò!) Quando alla scrivania a cui lavoravo si avvicinavano dei postulanti per chiedere informazioni, io digrignavo i denti contro di loro e provavo un indicibile godimento, quando mi riusciva di dare un dispiacere a qualcuno. Mi riusciva quasi sempre. Per la maggior parte era gente timida; si sa: postulanti. Ma fra i bellimbusti non potevo sopportare soprattutto un ufficiale. Lui non voleva in nessun modo sottomettersi e faceva un abominevole baccano con la sciabola. Per un anno e mezzo fra me e lui ci fu una guerra per quella sciabola. Finalmente la spuntai. Egli smise di far baccano. Del resto, questo accadeva ancora nella mia giovinezza. Ma lo sapete, signori, in che consisteva il punto fondamentale della mia cattiveria? Proprio lì stava tutto il nocciolo, proprio lì era racchiusa l’infamia peggiore: che in ogni momento, perfino nel momento della rabbia più accesa, vergognosamente riconoscevo dentro di me che non solo non ero un uomo cattivo, ma neppure ero inasprito, che spaventavo soltanto inutilmente i passeri e così mi consolavo. Ho la schiuma alla bocca, ma portatemi un bambolotto, datemi una tazza di tè con un po’ di zucchero, e magari mi calmerò. Anzi, il mio animo s’intenerirà, anche se poi, probabilmente, digrignerò i denti contro me stesso e per la vergogna soffrirò d’insonnia per diversi mesi. Ormai ci ho fatto l’abitudine. Poco fa ho mentito sul mio conto, dicendo che ero un impiegato cattivo. Ho mentito per cattiveria. Facevo solo i capricci, tanto con i postulanti che con l’ufficiale, ma in realtà non ho mai potuto diventare cattivo. In ogni momento riconoscevo in me molti, moltissimi elementi quanto mai in contrasto con ciò. Sapevo che fermentavano in me, questi elementi contrastanti. Sapevo che per tutta la vita avevano fermentato in me e che cercavano di uscire all’esterno, ma io non lasciavo, non lasciavo, apposta non lasciavo che si sprigionassero. Mi torturavano fino a farmi vergognare; mi conducevano fino alle convulsioni e alla fine mi sono venuti in odio, come mi sono venuti in odio! Ora non vi sembra, signori, ch’io mi stia pentendo di qualcosa dinanzi a voi, che vi chieda perdono di qualcosa?… Sono certo che ne avete l’impressione… Ma, del resto, vi assicuro che per me fa lo stesso, se anche ne avete l’impressione… Non solo cattivo, ma proprio nulla sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né furfante, né onesto, né eroe, né insetto. E ora vegeto nel mio cantuccio, punzecchiandomi con la maligna e perfettamente vana consolazione che l’uomo intelligente non può diventare seriamente qualcosa, ma diventa qualcosa soltanto lo sciocco. Sissignori, l’uomo intelligente del diciannovesimo secolo deve ed è moralmente obbligato a essere una creatura essenzialmente priva di carattere; mentre l’uomo di carattere, l’uomo d’azione, dev’essere una creatura essenzialmente limitata. Questa è la mia quarantennale convinzione. Ora ho quarant’anni, e quarant’anni sono tutta una vita; sono la più decrepita vecchiezza. Vivere più di quarant’anni è indecente, volgare, immorale! Chi vive oltre i quarant’anni? Rispondete sinceramente, onestamente. Ve lo dirò io chi: gli sciocchi e i mascalzoni. Lo dirò in faccia a tutti i vecchi, a tutti quei vecchi venerandi, a tutti quei vegliardi profumati e dalle chiome d’argento! Lo dirò in faccia a tutto il mondo! Ho il diritto di dirlo, perché io stesso camperò fino a sessant’anni. Fino a settant’anni, vivrò! Fino a ottant’anni, vivrò!.. Aspettate! Lasciatemi riprender fiato… Probabilmente pensate, signori, che voglia farvi ridere? Vi siete sbagliati anche in questo. Non sono affatto l’uomo allegro che credete o che forse credete; del resto, se voi, irritati da tutte queste chiacchiere (io già lo sento, che siete irritati), avrete l’idea di domandarmi chi sono, in fin dei conti, allora vi risponderò: sono un assessore di collegio. Lavoravo per avere qualcosa da mangiare (ma unicamente per questo), e quando l’anno scorso un mio lontano parente mi lasciò seimila rubli per testamento, diedi subito le dimissioni e mi sistemai nel mio angolo. Anche prima vivevo in quest’angolo, ma adesso mi ci sono sistemato. La mia stanza è squallida, brutta, ai confini della città. La mia serva è una donna di campagna, vecchia, cattiva per stupidità, e per giunta sempre puzzolente. Mi dicono che il clima pietroburghese mi diventa nocivo e che con i miei scarsi mezzi è troppo costoso vivere a Pietroburgo. Tutto questo lo so, lo so meglio di tutti questi esperti e savissimi consiglieri dall’aria saccente. Ma resterò a Pietroburgo; non me ne andrò da Pietroburgo! Non me ne andrò perché… Uff! Ma è assolutamente indifferente che me ne vada oppure no. E del resto: di che può parlare un uomo perbene con il maggior piacere? Risposta: di sé. E dunque anch’io parlerò di me.

E’ evidente che tale passo è difficilmente inquadrabile nello sviluppo narrativo di un “realismo”: l’uso dell’io narrante, lo sguardo sulla psiche, sulla definizione e sulla negazione della cattiveria, lo scontrarsi con la malattia deformante, non un fisico (Fosca di Tarchetti) ma una mente, sembrano allontanare Dostoevskij dai canoni dell’oggettività: già la scelta del monologo, di per sé estremamente soggettivo, la nega. Ma a mutare radicalmente è l’oggetto della narrazione, non più una realtà esterna, ma l’animo umano, i cui meccanismi non sono, “scientificamente” determinabili. Eppure al di là della pagina la strutturazione può essere ancora inserita in un al di qua della scoperta freudiana dell’inconscio: si è che il comportamento è sempre causato da un qualcosa avvenuta nella sua giovinezza, riconfermando, forse anche in modo problematico, quel milieu che determina il personaggio. Ciò non toglie nulla alla sua grandissima capacità innovativa.

Passa un anno e Dostoevskij dà alle stampe Delitto e castigo (1866):

A Pietroburgo lo studente Raskolnikov cerca una via d’uscita dalla miseria, anche per aiutare la madre e la sorella Dunja che vivono poveramente in provincia e lo mantengono mandandogli quel che Dunja guadagna come istitutrice presso la famiglia Svidrigajlov. Egli è dominato dall’idea di libertà cui ha diritto l’uomo superiore: non esita quindi a uccidere, dopo aver progettato minuziosamente il delitto, una vecchia usuraia e la sua mite sorella Elisavjeta per derubarle. Ma benché un concorso di circostanze favorevoli svii le indagini, dal giorno del delitto Raskolnikov diventa l’implacabile giudice di se stesso. Combattuto tra il ricordo dell’uccisione e il timore ossessivo di venire scoperto, è assalito da eccessi di delirio: il suo ignaro amico Razumichin, onesto e ottimista, cerca invano di dargli sollievo. Nell’ansia di avere notizia sulle indagini, ma anche per provare la sua superiorità, gioca d’astuzia con la polizia, sfidandola: e il giudice Porfirij finisce per sospettare la sua colpevolezza, ma lo lascerà andare libero, ben calcolando che finirà lui stesso per consegnarsi alle sue mani. Nei suoi vagabondaggi Raskolnikov incontra molti relitti umani, come lui tesi a uscire dalla loro degradazione: l’impiegato ubriacone Marmeladov, la tisica Katerina Ivanovna, sua moglie, che per fame ha spinto la figliastra Sonja alla prostituzione, Sonja stessa, la cui dolcezza di vittima finirà per dominare Raskolnikov. Ma da loro, per cui prova amore e pietà, lo separa l’atto commesso. Sarà Sonja che riceverà la confessione di Raskolnikov, che gli indicherà il valore della vita umana secondo il Cristo, e che lo spingerà, anche se ancora ribelle in cuor suo, a costituirsi. Solo in Siberia, accanto a Sonja che lo ha seguito, Raskolnikov si libererà dal senso di sconfitta che gli grava addosso.

SEI TU L’ASSASSINO

Se ne stava lì soprappensiero, e un sorriso strano, contrito, quasi insensato, gli errava sulle labbra. Alla fine prese il berretto e uscì piano dalla stanza. Aveva le idee confuse. Tutto assorto, scese fino al portone.
«Eccolo, in persona!» esclamò una voce forte; egli sollevò il capo.
Il portinaio stava accanto alla porta del suo stambugio e lo indicava a un uomo piuttosto basso, simile nell’aspetto a un artigiano, che indossava una specie di camice e un panciotto e somigliava moltissimo, da lontano, a una donna. La sua testa, sotto il berretto unto e bisunto, pendeva in avanti, e tutta la sua figura appariva curva. Il volto floscio e rugoso faceva supporre che avesse passato la cinquantina; gli occhietti minuscoli, affondati nel grasso, avevano uno sguardo arcigno, scontento e severo.
«Che c’è?» domandò Raskòlnikov, avvicinandosi al portinaio.
L’artigiano lo guardò di sottecchi esaminandolo con insistente attenzione, senza fretta; poi si volse adagio e, senza dire una sola parola, uscì nella strada.
«Ma che significa tutto ciò?» esclamò Raskòlnikov.
«È venuto un tizio a chiedere se abita qui un certo studente, cioè voi; ha chiesto da chi abitate. Intanto siete sceso, io vi ho indicato, e lui se n’è andato via. Che roba, però…»
Anche il portinaio era un po’ perplesso; non troppo, però: e dopo averci pensato su ancora qualche istante, si voltò e si infilò di nuovo nel suo bugigattolo.
Raskòlnikov corse dietro all’artigiano e subito lo vide che camminava dal lato opposto della via, col passo regolare e lento di prima, lo sguardo fisso a terra come se stesse meditando qualcosa. Ben presto lo raggiunse, ma per un po’ gli rimase alle calcagna; infine, giunto alla sua altezza, gli gettò uno sguardo di fianco, proprio in viso. L’altro si accorse subito di lui, lo squadrò rapidamente, ma tornò ad abbassare gli occhi, e così procedettero per circa un minuto, l’uno accanto all’altro, senza spiccicar parola.
«Avete chiesto di me… al portinaio?» riuscì finalmente a dire Raskòlnikov, ma, chissà perché, a voce molto bassa.
L’artigiano non gli diede risposta, e nemmeno lo guardò. Seguì un altro silenzio.
«Ma perché… venite a chiedere… e poi non parlate? Che state cercando, insomma?» La voce di Raskòlnikov continuava a spezzarsi, sembrava che le parole non volessero uscirgli chiare di bocca.
Questa volta l’artigiano alzò gli occhi, e fissò Raskòlnikov con uno sguardo sinistro e cupo.
«Assassino!» disse a un tratto con voce sommessa, ma ben distinta…
Raskòlnikov stava camminando al suo fianco. Di colpo sentì che gli si piegavano le gambe, mentre un brivido freddo gli correva giù per la schiena. Per un istante, fu come se il suo cuore cessasse di pulsare; ma poi prese a battere come impazzito. Fecero così un centinaio di passi, l’uno accanto all’altro, di nuovo in perfetto silenzio. L’artigiano non lo guardava.
«Ma che dite?… Che cosa…? Chi è un assassino?» mormorò Raskòlnikov con voce appena percettibile.
«Tu sei l’assassino,» fece l’altro, pronunciando le parole ancor più distintamente e in tono più grave; e con un sorriso come di odio e di trionfo tornò a guardar dritto Raskòlnikov nel volto esangue e negli occhi vitrei. Insieme, nel frattempo, erano giunti a un crocicchio. L’artigiano scantonò in una strada a sinistra e proseguì senza più voltarsi.
Raskòlnikov, rimasto immobile, lo seguì a lungo con lo sguardo. Vide che l’altro, dopo aver fatto una cinquantina di passi, si voltava a guardare verso di lui, sempre inchiodato allo stesso posto. Non era possibile vederlo bene in viso, ma Raskòlnikov ebbe l’impressione di scorgervi ancora quel sorrisetto freddo, spirante odio e trionfo.
A passo lento e fiacco, con le ginocchia tremanti, e sentendosi come intorpidito, Raskòlnikov tornò indietro e salì nella sua topaia. Si tolse il berretto e lo depose sul tavolino; poi rimase una decina di minuti senza fare un gesto, immobile. Alla fine, sfinito e indolenzito si coricò sul divano, stendendosi con un gemito fioco. Aveva gli occhi chiusi; e così rimase per circa mezz’ora.
Non pensava a niente. Gli passavano per il capo certi pensieri, o meglio brandelli di pensieri, certe immagini disordinate e sconnesse: volti di persone viste nell’infanzia, o incontrate chissà dove una sola volta e delle quali non si era mai ricordato prima; il campanile della chiesa di V.; il biliardo di una taverna e, accanto ad esso, un ufficiale sconosciuto; l’odore di sigari in una tabaccheria situata in un sotterraneo, una bettola, una scala di servizio completamente buia, tutta cosparsa di rifiuti e gusci d’uovo, mentre chissà da dove giungeva un suono di campane a festa… queste visioni si alternavano vorticando come un turbine. Certe gli piacevano perfino, ed egli vi si aggrappava, ma ben presto svanivano; in generale c’era qualcosa che l’opprimeva da dentro, ma neanche tanto, e a momenti si sentiva addirittura bene. Un lieve brivido di febbre lo scuoteva di continuo, e anche questo gli dava una sensazione quasi piacevole.
A un tratto udì i passi precipitosi di Razumìchin e la sua voce; chiuse gli occhi e finse di dormire. Razumìchin aprì la porta e rimase per qualche tempo sulla soglia come meditando sul da farsi. Poi entrò pian piano, avvicinandosi a passi felpati al divano. Sentì Nastàsja bisbigliare:
«Non disturbarlo; lascialo dormire finché vuole; mangerà dopo.»
«Hai ragione,» rispose Razumìchin.
Entrambi uscirono senza far rumore e si richiusero la porta alle spalle. Trascorse un’altra mezz’ora. Aperti gli occhi, Raskòlnikov si mise di nuovo supino, con le mani incrociate dietro la testa…
«Chi è quello? Chi è quel tipo sbucato di sottoterra? Dove si trovava, e che cosa ha visto? Ha visto tutto, questo è fuori discussione. Ma dove sarà stato in quel momento, da dove guardava? Perché salta fuori soltanto adesso? E come ha fatto a vedere? Com’è possibile? Mmh…» seguitò Raskòlnikov rabbrividendo. «E l’astuccio che Nikolàj ha trovato dietro la porta, allora? Anche questo, com’era possibile?… Indizi?… Ma basta trascurare un particolare insignificante, ed eccoti un indizio grande come una piramide d’Egitto! C’era una mosca che volava, e ha veduto. Ma com’è possibile?»
A un tratto, sentì con ribrezzo fino a qual punto fosse indebolito, fisicamente indebolito.
«Dovevo saperlo,» pensava con un sorriso amaro. «Come ho osato, conoscendomi, presentendo me stesso, brandire la scure e sporcarmi di sangue? Dovevo saperlo in anticipo…! E, del resto, lo sapevo in anticipo!…» mormorò disperato.
A tratti un pensiero lo colpiva, tratteneva per qualche istante la sua attenzione.
«No, quegli uomini sono d’un’altra pasta; quegli uomini non sono fatti così. Un vero distruttore, al quale tutto è lecito, mette a sacco Tolone, compie una strage a Parigi, dimentica l’esercito in Egitto, spreca mezzo milione di uomini nella spedizione di Mosca, se la cava con un gioco di parole a Vilna; e dopo che è morto gli innalzano statue; tutto gli è lecito, dunque. Si vede proprio che uomini così non sono fatti di carne, ma di bronzo!»
Un pensiero improvviso, diverso, lo fece quasi ridere:
«Napoleone, le piramidi, Waterloo… e la grama, sordida vedova di un impiegato del registro, una vecchietta, un’usuraia, con un forziere rosso sotto il letto… Come potrebbe, anche un Porfìrij Petròvič, ingoiare un rospo del genere?… Come potrebbero?… L’estetica non lo consente, Napoleone, andarsi a ficcare sotto il letto di quella vecchietta! Eh, che schifo!…»
A momenti gli sembrava quasi di delirare; era in uno stato di esaltazione febbrile.
«Ma la vecchietta è ancora niente!» pensava in modo eccitato, frammentario. «La vecchia, magari, è stata uno sbaglio, ma non è lei che conta! La vecchia è stata solo una malattia… Io volevo superare al più presto l’ostacolo… non è una persona, quella che ho ucciso, ma un principio! Già: il principio l’ho ucciso però l’ostacolo non l’ho superato, sono rimasto al di qua… Soltanto di uccidere sono stato capace, e, a quanto pare, nemmeno questo mi è riuscito molto bene… Un principio? Perché mai, poco fa, quel balordo di Razumìchin se la prendeva con i socialisti? Gente laboriosa, industriosa; si interessano della felicità generale… No, la vita mi vien data una volta sola, e non me la restituiranno mai più: non voglio aspettare la felicità universale, io… Voglio vivere davvero se no è meglio non vivere affatto. E allora? Semplicemente, non ho voluto più passare davanti a mia madre affamata stringendo in tasca il mio rublo, in attesa della felicità universale. Porto, dicono quelli, il mio granello di sabbia alla costruzione della felicità universale, e perciò mi sento la coscienza a posto. Ah, ah! Ma perché mi lasciate da parte? Ho una vita sola da vivere, e anch’io vorrei… Ba’! sono un pidocchio estetizzante, e basta,» aggiunse, scoppiando a ridere di colpo, come un matto. «Sì, sono davvero un pidocchio,» ripeté, aggrappandosi con acre gioia a quell’idea, frugandovi dentro e compiacendosene, «e questo, in primo luogo, già per il semplice fatto che sto dicendomi che sono un pidocchio; in secondo luogo, perché ho stancato la divina Provvidenza per un mese intero, chiamandola a testimonio che non per la mia carne o per la mia lussuria mi cacciavo in questa faccenda, ma in vista di uno scopo grandioso e piacevole, ah, ah!; in terzo luogo, perché mi ero prefisso di procedere, nell’esecuzione, con la maggiore giustizia possibile, un solo peso e una sola misura, una questione matematica: fra tutti i pidocchi avevo scelto il più inutile; e, dopo averlo ucciso, volevo portargli via giusto quel che mi serviva per il primo passo, ne più né meno, e il resto, quindi, sarebbe andato a un monastero, per testamento, ah ah!… Per questo, per questo sono irrimediabilmente un pidocchio!» aggiunse digrignando i denti. «Io stesso, forse, sono peggiore e più sordido del pidocchio che ho ucciso, e presentivo perfino che mi sarei dette queste cose dopo aver ucciso! C’è forse qualcosa di paragonabile a questo orrore? Che volgarità, che cosa ignobile!… Oh, come capisco il profeta a cavallo, con la scimitarra in pugno: è Allah che lo vuole, e a te, tremante creatura, non resta che obbedire! Ha ragione, ha ragione il profeta, quando piazza in mezzo alla strada una buo-o-ona batteria di cannoni e ci dà dentro su innocenti e su colpevoli, senza degnarsi nemmeno di dare una spiegazione! Obbedisci, tremante creatura, e non aver desideri, perché queste non sono cose per te!… Oh, per niente al mondo perdonerò a quella vecchia…»
Aveva i capelli zuppi di sudore, le labbra tremanti e riarse, lo sguardo inchiodato al soffitto.
«Mia madre, mia sorella, quanto le amavo! Perché adesso le odio? Sì, le odio, le odio fisicamente, non me le posso sentire vicino… Poco fa mi sono avvicinato a mia madre e l’ho baciata, e ricordo… Abbracciarla e, intanto, pensare che se sapesse… Ma allora… non sarà meglio che glielo dica? Uno come me ne sarebbe capace… Mmh… Lei dev’essere fatta come me,» aggiunse pensando a fatica, quasi lottando col delirio che a poco a poco si impadroniva di lui. «Oh, come odio, adesso, quella vecchietta! Non ci penserei due volte a ucciderla di nuovo, se tornasse in vita! Povera Lizavèta! Perché me la sono trovata fra i piedi?… Strano, però, che il pensiero di lei mi sfiori appena, come se neanche l’avessi uccisa! … Lizavèta! Sònja! Povere, dolci creature dagli occhi mansueti… Care! Perché non piangono? Perché non gemono ? … Danno via tutto ciò che possiedono… Hanno lo sguardo mite e placido… Sònja, Sònja! Dolce Sònja!…»

La pagina ci offre la straordinaria possibilità di analizzare come Dostoevskij riesca con mirabile capacità ad anticipare il monologo interiore. In questo caso, modernamente, lo spazio viene dilatato e all’interno di esso si confrontino una pluralità di voci che a volte sembrano contraddirsi. E’ il concetto che il critico russo Bachtin chiama “polifonia” che egli stesso individua nella struttura romanzesca di Dostoevskij.
Raskolnikov (come se volesse riprendere il concetto di “nichilismo” di Bazànov in Padri e figli di Turgenev) parte dal concetto d’impunità per l’uomo superiore, e per questo uccide. Ma matura un incredibile senso di colpa, che è frutto di una scissione dell’animo: lui “innocente”, in quanto superiore; lui “colpevole” in quanto essere reietto: questa duplice natura lo porterà alla sfida con la polizia, modo direi quasi “psicoanalitico” di consegnarsi ad essa, per espiare il peccato.

Non possiamo tacere l’ultimo, e forse più importante, romanzo di Dostoevskij, I fratelli Karamazov (1880):

Fedor Karamazov ha tre figli: Dmitrj, Ivan e Aleša. Ha anche un figlio illegittimo, l’epilettico Smerdiakov, che tiene in casa come servo. Fedor è un vecchio libertino, cinico e dissoluto, poco amato dai figli: in particolare Dmitrj, detto Mitja, lo odia perché è innamorato di Grušenka, una bella mantenuta che il vecchio, forte del suo denaro, vuole fare sua. L’altro fratello Ivan è un raffinato intellettuale e filosofo dell’ateismo; il più giovane, Aleša, è novizio nel convento di padre Zosima, che lo guida sulla via del perfezionamento spirituale ma lo obbliga a ritornare nel mondo, che ha bisogno della sua carità cristiana. Infatti, poco dopo, il vecchio Karamazov viene trovato ucciso. Tutti i sospetti cadono su Mitja, difeso solo dalla generosa Grušenka. Anche Ivan crede nella colpevolezza del fratello, fino al giorno in cui Smerdiakov gli confessa di essere lui l’assassino, plagiato dalle teorie atee di Ivan. Subito dopo la confessione Smerdiakov si impicca e Ivan non può provare al processo la verità delle sue rivelazioni. Così Mitja viene condannato ai lavori forzati, Ivan cade in preda ad una febbre cerebrale, mentre Aleša con la sua purezza, purtroppo impotente, guida un gruppo di ragazzi, raccolti in fraterna solidarietà, verso una vita migliore.

LA LEGGENDA DEL GRANDE INQUISITORE

La mia azione si svolge in Spagna, a Siviglia, al tempo più pauroso dell’inquisizione quando ogni giorno nel paese ardevano i roghi per la gloria di Dio e con grandiosi autodafè si bruciavano gli eretici.
Oh, certo, non è cosi che Egli scenderà, secondo la Sua promessa, alla fine dei tempi, in tutta la gloria celeste, improvviso “come folgore che splende dall’Oriente all’Occidente”. No, Egli volle almeno per un istante visitare i Suoi figli proprio là dove avevano cominciato a crepitar i roghi degli eretici. Nell’immensa Sua misericordia, Egli passa ancora una volta fra gli uomini in quel medesimo aspetto umano col quale era passato per tre anni in mezzo agli uomini quindici secoli addietro.
Egli scende verso le “vie roventi” della città meridionale, in cui appunto la vigilia soltanto, in un “grandioso autodafé”, alla presenza del re, della corte, dei cavalieri, dei cardinali e delle più leggiadre dame di corte, davanti a tutto il popolo di Siviglia, il cardinale grande inquisitore aveva fatto bruciare in una volta, ad majorem Dei gloriam, quasi un centinaio di eretici. Egli è comparso in silenzio, inavvertitamente, ma ecco – cosa strana – tutti Lo riconoscono. Spiegare perché Lo riconoscano, potrebbe esser questo uno dei più bei passi del poema. Il popolo è attratto verso di Lui da una forza irresistibile, Lo circonda, Gli cresce intorno, Lo segue. Egli passa in mezzo a loro silenzioso, con un dolce sorriso d’infinita compassione. Il sole dell’amore arde nel Suo cuore, i raggi della Luce, del Sapere e della Forza si sprigionano dai Suoi occhi e, inondando gli uomini, ne fanno tremare i cuori in una rispondenza d’amore. Egli tende loro le braccia, li benedice e dal contatto di Lui, e perfino dalle Sue vesti, emana una forza salutare.
Ecco che un vecchio, cieco dall’infanzia, grida dalla folla: «Signore, risanami, e io Ti vedrò», ed ecco che cade dai suoi occhi come una scaglia, e il cieco Lo vede.
Il popolo piange e bacia la terra dove Egli passa..
Il popolo si agita, grida, singhiozza; ed ecco in questo stesso momento passare accanto alla cattedrale, sulla piazza, il cardinale grande inquisitore in persona. E’ un vecchio quasi novantenne, alto e diritto, dal viso scarno, dagli occhi infossati, ma nei quali, come una scintilla di fuoco, splende ancora una luce… Ha visto tutto… Aggrotta le sue folte sopracciglia bianche e il suo sguardo brilla di una luce sinistra. Egli allunga un dito e ordina alle sue guardie di afferrarlo.
Le guardie conducono il Prigioniero sotto le volte di un angusto e cupo carcere nel vecchio edificio del Santo Uffizio e ve Lo rinchiudono. Passa il giorno, sopravviene la scura, calda, “afosa” notte di Siviglia. L’aria “odora di lauri e di limoni”. In mezzo alla tenebra profonda si apre a un tratto la ferrea porta del carcere, e il grande inquisitore in persona con una fiaccola in mano lentamente si avvicina alla prigione. E’ solo, la porta si richiude subito alle sue spalle. Egli si ferma sulla soglia e considera a lungo, per uno o due minuti, il volto di Lui. Infine si accosta in silenzio, posa la fiaccola sulla tavola e Gli dice:
«Sei Tu, sei Tu?» Ma, non ricevendo risposta, aggiunge rapidamente: «Non rispondere, taci. E che potresti dire? So troppo bene quel che puoi dire. Del resto, non hai il diritto di aggiunger nulla a quello che Tu già dicesti una volta. Perché sei venuto a disturbarci? Sei infatti venuto a disturbarci, lo sai anche Tu. Ma sai che cosa succederà domani? lo non so chi Tu sia, e non voglio sapere se Tu sia Lui o soltanto una Sua apparenza, ma domani stesso io Ti condannerò e Ti farò ardere sul rogo, come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i Tuoi piedi si slancerà domani, a un mio cenno, ad attizzare il Tuo rogo, lo sai? Si, forse Tu lo sai», aggiunse, profondamente pensoso, senza staccare per un attimo lo sguardo dal suo Prigioniero.
Non dicevi Tu allora spesso: «Voglio rendervi liberi?». Ebbene, adesso Tu li ha veduti, questi uomini “liberi”, – aggiunge il vecchio con un pensoso sorriso. «Sì, questa faccenda ci è costata cara», continua, guardandolo severo, «ma noi l’abbiamo finalmente condotta a termine, in nome Tuo. Per quindici secoli ci siamo tormentati con questa libertà, ma adesso l’opera è compiuta e saldamente compiuta. Non credi che sia saldamente compiuta? Tu mi guardi con dolcezza e non mi degni neppure della Tua indignazione? Ma sappi che adesso, proprio oggi, questi uomini sono più che mai convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi. Questo siamo stati noi ad ottenerlo, ma è questo che Tu desideravi, è una simile libertà?».
«lo torno a non comprendere», interruppe Aljòsa, egli fa dell’ironia, scherza?»
«Niente affatto. Egli fa un merito a sé ed ai suoi precisamente di avere infine soppresso la libertà e di averlo fatto per rendere felici gli uomini. “Ora infatti per la prima volta (egli parla, naturalmente, dell’inquisizione) è diventato possibile pensare alla felicità umana. L’uomo fu creato ribelle; possono forse dei ribelli essere felici? Tu eri stato avvertito, – Gli dice, – avvertimenti e consigli non Ti erano mancati, ma Tu non ascoltasti gli avvertimenti. Tu ricusasti l’unica via per la quale si potevano render felici gli uomini, ma per fortuna, andandotene, rimettesti la cosa nelle nostre mani. Tu ci hai promesso, Tu ci hai con la Tua parola confermato, Tu ci hai dato il diritto di legare e di slegare, e certo non puoi ora nemmeno pensare a ritoglierci questo diritto. Perché dunque sei venuto? Sai Tu che passeranno i secoli e l’umanità proclamerà per bocca della sua sapienza e della sua scienza che non esiste il delitto, e quindi nemmeno il peccato, ma che ci sono soltanto degli affamati? “Nutrili e poi chiedi loro la virtù!”. Oh, mai, mai essi potrebbero sfamarsi senza di noi! Nessuna scienza darà loro il pane, finché rimarranno liberi, ma essi finiranno per deporre la loro libertà ai nostri piedi e per dirci: «Riduceteci piuttosto in schiavitù ma sfamateci». Comprenderanno infine essi stessi che libertà e pane terreno a discrezione per tutti sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro! Si convinceranno pure che non potranno mai nemmeno esser liberi, perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli.
Essi sono viziosi e ribelli, ma finiranno per diventar docili. Essi ci ammireranno e ci terranno in conto di dèi per avere acconsentito, mettendoci alla loro testa, ad assumerci il carico di quella libertà che li aveva sbigottiti e a dominare su loro, tanta paura avranno infine di esser liberi! Ma noi diremo che obbediamo a Te e che dominiamo in nome Tuo. Li inganneremo di nuovo, perché allora non Ti lasceremo più avvicinare a noi. E in quest’inganno starà la nostra sofferenza, poiché saremo costretti a mentire. Ecco ciò che significa quella domanda che Ti fu fatta nel deserto, ed ecco ciò che Tu ricusasti in nome della libertà, da Te collocata più in alto di tutto. In quella domanda tuttavia si racchiudeva un grande segreto di questo mondo. Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all’universale ed eterna ansia umana, dell’uomo singolo come dell’intera umanità: “Davanti a chi inchinarsi?”. Non c’è per l’uomo rimasto libero più assidua e più tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi. Ma l’uomo cerca di inchinarsi a ciò che già è incontestabile, tanto incontestabile, che tutti gli uomini ad un tempo siano disposti a venerarlo universalmente. Perché la preoccupazione di queste misere creature non è soltanto di trovare un essere a cui questo o quell’uomo si inchini, ma di trovarne uno tale che tutti credano in lui e lo adorino, e precisamente tutti insieme. E questo bisogno di comunione nell’adorazione è anche il più grande tormento di ogni singolo, come dell’intera umanità, fin dal principio dei secoli. E’ per ottenere questa adorazione universale che si sono con la spada sterminati a vicenda. Essi hanno creato degli dèi e si sono sfidati l’un l’altro: «Abbandonate i vostri dèi e venite ad adorare i nostri, se no guai a voi e ai vostri dèi!». E cosi sarà fino alla fine del mondo, anche quando gli dèi saranno scomparsi dalla terra: non importa, cadranno allora in ginocchio davanti agli idoli. Tu conoscevi, Tu non potevi non conoscere questo fondamentale segreto della natura umana, ma Tu rifiutasti l’unica irrefragabile bandiera che Ti si offrisse per indurre tutti a inchinarsi senza discussione dinanzi a Te;…
Tu volesti il libero amore dell’uomo, perché Ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. In luogo di seguire la salda legge antica, l’uomo doveva per l’avvenire decidere da sé liberamente, che cosa fosse bene che cosa fosse male, avendo dinanzi come guida la sola Tua immagine; ma non avevi Tu pensato che, se lo si fosse oppresso con un cosi terribile fardello come la libertà di scelta, egli avrebbe finito per respingere e contestare perfino la Tua immagine e la Tua verità?…
Sappi che io non Ti temo. Sappi che anch’io fui nel deserto, che anch’io mi nutrivo di cavallette e di radici, che anch’io benedicevo la libertà di cui Tu letificasti gli uomini, che anch’io mi ero preparato ad entrare nel numero dei Tuoi eletti, nel numero dei potenti e dei forti, con la brama di “completare il numero”. Ma mi ricredetti e non volli servire la causa della follia. Tornai indietro e mi unii alla schiera di quelli che hanno corretto l’opera Tua. Lasciai gli orgogliosi e tornai agli umili per la felicità di questi umili. Ciò che Ti dico si compirà e sorgerà il regno nostro. Ti ripeto che domani stesso Tu vedrai questo docile gregge gettarsi al primo mio cenno ad attizzare i carboni ardenti del rogo sul quale Ti brucerò per essere venuto a disturbarci. Perché se qualcuno più di tutti ha meritato il nostro rogo, sei Tu. Domani Ti arderò. Dixi».
Ivàn, si fermò. Egli si era accalorato e aveva parlato con fervore; quando poi ebbe finito, fece improvvisamente un sorriso.
Aljòsa, che l’aveva sempre ascoltato in silenzio e verso la fine, in preda a straordinaria agitazione, molte volte aveva voluto interrompere il discorso del fratello, ma si era visibilmente trattenuto, si mise d’un tratto a parlare, come scattando: «Ma… è un assurdo!» esclamò, arrossendo. «Il tuo poema è l’elogio di Gesù e non la condanna… come tu volevi. E come termina il tuo poema?…»
«lo volevo finirlo cosi: l’inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta per qualche tempo che il suo Prigioniero gli risponda. Il Suo silenzio gli pesa. Ha visto che il Prigioniero l’ha sempre ascoltato, fissandolo negli occhi col suo sguardo calmo e penetrante e non volendo evidentemente obiettar nulla. Il vecchio vorrebbe che dicesse qualcosa, sia pure di amaro, di terribile. Ma Egli tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli delle labbra hanno avuto un fremito; egli va verso la porta, la spalanca e Gli dice: «Vattene e non venir più… non venire mai più… mai più!». E Lo lascia andare per “le vie oscure della città”. Il Prigioniero si allontana.
«E il vecchio?»
«Il bacio gli arde nel cuore, ma il vecchio persiste nella sua idea.»

Ivan Karamazov, seduto al tavolo di una locanda, di fronte al fratello Alëša, decide di narrargli l’unica opera da lui concepita (e mai messa per iscritto) che ha intitolato La Leggenda del Grande Inquisitore. E’ una storia ambientata nel XVI secolo in Spagna, a Siviglia, nel periodo più terribile dell’Inquisizione. In quell’epoca e in quel luogo, Gesù ritorna ancora una volta tra gli uomini. Tutti lo riconoscono, tutti sono attratti da Lui. Anche il cardinale Grande Inquisitore, un vecchio novantenne dagli occhi infossati, lo riconosce e subito lo fa arrestare per mandarlo al rogo il giorno dopo, come il peggiore degli eretici. Il suo peccato, il più grave che si potesse compiere, è quello di essersene andato senza fare in modo che gli uomini avessero delle regole sicure e fossero obbligati a seguirle. L’umanità sarebbe stata ben felice d’essere schiava e servire un Dio. Il grave peccato di questo Dio è di averla lasciata libera, trattandola alla pari, con la dignità di un figlio. Per questo, loro, i custodi di quel lascito, hanno dovuto provvedere a fare ciò che Lui non aveva fatto. Il finale di questa storia, con il confronto nella cella tra Il Grande Inquisitore e Cristo, è ancora più sorprendente; così come la replica di Alëša a fine racconto.

Ma quello che a noi interessa di più è l’argomento religioso-filosofico di Dostoevskij, l’“insopportabile libertà” dell’uomo, accordatagli da Colui che l’uomo stesso voleva suo padrone, da servire alla maniera degli schiavi. Nei Karamazov Dostoevskij studia il destino dell’uomo lasciato in libertà. Lo interessa solo l’uomo che incede sulla via della libertà, il destino dell’uomo sulla libertà e della libertà sull’uomo.

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Anton Pavlovič Čechov

Non possiamo concludere il nostro discorso se non con un grande novellista, un letterato russo che, insieme al francese Guy De Maupassant e al nostro Giovanni Verga, portano l’arte del racconto breve ad altissimi livelli. Anton Pavlovič Čechov, (1960 – 1904) d’origine umile, medico non assiduo, passerà gran parte della sua breve vita a scrivere racconti. Grande è anche la sua straordinaria arte che riuscirà ad esprimere nelle opere teatrali. Riportiamo qui un breve racconto:

UNO SCHERZETTO

E’ un sereno meriggio d’inverno… Il gelo è rigido, la neve scricchiola e a Nàden’ka, che mi ha preso per il braccio, si coprono di una brina argentea i riccioli sulle tempie e la lanugine sul labbro superiore. Siamo sulla cima di una montagnola. Dai nostri piedi fino al piano si stende una superficie levigata, in cui il sole si mira come in uno specchio. Accanto a noi è una piccola slitta foderata di panno vermiglio.
«Andiamo giù, Nadeˇzda Petrovna!» imploro io. «Una sola volta! Vi assicuro, arriveremo sani e salvi». Ma Nàden’ka ha paura. Lo spazio che corre dalle sue piccole calosce fino ai piedi della montagnola di ghiaccio le sembra spaventoso, un abisso d’insondabile profondità. Quando guarda in giù, si sente morire e le si mozza il respiro, non appena le propongo di sedersi nella slitta: e che cosa accadrà quando si arrischierà di volare in quell’abisso! Morirà, impazzirà. «Vi supplico!» dico io. «Non dovete aver paura! Non capite che è debolezza, viltà?» Finalmente Nàden’ka cede, e dal suo volto vedo che cede con la paura di rischiare la vita. L’aiuto, pallida, tremante a sedersi nella slitta; le cingo con il braccio la vita, e con lei mi precipito nell’abisso. La slitta vola come un proiettile. L’aria tagliata frusta i nostri visi, ulula, fischia nelle orecchie, tira, punge dolorosamente di rabbia, sembra voglia strappare la testa dalle spalle. La violenza del vento non dà forza di respirare. Pare che il diavolo stesso ci abbia afferrati con le sue zampe e urlando ci trascini all’inferno. Gli oggetti intorno si confondono in una unica striscia lunga che corre vertiginosamente… Ecco, ecco, ancora un istante, e sarà, sembra, la nostra rovina! «Vi amo, Nadja!» dico sottovoce.
La slitta comincia a scivolare sempre più lentamente, e l’urlo del vento e il ronzio dei pattini non sono più così spaventosi, il respiro non è più mozzato, e finalmente, siamo arrivati in basso. Nàden’ka non è né viva né morta. E’ pallida, respira appena… L’aiuto ad alzarsi. «Per nulla al mondo ci tornerei un’altra volta» dice guardandomi con occhi sbarrati, pieni di terrore. «Per nulla al mondo! Per poco non morivo». Poco tempo dopo si è rimessa e già comincia a guardarmi negli occhi con una espressione interrogativa, come volesse accertarsi, se ho detto quelle tre parole veramente, o se le è sembrato soltanto di udirle nel frastuono del turbine. Ed io me ne sto accanto a lei, fumo e osservo attentamente il mio guanto. Mi prende sottobraccio, e a lungo passeggiamo accanto alla montagnola. L’enigma, evidentemente, non le dà requie. Sono state pronunciate quelle parole, oppure no? Sì o no? Sì o no? E’ una questione d’amor proprio, d’onore, di vita, di felicità, una questione molto importante, la più importante del mondo. Nàden’ka mi guarda in viso impaziente, triste, con uno sguardo scrutatore, non risponde a tono, aspetta che io mi metta a parlare. O come variano le espressioni su quel volto caro, come variano! Vedo che essa lotta con se stessa, che ha bisogno di dirmi qualcosa, di chiedermi qualcosa, ma non trova le parole, si sente impacciata, atterrita, la gioia la turba… «Sapete che cosa?» dice senza guardarmi in viso. «Che cosa?» domando io. «Facciamolo ancora una volta… scendiamo in slitta». Ci arrampichiamo per la scala sulla vetta del pendio. Di nuovo aiuto Nàden’ka pallida, tremante ad accomodarsi nella slitta, di nuovo voliamo nel terribile abisso, di nuovo urla il vento e ronzano i pattini, e di nuovo quando la slitta ha raggiunto la sua massima velocità io dico sottovoce nel frastuono: «Vi amo, Nàden’ka!» Quando la slitta si ferma, Nàden’ka abbraccia con uno sguardo la montagnola sul dorso della quale siamo or ora discesi, poi scruta a lungo il mio viso, ascolta la mia voce indifferente e spassionata, e tutta, tutta, perfino il suo manicotto e il cappuccio, tutta la sua figurina esprime una estrema perplessità. Sul suo viso sta scritto: “Che succede? Chi ha pronunciato quelle parole? Lui, oppure mi è parso soltanto sentirle?” Questa incertezza la rende inquieta, la impazientisce. La povera fanciulla non risponde alle domande, si fa scura in viso. E’ sul punto di scoppiare in lacrime. «Dobbiamo forse tornare a casa?» domando io. «Ma, a me… a me piace questo scendere in slitta» dice arrossendo. «Non potremmo forse scendere un’altra volta?» Le “piace” questo scendere, e tuttavia, mentre si siede nella slitta, è pallida come le prime volte, respira appena dal terrore, trema. Facciamo la discesa una terza volta, e mi accorgo, come mi guarda in viso, fissa le mie labbra. Ma io accosto alle labbra un fazzoletto, tossisco e, quando raggiungiamo la metà della discesa, faccio in tempo a sussurrare: «Vi amo, Nadja!» L’enigma rimane tale! Nàden’ka tace, pensa a qualcosa… La riaccompagno a casa, essa cerca di camminare più adagio, rallenta i passi e aspetta sempre che le dica di nuovo quelle parole. E vedo, quanto soffre la sua anima, come sta facendo uno sforzo su se stessa, per non dire: «Non può essere che le abbia dette il vento! E non voglio che le abbia dette il vento!» Il giorno dopo ricevo la mattina un biglietto: “Se oggi andate alla pista delle slitte, passate a prendermi. N.” E da quel giorno comincio ad andare quotidianamente con Nadja alla pista e, mentre voliamo giù sulla slitta, pronuncio ogni volta sottovoce quelle stesse parole: «Vi amo, Nadja!» Ben presto Nàden’ka s’avvezza a questa frase, come ci si avvezza al vino o alla morfina. Non può più vivere senza di essa. E’ vero che le fa sempre molta paura volar giù dalla cima della montagna, ma ormai il terrore e il pericolo conferiscono un fascino speciale alle parole d’amore, alle parole che come prima formano un enigma e fanno languire l’anima. Il sospetto cade sempre sugli stessi due: su me e sul vento… Chi dei due le faccia la dichiarazione d’amore, essa non sa, ma ormai evidentemente per lei è lo stesso; non importa da quale recipiente si beva, basta che ci si inebrii. Un pomeriggio mi recai da solo alla pista; mescolatomi con la folla, vedo che Nàden’ka si avvicina alla montagnola, che mi cerca con gli occhi… Poi timidamente si arrampica su per la scaletta… E’ terribile far la discesa da sola, oh com’è terribile. E’ pallida come la neve, trema, cammina come se andasse al patibolo, ma cammina, cammina senza guardare indietro, decisamente. Ha deciso, si vede, di provare finalmente se sarà possibile udire quelle parole dolci, stupefacenti, quando non ci sono io. Vedo come pallida, la bocca aperta per lo spavento, si siede nella slitta, chiude gli occhi e, detto per sempre addio alla terra, si mette in moto… “ssss”… ronzano i pattini. Ode Nàden’ka quelle parole? Non lo so… Vedo soltanto come si alza debole, sfinita, dalla slitta. E dal suo volto si capisce che essa stessa non sa se abbia o no udito qualcosa. Il terrore, mentre scivolava, le ha tolto la facoltà di udire, di distinguere i suoni, di capire… Ma ecco che viene il mese primaverile di marzo… il sole si fa più carezzevole. La nostra montagnola di ghiaccio diventa più scura, smette di luccicare e finalmente si scioglie. Smettiamo di andare in slitta. Per la povera Nàden’ka non c’è più possibilità di sentire quelle parole, eppoi chi le può ormai pronunciare? Il vento non si ode più e io mi accingo a partire per Pietroburgo, per lungo tempo, probabilmente per sempre. Una volta, due o tre giorni prima della partenza, me ne sto seduto, al crepuscolo, nel giardino, che uno steccato alto sormontato da chiodi separa dal cortile, dove vive Nàden’ka… Fa ancora piuttosto freddo, sotto il concime c’è ancora la neve, gli alberi sono morti, ma c’è già odor di primavera e, mentre si preparano a dormire, le cornacchie gracchiano rumorosamente. Mi avvicino allo steccato e guardo a lungo attraverso una fessura. Vedo Nadja che esce sulla soglia e volge uno sguardo mesto, nostalgico al cielo… Il vento primaverile le soffia diritto nel viso pallido, abbattuto… Le ricorda quell’altro vento, che allora ci urlava in viso sulla montagna, quando udiva quelle parole, e il suo volto si fa triste, triste, e lungo la guancia scende lenta una lacrima… E la povera fanciulla protende tutte e due le braccia, come volesse pregare il vento di recarle ancora una volta quelle parole. Ed io, dopo avere atteso che il vento soffi di nuovo, dico sottovoce: «Vi amo, Nadja!» Dio mio, che succede ora! Lancia un grido, sorride con tutto il viso e protende incontro al vento le braccia, beata, felice, così bella. E io torno a far le valigie… Questo è accaduto molto tempo fa. Ora Nàden’ka è già maritata; l’hanno data in sposa, o s’è data lei stessa, non importa, al segretario della Camera di tutela nobiliare, e ormai ha già tre bambini. Ma il ricordo di quando andavamo in slitta e il vento le recava le parole “vi amo, Nàden’ka”, non si è spento; per lei è il ricordo più felice, più commovente e splendido della sua vita… Mentre io ora che mi sono fatto più vecchio, non riesco più a capire perché dicessi quelle parole, a che scopo scherzassi…

 I racconti Di Checov hanno una sostanziale povertà di intreccio e scarsità d’azione e lasciano spazio all’interesse dello scrittore russo nel tratteggiare esperienze psicologiche o stati d’animo fatti di poco (un ricordo, un gesto, un’atmosfera). Una visione pessimistica della realtà, destinata a diventare sempre più amara con il passare degli anni, traspare nei suoi racconti, popolati da uomini e donne qualunque, che potremmo incontrare ogni giorno, delusi e frustrati nei desideri più intimi, incapaci di comunicare e di vivere con pienezza grandi sentimenti.

Anche in Uno scherzetto possiamo ritrovare questi temi: dalla mancata realizzazione di sé all’amore vissuto come amaro e doloroso rimpianto, fino all’impossibilità di giungere a certezze definitive. La realtà, anzi, sembra farsi sempre più labile e sfuggente per i due personaggi: travolti dallo scorrere del tempo e dall’inafferrabilità della vita, né il narratore-protagonista né Nadja, sua compagna di giochi in un pomeriggio invernale, riusciranno a realizzare pienamente se stessi, capaci solo di fissare per sempre nella memoria l’attimo di un’avventura in slitta, contemplata con nostalgia come un’occasione perduta.

 
 
 

IL POSITIVISMO

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Le fasi costruttive della Torre Eiffel, simbolo di progresso

A dominare la cultura nell’Europa di fine ’800 è il Positivismo, movimento filosofico, figlio della borghesia al potere e del grande progresso industriale. Alla sua base vi è la scienza, intesa non come campo limitato del sapere, ma come un vero e proprio atteggiamento mentale che riduce la realtà in una serie di rapporti meccanicistici capaci d’interpretare ogni forma culturale. Si leggono in questo modo sia la storia che le scienze umane e si tende ad applicare il metodo scientifico anche alla letteratura.

Il Positivismo è un movimento culturale in senso lato che si sviluppa in Europa e se dovessimo indicare generalmente una data d’inizio (con le opportune cautele) partiremo dal 1848, anno che viene indicato come un vero e proprio spartiacque nella cultura sociale e politica dell’intero continente. E’ infatti l’anno che segna il punto di conflitto più alto fra le vecchie gerarchie, rappresentate in Inghilterra dall’instaurazione del governo dei Tories, in Francia da Napoleone III e in Prussia da Otto von Bismarck e l’ascesa inarrestabile della borghesia, che si vedeva riflessa nell’ideologia liberale. In questo conflitto s’inserisce, a sua volta, la cosiddetta “massa”, sfruttata sia in campo industriale che agrario e che, pur non essendo un vero e proprio gruppo omogeneo, cominciava a far sentire la sua voce attraverso intellettuali più attenti e sensibili ai suoi problemi, si pensi solo a Marx ed Engels e al loro Manifesto, proprio del 1848.

Dopo questo anno le strutture sociali e politiche vedranno delle modifiche sostanziali sia sul piano della geografia europea che fra i rapporti tra le classi:

  • nei paesi avanzati, si assisterà ad una saldatura fra le vecchie classi e la classe imprenditoriale a difesa degli interessi comuni e, nello stesso tempo, ma sulla sponda opposta, l’inizio di organizzazioni che, mutuando il termine da Marx, potremo definire “proletarie”;
  • il compimento “liberal-borghese” di stampo cavouriano dell’unità d’Italia (1960 – 1970) e quello della Confederazione germanica sotto la guida della Prussia nel 1871 (a cui corrisponde il forte ridimensionamento della potenza austro-ungarica).

E’ proprio da questa nuova geografia e da diverse situazioni sociali ed economiche che si comprende la differenza che tale movimento culturale subisce a seconda del luogo in cui si sviluppa: in Francia si inserisce all’interno del razionalismo che va da Cartesio all’Illuminismo; in Inghilterra si sviluppa sulla tradizione empiristica ed utilitaristica, e si intreccia in seguito, con la teoria dell’evoluzione darwiniana; in Germania assume la forma di un rigido scientismo; in Italia affonda le radici nel naturalismo rinascimentale, anche se dà i suoi frutti maggiori, data la situazione sociale della nazione allora unificata, nella pedagogia e nell’antropologia criminale di Cesare Lombroso.

Pur nella sua ramificazione il Positivismo si poggia su dei punti qualificanti; la nascita della sociologia di Auguste Comte e la teoria evoluzionistica di Charles Darwin.

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Ritratto di Auguste Comte

Auguste Comte (1798 – 1857) è il padre riconosciuto del positivismo, colui che si dedicò più di ogni altro alla definizione di un nuovo sistema di pensiero che partisse dalle basi certe della fisica e del metodo sperimentale.

Le leggi che regolano lo sviluppo dell’uomo e della realtà obbediscono alle stesse leggi delle scienze fisiche e sono, pertanto, determinate: lo scienziato deve svelare queste leggi in modo da poter, attraverso il metodo sperimentale, agire sulla realtà in modo concreto. Ciò darà vita a quella scienza positiva (da cui il nome del movimento filosofico) che è, per Comte, il culmine di uno sviluppo storico ininterrotto verso la vera conoscenza delle cose.

L’uomo, nel passato, si è accostato alla conoscenza attraverso tre momenti:

  • Il primo stato è quello teologico, ovvero lo stato in cui l’uomo spiega l’ignota origine dei fenomeni attribuendone le cause a forze divine superiori (“il fulmine è un dardo scagliato da Zeus”), è il periodo dell’infanzia dell’umanità;
  • Il secondo è lo stato metafisico, ovvero lo stato in cui l’uomo rifiuta la spiegazione divina e cerca nell’essenza astratta dei fenomeni la spiegazione di tutto (“il fuoco brucia perché possiede l’essenza del calore, la virtù calorifica”), è il periodo dell’adolescenza dell’uomo;
  • Il terzo stato è quello positivo, ovvero lo stato in cui si trova a vivere l’uomo moderno, il quale spiega i fenomeni studiandone le leggi empiriche (“il fulmine è una scarica elettrica”), è la fase della maturità dell’uomo.

I tre stati di conoscenza possono essere applicati ad ogni forma di sapere, che parte dai grandi interrogativi dell’uomo sino al singolo agire dell’individuo. Per meglio dire il positivismo rinuncia alla ricerca dei perché delle cose per concentrarsi sul come accadono. Tale nuova prospettiva è propria di tutta la scienza moderna e di larga parte della filosofia contemporanea.

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Charles Darwin

Il darwinismo, invece, sviluppa le teorie del naturalista francese Lamarck, il quale afferma che la diversità delle specie animali è dettata dall’adattabilità degli esseri viventi all’ambiente. Darwin specifica il concetto sopra esposto, aggiungendo ad esso quello della “lotta per la vita”: le specie, cioè, sviluppano quelle variazioni atte a risultare vantaggiose rispetto ad un cambiamento e ad eliminare le nocive. Queste diventavano poi ereditarie e quindi proprie di una specie. Chi non fosse riuscito a questo sarebbe stato “naturalmente” espulso, cancellato durante il corso evolutivo, (concetto di selezione naturale). Ma quello che più rende efficace tale teoria è la sua dimostrabilità: ciò che da secoli fa l’uomo attraverso le selezione di piante e animali, fa da sempre la natura, e se non sempre è possibile verificarlo attraverso lo studio della paleontologia, secondo il filosofo inglese, è dovuto alla scomparsa di alcune specie.

Come si vede ambedue le teorie esposte si basano sulla sperimentazione scientifica, che copre, in questa fase, anche l’antropologia.

Si è detto in precedenza come il positivismo ricopra, al di là degli aspetti particolaristici dei paesi in cui diventa la cultura dominante, sia in quanto propulsiva di essa (come in Francia) o ricettiva di essa, l’intera Europa.

Pur nelle differenze potremmo affermare che:

  • si rivendica il primato della scienza: si conosce solo quello che ci mostrano le scienze, e l’unico metodo scientifico è quello delle scienze naturali;
  • il metodo delle scienze naturali non vale solo per lo studio della natura ma anche per lo studio dell’uomo e della società;
  • la sociologia, intesa come scienza di quei “fatti naturali” che sono i rapporti umani e sociali, è un frutto qualificante del programma filosofico positivistico;
  • nel Positivismo non si ha soltanto l’affermazione dell’unità del metodo scientifico e del primato di questo metodo come strumento conoscitivo, ma la scienza viene esaltata come l’unico mezzo in grado di risolvere, nel corso del tempo, tutti i problemi umani e sociali che fino ad allora avevano tormentato l’umanità;
  • conseguentemente a ciò, l’era del Positivismo è pervasa da un ottimismo generale, che scaturisce dalla certezza in un progresso inarrestabile verso condizioni di benessere generalizzato in una società pacifica e pervasa da umana solidarietà.

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Gustave Caillebotte: Una strada di Parigi, tempo di pioggia (1877)

Questa mentalità dà vita ad una serie di “invenzioni” che mutano, fondamentalmente, il modus vivendi della società europea. La capacità dell’uomo di trasformare la natura fa nascere il mito del self made man, cioè dell’uomo che, pur partendo da classi sociali umili, può, attraverso la propria intraprendenza e la capacità competitiva, imporsi di fronte alla realtà. Questa spinta propulsiva è data dall’idea del progresso che, grazie ad un forte sviluppo durante la seconda metà del secolo, stava cambiando i parametri del vivere: la capacità del mercato di offrire prodotti ad un sempre maggior numero di utenti, le grandi scoperte mediche che debellano malattie fino ad allora letali (nasce la diagnostica, l’anestesia, l’anepsi), la sensazione di vivere in un nuovo mondo dominato dall’illuminazione delle strade cittadine (dai primi tentativi alla piena affermazione nella seconda metà dell’Ottocento), da comunicazioni sempre meno distanti grazie al telefono (Meucci, 1871), dall’essere immortalati per l’eternità attraverso la fotografia, che s’impose proprio tra il ’50 e la fine del secolo. Nasce in questo periodo, con una sola parola, la modernità, che stravolge il modo di vita millenario dominato dalla cultura contadina e porta alla ribalta della storia la borghesia nelle sue interne articolazioni: non solo i grandi industriali, ma anche i piccoli borghesi delle città, dediti ad attività terziarie, che diventano massa da educare ai valori dominanti attraverso i giornali ed i modi di vita imposti dal mercato (la belle époque).

Si sviluppano, infatti, anche nuove forme di trasmissione del sapere. Grande importanza assume, in questo senso, la nascita del giornale, cui dedicheranno tempo non solo i cronisti politici ed economici, ma anche letterati, incapaci di vivere con il loro solo lavoro. Essi saranno i protagonisti delle Terze pagine, contenenti i maggiori eventi e riflessioni culturali del periodo.

Ma il giornale è anche il promotore della nascita della letteratura di consumo (feuilleton o romanzo d’appendice, poesie celebrative) che elabora proprie strutture, tali da poter essere fruite dal maggior numero possibile di alfabetizzati. Tipici di questa letteratura sono i romanzi sentimentali e d’avventura (pubblicati a puntate nell’ultima pagina del giornale, e costruiti in modo da attirare l’attenzione del lettore che così ne avrebbe continuato l’acquisto); i primi hanno come punto di riferimento il pubblico femminile educato a valori morali e al rispetto del perbenismo ristretto della mentalità borghese; i secondi hanno invece come utenti il pubblico dei lavoratori degli uffici, desiderosi d’evadere dalla noia d’un mestiere ripetitivo. Essi sono portatori di ideologie vetero-romantiche, d’un nazionalismo esasperato, di una vita fondata sul buonismo ed altruismo, ma soprattutto, con il loro preteso fine di far “sognare”, si pongono in antitesi con l’alta cultura letteraria del momento, che in Europa prende il nome di naturalismo.

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Un’ultima cosa ci sembra corretto analizzare: tale movimento sembra collegarsi in modo netto, tanto da sembrare uno sviluppo, all’Illuminismo: anche lì si dà importanza al sapere, “meccanico”, si pensi all’Encyclopedie. Ciò che li differenzia è l’approccio. Tanto il movimento settecentesco è teorico quanto il Positivismo è “pratico”; quanto il primo mitizza la figura del philosophe, quanto il secondo quello dello scienziato, medico o ingegnere; quanto l’emblema del primo è un’opera monumentale, tanto nel secondo è la Torre Eiffel.

ALESSANDRO MANZONI

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Il periodo giovanile

Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785 dal conte Pietro e da Giulia Beccaria, (matrimonio d’interesse: lui in seconde nozze di 46 anni, lei, le cui fortune di casa erano piuttosto precarie, di appena 20). Visto il carattere un po’ esuberante della giovane donna, si vocifera, sin dall’inizio, e non senza ragione, che il padre naturale di Alessandro sia Giovanni Verri, fratello minore di Pietro, anche se Alessandro lo negherà sempre. 

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Giulia Beccaria

Tuttavia la voce (fondata o no) ci dimostra, al di là del mero fatto biografico, come i rapporti dello scrittore milanese con l’illuminismo lombardo non furono soltanto culturali, ma anche e soprattutto “familiari”. Infatti non è solo per la discendenza dell’ipotetico vero padre, ma anche per quella della madre, figlia del celeberrimo Cesare Beccaria, autore di quel testo fondamentale dell’Illuminismo italiano ed europeo Dei delitti e delle pene, che tale rapporto non verrà mai meno.
Il giovane Alessandro viene educato sotto il rigido controllo paterno che lo indirizzerà ad una cultura tradizionale cattolica confinandolo nei collegi dei padri Somaschi (in Svizzera) e poi dei Bernabiti a Milano dove sarà costretto ad assimilare una cultura retriva e bigotta da cui prenderà sin da giovane le distanze, avvicinandosi al giacobinismo e al neoclassicismo. Scriverà sin dal 1801 opere di scarsa importanza, fra le quali ricordiamo l’epillio Adda (dedicato a Vincenzo Monti) e il poemetto Urania, tutte improntate sull’insegnamento neoclassico.
Nel 1792 Giulia si divide ufficialmente dal marito, per andare dapprima a Londra e poi a Parigi, nel 1795, dove convivrà con il nuovo compagno Carlo Imbonati (intanto fa notizia e scandalo che l’Imbonati nomini Giulia sua erede universale). Quest’ultimo inviterà il giovane Alessandro a raggiungere la madre a Parigi, città cui giungerà nel 1805; ma nel frattempo muore l’Imbonati;  ciò determinerà la prima svolta poetica scrivendo per lui il poemetto, sotto forma di visione, In morte di Carlo Imbonati. In questo scritto, elaborato ispirandosi a Parini, possiamo già cogliere alcuni punti fondamentali dell’esperienza matura di Manzoni.
Apparsogli in sogno, il compagno della madre offre questi consigli al giovane scrittore:

IN MORTE DI CARLO IMBONATI

“Sentir”, riprese, “e meditar: di poco
esser contento: da la meta mai
non torcer gli occhi: conservar la mano
pura e la mente: de le umane cose
tanto sperimentar, quanto ti basti
per non curarle: non ti far mai servo:
non far tregua coi vili: il santo Vero
mai non tradir: né proferir mai verbo,
che plauda al vizio, o la virtù derida.

“Sentire (la vita)” riprese a dire “e meditare su di essa. Accontentarsi di poco: non distogliere mai lo sguardo: conservare la purezza sia da un punto di vista economico che intellettuale: sperimenta le cose umane, quanto ti basti, per non preoccuparti di esse: non diventare mai servo dei potenti: non accompagnarti con i vigliacchi: non tradire mai la santa verità, né dire una parola che sia d’approvazione al vizio e di derisione alla virtù.

E’ chiaro che il sottofondo dell’ispirazione manzoniana in questa opera sia fondamentalmente morale, assegnando un compito “preciso” alla poesia che, come proprio Milano aveva offerto con il magistero di Parini, non deve solo affermarsi in quanto “esteticamente” bella, ma, senza negare la bellezza, in quanto proprietà intrinseca del dettato poetico, non può esimersi dall’essere anche “utile”. Ma se per Parini è un compito, per il giovane Manzoni è un progetto. Il testo, in endecasillabi liberi, non sono esenti tuttavia da una certa ricercatezza (perlomeno nei versi riportati); si noti l’insistito enjambement e l’aspetto fonico ottenuto con “servo:vero:verbo”, che non toglie, tuttavia, un tono dimesso e mite, da allievo verso il maestro.

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Il giovane Manzoni e Claude Fauriel

Parigi e la “conversione” al cattolicesimo

Una volta a Parigi il rapporto che s’istituì fra madre e figlio sarà ricco ed estremamente intenso. Infatti Giulia Beccaria lo inserirà negli ambienti intellettuali francesi. Fra i molti conosciuti, particolare importanza assunse l’amicizia con Claude Fauriel, il quale lo introdurrà agli studi storici, dando a questi ultimi un’importanza non soltanto “materiale”, ma anche e soprattutto spirituale.
Quando sta tornando a Milano, gli giunge la notizia della morte del conte Pietro. Si ferma quindi nella villa di Brusuglio (ereditata dalla madre dal conte Imbonati).
Conosciuta la ginevrina Enrichetta Blondel la sposa nel 1808 con rito calvinista, nella residenza della famiglia della sposa. Il pio atteggiamento della giovane moglie, intanto, sembra minare l’atteggiamento indifferente di Alessandro verso la religione. Rientra quello stesso anno a Parigi dove gli nasce la prima figlia, Giulia, che, fra la sorpresa generale, farà battezzare. Quindi scriverà una supplica al pontefice Pio VII affinché autorizzi una nuova celebrazione del matrimonio con rito cattolico.

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Enrichetta Blondel e Alessandro Manzoni

Il 2 Aprile del 1810, durante i festeggiamenti per il matrimonio tra Napoleone e Maria Luisa d’Asburgo, Manzoni ebbe la sua prima crisi di nervi, determinata dalla momentanea scomparsa dagli occhi tra la folla della moglie. Rifugiatosi in Chiesa, secondo tradizione, sembra si convertisse al cattolicesimo.
Al di là del fatto aneddotico, come ci ha tramandato una certa biografia di tipo apologetico, si può facilmente desumere come l’avvicinamento alla fede cattolica da parte di Manzoni, sia un fatto maturato pian piano nella sua coscienza, frutto di una lunga meditazione e non un improvviso “cambiamento”. D’altra parte il problema critico sulla sua conversione è ancora fortemente dibattuto, anche perché il nostro non vi ha mai fatto cenno.
Appena tornato a Milano, aprì la sua casa ad importantissimi intellettuali come Berchet, Grossi, Porta (protagonisti del dibattito culturale lombardo) e lì elaborò il progetto di una nuova poesia, lontana dalle esperienze neoclassiche allora imperanti.

Inni sacri

Il primo progetto, post-conversione, dell’attività poetica del nostro, vede il Manzoni fortemente impegnato a testimoniare, attraverso la poesia, la sua fede. Decide, pertanto, di scrivere 12 inni sacri, ognuno di essi corrispondente ad una festività liturgica. Ne compone solo cinque: La Resurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale, La Passione (questi quattro composti tra il 1810 ed il 1815) ed infine La Pentecoste iniziata nel 1817, ma portata a termine nella grande stagione creativa del Manzoni, il 1822.

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Prima edizione degli Inni Sacri del 1815

La difficoltà con cui Manzoni si dovette misurare nell’elaborazione della nuova materia, l’interesse per la forma tragica che cominciò a maturare in lui, fecero in modo che il progetto originario non venne completato. Infatti si trattava non soltanto di ripercorrere le festività liturgiche su un piano dottrinale-teologico, quanto di calarle nella realtà “quotidiana” della massa dei credenti. Per far questo era necessario operare su due fronti: quello linguistico-formale e quello tematico.

Per la struttura si trattava di ricorrere ad un metro facilmente memorizzabile come il settenario con ripetizioni e rime interne; per il tema bisognava ricorrere a una ripresa di immagini ben conosciute dalla massa dei credenti in quanto tratta dalla Bibbia, ma allo stesso tempo nuove nella tradizione poetica italiana.

All’inizio sembra che prevalga in lui una lettura cristiana che si richiama al giansenismo, come possiamo vedere ne Il Natale:

IL NATALE

Qual masso che dal vertice
di lunga erta montana,
abbandonato all’impeto
di rumorosa frana,
per lo scheggiato calle
precipitando a valle,
batte sul fondo e sta;

là dove cadde, immobile
giace in sua lenta mole;
né, per mutar di secoli,
fia che riveda il sole
della sua cima antica,
se una virtude amica
in alto nol trarrà:

tal si giaceva il misero
figliol del fallo primo,
dal dì che un’ineffabile
ira promessa all’imo
d’ogni malor gravollo,
donde il superbo collo
più non potea levar.

Qual mai tra i nati all’odio,
quale era mai persona,
che al Santo inaccessibile
potesse dir: perdona?
Far novo patto eterno?
Al vincitore inferno
la preda sua strappar?

Ecco ci è nato un Parvolo,
ci fu largito un Figlio:
le avverse forze tremano
al mover del suo ciglio:
all’uom la mano Ei porge,
che si ravviva, e sorge
oltre l’antico onor.

Dalle magioni eteree
sgorga una fonte, e scende,
e nel borron de’ triboli
vivida si distende:
stillano mèle i tronchi
dove copriano i bronchi,
ivi germoglia il fior.

O Figlio, o Tu cui genera
l’Eterno, eterno seco;
qual ti può dir de’ secoli:
Tu cominciasti meco?
Tu sei: del vasto empireo
non ti comprende il giro:
la tua parola il fe’.

E Tu degnasti assumere
questa creata argilla?
Qual merto suo, qual grazia
a tanto onor sortilla?
Se in suo consiglio ascoso
vince il perdon, pietoso
immensamente Egli è.

Oggi Egli è nato: ad Efrata,
vaticinato ostello,
ascese un’alma Vergine,
la gloria d’Israello,
grave di tal portato:
da cui promise è nato,
donde era atteso uscì.

La mira Madre in poveri
panni il Figliol compose,
e nell’umil presepio
soavemente il pose;
e l’adorò: beata!
Innanzi al Dio prostrata,
che il puro sen le aprì.

L’Angiol del cielo, agli uomini
nunzio di tanta sorte,
non de’ potenti volgesi
alle vegliate porte;
ma tra i pastor devoti,
al duro mondo ignoti,
subito in luce appar.

E intorno a Lui, per l’ampia
notte calati a stuolo,
mille celesti strinsero
il fiammeggiante volo;
E accesi in dolce zelo,
come si canta in cielo,
a Dio gloria cantar.

L’allegro inno seguirono,
tornando al firmamento:
tra le varcate nuvole
allontanossi, e lento
il suon sacrato ascese,
fin che più nulla intese
la compagnia fedel.

Senza indugiar, cercarono
l’albergo poveretto
que’ fortunati, e videro,
siccome a lor fu detto,
videro in panni avvolto,
in un presepe accolto,
vagire il Re del Ciel.

Dormi, o Fanciul; non piangere;

dormi, o Fanciul celeste:
sovra il tuo capo stridere
non osin le tempeste,
use sull’empia terra,
come cavalli in guerra,
correr davanti a Te.

Dormi, o Celeste: i popoli
chi nato sia non sanno;
ma il dì verrà che nobile
retaggio tuo saranno;
che in quell’umil riposo,
che nella polve ascoso,
conosceranno il Re.

Come un masso dalla vetta lungo il ripido pendio l’uomo giace in terra che, caduto, lungo l’irregolare solco precipita a valle e resta // là dove è caduto sta immobile nel suo inerte peso; non accadrà nel tempo che egli possa ritornare a vedere il sole della sua antica altezza se non per un intervento benevolo che lo riporti in alto. // Così giaceva l’uomo, figlio del peccato originale dal giorno che un’inesprimibile punizione promessa (ai primi uomini) oppresse l’uomo fino al fondo di ogni male, per cui non poteva più sollevare il superbo collo. // Quale tra i nati dopo il peccato originale quale qualsiasi persona poteva rivolgersi a Dio per chiedere perdono, fare un nuovo patto e strappare all’inferno vincitore la sua preda. // All’umanità peccatrice è nato un bimbo, un figlio, al cui muovere delle ciglia tremano le forze avverse a Dio. Questo bimbo porge la mano all’uomo, lo risolleva dal peccato e lo riconcilia con Dio facendolo tornare all’antica considerazione. // Dalle sedi celesti sgorga una fonte (della Grazia), e come l’acqua scorre nel burrone irto di rovi: stillano miele i tronchi degli alberi e dove gli sterpi ricoprivano tutto fa crescere frutti e fiori. // O figlio (di Dio), tu generato da Dio eterno ed eterno tu stesso; chi mai, potrà vantarsi di essere nato assieme a te? Tu esisti e nemmeno l’estensione del cielo più ampio può comprenderti. Il cielo stesso è creato dalla tua parola. // E tu ti sei umiliato a incarnarti nella carne dell’uomo? Quale merito o quale atto gradito a Dio la elesse ad un così grande onore?  Se nei giudizi imperscrutabili di Dio il perdono vince allora la sua pietà è veramente infinita. //  Oggi Egli è nato a Betlemme, luogo indicato nella profezia come luogo natale del Messia, salì una donatrice di vita vergine (la Vergine Maria), gloria d’Israele, gravida di tale figlio; dalla stirpe da cui aveva promesso di nascere è nato e nella quale era atteso. // L’ammirabile madre ravvolse il figlio in poveri panni e nell’umile presepe lo adagiò e l’adorò: beata! Prostrata davanti a Dio che le dischiuse il seno verginale. // L’angelo che annuncia un così grande, non si rivolge alle sorvegliate porte dei potenti ma ai pastori devoti, ignorati dal mondo insensibile, all’improvviso appare illuminato dalla luce divina. // E attorno a lui nella notte scesero dal cielo in gran numero migliaia di angeli che si strinsero intorno a lui in quel volo di luce e accesi di dolce gioia cantarono gloria a Dio come la si canta in cielo. // Continuarono il lieto inno tornando in cielo: attraversando le nuvole si allontanarono e lentamente la musica sacra si affievolì salendo finché i pastori devoti non udirono più nulla. // Senza indugiare cercarono la capanna quei fortunati e videro avvolto nei panni, adagiato in un presepe il pianto del Re del cielo // Dormi fanciullo, non piangere; dormi o fanciullo divino: non osino sopra il tuo capo sibilare le tempeste abituali sulla terra empia, come cavalli in guerra che corrono davanti a te. // Dormi, o creatura celeste: i popoli non sanno chi è nato ma verrà il giorno in cui saranno tutti tuoi sudditi; e in quel misero rifugio ora riposa e si nasconde nella polvere colui nel quale riconosceranno il Cristo Re.

Da come si può desumere da questo testo l’immagine prevalente è quella della “grazia” che come un masso dall’alto della montagna precipita a donare loro la fede: pertanto la fede non diventa “cattolicamente” una conquista grazie alle opere, ma una continua testimonianza in quanto posseduta. Tale grazia infatti apparirà ai poveri, i primi testimoni della nascita di Cristo e saranno loro i promotori di una Ecclesiae renovatio in senso pauperistico e quindi, di conseguenza, morale. Come è stato già detto, infatti, in questo inno prevale la visione giansenista, nella quale l’uomo è visto, pessimisticamente, come prostrato e a cui serve una grazia divina che permette lui di sollevarsi e giungere così a Dio. Doveva, questo, nel progetto originario i Manzoni, apparire come il primo inno, ma non ricevette il successo sperato, determinato forse dalla non perfetta aderenza della lingua al dettato e da una certa meccanicità che fa sì che ogni strofe venga chiusa da un concetto; si noti ad esempio la persistenza dell’immagine tratta dall’egloga IV virgiliana nella 6° strofe.

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Ma l’Inno Sacro decisamente più importante è certamente l’ultimo scritto, La Pentecoste, scritto nel 1822, durante la grande stagione creativa di Manzoni:

LA PENTECOSTE

Madre de’ Santi; immagine
della città superna;
del Sangue incorruttibile
conservatrice eterna;
tu che, da tanti secoli,
soffri, combatti e preghi
che le tue tende spieghi
dall’uno all’altro mar;

campo di quei che sperano,
chiesa del Dio vivente;
dov’eri mai? qual angolo
ti raccogliea nascente,
quando il tuo Re, dai perfidi
tratto a morir sul colle,
imporporò le zolle
del suo sublime altar?

E allor che dalle tenebre
la diva spoglia uscita,
mise il potente anelito
della seconda vita;
e quando, in man recandosi
il prezzo del perdono,
da questa polve al trono
del Genitor salì;

compagna del suo gemito,
conscia dei suoi misteri,
tu, della sua vittoria
figlia immortal, dov’eri?
In tuo terror sol vigile,
sol nell’oblio secura,
stavi in riposte mura,
fino a quel sacro dì,

quando su te lo Spirito
lrinnovator discese,
e l’inconsunta fiaccola
nella tua destra accese;
quando, segnal de’ popoli.
ti collocò sul monte
e ne’ tuoi labbri il fonte
della parola aprì.

Come la luce rapida
piove di cosa in cosa,
e i colori suscita
dovunque si riposa;
tal risonò molteplice
la voce dello Spiro:
l’Arabo, il Parto, il Siro
in suo sermon l’udì.

Adorator degl’idoli,
sparso per ogni lido,
volgi lo sguardo a Solima,
odi quel santo grido:
stanca del vile ossequio,
la terra a LUI ritorni:
e voi che aprite i giorni
di più felice età,

spose che desta il subito
balzar del pondo ascoso;
voi già vicine a sciogliere
il grembo doloroso;
alla bugiarda pronuba
non sollevate il canto:
cresce serbato al Santo
quel che nel sen vi sta.

Perché, baciando i pargoli
la schiava ancor sospira?
e il sen che nutri i liberi
invidiando mira?
Non sa che al regno i miseri
seco il Signor solleva?
che a tutti i figli d’Eva
nel suo dolor pensò?

Nova franchigia annunziano
i cieli, e genti nove;
nove conquiste, e gloria
vinta in più belle prove;
nova, ai terrori immobile
e alle lusinghe infide,
pace, che il mondo irride,
ma che rapir non può.

O Spirto! supplichevoli
a’ tuoi solenni altari;
soli per selve inospite;
vaghi in deserti mari;
dall’Ande algenti al Libano
d’Erina all’irta Haiti,
sparsi per tutti i liti,
uni per Te di cor.

Noi t’imploriam! Placabile
Spirto discendi ancora,
a’ tuoi cultor propizio,
propizio a chi T’ignora;
scendi e ricrea; rianima
i cor nel dubbio estinti;
e sia divina ai vinti
mercede il vincitor.

Discendi Amor; negli animi
l’ire superbe attuta:
dona i pensier che il memore
ultimo dì non muta:
i doni tuoi benefica
nutra la tua virtude;
siccome il sol che schiude
dal pigro germe il fior;

che lento poi sull’umili
erbe morrà non colto,
né sorgerà coi fulgidi
color del lembo sciolto,
se fuso a lui nell’etere
non tornerà quel mite
lume dator di vite,
e infaticato altor.

Noi t’imploriam! Ne’ languidi
pensier dell’infelice
scendi piacevol alito,
aura consolatrice:
scendi bufera ai tumidi
pensier del violento;
vi spira uno sgomento
che insegni la pietà.

Per Te sollevi il povero
al ciel, ch’è suo, le ciglia,
volga i lamenti in giubilo
pensando a cui somiglia:
cui fu donato in copia
doni con volto amico,
con quel tacer pudico,
che accetto il don ti fa.

Spira dei nostri bamboli
nell’ineffabil riso;
spargi la casta porpora
alle donzelle in viso;
manda alle ascose vergini
le pure gioie ascose;
consacra delle spose
il verecondo amor.

Tempra dei baldi giovani
il confidente ingegno;
reggi il viril proposito
ad ineffabil segno;
adorna le canizie
di liete voglie sante;
brilla nel guardo errante
di chi sperando muor.

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La Pentecoste (autografa)

(Tu Chiesa) che sei la madre dei Santi, l’immagine della città di Dio, conservatrice eterna del sangue di Cristo che mai si corrompe (attraverso l’Eucarestia), tu che, da tanti secoli, soffri, combatti e preghi; che distendi le tue tende dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico, // tu che sei la sede di quelli che sperano nella Salvezza, Chiesa del Dio vivente; dov’eri?, quale angolo del mondo ti accoglieva mentre nascevi, quando il tuo Re Cristo, portato a morire sul monte Golgota dai malvagi, rese rosse col suo sangue le zolle del suo altare sublime? // E quando il corpo divino di Cristo, uscito dall’oscurità del sepolcro, emise il respiro della vita eterna, e quando, portando con sé la croce (simbolo del perdono di Dio per il peccato originale dell’uomo), da questo mondo salì verso il trono di Dio Padre; // (Tu Chiesa) compagna del suo dolore, consapevole del suo mistero, tu, figlia immortale, dov’eri? Vigile soltanto nel terrore della tua sorte, sicura soltanto se ignorata, rimanevi nascosta in luoghi appartati fino a quel sacro giorno // quando su te discese lo Spirito Santo rinnovatore e accese nella tua mano la fiaccola che mai si consuma, quando, guida per tutti i popoli, ti mise in alto su un monte, e aprì la fonte della parola evangelica nelle tue labbra // Come la luce, sempre identica a se stessa, posandosi su corpi diversi, suscita vari colori, dovunque posi, allo stesso modo risuonò la voce dello Spirito Santo, e nello loro lingua lo udirono gli Arabi, i Parti ed i Siriani // Adoratore degli dei pagani, sparso in ogni luogo della terra, volgi lo sguardo a Gerusalemme (Solima), ascolta quel santo grido: la terra, stanca del vigliacco ossequio verso gli dei, torni a Dio: e voi, giovani spose, che partorirete in giorni di un’età più felice (perché rinnovata dallo Spirito Santo), // spose svegliate all’improvviso dai movimenti del feto; voi che siete già vicine al doloroso parto, non innalzate il canto alla bugiarda (in quanto pagana) Giunone, cresce soltanto riservato a Cristo Santo ciò che vi sta nel grembo. // Perché baciando i suoi figli la schiava tuttavia sospira (preoccupata per la loro sorte) e osserva, con invidia, il seno che nutre i figli delle donne libere? Non sa il Signore solleva nel suo regno i poveri? Che nel suo sacrificio riscattò tutti gli uomini indistintamente? // I cieli annunciano una nuova libertà e un’umanità rinnovata dalla fede; nuove conquiste ed una gloria vinta in prove più belle (di qualsiasi azione militare), una nuova pace, ferma di fronte al terrore e alle infide lusinghe, (pace) che il mondo può deridere, ma non può rapire. // O Spirito! Supplichevoli ai tuoi solenni altari, soli in mezzo a foreste selvagge, vaganti solitari in mezzo al mare, dalle Ande freddissime al Libano, dall’Irlanda alla scogliosa Haiti, sparsi in ogni luogo della terra, uniti per Te nel cuore // Noi t’imploriamo! Spirito scendi ancora incline al perdono, propizio a chi ha fede in te, propizio a chi non crede in Te, scendi e rinnova; rianima i cuori morti alla fede, e sia un divino premio il vincitore Spirito. // Scendi Amore, placa le ire superbe, dona i pensieri santi che l’ultimo giorno memore di tutta la vita non muta, benefica i tuoi stessi doni, nutri la tua virtù, come il sole che schiude il fiore dal pigro germe; // che poi afflosciato sulle basse erbe morrà non colto, né sorgerà con gli splendidi colori della corolla aperta, se diffuso nell’aria non tornerà la luce del sole, che dà la vita, e infaticabile alimentatore. // Noi t’imploriamo! Scendi piacevole soffio, aria consolatrice negli sfiduciati pensieri dell’infelice: scendi come una bufera ai pensieri gonfi d’ira del violento, e ispiragli un timor di Dio che gli insegni la pietà. // Per mezzo tuo sollevi il povero gli occhi al cielo che gli appartiene, rivolga quindi la sua disperazione in gioia pensando che è stato creato a somiglianza di Dio, a chi è stato donato in abbondanza, doni a sua volta con solidarietà, con quel piacere non appariscente che rende il dono bene accettato. // Soffia nell’ineffabile riso dei fanciulli, spargi quel casto rossore nei volti delle ragazze; manda alle suore di clausura le nascoste e pure gioie, rendi sacro il pudico amore delle spose. // Governa l’ingegno troppo sicuro di sé nei giovani, guida il proposito coraggioso a raggiungere un buon fine; adorna la vecchiaia di liete gioie sante, risplendi nello sguardo smarrito di chi muore nella speranza (di ricongiungersi a Dio).

Nella Pentecoste si matura il passaggio secondo cui soltanto la grazia, data dal Signore, prelude alla salvezza a quello della Provvidenza che guida la storia (tema fondamentale del romanzo). La festa liturgica della Pentecoste ricorda la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli dopo cinquanta giorni dalla Resurrezione di Cristo. E’ un canto quindi fondato sulla Chiesa, parola iniziale dell’Inno, che diventa protagonista come mezzo di comunicazione tra l’uomo e Dio. Essa per questo non deve isolarsi in uno sterile sguardo che ignora il mondo per inseguire il divino, ma, viceversa, un elemento della storia il cui compito non è solo testimoniare Cristo, ma vivificarlo nella vita degli uomini. Per questo si parla di “Chiesa militante”, per questo nella seconda parte dell’inno, la vediamo efficacemente entrare negli uomini per celebrare l’amore verso i figli, per le spose, per temperare i caratteri iracondi, per avvicinare i vecchi a Dio. Questi elementi si armonizzano efficacemente nel dettato poetico in cui vengono veicolati messaggi estremamente innovativi nella cultura nazionale: si veda il concetto di “popolarità” (facilità di linguaggio, contabilità, repertorio tematico conosciuto dai credenti), l’attenzione per gli umili, che il messaggio della Chiesa ha liberato dalla schiavitù tipica della struttura sociale del mondo classico; ma, è importante sottolinearlo ancora, si veda il concetto di “Chiesa militante” (sono ricorrenti all’interno del testo le metafore belliche), cioè di una Chiesa che deve entrare nella storia per trasformare la storia stessa.

E’ a Milano quando assiste, con orrore, all’uccisione del ministro Prina, nominato da Napoleone nel Regno d’Italia  da lui fondato. In quell’occasione Manzoni scrive Aprile 1814 e, l’anno successivo il Proclama di Rimini (incompiuto). Al di là della validità artistica di tali odi, ciò che interessa è l’attenzione con cui Manzoni si misura con il reale e con lo sviluppo storico (che di lì a poco darà origine al vero e proprio Risorgimento italiano). La sconfitta di Napoleone nel 1815 accentuò infatti la sua preoccupazione che sfociò in un intensificarsi delle sue crisi nervose.   

Le Tragedie

Le tragedie manzoniane sono due: Il conte di Carmagnola (1819) e l’Adelchi (1822). La prima viene iniziata nel 1816 durante la composizione degli Inni; l’altra mentre già era balenata in lui l’idea del romanzo. Inoltre vi è da sottolineare come l’idea di avvicinarsi a tale genere avesse anche lo scopo di raccogliere l’invito di Madame De Staël, vero ispiratore del nostro Romanticismo.

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L’opera, una volta scritta, viene mandata per essere tradotta a monsieur Chauvet, facendola precedere da un interessante scritto in cui il poeta milanese sottolinea la differenza che vi è tra storia, poesia e romanzesco, individuando così il nuovo atteggiamento che egli intende perseguire per questo genere letterario:

LA STORIA NELLA TRAGEDIA

Ma, si dirà forse, se si toglie al poeta ciò che lo distingue dallo storico, cioè il diritto di inventare i fatti, che cosa gli resta? Che cosa gli resta? la poesia; sì, la poesia. Perché infine che cosa ci dà la storia? degli eventi che non sono, per così dire, conosciuti che dall’esterno; ciò che gli uomini hanno fatto; ma ciò che hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro risultati fortunati e sfortunati, i discorsi coi quali hanno fatto o cercato di fare prevalere la loro passione e la loro volontà su altre passioni o altre volontà, per mezzo dei quali hanno espresso la loro collera, effuso la loro tristezza, in una parola hanno rivelato la loro individualità: tutto questo e qualcos’altro ancora è passato sotto silenzio dagli storici; e tutto questo è dominio della poesia.[…] Tutto ciò che la volontà umana ha di forte e misterioso, tutto ciò che la sventura ha di religioso e di profondo, il poeta può indovinarlo, o, per dir meglio, può vederlo, comprenderlo ed esprimerlo. 

Se il tema dev’essere storico è evidente che il progetto di poesia tragica di Manzoni non può che essere anticlassico, proprio perché l’evento storico non può essere compreso con la presenza delle tre unità aristoteliche e la comprensione dello spettatore non più emotiva ma che si ponga come fine la reale conoscenza dell’uomo, ha bisogno anche di una sottolineatura che il Manzoni  ripropone con il coro (a dispetto del lavoro tragico alfieriano), non più come nella tragedia greca, in cui assumeva la voce dell’intera collettività, ma “cantuccio”, della riflessione del poeta. 

Il conte di Carmagnola mette in scena un episodio storico avvenuto verso la metà del XV secolo:

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Francesco Hayez: Il Conte di Carmagnola (studio)

Goffredo di Buglione, conte di Carmagnola, capitano di ventura, dopo aver combattuto per i Visconti di Milano, passa al soldo della Repubblica di Venezia. Durante la battaglia di Maclodio fra le due potenze regionali il conte, dopo aver vinto, non infierisce sui nemici e ciò suscita il sospetto di tradimento verso il Consiglio dei Dieci della Repubblica lagunare. Viene difeso soltanto da Marco, nobile veneziano a lui amico, ma tale difesa risulterà vana e sarà condannato a morte.

ATTO II, CORO
(vv. 1-56)

S’ode a destra uno squillo di tromba;
a sinistra risponde uno squillo:
d’ambo i lati calpesto rimbomba
da cavalli e da fanti il terren.
Quinci spunta per l’aria un vessillo;
quindi un altro s’avanza spiegato:
ecco appare un drappello schierato;
ecco un altro che incontro gli vien.

Già di mezzo sparito è il terreno;
già le spade rispingon le spade;
l’un dell’altro le immerge nel seno;
ronda il sangue; raddoppia il ferir. ­ 
– Chi son essi? Alle belle contrade
qual ne venne straniero a far guerra?
Qual è quei che ha giurato la terra
dove nacque far salva, o morir? ­ 

D’una terra son tutti: un linguaggio
parlan tutti: fratelli li dice
lo straniero: il comune lignaggio
a ognun d’essi dal volto traspar.
Questa terra fu a tutti nudrice,
questa terra di sangue ora intrisa,
che natura dall’altre ha divisa,
e ricinta con l’alpe e col mar. ­ 

– Ahi! Qual d’essi il sacrilego brando
trasse il primo il fratello a ferire?
Oh terror! Del conflitto esecrando
la cagione esecranda qual è? ­
– Non la sanno: a dar morte, a morire
qui senz’ira ognun d’essi è venuto;
e venduto ad un duce venduto,
con lui pugna, e non chiede il perché. ­ 

– Ahi sventura! Ma spose non hanno,
non han madri gli stolti guerrieri?
Perché tutte i lor cari non vanno
dall’ignobile campo a strappar?
E i vegliardi che ai casti pensieri
della tomba già schiudon la mente,
ché non tentan la turba furente
con prudenti parole placar? ­ 

– Come assiso talvolta il villano
sulla porta del cheto abituro,
segna il nembo che scende lontano
sopra i campi che arati ei non ha;
così udresti ciascun che sicuro
vede lungi le armate coorti,
raccontar le migliaia de’ morti,
e la pieta dell’arse città.

Là, pendenti dal labbro materno
vedi i figli che imparano intenti
a distinguer con nomi di scherno
quei che andranno ad uccidere un dì;
qui le donne alle veglie lucenti
de’ monili far pompa e de’ cinti,
che alle donne diserte de’ vinti
il marito o l’amante rapì. ­ 

Si sente a destra uno squillo di tromba; ne risponde a sinistra un altro squillo: da ambo le parti rimbomba il terreno calpestato dai cavalli e dalla fanteria. Da una parte avanza un insegna, in seguito un altro  si avanza, dietro lui un drappello di uomini schierato alle sue spalle, eccone un altro che gli viene incontro // Il terreno di mezzo è sparito ormai le spade si oppongono a spade, uno le immerge nel petto di un altro; il sangue gronda, aumenta il ferire. – Chi sono loro? Quale straniero giunse alle belle contrade (italiane) a portare guerra? Chi è colui che ha giurato di salvare la propria terra in cui nacque o morire? // Sono tutti di una stessa terra: tutti parlano la stessa lingua: lo straniero li definisce fratelli: la comune discendenza si legge nei loro volti. Questa terra, l’Italia, diede a tutti il suo nutrimento, questa terra ora ricoperta di sangue, che la natura stessa ha diviso dalle altre e ha racchiuso con le Alpi e con il mare. // Ahimè Chi di loro trasse la sacrilega spada a ferire il fratello? Che orrore! Qual è il motivo esecrabile di quella guerra altrettanto esecrabile? Nessuno sa più quale sua l’origine del conflitto intestino: non vi è collera né risentimento nel loro combattere; ognuno serve per denaro un capo che (a sua volta) serve qualcuno per denaro: combatte al suo fianco senza chiedere perché. // Che disgrazia! Ma questi scellerati soldati non hanno mogli e madri! Perché queste non si recano nei campi di battaglia per sottrarli a quella vergognosa guerra? E i loro vecchi che si preparano serenamente ad accogliere la morte, perché non cercano di calmare gli spiriti della folla con discorsi saggi? // Come talvolta il contadino quando, stando sulla soglia della propria modesta abitazione, nota la nube scura che scende sul terreno che ancora gli resta da arare, questi soldati, mentre scrutano in lontananza l’esercito armato, raccontano tutte le morti provocate in guerra e le città saccheggiate e bruciate. // Da una parte là vedi bimbi che, ascoltando le parole della madre, imparano ad affibbiare nomi irridenti a coloro che andranno a uccidere un giorno; dall’altra vedi le donne alle veglie far mostra dei gioielli sfarzosi e dei monili che il marito o l’amante hanno sottratto alle donne senza più protezione dei vinti.

Francesco Bassano, La battaglia di Maclodio (palazzo ducale di Venezia, 1590).jpgFrancesco Bassano: La battaglia di Maclodio (affresco, 1590)

L’episodio si riferisce alla battaglia di Maclodio, nella lotta tra Milanesi e Veneziani i cui eserciti si fronteggiano. Il coro si presenza come un momento lirico (quasi fosse una poesia staccata dal contesto), in cui prevale l’elemento “politico” su quello riflessivo. Non è casuale che il riferimento letterario sia qui tutto petrarchesco, modulato sulla canzone All’Italia (la battaglia fra eserciti formati da soldati e comandanti italiani, le “frontiere geografiche”, le Alpi e il mare) ma quanto l’operosità che tale concetti cominceranno a registrare nella storia, al fine di raggiungere l’unità d’Italia (sogno, ricordiamo, fortemente sentito anche da Foscolo). A tal fine l’argomentazione viene scandita da un ritmo incalzante, fatto di decasillabi martellanti a richiamare il suono guerresco; la struttura paratattica, la coincidenza tra strofe poetica e sintassi, per cui ogni concetto si conclude nella strofe. Richiami che certamente riportano in mente certe soluzioni tipiche del melodramma ottocentesco, in specie verdiano. 

La mancata riuscita dell’opera sta soprattutto nella eccessiva dilatazione del tempo (1425-1432) che seppur obbedisce alla rottura dell’unità di tempo, non riesce a legare in modo coeso i vari momenti della tragedia. Inoltre Il conte di Carmagnola sembra difettare proprio là dove voleva riuscire: è sì un’opera di rottura, ma maturata più letterariamente (il linguaggio resta quello della tradizione) che poeticamente.

Decisamente più riuscita l’Adelchi; quest’opera nasce dalla suggestione che un romanzo, come Ivanhoe ebbe sull’autore e sulla decisa riscoperta che il Romanticismo italiano fece del Medioevo. L’elaborazione non fu semplice: iniziata nel ’20 e più volta interrotta, la difficoltà era tutta nella ricerca di fonti. Lo sforzo di Manzoni era tutto nel voler rendere “verisimile” l’opera, per questo il reale svolgimento storico era fondamentale, ma non era facile da reperire visto il tempo enorme di differenza tra quello degli avvenimenti storici e quello in cui l’autore scrisse. Fu tale la ricerca che, quando l’opera fu edita, nel 1822, venne accompagnata dal Discorso sopra alcuni punti di storia longobardica in Italia.

Carlo, re dei Franchi, ha ripudiato Ermengarda, figlia dei Longobardi; quest’ultimi meditano vendetta e progettano di costringere papa Adriano a consacrare re di Francia i figli di Carlomanno, riparati alla sua corte con la madre Gerberga. Adelchi, figlio di Desiderio, re longobardo, suggerisce di cercare un accordo con Adriano. Ermengarda torna dal padre e gli chiede di potersi chiudere in convento per trovare conforto nella preghiera. Un messo di Carlo intima a Desiderio di restituire le terre tolte al pontefice. Il re risponde sdegnosamente e la guerra è dichiarata. Ma alcuni duchi longobardi sono pronti a tradire. Nel campo dei Franchi giunge il diacono Martino a rivelare l’esistenza di un valico che consente a Carlo di prendere di sorpresa i Longobardi attestati alle Chiuse di Susa. Adelchi si difende strenuamente con un valore accentuato dalla codardia che lo circonda. Intanto Ermengarda, straziata dall’“amor tremendo” per Carlo, muore in convento, a Brescia. Il traditore Guntigi apre ai Franchi le porte di Pavia, ultimo rifugio di Desiderio, il quale, prigioniero, chiede a Carlo di lasciare libero Adelchi. Ma Adelchi giunge dinanzi a loro morente: ha preferito battersi fino all’ultimo, fedele al suo dovere, anche se nutre più l’illusione di poter separare il giusto dall’ingiusto nella concatenazione delle azioni umane, e infine offre a Dio la sua “anima stanca”.

Il tema fondamentale che in quest’opera emerge è la distanza netta che vi è fra chi fa la storia e chi la subisce, fra i Longobardi e i Franchi da una parte e gli Italici, silenti ed oppressi:

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CORO DELL’ATTO TERZO

Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti,
dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
dai solchi bagnati di servo sudor,
un volgo disperso repente si desta;
intende l’orecchio, solleva la testa
percosso da novo crescente romor.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
qual raggio di sole da nuvoli folti,
traluce de’ padri la fiera virtù:
ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto
si mesce e discorda lo spregio sofferto
col misero orgoglio d’un tempo che fu.

S’aduna voglioso, si sperde tremante,
per torti sentieri, con passo vagante,
fra tema e desire, s’avanza e ristà;
e adocchia e rimira scorata e confusa
de’ crudi signori la turba diffusa,
che fugge dai brandi, che sosta non ha.

Ansanti li vede, quai trepide fere,
irsuti per tema le fulve criniere,
le note latèbre del covo cercar;
e quivi, deposta l’usata minaccia,
le donne superbe, con pallida faccia,
i figli pensosi pensose guatar.

E sopra i fuggenti, con avido brando,
quai cani disciolti, correndo, frugando,
da ritta, da manca, guerrieri venir:
li vede, e rapito d’ignoto contento,
con l’agile speme precorre l’evento,
e sogna la fine del duro servir.

Udite! Quei forti che tengono il campo,
che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
son giunti da lunge, per aspri sentier:
sospeser le gioie dei prandi festosi,
assursero in fretta dai blandi riposi,
chiamati repente da squillo guerrier.

Lasciar nelle sale del tetto natio
le donne accorate, tornanti all’addio,
a preghi e consigli che il pianto troncò:
han carca la fronte de’ pesti cimieri,
han poste le selle sui bruni corsieri,
volaron sul ponte che cupo sonò.

A torme, di terra passarono in terra,
cantando giulive canzoni di guerra,
ma i dolci castelli pensando nel cor:
per valli petrose, per balzi dirotti,
vegliaron nell’arme le gelide notti,
membrando i fidati colloqui d’amor.

Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
per greppi senz’orma le corse affannose,
il rigido impero, le fami durâr;
si vider le lance calate sui petti;
a canto agli scudi, rasente agli elmetti,
udiron le frecce fischiando volar.

E il premio sperato, promesso a quei forti,
sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
d’un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
all’opere imbelli dell’arse officine,
ai solchi bagnati di servo sudor.

Il forte si mesce col vinto nemico,
col novo signore rimane l’antico;
l’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
si posano insieme sui campi cruenti
d’un volgo disperso che nome non ha.

Dagli atri degli antichi palazzi, ricoperti di muschio, dalle piazze e dai monumenti antichi in rovina, dai boschi, dalle officine riarse dal fuoco, dai campi bagnati dal sudore i Latini dispersi improvvisamente si destano, tendono l’orecchio e sollevano la testa, colpiti da un suono inaudito e crescente. Dagli sguardi dubbiosi e dai volti impauriti come un raggio di sole sommerso dalle folti nubi traluce il fiero valore dei guerrieri antichi: negli sguardi, nei volti si mescola e contrasta l’umiliazione sofferta con il misero orgoglio del tempo lontano. I Latini si radunano mossi dalla speranza del nuovo, ma subito si disperde timoroso per i sentieri tortuosi con un passo incerto, combattuto fra paura e desiderio, avanza e si ferma, guardano continuare la turba disfatta dei padroni, che fugge senza sosta dalle spade nemiche. Li vede ansanti come fiere trepidanti con il pelo rossiccio irto dalla paura, cercano i noti nascondigli dei loro covi, e qui, deposto l’atteggiamento minaccioso, le donne prima superbe con la faccia pallida addosso guardano preoccupate i loro figli. E sopra i longobardi in fuga, con le spade avide di sangue colpire, come cani disciolti, inseguono, giungere i guerrieri da destra e da sinistra, correndo e cercando; (i Latini) li vedono; presi di una gioia mai provata prima con la speranza che, veloce, percorre gli eventi e sogna la fine della dura schiavitù. Udite! I Franchi vittoriosi, che sono rimasti padroni del campo di battaglia, che impediscono da ogni parte la fuga, sono giunti da lontano per difficili sentieri: sospesero le gioie dei festosi conviti, si levarono in fretta dei dolci riposi, chiamati dagli squilli delle trombe. Lasciarono nelle sale donne addolorate che rinnovano continuamente gli adii, le preghiere e le raccomandazioni finché il pianto troncò ogni parola, hanno messo sulla fronte gli elmi ammaccati, posto sulla sella sui bruni cavalli (attraversano il ponte che risuonò cupo. Passarono di terra in terra, a schiera, cantando festose canzoni di guerra, pensando nel cuore ai loro dolci castelli; per valli petrose e suoli scoscesi vegliarono armati durante le gelide notti, ricordando gli intimi colloqui d’amore. Gli ignoti pericoli di soggiorni pericolosi, le corse affannose per dirupi senza traccia umana, il comando imperioso, la fame sopportarono; videro le lance scagliate contro i loro petti, accanto ai loro scudi udirono le frecce volare fischiando vicinissime ai loro elmi. E il premio sperato e promesso a quei forti, dovrebbe, o Latini delusi, mutare la vostra sorte, porre fine al dolore d’un volgo ad essi straniero? Tornate alle vostre superbe rovine, alle opere degne della schiavitù delle officine riarse e ai campi bagnati dal sudore di un popolo servo. Il vincitore si mescola con il (signore) vinto, col nuovo signore rimane l’antico, l’uno e l’altro popolo vi opprime. Dividono fra loro i servi, il bestiame, si posano insieme sui campi insanguinati dalla guerra, di un volgo disperso che non ha nessun nome.

Il coro ha l’andamento di una ballata romantica, in dodecasillabi (o doppi senari) rimati fra loro (AABCCB). Il tema è fortemente contemporaneo, basta voler riconoscere nei Longobardi gli attuali austriaci e nei Francesi l’esercito napoleonico. Il testo, allora, sembra alludere alle speranze precedenti il trattato di Compoformio e la delusione dopo la cessione di Venezia. Interessante è la struttura circolare, come voler racchiudere la storia d’Italia entro i confini di una storica schiavitù dalla quale non riesce a liberarsi e il termine volgo a dirci che il termine “popolo” si può usare solo quando ci è consapevolezza della propria forza e valore, cosa che sembra mancare, appunto, alle genti d’Italia. Non si può dimenticare come in Manzoni già da adesso, in passi così fortemente patriottici, non venga meno lo sguardo del cattolico e di chi vede la storia come storia di “persone”: guerrieri che lasciano i letti d’amore e donne imploranti che piangono i figli che vanno in guerra. Vi è, come sempre in Manzoni, come vedremo anche nell’Ode Marzo 1821, un certo compiacimento che si traduce in una poesia più letteraria che sentita (ripetizioni di parole e di concetti), che tuttavia riesce a conservare, per i lettori dell’epoca un forte impatto emotivo.

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Giuseppe Bezzuoli: La morte di Ermengarda

Più famoso e il coro dell’atto IV:

CORO DELL’ATTO QUARTO

Sparsa le trecce morbide
sull’affannoso petto,
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo
sguardo cercando il ciel.

Cessa il compianto: unanime
s’innalza una preghiera:
calata in su la gelida
fronte, una man leggiera
sulla pupilla cerula
stende l’estremo vel.

Sgombra, o gentil, dall’ansia
mente i terrestri ardori;
leva all’Eterno un candido
pensier d’offerta, e muori:
fuor della vita è il termine
del lungo tuo martir.

Tal della mesta, immobile
era quaggiuso il fato:
sempre un obblio di chiedere
che le saria negato;
e al Dio de’ santi ascendere
santa del suo patir.

Ahi! nelle insonni tenebre,
pei claustri solitari,
tra il canto delle vergini,
ai supplicati altari,
sempre al pensier tornavano
gl’irrevocati dì;

Quando ancor cara, improvida
d’un avvenir mal fido,
ebbra spirò le vivide
aure del Franco lido,
e tra le nuore Saliche
invidiata uscì:

quando da un poggio aereo,
il biondo crin gemmata,
vedea nel pian discorrere
la caccia affaccendata,
e sulle sciolte redini
chino il chiomato sir;

E dietro a lui la furia
de’ corridor fumanti;
e lo sbandarsi, e il rapido
redir de’ veltri ansanti;
e dai tentati triboli
l’irto cinghiale uscir;

e la battuta polvere
riga di sangue, colto
dal regio stral: la tenera
alle donzelle il volto
volgea repente, pallida
d’amabile terror.

Oh Mosa errante! oh tepidi
lavacri d’Aquisgrano!
Ove, deposta l’orrida
maglia, il guerrier sovrano
scendea del campo a tergere
il nobile sudor!

Come rugiada al cespite
dell’erba inaridita,
fresca negli arsi calami
fa rifluir la vita,
che verdi ancor risorgono
nel temperato albor;

tale al pensier, cui l’empia
virtù d’amor fatica,
discende il refrigerio
d’una parola amica,
e il cor diverte ai placidi
gaudii d’un altro amor.

Ma come il sol che, reduce,
l’erta infocata ascende,
e con la vampa assidua
l’immobil aura incende,
risorti appena i gracili
steli riarde al suol;

ratto così dal tenue
obblio torna immortale
l’amor sopito, e l’anima
impaurita assale,
e le sviate immagini
richiama al noto duol.

Sgombra, o gentil, dall’ansia
mente i terrestri ardori;
leva all’Eterno un candido
pensier d’offerta, e muori:
nel suol che dee la tenera
tua spoglia ricoprir,

Altre infelici dormono,
che il duol consunse; orbate
spose dal brando, e vergini
indarno fidanzate;
madri che i nati videro
trafitti impallidir.

Te, dalla rea progenie
degli oppressor discesa,
cui fu prodezza il numero,
cui fu ragion l’offesa,
e dritto il sangue, e gloria
il non aver pietà,

te collocò la provida
sventura in fra gli oppressi:
muori compianta e placida;
scendi a dormir con essi:
alle incolpate ceneri
nessuno insulterà.

Muori; e la faccia esanime
si ricomponga in pace;
com’era allor che improvida
d’un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
solo pingea. Così

dalle squarciate nuvole
si svolge il sol cadente,
e, dietro il monte, imporpora
il trepido occidente;
al pio colono augurio
di più sereno dì.

Con le trecce sciolte sul petto ansimante, con le mani abbandonate, con il volto madido del sudore di morte e pallido, giace la donna fedele, che rivolge gli occhi tremanti al cielo. Finisce il compianto: viene innalzata una preghiera con cuore concorde: una mano delicata, calata sulla fronte fredda stende il velo della morte sugli occhi azzurri (di Ermengarda). O donna gentile, sgombra la mente affannata dalle passioni terrestri; eleva a Dio un puro pensiero di offerta, e muori: il senso della tua agonia è al di fuori di questa vita. Allo stesso modo, di questa donna triste, il destino immutabile era segnato in terra: di chiedere l’oblio, che le è sempre stato negato; e di salire al Dio dei santi, santa del suo dolore. Ahi! Nelle notti insonni, per i chiostri solitari, tra il canto delle suore, agli altari dove pregava, sempre i ricordi tornavano involontari alla mente; quando ancora amata (da Carlo), inconsapevole di un destino che non avrebbe mantenuto le promesse, respirò esaltata l’aria francese, e tra le spose alla corte franca era quella invidiata da tutte: quando da un colle elevato, incoronato il suo capo di capelli biondi da gemme, vedeva la caccia movimentata avvenuta nella piana, e vedeva il re con il suo ciuffo al vento chinato sulle redini sciolte; e dietro di lui la foga dei cavalli che sbuffavano; e l’inseguimento e il veloce ritorno dei cani ansimanti; e l’uscire dell’irto cinghiale dai cespugli frugati e battuti; e (vedeva) il sangue bagnare la polvere calpestata, colpito dalla freccia del re: e la donna gentile volgeva continuamente lo sguardo alle ancelle, pallida per una paura amabile. Oh Mosa dal corso sinuoso! Oh caldi bagni di Acquisgrano! Dove, deposta l’appuntita maglia di ferro, il re guerriero andava a tergere il nobile sudore del campo di battaglia! Come la rugiada su un ciuffo d’erba inaridita, fresca per gli steli riarsi, fa rifluire la vita, facendoli risollevare verdi nell’albore tiepido; così discende il ristoro di una parola amica al pensiero che la potenza dell’amore affatica, profanamente spietata, e rivolge il cuore alle tranquille gioie di un altro tipo di amore. ma come il sole che, al suo ritorno, risale l’orbita infuocata, e con una fiamma costante incendia l’aria immobile torna a inaridire i gracili steli appena risollevati, piegandoli al suolo; così l’amore prima assopito dal leggero oblio ritorna immortale, e assale l’anima impaurita, e richiama al ben conosciuto dolore le immagini che erano state scansate. O donna gentile, sgombra la mente affannata dalle passioni terrestri; eleva a Dio un puro pensiero di offerta, e muori: nello stesso suolo in cui il tuo corpo deve essere ricoperto dalla morbida terra, altre infelici sono morte consumate dal dolore; spose vedove a causa della spada, e vergini fidanzate invano; madri che hanno visto impallidire i loro figli trafitti. Tu, discesa dall’empia stirpe degli oppressori per i quali il numero di morti fu motivo di vanto, per cui l’offesa recata agli altri popoli fu norma di ragione e il sangue fu diritto, e il non avere pietà motivo di gloria, tu, che la provvida sventura collocò tra gli oppressi: muori compianta e lieta; discendi a dormire in eterno con loro: nessuno maledirà le ceneri di chi non ha colpe. Muori; e il volto senza più l’anima dentro nella pace ritorni com’era prima quando, inconsapevole di un destino illusorio, si figurava solo pensieri lievi e puri. Così il sole calante si libera delle nuvole squarciate, e, dietro al monte, colora l’occidente tremante: al pio augurio straniero di un giorno più sereno.

Il coro è in settenari e presenta il tema che verrà ripreso poi nell’ode dedicata a Napoleone. Infatti quello che qui emerge è la quasi necessità della “caduta” per sollevarsi a Dio. Controlliamo il lemma improvida così come si presenta per la prima volta nella sesta stanza: inconsapevole del destino che dal potere la porta al ripudio; improvida così come invece nella 19° stanza, dopo la morte, che la porta nell’aura della purezza e della semplicità. Il centro ideologico del coro è infatti la provida sventura che permea il suo cattolicesimo. Vediamo infatti com’è costruito il passo: nelle prime tre stanze ci viene presentata Ermengarda agonizzante, nell’attesa d’esser chiamata da Dio; quindi nella quarta e quinta è presentato il suo destino di donna incapace di dimenticare; segue il momento dove pudicizia e amore per Carlo convivono insieme; ma dopo il ripudio l’amore per il re si deve trasformare in quello per il Cristo: ma solo attraverso il dolore esso giunge pienamente e consapevolmente e risorge come un fiore baciato dal sole.

Odi

Le opere politiche manzoniane sono 4: Aprile 1814, Il Proclama di Rimini, Marzo 1821 e il 5 Maggio. La differenza fra la loro composizione e quella degli altri scritti manzoniani è nell’immediatezza: infatti esse nascono sempre da un avvenimento preciso. La prima canzone nasce dopo l’esilio napoleonico ad Elba e la speranza di una rinnovata libertà; il frammento de Il Proclama di Rimini è la risposta positiva a Gioacchino Murat, che esorta alla lotta per l’indipendenza.

Ma le uniche riconosciute come letterariamente maggiori sono due: 

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Il poeta Teodoro Koerner, morto per la libertà, a cui Manzoni dedica l’ode

Marzo 1821: il contesto per cui nasce l’ode è quello delle insurrezioni per il rilascio della Costituzione nel Regno di Sardegna e nel lombardo veneto. E’ in questo clima che nasce l’ode manzoniana: dedicata al poeta tedesco Teodoro Koerner, morto per la libertà germanica, essa mostra l’imprescindibilità di un’unione politica per il raggiungimento dell’indipendenza, ma soprattutto sottolinea in modo definitivo il concetto di patria:

MARZO 1821

ALLA ILLUSTRE MEMORIA
DI
TEODORO KOERNER
POETA E SOLDATO
DELLA INDIPENDENZA GERMANICA
MORTO SUL CAMPO DI LIPSIA
IL GIORNO XVIII D’OTTOBRE MDCCCXIII
NOME CARO A TUTTI I POPOLI
CHE COMBATTONO PER DIFENDERE
O PER RICONQUISTARE
UNA PATRIA

Soffermàti sull’arida sponda,
vòlti i guardi al varcato Ticino,
tutti assorti nel nuovo destino,
certi in cor dell’antica virtù,
han giurato: Non fia che quest’onda
scorra più tra due rive straniere;
non fia loco ove sorgan barriere
tra l’Italia e l’Italia, mai più!

L’han giurato: altri forti a quel giuro
rispondean da fraterne contrade,
affilando nell’ombra le spade
che or levate scintillano al sol.
Già le destre hanno strette le destre;
già le sacre parole son porte:
o compagni sul letto di morte,
o fratelli su libero suol.

Chi potrà della gemina Dora,
della Bormida al Tanaro sposa,
del Ticino e dell’Orba selvosa
scerner l’onde confuse nel Po;
chi stornargli del rapido Mella
e dell’Oglio le miste correnti,
chi ritogliergli i mille torrenti
che la foce dell’Adda versò,

quello ancora una gente risorta
potrà scindere in volghi spregiati,
e a ritroso degli anni e dei fati,
risospingerla ai prischi dolor:
una gente che libera tutta,
o fia serva tra l’Alpe ed il mare;
una d’arme, di lingua, d’altare,
di memorie, di sangue e di cor.

Con quel volto sfidato e dimesso,
con quel guardo atterrato ed incerto,
con che stassi un mendico sofferto
per mercede nel suolo stranier,
star doveva in sua terra il Lombardo;
l’altrui voglia era legge per lui;
il suo fato, un segreto d’altrui;
la sua parte servire e tacer.

O stranieri, nel proprio retaggio
torna Italia, e il suo suolo riprende;
o stranieri, strappate le tende
da una terra che madre non v’è.
Non vedete che tutta si scote,
dal Cenisio alla balza di Scilla?
Non sentite che infida vacilla
sotto il peso de’ barbari piè?

O stranieri! sui vostri stendardi
sta l’obbrobrio d’un giuro tradito;
un giudizio da voi proferito
v’accompagna all’iniqua tenzon;
voi che a stormo gridaste in quei giorni:
Dio rigetta la forza straniera;
ogni gente sia libera, e pèra
della spada l’iniqua ragion.

Se la terra ove oppressi gemeste
preme i corpi de’ vostri oppressori,
se la faccia d’estranei signori
tanto amara vi parve in quei dì;
chi v’ha detto che sterile, eterno
saria il lutto dell’itale genti?
Chi v’ha detto che ai nostri lamenti
saria sordo quel Dio che v’udì?

Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia
chiuse il rio che inseguiva Israele,
quel che in pugno alla maschia Giaele
pose il maglio, ed il colpo guidò;
quel che è Padre di tutte le genti,
che non disse al Germano giammai:
va, raccogli ove arato non hai;
spiega l’ugne; l’Italia ti do.

Cara Italia! dovunque il dolente
grido uscì del tuo lungo servaggio;
dove ancor dell’umano lignaggio,
ogni speme deserta non è:
dove già libertade è fiorita,
dove ancor nel segreto matura,
dove ha lacrime un’alta sventura
non c’è cor che non batta per te.

Quante volte sull’Alpe spïasti
l’apparir d’un amico stendardo!
Quante volte intendesti lo sguardo
ne’ deserti del duplice mar!
Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
stretti intorno a’ tuoi santi colori,
forti, armati de’ propri dolori,
i tuoi figli son sorti a pugnar.

Oggi, o forti, sui volti baleni
il furor delle menti segrete:
per l’Italia si pugna, vincete!
Il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
al convito de’ popoli assisa,
o più serva, più vil, più derisa,
sotto l’orrida verga starà.

Oh giornate del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui
che da lunge, dal labbro d’altrui,
come un uomo straniero, le udrà!
Che a’ suoi figli narrandole un giorno
dovrà dir sospirando: io non c’era;
che la santa vittrice bandiera
salutata quel dì non avrà.

CarloAlbertoeicongiurati1821-1024x675.jpgCarlo Alberto incontra i congiurati del ’21

Fermati sulla sponda asciutta, rivolti gli sguardi al Ticino appena passato, tutti presi dal nuovo destino, sicuri nell’animo dell’antico coraggio, hanno giurato: non accada che questo fiume scorra più tra rive straniere; non ci sia luogo dove vengano erette barriere tra tra territori italiani, mai più! // Lo hanno giurato: altri valorosi hanno risposto al giuramento dalle altre regioni italiane. Preparando la congiura in silenzio, si sono poi sollevati alla luce del sole; quindi si sono scambiate le parole di libertà. Oh compagni morti per la libertà, oh fratelli distesi sul suolo reso libero (dalla vostra ribellione) // Chi potrà distinguere dalle acque mescolate nel Po, della doppia Dora (Baltea e Riparia), dalla Bormida, affluente del Tanaro, del Ticino, dell’Orba che scorre fra i boschi. Chi potrà deviare le correnti del rapido Mella e dell’Oglio (impedendo loro di confluirvi), chi potrà riprendere al Po i mille torrenti riversati dalla foce dell’Adda (che nella parte superiore raccoglie le acque di numerosi torrenti della Valtellina) // quello potrà dividere in vogo spregiato un popolo che ha riacquistato un’identità nazionale, e risospingerla indietro negli antichi dolori, un popolazione che sia o tutta libera o tutta sciava dalle Alpi al mare; unita nell’esercito, nella lingua, nella religione, nella tradizione, nell’etnia, nei sentimenti. // Con quel volto sfiduciato e dimesso, con quello sguardo rivolto in terra ed insicuro, con cui sta un mendicante sofferente per elemosina sulla terra straniera, doveva stare sulla propria terra il Lombardo, la volontà dell’Austriaco era legge per lui; il suo destino, nelle mani di un altro, il suo compito, servire ed obbedire. // O stranieri, l’Italia si riprende la propria eredità ed il suo territorio; o stranieri, andate via da una terra che non è vostra. Non vedete che vi è un generale ribollimento, dal Piemonte alla Calabria. Non percepite che si fa insidiosa sotto il peso della presenza straniera? // O stranieri! Sulle vostre bandiere vi è la vergogna di un giuramento tradito; una deliberazione da voi proferita (L’indipendenza italiana in cambio di una ribellione a Napoleone) vi accompagna ad una ingiusta guerra; voi che tutti insieme avete gridato che Dio rifiuta l’oppressione straniera, che ogni popolazione sia libera e muoia l’ingiusta ragione  basata sulla forza. // Se la terra dove oppressi gemeste ricopre i corpi dei vostri oppressori, se la faccia di dominatori stranieri (Francesi) tanto amara vi è parsa in quei giorni, chi vi ha detto che senza frutto, eterno, sarà il lutto della popolazione italiana? chi vi ha detto che Dio rimarrebbe sordo a nostri lamenti? // Sì, quel Dio che richiuse il Mar Rosso agli Egiziani (per permettere agli Ebrei il ritorno alla terra promessa), che nella mano della virile Gioele pose il martello con cui conficcò un chiodo nella testa del generale canaaneo; colui che è padre di tutti, che non ha mai detto ai Tedeschi: va’ e raccogli dove non hai arato, allarga gli artigli, l’Italia ti do. // Cara Italia! dappertutto un grido pieno di dolore è uscito dalla tua lunga servitù, dove non è ancora perduta del tutto la speranza del genere umano, dove già si è conquistata la libertà, dove segretamente si trama per raggiungerla, dove si soffre ancora profondamente per la sua mancanza, dappertutto batte un cuore per te. //  Quante volte sulle Alpi hai spiato l’apparire di uno stendardo amico, quante volte hai gettato lo sguardo nelle vaste distese spopolate dei tuo mari. Ecco alfine, nati dal tuo seno, stretti intorno al Tricolore, forti, armati dai propri dolori, i tuoi figli sono nati per combattere. //  Oggi, o forti, sui vostri volti rifulga la rabbia di menti a lungo nascoste: si combatte per l’Italia: vincete! Il suo destino sta nelle vostre spade. La vedremo grazie a voi risorta stare seduta in mezzo alle altre nazioni, o dovrà stare sotto l’orrido scettro della dominazione straniera più serva, più vile, più derisa. // O giorni della nostro riscatto! Infelice chi udrà il racconto di queste giornate da lontano, dai racconti altrui, come se fosse uno straniero in patria. Dovrà dire, con un sospiro, raccontandoli ai suoi figli, io non c’ero; che quel giorno non avrà salutato la santa vincitrice bandiera.

L’Ode manzoniana si può definire parenetica (atto ad esortare), prendendo spunto dalla lotta di Santorre di Santarosa che, ottenuta la Costituzione da Carlo Alberto (poi ritirata per volontà del padre Vittorio Emanuele), apre i moti del 21 in nord Italia. Essa può essere divisa in tre momenti:

  1. (ottave 1-5): si descrive il passaggio dei Piemontesi in Lombardia e quindi, cambiando prospettiva, come questi si preparino alla lotta ed uniti combattino per la libertà. Utilizza infatti l’adynaton (affermare una situazione impossibile) per sottolineare l’irreversibilità del processo nazionale, di cui offre l’importante definizione (una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor). Quindi rievoca, nel volto di un lombardo la lunga servitù al popolo straniero;
  2. (ottave 6-9): allocuzione rivolta ai “tedeschi” (austriaci); è assurdo, lo dice la dedica a Teodoro Korner, combattere e morire per la libertà della propria patria e poi sottometterne un’altra negandone l’indipendenza; il Manzoni parla proprio di tradimento, del tradimento dell’accordo politico sancito tra Austria, Inghilterra e le popolazioni italiane. Ma tale tradimento viene letto anche in funzione religiosa: Dio non è sordo ai lamenti di chi è privato della patria, operando Lui come garante di giustizia e libertà.
  3. (ottave 10-13): allocuzione rivolta all’Italia che deve ora combattere e ribellarsi, additando le popolazioni solidali con lei; è inutile aspettarsi la libertà da popoli stranieri, è dal suo seno che deve prorompere la forza, armando i propri figli per l’indipendenza dell’intera Italia. 

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Anonimo: Incisione, Napoleone sul letto di morte

Scritta in soli due giorni, dopo aver ricevuto la notizia della morte di Napoleone:

5 MAGGIO

Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,

muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
nè sa quando una simile
orma di piè mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.

Lui folgorante in solio

vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sonito
mista la sua non ha:

vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al subito
sparir di tanto raggio:
e scioglie all’urna un cantico
che forse non morrà.

Dall’Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall’uno all’altro mar.

Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.

La procellosa e trepida
gioia d’un gran disegno,
l’ansia d’un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch’era follia sperar;

tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio:
due volte nella polvere,
due volte sull’altar.

Ei si nomò: due secoli,
l’un contro l’altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe’ silenzio, ed arbitro
s’assise in mezzo a lor.

E sparve, e i dì nell’ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d’immensa invidia
e di pietà profonda,
d’inestinguibil odio
e d’indomato amor.

Come sul capo al naufrago
l’onda s’avvolve e pesa,
l’onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;

tal su quell’alma il cumulo
delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!

Oh quante volte, al tacito
morir d’un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l’assalse il sovvenir!

E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de’ manipoli,
e l’onda dei cavalli,
e il concitato imperio,
e il celere ubbidir.

Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò: ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;

e l’avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desidéri avanza,
dov’è silenzio e tenebre
la gloria che passò.

Bella Immortal! Benefica
fede ai trionfi avvezza!
scrivi ancor questo, allegrati;
chè più superba altezza
al disonor del Golgota
giammai non si chinò.

Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.

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Egli è stato. Come sta immobile, esalato l’ultimo respiro, il corpo senza memoria, privato di un’anima tanto grande, così sta (ora) la terra a quella notizia: colpita attonita, pensando alla morte di quell’uomo mandato dal destino; né sa quando un’orma di un piede di uomo verrà (nuovamente) a calpestare la sua polvere insanguinata. Il mio ingegno lo (Napoleone) vide nel momento del suo massimo splendore, sul trono imperiale, ma tacque. Allo stesso modo si astenne dal mescolare la sua voce al frastuono di mille altri voci, quando in un continuo avvicendamento, cadde, si risollevò, ricadde definitivamente; non contaminato da elogi servili o da vili oltraggi, si leva ora con commozione, all’improvvisa scomparsa di tanto splendore, e innalza alla sua tomba un canto che forse rimarrà immortale. Dalle Alpi all’Egitto, dalla Spagna alla Germania, l’azione veloce di quell’uomo risoluto seguiva subito la sua decisione, altrettanto rapida. Rapidità che si manifestò dalla Calabria alla Russia, dal Mediterraneo all’Atlantico. Fu vera gloria? Ai posteri la difficile decisione: noi chiniamo la fronte a Dio, che ha voluto imprimere in lui la sua più vasta capacità creatrice. La gioia tempestosa e trepidante di chi concepisce un grande progetto e l’ansia di un cuore indomito, che si piega ad obbedire agli altri solo per attuare la sua ambizione, finché non la realizza e ottiene un premio che all’inizio sembrava folle sperare. Egli sperimentò ogni cosa: la gloria, tanto più grande quanto più grande è il pericolo corso; la fuga e l’esaltazione della vittoria, la regalità e la tristezza dell’esilio: due volte sconfitto, due volte sul trono. Egli si nominò (apparve sulla scena della storia): due secoli in lotta tra loro guardarono a lui, sottomessi alla sua volontà, come aspettandosi il compiersi di un destino; egli impose il silenzio e si pose arbitro tra loro. Eppure scomparve; e racchiuse i giorni in una isola sperduta, (ancora) oggetto di un incredibile invidia e profonda pietà, inestinguibile odio e indomato amor. Come l’onda si abbatte e si richiude sul naufrago sommergendolo, la stessa onda su cui, poco prima, lo sguardo del misero si è allungato invano alla ricerca di terra così sull’anima di Napoleone piomba il cumulo delle memorie. Quante volte tentò di narrare le sua storia ai lettori futuri, tante volte rinunciò, lasciando cadere la stanca mano sulle innumerevoli pagine. Oh, quante volte, al tramonto di un giorno inattivo, abbassati gli occhi una volta fulminei, con le braccia conserte nel petto, ristette, e l’avvolse il ricordo dei giorni passati! E ricordò i mobili accampamenti, le trincee assalite, il galoppo dei cavalieri, lo slancio dei cavalli, il comando concitato ed il rapido ubbidire. Ah, forse a tanto dolore il suo animo non resse e disperò, ma provvidenzialmente venne una mano dal Cielo e pietosa lo trasportò in un’aria più pura (scevra dai tristi ricordi) e lo avviò attraverso i sentieri della speranza, verso la vita eterna del Paradiso, in cui ciascun uomo può trovare un premio che supera ogni umano desiderio e dove la gloria terrena non ha più alcun senso. Oh bella, immortale fede, abituata ai trionfi! Scrivi anche questo, rallegrati: dal momento che mai uomo più superbo si è chinato di fronte alla Croce di Cristo. Tu, fede, da queste ceneri stanche, allontana ogni malvagia parola: il Dio che abbatte i potenti e consola gli umili, che punisce e consola si è posato accanto a lui.

L’ode può, ideologicamente, richiamarsi al coro dell’atto IV dell’Adelchi, in quanto lo stessa moglie di Carlo, poi ripudiata, è dapprima sollevata fra le regine, poi ridimensionata tra le suore in cui si era rifugiata. Ma qui il concetto si ampia in una maggiore complessità storico/teologica; vediamone la struttura, suddividendola in quattro parti:

  • (vv.1-24): il poeta non descrive l’imperatore, ma il modo in cui il mondo recepisce la notizia della sua morte ed il modo in cui lui, finora scevro da ogni apoteosi o denigrazione, sente giunto il momento di “parlare” di lui;
  • (vv. 25-60): vengono rievocate le grandi imprese militari di Napoleone, le conquiste, il coraggio, la determinazione. Ma Manzoni, sospende il giudizio: egli è strumento provvidenziale nelle mani di Dio per il suo disegno;
  • (vv. 61-90): l’esilio di Napoleone, l’impotenza e il riavvicinamento alla fede;
  • (vv. 91-108): riflessione morale teologica in cui si celebra il potere della fede, della misericordia e dell’imperscrutabilità del volere di Dio.

L’intervento di Napoleone nella storia (vv. 49-54) porta la meditazione manzoniana sulla presenza di Dio nella storia. La vita dell’imperatore manifesta un disegno divino di cui bisogna accettare l’imperscrutabilità, ma non metterne in dubbio la finalità; essa si attua attraverso la provvidenza, che tende verso il trionfo di Cristo nella storia stessa (si veda l’esaltazione alla fede).

Napoleone si configura un po’ come l’Anticristo che ha avuto l’ardire di sostituirsi a lui; novello Adamo che dà il nome alle cose (termine scritturale Ei si nomò) paga l’ambizione e l’orgoglio che non ha saputo piegarsi all’unica potenza che è Dio. Per questo Napoleone non viene mai “nominato”: chi ha voluto prendersi il nome di Dio, non ha diritto ad un nome.

Il romanzo
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“Fermo e Lucia”, tomo II, cap. X, f. 109, con postilla di Ermes Visconti

Non si può parlare di un romanzo manzoniano: tanta è la differenza tra la prima redazione elaborata tra il ’21/’23 e quella del ’27 (un ulteriore edizione del ’40 avrà solo una puntigliosa elaborazione linguistica) che i critici individuano quasi la composizione di due diverse opere una dal titolo Fermo e Lucia e l’altra I promessi sposi. La vicenda è nota:

La vicenda si svolge in Lombardia tra il 1628 e il 1630, al tempo della dominazione spagnola. Don Abbondio, curato di un paesino posto sulle rive del lago di Como, sta facendo la sua passeggiatina serale quando viene avvicinato da due “bravi” di Don Rodrigo, il signorotto del luogo, che gli intimano di non celebrare il matrimonio di Renzo Tramaglino con Lucia Mondella. Don Abbondio, che solo un’infinita prudenza ha tenuto finora lontano dagli innumerevoli pericoli di un secolo di privilegi e di prepotenze, si affretta, il giorno dopo, a mandar via Renzo, venuto a prendere gli ultimi accordi. Renzo, dopo aver interrogato la serva di Don Abbondio, Perpetua, riesce finalmente a sapere che Don Rodrigo ha proibito le nozze perché incapricciato di Lucia. Il giovane pensa bene di rivolgersi all’avvocato Azzeccagarbugli, che al nome del signorotto si tira precipitosamente indietro. Si tenta il matrimonio a sorpresa, ma Don Abbondio frustra il tentativo. Intanto i bravi, guidati dal Griso, sono andati a rapire la ragazza: non c’è più da indugiare, i poveri “promessi” devono lasciare il paese. Con l’aiuto di un buon frate, Cristoforo, Lucia e la madre Agnese si rifugiano in un monastero di Monza; Renzo si reca a Milano con una lettera per un confratello di Cristoforo. Al monastero di Monza si occupa delle due donne Gertrude, che, fatta monaca a forza, è legata da turpi vincoli a un nobilotto, Egidio; costui, con l’aiuto dell’Innominato – altro signore prepotente e rotto a tutti i delitti – fa rapire Lucia per Don Rodrigo. Ma già da tempo rimorsi e pentimenti agitano l’animo dell’Innominato: la vista di Lucia, così ingiustamente tormentata, e l’arrivo del buon cardinale Borromeo provocano la crisi. Invece di consegnare Lucia a Don Rodrigo, l’Innominato la libera. Insieme con la madre, la ragazza è affidata a donna Prassede, moglie del dotto don Ferrante. Intanto Renzo è arrivato a Milano in un momento assai poco felice; mentre il popolo tumultua per la carestia, Renzo, che in un’osteria ha bevuto un po’ troppo, comincia a farfugliare contro i prepotenti: preso per uno dei capintesta della rivolta viene arrestato da due sbirri. Viene però liberato a furor di popolo e può così lasciare Milano e si rifugia a Bergamo, da un cugino, Bortolo. La Lombardia è straziata dalla guerra: calano i lanzichenecchi, le popolazioni fuggono. A Milano scoppia la peste. Renzo torna in città, avendo saputo che Lucia è ospite di don Ferrante; ma la giovane ha preso il morbo e si trova al lazzaretto. Qui, finalmente, Renzo la incontra. Ma c’è un nuovo intoppo: Lucia, al castello dell’Innominato, aveva fatto voto di castità alla Vergine se fosse riuscita a scampare al pericolo. Fra Cristoforo, che al lazzaretto si prodiga a curare gli appestati, la scioglie dal voto. Lucia guarisce, la peste si placa, dopo aver mietuto innumerevoli vittime, tra cui Don Rodrigo e Fra Cristoforo. Dopo tante vicissitudini, i due “promessi” possono diventare finalmente marito e moglie.

La differenza non sta nella fabula, che conserva nelle due edizioni l’idea di fondo, ma il modo di svolgerla e di strutturazione del racconto.
Le differenze fondamentali riguardano:

  • una maggiore trattazione della storia o di alcuni episodi (la situazione politica del ’600 in Lombardia, la storia della monaca di Monza e via discorrendo) che rendevano il racconto non unitario;
  • la lingua non rispondeva a quelle esigenze “classiche” di uniformità tali da rendere il dettato estremamente armonico, ma era pieno di lombardismi e francesismi (per alcuni critici, tuttavia, ciò lo rendeva maggiormente espressionistico)

Gli antecedenti letterari manzoniani sono certamente il genere romanzo nato in Inghilterra alla fine del ’700: ma se esso era nato come forma di un’epopea borghese (secondo la definizione hegeliana), in Italia, mancando una classe borghese numerosa e progressista, non poteva essere che il romanzo storico, il cui antecedente più immediato è certamente l’Ivanhoe di Walter Scott (da cui, come già detto, prende l’idea di presentare un medioevo meno di maniera dello scrittore inglese). Ma si erge su tale genere descrivendo per la prima volta la storia di “genti meccaniche” come mai era successo, nel genere romanzo di stile tragico (presenti invece in quello comico).

L’edizione cui facciamo riferimento è quella definitiva del ’40, che come già detto, risulterà armonicamente costruito, facendo alternare alla storia, macrosequenze che nell’edizione del Fermo e Lucia inficiavano la linearità dell’opera. Questa, già nel ’27 è così strutturata:

  • Capitoli I – VIII: Storia di Renzo e Lucia
  • Capitoli IX – X: prima macrosequenza: Gertrude
  • Capitoli XI – XVII: Carestia e storia di Renzo
  • Capitoli XVIII – XIX: Raccordo: Incontro fra il Conte zio e Padre provinciale
  • Capitoli XX – XXI: seconda macrosequenza: Innominato
  • Capitoli XII – XXX: Storia di Lucia
  • Capitolo XXXI – XXXII: terza macrosequenza: la peste
  • Capotolo XXXIII – XXXVIII: Reincontro e fine della storia

infatti, come vediamo schematicamente possiamo vedere come i quattro nuclei narrativi principali vengano interrotti da episodi dal massimo di due capitoli e mezzo, tanto da non far perdere contatto con la storia principale: anch’essa è distribuita secondo uno schema ben preciso: infatti alle storie dei due promessi insieme nel primo blocco, corrispondono il secondo e il terzo, rispettivamente Renzo il primo e Lucia il secondo, per poi ritrovarsi nell’ultimo blocco.

Il romanzo inizia con un’importantissima introduzione:

INTRODUZIONE

«L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gl’illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d’Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal’argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de’ Politici maneggj, et il rimbombo de’ bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d’Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche. E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l’amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl’altri Spettabili Magistrati qual’erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l’humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d’Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti. Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne’ tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medesmo si farà de’ luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl’huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti…»
«Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?» Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. «Ben è vero, dicevo tra me, scartabellando il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l’opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano. Sì; ma com’è dozzinale! com’è sguaiato! com’è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnola seminata qua e là; e poi, ch’è peggio, ne’ luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni occasione d’eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti que’ passi insomma che richiedono bensì un po’ di rettorica, ma rettorica discreta, fine, di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio. E allora, accozzando, con un’abilità mirabile, le qualità più opposte, trova la maniera di riuscir rozzo insieme e affettato, nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo. Ecco qui: declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch’è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese. In vero, non è cosa da presentare a lettori d’oggigiorno: son troppo ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Meno male, che il buon pensiero m’è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne lavo le mani». Nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come dico; molto bella. «Perché non si potrebbe, pensai, prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura?» Non essendosi presentato alcuna obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed ecco l’origine del presente libro, esposta con un’ingenuità pari all’importanza del libro medesimo.
Taluni però di que’ fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c’eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de’ quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all’occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla.
Ma, rifiutando come intollerabile la dicitura del nostro autore, che dicitura vi abbiam noi sostituita? Qui sta il punto.
Chiunque, senza esser pregato, s’intromette a rifar l’opera altrui, s’espone a rendere uno stretto conto della sua, e ne contrae in certo modo l’obbligazione: è questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam punto di sottrarci. Anzi, per conformarci ad essa di buon grado, avevam proposto di dar qui minutamente ragione del modo di scrivere da noi tenuto; e, a questo fine, siamo andati, per tutto il tempo del lavoro, cercando d’indovinare le critiche possibili e contingenti, con intenzione di ribatterle tutte anticipatamente. Né in questo sarebbe stata la difficoltà; giacché (dobbiam dirlo a onor del vero) non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma le mutano. Spesso anche, mettendo due critiche alle mani tra loro, le facevam battere l’una dall’altra; o, esaminandole ben a fondo, riscontrandole attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare che, così opposte in apparenza, eran però d’uno stesso genere, nascevan tutt’e due dal non badare ai fatti e ai principi su cui il giudizio doveva esser fondato; e, messele, con loro gran sorpresa, insieme, le mandavamo insieme a spasso. Non ci sarebbe mai stato autore che provasse così ad evidenza d’aver fatto bene. Ma che? quando siamo stati al punto di raccapezzar tutte le dette obiezioni e risposte, per disporle con qualche ordine, misericordia! venivano a fare un libro. Veduta la qual cosa, abbiam messo da parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile d’un altro, potrebbe parer cosa ridicola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo.

5274-o.jpgL’introduzione è di fondamentale importanza per introdurci nel clima ideologico, morale e politico del nostro: egli finge di aver trovato un manoscritto del ‘600 in cui erano narrate storie di picciol affare. Ma chi è l’erudito uomo secentesco che ha riportato la vicenda? Probabilmente uno che l’aveva raccolta dalla stessa bocca di Renzo (come ci dice lo stesso Manzoni) e l’aveva riscritta: Renzo, quindi, narratore ignorante, riporta la sua storia ad un dotto del Seicento, un, potremmo dire, Don Ferrante (personaggio secondario, ma la descrizione della sua biblioteca ci offre la misura della distanza e della durezza con cui Manzoni guardava alla cultura del ‘600). Ma qui la polemica contro la cultura barocca si fa pregnante: se infatti Don Ferrante, con tutta la sua conoscenza scientifica, ha potuto dichiarare che la peste non esiste per poi morirvi, bisogna fare a pezzi quella cultura per fondarne un’altra, bypassandola e tornando all’integrità “morale” dell’umile Renzo. Egli non ha voce, a dargliela ci penserà Manzoni. Sorge il problema della lingua: problema assai dibattuto allora e di difficilissima soluzione per via della mancanza di una lingua letteraria media (l’unica adatta per un romanzo) figlia della disunione politica italiana. La soluzione dello scrittore lombardo sarà ovvia e disegnerà la volontà politica di fondare una lingua media colta per la futura borghesia italiana (non è un caso che il testo diventerà obbligatorio nella scuola): il fiorentino parlato dalle persone colte, l’unico in cui la prosa narrativa, seppur trecentesca col Boccaccio, aveva saputo raccontare.

Il luogo
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CAPITOLO I
Descrizione del luogo

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia. Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua lago, chiuso all’estremità o piuttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l’acqua riflette capovolti, co’ paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute.

La descrizione non vuol essere una dimostrazione dell’efficacia narrativa del romanziere, ma risponde innanzitutto all’esigenza di circoscrivere il luogo, dal generale al particolare (si è parlato quasi di uno zoom cinematografico), quindi a rispondere alla richiesta romantica per cui ogni fatto dev’essere collocato oggettivamente, con rigorosa esattezza, in una realtà storicamente e geograficamente controllabile, senza alcuna invenzione fantastica. Non è certamente fantastico, ma figlio anche di una capacità “tecnica”, narrativamente parlando, l’intervento antifrastico, ad interrompere la “scientificità” della descrizione, quando, riferendosi ai soldati spagnoli, li loda per “accarezzare le spalle” agli uomini e aiutarli nel lavoro della vendemmia. In un piccolo passaggio disegna già il clima di violenza presente nell’Italia di allora.

I personaggi
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CAPITOLO I
PRESENTAZIONE DI DON ABBONDIO

Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l’altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all’anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere.

 La descrizione del primo personaggio offertaci da Manzoni è costruita dinamicamente, attraverso le azioni; lo vediamo infatti mentre allontana i ciottoli dalla strada, recita noiosamente il rosario, guarda svogliatamente il paesaggio. Sono le azioni a dirci chi è: scansa i problemi, svolge il suo compito pastorale senza passione, non s’interessa della bellezza. E’ quindi un personaggio che, così presentatoci, non è positivo, anzi, a dirla tutta, la sua “inazione” sarà la conseguenza dei pericoli e dell’allontanamento dei due innamorati. Ma Manzoni sembra voler dire che non è colpa sua, ma della storia che con la sua violenza vessa chi, nella storia, non vuole entrare. Aggiunge infatti:

I_promessi_sposi-026.jpgDon Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da’ primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que’ tempi, era quella d’un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d’esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui.

e

Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.

Comunque la storia entra, in questo anzianotto bonario, e Manzoni ce la rappresenta simbolicamente: il tabernacolo con le lingue di fuoco, il pericolo imminente ed i bravi: la prepotenza del secolo lo ha investito (prepotenza che tuttavia, sembra sottolineare Manzoni, viene esercitata contro i più deboli) 

CAPITOLO II
RENZO

Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavora-va egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era di-venuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de’ calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti

ba0ae2ffc3bd01adea808a851c1d3ff1.jpgRenzo ci dà l’opportunità di sottolineare un punto di fondamentale importanza per comprendere l’ideologia di Manzoni: per lo scrittore lombardo gli umili non sono poveri. Troviamo, infatti, la rappresentazione di piccolo proprietario terriero e con un piccolo capitale accumulato negli anni. Ma ciò non toglie allo storico Manzoni la possibilità di rimarcare l’inefficienza del governo spagnolo che, con la sua esosa politica fiscale e l’accaparramento di terre, aveva costretto molti filatori di seta, attività che permetteva un buon guadagno, ad emigrare nel territorio veneto.

CAPITOLO II
LUCIA

Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare.

I_promessi_sposi_-_Lucia.jpgCon Lucia Manzoni sembra aver voluto raffigurare quasi un personaggio che riprendesse il cantico evangelico del Magnificat: Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles. Infatti quello che emerge in questo ritratto è la pudicizia. Ma sembra, inoltre, che qui Manzoni abbia voluto esprimere il suo concetto di beltà femminile, che vedeva in Enrichetta, sua moglie. Infatti a caratterizzare la figura di Lucia, quello che emerge è certamente ritrosia, non scevra tuttavia da una certa forza (guerriera, viene definita) che appartiene alle contadine, donne lavoratrici.

CAPITOLO IV
FRA CRISTOFORO

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Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d’espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.
Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d’un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s’era dato a viver da signore.
Nel suo nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso a far qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal fantasia, studiava tutte le maniere di far dimenticare ch’era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui. Ma il fondaco, le balle, il libro, il braccio, gli comparivan sempre nella memoria, come l’ombra di Banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense, e il sorriso de’ parassiti. E non si potrebbe dire la cura che dovevano aver que’ poveretti, per schivare ogni parola che potesse parere allusiva all’antica condizione del convitante. Un giorno, per raccontarne una, un giorno, sul finir della tavola, ne’ momenti della più viva e schietta allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più godesse, o la brigata di sparecchiare, o il padrone d’aver apparecchiato, andava stuzzicando, con superiorità amichevole, uno di que’ commensali, il più onesto mangiatore del mondo. Questo, per corrispondere alla celia, senza la minima ombra di malizia, proprio col candore d’un bambino, rispose: – eh! io fo l’orecchio del mercante –. Egli stesso fu subito colpito dal suono della parola che gli era uscita di bocca: guardò, con faccia incerta, alla faccia del padrone, che s’era rannuvolata: l’uno e l’altro avrebber voluto riprender quella di prima; ma non era possibile. Gli altri convitati pensavano, ognun da sé, al modo di sopire il piccolo scandolo, e di fare una diversione; ma, pensando, tacevano, e, in quel silenzio, lo scandolo era più manifesto. Ognuno scansava d’incontrar gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti eran occupati del pensiero che tutti volevan dissimulare. La gioia, per quel giorno, se n’andò; e l’imprudente o, per parlar con più giustizia, lo sfortunato, non ricevette più invito. Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in angustie continue, temendo sempre d’essere schernito, e non riflettendo mai che il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella professione di cui allora si vergognava, l’aveva pure esercitata per tant’anni, in presenza del pubblico, e senza rimorso. Fece educare il figlio nobilmente, secondo la condizione de’ tempi, e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere e d’esercizi cavallereschi; e morì, lasciandolo ricco e giovinetto.
Lodovico aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l’avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello a cui era accostumato; e vide che, a voler esser della lor compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni momento. Una tal maniera di vivere non s’accordava, né con l’educazione, né con la natura di Lodovico. S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico; perché gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto d’inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo pure aver che far con loro in qualche modo, s’era dato a competer con loro di sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l’aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla giornata; ch’erano appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitare tutte queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti d’un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore, s’intrometteva in una briga, se ne tirava addosso un’altra; tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti. L’impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato continuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto), doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua sicurezza, come per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i più ribaldi; e vivere co’ birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più d’una volta, o scoraggito, dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo imminente, annoiato del continuo guardarsi, stomacato della sua compagnia, in pensiero dell’avvenire, per le sue sostanze che se n’andavan, di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più d’una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate; che, a que’ tempi, era il ripiego più comune, per uscir d’impicci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita, divenne una risoluzione, a causa d’un accidente, il più serio che gli fosse ancor capitato.
Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa, diventato maestro di casa. Era un uomo di circa cinquant’anni, affezionato, dalla gioventù, a Lodovico, che aveva veduto nascere, e che, tra salario e regali, gli dava non solo da vivere, ma di che mantenere e tirar su una numerosa famiglia. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il contraccambio: giacché è uno de’ vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi. Costui, seguito da quattro bravi, s’avanzava diritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca composta all’alterigia e allo sprezzo. Tutt’e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso. L’altro pretendeva, all’opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d’andar nel mezzo; e ciò in forza d’un’altra consuetudine. Perocché, in questo, come accade in molti altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s’abbattesse in un’altra della stessa tempra. Que’ due si venivano incontro, ristretti alla muraglia, come due figure di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono corrispondente di voce: «fate luogo.» 
«Fate luogo voi,» – rispose Lodovico. – La diritta è mia.
«Co’ vostri pari, è sempre mia.»
«Sì, se l’arroganza de’ vostri pari fosse legge per i pari miei.»
I bravi dell’uno e dell’altro eran rimasti fermi, ciascuno dietro il suo padrone, guardandosi in cagnesco, con le mani alle daghe, preparati alla battaglia. La gente che arrivava di qua e di là, si teneva in distanza, a osservare il fatto; e la presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio de’ contendenti.
«Nel mezzo, vile meccanico; o ch’io t’insegno una volta come si tratta co’ gentiluomini.»
«Voi mentite ch’io sia vile.» «Tu menti ch’io abbia mentito.» Questa risposta era di prammatica. «E, se tu fossi cavaliere, come son io,» aggiunse quel signore, «ti vorrei far vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu.» 
«È un buon pretesto per dispensarvi di sostener co’ fatti l’insolenza delle vostre parole.»
«Gettate nel fango questo ribaldo,» disse il gentiluomo, voltandosi a’ suoi.
Vediamo!» disse Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano alla spada.
«Temerario!» gridò l’altro, sfoderando la sua: «io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue.»
Così s’avventarono l’uno all’altro; i servitori delle due parti si slanciarono alla difesa de’ loro padroni. Il combattimento era disuguale, e per il numero, e anche perché Lodovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico, che ad ucciderlo; ma questo voleva la morte di lui, a ogni costo. Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d’un bravo, e una sgraffiatura leggiera in una guancia, e il nemico principale gli piombava addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell’estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sé, cacciò la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch’era finita, si diedero alla fuga, malconci: quelli di Lodovico, tartassati e sfregiati anche loro, non essendovi più a chi dare, e non volendo trovarsi impicciati nella gente, che già accorreva, scantonarono dall’altra parte: e Lodovico si trovò solo, con que’ due funesti compagni ai piedi, in mezzo a una folla.
«Com’è andata?» «È uno.» «Son due.» «Gli ha fatto un occhiello nel ventre.» «Chi è stato ammazzato?» «Quel prepotente.» «Oh santa Maria, che sconquasso!» «Chi cerca trova.» «Una le paga tutte.» «Ha finito anche lui.» «Che colpo!» «Vuol essere una faccenda seria.» «E quell’altro disgraziato!» «Misericordia! che spettacolo!» «Salvatelo, salvatelo.» «Sta fresco anche lui.» «Vedete com’è concio! butta sangue da tutte le parti.» «Scappi, scappi. Non si lasci prendere.»
Queste parole, che più di tutte si facevan sentire nel frastono confuso di quella folla, esprimevano il voto comune; e, col consiglio, venne anche l’aiuto. Il fatto era accaduto vicino a una chiesa di cappuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora a’ birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone, che si chiamava la giustizia. L’uccisore ferito fu quivi condotto o portato dalla folla, quasi fuor di sentimento; e i frati lo ricevettero dalle mani del popolo, che glielo raccomandava, dicendo: «è un uomo dabbene che ha freddato un birbone superbo: l’ha fatto per sua difesa: c’è stato tirato per i capelli.»
Lodovico non aveva mai, prima d’allora, sparso sangue; e, benché l’omicidio fosse, a que’ tempi, cosa tanto comune, che gli orecchi d’ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l’impressione ch’egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui, e l’uomo morto da lui, fu nuova e indicibile; fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nemico, l’alterazione di quel volto, che passava, in un momento, dalla minaccia e dal furore, all’abbattimento e alla quiete solenne della morte, fu una vista che cambiò, in un punto, l’animo dell’uccisore. Strascinato al convento, non sapeva quasi dove si fosse, né cosa si facesse; e, quando fu tornato in sé, si trovò in un letto dell’infermeria, nelle mani del frate chirurgo (i cappuccini ne avevano ordinariamente uno in ogni convento), che accomodava faldelle e fasce sulle due ferite ch’egli aveva ricevute nello scontro. Un padre, il cui impiego particolare era d’assistere i moribondi, e che aveva spesso avuto a render questo servizio sulla strada, fu chiamato subito al luogo del combattimento. Tornato, pochi minuti dopo, entrò nell’infermeria, e, avvicinatosi al letto dove Lodovico giaceva, «consolatevi» gli disse: «almeno è morto bene, e m’ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo». Questa parola fece rinvenire affatto il povero Lodovico, e gli risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti ch’eran confusi e affollati nel suo animo: dolore dell’amico, sgomento e rimorso del colpo che gli era uscito di mano, e, nello stesso tempo, un’angosciosa compassione dell’uomo che aveva ucciso. «E l’altro?» – domandò ansiosamente al frate.
«L’altro era spirato, quand’io arrivai.»
Frattanto, gli accessi e i contorni del convento formicolavan di popolo curioso: ma, giunta la sbirraglia, fece smaltir la folla, e si postò a una certa distanza dalla porta, in modo però che nessuno potesse uscirne inosservato. Un fratello del morto, due suoi cugini e un vecchio zio, vennero pure, armati da capo a piedi, con grande accompagnamento di bravi; e si misero a far la ronda intorno, guardando, con aria e con atti di dispetto minaccioso, que’ curiosi, che non osavan dire: gli sta bene; ma l’avevano scritto in viso.
Appena Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore, lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome perdono d’essere stato lui la cagione, quantunque ben certo involontaria, di quella desolazione, e, nello stesso tempo, l’assicurasse ch’egli prendeva la famiglia sopra di sé. Riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura; e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli manifestò il suo desiderio. N’ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate; ma che, se persisteva, non sarebbe rifiutato. Allora, fatto venire un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch’era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo: una somma alla vedova, come se le costituisse una contraddote, e il resto a otto figliuoli che Cristoforo aveva lasciati.
La risoluzione di Lodovico veniva molto a proposito per i suoi ospiti, i quali, per cagion sua, erano in un bell’intrigo. Rimandarlo dal convento, ed esporlo così alla giustizia, cioè alla vendetta de’ suoi nemici, non era partito da metter neppure in consulta. Sarebbe stato lo stesso che rinunziare a’ propri privilegi, screditare il convento presso il popolo, attirarsi il biasimo di tutti i cappuccini dell’universo, per aver lasciato violare il diritto di tutti, concitarsi contro tutte l’autorità ecclesiastiche, le quali si consideravan come tutrici di questo diritto. Dall’altra parte, la famiglia dell’ucciso, potente assai, e per sé, e per le sue aderenze, s’era messa al punto di voler vendetta; e dichiarava suo nemico chiunque s’attentasse di mettervi ostacolo. La storia non dice che a loro dolesse molto dell’ucciso, e nemmeno che una lagrima fosse stata sparsa per lui, in tutto il parentado: dice soltanto ch’eran tutti smaniosi d’aver nell’unghie l’uccisore, o vivo o morto. Ora questo, vestendo l’abito di cappuccino, accomodava ogni cosa. Faceva, in certa maniera, un’emenda, s’imponeva una penitenza, si chiamava implicitamente in colpa, si ritirava da ogni gara; era in somma un nemico che depon l’armi. I parenti del morto potevan poi anche, se loro piacesse, credere e vantarsi che s’era fatto frate per disperazione, e per terrore del loro sdegno. E, ad ogni modo, ridurre un uomo a spropriarsi del suo, a tosarsi la testa, a camminare a piedi nudi, a dormir sur un saccone, a viver d’elemosina, poteva parere una punizione competente, anche all’offeso il più borioso.
Il padre guardiano si presentò, con un’umiltà disinvolta, al fratello del morto, e, dopo mille proteste di rispetto per l’illustrissima casa, e di desiderio di compiacere ad essa in tutto ciò che fosse fattibile, parlò del pentimento di Lodovico, e della sua risoluzione, facendo garbatamente sentire che la casa poteva esserne contenta, e insinuando poi soavemente, e con maniera ancor più destra, che, piacesse o non piacesse, la cosa doveva essere. Il fratello diede in ismanie, che il cappuccino lasciò svaporare, dicendo di tempo in tempo: «è un troppo giusto dolore». Fece intendere che, in ogni caso, la sua famiglia avrebbe saputo prendersi una soddisfazione: e il cappuccino, qualunque cosa ne pensasse, non disse di no. Finalmente richiese, impose come una condizione, che l’uccisor di suo fratello partirebbe subito da quella città. Il guardiano, che aveva già deliberato che questo fosse fatto, disse che si farebbe, lasciando che l’altro credesse, se gli piaceva, esser questo un atto d’ubbidienza: e tutto fu concluso. Contenta la famiglia, che ne usciva con onore; contenti i frati, che salvavano un uomo e i loro privilegi, senza farsi alcun nemico; contenti i dilettanti di cavalleria, che vedevano un affare terminarsi lodevolmente; contento il popolo, che vedeva fuor d’impiccio un uomo ben voluto, e che, nello stesso tempo, ammirava una conversione; contento finalmente, e più di tutti, in mezzo al dolore, il nostro Lodovico, il quale cominciava una vita d’espiazione e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso. Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita alla paura, l’afflisse un momento; ma si consolò subito, col pensiero che anche quell’ingiusto giudizio sarebbe un gastigo per lui, e un mezzo d’espiazione. Così, a trent’anni, si ravvolse nel sacco; e, dovendo, secondo l’uso, lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò fra Cristoforo.
Appena compita la cerimonia della vestizione, il guardiano gl’intimò che sarebbe andato a fare il suo noviziato a ***, sessanta miglia lontano, e che partirebbe all’indomani. Il novizio s’inchinò profondamente, e chiese una grazia. «Permettetemi, padre,» disse, «che, prima di partir da questa città, dove ho sparso il sangue d’un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente offesa, io la ristori almeno dell’affronto, ch’io mostri almeno il mio rammarico di non poter risarcire il danno, col chiedere scusa al fratello dell’ucciso, e gli levi, se Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall’animo». Al guardiano parve che un tal passo, oltre all’esser buono in sé, servirebbe a riconciliar sempre più la famiglia col convento; e andò diviato da quel signor fratello, ad esporgli la domanda di fra Cristoforo. A proposta così inaspettata, colui sentì, insieme con la maraviglia, un ribollimento di sdegno, non però senza qualche compiacenza. Dopo aver pensato un momento, «venga domani,» disse; e assegnò l’ora. Il guardiano tornò, a portare al novizio il consenso desiderato.
Il gentiluomo pensò subito che, quanto più quella soddisfazione fosse solenne e clamorosa, tanto più accrescerebbe il suo credito presso tutta la parentela, e presso il pubblico; e sarebbe (per dirla con un’eleganza moderna) una bella pagina nella storia della famiglia. Fece avvertire in fretta tutti i parenti che, all’indomani, a mezzogiorno, restassero serviti (così si diceva allora) di venir da lui, a ricevere una soddisfazione comune. A mezzogiorno, il palazzo brulicava di signori d’ogni età e d’ogni sesso: era un girare, un rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne, di durlindane pendenti, un moversi librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di rabescate zimarre. Le anticamere, il cortile e la strada formicolavan di servitori, di paggi, di bravi e di curiosi. Fra Cristoforo vide quell’apparecchio, ne indovinò il motivo, e provò un leggier turbamento; ma, dopo un istante, disse tra sé: “sta bene: l’ho ucciso in pubblico, alla presenza di tanti suoi nemici: quello fu scandalo, questa è riparazione”. Così, con gli occhi bassi, col padre compagno al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile, tra una folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salì le scale, e, di mezzo all’altra folla signorile, che fece ala al suo passaggio, seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padron di casa; il quale, circondato da’ parenti più prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo a terra, e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra, il pomo della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto.
C’è talvolta, nel volto e nel contegno d’un uomo, un’espressione così immediata, si direbbe quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell’animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra Cristoforo disser chiaro agli astanti, che non s’era fatto frate, né veniva a quell’umiliazione per timore umano: e questo cominciò a concigliarglieli tutti. Quando vide l’offeso, affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: «io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio». Tutti gli occhi erano immobili sul novizio, e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi. Quando fra Cristoforo tacque, s’alzò, per tutta la sala, un mormorìo di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata, e d’ira compressa, fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso l’inginocchiato, «alzatevi,» disse, con voce alterata: «l’offesa… il fatto veramente… ma l’abito che portate… non solo questo, ma anche per voi… S’alzi, padre… Mio fratello… non lo posso negare… era un cavaliere… era un uomo… un po’ impetuoso… un po’ vivo. Ma tutto accade per disposizion di Dio. Non se ne parli più… Ma, padre, lei non deve stare in codesta positura». E, presolo per le braccia, lo sollevò. Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino, rispose: «io posso dunque sperare che lei m’abbia concesso il suo perdono! E se l’ottengo da lei, da chi non devo sperarlo? Oh! s’io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono!»
«Perdono?» disse il gentiluomo. «Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poiché lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti…»
«Tutti! tutti!» gridarono, a una voce, gli astanti. Il volto del frate s’aprì a una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora un’umile e profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva riparare. Il gentiluomo, vinto da quell’aspetto, e trasportato dalla commozione generale, gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace.
Un «bravo! bene!» scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si mossero, e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servitori, con gran copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale faceva segno di volersi licenziare, e gli disse: «padre, gradisca qualche cosa; mi dia questa prova d’amicizia«. E si mise per servirlo prima d’ogni altro; ma egli, ritirandosi, con una certa resistenza cordiale, «queste cose,» disse,» non fanno più per me; ma non sarà mai ch’io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d’aver goduto la sua carità, d’aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono». Il gentiluomo, commosso, ordinò che così si facesse; e venne subito un cameriere, in gran gala, portando un pane sur un piatto d’argento, e lo presentò al padre; il quale, presolo e ringraziato, lo mise nella sporta. Chiese quindi licenza; e, abbracciato di nuovo il padron di casa, e tutti quelli che, trovandosi più vicini a lui, poterono impadronirsene un momento, si liberò da essi a fatica; ebbe a combatter nell’anticamere, per isbrigarsi da’ servitori, e anche da’ bravi, che gli baciavano il lembo dell’abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò nella strada, portato come in trionfo, e accompagnato da una folla di popolo, fino a una porta della città; d’onde uscì, cominciando il suo pedestre viaggio, verso il luogo del suo noviziato.
Il fratello dell’ucciso, e il parentado, che s’erano aspettati d’assaporare in quel giorno la trista gioia dell’orgoglio, si trovarono in vece ripieni della gioia serena del perdono e della benevolenza. La compagnia si trattenne ancor qualche tempo, con una bonarietà e con una cordialità insolita, in ragionamenti ai quali nessuno era preparato, andando là. In vece di soddisfazioni prese, di soprusi vendicati, d’impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione, la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno, che, per la cinquantesima volta, avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva saputo, in quella famosa congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao, ch’era quel rodomonte che ognun sa, parlò in vece delle penitenze e della pazienza mirabile d’un fra Simone, morto molt’anni prima. Partita la compagnia, il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sé, con maraviglia, ciò che aveva inteso, ciò ch’egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i denti: «diavolo d’un frate!» (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole) «diavolo d’un frate! se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello». La nostra storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po’ men precipitoso, e un po’ più alla mano.

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Se gli umili Manzoni ce li mostra nel loro agire, aprendo piccoli squarci ad indicarci chi sono (Don Abbondio che incontra i bravi, Renzo che si reca da Don Abbondio per prendere accordi, Lucia che si prepara al matrimonio), per i grandi, nel bene e nel male, che fanno da contorno alla storia principale, sia che si presentino come oppositori, come sarà Gertrude, sia come aiutanti, Fra Cristoforo appunto, o l’Innominato, vi è bisogno di pausare e far sì che la storia passata del personaggio mostri la sua capacità d’azione o forza nella storia dei due giovani. Se dunque di passato si tratta ecco che emerge, come vero protagonista, il secolo del Seicento, con le sue vuote convinzioni, lo sfarzo, le illogiche consuetudini. Ed in questo clima che si inserisce la storia di Ludovico, figlio di un padre che si vergogna d’esser stato mercante, ed educato come un nobile pur non essendolo. Ecco che per il razionalista, di educazione illuminista, la forma che cancella il contenuto (da ricordare il concetto di metafora del barocco), dev’essere vinta dalla possibilità di denudarsi completamente. Ed è quello che fa Ludovico, cui la provvidenza offre la possibilità di spogliarsi di ricchezze, abiti, false ideologie, per impossessarsi, come Francesco, della verità di Cristo.

80975.jpgInteressante è il tratto psicologico: egli è nato combattente, colui che sfida con lo sguardo (cavalli imbizzarriti, definisce Manzoni i suoi occhi), non muta, non è un personaggio in fieri, porta la sua combattività che già andava contro i soprusi, là dove essa è opportuna. Fra Cristoforo diventa pertanto l’emblema di quella chiesa militante che aveva già cantato ne La Pentecoste.

CAPITOLO IX-X
LA MONACA DI MONZA

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Era essa l’ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città. Ma l’alta opinione che aveva del suo titolo gli faceva parer le sue sostanze appena sufficienti, anzi scarse, a sostenerne il decoro; e tutto il suo pensiero era di conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui. Quanti figliuoli avesse, la storia non lo dice espressamente; fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de’ figliuoli, per tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa d’alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto; come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: «bello eh?» Quando il principe, o la principessa o il principino, che solo de’ maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo d’esprimer bene la loro idea, se non con le parole: «che madre badessa!» Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava molto facilmente, «tu sei una ragazzina,» le si diceva: «queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso». Qualche altra volta il principe, riprendendola di cert’altre maniere troppo libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, «ehi! ehi!» le diceva; «non è questo il fare d’una par tua: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero; perché il sangue si porta per tutto dove si va.»
Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l’idea che già lei doveva esser monaca; ma quelle che venivan dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte l’altre insieme. Il contegno del principe era abitualmente quello d’un padrone austero; ma quando si trattava dello stato futuro de’ suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva un’immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento d’una necessità fatale.
A sei anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e, accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo anche asserire che fosse il feudatario di quel paese. Comunque sia, vi godeva d’una grandissima autorità; e pensò che lì, meglio che altrove, la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potesser più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Né s’ingannava: la badessa e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come si suol dire, il mestolo in mano, esultarono nel vedersi offerto il pegno d’una protezione tanto utile in ogni occorrenza, tanto gloriosa in ogni momento; accettaron la proposta, con espressioni di riconoscenza, non esagerate, per quanto fossero forti; e corrisposero pienamente all’intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni che andavan così d’accordo con le loro. Gertrude, appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina; posto distinto a tavola, nel dormitorio; la sua condotta proposta all’altre per esemplare; chicche e carezze senza fine, e condite con quella famigliarità un po’ rispettosa, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che vedon trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità. Non che tutte le monache fossero congiurate a tirar la poverina nel laccio; ce n’eran molte delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sacrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste, tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non s’accorgevan bene di tutti que’ maneggi, parte non distinguevano quanto vi fosse di cattivo, parte s’astenevano dal farvi sopra esame, parte stavano zitte, per non fare scandoli inutili. Qualcheduna anche, rammentandosi d’essere stata, con simili arti, condotta a quello di cui s’era pentita poi, sentiva compassione della povera innocentina, e si sfogava col farle carezze tenere e malinconiche: ma questa era ben lontana dal sospettare che ci fosse sotto mistero; e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero. Ma, tra le sue compagne d’educazione, ce n’erano alcune che sapevano d’esser destinate al matrimonio. Gertrudina, nudrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente de’ suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva a ogni conto esser per le altre un soggetto d’invidia; e vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto. All’immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può somministrare il primato in un monastero, contrapponevan esse le immagini varie e luccicanti, di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, come dicevano allora, di villeggiature, di vestiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichìo che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare. I parenti e l’educatrici avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità naturale, per farle piacere il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee tanto più omogenee ad essa, si gettò su quelle, con un ardore ben più vivo e più spontaneo. Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva che, alla fin de’ conti, nessuno le poteva mettere il velo in capo senza il suo consenso, che anche lei poteva maritarsi, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che l’avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva in fatti. L’idea della necessità del suo consenso, idea che, fino a quel tempo, era stata come inosservata e rannicchiata in un angolo della sua mente, si sviluppò allora, e si manifestò, con tutta la sua importanza. Essa la chiamava ogni momento in aiuto, per godersi più tranquillamente l’immagini d’un avvenire gradito. Dietro questa idea però, ne compariva sempre infallibilmente un’altra: che quel consenso si trattava di negarlo al principe padre, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e, a questa idea, l’animo della figlia era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue parole. Si paragonava allora con le compagne, ch’erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che, da principio, aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava: talvolta l’odio s’esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta l’uniformità dell’inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere un’intrinsichezza apparente e passeggiera. Talvolta, volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale e di presente, si compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire all’altre quella sua superiorità; talvolta, non potendo più tollerar la solitudine de’ suoi timori e de’ suoi desidèri, andava, tutta buona, in cerca di quelle, quasi ad implorar benevolenza, consigli, coraggio. Tra queste deplorabili guerricciole con sé e con gli altri, aveva varcata la puerizia, e s’inoltrava in quell’età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte l’inclinazioni, tutte l’idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto. Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in que’ sogni dell’avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e d’affettuoso, che da prima v’era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a spiegarsi e a primeggiare nelle sue fantasie. S’era fatto, nella parte più riposta della mente, come uno splendido ritiro: ivi si rifugiava dagli oggetti presenti, ivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco che poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva imparato dai discorsi delle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; ivi dava ordini, e riceveva omaggi d’ogni genere. Di quando in quando, i pensieri della religione venivano a disturbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, come l’avevano insegnata alla nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta, non bandiva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come l’altre. Negl’intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto, e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice, sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la resistenza all’insinuazioni de’ suoi maggiori, nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo d’espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro.
Era legge che una giovine non potesse venire accettata monaca, prima d’essere stata esaminata da un ecclesiastico, chiamato il vicario delle monache, o da qualche altro deputato a ciò, affinché fosse certo che ci andava di sua libera scelta: e questo esame non poteva aver luogo, se non un anno dopo ch’ella avesse esposto a quel vicario il suo desiderio, con una supplica in iscritto. Quelle monache che avevan preso il tristo incarico di far che Gertrude s’obbligasse per sempre, con la minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero un de’ momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e sottoscrivere una tal supplica. E a fine d’indurla più facilmente a ciò, non mancaron di dirle e di ripeterle, che finalmente era una mera formalità, la quale (e questo era vero) non poteva avere efficacia, se non da altri atti posteriori, che dipenderebbero dalla sua volontà. Con tutto ciò, la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s’era già pentita d’averla sottoscritta. Si pentiva poi d’essersi pentita, passando così i giorni e i mesi in un’incessante vicenda di sentimenti contrari. Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel passo, ora per timore d’esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per vergogna di palesare uno sproposito. Vinse finalmente il desiderio di sfogar l’animo, e d’accattar consiglio e coraggio. C’era un’altra legge, che una giovine non fosse ammessa a quell’esame della vocazione, se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione. Era già scorso l’anno da che la supplica era stata mandata; e Gertrude fu avvertita che tra poco verrebbe levata dal monastero, e condotta nella casa paterna, per rimanervi quel mese, e far tutti i passi necessari al compimento dell’opera che aveva di fatto cominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma la giovine aveva tutt’altro in testa: in vece di far gli altri passi pensava alla maniera di tirare indietro il primo. In tali angustie, si risolvette d’aprirsi con una delle sue compagne, la più franca, e pronta sempre a dar consigli risoluti. Questa suggerì a Gertrude d’informar con una lettera il padre della sua nuova risoluzione; giacché non le bastava l’animo di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio. E perché i pareri gratuiti, in questo mondo, son molto rari, la consigliera fece pagar questo a Gertrude, con tante beffe sulla sua dappocaggine. La lettera fu concertata tra quattro o cinque confidenti, scritta di nascosto, e fatta ricapitare per via d’artifizi molto studiati. Gertrude stava con grand’ansietà, aspettando una risposta che non venne mai. Se non che, alcuni giorni dopo, la badessa, la fece venir nella sua cella, e, con un contegno di mistero, di disgusto e di compassione, le diede un cenno oscuro d’una gran collera del principe, e d’un fallo ch’ella doveva aver commesso, lasciandole però intendere che, portandosi bene, poteva sperare che tutto sarebbe dimenticato. La giovinetta intese, e non osò domandar più in là.
Venne finalmente il giorno tanto temuto e bramato. Quantunque Gertrude sapesse che andava a un combattimento, pure l’uscir di monastero, il lasciar quelle mura nelle quali era stata ott’anni rinchiusa, lo scorrere in carrozza per l’aperta campagna, il riveder la città, la casa, furon sensazioni piene d’una gioia tumultuosa. In quanto al combattimento, la poveretta, con la direzione di quelle confidenti, aveva già prese le sue misure, e fatto, com’ora si direbbe, il suo piano. “O mi vorranno forzare”, pensava, “e io starò dura; sarò umile, rispettosa, ma non acconsentirò: non si tratta che di non dire un altro sì; e non lo dirò. Ovvero mi prenderanno con le buone; e io sarò più buona di loro; piangerò, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non pretendo altro che di non esser sacrificata”. Ma, come accade spesso di simili previdenze, non avvenne né una cosa né l’altra. I giorni passavano, senza che il padre né altri le parlasse della supplica, né della ritrattazione, senza che le venisse fatta proposta nessuna, né con carezze, né con minacce. I parenti eran seri, tristi, burberi con lei, senza mai dirne il perché. Si vedeva solamente che la riguardavano come una rea, come un’indegna: un anatema misterioso pareva che pesasse sopra di lei, e la segregasse dalla famiglia, lasciandovela soltanto unita quanto bisognava per farle sentire la sua suggezione. Di rado, e solo a certe ore stabilite, era ammessa alla compagnia de’ parenti e del primogenito. Tra loro tre pareva che regnasse una gran confidenza, la quale rendeva più sensibile e più doloroso l’abbandono in cui era lasciata Gertrude. Nessuno le rivolgeva il discorso; e quando essa arrischiava timidamente qualche parola, che non fosse per cosa necessaria, o non attaccava, o veniva corrisposta con uno sguardo distratto, o sprezzante, o severo. Che se, non potendo più soffrire una così amara e umiliante distinzione, insisteva, e tentava di famigliarizzarsi; se implorava un po’ d’amore, si sentiva subito toccare, in maniera indiretta ma chiara, quel tasto della scelta dello stato; le si faceva copertamente sentire che c’era un mezzo di riacquistar l’affetto della famiglia. Allora Gertrude, che non l’avrebbe voluto a quella condizione, era costretta di tirarsi indietro, di rifiutar quasi i primi segni di benevolenza che aveva tanto desiderati, di rimettersi da sé al suo posto di scomunicata; e per di più, vi rimaneva con una certa apparenza del torto.

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Tali sensazioni d’oggetti presenti facevano un contrasto doloroso con quelle ridenti visioni delle quali Gertrude s’era già tanto occupata, e s’occupava tuttavia, nel segreto della sua mente. Aveva sperato che, nella splendida e frequentata casa paterna, avrebbe potuto godere almeno qualche saggio reale delle cose immaginate; ma si trovò del tutto ingannata. La clausura era stretta e intera, come nel monastero; d’andare a spasso non si parlava neppure; e un coretto che, dalla casa, guardava in una chiesa contigua, toglieva anche l’unica necessità che ci sarebbe stata d’uscire. La compagnia era più trista, più scarsa, meno variata che nel monastero. A ogni annunzio d’una visita, Gertrude doveva salire all’ultimo piano, per chiudersi con alcune vecchie donne di servizio: e lì anche desinava, quando c’era invito. I servitori s’uniformavano, nelle maniere e ne’ discorsi, all’esempio e all’intenzioni de’ padroni: e Gertrude, che, per sua inclinazione, avrebbe voluto trattarli con una famigliarità signorile, e che, nello stato in cui si trovava, avrebbe avuto di grazia che le facessero qualche dimostrazione d’affetto, come a una loro pari, e scendeva anche a mendicarne, rimaneva poi umiliata, e sempre più afflitta di vedersi corrisposta con una noncuranza manifesta, benché accompagnata da un leggiero ossequio di formalità. Dovette però accorgersi che un paggio, ben diverso da coloro, le portava un rispetto, e sentiva per lei una compassione d’un genere particolare. Il contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva fino allora visto di più somigliante a quell’ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, al contegno di quelle sue creature ideali. A poco a poco si scoprì un non so che di nuovo nelle maniere della giovinetta: una tranquillità e un’inquietudine diversa dalla solita, un fare di chi ha trovato qualche cosa che gli preme, che vorrebbe guardare ogni momento, e non lasciar vedere agli altri. Le furon tenuti gli occhi addosso più che mai: che è che non è, una mattina, fu sorpresa da una di quelle cameriere, mentre stava piegando alla sfuggita una carta, sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver nulla. Dopo un breve tira tira, la carta rimase nelle mani della cameriera, e da queste passò in quelle del principe. 
Il terrore di Gertrude, al rumor de’ passi di lui, non si può descrivere né immaginare: era quel padre, era irritato, e lei si sentiva colpevole. Ma quando lo vide comparire, con quel cipiglio, con quella carta in mano, avrebbe voluto esser cento braccia sotto terra, non che in un chiostro. Le parole non furon molte, ma terribili: il gastigo intimato subito non fu che d’esser rinchiusa in quella camera, sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta; ma questo non era che un principio, che un ripiego del momento; si prometteva, si lasciava vedere per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso. Il paggio fu subito sfrattato, com’era naturale; e fu minacciato anche a lui qualcosa di terribile, se, in qualunque tempo, avesse osato fiatar nulla dell’avvenuto. Nel fargli questa intimazione, il principe gli appoggiò due solenni schiaffi, per associare a quell’avventura un ricordo, che togliesse al ragazzaccio ogni tentazion di vantarsene. Un pretesto qualunque, per coonestare la licenza data a un paggio, non era difficile a trovarsi; in quanto alla figlia, si disse ch’era incomodata.
Rimase essa dunque col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell’avvenire, e con la sola compagnia di quella donna odiata da lei, come il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia. Costei odiava poi a vicenda Gertrude, per la quale si trovava ridotta, senza saper per quanto tempo, alla vita noiosa di carceriera, e divenuta per sempre custode d’un segreto pericoloso.
Il primo confuso tumulto di que’ sentimenti s’acquietò a poco a poco; ma tornando essi poi a uno per volta nell’animo, vi s’ingrandivano, e si fermavano a tormentarlo più distintamente e a bell’agio. Che poteva mai esser quella punizione minacciata in enimma? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla fantasia ardente e inesperta di Gertrude. Quella che pareva più probabile, era di venir ricondotta al monastero di Monza, di ricomparirvi, non più come la signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fino a quando! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale immaginazione, tutta piena di dolori, aveva forse di più doloroso per lei, era l’apprensione della vergogna.
Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciagurato, passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui eran destinate; si figurava che avesser potuto cader sotto gli occhi anche della madre o del fratello, o di chi sa altri: e, al paragon di ciò, tutto il rimanente le pareva quasi un nulla. L’immagine di colui ch’era stato la prima origine di tutto lo scandolo, non lasciava di venire spesso anch’essa ad infestar la povera rinchiusa: e pensate che strana comparsa doveva far quel fantasma, tra quegli altri così diversi da lui, seri, freddi, minacciosi. Ma, appunto perché non poteva separarlo da essi, né tornare un momento a quelle fuggitive compiacenze, senza che subito non le s’affacciassero i dolori presenti che n’erano la conseguenza, cominciò a poco a poco a tornarci più di rado, a rispingerne la rimembranza, a divezzarsene. Né più a lungo, o più volentieri, si fermava in quelle liete e brillanti fantasie d’una volta: eran troppo opposte alle circostanze reali, a ogni probabilità dell’avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando si risolvesse d’entrarci per sempre. Una tal risoluzione (non poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa, saldato ogni debito, e cambiata in un attimo la sua situazione. Contro questo proposito insorgevano, è vero, i pensieri di tutta la sua vita: ma i tempi eran mutati; e, nell’abisso in cui Gertrude era caduta, e al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti, la condizione di monaca festeggiata, ossequiata, ubbidita, le pareva uno zuccherino. Due sentimenti di ben diverso genere contribuivan pure a intervalli a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, e una tenerezza fantastica di divozione; talvolta l’orgoglio amareggiato e irritato dalle maniere della carceriera, la quale (spesso, a dire il vero, provocata da lei) si vendicava, ora facendole paura di quel minacciato gastigo, ora svergognandola del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tono di protezione, più odioso ancora dell’insulto. In tali diverse occasioni, il desiderio che Gertrude sentiva d’uscir dall’unghie di colei, e di comparirle in uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questo desiderio abituale diveniva tanto vivo e pungente, da far parere amabile ogni cosa che potesse condurre ad appagarlo.
In capo a quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina, Gertrude stuccata ed invelenita all’eccesso, per un di que’ dispetti della sua guardiana, andò a cacciarsi in un angolo della camera, e lì, con la faccia nascosta tra le mani, stette qualche tempo a divorar la sua rabbia. Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d’esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le venne in mente che dipendeva da lei di trovare in loro degli amici; e provò una gioia improvvisa. Dietro questa, una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo, e un ugual desiderio d’espiarlo. Non già che la sua volontà si fermasse in quel proponimento, ma giammai non c’era entrata con tanto ardore. S’alzò di lì, andò a un tavolino, riprese quella penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena d’entusiasmo e d’abbattimento, d’afflizione e di speranza, implorando il perdono, e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo.
Vi son de’ momenti in cui l’animo, particolarmente de’ giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l’astuzia interessata spia attentamente, e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda.
Al legger quella lettera, il principe *** vide subito lo spiraglio aperto alle sue antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che venisse da lui; e aspettandola, si dispose a batter il ferro, mentre era caldo. Gertrude comparve, e, senza alzar gli occhi in viso al padre, gli si buttò in ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: «perdono!» Egli le fece cenno che s’alzasse; ma, con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il perdono non bastava desiderarlo né chiederlo; ch’era cosa troppo agevole e troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava meritarlo. Gertrude domandò, sommessamente e tremando, che cosa dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull’animo della poveretta, come lo scorrere d’una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che, quand’anche… caso mai… che avesse avuto prima qualche intenzione di collocarla nel secolo, lei stessa ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile; giacché a un cavalier d’onore, com’era lui, non sarebbe mai bastato l’animo di regalare a un galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sé. La misera ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a grado la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c’era rimedio e misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio è più chiaramente indicato: ch’essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei…
«Ah sì!» esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea.
«Ah! lo capite anche voi,» riprese incontanente il principe. «Ebbene, non si parli più del passato: tutto è cancellato. Avete preso il solo partito onorevole, conveniente, che vi rimanesse; ma perché l’avete preso di buona voglia, e con buona maniera, tocca a me a farvelo riuscir gradito in tutto e per tutto: tocca a me a farne tornare tutto il vantaggio e tutto il merito sopra di voi. Ne prendo io la cura». Così dicendo, scosse un campanello che stava sul tavolino, e al servitore che entrò, disse: «la principessa e il principino subito». E seguitò poi con Gertrude: «voglio metterli subito a parte della mia consolazione; voglio che tutti comincin subito a trattarvi come si conviene. Avete sperimentato in parte il padre severo; ma da qui innanzi proverete tutto il padre amoroso.»
A queste parole, Gertrude rimaneva come sbalordita. Ora ripensava come mai quel sì che le era scappato, avesse potuto significar tanto, ora cercava se ci fosse maniera di riprenderlo, di ristringerne il senso; ma la persuasione del principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità così condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle menomamente.

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Dopo pochi momenti, vennero i due chiamati, e vedendo lì Gertrude, la guardarono in viso, incerti e maravigliati. Ma il principe, con un contegno lieto e amorevole, che ne prescriveva loro un somigliante, «ecco,» disse, «la pecora smarrita: e sia questa l’ultima parola che richiami triste memorie. Ecco la consolazione della famiglia. Gertrude non ha più bisogno di consigli; ciò che noi desideravamo per suo bene, l’ha voluto lei spontaneamente. È risoluta, m’ha fatto intendere che è risoluta…» A questo passo, alzò essa verso il padre uno sguardo tra atterrito e supplichevole, come per chiedergli che sospendesse, ma egli proseguì francamente: «che è risoluta di prendere il velo.»
«Brava! bene!» esclamarono, a una voce, la madre e il figlio, e l’uno dopo l’altra abbracciaron Gertrude; la quale ricevette queste accoglienze con lacrime, che furono interpretate per lacrime di consolazione. Allora il principe si diffuse a spiegar ciò che farebbe per render lieta e splendida la sorte della figlia. Parlò delle distinzioni di cui goderebbe nel monastero e nel paese; che, là sarebbe come una principessa, come la rappresentante della famiglia; che, appena l’età l’avrebbe permesso, sarebbe innalzata alla prima dignità; e, intanto, non sarebbe soggetta che di nome. La principessa e il principino rinnovavano, ogni momento, le congratulazioni e gli applausi: Gertrude era come dominata da un sogno.
«Converrà poi fissare il giorno, per andare a Monza, a far la richiesta alla badessa,» disse il principe. «Come sarà contenta! Vi so dire che tutto il monastero saprà valutar l’onore che Gertrude gli fa. Anzi… perché non ci andiamo oggi? Gertrude prenderà volentieri un po’ d’aria.»
«Andiamo pure,» disse la principessa. «Vo a dar gli ordini, – disse il principino.»
«Ma…» proferì sommessamente Gertrude.
«Piano, piano,» riprese il principe: «lasciam decidere a lei: forse oggi non si sente abbastanza disposta, e le piacerebbe più aspettar fino a domani. Dite: volete che andiamo oggi o domani?» 
«Domani,» rispose, con voce fiacca, Gertrude, alla quale pareva ancora di far qualche cosa, prendendo un po’ di tempo.
«Domani,» – disse solennemente il principe: «ha stabilito che si vada domani. Intanto io vo dal vicario delle monache, a fissare un giorno per l’esame.» Detto fatto, il principe uscì, e andò veramente (che non fu piccola degnazione) dal detto vicario; e concertarono che verrebbe di lì a due giorni.
In tutto il resto di quella giornata, Gertrude non ebbe un minuto di bene. Avrebbe desiderato riposar l’animo da tante commozioni, lasciar, per dir così, chiarire i suoi pensieri, render conto a se stessa di ciò che aveva fatto, di ciò che le rimaneva da fare, sapere ciò che volesse, rallentare un momento quella macchina che, appena avviata, andava così precipitosamente; ma non ci fu verso. L’occupazioni si succedevano senza interruzione, s’incastravano l’una con l’altra. Subito dopo partito il principe, fu condotta nel gabinetto della principessa, per essere, sotto la sua direzione, pettinata e rivestita dalla sua propria cameriera. Non era ancor terminato di dar l’ultima mano, che furon avvertite ch’era in tavola. Gertrude passò in mezzo agl’inchini della servitù, che accennava di congratularsi per la guarigione, e trovò alcuni parenti più prossimi, ch’erano stati invitati in fretta, per farle onore, e per rallegrarsi con lei de’ due felici avvenimenti, la ricuperata salute, e la spiegata vocazione.
La sposina (così si chiamavan le giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire, fu da tutti salutata con quel nome), la sposina ebbe da dire e da fare a rispondere a’ complimenti che le fioccavan da tutte le parti. Sentiva bene che ognuna delle sue risposte era come un’accettazione e una conferma; ma come rispondere diversamente? Poco dopo alzati da tavola, venne l’ora della trottata. Gertrude entrò in carrozza con la madre, e con due zii ch’erano stati al pranzo. Dopo un solito giro, si riuscì alla strada Marina, che allora attraversava lo spazio occupato ora dal giardin pubblico, ed era il luogo dove i signori venivano in carrozza a ricrearsi delle fatiche della giornata. Gli zii parlarono anche a Gertrude, come portava la convenienza in quel giorno: e uno di loro, il qual pareva che, più dell’altro, conoscesse ogni persona, ogni carrozza, ogni livrea, e aveva ogni momento qualcosa da dire del signor tale e della signora tal altra, si voltò a lei tutt’a un tratto, e le disse: «ah furbetta! voi date un calcio a tutte queste corbellerie; siete una dirittona voi; piantate negl’impicci noi poveri mondani, vi ritirate a fare una vita beata, e andate in paradiso in carrozza.»
Sul tardi, si tornò a casa; e i servitori, scendendo in fretta con le torce, avvertirono che molte visite stavano aspettando. La voce era corsa; e i parenti e gli amici venivano a fare il loro dovere. S’entrò nella sala della conversazione. La sposina ne fu l’idolo, il trastullo, la vittima. Ognuno la voleva per sé: chi si faceva prometter dolci, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente, chi lodava il cielo di Monza, chi discorreva, con gran sapore, della gran figura ch’essa avrebbe fatta là. Altri, che non avevan potuto ancora avvicinarsi a Gertrude così assediata, stavano spiando l’occasione di farsi innanzi, e sentivano un certo rimorso, fin che non avessero fatto il loro dovere. A poco a poco, la compagnia s’andò dileguando; tutti se n’andarono senza rimorso, e Gertrude rimase sola co’ genitori e il fratello.
«Finalmente,» disse il principe, «ho avuto la consolazione di veder mia figlia trattata da par sua. Bisogna però confessare che anche lei s’è portata benone, e ha fatto vedere che non sarà impicciata a far la prima figura, e a sostenere il decoro della famiglia.
Si cenò in fretta, per ritirarsi subito, ed esser pronti presto la mattina seguente.
Gertrude contristata, indispettita e, nello stesso tempo, un po’ gonfiata da tutti que’ complimenti, si rammentò in quel punto ciò che aveva patito dalla sua carceriera; e, vedendo il padre così disposto a compiacerla in tutto, fuor che in una cosa, volle approfittare dell’auge in cui si trovava, per acquietare almeno una delle passioni che la tormentavano. Mostrò quindi una gran ripugnanza a trovarsi con colei, lagnandosi fortemente delle sue maniere.
«Come!» disse il principe: «v’ha mancato di rispetto colei! Domani, domani, le laverò il capo come va. Lasciate fare a me, che le farò conoscere chi è lei, e chi siete voi. E a ogni modo, una figlia della quale io son contento, non deve vedersi intorno una persona che le dispiaccia». Così detto, fece chiamare un’altra donna, e le ordinò di servir Gertrude; la quale intanto, masticando e assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarci così poco sugo, in paragone del desiderio che n’aveva avuto. Ciò che, anche suo malgrado, s’impossessava di tutto il suo animo, era il sentimento de’ gran progressi che aveva fatti, in quella giornata, sulla strada del chiostro, il pensiero che a ritirarsene ora ci vorrebbe molta più forza e risolutezza di quella che sarebbe bastata pochi giorni prima, e che pure non s’era sentita d’avere.
La donna che andò ad accompagnarla in camera, era una vecchia di casa, stata già governante del principino, che aveva ricevuto appena uscito dalle fasce, e tirato su fino all’adolescenza, e nel quale aveva riposte tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Era essa contenta della decisione fatta in quel giorno, come d’una sua propria fortuna; e Gertrude, per ultimo divertimento, dovette succiarsi le congratulazioni, le lodi, i consigli della vecchia, e sentir parlare di certe sue zie e prozie, le quali s’eran trovate ben contente d’esser monache, perché, essendo di quella casa, avevan sempre goduto i primi onori, avevan sempre saputo tenere uno zampino di fuori, e, dal loro parlatorio, avevano ottenuto cose che le più gran dame, nelle loro sale, non c’eran potute arrivare. Le parlò delle visite che avrebbe ricevute: un giorno poi, verrebbe il signor principino con la sua sposa, la quale doveva esser certamente una gran signorona; e allora, non solo il monastero, ma tutto il paese sarebbe in moto. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Gertrude, quando Gertrude era a letto; parlava ancora, che Gertrude dormiva. La giovinezza e la fatica erano state più forti de’ pensieri. Il sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce strillante della vecchia, che venne a svegliarla, perché si preparasse per la gita di Monza.
«Andiamo, andiamo, signora sposina: è giorno fatto; e prima che sia vestita e pettinata, ci vorrà un’ora almeno. La signora principessa si sta vestendo; e l’hanno svegliata quattr’ore prima del solito. Il signor principino è già sceso alle scuderie, poi è tornato su, ed è all’ordine per partire quando si sia. Vispo come una lepre, quel diavoletto: ma! è stato così fin da bambino; e io posso dirlo, che l’ho portato in collo. Ma quand’è pronto, non bisogna farlo aspettare, perché, sebbene sia della miglior pasta del mondo, allora s’impazientisce e strepita. Poveretto! bisogna compatirlo: è il suo naturale; e poi questa volta avrebbe anche un po’ di ragione, perché s’incomoda per lei. Guai chi lo tocca in que’ momenti! non ha riguardo per nessuno, fuorché per il signor principe. Ma finalmente non ha sopra di sé che il signor principe, e un giorno, il signor principe sarà lui; più tardi che sia possibile, però. Lesta, lesta, signorina! Perché mi guarda così incantata? A quest’ora dovrebbe esser fuor della cuccia.»
All’immagine del principino impaziente, tutti gli altri pensieri che s’erano affollati alla mente risvegliata di Gertrude, si levaron subito, come uno stormo di passere all’apparir del nibbio. Ubbidì, si vestì in fretta, si lasciò pettinare, e comparve nella sala, dove i genitori e il fratello eran radunati. Fu fatta sedere sur una sedia a braccioli, e le fu portata una chicchera di cioccolata: il che, a que’ tempi, era quel che già presso i Romani il dare la veste virile. Quando vennero a avvertir ch’era attaccato, il principe tirò la figlia in disparte, e le disse: «orsù, Gertrude, ieri vi siete fatta onore: oggi dovete superar voi medesima. Si tratta di fare una comparsa solenne nel monastero e nel paese dove siete destinata a far la prima figura. V’aspettano…» È inutile dire che il principe aveva spedito un avviso alla badessa, il giorno avanti. «V’aspettano, e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d’essere ammessa a vestir l’abito in quel monastero, dove siete stata educata così amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura verità. Dite quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s’avesse a dire che v’hanno imboccata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri non sanno nulla dell’accaduto: è un segreto che deve restar sepolto nella famiglia; e perciò non fate una faccia contrita e dubbiosa, che potesse dar qualche sospetto. Fate vedere di che sangue uscite: manierosa, modesta; ma ricordatevi che, in quel luogo, fuor della famiglia, non ci sarà nessuno sopra di voi.»
Senza aspettar risposta, il principe si mosse; Gertrude, la principessa e il principino lo seguirono; scesero tutti le scale, e montarono in carrozza. Gl’impicci e le noie del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo, furono il tema della conversazione, durante il tragitto. Sul finir della strada, il principe rinnovò l’istruzioni alla figlia, e le ripeté più volte la formola della risposta. All’entrare in Monza, Gertrude si sentì stringere il cuore; ma la sua attenzione fu attirata per un istante da non so quali signori che, fatta fermar la carrozza, recitarono non so qual complimento. Ripreso il cammino, s’andò quasi di passo al monastero, tra gli sguardi de’ curiosi, che accorrevano da tutte le parti sulla strada. Al fermarsi della carrozza, davanti a quelle mura, davanti a quella porta, il cuore si strinse ancor più a Gertrude. Si smontò tra due ale di popolo, che i servitori facevano stare indietro. Tutti quegli occhi addosso alla poveretta l’obbligavano a studiar continuamente il suo contegno: ma più di tutti quelli insieme, la tenevano in suggezione i due del padre, a’ quali essa, quantunque ne avesse così gran paura, non poteva lasciar di rivolgere i suoi, ogni momento. E quegli occhi governavano le sue mosse e il suo volto, come per mezzo di redini invisibili. Attraversato il primo cortile, s’entrò in un altro, e lì si vide la porta del chiostro interno, spalancata e tutta occupata da monache. Nella prima fila, la badessa circondata da anziane; dietro, altre monache alla rinfusa, alcune in punta di piedi; in ultimo le converse ritte sopra panchetti. Si vedevan pure qua e là luccicare a mezz’aria alcuni occhietti, spuntar qualche visino tra le tonache: eran le più destre, e le più coraggiose tra l’educande, che, ficcandosi e penetrando tra monaca e monaca, eran riuscite a farsi un po’ di pertugio, per vedere anch’esse qualche cosa. Da quella calca uscivano acclamazioni; si vedevan molte braccia dimenarsi, in segno d’accoglienza e di gioia. Giunsero alla porta; Gertrude si trovò a viso a viso con la madre badessa. Dopo i primi complimenti, questa, con una maniera tra il giulivo e il solenne, le domandò cosa desiderasse in quel luogo, dove non c’era chi le potesse negar nulla.
«Son qui…,» cominciò Gertrude; ma, al punto di proferir le parole che dovevano decider quasi irrevocabilmente del suo destino, esitò un momento, e rimase con gli occhi fissi sulla folla che le stava davanti. Vide, in quel momento, una di quelle sue note compagne, che la guardava con un’aria di compassione e di malizia insieme, e pareva che dicesse: “ah! la c’è cascata la brava.” Quella vista, risvegliando più vivi nell’animo suo tutti gli antichi sentimenti, le restituì anche un po’ di quel poco antico coraggio: e già stava cercando una risposta qualunque, diversa da quella che le era stata dettata; quando, alzato lo sguardo alla faccia del padre, quasi per esperimentar le sue forze, scorse su quella un’inquietudine così cupa, un’impazienza così minaccevole, che, risoluta per paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto terribile, proseguì: «son qui a chiedere d’esser ammessa a vestir l’abito religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente». La badessa rispose subito, che le dispiaceva molto, in una tale occasione, che le regole non le permettessero di dare immediatamente una risposta, la quale doveva venire dai voti comuni delle suore, e alla quale doveva precedere la licenza de’ superiori. Che però Gertrude, conoscendo i sentimenti che s’avevan per lei in quel luogo, poteva preveder con certezza qual sarebbe questa risposta; e che intanto nessuna regola proibiva alla badessa e alle suore di manifestare la consolazione che sentivano di quella richiesta. S’alzò allora un frastono confuso di congratulazioni e d’acclamazioni. Vennero subito gran guantiere colme di dolci, che furon presentati, prima alla sposina, e dopo ai parenti. Mentre alcune monache facevano a rubarsela, e altre complimentavan la madre, altre il principino, la badessa fece pregare il principe che volesse venire alla grata del parlatorio, dove l’attendeva. Era accompagnata da due anziane; e quando lo vide comparire, «signor principe,» disse: «per ubbidire alle regole… per adempire una formalità indispensabile, sebbene in questo caso… pure devo dirle… che, ogni volta che una figlia chiede d’essere ammessa a vestir l’abito,… la superiora, quale io sono indegnamente,… è obbligata d’avvertire i genitori… che se, per caso… forzassero la volontà della figlia, incorrerebbero nella scomunica. Mi scuserà…»
«Benissimo, benissimo, reverenda madre. Lodo la sua esattezza: è troppo giusto… Ma lei non può dubitare…» –
«Oh! pensi, signor principe,… ho parlato per obbligo preciso,… del resto…»
«Certo, certo, madre badessa.»
Barattate queste poche parole, i due interlocutori s’inchinarono vicendevolmente, e si separarono, come se a tutt’e due pesasse di rimaner lì testa testa; e andarono a riunirsi ciascuno alla sua compagnia, l’uno fuori, l’altra dentro la soglia claustrale. Dato luogo a un po’ d’altre ciarle, «Oh via,» disse il principe: «Gertrude potrà presto godersi a suo bell’agio la compagnia di queste madri. Per ora le abbiamo incomodate abbastanza». Così detto, fece un inchino; la famiglia si mosse con lui; si rinnovarono i complimenti, e si partì.
Gertrude, nel tornare, non aveva troppa voglia di discorrere. Spaventata del passo che aveva fatto, vergognosa della sua dappocaggine, indispettita contro gli altri e contro sé stessa, faceva tristamente il conto dell’occasioni, che le rimanevano ancora di dir di no; e prometteva debolmente e confusamente a sé stessa che, in questa, o in quella, o in quell’altra, sarebbe più destra e più forte. Con tutti questi pensieri, non le era però cessato affatto il terrore di quel cipiglio del padre; talché, quando, con un’occhiata datagli alla sfuggita, poté chiarirsi che sul volto di lui non c’era più alcun vestigio di collera, quando anzi vide che si mostrava soddisfattissimo di lei, le parve una bella cosa, e fu, per un istante, tutta contenta.
Appena arrivati, bisognò rivestirsi e rilisciarsi; poi il desinare, poi alcune visite, poi la trottata, poi la conversazione, poi la cena. Sulla fine di questa, il principe mise in campo un altro affare, la scelta della madrina. Così si chiamava una dama, la quale, pregata da’ genitori, diventava custode e scorta della giovane monacanda, nel tempo tra la richiesta e l’entratura nel monastero; tempo che veniva speso in visitar le chiese, i palazzi pubblici, le conversazioni, le ville, i santuari: tutte le cose in somma più notabili della città e de’ contorni; affinché le giovani, prima di proferire un voto irrevocabile, vedessero bene a cosa davano un calcio. «Bisognerà pensare a una madrina,» disse il principe: «perché domani verrà il vicario delle monache, per la formalità dell’esame, e subito dopo, Gertrude verrà proposta in capitolo, per esser accettata dalle madri». Nel dir questo, s’era voltato verso la principessa; e questa, credendo che fosse un invito a proporre, cominciava: «ci sarebbe…» Ma il principe interruppe: «No, no, signora principessa: la madrina deve prima di tutto piacere alla sposina; e benché l’uso universale dia la scelta ai parenti, pure Gertrude ha tanto giudizio, tanta assennatezza, che merita bene che si faccia un’eccezione per lei.» E qui, voltandosi a Gertrude, in atto di chi annunzia una grazia singolare, continuò: «ognuna delle dame che si son trovate questa sera alla conversazione, ha quel che si richiede per esser madrina d’una figlia della nostra casa; non ce n’è nessuna, crederei, che non sia per tenersi onorata della preferenza: scegliete voi.»
Gertrude vedeva bene che far questa scelta era dare un nuovo consenso; ma la proposta veniva fatta con tanto apparato, che il rifiuto, per quanto fosse umile, poteva parer disprezzo, o almeno capriccio e leziosaggine. Fece dunque anche quel passo; e nominò la dama che, in quella sera, le era andata più a genio; quella cioè che le aveva fatto più carezze, che l’aveva più lodata, che l’aveva trattata con quelle maniere famigliari, affettuose e premurose, che, ne’ primi momenti d’una conoscenza, contraffanno una antica amicizia. «Ottima scelta,» disse il principe, che desiderava e aspettava appunto quella. Fosse arte o caso, era avvenuto come quando il giocator di bussolotti facendovi scorrere davanti agli occhi le carte d’un mazzo, vi dice che ne pensiate una, e lui poi ve la indovinerà; ma le ha fatte scorrere in maniera che ne vediate una sola. Quella dama era stata tanto intorno a Gertrude tutta la sera, l’aveva tanto occupata di sé, che a questa sarebbe bisognato uno sforzo di fantasia per pensarne un’altra. Tante premure poi non eran senza motivo: la dama aveva, da molto tempo, messo gli occhi addosso al principino, per farlo suo genero: quindi riguardava le cose di quella casa come sue proprie; ed era ben naturale che s’interessasse per quella cara Gertrude, niente meno de’ suoi parenti più prossimi.
Il giorno dopo, Gertrude si svegliò col pensiero dell’esaminatore che doveva venire; e mentre stava ruminando se potesse cogliere quella occasione così decisiva, per tornare in-dietro, e in qual maniera, il principe la fece chiamare. «Orsù, figliuola,» le disse: «finora vi siete portata egregiamente: oggi si tratta di coronar l’opera. Tutto quel che s’è fatto finora, s’è fatto di vostro consenso. Se in questo tempo vi fosse nato qualche dubbio, qualche pentimentuccio, grilli di gioventù, avreste dovuto spiegarvi; ma al punto a cui sono ora le cose, non è più tempo di far ragazzate. Quell’uomo dabbene che deve venire stamattina, vi farà cento domande sulla vostra vocazione: e se vi fate monaca di vostra volontà, e il perché e il per come, e che so io? Se voi titubate nel rispondere, vi terrà sulla corda chi sa quanto. Sarebbe un’uggia, un tormento per voi; ma ne potrebbe anche venire un altro guaio più serio. Dopo tutte le dimostrazioni pubbliche che si son fatte, ogni più piccola esitazione che si vedesse in voi, metterebbe a repentaglio il mio onore, potrebbe far credere ch’io avessi presa una vostra leggerezza per una ferma risoluzione, che avessi precipitato la cosa, che avessi… che so io? In questo caso, mi troverei nella necessità di scegliere tra due partiti dolorosi: o lasciar che il mondo formi un tristo concetto della mia condotta: partito che non può stare assolutamente con ciò che devo a me stesso. O svelare il vero motivo della vostra risoluzione e…» Ma qui, vedendo che Gertrude era diventata scarlatta, che le si gonfiavan gli occhi, e il viso si contraeva, come le foglie d’un fiore, nell’afa che precede la burrasca, troncò quel discorso, e, con aria serena, riprese: «via, via, tutto dipende da voi, dal vostro buon giudizio. So che n’avete molto, e non siete ragazza da guastar sulla fine una cosa fatta bene; ma io doveva preveder tutti i casi. Non se ne parli più; e restiam d’accordo che voi risponderete con franchezza, in maniera di non far nascer dubbi nella testa di quell’uomo dabbene. Così anche voi ne sarete fuori più presto». E qui, dopo aver suggerita qualche risposta all’interrogazioni più probabili, entrò nel solito discorso delle dolcezze e de’ godimenti ch’eran preparati a Gertrude nel monastero; e la trattenne in quel-lo, fin che venne un servitore ad annunziare il vicario. Il principe rinnovò in fretta gli avvertimenti più importanti, e lasciò la figlia sola con lui, com’era prescritto.
L’uomo dabbene veniva con un po’ d’opinione già fatta che Gertrude avesse una gran vocazione al chiostro: perché così gli aveva detto il principe, quando era stato a invitarlo. È vero che il buon prete, il quale sapeva che la diffidenza era una delle virtù più necessarie nel suo ufizio, aveva per massima d’andar adagio nel credere a simili proteste, e di stare in guardia contro le preoccupazioni; ma ben di rado avviene che le parole affermative e sicure d’una persona autorevole, in qualsivoglia genere, non tingano del loro colore la mente di chi le ascolta. Dopo i primi complimenti, «signorina,» le disse, «io vengo a far la parte del diavolo; vengo a mettere in dubbio ciò che, nella sua supplica lei ha dato per certo; vengo a metterle davanti agli occhi le difficoltà, e ad accertarmi se le ha ben considerate. Si contenti ch’io le faccia qualche interrogazione.» 
«Dica pure,» rispose Gertrude.
Il buon prete cominciò allora a interrogarla, nella forma prescritta dalle regole. «Sente lei in cuor suo una libera, spontanea risoluzione di farsi monaca? Non sono state adoperate minacce, o lusinghe? Non s’è fatto uso di nessuna autorità, per indurla a questo? Parli senza riguardi, e con sincerità, a un uomo il cui dovere è di conoscere la sua vera volontà, per impedire che non le venga usata violenza in nessun modo.»
La vera risposta a una tale domanda s’affacciò subito alla mente di Gertrude, con un’evidenza terribile. Per dare quella risposta, bisognava venire a una spiegazione, dire di che era stata minacciata, raccontare una storia… L’infelice rifuggì spaventata da questa idea; cercò in fretta un’altra risposta; ne trovò una sola che potesse liberarla presto e sicuramente da quel supplizio, la più contraria al vero. «Mi fo monaca,» disse, nascondendo il suo turbamento, «mi fo monaca, di mio genio, liberamente.»
Da quanto tempo le è nato codesto pensiero? «domandò ancora il buon prete.»
«L’ho sempre avuto,» rispose Gertrude, divenuta, dopo quel primo passo, più franca a mentire contro se stessa.
«Ma quale è il motivo principale che la induce a farsi monaca?» Il buon prete non sapeva che terribile tasto toccasse; e Gertrude si fece una gran forza per non lasciar trasparire sul viso l’effetto che quelle parole le producevano nell’animo. «Il motivo,» disse, «è di servire a Dio, e di fuggire i pericoli del mondo.»
«Non sarebbe mai qualche disgusto? qualche… mi scusi… capriccio? Alle volte, una cagione momentanea può fare un’impressione che par che deva durar sempre; e quando poi la cagione cessa, e l’animo si muta, allora…»
«No, no,» rispose precipitosamente Gertrude: «la cagione è quella che le ho detto.»
Il vicario, più per adempire interamente il suo obbligo, che per la persuasione che ce ne fosse bisogno, insistette con le domande; ma Gertrude era determinata d’ingannarlo. Oltre il ribrezzo che le cagionava il pensiero di render consapevole della sua debolezza quel grave e dabben prete, che pareva così lontano dal sospettar tal cosa di lei; la poveretta pensava poi anche ch’egli poteva bene impedire che si facesse monaca; ma lì finiva la sua autorità sopra di lei, e la sua protezione. Partito che fosse, essa rimarrebbe sola col principe. E qualunque cosa avesse poi a patire in quella casa, il buon prete non n’avrebbe saputo nulla, o sapendolo, con tutta la sua buona intenzione, non avrebbe potuto far altro che aver compassione di lei, quella compassione tranquilla e misurata, che, in generale, s’accorda, come per cortesia, a chi abbia dato cagione o pretesto al male che gli fanno.
L’esaminatore fu prima stanco d’interrogare, che la sventurata di mentire: e, sentendo quelle risposte sempre conformi, e non avendo alcun motivo di dubitare della loro schiettezza, mutò finalmente linguaggio; si rallegrò con lei, le chiese, in certo modo, scusa d’aver tardato tanto a far questo suo dovere; aggiunse ciò che credeva più atto a confermarla nel buon proposito; e si licenziò.
Attraversando le sale per uscire, s’abbatté nel principe, il quale pareva che passasse di là a caso; e con lui pure si congratulò delle buone disposizioni in cui aveva trovata la sua figliuola. Il principe era stato fino allora in una sospensione molto penosa: a quella notizia, respirò, e dimenticando la sua gravità consueta, andò quasi di corsa da Gertrude, la ricolmò di lodi, di carezze e di promesse, con un giubilo cordiale, con una tenerezza in gran parte sincera: così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano.
Noi non seguiremo Gertrude in quel giro continuato di spettacoli e di divertimenti. E neppure descriveremo, in particolare e per ordine, i sentimenti dell’animo suo in tutto quel tempo: sarebbe una storia di dolori e di fluttuazioni, troppo monotona, e troppo somigliante alle cose già dette. L’amenità de’ luoghi, la varietà degli oggetti, quello svago che pur trovava nello scorrere in qua e in là all’aria aperta, le rendevan più odiosa l’idea del luogo dove alla fine si smonterebbe per l’ultima volta, per sempre. Più pungenti ancora eran l’impressioni che riceveva nelle conversazioni e nelle feste. La vista delle spose alle quali si dava questo titolo nel senso più ovvio e più usitato, le cagionava un’invidia, un rodimento intollerabile; e talvolta l’aspetto di qualche altro personaggio le faceva parere che, nel sentirsi dare quel titolo, dovesse trovarsi il colmo d’ogni felicità. Talvolta la pompa de’ palazzi, lo splendore degli addobbi, il brulichìo e il fracasso giulivo delle feste, le comunicavano un’ebbrezza, un ardor tale di viver lieto, che prometteva a se stessa di disdirsi, di soffrir tutto, piuttosto che tornare all’ombra fredda e morta del chiostro. Ma tutte quelle risoluzioni sfumavano alla considerazione più riposata delle difficoltà, al solo fissar gli occhi in viso al principe. Talvolta anche, il pensiero di dover abbandonare per sempre que’ godimenti, gliene rendeva amaro e penoso quel piccol saggio; come l’infermo assetato guarda con rabbia, e quasi rispinge con dispetto il cucchiaio d’acqua che il medico gli concede a fatica. Intanto il vicario delle monache ebbe rilasciata l’attestazione necessaria, e venne la licenza di tenere il capitolo per l’accettazione di Gertrude. Il capitolo si tenne; concorsero, com’era da aspettarsi, i due terzi de’ voti segreti ch’eran richiesti da’ regolamenti; e Gertrude fu accettata. Lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora d’entrar più presto che fosse possibile, nel monastero. Non c’era sicuramente chi volesse frenare una tale impazienza. Fu dunque fatta la sua volontà; e, condotta pomposamente al monastero, vestì l’abito. Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca per sempre.

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E’ questa una delle pagine più “moderne” di tutto il romanzo. La radice da cui parte è certamente antecedente e si rifà alle figure del romanzo gotico inglese con la protagonista che assume il ruolo di “vergine perseguitata”, a cui risponde, nel romanzo, la monacazione forzata. Bastava questo a farne una vittima del sistema economico del Seicento basato sul maggiorascato. Succede che la monaca da perseguitata diventa persecutrice, di cui vittima, qui, è una povera novizia che intuisce gli illeciti amori tra la religiosa e una figura sfocata, un Don Rodrigo appena accennato, dal potere estremamente limitato, Egidio. Manzoni si astiene dal giudizio. Eppure commenta. Registra, in modo mirabile, la psicologia non innata, ma che prende forma in una mente plagiata dal padre, che ne ha costruito il destino, non lasciando a lei il diritto di scelta. Ma anche il padre sembra non esser colpevole: due commenti ce ne offrono la spia: quello in cui non può accettare di definirlo padre e quello in cui, dopo il colloquio con il vicario, abbraccia la figlia con affetto sincero. Egli coercizza la figlia perché è sua volta coercizzato dalla classe sociale a cui appartiene e dal sistema economico a cui deve adeguarsi. Da qui l’abile divisione di questi capitoli: il primo dedicato alla figura del padre, che, costretto ripeto, mette in atto dei ricatti psicologici verso una bambina che il potere stesso rende arrogante verso il mondo inferiore che le sta intorno; il secondo tutto dedicato a Gertrude e a come la sua spasmodica ambizione trovi il limite nelle mura del convento. L’ambizione, tuttavia, non era così diversa dalle altre figlie di buona famiglia: feste, inviti, una vita nobiliare di provincia, per riassumere. E’ che lei non può viverla: ecco allora che l’assassina di una povera novizia diventa l’infelice, la poverina, la sventurata. Sembra che Manzoni, su tale figura, si astenga dal giudizio perché in essa convergono temi religiosi e storici di grande importanza, come il rapporto tra peccato e libero arbitrio, responsabilità individuale e responsabilità collettiva, il bene ed il male, temi enormi all’interno di un romanzo e all’interno dell’animo di un religioso che non può che rimettersi a Dio.

Francesco_Hayez_-_Ritratto_dell'Innominato.jpgFrancesco Hayez: L’Innominato

CAPITOLO XIX
L’INNOMINATO

Abbiamo detto che don Rodrigo, intestato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s’era risoluto di cercare il soccorso d’un terribile uomo. Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l’identità de’ fatti non lascia luogo a dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore. Francesco Rivola, nella vita del cardinal Federigo Borromeo, dovendo parlar di quell’uomo, lo chiama «un signore altrettanto potente per ricchezze, quanto nobile per nascita», e fermi lì. Giuseppe Ripamonti, che, nel quinto libro della quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo nomina uno, costui, colui, quest’uomo, quel personaggio. «Riferirò», dice, nel suo bel latino, da cui traduciamo come ci riesce, «il caso d’un tale che, essendo de’ primi tra i grandi della città, aveva stabilita la sua dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di forusciti, foruscito un tempo anche lui; poi tornato, come se niente fosse…» Da questo scrittore prenderemo qualche altro passo, che ci venga in taglio per confermare e per dilucidare il racconto del nostro anonimo; col quale tiriamo avanti.
Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui. Fino dall’adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d’invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi n’andava in cerca, d’aver che dire co’ più famosi di quella professione, d’attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a cercare la sua amicizia. Superiore di ricchezze e di seguito alla più parte, e forse a tutti d’ardire e di costanza, ne ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti n’ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra. Nel fatto però, veniva anche lui a essere il faccendiere, lo strumento di tutti coloro: essi non mancavano di richiedere ne’ loro impegni l’opera d’un tanto ausiliario; per lui, tirarsene indietro sarebbe stato decadere dalla sua riputazione, mancare al suo assunto. Di maniera che, per conto suo, e per conto d’altri, tante ne fece che, non bastando né il nome, né il parentado, né gli amici, né la sua audacia a sostenerlo contro i bandi pubblici, e contro tante animosità potenti, dovette dar luogo, e uscir dallo stato. Credo che a questa circostanza si riferisca un tratto notabile raccontato dal Ripamonti. «Una volta che costui ebbe a sgomberare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la timidezza, furon tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba; e passando davanti al palazzo di corte, lasciò alla guardia un’imbasciata d’impertinenze per il governatore».
Nell’assenza, non ruppe le pratiche, né tralasciò le corrispondenze con que’ suoi tali amici, i quali rimasero uniti con lui, per tradurre letteralmente dal Ripamonti, «in lega occulta di consigli atroci, e di cose funeste». Pare anzi che allora contraesse con più alte persone, certe nuove terribili pratiche, delle quali lo storico summentovato parla con una brevità misteriosa. «Anche alcuni principi esteri, – dice, – si valsero più volte dell’opera sua, per qualche importante omicidio, e spesso gli ebbero a mandar da lontano rinforzi di gente che servisse sotto i suoi ordini».
Finalmente (non si sa dopo quanto tempo), o fosse levato il bando, per qualche potente intercessione, o l’audacia di quell’uomo gli tenesse luogo d’immunità, si risolvette di tornare a casa, e vi tornò difatti; non però in Milano, ma in un castello confinante col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa, stato veneto. «Quella casa – cito ancora il Ripamonti, – era come un’officina di mandati sanguinosi: servitori, la cui testa era messa a taglia, e che avevan per mestiere di troncar teste: né cuoco, né sguattero dispensati dall’omicidio: le mani de’ ragazzi insanguinate». Oltre questa bella famiglia domestica, n’aveva, come afferma lo stesso storico, un’altra di soggetti simili, dispersi e posti come a quartiere in vari luoghi de’ due stati sul lembo de’ quali viveva, e pronti sempre a’ suoi ordini.
Tutti i tiranni, per un bel tratto di paese all’intorno, avevan dovuto, chi in un’occasione e chi in un’altra, scegliere tra l’amicizia e l’inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma ai primi che avevano voluto provar di resistergli, la gli era andata così male, che nessuno si sentiva più di mettersi a quella prova. E neppur col badare a’ fatti suoi, con lo stare a sé, uno non poteva rimanere indipendente da lui. Capitava un suo messo a intimargli che abbandonasse la tale impresa, che cessasse di molestare il tal debitore, o cose simili: bisognava rispondere sì o no. Quando una parte, con un omaggio vassallesco, era andata a rimettere in lui un affare qualunque, l’altra parte si trovava a quella dura scelta, o di stare alla sua sentenza, o di dichiararsi suo nemico; il che equivaleva a esser, come si diceva altre volte, tisico in terzo grado. Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui per aver ragione in effetto; molti anche, avendo ragione, per preoccupare un così gran patrocinio, e chiuderne l’adito all’avversario: gli uni e gli altri divenivano più specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso, vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto e più terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e abborrito era stato benedetto un momento: perché, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que’ tempi, aspettarlo da nessun’altra forza né privata, né pubblica. Più spesso, anzi per l’ordinario, la sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci superbi. Ma gli usi così diversi di quella forza producevan sempre l’effetto medesimo, d’imprimere negli animi una grand’idea di quanto egli potesse volere e eseguire in onta dell’equità e dell’iniquità, quelle due cose che metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso tornare indietro. La fama de’ tiranni ordinari rimaneva per lo più ristretta in quel piccolo tratto di paese dov’erano i più ricchi e i più forti: ogni distretto aveva i suoi; e si rassomigliavan tanto, che non c’era ragione che la gente s’occupasse di quelli che non aveva a ridosso. Ma la fama di questo nostro era già da gran tempo diffusa in ogni parte del milanese: per tutto, la sua vita era un soggetto di racconti popolari; e il suo nome significava qualcosa d’irresistibile, di strano, di favoloso. Il sospetto che per tutto s’aveva de’ suoi collegati e de’ suoi sicari, contribuiva anch’esso a tener viva per tutto la memoria di lui. Non eran più che sospetti; giacché chi avrebbe confessata apertamente una tale dipendenza? ma ogni tiranno poteva essere un suo collegato, ogni malandrino, uno de’ suoi; e l’incertezza stessa rendeva più vasta l’opinione, e più cupo il terrore della cosa. E ogni volta che in qualche parte si vedessero comparire figure di bravi sconosciute e più brutte dell’ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si sapesse alla prima indicare o indovinar l’autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui che noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione de’ nostri autori, saremo costretti a chiamare l’Innominato.

La descrizione dell’Innominato sembra rispondere ad una duplice esigenza:

  • nella sua straordinaria “malvagità”, maggiore appare la “vittoria” del cardinale a riportarlo alla religione;
  • estetica romantica a cui piace la rappresentazione a tutto tondo, di eroi, per quanto malvagi.

Ma quello che qui emerge è che l’Innominato è un uomo solo: è il primus inter pares, non c’è assassino, rapinatore, delinquente che può stargli alla pari, mortifica il potere per affermare il suo io. Novello Napoleone relegato a Sant’Elena, anche l’Innominato è sommerso dalle sue colpe. Questo lo predispone ad ascoltare dapprima le campane, poi la felicità degli umili, quindi la presenza di Dio, per intercessione di Lucia, che qui diventa figura Christi.

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«Dio, Dio,» interruppe l’innominato: «sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi…?» e lasciò la frase a mezzo.
«Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! Mi lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare, dica che mi lascino andare! M’hanno portata qui per forza. Mi mandi con questa donna a *** dov’è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per carità, mia madre! Forse non è lontana di qui… ho veduto i miei monti! Perché lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione: dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!»

ed infine il Cardinal Federico Borromeo

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CAPITOLO XXII
CARDINAL FEDERIGO

Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d’annegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e a’ veri beni, che, sentite o non sentite ne’ cuori, vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell’azioni e de’ pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e santa.
Nel 1580 manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, e ne prese l’abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, che una fama, già fin d’allora antica e universale, predicava santo. Entrò poco dopo nel collegio fondato da questo in Pavia, e che porta ancora il nome del loro casato; e lì, applicandosi assiduamente alle occupazioni che trovò prescritte, due altre ne assunse di sua volontà; e furono d’insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’infermi. Si valse dell’autorità che tutto gli conciliava in quel luogo, per attirare i suoi compagni a secondarlo in tali opere; e in ogni cosa onesta e profittevole esercitò come un primato d’esempio, un primato che le sue doti personali sarebbero forse bastate a procacciargli, se fosse anche stato l’infimo per condizione. I vantaggi d’un altro genere, che la sua gli avrebbe potuto procurare, non solo non li ricercò, ma mise ogni studio a schivarli. Volle una tavola piuttosto povera che frugale, usò un vestiario piuttosto povero che semplice; a conformità di questo, tutto il tenore della vita e il contegno. Né credette mai di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti gridassero e si lamentassero che avvilisse così la dignità della casa. Un’altra guerra ebbe a sostenere con gl’istitutori, i quali, furtivamente e come per sorpresa, cercavano di mettergli davanti, addosso, intorno, qualche suppellettile più signorile, qualcosa che lo facesse distinguer dagli altri, e figurare come il principe del luogo: o credessero di farsi alla lunga ben volere con ciò; o fossero mossi da quella svisceratezza servile che s’invanisce e si ricrea nello splendore altrui; o fossero di que’ prudenti che s’adombrano delle virtù come de’ vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi. Federigo, non che lasciarsi vincere da que’ tentativi, riprese coloro che li facevano; e ciò tra la pubertà e la giovinezza.
Che, vivente il cardinal Carlo, maggior di lui di ventisei anni, davanti a quella presenza grave, solenne, ch’esprimeva così al vivo la santità, e ne rammentava le opere, e alla quale, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe aggiunto autorità ogni momento l’ossequio manifesto e spontaneo de’ circostanti, quali e quanti si fossero, Federigo fanciullo e giovinetto cercasse di conformarsi al contegno e al pensare d’un tal superiore, non è certamente da farsene maraviglia; ma è bensì cosa molto notabile che, dopo la morte di lui, nessuno si sia potuto accorgere che a Federigo, allor di vent’anni, fosse mancata una guida e un censore. La fama crescente del suo ingegno, della sua dottrina e della sua pietà, la parentela e gl’impegni di più d’un cardinale potente, il credito della sua famiglia, il nome stesso, a cui Carlo aveva quasi annessa nelle menti un’idea di santità e di preminenza, tutto ciò che deve, e tutto ciò che può condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche, concorreva a pronosticargliele. Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle; non certamente perché sfuggisse di servire altrui; che poche vite furono spese in questo come la sua; ma perché non si stimava abbastanza degno né capace di così alto e pericoloso servizio. Perciò, venendogli, nel 1595, proposto da Clemente VIII l’arcivescovado di Milano, apparve fortemente turbato, e ricusò senza esitare. Cedette poi al comando espresso del papa.
Tali dimostrazioni, e chi non lo sa? non sono né difficili né rare; e l’ipocrisia non ha bisogno d’un più grande sforzo d’ingegno per farle, che la buffoneria per deriderle a buon conto, in ogni caso. Ma cessan forse per questo d’esser l’espressione naturale d’un sentimento virtuoso e sapiente? La vita è il paragone delle parole: e le parole ch’esprimono quel sentimento, fossero anche passate sulle labbra di tutti gl’impostori e di tutti i beffardi del mondo, saranno sempre belle, quando siano precedute e seguite da una vita di disinteresse e di sacrifizio.
In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di non prender per sé, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto se stesso in somma, se non quanto fosse strettamente necessario. Diceva, come tutti dicono, che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio de’ poveri: come poi intendesse infatti una tal massima, si veda da questo. Volle che si stimasse a quanto poteva ascendere il suo mantenimento e quello della sua servitù; e dettogli che seicento scudi (scudo si chiamava allora quella moneta d’oro che, rimanendo sempre dello stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine che tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa; non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio. Del suo poi era così scarso e sottile misuratore a se stesso, che badava di non ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto: unendo però, come fu notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d’una squisita pulizia: due abitudini notabili infatti, in quell’età sudicia e sfarzosa. Similmente, affinché nulla si disperdesse degli avanzi della sua mensa frugale, gli assegnò a un ospizio di poveri; e uno di questi, per suo ordine, entrava ogni giorno nella sala del pranzo a raccoglier ciò che fosse rimasto. Cure, che potrebbero forse indur concetto d’una virtù gretta, misera, angustiosa, d’una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati; se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da’ fondamenti; per fornir la quale di libri e di manoscritti, oltre il dono de’ già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedì otto uomini, de’ più colti ed esperti che poté avere, a farne incetta, per l’Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti. Alla biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che visse; dopo, non bastando a quella spesa l’entrate ordinarie, furon ristretti a due); e il loro ufizio era di coltivare vari studi, teologia, storia, lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, con l’obbligo ad ognuno di pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli; v’unì un collegio da lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana; un collegio d’alunni, che venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, per insegnarle un giorno; v’unì una stamperia di lingue orientali, dell’ebraica cioè, della caldea, dell’arabica, della persiana, dell’armena; una galleria di quadri, una di statue, e una scuola delle tre principali arti del disegno. Per queste, poté trovar professori già formati; per il rimanente, abbiam visto che da fare gli avesse dato la raccolta de’ libri e de’ manoscritti; certo più difficili a trovarsi dovevano essere i tipi di quelle lingue, allora molto men coltivate in Europa che al presente; più ancora de’ tipi, gli uomini. Basterà il dire che, di nove dottori, otto ne prese tra i giovani alunni del seminario; e da questo si può argomentare che giudizio facesse degli studi consumati e delle riputazioni fatte di quel tempo: giudizio conforme a quello che par che n’abbia portato la posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza.
Nelle regole che stabilì per l’uso e per il governo della biblioteca, si vede un intento d’utilità perpetua, non solamente bello in sé, ma in molte parti sapiente e gentile molto al di là dell’idee e dell’abitudini comuni di quel tempo. Prescrisse al bibliotecario che mantenesse commercio con gli uomini più dotti d’Europa, per aver da loro notizie dello stato delle scienze, e avviso de’ libri migliori che venissero fuori in ogni genere, e farne acquisto; gli prescrisse d’indicare agli studiosi i libri che non conoscessero, e potesser loro esser utili; ordinò che a tutti, fossero cittadini o forestieri, si desse comodità e tempo di servirsene, secondo il bisogno. Una tale intenzione deve ora parere ad ognuno troppo naturale, e immedesimata con la fondazione d’una biblioteca: allora non era così. E in una storia dell’ambrosiana, scritta (col costrutto e con l’eleganze comuni del secolo) da un Pierpaolo Bosca, che vi fu bibliotecario dopo la morte di Federigo, vien notato espressamente, come cosa singolare, che in questa libreria, eretta da un privato, quasi tutta a sue spese, i libri fossero esposti alla vista del pubblico, dati a chiunque li chiedesse, e datogli anche da sedere, e carta, penne e calamaio, per prender gli appunti che gli potessero bisognare; mentre in qualche altra insigne biblioteca pubblica d’Italia, i libri non erano nemmen visibili, ma chiusi in armadi, donde non si levavano se non per gentilezza de’ bibliotecari, quando si sentivano di farli vedere un momento; di dare ai concorrenti il comodo di studiare, non se n’aveva neppur l’idea. Dimodoché arricchir tali biblioteche era un sottrar libri all’uso comune: una di quelle coltivazioni, come ce n’era e ce n’è tuttavia molte, che isteriliscono il campo.
Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo sulla coltura pubblica: sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo che si dimostra, che furon miracolosi, o che non furon niente; cercare e spiegare, fino a un certo segno, quali siano stati veramente, sarebbe cosa di molta fatica, di poco costrutto, e fuor di tempo. Ma pensate che generoso, che giudizioso, che benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano, dovesse essere colui che volle una tal cosa, la volle in quella maniera, e l’eseguì, in mezzo a quell’ignorantaggine, a quell’inerzia, a quell’antipatia generale per ogni applicazione studiosa, e per conseguenza in mezzo ai “cos’importa? e c’era altro da pensare? e che bell’invenzione! e mancava anche questa,” e simili; che saranno certissimamente stati più che gli scudi spesi da lui in quell’impresa; i quali furon centocinquemila, la più parte de’ suoi.
Per chiamare un tal uomo sommamente benefico e liberale, può parer che non ci sia bisogno di sapere se n’abbia spesi molt’altri in soccorso immediato de’ bisognosi; e ci son forse ancora di quelli che pensano che le spese di quel genere, e sto per dire tutte le spese, siano la migliore e la più utile elemosina. Ma Federigo teneva l’elemosina propriamente detta per un dovere principalissimo; e qui, come nel resto, i suoi fatti furon consentanei all’opinione. La sua vita fu un continuo profondere ai poveri; e a proposito di questa stessa carestia di cui ha già parlato la nostra storia, avremo tra poco occasione di riferire alcuni tratti, dai quali si vedrà che sapienza e che gentilezza abbia saputo mettere anche in questa liberalità. De’ molti esempi singolari che d’una tale sua virtù hanno notati i suoi biografi, ne citeremo qui un solo. Avendo risaputo che un nobile usava artifizi e angherie per far monaca una sua figlia, la quale desiderava piuttosto di maritarsi, fece venire il padre; e cavatogli di bocca che il vero motivo di quella vessazione era il non avere quattromila scudi che, secondo lui, sarebbero stati necessari a maritar la figlia convenevolmente, Federigo la dotò di quattromila scudi. Forse a taluno parrà questa una larghezza eccessiva, non ben ponderata, troppo condiscendente agli stolti capricci d’un superbo; e che quattromila scudi potevano esser meglio impiegati in cent’altre maniere. A questo non abbiamo nulla da rispondere, se non che sarebbe da desiderarsi che si vedessero spesso eccessi d’una virtù così libera dall’opinioni dominanti (ogni tempo ha le sue), così indipendente dalla tendenza generale, come, in questo caso, fu quella che mosse un uomo a dar quattromila scudi, perché una giovine non fosse fatta monaca.
La carità inesausta di quest’uomo, non meno che nel dare, spiccava in tutto il suo contegno. Di facile abbordo con tutti, credeva di dovere specialmente a quelli che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia affettuosa; tanto più, quanto ne trovan meno nel mondo. E qui pure ebbe a combattere co’ galantuomini del ne quid nimis*, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne’ limiti, cioè ne’ loro limiti. Uno di costoro, una volta che, nella visita d’un paese alpestre e salvatico, Federigo istruiva certi poveri fanciulli, e, tra l’interrogare e l’insegnare, gli andava amorevolmente accarezzando, l’avvertì che usasse più riguardo nel far tante carezze a que’ ragazzi, perché eran troppo sudici e stomacosi: come se supponesse, il buon uomo, che Federigo non avesse senso abbastanza per fare una tale scoperta, o non abbastanza perspicacia, per trovar da sé quel ripiego così fino. Tale è, in certe condizioni di tempi e di cose, la sventura degli uomini costituiti in certe dignità: che mentre così di rado si trova chi gli avvisi de’ loro mancamenti, non manca poi gente coraggiosa a riprenderli del loro far bene. Ma il buon vescovo, non senza un certo risentimento, rispose: «sono mie anime, e forse non vedranno mai più la mia faccia; e non volete che gli abbracci?»
Ben raro però era il risentimento in lui, ammirato per la soavità de’ suoi modi, per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe attribuita a una felicità straordinaria di temperamento; ed era l’effetto d’una disciplina costante sopra un’indole viva e risentita.
Se qualche volta si mostrò severo, anzi brusco, fu co’ pastori suoi subordinati che scoprisse rei d’avarizia o di negligenza o d’altre tracce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero. Per tutto ciò che potesse toccare o il suo interesse, o la sua gloria temporale, non dava mai segno di gioia, né di rammarico, né d’ardore, né d’agitazione: mirabile se questi moti non si destavano nell’animo suo, più mirabile se vi si destavano. Non solo da’ molti conclavi ai quali assistette, riportò il concetto di non aver mai aspirato a quel posto così desiderabile all’ambizione, e così terribile alla pietà; ma una volta che un collega, il quale contava molto, venne a offrirgli il suo voto e quelli della sua fazione (brutta parola, ma era quella che usavano), Federigo rifiutò una tal proposta in modo, che quello depose il pensiero, e si rivolse altrove. Questa stessa modestia, quest’avversione al predominare apparivano ugualmente nell’occasioni più comuni della vita. Attento e infaticabile a disporre e a governare, dove riteneva che fosse suo dovere il farlo, sfuggì sempre d’impicciarsi negli affari altrui; anzi si scusava a tutto potere dall’ingerirvisi ricercato: discrezione e ritegno non comune, come ognuno sa, negli uomini zelatori del bene, qual era Federigo.
Se volessimo lasciarci andare al piacere di raccogliere i tratti notabili del suo carattere, ne risulterebbe certamente un complesso singolare di meriti in apparenza opposti, e certo difficili a trovarsi insieme. Però non ometteremo di notare un’altra singolarità di quella bella vita: che, piena come fu d’attività, di governo, di funzioni, d’insegnamento, d’udienze, di visite diocesane, di viaggi, di contrasti, non solo lo studio c’ebbe una parte, ma ce n’ebbe tanta, che per un letterato di professione sarebbe bastato. E infatti, con tant’altri e diversi titoli di lode, Federigo ebbe anche, presso i suoi contemporanei, quello d’uom dotto.
Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta, ch’erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi: scusa che, per certe cose, e quando risulti dall’esame particolare de’ fatti, può aver qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e alla cieca, come si fa d’ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, né allungar troppo un episodio, tralasceremo anche d’esporle; bastandoci d’avere accennato così alla sfuggita che, d’un uomo così ammirabile in complesso, noi non pretendiamo che ogni cosa lo fosse ugualmente; perché non paia che abbiam voluto scrivere un’orazion funebre.
Non è certamente fare ingiuria ai nostri lettori il supporre che qualcheduno di loro domandi se di tanto ingegno e di tanto studio quest’uomo abbia lasciato qualche monumento. Se n’ha lasciati! Circa cento son l’opere che rimangon di lui, tra grandi e piccole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte, che si serbano nella biblioteca da lui fondata: trattati di morale, orazioni, dissertazioni di storia, d’antichità sacra e profana, di letteratura, d’arti e d’altro. «E come mai,» dirà codesto lettore, «tante opere sono dimenticate, o almeno così poco conosciute, così poco ricercate? Come mai, con tanto ingegno, con tanto studio, con tanta pratica degli uomini e delle cose, con tanto meditare, con tanta passione per il buono e per il bello, con tanto candor d’animo, con tant’altre di quelle qualità che fanno il grande scrittore, questo, in cento opere, non ne ha lasciata neppur una di quelle che son riputate insigni anche da chi non le approva in tutto, e conosciute di titolo anche da chi non le legge? Come mai, tutte insieme, non sono bastate a procurare, almeno col numero, al suo nome una fama letteraria presso noi posteri?»
La domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione, molto interessante; perché le ragioni di questo fenomeno si troverebbero con l’osservar molti fatti generali: e trovate, condurrebbero alla spiegazione di più altri fenomeni simili. Ma sarebbero molte e prolisse.
* “nulla di troppo”

Alla eccezionalità del male deve narrativamente corrispondere l’eccezionalità del bene, e Manzoni lo fa con una vera e propria apologia per la figura del cardinale, affinché i due titani possano scontrarsi/incontrarsi e raggiungere il massimo pathos narrativo. Ci troviamo di fronte alla terza descrizione di personaggi religiosi, di cui l’ultimo è certamente personaggio storico. Se il primo è l’ideale religioso che si attua nella storia, attraverso l’operosità, la seconda la cui psicologia scombinata la porta a tradire le norme di comportamento della comunità ecclesiastica, con Federigo ci troviamo di fronte ad un modello. Manzoni del cardinale ci offre una biografia ideale, non calata nella storia, ma sull’esempio di una vita beata al di là della storia e del contingente. La sua operosità trascende il contingente, ma appartiene al compito che ogni religioso deve possedere, nel momento in cui abbraccia la vita ecclesiastica.

La storia

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CAPITOLO XII
LA CARESTIA

Era quello il second’anno di raccolta scarsa. Nell’antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per colpa degli uomini. Il guasto e lo sperperìo della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam fatto menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad essa, molti poderi più dell’ordinario rimanevano incolti e abbandonati da’ contadini, i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli altri, eran costretti d’andare ad accattarlo per carità. Ho detto: più dell’ordinario; perché le insopportabili gravezze, imposte con una cupidigia e con un’insensatezza del pari sterminate, la condotta abituale, anche in piena pace, delle truppe alloggiate ne’ paesi, condotta che i dolorosi documenti di que’ tempi uguagliano a quella d’un nemico invasore, altre cagioni che non è qui il luogo di mentovare, andavano già da qualche tempo operando lentamente quel tristo effetto in tutto il milanese: le circostanze particolari di cui ora parliamo, erano come una repentina esacerbazione d’un mal cronico. E quella qualunque raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per l’esercito, e lo sciupinìo che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro.
Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un’opinione ne’ molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica d’averla temuta, predetta; si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gl’incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome d’averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l’abbominio della moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov’erano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s’indicava il numero de’ sacchi, spropositato; si parlava con certezza dell’immensa quantità di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; ne’ quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano a Milano. S’imploravan da’ magistrati que’ provvedimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici, così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornar l’abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo d’alcune derrate, d’intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d’attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de’ più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore.
Nell’assenza del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che comandava l’assedio di Casale del Monferrato, faceva le sue veci in Milano il gran cancelliere Antonio Ferrer, pure spagnolo. Costui vide, e chi non l’avrebbe veduto? che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò la meta (così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente venduto trentatre lire il moggio: e si vendeva fino a ottanta. Fece come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo.
Ordini meno insensati e meno iniqui eran, più d’una volta, per la resistenza delle cose stesse, rimasti ineseguiti; ma all’esecuzione di questo vegliava la moltitudine, che, vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non avrebbe sofferto che fosse per celia. Accorse subito ai forni, a chieder pane al prezzo tassato; e lo chiese con quel fare di risolutezza e di minaccia, che dànno la passione, la forza e la legge riunite insieme. Se i fornai strillassero, non lo domandate. Intridere, dimenare, infornare e sfornare senza posa; perché il popolo, sentendo in confuso che l’era una cosa violenta, assediava i forni di continuo, per goder quella cuccagna fin che durava; affacchinarsi, dico, e scalmanarsi più del solito, per iscapitarci, ognun vede che bel piacere dovesse essere. Ma, da una parte i magistrati che intimavan pene, dall’altra il popolo che voleva esser servito, e, punto punto che qualche fornaio indugiasse, pressava e brontolava, con quel suo vocione, e minacciava una di quelle sue giustizie, che sono delle peggio che si facciano in questo mondo; non c’era redenzione, bisognava rimenare, infornare, sfornare e vendere. Però, a farli continuare in quell’impresa, non bastava che fosse lor comandato, né che avessero molta paura; bisognava potere: e un po’ più che la cosa fosse durata, non avrebbero più potuto. Facevan vedere ai magistrati l’iniquità e l’insopportabilità del carico imposto loro, protestavano di voler gettar la pala nel forno, e andarsene; e intanto tiravano avanti come potevano, sperando, sperando che, una volta o l’altra, il gran cancelliere avrebbe inteso la ragione. Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di carattere, rispondeva che i fornai s’erano avvantaggiati molto e poi molto nel passato, che s’avvantaggerebbero molto e poi molto col ritornar dell’abbondanza; che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento; e che intanto tirassero ancora avanti. O fosse veramente persuaso lui di queste ragioni che allegava agli altri, o che, anche conoscendo dagli effetti l’impossibilità di mantener quel suo editto, volesse lasciare agli altri l’odiosità di rivocarlo; giacché, chi può ora entrar nel cervello d’Antonio Ferrer? il fatto sta che rimase fermo su ciò che aveva stabilito. Finalmente i decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al novantasei del secolo scorso) informaron per lettera il governatore, dello stato in cui eran le cose: trovasse lui qualche ripiego, che le facesse andare.
Don Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della guerra, fece ciò che il lettore s’immagina certamente: nominò una giunta, alla quale conferì l’autorità di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; una cosa da poterci campar tanto una parte che l’altra. I deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco d’allora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non c’era da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì.
La sera avanti questo giorno in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze brulicavano d’uomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi dati l’intesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso pendìo. Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori, come di colui che l’aveva proferito. Tra tanti appassionati, c’eran pure alcuni più di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l’acqua s’andava intorbidando; e s’ingegnavano d’intorbidarla di più, con que’ ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare, quell’acqua, senza farci un po’ di pesca. Migliaia d’uomini andarono a letto col sentimento indeterminato che qualche cosa bisognava fare, che qualche cosa si farebbe. Avanti giorno, le strade eran di nuovo sparse di crocchi: fanciulli, donne, uomini, vecchi, operai, poveri, si radunavano a sorte: qui era un bisbiglio confuso di molte voci; là uno predicava, e gli altri applaudivano; questo faceva al più vicino la stessa domanda ch’era allora stata fatta a lui; quest’altro ripeteva l’esclamazione che s’era sentita risonare agli orecchi; per tutto lamenti, minacce, maraviglie: un piccol numero di vocaboli era il materiale di tanti discorsi.
Non mancava altro che un’occasione, una spinta, un avviamento qualunque, per ridurre le parole a fatti; e non tardò molto. Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe de’ fornai i garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire d’uno di que’ malcapitati ragazzi dov’era un crocchio di gente, fu come il cadere d’un salterello acceso in una polveriera. «Ecco se c’è il pane!» gridarono cento voci insieme. «Sì, per i tiranni, che notano nell’abbondanza, e voglion far morir noi di fame,» dice uno; s’accosta al ragazzetto, avventa la mano all’orlo della gerla, dà una stratta, e dice: «lascia vedere». Il ragazzetto diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: “lasciatemi andare”; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne. «Giù quella gerla,» si grida intanto. Molte mani l’afferrano a un tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida fragranza si diffonde all’intorno. «Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi,» dice il primo; prende un pan tondo, l’alza, facendolo vedere alla folla, l’addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu sparecchiato.
Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità dell’impresa, si mossero a branchi, in cerca d’altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c’era neppur bisogno di dar l’assalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si trovavano in giro, vista la mala parata, posavano volontariamente il carico, e via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza paragone i più; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede così piccole, e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, c’eran coloro che avevan fatto disegno sopra un disordine più co’ fiocchi. «Al forno! al forno!» si grida.
Nella strada chiamata la Corsia de’ Servi, c’era, e c’è tuttavia un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce, e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche, così salvatiche, che l’alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono.* A quella parte s’avventò la gente. Quelli della bottega stavano interrogando il garzone tornato scarico, il quale, tutto sbigottito e abbaruffato, riferiva balbettando la sua trista avventura; quando si sente un calpestìo e un urlìo insieme; cresce e s’avvicina; compariscono i forieri della masnada.
«Serra, serra; presto, presto»: uno corre a chiedere aiuto al capitano di giustizia; gli altri chiudono in fretta la bottega, e appuntellano i battenti. La gente comincia a affollarsi di fuori, e a gridare: «pane! pane! aprite! aprite!»
Pochi momenti dopo, arriva il capitano di giustizia, con una scorta d’alabardieri. «Largo, largo, figliuoli: a casa, a casa; fate luogo al capitano di giustizia,» grida lui e gli alabardieri. La gente, che non era ancor troppo fitta, fa un po’ di luogo; dimodoché quelli poterono arrivare, e postarsi, insieme, se non in ordine, davanti alla porta della bottega.
«Ma figliuoli,» predicava di lì il capitano, «che fate qui? A casa, a casa. Dov’è il timor di Dio? Che dirà il re nostro signore? Non vogliam farvi male; ma andate a casa. Da bravi! Che diamine volete far qui, così ammontati? Niente di bene, né per l’anima, né per il corpo. A casa, a casa.»
Ma quelli che vedevan la faccia del dicitore, e sentivan le sue parole, quand’anche avessero voluto ubbidire, dite un poco in che maniera avrebber potuto, spinti com’erano, e incalzati da quelli di dietro, spinti anch’essi da altri, come flutti da flutti, via via fino all’estremità della folla, che andava sempre crescendo. Al capitano, cominciava a mancargli il respiro. «Fateli dare addietro ch’io possa riprender fiato,» diceva agli alabardieri: «ma non fate male a nessuno. Vediamo d’entrare in bottega: picchiate; fateli stare indietro.»
«Indietro! indietro!» gridano gli alabardieri, buttandosi tutti insieme addosso ai primi, e respingendoli con l’aste dell’alabarde. Quelli urlano, si tirano indietro, come possono; dànno con le schiene ne’ petti, co’ gomiti nelle pance, co’ calcagni sulle punte de’ piedi a quelli che son dietro a loro: si fa un pigìo, una calca, che quelli che si trovavano in mezzo, avrebbero pagato qualcosa a essere altrove. Intanto un po’ di vòto s’è fatto davanti alla porta: il capitano picchia, ripicchia, urla che gli aprano: quelli di dentro vedono dalle finestre, scendon di corsa, aprono; il capitano entra, chiama gli alabardieri, che si ficcan dentro anch’essi l’un dopo l’altro, gli ultimi rattenendo la folla con l’alabarde. Quando sono entrati tutti, si mette tanto di catenaccio, si riappuntella; il capitano sale di corsa, e s’affaccia a una finestra. Uh, che formicolaio!
«Figliuoli,» grida: molti si voltano in su; «figliuoli, andate a casa. Perdono generale a chi torna subito a casa.»
«Pane! pane! aprite! Aprite!» eran le parole più distinte nell’urlìo orrendo, che la folla mandava in risposta.
«Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!… eh! che fate laggiù! Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con que’ ferri; giù quelle mani. Vergogna! Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi… Ah canaglia!»
Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani d’uno di que’ buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica. «Canaglia! canaglia!» continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. Ma quantunque avesse gridato quanto n’aveva in canna, le sue parole, buone e cattive, s’eran tutte dileguate e disfatte a mezz’aria, nella tempesta delle grida che venivan di giù. Quello poi che diceva di vedere, era un gran lavorare di pietre, di ferri (i primi che coloro avevano potuto procacciarsi per la strada), che si faceva alla porta, per sfondarla, e alle finestre, per svellere l’inferriate: e già l’opera era molto avanzata.
Intanto, padroni e garzoni della bottega, ch’erano alle finestre de’ piani di sopra, con una munizione di pietre (avranno probabilmente disselciato un cortile), urlavano e facevan versacci a quelli di giù, perché smettessero; facevan vedere le pietre, accennavano di volerle buttare. Visto ch’era tempo perso, cominciarono a buttarle davvero. Neppur una ne cadeva in fallo; giacché la calca era tale, che un granello di miglio, come si suol dire, non sarebbe andato in terra.
«Ah birboni! ah furfantoni! È questo il pane, che date alla povera gente? Ahi! Ahimè! Ohi! Ora, ora!» s’urlava di giù. Più d’uno fu conciato male; due ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la porta fu sfondata, l’inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono in soffitta: il capitano, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero lì rannicchiati ne’ cantucci; altri, uscendo per gli abbaini, andavano su pe’ tetti, come i gatti.
La vista della preda fece dimenticare ai vincitori i disegni di vendette sanguinose. Si slanciano ai cassoni; il pane è messo a ruba. Qualcheduno in vece corre al banco, butta giù la serratura, agguanta le ciotole, piglia a manate, intasca, ed esce carico di quattrini, per tornar poi a rubar pane, se ne rimarrà. La folla si sparge ne’ magazzini. Metton mano ai sacchi, li strascicano, li rovesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe, gli scioglie la bocca, e, per ridurlo a un carico da potersi portare, butta via una parte della farina: chi, gridando: «aspetta, aspetta,» si china a parare il grembiule, un fazzoletto, il cappello, per ricever quella grazia di Dio; uno corre a una madia, e prende un pezzo di pasta, che s’allunga, e gli scappa da ogni parte; un altro, che ha conquistato un burattello, lo porta per aria: chi va, chi viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverìo che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto vela e annebbia. Di fuori, una calca composta di due processioni opposte, che si rompono e s’intralciano a vicenda, di chi esce con la preda, e di chi vuol entrare a farne.
Mentre quel forno veniva così messo sottosopra, nessun altro della città era quieto e senza pericolo. Ma a nessuno la gente accorse in numero tale da potere intraprender tutto; in alcuni, i padroni avevan raccolto degli ausiliari, e stavan sulle difese; altrove, trovandosi in pochi, venivano in certo modo a patti: distribuivan pane a quelli che s’eran cominciati a affollare davanti alle botteghe, con questo che se n’andassero. E quelli se n’andavano, non tanto perché fosser soddisfatti, quanto perché gli alabardieri e la sbirraglia, stando alla larga da quel tremendo forno delle grucce, si facevan però vedere altrove, in forza bastante a tenere in rispetto i tristi che non fossero una folla. Così il trambusto andava sempre crescendo a quel primo disgraziato forno; perché tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche bell’impresa, correvan là, dove gli amici erano i più forti, e l’impunità sicura.
A questo punto eran le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato il suo pane, veniva avanti per il borgo di porta orientale, e s’avviava, senza saperlo, proprio al luogo centrale del tumulto. Andava, ora lesto, ora ritardato dalla folla; e andando, guardava e stava in orecchi, per ricavar da quel ronzìo confuso di discorsi qualche notizia più positiva dello stato delle cose. Ed ecco a un di presso le parole che gli riuscì di rilevare in tutta la strada che fece. «Ora è scoperta,» gridava uno, «l’impostura infame di que’ birboni, che dicevano che non c’era né pane, né farina, né grano. Ora si vede la cosa chiara e lampante; e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva l’abbondanza!»
«Vi dico io che tutto questo non serve a nulla,» diceva un altro: «è un buco nell’acqua; anzi sarà peggio, se non si fa una buona giustizia. Il pane verrà a buon mercato, ma ci metteranno il veleno, per far morir la povera gente, come mosche. Già lo dicono che siam troppi; l’hanno detto nella giunta; e lo so di certo, per averlo sentito dir io, con quest’orecchi, da una mia comare, che è amica d’un parente d’uno sguattero d’uno di que’ signori.
Parole da non ripetersi diceva, con la schiuma alla bocca, un altro, che teneva con una mano un cencio di fazzoletto su’ capelli arruffati e insanguinati. E qualche vicino, come per consolarlo, gli faceva eco.
«Largo, largo, signori, in cortesia; lascin passare un povero padre di famiglia, che porta da mangiare a cinque figliuoli». Così diceva uno che veniva barcollando sotto un gran sacco di farina; e ognuno s’ingegnava di ritirarsi, per fargli largo.
«Io?» diceva un altro, quasi sottovoce, a un suo compagno: «io me la batto. Son uomo di mondo, e so come vanno queste cose. Questi merlotti che fanno ora tanto fracasso, domani o doman l’altro, se ne staranno in casa, tutti pieni di paura. Ho già visto certi visi, certi galantuomini che giran, facendo l’indiano, e notano chi c’è e chi non c’è: quando poi tutto è finito, si raccolgono i conti, e a chi tocca, tocca.»
«Quello che protegge i fornai,» gridava una voce sonora, che attirò l’attenzione di Renzo, «è il vicario di provvisione.»
«Son tutti birboni,» diceva un vicino.
«Sì; ma il capo è lui,» replicava il primo.
Il vicario di provvisione, eletto ogn’anno dal governatore tra sei nobili proposti dal Consiglio de’ decurioni, era il presidente di questo, e del tribunale di provvisione; il quale, composto di dodici, anche questi nobili, aveva, con altre attribuzioni, quella principalmente dell’annona. Chi occupava un tal posto doveva necessariamente, in tempi di fame e d’ignoranza, esser detto l’autore de’ mali: meno che non avesse fatto ciò che fece Ferrer; cosa che non era nelle sue facoltà, se anche fosse stata nelle sue idee.
«Scellerati!» esclamava un altro: «si può far di peggio? sono arrivati a dire che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per levargli il credito, e comandar loro soli. Bisognerebbe fare una gran stia, e metterli dentro, a viver di vecce e di loglio, come volevano trattar noi.
«Pane eh?» diceva uno che cercava d’andar in fretta: «sassate di libbra: pietre di questa fatta, che venivan giù come la grandine. E che schiacciata di costole! Non vedo l’ora d’essere a casa mia.»
Tra questi discorsi, dai quali non saprei dire se fosse più informato o sbalordito, e tra gli urtoni, arrivò Renzo finalmente davanti a quel forno. La gente era già molto diradata, dimodoché poté contemplare il brutto e recente soqquadro. Le mura scalcinate e ammaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta.
“Questa poi non è una bella cosa», disse Renzo tra sé: «se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne’ pozzi?”
Ogni tanto, usciva dalla bottega qualcheduno che portava un pezzo di cassone, o di madia, o di frullone, la stanga d’una gramola, una panca, una paniera, un libro di conti, qualche cosa in somma di quel povero forno; e gridando: «largo, largo,» passava tra la gente. Tutti questi s’incamminavano dalla stessa parte, e a un luogo convenuto, si vedeva. “Cos’è quest’altra storia?” pensò di nuovo Renzo; e andò dietro a uno che, fatto un fascio d’asse spezzate e di schegge, se lo mise in ispalla, avviandosi, come gli altri, per la strada che costeggia il fianco settentrionale del duomo, e ha preso nome dagli scalini che c’erano, e da poco in qua non ci son più. La voglia d’osservar gli avvenimenti non poté fare che il montanaro, quando gli si scoprì davanti la gran mole, non si soffermasse a guardare in su, con la bocca aperta. Studiò poi il passo, per raggiunger colui che aveva preso come per guida; voltò il canto, diede un’occhiata anche alla facciata del duomo, rustica allora in gran parte e ben lontana dal compimento; e sempre dietro a colui, che andava verso il mezzo della piazza. La gente era più fitta quanto più s’andava avanti, ma al portatore gli si faceva largo: egli fendeva l’onda del popolo, e Renzo, standogli sempre attaccato, arrivò con lui al centro della folla. Lì c’era uno spazio vòto, e in mezzo, un mucchio di brace, reliquie degli attrezzi detti di sopra. All’intorno era un batter di mani e di piedi, un frastono di mille grida di trionfo e d’imprecazione.
L’uomo del fascio lo buttò su quel mucchio; un altro, con un mozzicone di pala mezzo abbruciacchiato, sbracia il fuoco: il fumo cresce e s’addensa; la fiamma si ridesta; con essa le grida sorgon più forti. «Viva l’abbondanza! Moiano gli affamatori! Moia la carestia! Crepi la Provvisione! Crepi la giunta! Viva il pane!»
Veramente, la distruzion de’ frulloni e delle madie, la devastazion de’ forni, e lo scompiglio de’ fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva. Però, senza essere un gran metafisico, un uomo ci arriva talvolta alla prima, finch’è nuovo nella questione; e solo a forza di parlarne, e di sentirne parlare, diventerà inabile anche a intenderle. A Renzo in fatti quel pensiero gli era venuto, come abbiam visto, da principio, e gli tornava ogni momento. Lo tenne per altro in sé; perché, di tanti visi, non ce n’era uno che sembrasse dire: fratello, se fallo, correggimi, che l’avrò caro.
Già era di nuovo finita la fiamma; non si vedeva più venir nessuno con altra materia, e la gente cominciava a annoiarsi; quando si sparse la voce, che, al Cordusio (una piazzetta o un crocicchio non molto distante di lì), s’era messo l’assedio a un forno. Spesso, in simili circostanze, l’annunzio d’una cosa la fa essere. Insieme con quella voce, si diffuse nella moltitudine una voglia di correr là: «io vo; tu, vai? vengo; andiamo,» si sentiva per tutto: la calca si rompe, e diventa una processione. Renzo rimaneva indietro, non movendosi quasi, se non quanto era strascinato dal torrente; e teneva intanto consiglio in cuor suo, se dovesse uscir dal baccano, e ritornare al convento, in cerca del padre Bonaventura, o andare a vedere anche quest’altra. Prevalse di nuovo la curiosità. Però risolvette di non cacciarsi nel fitto della mischia, a farsi ammaccar l’ossa, o a risicar qualcosa di peggio; ma di tenersi in qualche distanza, a osservare. E trovandosi già un poco al largo, si levò di tasca il secondo pane, e attaccandoci un morso, s’avviò alla coda dell’esercito tumultuoso.
Questo, dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di là, per quell’arco a sbieco, nella piazza de’ Mercanti. E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dell’edifizio chiamato allora il collegio de’ dottori, non dessero un’occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia.
Quella statua non c’è più, per un caso singolare. Circa cento settant’anni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d’anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l’avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva!
Dalla piazza de’ Mercanti, la marmaglia insaccò, per quell’altr’arco, nella via de’ fustagnai, e di lì si sparpagliò nel Cordusio. Ognuno, al primo sboccarvi, guardava subito verso il forno ch’era stato indicato. Ma in vece della moltitudine d’amici che s’aspettavano di trovar lì già al lavoro, videro soltanto alcuni starsene, come esitando, a qualche distanza della bottega, la quale era chiusa, e alle finestre gente armata, in atto di star pronti a difendersi. A quella vista, chi si maravigliava, chi sagrava, chi rideva; chi si voltava, per informar quelli che arrivavan via via; chi si fermava, chi voleva tornare indietro, chi diceva: «avanti, avanti». C’era un incalzare e un rattenere, come un ristagno, una titubazione, un ronzìo confuso di contrasti e di consulte. In questa, scoppiò di mezzo alla folla una maledetta voce: «c’è qui vicino la casa del vicario di provvisione: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco». Parve il rammentarsi comune d’un concerto preso, piuttosto che l’accettazione d’una proposta. «Dal vicario! dal vicario!» –è il solo grido che si possa sentire. La turba si move, tutta insieme, verso la strada dov’era la casa nominata in un così cattivo punto.
* El prestin di scansc.

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Il tumulto di San Martino, avvenuto realmente l’11 novembre del 1628, viene descritto, infatti più che da narratore da storico: dapprima infatti ne disegna la piena responsabilità alla guerra, quindi alla “insensata” politica economica, figlie ambedue della dissennata, secondo lo scrittore milanese, politica spagnola in Italia. E’ una pagina vista con gli occhi di un uomo colto, che osserva dall’alto, in modo razionale e illuministico, le storture che al posto di porre rimedio, esasperano la mancanza di pane. L’esempio più lampante è nella logicità, guidata dal buon senso, secondo cui un prezzo è determinato dalla quantità del prodotto: se pane ve n’è poco, metterlo a prezzo basso, significa “consumarlo” indiscriminatamente, tanto da ridurre la sua presenza nel mercato. Sempre da uomo colto, quindi, Manzoni volge l’attenzione al popolo, il quale, non conoscendo l’economia, ma anche privando la massa di buon senso, addita la mancanza di pane come frutto di ruberie e di profitto da parte dei fornai. Da qui la violenza. Il cattolico Manzoni teme la violenza popolare come arma politica (il giacobinismo francese è appena alle spalle) soprattutto in quanto priva di progettualità e con la capacità di porsi come guida per una rivoluzione sociale. Niente di più lontano per lo scrittore milanese. D’altra parte, nella sua prospettiva cattolica, la violenza sembra essere il frutto proprio di una istintualità, che, priva di ragione, sembra essere presieduta da Lucifero stesso:

Spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse.

d’altra parte non bisogna dimenticare che il pane ha in sé un forte valore simbolico/sacrale.

Giuseppe_Ripamonti,_Ioseph_Ripamontius_(1573-1643).jpg

Giuseppe Ripamonti, storico milanese

CAPITOLO XXXI-XXXII
LA PESTE

La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia. Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s’intende, anzi in Milano quasi esclusivamente: ché della città quasi esclusivamente trattano le memorie del tempo, come a un di presso accade sempre e per tutto, per buone e per cattive ragioni. E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto.
Delle molte relazioni contemporanee, non ce n’è alcuna che basti da sé a darne un’idea un po’ distinta e ordinata; come non ce n’è alcuna che non possa aiutare a formarla. In ognuna di queste relazioni, senza eccettuarne quella del Ripamonti, la quale le supera tutte, per la quantità e per la scelta de’ fatti, e ancor più per il modo d’osservarli, in ognuna sono omessi fatti essenziali, che son registrati in altre; in ognuna ci sono errori materiali, che si posson riconoscere e rettificare con l’aiuto di qualche altra, o di que’ pochi atti della pubblica autorità, editi e inediti, che rimangono; spesso in una si vengono a trovar le cagioni di cui nell’altra s’eran visti, come in aria, gli effetti.
In tutte poi regna una strana confusione di tempi e di cose; è un continuo andare e venire, come alla ventura, senza disegno generale, senza disegno ne’ particolari: carattere, del resto, de’ più comuni e de’ più apparenti ne’ libri di quel tempo, principalmente in quelli scritti in lingua volgare, almeno in Italia; se anche nel resto d’Europa, i dotti lo sapranno, noi lo sospettiamo. Nessuno scrittore d’epoca posteriore s’è proposto d’esaminare e di confrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicché l’idea che se ne ha generalmente, dev’essere, di necessità, molto incerta, e un po’ confusa: un’idea indeterminata di gran mali e di grand’errori (e per verità ci fu dell’uno e dell’altro, al di là di quel che si possa immaginare), un’idea composta più di giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado scompagnati dalle circostanze più caratteristiche, senza distinzion di tempo, cioè senza intelligenza di causa e d’effetto, di corso, di progressione. Noi, esaminando e confrontando, con molta diligenza se non altro, tutte le relazioni stampate, più d’una inedita, molti (in ragione del poco che ne rimane) documenti, come dicono, ufiziali, abbiam cercato di farne non già quel che si vorrebbe, ma qualche cosa che non è stato ancor fatto. Non intendiamo di riferire tutti gli atti pubblici, e nemmeno tutti gli avvenimenti degni, in qualche modo, di memoria. Molto meno pretendiamo di rendere inutile a chi voglia farsi un’idea più compita della cosa, la lettura delle relazioni originali: sentiamo troppo che forza viva, propria e, per dir così, incomunicabile, ci sia sempre nell’opere di quel genere, comunque concepite e condotte. Solamente abbiam tentato di distinguere e di verificare i fatti più generali e più importanti, di disporli nell’ordine reale della loro successione, per quanto lo comporti la ragione e la natura d’essi, d’osservare la loro efficienza reciproca, e di dar così, per ora e finché qualchedun altro non faccia meglio, una notizia succinta, ma sincera e continuata, di quel disastro.
Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall’esercito, s’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi. C’era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que’ pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatré anni avanti, aveva desolata pure una buona parte d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d’un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d’un uomo, perché a quest’uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de’ mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti que’ guai, perché in tutti l’ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d’una calamità per tutti, far per quest’uomo come un’impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta.
Il protofisico Lodovico Settala, che, non solo aveva veduta quella peste, ma n’era stato uno de’ più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovinissimo, de’ più riputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all’erta e sull’informazioni, riferì, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione, come si ha dal Ragguaglio del Tadino.
Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt’e due, “o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste”; ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace.
Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del tribunale. Quando questi giunsero, il male s’era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca. Scorsero il territorio di Lecco, la Valsassina, le coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza, e la Gera d’Adda; e per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all’entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi: “et ci parevano, – dice il Tadino, – tante creature seluatiche, portando in mano chi l’herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla d’aceto”. S’informarono del numero de’ morti: era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza. Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d’ottobre, “si dispose”, dice il medesimo Tadino, a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da’ paesi dove il contagio s’era manifestato; “et mentre si compilaua la grida”, ne diede anticipatamente qualche ordine sommario a’ gabellieri.
Intanto i delegati presero in fretta e in furia quelle misure che parver loro migliori; e se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso.
Arrivati il 14 di novembre, dato ragguaglio, a voce e di nuovo in iscritto, al tribunale, ebbero da questo commissione di presentarsi al governatore, e d’esporgli lo stato delle cose. V’andarono, e riportarono: aver lui di tali nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas. Così il Ripamonti, il quale aveva spogliati i registri della Sanità, e conferito col Tadino, incaricato specialmente della missione: era la seconda, se il lettore se ne ricorda, per quella causa, e con quell’esito. Due o tre giorni dopo, il 18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d’un gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla.
Era quest’uomo, come già s’è detto, il celebre Ambrogio Spinola, mandato per raddirizzar quella guerra e riparare agli errori di don Gonzalo, e incidentemente, a governare; e noi pure possiamo qui incidentemente rammentar che morì dopo pochi mesi, in quella stessa guerra che gli stava tanto a cuore; e morì, non già di ferite sul campo, ma in letto, d’affanno e di struggimento, per rimproveri, torti, disgusti d’ogni specie ricevuti da quelli a cui serviva. La storia ha deplorata la sua sorte, e biasimata l’altrui sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l’attività, la costanza: poteva anche cercare cos’abbia fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura, o piuttosto in balìa.
Ma ciò che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quella sua condotta, ciò che fa nascere un’altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All’arrivo di quelle nuove de’ paesi che n’erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla. La penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de’ decurioni, in ogni magistrato.
Trovo che il cardinal Federigo, appena si riseppero i primi casi di mal contagioso, prescrisse, con lettera pastorale a’ parrochi, tra le altre cose, che ammonissero più e più volte i popoli dell’importanza e dell’obbligo stretto di rivelare ogni simile accidente, e di consegnar le robe infette o sospette: e anche questa può essere contata tra le sue lodevoli singolarità.
Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici che, persuasi della gravità e dell’imminenza del pericolo, stimolavan quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri.
Abbiam già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano.
Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso: e infatti, nell’osservare i princìpi d’una vasta mortalità, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno indicare all’incirca, per il numero delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di conoscere que’ primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza nell’esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile.
L’uno e l’altro storico dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna; nel resto non sono ben d’accordo, neppur sul nome. Fu, secondo il Tadino, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di Lecco; secondo il Ripamonti, un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna. Differiscono anche nel giorno della sua entrata in Milano: il primo la mette al 22 d’ottobre, il secondo ad altrettanti del mese seguente: e non si può stare né all’uno né all’altro. Tutt’e due l’epoche sono in contraddizione con altre ben più verificate. Eppure il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio generale de’ decurioni, doveva avere al suo comando molti mezzi di prender l’informazioni necessarie; e il Tadino, per ragione del suo impiego, poteva, meglio d’ogn’altro, essere informato d’un fatto di questo genere. Del resto, dal riscontro d’altre date che ci paiono, come abbiam detto, più esatte, risulta che fu, prima della pubblicazione della grida sulle bullette; e, se ne mettesse conto, si potrebbe anche provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese; ma certo, il lettore ce ne dispensa.
Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, s’ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch’era infatti; il quarto giorno morì.
Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati. Due serventi che l’avevano avuto in cura, e un buon frate che l’aveva assistito, caddero anch’essi ammalati in pochi giorni, tutt’e tre di peste. Il dubbio che in quel luogo s’era avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più. Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare. Il primo a cui s’attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d’ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s’ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio.
Nella città, quello che già c’era stato disseminato da costoro, da’ loro panni, da’ loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello che c’entrava di nuovo, per l’imperfezion degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli, e per la destrezza nell’eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell’anno, e ne’ primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso.
Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s’ebbero, con danari, falsi attestati.
Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mormorazione del pubblico, «della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe», dice il Tadino; persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. L’odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, d’affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d’incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, e d’essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria: pro patriae hostibus, dice il Ripamonti.
Di quell’odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d’ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento.
Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato professore di medicina all’università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre d’altre università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova, e per il rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla riputazione della scienza s’aggiungeva quella della vita, e all’ammirazione la benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel beneficare i poveri. E, una cosa che in noi turba e contrista il sentimento di stima ispirato da questi meriti, ma che allora doveva renderlo più generale e più forte, il pover’uomo partecipava de’ pregiudizi più comuni e più funesti de’ suoi contemporanei: era più avanti di loro, ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che attira i guai, e fa molte volte perdere l’autorità acquistata in altre maniere. Eppure quella grandissima che godeva, non solo non bastò a vincere, in questo caso, l’opinion di quello che i poeti chiamavan volgo profano, e i capocomici, rispettabile pubblico; ma non poté salvarlo dall’animosità e dagl’insulti di quella parte di esso che corre più facilmente da’ giudizi alle dimostrazioni e ai fatti.
Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per sorte era vicina. Questo gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone: quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei, allora ne avrà avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito.
Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale. Chiedeva esso di continuo anche danari per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del lazzeretto, di tanti altri servizi; e li chiedeva ai decurioni, intanto che fosse deciso (che non fu, credo, mai, se non col fatto) se tali spese toccassero alla città, o all’erario regio. Ai decurioni faceva pure istanza il gran cancelliere, per ordine anche del governatore, ch’era andato di nuovo a metter l’assedio a quel povero Casale; faceva istanza il senato, perché pensassero alla maniera di vettovagliar la città, prima che dilatandovisi per isventura il contagio, le venisse negato pratica dagli altri paesi; perché trovassero il mezzo di mantenere una gran parte della popolazione, a cui eran mancati i lavori. I decurioni cercavano di far danari per via d’imprestiti, d’imposte; e di quel che ne raccoglievano, ne davano un po’ alla Sanità, un po’ a’ poveri; un po’ di grano compravano: supplivano a una parte del bisogno. E le grandi angosce non erano ancor venute.
Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua impresa quella d’assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar le separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: ché, fin da’ primi momenti, c’era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de’ serventi. Il tribunale e i decurioni, non sapendo dove battere il capo, pensaron di rivolgersi ai cappuccini, e supplicarono il padre commissario della provincia, il quale faceva le veci del provinciale, morto poco prima, acciò volesse dar loro de’ soggetti abili a governare quel regno desolato. Il commissario propose loro, per principale, un padre Felice Casati, uomo d’età matura, il quale godeva una gran fama di carità, d’attività, di mansuetudine insieme e di fortezza d’animo, a quel che il seguito fece vedere, ben meritata; e per compagno e come ministro di lui, un padre Michele Pozzobonelli, ancor giovine, ma grave e severo, di pensieri come d’aspetto. Furono accettati con gran piacere; e il 30 di marzo, entrarono nel lazzeretto. Il presidente della Sanità li condusse in giro, come per prenderne il possesso; e, convocati i serventi e gl’impiegati d’ogni grado, dichiarò, davanti a loro, presidente di quel luogo il padre Felice, con primaria e piena autorità. Di mano in mano poi che la miserabile radunanza andò crescendo, v’accorsero altri cappuccini; e furono in quel luogo soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto ciò che occorresse. Il padre Felice, sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava di notte, per i portici, per le stanze, per quel vasto spazio interno, talvolta portando un’asta, talvolta non armato che di cilizio; animava e regolava ogni cosa; sedava i tumulti, faceva ragione alle querele, minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lacrime. Prese, sul principio, la peste; ne guarì, e si rimise, con nuova lena, alle cure di prima. I suoi confratelli ci lasciarono la più parte la vita, e tutti con allegrezza.
Certo, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per argomento, anzi per saggio d’una società molto rozza e mal regolata, il veder che quelli a cui toccava un così importante governo, non sapesser più farne altro che cederlo, né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, il più alieni da ciò. Ma è insieme un saggio non ignobile della forza e dell’abilità che la carità può dare in ogni tempo, e in qualunque ordin di cose, il veder quest’uomini sostenere un tal carico così bravamente. E fu bello lo stesso averlo accettato, senz’altra ragione che il non esserci chi lo volesse, senz’altro fine che di servire, senz’altra speranza in questo mondo, che d’una morte molto più invidiabile che invidiata; fu bello lo stesso esser loro offerto, solo perché era difficile e pericoloso, e si supponeva che il vigore e il sangue freddo, così necessario e raro in que’ momenti, essi lo dovevano avere. E perciò l’opera e il cuore di que’ frati meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa. «Che se questi Padri iui non si ritrouauano,» dice il Tadino, «al sicuro tutta la Città annichilata si trouaua; puoiché fu cosa miracolosa l’hauer questi Padri fatto in così puoco spatio di tempo tante cose per benefitio publico, che non hauendo hauuto agiutto, o almeno puoco dalla Città, con la sua industria et prudenza haueuano mantenuto nel Lazeretto tante migliaia de poueri». Le persone ricoverate in quel luogo, durante i sette mesi che il padre Felice n’ebbe il governo, furono circa cinquantamila, secondo il Ripamonti; il quale dice con ragione, che d’un uomo tale avrebbe dovuto ugualmente parlare, se in vece di descriver le miserie d’una città, avesse dovuto raccontar le cose che posson farle onore.
Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra’ poveri, cominciò a toccar persone più conosciute. E tra queste, come allora fu il più notato, così merita anche adesso un’espressa menzione il protofisico Settala. Avranno almen confessato che il povero vecchio aveva ragione? Chi lo sa? Caddero infermi di peste, lui, la moglie, due figliuoli, sette persone di servizio. Lui e uno de’ figliuoli n’usciron salvi; il resto morì. «Questi casi,» dice il Tadino, «occorsi nella Città in case Nobili, disposero la Nobiltà et la plebe a pensare, et gli increduli Medici, et la plebe ignorante et temeraria cominciò stringere le labra, chiudere li denti, et inarcare le ciglia».
Ma l’uscite, i ripieghi, le vendette, per dir così, della caparbietà convinta, sono alle volte tali da far desiderare che fosse rimasta ferma e invitta, fino all’ultimo, contro la ragione e l’evidenza: e questa fu bene una di quelle volte. Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que’ mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand’inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa in campo.
Per disgrazia, ce n’era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d’Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe. Già cose tali, o somiglianti, erano state supposte e credute in molte altre pestilenze, e qui segnatamente, in quella di mezzo secolo innanzi. S’aggiunga che, fin dall’anno antecedente, era venuto un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo ch’erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all’erta, se mai coloro fossero capitati a Milano. Il governatore aveva comunicato il dispaccio al senato e al tribunale della sanità; né, per allora, pare che ci si badasse più che tanto. Però, scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti quell’avviso poté servir di conferma al sospetto indeterminato d’una frode scellerata; poté anche essere la prima occasione di farlo nascere.
Ma due fatti, l’uno di cieca e indisciplinata paura, l’altro di non so quale cattività, furon quelli che convertirono quel sospetto indeterminato d’un attentato possibile, in sospetto, e per molti in certezza, d’un attentato positivo, e d’una trama reale. Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito che serviva a dividere gli spazi assegnati a’ due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l’assito e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità, accorso a far la visita, con quattro persone dell’ufizio, avendo visitato l’assito, le panche, le pile dell’acqua benedetta, senza trovar nulla che potesse confermare l’ignorante sospetto d’un attentato venefico, avesse, per compiacere all’immaginazioni altrui, e più tosto per abbondare in cautela, che per bisogno, avesse, dico, deciso che bastava dar una lavata all’assito. Quel volume di roba accatastata produsse una grand’impressione di spavento nella moltitudine, per cui un oggetto diventa così facilmente un argomento. Si disse e si credette generalmente che fossero state unte in duomo tutte le panche, le pareti, e fin le corde delle campane. Né si disse soltanto allora: tutte le memorie de’ contemporanei che parlano di quel fatto (alcune scritte molt’anni dopo), ne parlano con ugual sicurezza: e la storia sincera di esso, bisognerebbe indovinarla, se non si trovasse in una lettera del tribunale della sanità al governatore, che si conserva nell’archivio detto di san Fedele; dalla quale l’abbiamo cavata, e della quale sono le parole che abbiam messe in corsivo.
La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de’ cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. O sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un più reo disegno d’accrescer la pubblica confusione, o non saprei che altro; la cosa è attestata di maniera, che ci parrebbe men ragionevole l’attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d’alcuni: fatto, del resto, che non sarebbe stato, né il primo né l’ultimo di tal genere. Il Ripamonti, che spesso, su questo particolare dell’unzioni, deride, e più spesso deplora la credulità popolare, qui afferma d’aver veduto quell’impiastramento, e lo descrive. Nella lettera sopraccitata, i signori della Sanità raccontan la cosa ne’ medesimi termini; parlan di visite, d’esperimenti fatti con quella materia sopra de’ cani, e senza cattivo effetto; aggiungono, esser loro opinione, che cotale temerità sia più tosto proceduta da insolenza, che da fine scelerato: pensiero che indica in loro, fino a quel tempo, pacatezza d’animo bastante per non vedere ciò che non ci fosse stato. L’altre memorie contemporanee, raccontando la cosa, accennano anche, essere stata, sulle prime, opinion di molti, che fosse fatta per burla, per bizzarria; nessuna parla di nessuno che la negasse; e n’avrebbero parlato certamente, se ce ne fosse stati; se non altro, per chiamarli stravaganti. Ho creduto che non fosse fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari, in parte poco noti, in parte affatto ignorati, d’un celebre delirio; perché, negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l’apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle.
La città già agitata ne fu sottosopra: i padroni delle case, con paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; i passeggieri si fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano. I forestieri, sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia. Si fecero interrogatòri, esami d’arrestati, d’arrestatori, di testimoni; non si trovò reo nessuno: le menti erano ancor capaci di dubitare, d’esaminare, d’intendere. Il tribunale della sanità pubblicò una grida, con la quale prometteva premio e impunità a chi mettesse in chiaro l’autore o gli autori del fatto. Ad ogni modo non parendoci conueniente, dicono que’ signori nella citata lettera, che porta la data del 21 di maggio, ma che fu evidentemente scritta il 19, giorno segnato nella grida stampata, che questo delitto in qualsiuoglia modo resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso, per consolatione e quiete di questo Popolo, e per cauare indicio del fatto, habbiamo oggi publicata grida, etc. Nella grida stessa però, nessun cenno, almen chiaro, di quella ragionevole e acquietante congettura, che partecipavano al governatore: silenzio che accusa a un tempo una preoccupazione furiosa nel popolo, e in loro una condiscendenza, tanto più biasimevole, quanto più poteva esser perniciosa.
Mentre il tribunale cercava, molti nel pubblico, come accade, avevan già trovato. Coloro che credevano esser quella un’unzione velenosa, chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova, per gl’insulti ricevuti nella sua partenza, chi un ritrovato del cardinal di Richelieu, per spopolar Milano, e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto, Wallenstein, questo, quell’altro gentiluomo milanese. Non mancavan, come abbiam detto, di quelli che non vedevano in quel fatto altro che uno sciocco scherzo, e l’attribuivano a scolari, a signori, a ufiziali che s’annoiassero all’assedio di Casale. Il non veder poi, come si sarà temuto, che ne seguisse addirittura un infettamento, un eccidio universale, fu probabilmente cagione che quel primo spavento s’andasse per allora acquietando, e la cosa fosse o paresse messa in oblìo.
C’era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci fosse. E perché, tanto nel lazzeretto, come per la città, alcuni pur ne guarivano, «si diceua» (gli ultimi argomenti d’una opinione battuta dall’evidenza son sempre curiosi a sapersi), «si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perché tutti sarebbero morti». Per levare ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In una delle feste della Pentecoste, usavano i cittadini di concorrere al cimitero di San Gregorio, fuori di Porta Orientale, a pregar per i morti dell’altro contagio, ch’eran sepolti là; e, prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, ci andavano, ognuno più in gala che potesse. Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla.
In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro. Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.
Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire.

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Divenendo sempre più difficile il supplire all’esigenze dolorose della circostanza, era stato, il 4 di maggio, deciso nel consiglio de’ decurioni, di ricorrer per aiuto al governatore. E, il 22, furono spediti al campo due di quel corpo, che gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese enormi, le casse vote, le rendite degli anni avvenire impegnate, le imposte correnti non pagate, per la miseria generale, prodotta da tante cause, e dal guasto militare in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e consuetudini non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della peste dovevan essere a carico del fisco: in quella del 1576 avere il governatore, marchese d’Ayamonte, non solo sospese tutte le imposizioni camerali, ma data alla città una sovvenzione di quaranta mila scudi della stessa Camera; chiedessero finalmente quattro cose: che l’imposizioni fossero sospese, come s’era fatto allora; la Camera desse danari; il governatore informasse il re, delle miserie della città e della provincia; dispensasse da nuovi alloggiamenti militari il paese già rovinato dai passati. Il governatore scrisse in risposta condoglianze, e nuove esortazioni: dispiacergli di non poter trovarsi nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma sperare che a tutto avrebbe supplito lo zelo di que’ signori: questo essere il tempo di spendere senza risparmio, d’ingegnarsi in ogni maniera. In quanto alle richieste espresse, proueeré en el mejor modo que el tiempo y necesidades presentes permitieren. E sotto, un girigogolo, che voleva dire Ambrogio Spinola, chiaro come le sue promesse. Il gran cancelliere Ferrer gli scrisse che quella risposta era stata letta dai decurioni, con gran desconsuelo; ci furono altre andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne venisse a più strette conclusioni. Qualche tempo dopo, nel colmo della peste, il governatore trasferì, con lettere patenti, la sua autorità a Ferrer medesimo, avendo lui, come scrisse, da pensare alla guerra. La quale, sia detto qui incidentemente, dopo aver portato via, senza parlar de’ soldati, un milion di persone, a dir poco, per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano, il Piemonte, la Toscana, e una parte della Romagna; dopo aver desolati, come s’è visto di sopra, i luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo la presa e il sacco atroce di Mantova; finì con riconoscerne tutti il nuovo duca, per escludere il quale la guerra era stata intrapresa. Bisogna però dire che fu obbligato a cedere al duca di Savoia un pezzo del Monferrato, della rendita di quindici mila scudi, e a Ferrante duca di Guastalla altre terre, della rendita di sei mila; e che ci fu un altro trattato a parte e segretissimo, col quale il duca di Savoia suddetto cedé Pinerolo alla Francia: trattato eseguito qualche tempo dopo, sott’altri pretesti, e a furia di furberie.
Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un’altra: di chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo.
Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo. Temeva di più, che, se pur c’era di questi untori, la processione fosse un’occasion troppo comoda al delitto: se non ce n’era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale. Ché il sospetto sopito dell’unzioni s’era intanto ridestato, più generale e più furioso di prima.
S’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d’ingegno, le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d’appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d’atroce. Vi s’aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s’eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi: ora l’arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell’infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch’era stata una burla, chi avesse negata l’esistenza d’una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d’uomo interessato a stornar dal vero l’attenzion del pubblico, di complice, d’untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all’erta; ogni atto poteva dar gelosia.
E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore.
Due fatti ne adduce in prova il Ripamonti, avvertendo d’averli scelti, non come i più atroci tra quelli che seguivano giornalmente, ma perché dell’uno e dell’altro era stato pur troppo testimonio. Nella chiesa di sant’Antonio, un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. «Quel vecchio unge le panche!» gridarono a una voce alcune donne che vider l’atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com’erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture. «Io lo vidi mentre lo strascinavan così,» dice il Ripamonti: «e non ne seppi più altro: credo bene che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento».
L’altro caso (e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non ugualmente funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico, venuti per veder l’Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarvi occasion di guadagno, s’erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì guardando attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d’occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch’era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch’era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti, a furia di percosse, alle carceri. Per buona sorte, il palazzo di giustizia è poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati innocenti, e rilasciati.
Né tali cose accadevan soltanto in città: la frenesia s’era propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de’ contadini, fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido d’un ragazzo, si sonava a martello, s’accorreva; gl’infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione. Così il Ripamonti medesimo. E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto di salvamento.
Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavan replicando le loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente. Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello che poté il senno d’un uomo, contro la forza de’ tempi, e l’insistenza di molti. In quello stato d’opinioni, con l’idea del pericolo, confusa com’era allora, contrastata, ben lontana dall’evidenza che ci si trova ora, non è difficile a capire come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive degli altri. Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po’ di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano. Certo, se in alcun caso par che si possa dare in tutto l’errore all’intelletto, e scusarne la coscienza, è quando si tratti di que’ pochi (e questo fu ben del numero), nella vita intera de’ quali apparisca un ubbidir risoluto alla coscienza, senza riguardo a interessi temporali di nessun genere. Al replicar dell’istanze, cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov’eran rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto giorni, sull’altar maggiore del duomo.
Non trovo che il tribunale della sanità, né altri, facessero rimostranza né opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore. Prescrisse più strette regole per l’entrata delle persone in città; e, per assicurarne l’esecuzione, fece star chiuse le porte: come pure, affine d’escludere, per quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in un fatto di questa sorte, la semplice affermazione d’uno scrittore, e d’uno scrittore di quel tempo, eran circa cinquecento.
Tre giorni furono spesi in preparativi: l’undici di giugno, ch’era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l’arti, precedute da’ loro gonfaloni, le confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno con l’insegne del grado, e con una candela o un torcetto in mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell’antico sembiante, quale lo rappresentano l’immagini, quale alcuni si ricordavan d’averlo visto e onorato in vita. Dietro la spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti, da cui principalmente prendiamo questa descrizione), e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, così ora anche di persona, veniva l’arcivescovo Federigo. Seguiva l’altra parte del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili, quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di culto, quali, in segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa sul viso; tutti con torcetti. Finalmente una coda d’altro popolo misto.
Tutta la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le suppellettili più preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da de’ vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove sopra i parati, c’eran de’ rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni, imprese; su’ davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, rarità diverse; per tutto lumi. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati guardavan la processione, e l’accompagnavano con le loro preci. L’altre strade, mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l’orecchio al ronzìo vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran saliti sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il corteggio, qualche cosa.
La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno.
Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, né appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all’occhio così attento, e pur così travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su’ muri, né altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell’altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d’Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de’ vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi. «Vide pertanto,» dice uno scrittore contemporaneo, «l’istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l’empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l’acquisto». Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sé.
Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un’altra lettera de’ conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma che, «per le diligenze fatte», dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de’ morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da’ registri civici, oltre quelli di cui non si poté tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso.
Si pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai quali era rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di riparare a ciò che c’era di riparabile in un tal disastro. Bisognava ogni giorno sostituire, ogni giorno aumentare serventi pubblici di varie specie: monatti, apparitori, commissari. I primi erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta. Il nome, vuole il Ripamonti che venga dal greco monos; Gaspare Bugatti (in una descrizion della peste antecedente), dal latino monere; ma insieme dubita, con più ragione, che sia parola tedesca, per esser quegli uomini arrolati la più parte nella Svizzera e ne’ Grigioni. Né sarebbe infatti assurdo il crederlo una troncatura del vocabolo monathlich (mensuale); giacché, nell’incertezza di quanto potesse durare il bisogno, è probabile che gli accordi non fossero che di mese in mese. L’impiego speciale degli apparitori era di precedere i carri, avvertendo, col suono d’un campanello, i passeggieri, che si ritirassero. I commissari regolavano gli uni e gli altri, sotto gli ordini immediati del tribunale della sanità. Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si fecero a quest’effetto costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzeretto; se ne piantò un nuovo, tutto di capanne, cinto da un semplice assito, e capace di contener quattromila persone. E non bastando, ne furon decretati due altri; ci si mise anche mano; ma, per mancanza di mezzi d’ogni genere, rimasero in tronco. I mezzi, le persone, il coraggio, diminuivano di mano in mano che il bisogno cresceva.
E non solo l’esecuzione rimaneva sempre addietro de’ progetti e degli ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva scarsamente, anche in parole; s’arrivò a quest’eccesso d’impotenza e di disperazione, che a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si provvedeva in nessuna maniera. Moriva, per esempio, d’abbandono una gran quantità di bambini, ai quali eran morte le madri di peste: la Sanità propose che s’istituisse un ricovero per questi e per le partorienti bisognose, che qualcosa si facesse per loro; e non poté ottener nulla. «Si doueua non di meno,» dice il Tadino, «compatire ancora alli Decurioni della Città, li quali si trouauano afflitti, mesti et lacerati dalla Soldatesca senza regola, et rispetto alcuno; come molto meno nell’infelice Ducato, atteso che aggiutto alcuno, né prouisione si poteua hauere dal Gouernatore, se non che si trouaua tempo di guerra, et bisognaua trattar bene li Soldati». Tanto importava il prender Casale! Tanto par bella la lode del vincere, indipendentemente dalla cagione, dallo scopo per cui si combatta!
Così pure, trovandosi colma di cadaveri un’ampia, ma unica fossa, ch’era stata scavata vicino al lazzeretto; e rimanendo, non solo in quello, ma in ogni parte della città, insepolti i nuovi cadaveri, che ogni giorno eran di più, i magistrati, dopo avere invano cercato braccia per il tristo lavoro, s’eran ridotti a dire di non saper più che partito prendere. Né si vede come sarebbe andata a finire, se non veniva un soccorso straordinario. Il presidente della Sanità ricorse, per disperato, con le lacrime agli occhi, a que’ due bravi frati che soprintendevano al lazzeretto; e il padre Michele s’impegnò a dargli, in capo a quattro giorni, sgombra la città di cadaveri; in capo a otto, aperte fosse sufficienti, non solo al bisogno presente, ma a quello che si potesse preveder di peggio nell’avvenire. Con un frate compagno, e con persone del tribunale, dategli dal presidente, andò fuor della città, in cerca di contadini; e, parte con l’autorità del tribunale, parte con quella dell’abito e delle sue parole, ne raccolse circa dugento, ai quali fece scavar tre grandissime fosse; spedì poi dal lazzeretto monatti a raccogliere i morti; tanto che, il giorno prefisso, la sua promessa si trovò adempita.
Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e d’onori, a fatica e non subito, se ne poté avere; ma molto men del bisogno. Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che ci s’avesse a morire anche di fame; e più d’una volta, mentre non si sapeva più dove batter la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per inaspettato dono di misericordia privata: ché, in mezzo allo stordimento generale, all’indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sé, ci furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furon degli altri in cui la carità nacque al cessare d’ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce ne furono alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci furon pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente le cure a cui non eran chiamati per impiego.
Dove spiccò una più generale e più pronta e costante fedeltà ai doveri difficili della circostanza, fu negli ecclesiastici. Ai lazzeretti, nella città, non mancò mai la loro assistenza: dove si pativa, ce n’era; sempre si videro mescolati, confusi co’ languenti, co’ moribondi, languenti e moribondi qualche volta loro medesimi; ai soccorsi spirituali aggiungevano, per quanto potessero, i temporali; prestavano ogni servizio che richiedessero le circostanze. Più di sessanta parrochi, della città solamente, moriron di contagio: gli otto noni, all’incirca.
Federigo dava a tutti, com’era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio. Mortagli intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e facendogli istanza parenti, alti magistrati, principi circonvicini, che s’allontanasse dal pericolo, ritirandosi in qualche villa, rigettò un tal consiglio, e resistette all’istanze, con quell’animo, con cui scriveva ai parrochi: «siate disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo.» Non trascurò quelle cautele che non gl’impedissero di fare il suo dovere (sulla qual cosa diede anche istruzioni e regole al clero); e insieme non curò il pericolo, né parve che se n’avvedesse, quando, per far del bene, bisognava passar per quello. Senza parlare degli ecclesiastici, coi quali era sempre per lodare e regolare il loro zelo, per eccitare chiunque di loro andasse freddo nel lavoro, per mandarli ai posti dove altri eran morti, volle che fosse aperto l’adito a chiunque avesse bisogno di lui. Visitava i lazzeretti, per dar consolazione agl’infermi, e per animare i serventi; scorreva la città, portando soccorsi ai poveri sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio parole di consolazione e di coraggio. Si cacciò in somma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d’esserne uscito illeso.
Così, ne’ pubblici infortuni, e nelle lunghe perturbazioni di quel qual si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù; ma, pur troppo, non manca mai insieme un aumento, e d’ordinario ben più generale, di perversità.
E questo pure fu segnalato. I birboni che la peste risparmiava e non atterriva, trovarono nella confusion comune, nel rilasciamento d’ogni forza pubblica, una nuova occasione d’attività, e una nuova sicurezza d’impunità a un tempo. Che anzi, l’uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran parte nelle mani de’ peggiori tra loro. All’impiego di monatti e d’apparitori non s’adattavano generalmente che uomini sui quali l’attrattiva delle rapine e della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni naturale ribrezzo. Erano a costoro prescritte strettissime regole, intimate severissime pene, assegnati posti, dati per superiori de’ commissari, come abbiam detto; sopra questi e quelli eran delegati in ogni quartiere, magistrati e nobili, con l’autorità di provveder sommariamente a ogni occorrenza di buon governo. Un tal ordin di cose camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo, ogni giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via, di quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi più nessuno che li tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d’ogni cosa. Entravano da padroni, da nemici nelle case, e, senza parlar de’ rubamenti, e come trattavano gl’infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le mettevano, quelle mani infette e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non venivano riscattati con danari. Altre volte, mettevano a prezzo i loro servizi, ricusando di portar via i cadaveri già putrefatti, a meno di tanti scudi. Si disse (e tra la leggerezza degli uni e la malvagità degli altri, è ugualmente malsicuro il credere e il non credere), si disse, e l’afferma anche il Tadino, che monatti e apparitori lasciassero cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta per essi un’entrata, un regno, una festa. Altri sciagurati, fingendosi monatti, portando un campanello attaccato a un piede, com’era prescritto a quelli, per distintivo e per avviso del loro avvicinarsi, s’introducevano nelle case a farne di tutte le sorte. In alcune, aperte e vote d’abitanti, o abitate soltanto da qualche languente, da qualche moribondo, entravan ladri, a man salva, a saccheggiare: altre venivan sorprese, invase da birri che facevan lo stesso, e anche cose peggiori.
Del pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dallo sbalordimento, e dall’agitazione delle menti, una forza straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti. E tutti servirono a rinforzare e a ingrandire quella paura speciale dell’unzioni, la quale, ne’ suoi effetti, ne’ suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto, un’altra perversità. L’immagine di quel supposto pericolo assediava e martirizzava gli animi, molto più che il pericolo reale e presente. «E mentre,» dice il Ripamonti, «i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra’ piedi, facevano della città tutta come un solo mortorio, c’era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell’accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti… Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio».
La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavan tutti i giudizi, alteravan tutte le ragioni della fiducia reciproca. Da principio, si credeva soltanto che quei supposti untori fosser mossi dall’ambizione e dalla cupidigia; andando avanti, si sognò, si credette che ci fosse una non so quale voluttà diabolica in quell’ungere, un’attrattiva che dominasse le volontà. I vaneggiamenti degl’infermi che accusavan se stessi di ciò che avevan temuto dagli altri, parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così, credibile d’ognuno. E più delle parole, dovevan far colpo le dimostrazioni, se accadeva che appestati in delirio andasser facendo di quegli atti che s’erano figurati che dovessero fare gli untori: cosa insieme molto probabile, e atta a dar miglior ragione della persuasion generale e dell’affermazioni di molti scrittori. Così, nel lungo e tristo periodo de’ processi per stregoneria, le confessioni, non sempre estorte, degl’imputati, non serviron poco a promovere e a mantener l’opinione che regnava intorno ad essa: ché, quando un’opinione regna per lungo tempo, e in una buona parte del mondo, finisce a esprimersi in tutte le maniere, a tentar tutte l’uscite, a scorrer per tutti i gradi della persuasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che una cosa strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di farla.
Tra le storie che quel delirio dell’unzioni fece immaginare, una merita che se ne faccia menzione, per il credito che acquistò, e per il giro che fece. Si raccontava, non da tutti nell’istessa maniera (che sarebbe un troppo singolar privilegio delle favole), ma a un di presso, che un tale, il tal giorno, aveva visto arrivar sulla piazza del duomo un tiro a sei, e dentro, con altri, un gran personaggio, con una faccia fosca e infocata, con gli occhi accesi, coi capelli ritti, e il labbro atteggiato di minaccia. Mentre quel tale stava intento a guardare, la carrozza s’era fermata; e il cocchiere l’aveva invitato a salirvi; e lui non aveva saputo dir di no. Dopo diversi rigiri, erano smontati alla porta d’un tal palazzo, dove entrato anche lui, con la compagnia, aveva trovato amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime sedute a consiglio. Finalmente, gli erano state fatte vedere gran casse di danaro, e detto che ne prendesse quanto gli fosse piaciuto, con questo però, che accettasse un vasetto d’unguento, e andasse con esso ungendo per la città. Ma, non avendo voluto acconsentire, s’era trovato, in un batter d’occhio, nel medesimo luogo dove era stato preso. Questa storia, creduta qui generalmente dal popolo, e, al dir del Ripamonti, non abbastanza derisa da qualche uomo di peso, girò per tutta Italia e fuori. In Germania se ne fece una stampa: l’elettore arcivescovo di Magonza scrisse al cardinal Federigo, per domandargli cosa si dovesse credere de’ fatti maravigliosi che si raccontavan di Milano; e n’ebbe in risposta ch’eran sogni.
D’ugual valore, se non in tutto d’ugual natura, erano i sogni de’ dotti; come disastrosi del pari n’eran gli effetti. Vedevano, la più parte di loro, l’annunzio e la ragione insieme de’ guai in una cometa apparsa l’anno 1628, e in una congiunzione di Saturno con Giove, «inclinando,» scrive il Tadino, «la congiontione sodetta sopra questo anno 1630, tanto chiara, che ciascun la poteua intendere. Mortales parat morbos, miranda videntur». Questa predizione, cavata, dicevano, da un libro intitolato Specchio degli almanacchi perfetti, stampato in Torino, nel 1623, correva per le bocche di tutti. Un’altra cometa, apparsa nel giugno dell’anno stesso della peste, si prese per un nuovo avviso; anzi per una prova manifesta dell’unzioni. Pescavan ne’ libri, e pur troppo ne trovavano in quantità, esempi di peste, come dicevano, manufatta: citavano Livio, Tacito, Dione, che dico? Omero e Ovidio, i molti altri antichi che hanno raccontati o accennati fatti somiglianti: di moderni ne avevano ancor più in abbondanza. Citavano cent’altri autori che hanno trattato dottrinalmente, o parlato incidentemente di veleni, di malìe, d’unti, di polveri: il Cesalpino, il Cardano, il Grevino, il Salio, il Pareo, lo Schenchio, lo Zachia e, per finirla, quel funesto Delrio, il quale, se la rinomanza degli autori fosse in ragione del bene e del male prodotto dalle loro opere, dovrebb’essere uno de’ più famosi; quel Delrio, le cui veglie costaron la vita a più uomini che l’imprese di qualche conquistatore: quel Delrio, le cui Disquisizioni Magiche (il ristretto di tutto ciò che gli uomini avevano, fino a’ suoi tempi, sognato in quella materia), divenute il testo più autorevole, più irrefragabile, furono, per più d’un secolo, norma e impulso potente di legali, orribili, non interrotte carnificine.
Da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia.
Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fin da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale l’aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d’occhio, per dir così, nel suo progresso, il quale aveva detto e predicato che l’era peste, e s’attaccava col contatto, che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese, vederlo poi, da questi effetti medesimi cavare argomento certo dell’unzioni venefiche e malefiche; lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di peste in Milano, aveva notato il delirio come un accidente della malattia, vederlo poi addurre in prova dell’unzioni e della congiura diabolica, un fatto di questa sorte: che due testimoni deponevano d’aver sentito raccontare da un loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e come al suo rifiuto quelli se n’erano andati, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, «che sino al far del giorno vi dimororno».
Se fosse stato uno solo che connettesse così, si dovrebbe dire che aveva una testa curiosa; o piuttosto non ci sarebbe ragion di parlarne; ma siccome eran molti, anzi quasi tutti, così è storia dello spirito umano, e dà occasion d’osservare quanto una serie ordinata e ragionevole d’idee possa essere scompigliata da un’altra serie d’idee, che ci si getti a traverso. Del resto, quel Tadino era qui uno degli uomini più riputati del suo tempo.
Due illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal Federigo dubitasse del fatto dell’unzioni. Noi vorremmo poter dare a quell’inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il buon prelato, in questo, come in tant’altre cose, superiore alla più parte de’ suoi contemporanei, ma siamo in vece costretti di notar di nuovo in lui un esempio della forza d’un’opinione comune anche sulle menti più nobili. S’è visto, almeno da quel che ne dice il Ripamonti, come da principio, veramente stesse in dubbio: ritenne poi sempre che in quell’opinione avesse gran parte la credulità, l’ignoranza, la paura, il desiderio di scusarsi d’aver così tardi riconosciuto il contagio, e pensato a mettervi riparo; che molto ci fosse d’esagerato, ma insieme, che qualche cosa ci fosse di vero. Nella biblioteca ambrosiana si conserva un’operetta scritta di sua mano intorno a quella peste; e questo sentimento c’è accennato spesso, anzi una volta enunciato espressamente. «Era opinion comune,» dice a un di presso, «che di questi unguenti se ne componesse in vari luoghi, e che molte fossero l’arti di metterlo in opera: delle quali alcune ci paion vere, altre inventate.»
Ci furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, che tutto fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro, ché nessuno fu abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo ribattono, come un pregiudizio d’alcuni, un errore che non s’attentava di venire a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva notizia per tradizione. «Ho trovato gente savia in Milano,» dice il buon Muratori, nel luogo sopraccitato, «che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi». Si vede ch’era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune.
I magistrati, scemati ogni giorno, e sempre più smarriti e confusi, tutta, per dir così, quella poca risoluzione di cui eran capaci, l’impiegarono a cercar di questi untori. Tra le carte del tempo della peste, che si conservano nell’archivio nominato di sopra, c’è una lettera (senza alcun altro documento relativo) in cui il gran cancelliere informa, sul serio e con gran premura, il governatore d’aver ricevuto un avviso che, in una casa di campagna de’ fratelli Girolamo e Giulio Monti, gentiluomini milanesi, si componeva veleno in tanta quantità, che quaranta uomini erano occupati en este exercicio, con l’assistenza di quattro cavalieri bresciani, i quali facevano venir materiali dal veneziano, para la fàbrica del veneno. Soggiunge che lui aveva preso, in gran segreto, i concerti necessari per mandar là il podestà di Milano e l’auditore della Sanità, con trenta soldati di cavalleria; che pur troppo uno de’ fratelli era stato avvertito a tempo per poter trafugare gl’indizi del delitto, e probabilmente dall’auditor medesimo, suo amico; e che questo trovava delle scuse per non partire; ma che non ostante, il podestà co’ soldati era andato a reconocer la casa, y a ver si hallará algunos vestigios, e prendere informazioni, e arrestar tutti quelli che fossero incolpati.
La cosa dové finire in nulla, giacché gli scritti del tempo che parlano de’ sospetti che c’eran su que’ gentiluomini, non citano alcun fatto. Ma pur troppo, in un’altra occasione, si credé d’aver trovato.
I processi che ne vennero in conseguenza, non eran certamente i primi d’un tal genere: e non si può neppur considerarli come una rarità nella storia della giurisprudenza. Ché, per tacere dell’antichità, e accennar solo qualcosa de’ tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in Palermo, del 1526; in Ginevra, del 1530, poi del 1545, poi ancora del 1574; in Casal Monferrato, del 1536; in Padova, del 1555; in Torino, del 1599, e di nuovo, in quel medesim’anno 1630, furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove qualcheduno, dove molti infelici, come rei d’aver propagata la peste, con polveri, o con unguenti, o con malìe, o con tutto ciò insieme. Ma l’affare delle così dette unzioni di Milano, come fu il più celebre, così è fors’anche il più osservabile; o, almeno, c’è più campo di farci sopra osservazione, per esserne rimasti documenti più circostanziati e più autentici.

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Peste del 1630. Piazza San Babila

La peste è la seconda riflessione storica di Manzoni e si sviluppa per ben due capitoli. Anche qui ricorre ad una vera e propria pausa narrativa e lascia i suoi personaggi per profondersi in un’analisi che, pur inserendosi in una lunga tradizione (che va da Tucidide a Lucrezio e in ultimo a Boccaccio), se ne distacca. All’autore milanese non interessa indagare le cause, gli effetti, il modo in cui si propaga, ma soprattutto come la peste e, attraverso essa la storia, s’inserisce nella vita degli uomini.

Possiamo dividere il lungo passo in quattro parti fondamentali:

  • nel primo il modo in cui il morbo si affaccia e si propaga, quindi l’intellighenzia scientifica del periodo, soprattutto il medico Settale, che cerca di vincere l’incredulità della gente. Sembra che la storia per Manzoni, oltre ad essere presieduta dalla volontà divina, sia frutto anche di scelte individuali, e qui, come l’incapacità di molti, abbia aiutato il diffondersi della malattia;
  • l’intervento dei francescani e la caccia degli untori. Alla dedizione dei primi nel lazzaretto, a cui, giorno dopo giorno, vengono a mancare i beni di prima necessità, risponde l’irrazionalità dei molti, la ricerca spasmodica di capi espiatori che rendano comprensibile ciò che non può essere capito (o si può capire andando ad analizzare le condizioni storico/economiche: la guerra, l’invasione dei lanzichenecchi, la carestia).
  • Il capitolo sottolinea il disinteresse da parte del governatore, preso dalla necessità della guerra, e l’affidamento a dei notabili lasciati senza mezzi. La descrizione che, pur partendo dalla necessità di un affidamento dei credenti a Dio, non potendo contare sugli uomini, di una processione mostra la cecità anche dell’autorità religiosa, perché anch’essa sarà foriera di propagazione del male;
  • Torna all’attenzione dell’autore, in quest’ultima parte nella descrizione della peste, la figura dell’uomo, con tutte le sue superstizioni, le violenze per la mancanza del diritto, che colpisce trasversalmente tutte le classi. La ricerca dell’untore diventa centrale, e sui processi farsa ci sarebbe così tanto da raccontare che sarà materia di un vero e proprio scritto manzoniano, pubblicato dopo il romanzo Storia della colonna infame. Il poeta sembra dirci che ad un’epidemia fisiologica sia seguita da un’epidemia intellettuale.

 La poesia

CAPITOLO VIII
ADDIO AI MONTI

Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti. Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha 193 mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.

1200px-I_promessi_sposi_-_ch8.jpghe l’Addio ai monti si configuri come un elemento lirico, basta osservare la prima frase che è strutturata con un endecasillabo. E’ infatti un brano elegiaco: l’abbandono di un luogo in cui, se fosse stata sposa, avrebbe potuto vivere la felicità. Tre sono i sintagmi intorno cui è costruito il passo: “care abitudini”, “care speranze”, “giocondità”: sono queste a costituire un Eden da cui è Lucia è costretta a fuggire. E’ l’Eden fatto di abitudini, di gesti ripetuti, di luoghi conosciuti: sicurezza e felicità, senza bisogno d’allargare l’orizzonte. E se il paese è tranquillità umilmente paradisiaca, l’esterno, la città, non può essere che inferno, con quel groviglio di case, con mancanza di prospettiva (si ricordi l’episodio della carestia). Non è una novità che Manzoni qui si faccia interprete dei pensieri di Lucia; ma appunto perché è l’autore a interpretare i sentimenti che il brano si fa elegia, allo stesso modo in cui Virgilio si fa interprete del pastore a cui è stata strappata la terra.

CAPITOLO XXXIV
CECILIA

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Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: «addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri». Poi voltatasi di nuovo al monatto, «voi,» disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.» Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato. «O Signore!» esclamò Renzo: «esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!»

L’episodio di Cecilia sembra stagliarsi con vividezza figurativa contro l’idea di morte che l’intero quadro della peste ci aveva offerto. La capacità manzoniana è quella di darci una figura quasi mariana che è stata tuttavia vinta dal morbo: Cecilia infatti è ancora, nella malattia, bella, di quella bellezza lombarda, dolce ma maestosa (pudica, ma un po’ guerriera, aveva definito Lucia), la cui presenza ingentilisce addirittura i monatti, che con la peggior morte parlano e scherzano. Ma ciò non può avvenire con Cecilia. Prepara il corpicino della figlia per farne offerta a Dio, senza possibilità di alcuna sconcezza; si prepara ad andare verso la luce con lo stessa dignità. Per una volta riuscirà, anche lei figura Christi, a far dei monatti uomini col timor di Dio.

La conclusione

CAPITOLO XXXVIII
IL SUGO DELLA STORIA 

Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. «Ho imparato,» diceva, «a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere». E cent’altre cose. Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, «e io,» disse un giorno al suo moralista,  «cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire,» aggiunse, soavemente sorridendo, «che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi. Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia. La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.

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L’ultima pagina del romanzo ha aperto un dibattito critico assai articolato. Che si può spiegare attraverso due soli atteggiamenti:

  • Religioso: la fine “consolatrice”, per cui tutto ciò che è stato di ostacolo, nel corso della storia, non può che ripetere quell’aspetto cattolico manzoniano che vede la sofferenza come unico strumento per l’ottenimento della grazia divina. L’uomo manzoniano è sempre figlio del peccato originale: soltanto attraverso le prove egli, infine può diventare uomo degno di essere chiamato figlio di Dio (si potrebbe anche parlare, per la figura di Renzo, di romanzo di formazione).
  • Politico: l’atteggiamento di Renzo, per cui ha imparato a non mettersi nei tumulti, a non predicare in piazza, a non alzar troppo il gomito…., dimostra da una parte l’Italia che Manzoni non vuole (come già detto, l’esperienza giacobina lo spaventa), dall’altra il futuro che egli auspica: un paese di piccoli proprietari terrieri, (potremo dire, una piccola borghesia) con profondi valori cattolici a sorreggerla moralmente. Insomma quel famoso liberalismo democratico di cui Gioberti fu il massimo esponente.