ALBERTO MORAVIA

I gusti letterari di Alberto Moravia | Letteratura | Rai Cultura

Alberto Pincherle Moravia nasce a Roma nel 1907 da una famiglia della medio-alta borghesia. Il padre era un famoso architetto, d’origini ebraiche, la madre Teresa Iginia De Marsanich era nata ad Ancona, sebbene la sua famiglia fosse originaria della Dalmazia. Fondamentali sono stati per il giovane Moravia gli intrecci familiari: Amelia Pincherle, sorella del padre, fu la madre dei fratelli Rosselli, emigrati in Francia e lì uccisi per mano dei fascisti.
All’età di nove anni si ammala di tubercolosi ossea: costretto a letto per tre anni a casa e due in un sanatorio a Cortina d’Ampezzo non può seguire uno percorso scolastico regolare (si fermerà alla licenza ginnasiale): ciononostante legge molto, tra cui i romanzieri russi e le opere teatrali di Goldoni, Molière e Shakespeare.
Comincia molto presto a scrivere ed alcuni suoi racconti trovano spazio nelle riviste letterarie dell’epoca, come Cortigiana stanca e Delitto al circolo del tennis, entrambi del ’27.

Gli indifferenti di Alberto Moravia – Edizioni Alpes 1929 | Umberto Cantone

Nel frattempo, iniziato nel ’25, egli compone il romanzo Gli indifferenti, pubblicato a sue spese nel ’29 dalla casa editrice Alpes (diretta dal fratello di Benito Mussolini). L’opera avrà un successo immediato e inaspettato:

La relazione tra Leo Merumeci e la vedova Maria Grazia, coppia matura, è ormai stanca, e i due giovanissimi figli di lei, Carla e Michele, assistono con disagio, ma senza rivolte, alle manifestazioni di insofferenza di Leo e alle scenate della madre, gelosa di una vecchia fiamma dell’amante, Lisa. Leo rivolge le sue attenzioni a Carla e riesce a farla sua. Michele sente confusamente di dover intervenire: ma dentro di sé, nel profondo della sua indifferenza, non coglie motivi di autentica indignazione. Si ingegna, a freddo, di provocare Leo: arriva addirittura a tentare di ucciderlo, ma il tentativo naufraga, abbastanza ridicolmente. Allora Michele si rassegna: cede a Lisa che invaghitasi di lui, lo assilla con una corte insistente. Anche Mariagrazia si rassegna all’inevitabile e Carla sposerà Leo.

L’opera moraviana rappresenta un vero e proprio spartiacque per la narrativa degli anni ’20/’30. Era infatti l’età dei romanzi pirandelliani e sveviani e, soprattutto per quest’ultimo, la figura sia dell’inetto Emilio (di Senilità) sia dell’indifferente Michele dello scrittore romano, sembrano in qualche modo disegnare l’incapacità del personaggio novecentesco di rapportarsi in modo positivo alla realtà. Ma il tentativo moraviano va al di là “svecchiando” e “innovando” il genere romanzo su diversi piani:

  • l’opera viene strutturata su un impianto formale tragico;
  • unità di spazio (interni: casa di Mariagrazia e di Leo, quasi nulla gli esterni);
  • unità di tempo: due giorni;
  • cinque personaggi (Mariagrazia, Lisa, Leo, Michele e Carla);
  • prevalenza dialogica.
  • Viene recuperato uno stile “oggettivo” con narratore esterno che “osserva” e “registra”;
  • Il linguaggio, assolutamente medio e neutro, si fa interprete di ciò che viene rappresentato con la completa mancanza d’intervento del narratore.

Ma se Gli indifferenti moraviani si muovono su un terreno che supera da una parte il frammentarismo e la prosa d’arte allora imperante (come d’altra parte lo stesso Pirandello e Svevo, che subiscono la stessa accusa, cioè quella di “scrivere male”) non bisogna dimenticare che getta uno sguardo impietoso verso la borghesia, dando della stessa una visione assolutamente “negativa” di contro alla esigenza del regime fascista, che voleva dare di sé un’immagine di efficienza e di ottimismo verso un futuro radioso e portatore di successi.

INCIPIT

Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo seduto sul divano; un’oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto.
«Mamma sta vestendosi», ella disse avvicinandosi «e verrà giù tra poco».
«L’aspetteremo insieme», disse l’uomo curvandosi in avanti; «vieni qui Carla, mettiti qui». Ma Carla non accettò questa offerta; in piedi presso il tavolino della lampada, cogli occhi rivolti verso quel cerchio di luce del paralume nel quale i gingilli e gli altri oggetti, a differenza dei loro compagni morti e inconsistenti sparsi nell’ombra del salotto, rivelavano tutti i loro colori e la loro solidità, ella provava col dito la testa mobile di una porcellana cinese: un asino molto carico sul quale tra due cesti sedeva una specie di Budda campagnolo, un contadino grasso dal ventre avvolto in un kimono a fiorami; la testa andava in su e in giù, e Carla, dagli occhi bassi, dalle guance illuminate, dalle labbra strette, pareva tutta assorta in questa occupazione.
«Resti a cena con noi?» ella domandò alfine senza alzare la testa.
«Sicuro», rispose Leo accendendo una sigaretta; «forse non mi vuoi?». Curvo, seduto sul divano, egli osservava la fanciulla con una attenzione avida; gambe dai polpacci storti, ventre piatto, una piccola valle di ombra fra i grossi seni, braccia e spalle fragili, e quella testa rotonda così pesante sul collo sottile.
«Eh che bella bambina»; egli si ripete «che bella bambina». La libidine sopita per quel pomeriggio si ridestava, il sangue gli saliva alle guance, dal desiderio avrebbe voluto gridare.
Ella diede ancora un colpo alla testa dell’asino: «Ti sei accorto quanto fosse nervosa mamma oggi al tè? Tutti ci guardavano».
«Affari suoi» disse Leo; si protese e senza parer di nulla, sollevò un lembo di quella gonna: «Sai che hai delle belle gambe, Carla?» disse volgendole una faccia stupida ed eccitata sulla quale non riusciva ad aprirsi un falso sorriso di giovialità; ma Carla , non arrossì né rispose e con un colpo secco abbatté la veste: «Mamma è gelosa di te» disse guardandolo; «per questo ci fa a tutti la vita impossibile».
Leo fece un gesto che significava: «E che ci posso fare io?»; poi si rovesciò daccapo sul divano e accavalciò le gambe.
«Fai come me» disse freddamente; «appena vedo che il temporale sta per scoppiare, non parlo più… Poi passa e tutto è finito».
«Per te, finito» ella disse a voce bassa e fu come se quelle parole dell’uomo avessero ridestato in lei una rabbia antica e cieca; «per te… ma per noi… per me» proruppe con labbra tremanti e occhi dilatati dall’ira, puntandosi un dito sul petto; «per me che ci vivo insieme non è finito nulla…». Un istante di silenzio. «Se tu sapessi», ella continuò con quella voce bassa a cui il risentimento marcava le parole e prestava un singolare accento come straniero, «quanto tutto questo sia opprimente e miserabile e gretto, e quale vita sia assistere tutti i giorni, tutti i giorni…». Da quell’ombra, laggiù, che riempiva l’altra metà del salotto, l’onda morta del rancore si mosse, scivolò contro il petto di Carla, disparve, nera e senza schiuma; ella restò cogli occhi spalancati, senza respiro, resa muta da questo passaggio di odio.
Si guardarono: «Diavolo» pensava Leo un po’ stupito da tanta violenza, «la cosa è seria». Si curvò, tese l’astuccio: «Una sigaretta» propose con simpatia; Carla accettò, accese e tra una nuvola di fumo gli si avvicinò ancora di un passo.
«E così» egli domandò guardandola dal basso in alto «proprio non ne puoi più?». La vide annuire un poco impacciata dal tono confidenziale che assumeva il dialogo. «E allora», soggiunse «sai cosa si fa quando non se ne può più? Si cambia».
«È quello che finirò per fare» ella disse con una certa teatrale decisione; ma le pareva di recitare una parte falsa e ridicola; così, era quello l’uomo a cui questo pendio di esasperazione l’andava insensibilmente portando? Lo guardò: né meglio né peggio degli altri, anzi meglio senza alcun dubbio, ma con in più una certa sua fatalità che aveva aspettato dieci anni che ella si sviluppasse e maturasse per insidiarla ora, in quella sera, in quel salotto oscuro.
«Cambia», gli ripetè; «vieni a stare con me».
Ella scosse la testa: «Sei pazzo…».
«Ma sì!» Leo si protese, l’afferrò per la gonna: «Daremo il benservito a tua madre, la manderemo al diavolo, e tu avrai tutto quel che vorrai, Carla…»; tirava la gonna, l’occhio eccitato gli andava da quella faccia spaventata ed esitante a quel po’ di gamba nuda che s’intravedeva là, sopra la calza. «Portarmela a casa»; pensava «possederla…». Il respiro gli mancava: «Tutto quel che vorrai… vestiti, molti vestiti, viaggi…; viaggeremo insieme…; è un vero peccato che una bella bambina come te sia così sacrificata…: vieni a stare con me Carla…».
«Ma tutto questo è impossibile», ella disse tentando inutilmente di liberare la veste da quelle mani; «c’è mamma… è impossibile».
«Le daremo il benservito…» ripete Leo afferrandola questa volta per la vita; «la manderemo a quel paese, è ora che la finisca…; e tu verrai a stare con me, è vero? Verrai a stare con me che sono il tuo solo vero amico, il solo che ti capisca e sappia quel che vuoi». La strinse più davvicino nonostante i suoi gesti spaventati; «Essere a casa mia» pensava, e queste rapide idee erano come lucidi lampi nella tempesta della sua libidine: «Le farei vedere allora che cosa vuole». Alzò gli occhi verso quella faccia smarrita e provò un desiderio, per rassicurarla, di dirle una tenerezza qualsiasi: «Carla, amor mio…».
Ella fece di nuovo il vano gesto di respingerlo, ma ancor più fiaccamente di prima, ché ora la vinceva una specie di volontà rassegnata; perché rifiutare Leo? Questa virtù l’avrebbe rigettata in braccio alla noia e al meschino disgusto delle abitudini; e le pareva inoltre, per un gusto fatalistico di simmetrie morali, che questa avventura quasi familiare fosse il solo epilogo che la sua vita meritasse; dopo, tutto sarebbe stato nuovo; la vita e lei stessa; guardava quella faccia dell’uomo, là, tesa verso la sua: «Finirla», pensava  «rovinare tutto…» e le girava la testa come a chi si prepara a gettarsi a capofitto nel vuoto.
Ma invece supplicò: «Lasciami», e tentò di nuovo di svincolarsi; pensava vagamente prima di respingere Leo e poi di cedergli, non sapeva perché, forse per avere il tempo di considerare tutto il rischio che affrontava, forse per un resto di civetteria; si dibattè invano; la sua voce sommessa, ansiosa e sfiduciata ripeteva in fretta la preghiera mutile: «Restiamo buoni amici Leo, vuoi? Buoni amici come prima» ma la veste tirata le discopriva le gambe, e c’era in tutto il suo atteggiamento renitente e in quei gesti che faceva per coprirsi e per difendersi, e in quelle voci che le strappavano le strette libertine dell’uomo, una vergogna, un rossore, un disonore che nessuna liberazione avrebbe potuto più abolire.
«Amicissimi» ripeteva Leo quasi con gioia, e torceva in pugno quella vesticciola di lana; «amicissimi Carla…». Stringeva i denti, tutti i suoi sensi si esaltavano alla vicinanza di quel corpo desiderato: «Ti ho alfine» pensava torcendosi tutto sul divano per fare un posto alla fanciulla, e già stava per piegare quella testa, là, sopra la lampada, quando dal fondo oscuro del salotto un tintinnìo della porta a vetri l’avverti che qualcheduno entrava.
Era la madre; la trasformazione che questa presenza portò nell’atteggiamento di Leo fu sorprendente: subito, egli si rovesciò sullo schienale del divano, accavalciò le gambe e guardò la fanciulla con indifferenza; anzi spinse la finzione fino al punto di dire col tono importante di chi conclude un discorso incominciato: «Credimi Carla, non c’è altro da fare».
La madre si avvicinò; non aveva cambiato il vestito ma si era pettinata e abbondantemente incipriata e dipinta; si avanzò, là, dalla porta, con quel suo passo malsicuro; e nell’ombra la faccia immobile dai tratti indecisi e dai colori vivaci pareva una maschera stupida e patetica.
«Vi ho fatto molto aspettare?» domandò. «Di che cosa stavate parlando?».
Leo additò con un largo gesto Carla diritta in piedi nel mezzo del salotto: «Stavo appunto dicendo a sua figlia che questa sera non c’è altro da fare che restare in casa».
«Proprio nient’altro»; approvò la madre con sussiego e autorità sedendosi in una poltrona, in faccia all’amante; «al cinema siamo già state oggi e nei teatri danno tutte cose che abbiamo già sentite… Non mi sarebbe dispiaciuto di andare a vedere “Sei personaggi” della compagnia di Pirandello…: ma francamente come si fa?… è una serata popolare».
«E poi le assicuro che non perde nulla» osservò Leo.
«Ah, questo poi no» protestò mollemente la madre: «Pirandello ha delle belle cose…: come si chiamava quella sua commedia che abbiamo sentito poco tempo fa?… Aspetti… ah si, “La maschera e il volto”: mi ci sono tanto divertita».
«Mah, sarà…» disse Leo rovesciandosi sopra il divano; «però io mi ci sono sempre annoiato a morte». Mise i pollici nel taschino del panciotto e guardò prima la madre e poi Carla.
Dritta dietro la poltrona della madre, la fanciulla ricevette quell’occhiata inespressiva e pesante come un urto che fece crollare in pezzi il suo stupore di vetro; allora, per la prima volta, si accorse quanto vecchia, abituale e angosciosa fosse la scena che aveva davanti agli occhi: la madre e l’amante seduti in atteggiamento di conversazione uno in faccia all’altra; quell’ombra, quella lampada, quelle facce immobili stupide, e lei stessa affabilmente appoggiata al dorso della poltrona per ascoltare e per parlare. «La vita non cambia», pensò non vuol cambiare. Avrebbe voluto gridare; abbassò le due mani e se le torse, là, contro il ventre, così forte che i polsi le si indolenzirono.

Gli indifferenti – Cgtv.it

Rod Steiger e Claudia Cardinale nelle parti di Leo e Carlo nel film Gli indifferenti di Francesco Maselli del 1964

L’incipit del romanzo svela sin dall’inizio la sua forza dirompente sia a livello stilistico che contenutistico; il tema è certamente l’eros e se l’eros era stato già raccontato, seppur in modo certamente diverso da D’Annunzio (in modo estetizzante) e Svevo (in modo psicoanalitico), Moravia lo borghesizza e ne fa una merce di scambio. Leo, uomo di mezza età, è attratto sessualmente da Carla, figlia della sua amante, ormai invecchiata ed avvizzita e non più desiderabile, e per conquistarla le promette “Tutto quel che vorrai… vestiti, molti vestiti, viaggi…; viaggeremo insieme…”; cioè mettendo in atto un vero e proprio compromesso. Le parole che caratterizzano Leo ne danno un ritratto moralmente mortificante e sono libidine, eccitazione, voglia di possesso (“Ti ho, alfine“).
Ma quello che colpisce è il non netto “rifiuto”: sembra quasi che Carla sappia già di finire tra le braccia di Leo, sebbene tale scelta sia solamente dettata dalla stanchezza e dalla voglia di cambiare, anche se completamente confusa.

Gli indifferenti (1964)

Paulette Goddard: Maria Grazia

Certo la terza interprete della scena, Mariagrazia, riceve dall’autore un ritratto impietoso si era pettinata e abbondantemente incipriata e dipinta; si avanzò, là, dalla porta, con quel suo passo malsicuro; e nell’ombra la faccia immobile dai tratti indecisi e dai colori vivaci pareva una maschera stupida e patetica: la sua descrizione sembra che renda “fisicamente” il decadimento della borghesia romana, essendo virata verso “il brutto” non come straniamento, ma come sottolineatura della bassezza culturale (confonde un’opera di Pirandello con una di Chiarini) e morale.

Simile, ma rovesciato, il rapporto tra Michele e Lisa, anche quest’ultima di una certa età rispetto al giovane Michele.

undefinedTomas Milian: Michele

Lisa vuole confidare a Michele che la madre ha un amante (ma Michele lo sa già):

LISA E MICHELE

Vide Lisa alzarsi e sedersi al suo fianco. «Via» ella disse posando una mano goffa e consolatrice sulla sua testa; «via… fatti coraggio… capisco che ci debba dispiacere… si vive con la certezza che una persona meriti il nostro affetto, la nostra stima, e poi ad un certo punto tutto crolla intorno a noi… ma non importa… questo ti sarà di ammaestramento…»
Egli scosse la testa, mordendosi le labbra per non ridere; Lisa credette invece che il dolore lo soverchiasse: «Non tutto il male viene per nuocere» disse con voce patetica e melata, senza cessare di passare quella sua mano sui capelli del ragazzo; «questo ci riavvicinerà… vuoi che io diventi per te quella che era prima tua madre… di’? Vuoi che io diventi la tua amica, la tua confidente?…» Era sincera ma la voce era così flautata e falsa che Michele avrebbe voluto tappare la bocca con la mano; ma stette fermo, con la testa ostinatamente curva; giacché si vedeva, seduto accanto a quella donna, sul bordo del divano, con una faccia tra contrita e idiota… la scena gli pareva tanto ridicola che per non ridere non c’era che un mezzo: non muoversi.
Lisa diventò ancor più zelante: «Verrai a farmi delle visite… parleremo… ci sforzeremo di ricostruire, di riorganizzare una nuova esistenza».
Egli la guardò di sottecchi… rossa, sotto la frangia dei capelli biondi, rossa ed eccitata: «Ah, è così che cominci a organizzare» pensò; si ricordò di quel parente che doveva venire nel mattino… e perché non prendere seriamente tutta la faccenda e giovarsene?… Perché non continuare negli infingimenti?…
Alzò la testa: «È stato duro» profferì come chi è riuscito a dominare un gran dolore; «ma hai ragione… bisogna che mi faccia una nuova esistenza…»
«Certamente» approvò Lisa con fervore; dopo di che seguì un profondo silenzio; ambedue con scopi diversi, fingevano una trasognata e ispirata distrazione; stavano immobili, l’uno accanto all’altra, e guardavano in terra.
Un fruscìo; il braccio di Michele scivolò dietro la schiena della donna e le circondò la vita. «No» ella disse con voce chiara, senza muoversi o voltarsi, come se avesse risposto a una domanda interiore; Michele sorrise di malavoglia, né sentiva un certo turbamento invaderlo, e la attiro più strettamente; «No, no» ella ripeté in tono più debole, ma cedette e appoggiò quella sua testa sperduta sulla spalla del ragazzo; allora dopo un istante di sentimentale immobilità egli la prese per il mento e nonostante la falsa mutua protesta degli occhi, la baciò sulla bocca. 

Time of Indifference (1964) - IMDb

Shelley Winters e Tomas Milian

Qui, Moravia rovescia il protagonista con l’idea del possesso erotico, facendolo incarnare da una donna non certo più giovane: Lisa. L’autore dà vita così ad una triplice lettura: una di tipo psicanalitico (sia Carla che Michele, accettando il rapporto con persone più grandi loro, cercano rispettivamente un padre – Carla non lo ha realmente, ed una madre), sociale (il mondo dei giovani contro quello dei vecchi), stilistico (un chiasmo che vede da una parte Leo e Carla, dall’altra Michele e Lisa).

Ma quello che qui emerge è il concetto di falsità: Lisa che “inventa” l’arrivo di un ospite; Michele che si finge “stupito ed esterrefatto”, dopo che gli è stata rivelata la relazione tra Merumeci e la madre (fatto di cui lui era già consapevole). Ma soprattutto il suo gesto di abbracciare Lisa che finge ritrosia, per poi “starci”, è frutto di noia, più che di attrazione.

Boll900, 2022, n. 1-2 - Stefano Sanjust, "Gli indifferenti" di Citto Maselli

IL MOTIVO ECONOMICO E L’INDIFFERENZA DI MICHELE E CARLA

Per un istante non parlarono; Leo fumava con compunzione, la madre considerava con una mesta dignità le sue mani dalle unghie smaltate, Carla quasi carponi tentava di accendere la lampada nell’angolo e Michele guardava Leo; poi la lampada si accese, Carla sedette e Michele parlò: «Sono stato dall’amministratore di Leo e mi ha fatto un monte di chiacchiere… Il sugo della faccenda e poi questo: che a quel che pare tra una settimana scade l’ipoteca e perciò bisognerà andarsene e vendere la villa per pagare Merumeci…»
La madre spalancò gli occhi: «Quell’uomo non sa quel che dice… Ha agito di testa sua… l’ho sempre detto io che aveva qualche cosa contro di noi…».
Silenzio: «Quell’uomo ha detto la verità» disse alfine Leo senza alzare gli occhi.
Tutti lo guardarono. «Ma vediamo, Merumeci», supplicò la madre giungendo le mani; «non vorrà mica mandarci via così sui due piedi?… ci conceda una proroga…»
«Ne ho già concesse due», disse Leo «basta… tanto più che non servirebbe ad evitare la vendita…»
«Come a non evitare?» domandò la madre.
Leo alzò finalmente gli occhi e la guardò: «Mi spiego: a meno che non riusciate a mettere insieme ottocentomila lire, non vedo come potreste pagare se non vendendo la villa…»
La madre capì, una paura vasta le si aprì davanti agli occhi come una voragine; impallidì, guardò l’amante; ma Leo tutto assorto nella contemplazione del suo sigaro non la rassicurò: «Questo significa» disse Carla «che dovremo lasciare la villa e andare ad abitare in un appartamento di poche stanze?»
«Già», rispose Michele «proprio così».
Silenzio; la paura della madre ingigantiva; non aveva mai voluto sapere di poveri e neppure conoscerli di nome, non aveva mai voluto ammettere l’esistenza di gente dal lavoro faticoso e dalla vita squallida. «Vivono meglio di noi» aveva sempre detto; «noi abbiamo maggiore sensibilità e più grande intelligenza e perciò soffriamo più di loro…»; ed ora, ecco, improvvisamente, ella era costretta a mescolarsi, a ingrossare la turba dei miserabili; quello stesso senso di ripugnanza, di umiliazione, di paura che aveva provato passando un giorno in un’automobile assai bassa attraverso una folla minacciosa e lurida di scioperanti, l’opprimeva; non l’atterrivano i disagi e le privazioni a cui andava incontro, ma invece il bruciore, il pensiero di come l’avrebbero trattata, di quel che avrebbero detto le persone di sua conoscenza, tutta gente ricca, stimata ed elegante; ella si vedeva, ecco… povera, sola, con quei due figli, senza amicizie ché tutti l’avrebbero abbandonata, senza divertimenti, balli, lumi, feste, conversazioni: oscurità completa, ignuda oscurità.
Il suo pallore aumentava: “Bisognerebbe che gli parlassi da sola a solo”, pensava attaccandosi all’idea della seduzione; “senza Michele e senza Carla… allora capirebbe”.
Guardò l’amante. «Lei, Merumeci», propose vagamente «ci conceda ancora una proroga, e noi il denaro lo si troverà in qualche modo».
«In che modo?» Domandò l’uomo con un mezzo sorriso ironico.
«Le banche…» arrischiò la madre.
Leo rise: «Oh, le banche». Si chinò e fissò in volto l’amante: «Le banche» sillabò «non prestano denaro che contro sicure garanzie e ora poi con questa penuria di quattrini che c’è in giro non ne prestano affatto; ma mettiamo che ne prestassero… che specie di garanzia potrebbe lei dare, cara signora?»
«Il ragionamento non fa una grinza» osservò Michele; avrebbe voluto appassionarsi a questa loro questione vitale, protestare: “Vediamo” pensava “si tratta della nostra esistenza… potremmo da un momento all’altro non avere di che vivere materialmente” ma per quanti sforzi facesse questa rovina gli restava estranea; era come vedere qualcuno affogare, guardare e non muovere un dito.
Tutt’altra era invece la madre: «Lei ci dia questa proroga», ella disse con fierezza, ergendosi sul busto e staccando le parole; «e può star sicuro che alla data della scadenza lei avrà i suoi quattrini, non ne dubiti, fino all’ultimo centesimo».
Leo rise dolcemente chinando la testa: «Ne sono certo… ma allora a che serve la proroga?… Quei mezzi che lei adopererà tra un anno per ottenere denari perché non usarli ora e così pagarmi subito?»
Quella faccia china era così calma e sagace che la madre ne ebbe timore; da Leo i suoi occhi irresoluti passarono a Michele, poi a Carla: eccoli là i suoi due figli deboli che avrebbero provato le angustie della povertà; le venne un esaltato amor materno: «Senta Merumeci», incominciò con voce persuasiva «lei è un amico di famiglia, a lei posso dir tutto… Non si tratta di me, non è per me che chiedo questa proroga, io sarei anche pronta ad andare a vivere in una soffitta… ». Alzò gli occhi al cielo e: «Dio sa se penso a me… ma io ho Carla da maritare… ora lei conosce il mondo… il giorno stesso che io lasciassi la villa e andassi a vivere in qualche appartamentino, tutti ci volterebbero le spalle… la gente è fatta così… e allora me lo saluta lei il matrimonio di mia figlia?»
«Sua figlia» disse Leo con una falsa serietà, «ha una bellezza che troverà sempre pretendenti». Guardò Carla e le ammiccò; ma una rabbia trattenuta e profonda possedeva la fanciulla: «Chi vuoi che mi sposi» avrebbe voluto gridare alla madre «con questo uomo per casa e te in quelle condizioni?». L’offendeva, l’umiliana la disinvoltura con la quale la madre, che abitualmente non si curava affatto di lei, la tirava in ballo come un argomento favorevole ai suoi scopi; bisognava finirla, ella si sarebbe data a Leo, è così nessuno più l’avrebbe desiderata per moglie; guardò la madre negli occhi: «Non pensare a me, mamma» disse con fermezza; «io non c’entro né ci voglio entrare in tutto questo».
Fu in quel momento che è una risata agra, falsa da allegare i denti partì dall’angolo dove sedeva Michele; la madre si voltò: «Ma sai», egli le disse tentando con uno sforzo di dare alla sua voce indifferente un’intonazione sarcastica; «chi sarà il primo ad abbandonarci se lasciamo la villa? Indovina».
«Mah, non so».
«Leo» egli proruppe additando l’uomo, «il nostro Leo».
Leo ebbe un gesto di protesta. «Ah, Merumeci?» ripeté la madre incerta e impressionata guardando l’amante come se avesse voluto leggergli in faccia se fosse stato capace di un simile tradimento; poi ad un tratto, con occhi e sorriso infiammati di patetico sarcasmo: «Ma già… sicuro… e io stupida che non ci pensavo… sicuro Carla» soggiunse rivolgendosi alla figlia; «Michele ha ragione… il primo che fingerà di non averci mai conosciuto, dopo naturalmente che avrà intascato i quattrini, sarà Merumeci… non protesti» ella continuò con un sorriso ingiurioso; «non è colpa sua, tutti gli uomini sono così… potrei giurarlo, passerà da una di quelle sue amiche tanto simpatiche e tanto eleganti e appena mi vedrà… volterà la testa dall’altra parte… sicuro… caro lei… ci metterei la mano sul fuoco…». Tacque per un istante. «E già», concluse con amarezza e rassegnazione; «già… anche Cristo è stato tradito dai suoi migliori amici».

E’ il brano in cui la dinamica dei personaggi appare in tutta la sua evidenza:

  • Michele, svelando il fine di Leo d’impossessarsi della villa di famiglia, osserva il tutto come non lo riguardi (Moravia usa la metafora dell’uomo che sta per affogare, senza riuscire ad intervenire per salvarlo);
  • Carla “protesta” perché sente che la sua estraneità sta per essere infranta;
  • Leo, l’unico che sa quello che vuole;
  • Maria Grazia, ormai macchietta che, fingendo di preoccuparsi dei figli, paventa il suo abbassamento sociale.

Al solito Moravia inserisce tale scena all’interno di una situazione “topica” dell’intero romanzo, quello della cena; è forse il momento maggiormente teatrale in cui i rapporti si svelano nella loro integrità, mettendo in luce da una parte l’inazione dei personaggi giovanili, dall’altra l’egoismo dei personaggi maturi. E’ che dietro tale evidenza rappresentativa si erge il moralismo moraviano che non risparmia nessuno, come vedremo nel proseguo dell’azione. Infatti all’epiteto “mascalzone” che Michele rivolge a Leo (la massima forma di protesta), alle “pretese” di quest’ultimo di scuse, il giovane piegherà la testa, soprattutto per volere della madre, che temeva di perdere l’amante.

Il fatto che il giovane Moravia voglia riprendere l’idea di romanzo, come rappresentazione del reale di contro alle spinte “destrutturanti” dei rondisti e frammentisti, lo possiamo notare quando, in modo palese, cita l’inventore di tale genere letterario in Italia, Manzoni:

L’ADDIO DI CARLA

Addio strade, quartiere deserto percorso dalla pioggia come da un esercito, ville addormentate nei loro giardini umidi, lungo viali alberati, e parchi in tumulto; addio quartiere alto e ricco: immobile al suo posto a fianco di Leo, Carla guardava con istupore la pioggia violenta lacrimare sul parabrise e in questi fiotti intermittenti colar disciolte sul vetro tutte le luci della città, girandole e fanali. Le strade si seguivano alle strade; ella le vedeva piegare, confluire una nell’altra, girare laggiù oltre il cofano mobile dell’automobile; a intervalli, tra i sobbalzi della corsa, delle nere facciate si staccavano nella notte, passavano, e si dileguavano come fianchi di transatlantici in rotta, non senza difficoltà, attraverso i marosi; gruppi neri di persone, porte illuminate, lampioni, alberi, ogni cosa si affacciava per un istante nella corsa e poi scompariva inghiottita definitivamente dall’oscurità.

L’incipit del brano è decisamente manzoniano, ma poi lo piega descrivendo un notturno piovoso, con luci artificiali date dai fanali delle macchine, con gruppi di persone nere, e tutto che viene inghiottito nell’oscurità: sembra quasi una discesa di Carla verso il grigiore di una vita senza prospettive. Come avviene quando si dà a Leo:

Omaggio a Claudia Cardinale: Gli indifferenti – Istituto Italiano di Cultura di Berlino

Claudia Cardinale

 LEO E CARLA

A poco a poco il suo corpo ardente riscaldava le lenzuola. Ad un tratto ebbe l’impressione che questo tepore avesse sciolto quel nodo di paura e di stupore che fino allora le aveva ingombrato l’anima; si sentì sola, provò una gran tenerezza, una pietà indulgente per se stessa, si sforzò di raccogliersi, di raggomitolarsi più che poteva, fino a toccare con le labbra le sue ginocchia rotonde. L’odore sano e sensuale che emanavano la commosse; le baciò più volte appassionatamente: “Povera… poverina” si ripeteva carezzandosi. Gli occhi gli si empirono di lacrime; avrebbe voluto piegar la testa sul suo petto fondo e piangervi come su quello di una madre; poi senza cessare di fissare con gli occhi attenti quella parete appena illuminata dalla lampada, ascoltò: i rumori che le arrivavano erano familiari e rivelavano irreparabilmente il luogo dove stava; la pioggia cadeva ancora; se ne udiva il fruscìo; qualcheduno camminava nel bagno; dell’acqua scorreva; se si muoveva, il letto mollemente sprofondava, con un suono sordo, e in un certo modo lontano; non sapeva se per qualche ricordo o per l’estrema cedevolezza delle piume. Non era il letto di casa sua, duro e stretto, né uno di quei letti stranieri nei quali ci si caccia dopo un lungo viaggio, e ci par subito di stare troppo in basso o troppo in alto, e ci si dorme senza soddisfazione; no, questo era un letto comodo, tenerissimo, pieno di attenzioni e premure; soltanto il corpo ne aveva paura, vi si rannicchiava  tutto, vi tremava, e ogni tanto tendeva una mano a tastare lo spazio immenso e freddo che avanzava dietro, quella Siberia di tela, disabitata e ostile; era una sensazione sgradevole: come camminare per una strada buia sapendo di avere qualcuno alle spalle.  

Se mai dovessimo ricercare le parole chiave e se cercassimo i campi semantici che rimandano ad una sfera positiva e quelli negativa, vedremo senza difficoltà che questi ultimi sarebbero di più. Carla, in questa focalizzazione interna, pur se ebbe l’impressione che questo tepore avesse sciolto quel nodo di paura e di stupore; alla fine “Povera… poverina” si ripeteva carezzandosi. Gli occhi gli si empirono di lacrime; avrebbe voluto piegar la testa sul suo petto fondo e piangervi come su quello di una madre; e se inoltre questo era un letto comodo, tenerissimo, pieno di attenzioni e premure; invece il corpo ne aveva paura, vi si rannicchiava  tutto, vi tremava, e ogni tanto tendeva una mano a tastare lo spazio immenso e freddo che avanzava dietro, quella Siberia di tela, disabitata e ostile; era una sensazione sgradevole: come camminare per una strada buia sapendo di avere qualcuno alle spalle.

Film | CRISTALDIFILM | Gli Indifferenti

E’ la prima notte d’amore e Moravia è straordinario nel raccontarci le aspettative e le paure di Carla. Ma il lettore conosce già la ragazza, sa che per lei Leo potrebbe rappresentare un qualcosa che la farebbe uscire dalla “gabbia di falsità” in cui è rinchiusa, ma sa anche che Leo di quel mondo è uno dei maggiori rappresentanti: il suo tentativo di fuga è sin dall’inizio un fallimento ed è efficace il termine Siberia di tela con cui l’autore lo definisce.

“E SE IO L’UCCIDESSI?”

Non suonò; voleva entrare col respiro tranquillo ed era ansante; aspettò dritto, immobile, davanti quella porta chiusa, che l’ansito e i battiti del cuore si fossero calmati; ma non si calmavano; il cuore pulsava, saltava con fracasso nel suo petto, i polmoni gli si sollevavano contro volontà in un respiro doloroso. “O cuore, o respiro” pensò con un dispetto triste e nervoso, “anche voi vi mettete contro di me?” Premette con una mano il fianco, tentò di dominarsi; quanto tempo sarebbe stato necessario perché il suo corpo fosse stato pronto come la sua anima? Contò da uno a sessanta, ridicolmente, immobile contro quella porta silenziosa; Ricominciò… finalmente, stanco, s’interruppe e suonò.
Udì il campanello echeggiare nell’appartamento vuoto; silenzio; immobilità: “non è in casa” pensò con una gioia e un sollievo profondo. “Suonerò ancora una volta per iscrupolo… e poi me ne andrò” e già, apprestandosi a premere di nuovo il bottone, già immaginava di ridiscendere nella strada, andarsene per la città, libero, distrarsi; già dimenticava i suoi propositi di vendetta, quando dei passi pesanti risuonarono sul pavimento, di là dalla porta; poi questa si aprì e Leo apparve.
Indossava una veste da camera, aveva la testa arruffata e il petto nudo; squadrò dall’alto in basso il ragazzo.
«Tu qui» esclamò con faccia e voce assonnata senza invitarlo ad entrare; «e cosa vuoi?»
Si guardarono: “Cosa voglio?” avrebbe voluto gridare Michele; “lo sai bene, spudorato, cosa voglio”. Ma si trattenne:
«Nulla» disse in un soffio, ché ora il respiro di nuovo gli mancava; «soltanto parlarti.»
Leo alzo gli occhi; un’espressione impudente e stupida gli passò sul volto: «Oh bella, parlare? A me? A quest’ora?» disse con stupore esagerato; si teneva sempre nel bel mezzo della soglia: «E cosa vuoi dirmi?… Senti, senti caro» soggiunse cominciando a chiudere la porta, «non sarebbe meglio un altro giorno? Stavo dormendo, non ho la testa abbastanza chiara… per esempio domani».
La porta si chiudeva. “Non è vero che stavi dormendo” pensò Michele, e ad un tratto scaturì quest’idea: “Carla è di là… in camera sua”, e gli parve di vederla nuda, seduta sul bordo del letto, in atto di ascoltare ansiosamente questo dialogo tra l’amante e lo sconosciuto visitatore; diede una spinta alla porta ed entrò:
«No» disse con voce ferma e turbata, «no, oggi stesso ho da parlarti… ora».
Un’esitazione: «E sia» profferì l’altro come chi è al termine della sua pazienza; Michele entrò: “Carla è di là” pensava e un turbamento straordinario lo possedeva.
«Di’ la verità» profferì alfine con isforzo mentre quello chiudeva la porta, posandogli una mano sulla spalla; «di’ la verità, che ho turbato qualche dolce colloquio… c’è qualcheduno di là, non è vero?… eh, eh!… qualche bella ragazza…». Vide l’uomo voltarsi e schermirsi con un sorriso odioso di malcelata vanità: «Assolutamente nessuno… dormivo». Capì di aver colto nel segno.
Mise la mano in tasca e strinse la rivoltella; «Dormivo proprio” ripeté Leo senza voltarsi, precedendolo nell’anticamera; «dormivo tranquillamente e facevo sogni bellissimi».
«Ah! sì?»
«Sì… e tu sei venuto a destrami».
“No, colpirlo alle spalle no” pensò Michele; trasse di tasca la rivoltella e tenendo la mano contro il fianco la puntò nella direzione di Leo… appena questi si sarebbero voltato, avrebbe sparato.
Leo entrò per primo nel salotto, andò alla tavola, accese una sigaretta; avvolto nella veste da camera, come un lottatore, a gambe larghe, con la testa arruffata e tozza, china verso l’invisibile fiammifero, egli dava l’impressione di un uomo sicuro di sé e della sua vita; poi si voltò; allora, non senza odio, Michele alzò la mano e sparò.
Non ci fu né fumo né fracasso; alla vista della rivoltella Leo spaventatissimo si era gettato con una specie di muggito dietro una sedia: “S’è inceppata” pensò il ragazzo; vide Leo urlare: «Sei matto!» e alzare una sedia in aria mostrando tutto il corpo; si protese in avanti e sparò daccapo; nuovo rumore del grilletto. “E’ scarica”, comprese alfine atterrito, “e le palle l’ho in tasca io”. Fece un salto da parte, per evitare la seggiola di Leo, corse all’angolo opposto; la testa gli girava, aveva la gola secca, il cuore in tumulto: “Una palla”, pensò disperatamente, “soltanto una palla”. Frugò, arraffò con le dita febbrili alcuni proiettili, alzò la testa, tenendo, curvo, cole mani impazzate, di aprire il tamburo e cacciavi la carica; ma Leo scorse il suo gesto ed egli ricevette di sbieco un colpo di seggiola sulle mani e sulle ginocchia, così forte che la rivoltella cadde in terra; dal dolore chiuse gli occhi, poi una rabbia indicibile lo invase; si gettò su Leo tentando di stringerlo al collo; ma fu preso, scagliato prima a destra poi a sinistra, e alfine respinto con tanta violenza che dopo aver ciecamente urtato e rovesciato una sedia, cadde sul divano… L’altro gli fu subito sopra e lo prese per i polsi.
Silenzio; e si guardarono; rosso, ansante, costretto in malo modo dentro il divano, Michele fece uno sforzo per liberarsi; Leo gli rispose torcendogli i polsi; altro sforzo; altra torsione; alfine il dolore e la rabbia vinsero il ragazzo: gli parve oscuramente che la vita non fosse mai stata così aspra come in questo momento nel quale, così brutalmente oppresso, gli tornava un lamentoso desiderio di certe lontanissime carezze materne; gli occhi gli si empirono di lacrime; allentò i muscoli doloranti, si abbandonò. Per un istante l’uomo lo guardò: la veste da camera era aperta, il petto nudo e peloso gli si sollevava in un respiro che ogni tanto si sfogava per le narici frementi in una specie di soffio fermo: guardava, guardava e tutta la sua persona esprimeva un minaccioso furore a stento trattenuto.

Gli indifferenti (1964) - IMDb

Ma allora perché il romanzo ebbe un così vasto successo?
Perché soprattutto si muoveva su un binomio che poteva “solleticare” la curiosità del lettore: il binomio denaro e sesso. Leo infatti, pur nella sua grettezza, rappresenta la voglia del potere ottenuto attraverso l’accumulo di denaro e il possesso sessuale del corpo femminile: non è un caso se lui stesso si fa amante prima di Lisa, quindi di Maria Grazia e infine di sua figlia, Carla (cioè di tutte le figure femminili del romanzo), e come tutto questo sia frutto di un calcolo che gli permette di ottenere risultati positivi per tutti i suoi obiettivi: sia quello meramente sessuale (Lisa), che quello sessuale/economico (Maria Grazia e la sua villa) quindi, per paura che quest’ultima gli venga alienata da una vendita che lo terrebbe fuori gioco, Carla, figlia della padrona che, sposandola, gli permetterà di avere un’amante/sposa di circa metà dei suoi anni ed il possesso della villa.

Il successo non solo gli permette di affermarsi nell’ambiente letterario scrivendo racconti per 900 di Bontempelli e Pegaso di Ojetti. Ma inizia anche la sua collaborazione con articoli di viaggio su La Stampa, allora diretto da Curzio Malaparte. Soggiorna piuttosto a lungo a Parigi e a Londra, entrando in contatto con intellettuali quali Forgue e Valery.

In questo periodo i suoi rapporti con il Fascismo peggiorano. Incontra nel ’36 Elsa Morante, che sposerà nel 1941.

Moravia e Morante, nonostante tutti - Corriere.it

Il secondo romanzo di Moravia, pubblicato nel 1935, costò all’autore sei anni di lavoro, ma non ebbe alcun successo. Le ambizioni sbagliate, questo il titolo, venne ignorato per due ragioni: la prima, forse la meno incidente, è che, come già allora si disse, Moravia riscrisse Gli indifferenti moltiplicandone i protagonisti; l’altra, certamente più forte, è che venne dall’ “alto” l’obbligo, da parte del potere fascista, di non recensire né fare alcun riferimento all’opera del giovane autore.Abebooks Le ambizioni sbagliate Novità | Casa e giardino

I protagonisti sono Pietro e Andreina, due giovani animati da ambizioni tipicamente borghesi di notorietà e di ricchezza che si muovono nel mondo ovattato e futile della borghesia romana, testimoniata dalla vacuità civettuola della ricca Maria Luisa, dalla devozione calcolata del nobile Matteo, dall’inclinazione al chiacchiericcio di Sofia e, nonostante l’apparenza disinteressata, dal cinismo freddo e vendicativo di Stefano. Sebbene lo sguardo dell’autore scruti nell’animo di ogni personaggio, ricorrendo a un’unica tecnica per rivelarne intenti, pensieri e vissuti esistenziali, egli riserva un’attenzione particolare alle mosse e ai moventi della coppia suesposta: a differenza dei personaggi che gravitano attorno a essi, i quali non fanno che riproporre in maniera ricorsiva attitudini radicate senza possibilità di crescita o di mutamento, Pietro e Andreina agiscono in una trama volutamente macchinosa che procede grazie alla loro volontà di elevarsi dalla mediocrità in cui riversano: chi da un punto di vista economico, chi da un punto di vista spirituale.

Scrisse un critico dell’epoca: «Nel romanzo delle Ambizioni sbagliate abbiamo un esacerbato rincrudimento nel dirizzone ormai preso. Il Moravia non intende in nessun caso a piegarsi a un senso di più umana visione della vita. Fa quasi pensare a un ragazzo testardo, che un rimprovero per qualche birbonata, prende occasione d’impuntarsi e combinarne uno peggiore. Il branco d’attori, che nel primo romanzo erano chiamati “indifferenti”, ricompare qui sotto il nome di “ambiziosi” che falliscono. Ma, in fondo, sono gli stessi, per l’identità delle passioni e degli istinti che li portano ad agire. Lì si giocava su una trama piuttosto triangolare, qui invece la trama si allarga e raggiunge quasi l’aspetto di un labirinto». (D. Mondrone, Civiltà cattolica, 1938).

Non siamo completamente d’accordo con il critico cattolico; forse a rendere simili Michele e Pietro sono lo scontrarsi con una realtà sulla quale non riescono ad incidere; ma se il primo non può che sottolineare l’indifferenza verso ogni forma di realtà, il secondo cerca di cambiarla: il suo tentativo di educare Andreina (protagonista femminile) ricorda più il tentativo di Emilio Brentani verso Angiolina (in Senilità di Svevo) che uno dei cinque attori del primo romanzo moraviano. Se difetto c’è in quest’opera è che appare troppo “strutturata”, per meglio dire l’architettura romanzesca non appare nascosta come nel primo; infatti ogni personaggio, pur descritto con verità psicologica, sembra apparire per dar luce ad un meccanismo che preesiste alla narrazione stessa.

Ciò non toglie che la storia possieda una forza grazie alla capacità moraviana di descrivere i personaggi. Fra questi emerge quello di Andreina, potente figura femminile:

ANDREINA

Entrarono. Pietro si era appena disfatto del pastrano che la tenda del corridoio si sollevò e Cecilia apparve con le labbra atteggiate al suo solito sorriso lezioso. «Stasera abbiamo questo signore a cena», disse Andreina «e nel caso venisse o telefonasse il marchese Matteo rispondi pure che non sono in casa».
Passarono nel salotto. «Ecco, mi aspetti qui,» disse Andreina girando gli occhi intorno e togliendosi di testa il cappello. «Io vado a svestirmi. E poi si andrà subito a cena. Gli sorrise e passandosi una mano sui capelli scomposti uscì dalla stanza.
Senza fretta andrò dritta in fondo al corridoio alla sua camera, e, chiusa la porta, sedette sul letto. Per un poco, con le mani in grembo, come attonita, guardò davanti a sé. Si sentiva triste e torbidamente scoraggiata, l’aver sperato anche un solo istante al matrimonio con Matteo le ispirava adesso odio e disprezzo verso se stessa e nello stesso tempo non sapeva che ilarità amara e nervosa come per una pretesa insensata che non avrebbe potuto non sortire questi risultati. Alzò poi gli occhi, vide sul comodino il ritratto dell’amante, e per un momento le venne un rabbioso desiderio di sbatacchiarlo in terra. «Imbecille,» pensava, «che credi all’amore e non hai un soldo, imbecille miserabile e bugiardo.» Ma, comprendendo l’inutilità di questo atto violento, si trattenne e, chinandosi alquanto, girò con una mano il ritratto e prese a guardarlo fissamente, non sapeva neppure lei se con più odio o con più ripugnanza. Lo guardava attonita, con la bocca semiaperta e gli occhi sbarrati e vuoti come pensando ad altro; ad un tratto la mano le scivolò dal comodino sopra il letto, ed essa vi si lasciò cadere distesa, con la faccia contro il guanciale. Stette così per qualche minuto con gli occhi e la mente pieni di una oscurità nera e arida. Quel che veramente provasse non avrebbe saputo dirlo nemmeno lei, le pareva di soffrire in un modo anche più intollerabile del solito, forse perché cadute tutte le illusioni, svanite le speranze, venuti meno i desideri, mancavano appunto ragioni concrete e limitate di sofferenza. Agli impulsi dell’animo, alle tristezze e alle rabbie fra le quali si era fino allora dibattuta, pareva che si fosse sostituito per sempre un furioso e preciso senso di vuoto che accompagnava ogni suo pensiero e dovunque si rivolgesse faceva il deserto. «E’ segno,» pensava, «che ho toccato il fondo,» e ricordava, infatti, non senza una sorpresa impaurita, di non essere mai stata tanto disperata. Contro Matteo, Sofia, Maria Luisa e tutti gli altri provava un odio contorto e caparbio, privo di quelle giustificazioni che spira il senso offeso della giustizia, l’odio di chi senta di aver torto, e in fondo non desideri neppure di aver ragione. Le sembrava che questa gente avesse tutte le ragioni di disprezzarla e di calpestarla e nello stesso tempo essa non fosse meno giustificata a odiarli e a morderli. «Basta con le speranze,» pensava rabbiosamente, «basta con i buoni sentimenti: io non sono fatta per questo.» In verità, in tanto disastro, niente ormai l’attraeva all’infuori di una vendetta lenta e pericolosa, la quale, pur essendo rivolta contro gli altri, avrebbe dovuto colpire anche lei stessa. «Rovinarli… e insieme con loro rovinare anche me. E che non ci siano più speranze. E’ che tutto sia buio,» pensava in fretta muovendo le labbra come per una preghiera: e provava quello stesso senso d’angoscia e di tesa volontà che alcuni mesi addietro al mare l’aveva afferrata quando tuffandosi aveva sentito lo spessore dell’acqua opporsi ai suoi tentativi di toccare il fondo. Questa volta il fondo era quella specie di distruzione compiaciuta e vendicativa, per la quale sentiva un’attrazione forte e in un certo modo sensuale e capiva con un impaziente disappunto che non meno della grande altezza della gioia, l’estremo grado della tristezza distruttiva doveva essere oltremodo difficile a raggiungersi.

Le ambizioni sbagliate (Film per la TV 1983) - IMDb

Fotogramma de Le ambizioni sbagliate, film Tv del 1983

Ritratto mirabile che disegna la protagonista come un demone dostoevskiano, mosso da una duplice forza: da una parte quella sociale (lei povera figlia di un professore ginnasiale, da cui l’amore di Matteo dovrebbe strapparla) dall’altra quella individuale che vuole e ambisce (appunto l’ambizione del titolo) far cadere nel gorgo infernale tutti coloro che le sono intorno nonché se stessa.

«E’ ovvio che Moravia stesso ne sia fiero: Andreina ha qualcosa del demone, ha l’“odio di chi si senta di aver torto, e in fondo non desideri neppure di aver ragione”. L’impianto dostoevskiano la fa essere inabile e vendicativa come gli altri: la rende, cioè, paritaria. Ma il suo demonio le dà anche il modo per sentire, con impressionante lucidità, il cortocircuito tra indigenza e caso, l’incrocio tra le contingenze e la vacuità. Moravia ce la presenta con una consapevolezza di miseria. La vediamo per un attimo sul letto: Una calza tesa e agganciata alla giarrettiera, sopra le trine molli della camicia, l’altra pendeva sul polpaccio lenta e arrotolata. Accanto c’è il mogano scuro, volgare e lucido dell’armadio; lo spazio si allunga in un imbuto, la banalità dell’ordinario frigge dentro una infelicità nera e senza speranza. (…) Eccola: gli occhi smorti e trasognati della donna parevano dire: «sono stanca di vivere», gli angoli delle sue labbra tremavano impercettibilmente, la luce vacillante delle candele prestava a tutta la faccia una fissità disperata e arida, ma bastava che Andreina stendesse un braccio per versarsi il vino, perché il suo grande corpo, come ridestato, palpitasse e fremesse, e il petto, malcontenuto dalla scarsa scollatura, si gonfiasse nudo e pieno di un respiro possente che pareva significare: «mi piace vivere, sono contente di vivere, sono giovane e voglio vivere” (Colasanti) e percepiamo la sua forza fatta di riscatto sociale, ma anche il suo abbandono, dovuto al desiderio frustrato, in cui s’infila per poi scomparire del tutto.

Dietro la sua “amoralità” come la definisce Pietro, non c’è niente che la possa salvare, ma come lei non si salva nessuno: Maria Grazia con la sua immobile arroganza, che l’accompagnerà per l’intero romanzo e che pagherà a caro prezzo; Pietro, che s’innamorerà perdutamente di lei, ma la perderà, perché non è stato in grado di “somigliarle” abbastanza; la sua fidanzata Sofia, pettegola e stupida, sorella del marchese Matteo, amante di Andreina, da cui la stessa è mantenuta; il malato Stefano, personaggio simile e nello stesso contrario ad Andreina, molle ma forte, pieno di anche lui di rabbia, rancore, ed anche passione calcolata; e poi tra gli altri l’adolescente Carlino, che viene iniziato ed usato dall’amore, e che non è in grado ancora di comprendere (l’unico in grado di suscitare un moto di tenerezza e simpatia).

Il libro, pubblicato da Mondadori, come già detto, non ebbe successo. Il clima intorno a lui si faceva piuttosto teso: controllo su ciò che scriveva, mancanza di libertà, soprattutto per un intellettuale come lui: per questo accettò l’invito di Prezzolini di recarsi negli Stati Uniti (dove tenne una conferenza sul romanzo italiano) e di proseguire il suo viaggio americano in Messico.

Tornato in Italia, nel 1937 pubblica L’imbroglio, testo che racchiude cinque romanzi brevi: La provinciale, L’avaro, L’architetto, L’imbroglio, La tempesta. Rifiutato da Mondadori, troverà accoglienza presso Bompiani, che da questa opera in poi sarà per sempre la sua casa editrice.MORAVIA Alberto - L'IMBROGLIO Cinque romanzi brevi - 1°edizione 1937 Bompiani

La provinciale, ambientata in una anonima città di provincia del centro Italia, narra la storia di Gemma Forese, ragazza di umili origini, che ogni estate la trascorre in una villa fuori città, ospite di un conte. Qui farà amicizia con le figlie del conte, ma attirerà l’attenzione del figlio maschio, Paolo, con il quale nascerà un vero e proprio rapporto d’amore che sarebbe sfociato in un matrimonio se non ci fosse stato l’intervento del conte. Tale intervento sarà motivato per la ragazza da un rifiuto d’ordine sociale, ma in realtà dal fatto che lui è il fratello di Gemma. Allora la ragazza accetta la proposta che un anonimo professore di fisica, pensionante della casa della mamma di Gemma, le aveva offerto. Interviene a questo punto del racconto una sedicente nobildonna bulgara, che dapprima incensa la delusione quindi la spinge a metterla in atto tradendo il marito e dandosi ad un amico. Questa donna metterà talmente soggezione a Gemma quasi a soffocarla, facendosi ospitare e diventando per la ragazza una specie di autorità; ma quando questa rimarrà incinta è come se prendesse consapevolezza di sé e si ribellerà, allontanandosi dalla città di provincia per andare a Roma dove il marito ha ottenuto una cattedra universitaria.

GEMMA

Gemma non era graziosa, anzi sfiorava la bruttezza, ma aveva quei lineamenti nobili e pronunziati che rivelavano un’origine non volgare; e a momenti sembrano comporsi in una specie di altera bellezza. Era alta, snella, ossuta, con lunghe e magre cosce eleganti, larga nel petto sfornito e nelle spalle: Il viso era smunto e pallido fuorché sugli zigomi sempre un po’ rossi; gli occhi grandi e lenti nel muoversi, con palpebre sporgenti che velavano la pupilla e davano agli sguardi un’aria di dignità squallida e sprezzante. Aveva il naso aquilino, la bocca grande e sdegnosa e, sotto capelli crespi, la carnagione delicata e malsana, ora diafana ora chiazzata di macchie di rossore. Certa peluria, che le adombrava le braccia e la nuca, faceva pensare ad un corpo villoso e infuocato pur nella sua sgraziata magrezza. Della madre aveva poco, salvo il naso che anche nelle Foresi era aquilino; del padre nulla, almeno a stare alle fotografie appese in casa dove appariva basso, tarchiato e bonario: era stato commerciante, era fallito e subito dopo era morto lasciando la moglie povera con la figlia ancora piccola. Comunque, così ossuta, pallida ed elegante, Gemma non aveva nulla di provinciale né di casalingo. Al contrario, veniva fatto di pensare, vedendola, a quelle donne anemiche e mondane, cittadine per vocazione, le quali passano le giornate distese languidamente sopra un divano e non escono che alla sera, vestite sempre di abiti da ricevimento, vere creature notturne, effimere e senza salute. Ma di tutte le apparenze, questa era certo la più ingannevole, perché Gemma non indossava mai altro che certi semplici vestiti scuri che cercava di stringere alla cintola per dare risalto alla snellezza del busto. E quanto alla vita, era la più monotona e morigerata che si potesse menare in quella pur tranquilla città di provincia.

LA PROVINCIALE Mario Soldati

Gina Lollobrigida: La provinciale

Il ritratto ci viene presentato anche sulla base di ciò che verremo a sapere in seguito: nata da un rapporto tra il conte e la signora Forese, Gemma nello stesso tempo, non può che avere aspetti popolari e nobiliari.
Potremmo definire la novella come una specie di “bildungsroman” al femminile: da una ragazza piena di sogni da rotocalchi e moglie borghese. Ma continua la lettura moraviana che sottolinea la distanza che separa il sogno e la realtà, in questo caso le aspettative nobiliari e una prospettiva di vita “non negativa”, ma possibile.

L’avaro, ci narra la storia di Tullio, avvocato, avaro economicamente, ma soprattutto negli affetti. Un giorno, per una questione legale conosce la coppia De Gasperis, che lo invitano a casa loro. La loro abitazione è estremamente modesta e Tullio ha il compito di tener compagnia alla signora Elena, moglie di De Gasperis, mentre quest’ultimo gioca a carte con altri tre uomini. A furia di parlarsi, fra i due nasce un sentimento, ma Tullio ha la netta sensazione (che si rivelerà veritiera) che sia gli altri giocatori che lui stesso siano gli strumenti “economici” per mantenere la coppia. Se ne renderà definitivamente conto quando dapprima sarà il signor De Gasperis a chiedergli soldi (che non darà), quindi Elena stessa che gli prospetta una vita insieme. Anche questa volta lui le negherà tale richiesta, ma andata via, Tullio si renderà conto, con dispiacere, della sua aridità sentimentale.

TULLIO

 A differenza di molti avari che non possono fare a meno di dimostrare la loro passione in ogni loro attimo e finiscono così per incarnarla e diventarne l’immagine vivente, l’avarizia di Tullio si nascondeva sotto la maschera di interessi tutto diversi quando non opposti; e non si manifestava che quelle rare volte in cui, per fatalità inevitabili, egli si vedeva costretto ad allentare i cordoni della borsa. Già, nella persona, Tullio non aveva nulla della secchezza rapace e diffidente che di solito viene attribuita agli avari. Era di media statura, più grasso che magro, con quell’aspetto sensuale e bonario proprio a chi è abituato a vivere senza preoccupazioni e senza rinunzie. Nella condotta poi era addirittura il contrario giusto della figura tradizionale dell’avaro: cordiale, buon compagno, facile di modi, fluente nella parola, c’era in lui quell’abbondanza che fa pensare alla generosità; anche quando, come era il caso di Tullio, questa abbondanza sia soltanto di sentimenti e atti generici che non costano nulla. Si dice inoltre che gli avari, ossessionati dalla loro passione, non siano capaci di interessarsi ad altro che al denaro. Ora se bastasse una certa diffusa curiosità per le cose dell’arte e della cultura a provare che un uomo è generoso quest’uomo era proprio Tullio. Non soltanto la parola denaro non era mai stata sulle sue labbra, ma altre vi suonavano continuamente ben più nobili e disinteressate. Egli leggeva diligentemente tutti i libri nuovi degli scrittori più in vista, seguiva con assiduità i giornali e le riviste, non perdeva un solo spettacolo del cinema e del teatro. Qualche maligno avrebbe potuto insinuare che i libri riusciva sempre a farseli imprestare, che i giornali le riviste li trovava nel circolo della stampa di cui era membro e che abilmente sapeva sempre procurarsi i biglietti di favore per qualsiasi rappresentazione che lo interessasse. Ma tale malignità non avrebbe annullato il fatto che questa sua passione per le cose dello spirito esisteva e pareva davvero in lui sopraffare ogni altra. La sera poi, molto spesso, riuniva in casa sua certi amici, avvocati come lui, e con loro discuteva fino a tardi delle questioni politiche e culturali più attuali. E non basta: pur sotto la bonarietà e la cordialità più rilasciate, egli affermava di possedere uno di quei caratteri seri, puntuali e persino un po’ austeri che sentono fortemente gli scrupoli di coscienza e inclinano a crearsi dei problemi morali. Particolare questo che, se era vero, non si accordava con una passione come l’avarizia. La quale, notoriamente, mette con facilità a tacere la coscienza e non conosce altri problemi all’infuori di quello tutto pratico di campare la vita spendendo il meno possibile.
Tale era Tullio, o meglio tale era stato. Perché quella cordialità, quella liberalità, quegli interessi vasti e molteplici non erano ormai più che apparenza mentre un tempo erano state parti essenziali del suo carattere. Veramente, c’era stato un tempo, una diecina di anni addietro, quando Tullio aveva vent’anni, in cui si era appassionato all’arte teatrale fino al punto di domandarsi se non sarebbe stato preferibile smettere di fare l’avvocato e scrivere commedie. Un tempo nel quale i problemi morali l’avevano diviso, sia pure su fatti poco importanti, fino al punto di farlo riflettere sopra se stesso e la propria vita. Un tempo, finalmente, in cui aveva speso senza parsimonia per sé e per gli altri. Ma di quel tempo e del Tullio di allora non era rimasta che l’apparenza. La sostanza, le radici di quella prima e sola fioritura della sua vita, senza che egli se ne accorgesse, anno per anno, gliel’aveva rose l’avarizia.
Ci sono persone che afflitte da qualche vizio, prima lo combattono, poi, incapaci per debolezza di frenarsi, si illudono alla fine che passi inosservato e vi si abbandonano con frenesia. E avviene al contrario che mentre essi finiscono per non accorgersi quasi più di soggiacervi, agli altri il loro vizio appare così visibilmente da oscurare e sostituire ogni altro loro carattere. Non diversamente avvenne a Tullio per l’avarizia. In principio è verosimile che tentasse di contrastare questa passione, poi, non resistendo al dolcissimo e invincibile prurito del risparmio, arrischiò qualche minuscola tirchieria. Coloro che gli erano vicini se ne accorsero, ma pensando che si sarebbe emendato da sé, per non mortificarlo, preferirono non avvertirlo. Egli si illuse allora di averli ingannati e si buttò a grosse madornali spilorcerie. Le quali di nuovo e a maggior ragione non passarono inosservate; ma la gente, pensando che erano troppo grosse ormai per essere riparabili, tacque daccapo. Egli aveva in quel tempo circa venticinque anni; da allora non mise più alcun freno alla sua passione meritandosi così pienamente il nome di avaro che ben presto gli venne attribuito.

La figura dell’avaro è stata da sempre materia di commedie nell’età classica e di opere letterarie. Lo stesso Moravia se ne appropria disegnando la figura di un borghese la cui evoluzione “psicologica” non solo lo renderà “avaro” economicamente, ma avaro anche di sentimenti. A smuoverlo sarà un fatto esterno determinato da una donna, come spesso accade nella narrativa di Moravia. Ma la difficoltà a “vivere” ed il bisogno di chiudersi egoisticamente su stesso lo farà finire solo e la sua malinconia, metaforicamente illustrata, è come la forfora che piove in un pulviscolo di pellicole bianche, fino a velare la superficie scura e lucida della tavola.

L’architetto: Silvio Merighi è un giovane architetto, fresco vincitore di un concorso. Viene contattato per un lavoro da un certo Mancuso, che gli commissiona la costruzione di una villa dove andrà ad abitare con l’attuale fidanzata dopo il matrimonio. Quando il Merighi presenta il suo lavoro si trova di fronte sia il fidanzato che la suocera, che sembra sia la vera e propria finanziatrice dell’opera e come tale colei con la quale l’architetto deve misurarsi. Conosciuta la giovane futura sposa, proprio dalle sue parole, viene prospettato a Silvio la reale o supposta situazione: la madre è l’amante del fidanzato e affretta il matrimonio per tenerlo vicino. Intanto tra Silvio e la giovane Amelia scoppia una vera e propria passione, fatta di voluttà e sesso. Il rapporto tra Mancuso ed Amelia sembra entrare in crisi, ma basterà l’intervento della madre per rimettere le cose in ordine. Così anche Silvio, interrompendo la relazione, potrà riprendere il suo lavoro d’architetto, solo dopo essersi sposato con la sua antica ragazza e il ritorno della coppia Mancuso dal viaggio di nozze.

NON C’E’ DA FARE IL MORALISTA

Ci fu di nuovo silenzio. Ora Silvio avrebbe voluto saperne di più, arrivare a capire come avesse fatto la De Cherini a mutare a tal punto l’animo di sua figlia. Così le spiegazioni della madre come quelle dell’Amelia non lo convincevano completamente, ci doveva essere dell’altro. Ma che cosa? Di un fatto però era convinto: che non ci fosse da fare il moralista, da esprimere cioè il suo disappunto particolare con vedute e rimostranze generali. Di questo era sicuro. Difatti non era più virtuoso degli altri, si era divertito con l’Amelia senza pensare un solo momento a farne sua moglie. Proprio come il Mancuso il quale, però, alla fine la sposava e così, in tutta la faccenda, era quello che faceva migliore figura. No, egli concluse, una questione morale non era mai esistita, semmai un contrasto di forze. Ora in tale contrasto non c’era dubbio che la vittoria avesse arriso alla De Cherini.

Il “moralista” Moravia disegna un mondo dove regna l’egoismo: egli, narratore al di sopra dei personaggi, fa di Silvio, del voltafaccia di Amelia, del Mancuso stesso, degli egoisti il cui fine non può che essere una forma agli occhi degli altri “normale” e che consenta una “rispettabilità borghese”, scevra da qualsivoglia sentimentalismo, naturalmente in tale società, perdente.

ALBERTO MORAVIAL'imbroglio e altri ... - Bertolami Fine Art

L’imbroglio: Gianmaria è un ragazzo estremamente timido, che vive a Roma in una pensione per studiare e diventare diplomatico. All’interno della pensione fa la conoscenza di una ragazza, Santina, accompagnata da quella che all’inizio fa passare per sua madre, la signora Cocanari e il suo compagno, sig. Negrini. Invaghitosi di Santina, il nostro viene a sapere dalla stessa di essere sfruttata dai due adulti e le chiede di prestarle dei denari per curare la vera madre e quindi non “vendersi” con la complicità dei due “protettori”; il nostro, precipitosamente, si presta di aiutarla e dapprima chiede i soldi ad uno zio, che lo mette alla porta, poi alla proprietaria dell’albergo che invece glieli offre. Dopo averglieli dati, viene a sapere che Santina, nottetempo, se ne andata sia con i soldi di Gianmaria che con quelli ed i gioielli dei suoi “protettori” fregando così sia l’ingenuità impulsiva di Gianmaria, sia chi le aveva insegnato ad essere disonesta. Ma l’amore lo trova egualmente: è quello della proprietaria dell’albergo, che aveva mostrato delle attenzioni su di lui che lo stesso non aveva saputo cogliere.

GIANMARIA

La timidezza di Gianmaria, dovuta all’età giovanile e all’esuberanza chimerica dell’immaginazione, era così profonda e, nello stesso tempo, accompagnata da una tanto rabbiosa volontà di disinvoltura e di franchezza, che, spesso, il risultato era una strana sfrontatezza insieme imprudente e inutile. Gli accadeva così, ossessionato com’era dal timore di parere timido, di precipitare azioni che avrebbero richiesto lunghi e cauti approcci; oppure di buttarsi ad occhi chiusi, quasi spaventato del proprio coraggio, in imprese ridicole o sterili o pericolose dalle quali ogni uomo sicuro di sé avrebbe rifuggito. Ancora, questa ostinata aspirazione a parere diverso da quello che era e a sforzare la propria natura lo portava ad agire senza necessità, secondo certi suoi calcoli astratti e rigidi coi quali si illudeva di crearci motivi e regole di condotta che in realtà gli mancavano affatto. E il tratto più curioso era che, una volta assunte queste parti insincere e puntigliose, come certi attori molto bravi, se ne investiva al punto di crederci; e di provare davvero quei sentimenti che in principio non aveva fatto che fingere.
(…)
La direttrice aveva fatto questo racconto con grande calma, ma guardando il ragazzo in una maniera singolare, insieme seria e inquisitoria. Poi tacque e lo fissò come chi aspetti qualche commento.
Gianmaria non sapeva davvero che dire. Sola cosa che avvertisse, piuttosto che delusione o dolore, era un gran gelo là dove la sera prima aveva provato per Santina tanti e così ardenti e generosi sentimenti. Tutto in una volta gli pareva di essere maturato, tutto in una volta la passione torbida e confusa per Santina era stata schiantata e spazzata via, lasciando dietro di sé nient’altro che vuoto e freddezza. Ora la sua avventura gli pareva chiara, leggibile e significativa in ogni particolare, ma oltre a questa lucida comprensione dei suoi errori non sapeva andare.

Come nel primo racconto anche qui si può parlare di bildungsroman, ed è lo stesso personaggio di Gianmaria a riconoscerlo: i due brani, tratti uno all’inizio e l’altro alla fine della storia, lo mostrano dapprima come un giovane timido ed inesperto della vita, l’altro come colui che, imparando attraverso l’errore è “maturato”, come dice lui stesso, pronto a vivere, che impara attraverso i sotterfugi e le scorciatoie disoneste altrui a scegliere l’amore non solo sessuale, come lo agogna per Santina, ma anche sentimentale, come quello per la direttrice dell’albergo (non dimentichiamo che è sempre il moralista Moravia a narrare).

La tempesta si svolge in un solo pomeriggio/sera: è una giornata uggiosa. Luca, giovane architetto, è ombroso e triste. Entra in un cinema per distrarsi con un film comico, ma cambia idea, esce e s’imbatte contro Marta, la sua ex fidanzata, che ha un bimbo da un altro uomo. Due anni prima, lei ha rifiutato di sposarlo, sotto l’influsso della sorella Nora, che preferiva vederla con un tale Meloni, ricco e disposto a mantenere entrambe. I due discutono animatamente, quindi vanno a casa di lei. Intanto si scatena la tempesta. Giungono alla casa di Marta che vive insieme alla sorella Nora; Luca nel salire le scale vede il campanello di un certo Bosso, altro riccone che non gli va a genio. Entrati, Luca cerca di riallacciare il legame passato, in quanto Meloni è in carcere per debiti. Marta, per ripagare i debiti dell’ex marito corre il rischio di rimanere povera, senza più nulla, se non un piccolo frutto del matrimonio. Mentre fuori imperversa la tempesta, arrivano prima Nora, poi Bosso, che cercano in tutti i modi di convincere Marta ad unirsi a Bosso, mentre la sorella avrà un provino in un varietà. Marta non riesce ad opporsi ai due, ma in seguito, avendo tutti bevuto champagne, Nora e Bosso si ubriacano. Allora Luca riesce a mandare Marta con il bimbo fuori dall’appartamento. Sorpreso da Nora e Bosso, usa la forza e si azzuffa con entrambi che, stupefatti, gli lasciano il margine necessario per raggiungere Marta. I due si allontanano in auto; il piccino è sereno e si addormenta cullato dalla corsa. 

IL SIGNOR BOSSO

Rivedendolo, Luca si convinse subito che un uomo simile, anche se non ci fosse stata di mezzo la rivalità per Marta, egli non avrebbe potuto mai che odiarlo. Bosso aveva una grossa testa posata sopra un corpo mezzano e tozzo, una fronte calva ma di una calvizie incerta e come sudicia, che si perdeva sulla nuca in un folto strato di riccioli brizzolati, sopracciglia tenebrose, arruffate e dotate di una loro pensosa e scimmiesca mobilità, occhi piccoli, naso grosso e fiorito tra due guance sanguigne, bocca molto larga ma senza labbra, sottile come il taglio di un coltello, un po’ sporgente a modo di muso, anch’essa, come le sopracciglia, singolarmente mobile. In quel momento, poi, quello che c’era in lui di animalesco piuttosto che diminuito pareva accusato dal vestito da sera che indossava e nel quale, ritto, duro e impettito non pareva muoversi a suo agio. Dondolandosi un poco, muovendo con importanza, uno di qua l’altro di là, i piedi che aveva piccoli in maniera sorprendente e calzati di scarpe leggere e fini, mandando avanti non la pancia ma il petto anzi lo stomaco, lasciando immobilmente penzolare lungo i fianchi, fuor dei polsini duri, come branche inutili, le scure mani e i polsi villosi, si avvicinò in fretta a Nora e a Luca.

La tecnica moraviana di straniare un personaggio attraverso un’aggettivazione che viri verso il brutto, era stata già utilizzata in modo più episodico nel romanzo, ma nella narrazione breve esso appare in modo evidente. Così dietro la descrizione vi è sempre uno sguardo morale, che sottolinea il grottesco di certi modi non solo di vivere, ma anche di vestire (in questo caso maschile) della borghesia di quel periodo.

“Il romanzo breve si attaglia più di ogni altra forma al temperamento di Moravia, appunto perché romanzo di una crisi. Nella sua narrativa l’intreccio e il fatto sono dati in ogni caso da una serie di crisi, che mettono in moto figure di vittime passive e per se stessi inerti di un vizio o di una passione”. (Giacomo De Benedetti)

L'amore disperato ed eterno tra Elsa Morante e Alberto Moravia

Intanto Moravia vive un momento difficile della sua vita: 1938, leggi antiebraiche (pur considerato ariano vive la sua situazione con angoscia e preoccupazione); 1941 morte del fratello Gastone e l’anno successivo morte del padre Carlo; nel ’41 inizia la tormentata vita coniugale con Elsa Morante, conosciuta nel ’37.

Nonostante tali difficoltà, Moravia nel 1940 dà alle stampe un’altra raccolta di racconti (la terza in ordine di tempo dopo La bella vita, che raccoglie i racconti pubblicati nei giornali tra il ’27 ed il ’32, pubblicata nel 1935 e L’imbroglio) che sembra confermare quanto detto da Debenedetti sulla sua capacità di raccogliere in un breve spazio narrativo le aporie della società contemporanea. Tale testo prende il titolo de I sogni del pigro, racconti, miti e allegorie. Quest’opera (che conoscerà altre due edizioni, una del ’44, con il titolo L’epidemia, con aggiunta di altri racconti, l’altra, nel ’56 con il titolo di Racconti surrealisti e satirici) sembra rispecchi uno sguardo che potremmo definire quasi “sperimentale”: si va infatti dal “realismo magico” di Bontempelli al surrealismo di Landolfi, senza tuttavia venir meno alle tematiche principali di Moravia stesso.

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IL COCCODRILLO

La signora Curto, verso le cinque, si mise il cappello e uscì di casa per recarsi a far visita alla signora Longo. La signora Longo, moglie di un direttore di banca, abitava un appartamento al pianterreno di una palazzina vecchiotta ma signorile, in un quartiere un tempo elegante e ora decaduto. Per la signora Curto, il cui marito era un sottoposto del signor Longo, la visita rivestiva un’importanza particolare. In primo luogo ella era di una condizione molto inferiore a quella della signora Longo, abitando poche stanze moderne ma misere in uno dei tanti casamenti della periferia. In secondo luogo era la prima volta che la Longo, dopo quasi un anno che si conoscevano, si degnava di invitarla a casa sua. La signora Curto assomigliava molto ad una gallina tra affaccendata e misteriosa che stia raspando prima di deporre l’uovo: piccola, ancheggiante, con una faccia olivastra, due rotondi occhi neri di molto vicini l’uno all’altro, il naso a punta. La signora Longo era una grande donna bionda, maestosa, strabica, teatrale, pettoruta, dolciastra affettata, protettiva e dignitosa. La signora Curto aveva cinque figli piccoli, e non sapeva parlare d’altro. La signora Longo non aveva figli, ma in compenso andava alle rappresentazioni teatrali, proteggeva i musicisti, dipingeva acquarelli e recitava versi. La signora Curto vestiva preferibilmente di nero, portando ai piedi grandi scarpe simili a ciabatte, e in testa informi e complicati cappelli ornati di veli e di perline. La signora Longo si può dire che vestisse sempre da sera, in toni violacei o verdoni. Tutte queste differenze facevano sì che alla signora Curto, giunta da poco dalla provincia, la signora Longo apparisse come una specie di simbolo e di personificazione di tutte le eleganze cittadine; e il salotto di costei come un luogo più sacro di un tempio e più misterioso della grotta di un oracolo. Questa intimidita e amministrativa soggezione non impediva tuttavia alla signora Curto di avere il suo piano circa la visita che si accingeva a fare. Tale piano consisteva nella ferma risoluzione di osservare e per quanto le era possibile, stamparsi bene nella memoria tutto quello che la signora Longo facesse o dicesse, e tutti quegli oggetti che nella casa della signora Longo le sembrassero degni di nota. Abbiamo detto che la signora Curto era provinciale; aggiungeremo che i suoi natali erano stati umili e la sua educazione sommaria. Donde, in lei, una continua penosa incertezza circa quelle regole del vivere mondano che si rendono tanto necessarie per la moglie di un impiegato di banca il quale sia desideroso di far carriera. Si aveva da tendere la mano ad un uomo o da aspettare che venisse tesa? Soffiarsi il naso ritti o torcendosi da parte? Fumare o non fumare? Accavallare le gambe? Togliersi i guanti? Levarsi in piedi per ogni persona che arrivasse? Intingere i biscotti nel tè oppure mangiarli asciutti? E, in un senso più largo di eleganza e di completezza, come si serviva il tè? Con le paste o con i biscotti? Come se ammobiliava una casa? Che specie di tende si mettevano alle finestre del salotto? E a quelle della stanza da pranzo? Come doveva essere vestita la cameriera? Che vestito si portava alle cinque ricevendo le amiche? Eccetera, eccetera. La signora Curto sperava che durante quella visita l’ospite avrebbe dato con la sua presenza una muta risposta a tutte queste domande, sciolto per sempre tutte queste incertezze. Altra speranza della Curto, nell’animo della quale questa visita determinava lo scioglimento torrenziale di tutte le ambizioni finora congelate, era che la signora Longo avesse anche invitato quel giorno alcune delle sue amiche, di lei non meno eleganti e mondane. E’ vero che non era un venerdì, giorno in cui la Longo invariabilmente riceveva. Ma lo stesso, per fare onore alla Curto, ella poteva avere invitato alcune di quelle sue amiche così celebri nell’ambiente della banca: la signora Sgroi, per esempio, la signora Pedullo, la signora Boffe. Se queste signore, ciascuna delle quali, a sua volta, aveva il suo giorno di ricevimento, erano presenti, la Curto si sentiva quasi sicura di azzeccare almeno un paio di inviti. E così, di invito in invito… Ma quest’ultima speranza venne delusa. La Longo la ricevette in un salottino semibuio, pieno di armi, di tappeti appesi alle pareti e di mobiletti traforati che la signora Curto giudicò orientali. Il salotto in cui avevano luogo i famosi ricevimenti appariva invece chiuso e oscuro attraverso i doppi usci vetrati. Tutta vestita di rosso cupo, una rosa finta sull’ampia scollatura, la padrona di casa parve alla Curto gentile e anche protettiva, ma distante. Sedettero l’una di fronte all’altra, sull’orlo di un sofà, nella luce velata di una lampada anch’essa di foggia orientale; e subito incominciarono a chiacchierare. Tolta la delusione della mancata presenza delle amiche, la signora Longo non tradì le speranze della visitatrice. Pur sorbendo il tè e rispondendo alle cerimoniose e alquanto indifferenti domande della Longo sulla casa, i bambini, il marito, la villeggiatura e altrettali convenzionali argomenti, la Curto ebbe modo di fare molto osservazioni utili. La signora Longo accavallava le forti gambe sotto il vestito di velluto color ciliegia; non intingeva i biscotti bensì li mordeva sollevando alquanto le labbra; non si soffiava il naso (ma è vero che non pareva raffreddata); di tanto in tanto si assestava con la palma languidamente aperta, i biondi gonfi capelli pettinati in una foggia antiquata; chiedendo alla Curto se voleva il tè debole o forte, le posava con noncuranza la mano sulle ginocchia, gesto confidenziale e lusinghiero; parlava sottovoce staccando le sillabe e stringendo i denti; portando la tazza alle labbra sollevava leggermente il mignolo ornato di una larga pietra verde; per sputare il nocciolo di ciliegia contenuto in un cioccolatino si parava la bocca con la mano; con il tè offriva biscotti dolci e salati ma niente paste; aspirava continuamente da un lunghissimo bocchino rosso (forse per intonarlo con il colore del vestito) e ributtava il fumo dal naso. Usava, per dire posacenere, la parola evidentemente forestiera di sandriéQuanto alla casa, oltre i suddetti mobiletti traforati che la visitatrice giudicò troppo esotici, e buoni appunto per una dama un po’ eccentrica qual era la Longo, la Curto notò che le tendine alle finestre erano rosse tutte pieghettate, giungendo fino a mezzo vetro, con due bacchette di ottone una sopra e l’altra sotto; che parimenti rosso era il damasco delle pareti; che c’erano dei portacenere assicurati con nastri sui bracciuoli delle poltrone; che una bambola vestita alla turchesca se ne stava seduta in fondo al sofà, sopra un mucchio di cuscini variopinti; che il tavolino del tè aveva le rotelle in modo da poterlo spingere dove si volesse e cento altre simili bazzecole. Ma la maggiore novità della visita e insieme la più discutibile parve alla Curto il fatto del coccodrillo. Si erano appena sedute che la bestia, spinto a musate l’uscio che dava nel corridoio, si fece avanti nel salottino. Sulle prime venne fatto alla Curto di mostrare alla padrona di casa l’animalaccio. Ma la Longo stava seduta proprio di fronte all’uscio e non poteva non aver visto il rettile; tanto più che in due passi barcollanti la bestia era giunta a sfiorare con il muso alzato il piede della Longo. Arguì dunque la Curto che il coccodrillo fosse di casa e sembrandole che non sarebbe stato educato far notare all’ospite una cosa che la stessa mostrava di voler ignorare, tacque e continuò a sorbire come se nulla fosse il suo tè. Intanto il coccodrillo, sempre con quel suo vacillante e faticoso incedere, girava dietro la Longo e si levava ritto alle sue spalle, poggiandosi sulla coda e sulle zampe posteriori. La Curto vide allora la signora Longo, con quello stesso gesto casuale e indifferente con il quale, pur discorrendo, ci si tira addosso i lembi di una pelliccia abbandonata sulla spalliera della poltrona, tendere indietro le due mani e aiutare il coccodrillo ad aderirle con la pancia al dorso, facendosi agganciare dalle quattro zampe gli omeri i fianchi. Tutto ciò fu seguito con quelle scosse nel corpo e quei gesti comodi e soddisfatti con i quali ci si assesta, appunto, qualche caldo e protettivo indumento sulle spalle. Quindi, evidentemente sicura che, così abbrancato, il coccodrillo non le sarebbe più caduto di dosso, la Longo si rivolse con bel garbo alla visitatrice chiedendole se desiderasse altro tè. Ora, la Curto si era certamente aspettata qualche stravaganza da una donna notoriamente eccentrica qual era la Longo; ma questa faccenda del coccodrillo superava di gran lunga ogni sua anticipazione. Per un momento, per così dire, ella rimase mentalmente a bocca aperta. Ma la domanda della Longo, destandola dal suo stupore, la fece vergognare di un atteggiamento tanto ingenuo e provinciale. Se la Longo, con l’aria di far cosa del tutto normale, si metteva addosso un coccodrillo vivo, perché mai ella doveva essere così rustica da meravigliarsene? Piena di rossore si chinò in avanti e rispose in fretta che desiderava certamente un’altra tazza di quell’ottimo tè. E, allo scopo di nascondere la propria confusione, aggiunse ancora qualche complimento sulla bevanda domandando alla Longo dove la trovasse se le era possibile procurarne anche a lei un pacchetto. Poi, per tutto il tempo che durò la visita, il coccodrillo non si mosse più, restandosene, come si è detto, ritto sulla massiccia coda, quattro zampe aggranfiate ai fianchi e alle spalle della signora Longo, la testa triangolare levata alta sulla testa di lei. La Longo si alzò un paio di volte per servire il tè, e il coccodrillo dietro, strana cosa a vedersi, anche perché era un esemplare molto grande che dalla punta del muso a quella della coda non misurava certo meno di tre metri; così che mentre con la testa sfiorava il soffitto, con la coda, dietro i calcagni della Longo, spazzava largamente il pavimento. Ma la Longo sempre maestosa girava per il salottino con l’animamalaccio aggrappato alla schiena seminuda senza dare a vedere alcuna fatica. Ormai la Curto pensava sempre più che questa del coccodrillo doveva essere una moda recentissima quanto bizzarra di cui ella, confinata nel suo casamento suburbano, non aveva avuto notizia; e, riflettendoci, le pareva che in questa novità ci fosse molto di buono: pur nella sua pesantezza, il coccodrillo così applicato, come si dice, donava, specie alle persone alte grandi come la Longo; inoltre proteggeva la schiena dai colpi d’aria, vantaggio non piccolo. Del resto, non si facevano forse le scarpe di coccodrillo? Dalle scarpe alla bestia viva e intiera non c’era che un passo. Sola difficoltà, semmai, il costo. Col prezzo corrente del coccodrillo pensò la Curto, non doveva essere stata piccola spesa per la Longo procurarsi un’esemplare di quelle dimensioni. E poi bisognava pensare al mantenimento della bestia, notoriamente assai vorace. La Curto si sorprese a sospirare pensando che lei, con il magro stipendio del marito, non avrebbe mai potuto permettersi nonché un coccodrillo, neppure una grossa lucertola. La Longo, avendo constatato la mancanza del limone, suonò il campanello per la cameriera; e l’ospite, in un ultimo impulso di scetticismo, aspettò non senza ansietà che la ragazza si affacciasse alla porta: voleva vedere come avrebbe preso questa faccenda del coccodrillo. Ma la cameriera, una robusta friulana a cui il succinto vestitino nero mal conteneva le membra sode e muscolose, aveva anch’essa il suo bravo coccodrillo aggrappato alla schiena; così che la Curto dovette arrendersi all’evidenza: certo era la moda più recente. Per altro non poté fare a meno di pensare che la Longo esagerava; c’era una vera e propria ostentazione di cattivo gusto nel permettere ad una domestica di portare gli stessi ornamenti dei padroni. Il coccodrillo della friulana era molto più piccolo di quello della Longo; così piccolo che, stando la donna di faccia, non si vedeva e si svelava soltanto quando voltava la schiena. Un coccodrillo appena più lungo di un ramarro di insolite dimensioni, seppure molto più largo e massiccio. Un coccodrillo bambino, si sarebbe detto. E si aggranfiava con una specie di tenerezza al dorso snello della ragazza, inserendo la coda scagliosa tra le natiche, e ficcandole il musetto appuntito sulla nuca sotto la crocchia dei capelli. Forse era un coccodrillo smesso, pensò la Curto, e la padrona dopo averlo portato per qualche tempo, se ne era stancata e l’aveva regalato alla cameriera. Ma le sue proporzioni simili a quelle del minuscolo e civettuolo grembialino avvitato ai fianchi vigorosi della friulana facevano piuttosto pensare che la Longo l’avesse comperato apposta per la cameriera. “Sprechi da gran signora” pensò la Curto non senza un invidioso dispetto. Uscita la cameriera, la Longo ne fece l’elogio. Ma la Curto volle farle capire come disapprovasse certe eccessive e dannose indulgenze del genere di quelle del coccodrillo; e rispose che bisognava stare molto attenti a non largheggiare troppo con le persone di servizio; altrimenti finiscono per montarsi la testa, e, quel che è peggio, non combinano più nulla. Specialmente coi regali, concluse la Curto, occorreva andare piano, molto piano. La Longo rispose che il suo sistema era di trattare le domestiche come se fossero state di famiglia. La Curto non sperava certo di essere mai in grado di comperarsi un coccodrillo, specie di quelle dimensioni. Cionondimeno volle osservarlo ben bene, per poterne poi parlare al marito e alle amiche. Il coccodrillo stava immobile, l’enorme testa triangolare rivolta al soffitto, quasi che avesse voluto, da quella sua boccaccia gengivosa, esalare un canto patetico. La sua gola bianca leggermente palpitante faceva da sfondo ai capelli della Longo di un biondo grigio, e non si poteva negare che l’effetto fosse piacevole. Fastidiosa invece doveva essere la pressione delle quattro zampe con le quali la bestia si abbrancava alle spalle e ai fianchi della Longo. Si vedevano benissimo gli unghioni cornei di quelle zampe affondarsi nel corpo molle e maturo della donna. Ne risultavano certe pieghe tirate del velluto rosso cupo del vestito, certi cuscinetti della carne troppo compressa di effetto poco grazioso. A parte le lividure, pensò la Curto, quale macello per i vestiti. Ma riflette che per decenni si erano portati i busti con le stecche di balena, strettissimi e malsani; valeva la pena, per seguire la moda, di sopportare qualche inconveniente. Di bell’effetto era invece la coda irta di scaglie cuspidate di un verde variegato e picchiettato di nero, massiccia e triangolare, languidamente appoggiata e trascicata in terra con movenze serpentine. Ma la bellezza della nuova moda si vedeva soprattutto quando la Longo si muoveva per il salotto. Con quel coccodrillo la cui schiena erta e corazzata le raddoppiava e più che raddoppiava lo spessore del corpo, la Longo faceva pensare ad un drago, ottenendo così, con grande semplicità, una linea molto moderna, e al tempo stesso ricca di imprevista e capricciosa fantasia. La Curto insospettita domandò alla Longo se fosse stata recentemente a Parigi, e, avutane risposta che ne era appena tornata, fu convinta che di là venisse questa straordinaria e in fondo abbastanza ardita novità. Bella forza, non poté fare a meno di pensare la Curto in un movimento di invidia, si sa che a Parigi ne inventano ogni giorno una nuova, bella forza in verità seguire la moda quando si ha la possibilità di fare appositamente il viaggio alla capitale francese. Un’altra curiosità che mordeva la Curto era di sapere come la Longo facesse quando usciva. Allo stesso modo di certi cappelli molto alti, il coccodrillo doveva essere di non piccolo impaccio negli autobus, nei tram e in genere in tutti gli ambenti angusti e affollati. E’ vero che la Longo aveva la macchina, e si sa che quando si possiede la macchina, ci si possono permettere molte cose che ai poveracci che vanno a piedi non sono consentite. Tuttavia, anche con la macchina, il coccodrillo restava una moda un po’ ingombrante. Per portare il coccodrillo bisognava stare o in piedi o seduti sopra uno sgabello senza spalliera in modo da permettere alla bestia di aggranfiare ben bene il corpo e di appoggiare a tutto suo agio la coda in terra. Ma in automobile? Si sedeva forse la Longo sul coccodrillo tirandosi la grossa coda tra le gambe? E il coccodrillo non soffocava? La Curto finì col dirsi che o la Longo non portava il coccodrillo che in casa, oppure, quando usciva, lo dava in consegna all’autista, riserbandosi di indossarlo tutte le volte che scendeva dall’automobile. Del resto, nessuno, pensò la Curto, si sognerebbe di andare in tram o al cinema vestito da gran sera, con diadema, scollatura e strascico. Evidentemente il coccodrillo non si portava che la notte, in occasioni straordinarie, all’opera o nei balli. Per quanto non si potesse negare che anche la mattina, ai giardini o al galoppatoio, un coccodrillo di dimensioni minori, simile a quello, per esempio, della cameriera, portato con disinvoltura sulla giacca di un completo color foglia morta, doveva riuscire una vera galanteria. Tutte queste cose la Curto le rimuginò senza però aprirsene alla Longo, ché non si sentiva ancora abbastanza intima per parlargliene. Ma si ripromise, ove fossero diventate amiche, di soddisfare completamente la sua curiosità. E chissà, forse la Longo, che pareva generosa, le avrebbe fatto ottenere a poco prezzo dal suo fornitore un coccodrillo magari di seconda mano. Il solo vero inconveniente della moda parve alla Curto il fatto che ogni tanto il coccodrillo, pur senza allentare la presa delle zampe, sbadigliava spalancando la smisurata bocca piena di denti e richiudendola di scatto, con un rumore secco assai sgradevole. Senza contare che ad ogni sbadiglio tutta la persona della Longo sobbalzava: un vero terremoto. Forse il coccodrillo aveva fame, pensò la Curto, o semplicemente si annoiava. L’inconveniente, del resto, non era molto grave. Bastava, infatti, mettere alla bestia una museruola simile a quella dei cani. E’ vero, però, che la bellezza del coccodrillo ne sarebbe stata assai menomata. Ormai quasi un’ora era passata; e la Curto, che si piccava di osservare le regole della buona creanza, si alzò per accomiatarsi. Avrebbe voluto domandare alla Longo qualche informazione sul coccodrillo, ma non ne ebbe il coraggio. Maestosamente, sempre tirandosi dietro l’enorme rettile la cui coda le trascicava alle calcagna per buon mezzo metro, la Longo la precedette nel corridoio che portava all’ingresso. La Curto, in questo passaggio, non resistette ad una tentazione molto scusabile, e, sporgendosi alquanto, tastò la schiena dell’animalaccio. Sperava di non farsene accorgere, ma inciampò in quella maledetta coda e cadde in avanti, con il naso tra le scaglie, rimanendo quasi soffocata dal puzzo acido e palustre che emanavano. «Attenzione», avvertì la Longo senza voltarsi, «non c’è molta luce in questo corridoio». Si salutarono nel vestibolo. La cameriera, con il suo coccodrillo aggrappato alla schiena, aprì la porta. Ma la Longa non disse alla Curto di tornare a vederla. E quella, andandosene, non poté fare a meno di attribuire questa freddezza alla povertà del proprio guardaroba. «Ma se mio marito riesce ad ottenere un avanzamento», pensò avviandosi a piedi alla fermata dell’autobus, «mi farò anch’io il mio bravo coccodrillo… e allora ce la vedremo, cara signora Longo…».

Italia magica : Contini, Gianfranco, Contini, Gianfranco: Amazon.it: Libri

Questo racconto, scelto dal critico Contini per una antologia in lingua francese pubblicata nel ’46, intitolata Italie magique, “racconti surreali novecenteschi italiani” presenta un duplice carattere:

  • Surrealista, intendendo con questo termine quel tipo di racconto in cui l’anormale viene descritto come fosse normale, senza alcuna forzatura né tematica, né linguistica: per meglio dire il lettore legge ciò che non può essere come fosse reale, quotidiano; (esempio principe di tale tecnica è La metamorfosi di Kafka)
  • Satirico, risulta evidente che il “coccodrillo” rivesta qui il ruolo di un vero e proprio status symbol della classe alta (richiamata anche dal nome “Longo”) invidiato dalla bassa (significatamene nominata “Curto”). Non è un caso che tutto il racconto abbia una focalizzazione interna, che è quella della persona che aspira ad elevarsi socialmente, e certamente, visto il modo con cui ce la presenta Moravia, non è certo amata dallo scrittore romano.

Tuttavia sia il surrealismo che la stessa capacità satirica, senza che Moravia sia palesemente schierato a livello ideologico (d’altra parte non era possibile essere assolutamente contro), non nascondano il “moralismo” di fondo che caratterizza il modo attraverso cui lo scrittore romano guarda il mondo. Egli è sia contro il vuoto morale che caratterizza la borghesia, soprattutto quella del ventennio, (il coccodrillo come status symbol ne è un segno), ma anche contro le aspirazioni borghesi delle classi inferiori che rafforzano il potere delle prime e la subordinazione delle altre.

Amazon.it: Cosma e i briganti - Moravia, Alberto - Libri

Appartenente a quest’opera vi è un’altro racconto lungo Cosma e i briganti, pubblicato dapprima sulla rivista Oggi, quindi sull’edizione de L’imbroglio e per ultimo, riportata meritoriamente e singolarmente alla luce dalla casa editrice Sellerio nel 1980. E’ un racconto che sembra riportarci al clima dell’Andreuccio di Boccaccio: si tratta di un giovane, Cosma, a cui il padre, noto giolleliere, affida dei preziosi al ragazzo da portare in città in cambio di merci.

COSMA

Quel gioielliere a nome Dragotis, uno dei maggiori nella capitale di quel piccolo stato dell’Europa orientale, ebbe una proposta assai vantaggiosa da tale Ataman sensale. Si trattava di recarsi in una città vicina per mostrare certe gioie di gran costo a persona arricchita che voleva ornarne la moglie. Parve al gioielliere che questa fosse una buona occasione per iniziare l’unico figlio, Cosma, alla pratica degli affari. Del resto Cosma si era già esercitato in transazioni di minor conto; e, seppure distratto e come reso disinteressato dai volubili umori dell’età giovanile, mostrava di essere sveglio e naturalmente dotato; anzi, talvolta, meravigliava il padre con la sua inaspettata accortezza. Il gioielliere disse al figlio che avrebbe dovuto recarsi in quella città insieme con il sensale, persona fidata. Gli avrebbe dato una borsa di cuoio con le gioie. Gli fornì tutti i chiarimenti sui prezzi e la qualità della merce. Del resto non si trattava che dei preliminari; dimostrare le gioie alla signora che, essendo incinta, non era in grado di affrontare il viaggio alla capitale; poi il padre sarebbe andato di persona a concludere la vendita. Cosma, sempre pronto ad accettare qualsiasi incombenza, accolse con piacere quest’incarico. Non che portasse molto amore al commercio paterno. Ma per lui, ancora svagato e curioso come sono spesso i giovani a venti anni, andare a mostrare questi gioielli era una avventura; allo stesso modo che cacciare il cinghiale selvatico nelle forre intorno la capitale o, la notte, arrischiarci nei locali più popolari. Egli era ancora nell’età felice delle scoperte, delle esplorazioni, degli esperimenti e delle incertezze. Questo senso di avventura, d’altronde, non gli avrebbe impedito di essere attento e scrupoloso, secondo le raccomandazioni paterne. Egli era come i bambini che pur fingendo azioni da adulti, sanno di giuocare; e tuttavia mettono nei giuochi più serietà e applicazione che i grandi nelle loro gravi faccende.

E’ chiaro, in questo incipit, il riferimento boccacciano: allo stesso modo con cui il padre del racconto dello scrittore fiorentino manda in figlio Andreuccio a Napoli per comprare cavalli e come il giovane ragazzo si lasci irretire dapprima da una giovane donna, quindi viva una serie di avventure, allo stesso modo Cosma durante il tragitto s’imbatte in alcune avventure: gli uomini che il padre gli aveva affidato per la sua sicurezza, lo tradiscono, ma vengono uccisi dai briganti, a capo dei quali vi è una giovane donna, Albina, con cui Cosma conoscerà l’amore. Sono entrambi chiaramente racconti di formazione e se Boccaccio lo inserisce in una Napoli reale,  Moravia narra una storia che non ha né luogo né tempo precisi, il cui unico scopo è quello di divertire se stesso e il lettore,  che per Boccaccio corrisponde a “dilettare”.

L’esperienza del surrealismo serve a Moravia per dar vita al suo terzo romanzo, La mascherata, pubblicato nel ’41, che venne direttamente sequestrato dall’autorità, rendendo esplicita la frattura tra lo scrittore romano ed il governo fascista. Esso trae ispirazione dalla sua permanenza messicana, pur essendo “chiaro” il riferimento ad ogni forma di dittatura (quindi anche quella fascista).

La mascherata è ambientato in un immaginario paese dell’America Latina sotto la dittatura di Tereso Arango, salito al potere dopo dieci anni di guerra civile. Il generale, dopo un primo periodo in cui, grazie a metodi brutali, pacifica il paese, vede la sua popolarità affermata; decide quindi la liquidazione del capo della polizia, Cinco, compagno feroce delle prime lotte. Allora Cinco, per non perdere l’incarico, decide di inscenare un falso attentato ai danni del generale, che, spaventato, avrebbe rinunciato a sostituirlo. Il Cinco sceglie come occasione per attuare il suo piano una festa in maschera alla quale Tereso avrebbe partecipato nei giorni successivi: allora decide di rivolgersi ad un agente provocatore, il Perro, per ultimare i preparativi della finta congiura. Il grande evento si sarebbe svolto nella villa di una ricca duchessa, la Gorina, che riesce ad assicurarsi la partecipazione della bella vedova Fausta, di cui Tereso è perdutamente innamorato. Le due donne intendono volgere a loro vantaggio la debolezza del generale per la marchesa Sánchez, disposta a diventare la sua amante per trarne dei benefici economici. Nel frattempo l’agente segreto del Cinco, alla vigilia della mascherata, si reca in una cittadina, dove incontra il Saverio. Il Perro tempo prima aveva individuato un certo numero di soggetti pericolosi per il potere di Tereso, potenziali rivoluzionari che teneva sotto controllo fingendosi il capo di un inesistente partito segreto che tramava ai danni della dittatura. Il Perro, in qualità di capo del partito, ordina a Saverio, un giovane estremista entusiasta di morire per la causa del proletariato, di inserirsi nella villa della Gorina travestito da cameriere per posizionare una bomba nella stanza da letto di Tereso; il piano del Perro e del Cinco sarebbe stato di sorprendere il Saverio in flagrante e di arrestarlo sotto gli occhi di Tereso, che avrebbe conferito loro gloria e ricchezza per aver sventato l’attentato. Nella vicenda si inserisce anche il fratellastro di Saverio, Sebastiano, un bel giovane, che, origliando una conversazione fra il Perro e il Saverio, viene a sapere che questi ultimi intendono far esplodere la villa della Gorina. Sebastiano allora decide di fingere di voler prendere parte all’azione rivoluzionaria al fine di salvare la vita a Fausta, della quale è anch’egli pazzamente innamorato, mentre per Fausta egli è solo uno dei suoi tanti amanti. Infatti, prima della festa, Sebastiano sorprende Fausta nel mezzo di un rapporto sessuale con un servo di nome Doroteo. Anche Tereso scopre del tradimento della donna, informato da un suo agente; per vendicarsi, decide di utilizzare il suo potere per costringere Fausta a maritarsi con Doroteo la sera stessa. Tuttavia succede un imprevisto: proprio nel momento in cui il Saverio sta mettendo l’ordigno esplosivo nella stanza da bagno adiacente alla camera di Tereso, Fausta entra nella stanza e sorprende il Saverio che, “agendo da vero rivoluzionario” strangola Fausta. Tereso, che ha udito un breve urlo della donna, accorre, sfonda la porta e spara al Saverio, e immediatamente annuncia che le nozze di Fausta con Doroteo sono annullate: al loro posto si sarebbe celebrato il funerale della donna. Il  capo della polizia, Cinco, che aveva promesso a Tereso di occuparsi in modo discreto di questo attentato (di cui aveva parlato col generale, affermando di esserne venuto a conoscenza mediante delle indagini) è chiaramente rovinato. Il Perro quindi dà il colpo di grazia al Saverio sparandogli alla nuca, non avendo più interesse ad un grande processo.

Pur essendo un breve romanzo dalla non breve sinossi si percepisce come esso sia ricco di avvenimenti, come ammette lo stesso Moravia al suo editore Bompiani: “Caro Bompiani, tra quattro giorni ti mando il romanzo nuovo. S’intitola La cospirazione – se questo titolo non va, si potrebbe chiamare La mascherata. E’ lungo circa 150 pagine – ho fatto il conto e verrebbero circa 200 pagine stampate come quelle dei Sogni. Sebbene corto, nel romanzo c’è più materia che nelle Ambizioni sbagliate che sono lunghe 500 pagine”.

MORAVIA, Alberto. LA MASCHERATA. 1941. - Auction Ancient and rare books, italian first editions of 20th century -

TERESO

Dopo quasi dieci anni di furiosa guerra civile, quella nazione di oltre oceano, decimata, rovinata, esausta, affidò le sue sorti al generale Tereso Arango.
Tereso, non meno valoroso che accorto, era il superstite e il vincitore di una mezza dozzina di generali che alla testa delle loro armate si erano contesi il potere per quei dieci lunghi anni di lotte intestine.
Tereso era di gusti semplici, militareschi, per non dire rozzi. La società molto brillante della sua capitale difficilmente avrebbe potuto dire di averlo mai avvicinato fuorché nelle feste patriottiche e durante le riviste militari. Tereso, a tutti i saloni, a tutti i ricevimenti aristocratici, preferiva le cene intime con gli antichi compagni d’arme, i combattenti dei galli, le corride, i teatri popolari, e, magari, qualche buon libro di storia o la musica facile di un’orchestrina di chitarre. Questa semplicità e ritrosia spiegano perché Tereso avesse per molti anni fermamente declinato gli inviti della duchessa Gorina, di gran lunga la più illustre, la più ricca, la più ospitale nobildonna del paese. Ma la Gorina aveva giurato a se stessa di trionfare della misantropia di Tereso; e vedendo che le adulazioni e le lusinghe non sortivano alcun effetto, decise di scoprire il punto debole del generale. Con tutta la sua virtù, Tereso era un uomo, e doveva pure averne uno. La Gorina, sotto il più esaltato e arcigno dei sussieghi, nascondeva una furbizia bonaria e penetrante. Non ci volle molto per scoprire che Tereso, così forte in guerra, si lasciava disarmare da un solo sguardo di donna che gli piacesse; e che, in particolare, in quel momento egli era innamorato di Fausta Sánchez, una vedova giovanissima, tra le più belle di quella società. La duchessa invitò Fausta a casa sua e si rinchiuse con lei per un paio d’ore nel suo gabinetto particolare. Il risultato di questa conversazione fu che qualche giorno dopo ad un ricevimento diplomatico, Tereso si vide ancora una volta invitato dalla Gorina.
Tereso odiava la Gorina in cui vedeva incarnati tutto l’orgoglio, l’ignoranza, la corruzione e la vanità dell’antica nobiltà del paese. Diede così la solita risposta; e cioè che gli doleva ma gli affari di stato gli impedivano assolutamente di prendersi svaghi del genere di quello che ella gli proponeva. La Gorina impassibile e sussiegosa lasciò cadere sbadatamente che questo suo rifiuto avrebbe certo costernato la marchesa Sánchez la quale aveva molto sperato di vederlo alla festa.
Tereso che da mesi dava inutilmente la caccia a Fausta, a quel nome sentì il proprio cuore, nonostante l’età e l’esperienza, mettersi a battere giovanilmente. «Ma chi vi dice», domandò imprudentemente, «che la mia presenza le sia gradita?»
«A chi non sarebbe gradita la presenza dell’Eccellenza Vostra?» rispose la Gorina con l’aria più che di adularlo, di fargli la lezione.
Tereso si morse le labbra e ribatté seccamente che se Fausta ardeva tanto di vederlo, non aveva che da venire al palazzo nelle ore di udienza e sarebbe stata subito ricevuta. La duchessa rispose esser vero che Fausta aveva perso il marito, ma aveva ancora un fratello; e come poteva credere Tereso che il fratello potesse permettere a Fausta di varcare quella soglia riuscita già fatale alla reputazione di tante donne? Troppo noto era il fascino che Tereso esercitava sulle donne perché il fratello di Fausta si mettesse a questi rischi. «Ho capito», pensò Teresio, «il prezzo di Fausta, per cominciare, è la mia partecipazione alla festa». Allora disse che era inteso, sarebbe venuto al ballo.

La Mascherata by MORAVIA ALBERTO (PINCHERLE ALBERTO): (1941) | Studio Bibliografico Michelotti

“Nel romanzo Tereso è il mandriano di un gregge vile, non un tenebroso criminale politico. Dagli scuotimenti sociali endemici di quelle terre lontane emerge come una figura tipica degli assestamenti periodici nella geologia politica latino-americana. Populista autentico, soldataccio di guarnigione, uno del volgo, Tereso vibra di emozione ogni volta che con sincerità evochi il popolo da cui è nato e a cui continua ad appartenere pur nella sua solitudine del vertice. Il popolo però non si vede, resta un coro lontano di demagogico sostegno, e tutto si svolge in una dimora ducale, non troppo diversa dalle ville moraviane dei quartieri alti, fra sudditi altolocati e infidi. Del resto l’uomo Tereso è ingenuo e la fragilità sentimentale ne rivela fatalmente la natura. Egli si innamora come un cameriere e mette a repentaglio la stessa dignità del suo potere per una sgualdrina matricolata. Non regge al confronto con una marchesa alla spudorata caccia di favori e piaceri. La lingua moraviana, educata all’indifferenza del puro rilievo da uno spietato realismo, non è quella dell’odio ma della desolata valutazione di una personalità autoritaria che incarna né più né meno valori e disvalori del gregge che ha ammansito, e che governa con paterno disprezzo. L’antifascismo moraviano non è infatti a senso unico, né declamatorio, né plateale, o formularmente virtuoso e consolatorio. Esso nasce non da una passione politica, da una partecipazione, ma da un distacco, da una solitudine, non da calore, ma da freddezza d’animo, da una voluta, cercata attenuazione di tensioni emotive, che sono poi la causa, per lo scrittore, degli inganni dell’ideologia, ma prevalentemente nasce da un ragionamento che rifiuta il potere che s’imponga con la violenza della retorica e del conformismo di massa e che sia subito dal consenso passivo dell’adesione irrazionale.” (Marino Biondi).

L’esperienza novellistica precedente il romanzo è piuttosto evidente nella creazione dei personaggi: ognuno sembra essere “maschera” di una tipologia (il dittatore che deve fare il dittatore”, Cisco che deve “tradire” per salvarsi, Saverio il tipo del rivoluzionario utopico e via dicendo) e tutti che finiscono proprio all’interno di una festa in maschera “una mascherata”, appunto, il cui titolo potrebbe alludere “pirandellianamente” all’idea dello scrittore siciliano secondo il quale tutti noi possediamo una maschera. Ma la componente satirica – che a volte scivola nel comico – non nasconde una velata allusione politica. Non è un caso che l’opera venne preventivamente sequestrata: se Tereso può alludere con il suo essere demagogo, vanesio nonché amante del bel sesso, al dittatore italiano, lo stesso possiamo dire dei suoi sottoposti, ognuno teso a tendere tranelli per il proprio tornaconto.
La mascherata, tuttavia, non ebbe il successo sperato, nemmeno dopo la caduta del fascismo: viene infatti considerata, a livello critico, un’opera minore, forse perché l’ideologia predomina sulla storia, oppure, forse meglio, per l’ambiguità dell’autore stesso verso il fascismo. Sappiamo che le bozze dell’opera vennero date a Galeazzo Ciano, che non si mostrò così contrario all’opera; le portò con sé per andare in Germania ad incontrare Hitler, ma di tale libercolo non si parlò più.

Nonostante ciò, Moravia non può più pubblicare niente col suo nome, né firmare sceneggiature cinematografiche che gli permettono di avere un qualche riscontro economico (usa lo pseudonimo Psico). Va via da Roma e nel 1941 Moravia è a Capri, insieme alla moglie Elsa Morante. Pubblica la raccolta di novelle L’amante infelice (che riprende, attorno a un nucleo di inediti risalenti al 1942, alcuni racconti già presenti in «La bella vita» del 1935 e brani scelti da «L’imbroglio»). Come nel caso di quest’ultimo libro e di La mascherata, anche L’amante infelice venne fermato dalle autorità fasciste poco dopo la sua pubblicazione. Nel frattempo Moravia lavora al romanzo Agostino, mentre la Morante è intenta al suo primo romanzo Menzogna e sortilegio, ambedue pubblicati nel ’43.

Alberto Moravia - Agostino. Con due Litografie fuori testo di Renato Guttuso. Edizione originale di 500 esemplariAgostino, verrà pubblicato presso un editore minore, la “Documento” di Federico Valli, in sole 500 copie, in quanto il partito fascista porrà il veto perché giudicato “scabroso”. Tuttavia, come dice Moravia stesso nel 1986, rappresenta un “libro fondativo” in quanto l’autore afferma “di aver ritrovato la vena che poi mi ha assistito fino ad oggi”. Infatti l’opera (oltre ad essere ammirata sia da Saba che da Gadda) è il frutto di un momento di felicità creativa in quanto il romanzo preesiste nella mente dell’autore, senza alcuna costruzione in fieri. Moravia infatti descrive il giovane Agostino, cogliendone sì, i primi turbamenti sessuali dovuti al rapporto edipico con la madre e i primi scontri di classe con i ragazzi “proletari” sotto protezione del maturo omosessuale Saro (e non bisogna assolutamente ignorare quanto questi temi siano “rivoluzionari” nell’Italia fascista del ’43), ma sia Freud che Marx non soffocano, con le loro teorie, la vicenda di Agostino, ma lo fanno entrare nel mondo in cui Freud e Marx esistono; dice infatti Moravia che il racconto: “è anche la storia dell’incontro di Agostino con la cultura moderna che presuppone l’opera dei due grandi smascheratori, Marx e Freud”.

L’opera venne ripubblicata nel ’45 e Agostino fu il primo romanzo italiano a ricevere nel dopoguerra il riconoscimento di un premio letterario autorevole, quello del “Corriere Lombardo”.

Agostino è un giovane tredicenne che trascorre l’estate in Versilia insieme alla madre vedova, ma ancora giovane e piacente. I due trascorrono insieme momenti felici, fino all’arrivo di Renzo, che si unisce ai tre, fino ad essere prescelto dalla madre, lasciando solo Agostino. Il giovane allora conosce Berto che gli fa conoscere altrettanti giovani, ma d’estrazione sociale diversa, inoltre viene a sapere che loro considerano sua madre una “poco di buono”. Agostino conosce anche Saro, un bagnino omosessuale, che ha una relazione con un ragazzo di colore, Homs, che fa parte del gruppo di ragazzi. Loro portano Agostino con loro e Saro tenta un approccio con lui, senza successo; ma non è il solo trauma del giovane, perché vede la madre baciarsi con Renzo. I ragazzi gli fanno conoscere l’esistenza dei postriboli, dove, per diventare grande, cerca d’entrare, ma viene respinto perché piccolo. Il romanzo termina con la richiesta di Agostino di tornare in città e di essere considerato dalla madre non più bambino ma uomo.

Agostino (1962) - IMDb

IL TRAMONTO DELL’INNOCENZA

La barca filò dritta verso la sponda, quindi il Saro diede un colpo di timone mettendola di traverso; e gettatosi sulla vela l’abbracciò, la ridusse e la calò. La barca si dondolò immobile nell’acqua bassa. Il Saro prese dal fondo della barca un ancorotto e lo lanciò in mare. «Si scende» disse. Scavalcò il bordo della barca e camminando nell’acqua andò incontro i ragazzi che lo aspettavano a riva.
Agostino vide i ragazzi affollarglisi intorno con una specie di applauso che il Saro accolse scuotendo il capo. Altro applauso più clamoroso salutò anche il suo arrivo; e per un momento si illuse che fosse di amichevole cordialità. Ma subito si accorse che si sbagliava. Tutti ridevano tra sarcastici e sprezzanti. Berto gridò: «E bravo il nostro Pisa a cui piacciono le gite in barca»; il Tortima gli fece un versaccio accostando la mano alla bocca; gli altri facevano eco. Persino Sandro, di solito così riservato, gli parve che lo guardasse con disprezzo. Quanto al negro, badava a saltellare intorno al Saro che camminava avanti a tutti incontro al fuoco che i ragazzi avevano acceso sulla spiaggia. Stupito, vagamente allarmato, Agostino andò con gli altri e a sedersi intorno al fuoco.
I ragazzi avevano fatto con la sabbia compressa e bagnata una specie di rozzo cunicolo, una dentro vi bruciavano pigne secche, aghi di pino e sterpaglia. Collocate di traverso sulla bocca del cunicolo, una decina di pannocchie di granoturco arrostivano lentamente. Presso il fuoco si vedeva sopra un giornale molto frutta e un grosso cocomero. «E bravo il nostro Pisa» riprese Berto come si furono seduti «tu e Homs ormai siete compagni… avvicinatevi uno all’altro… siete come dire?, fratelli… lui è moro, tu sei bianco, ma la differenza è poca… a tutti e due vi piace andare in barca…»
Il negro sorrideva soddisfatto. Il Saro accovacciato badava a rigirare le pannocchie sul fuoco. Gli altri sghignazzavano. Berto spinse la derisione fino a dare uno spintone ad Agostino buttandolo contro il negro, in modo che per un momento essi furono addossati l’uno all’altro, l’uno ridacchiante nella sua bassezza e come lusingato, l’altro incomprensivo e pieno di ripugnanza «Ma io non vi capisco» disse a un tratto Agostino «sono andato in barca… che male c’è»?»
«Ah, che male c’è… è andato in barca che male c’è» ripeterono molte voci ironiche. Alcune si tenevano la pancia dal gran ridere.
«Eh già, che male c’è» ripeté Berto rifacendogli il verso, «non c’è nessun male… anzi Homs pensa che sia proprio un bene… non è vero Homs?»
Il negro assentì giubilante. Ora ad Agostino cominciava ad albeggiare seppure in maniera confusa, la verità; ché non poteva fare a meno di stabilire un nesso tra quelle beffe e lo strano contegno del Saro durante la gita. «Non so che cosa volete dire» dichiarò «io in questa gita in barca non ho fatto nulla di male… Saro mi ha fatto recitare delle poesie… ecco tutto.»
«Ah… ah… le poesie» si sentì gridare da ogni parte.
«Non è vero Saro che ho detto la verità» gridò Agostino rosso in viso.
Il Saro non disse né sì né no; contentandosi di sorridere e sogguardandolo, si sarebbe detto, con curiosità. I ragazzi si scambiarono questo contegno in apparenza indifferente e in realtà traditore e vanitoso, per una smentita ad Agostino. «Si capisce» si udiva ripetere da molte voci, «va a chiedere all’oste se il vino è buono… non è vero Saro? bella questa… ah, Pisa, Pisa…»
Il negro, soprattutto, vendicativo, pareva godersela. Agostino gli si rivoltò e gli domandò bruscamente tremando per la collera: «Che hai da ridere?»
«Io, nulla,» disse quello scostandosi.
«E non vi litigate… Saro penserà lui a mettervi d’accordo» disse Berto. Ma già i ragazzi, come se la cosa a cui alludevano fosse pacifica e non meritasse più neppure di essere discussa, parlavano d’altro. Raccontavano come si fossero insinuati in un campo e vi avessero rubato il graturco e la frutta; come avessero veduto il contadino venirgli incontro furioso, armato di fucile; come fossero scappati e il contadino avesse sparato una fucilata di sale senza tuttavia colpire nessuno. Le pannocchie intanto erano pronte, rosolate e abbrustolite sul fuoco quasi spento. Il Saro le tolse dal fornello e con il solito paterno compiacimento, le distribuì a ciascuno. Agostino approfittò di un momento che tutti erano intenti mangiare, e con una capriola si fece presso a Sandro che un po’ in disparte sgranocchiava il suo granturco.
«Io non capisco» incominciò. L’altro gli lanciò uno sguardo d’intelligenza e Agostino comprese che non aveva bisogno di dire altro. «E’ venuto il moro in tramvai» pronunziò Sandro lentamente «e ha detto che tu e il Saro siete andati in barca.»
«Ebbene, che male c’è?»
«Io non c’entro» rispose Sandro gli occhi rivolti a terra, «sono affari vostri… di te e del moro… ma il Saro» egli non finì la frase e guardò Agostino.
«E allora?»
«Beh… io col Saro solo non ci andrei in barca»
«Ma perché?»
Sandro si guardò intorno e poi abbassando la voce diede ad Agostino la spiegazione che questi presentiva senza rendersene conto. «Ah» fece Agostino. E senza potere dire di più tornò al gruppo.
Accovacciato in mezzo ai ragazzi, con quella sua testa bonaria e fredda declinata verso la spalla, il Saro pareva proprio un buon papà tra i suoi figliuoli. Ma Agostino ora non poteva guardarlo senza un odio fondo, più forte ancora di quello che provava contro il negro. Ciò che soprattutto gli rendeva odioso il Saro era quella reticenza di fronte alle sue proteste; come a lasciare intendere che le cose di cui lo accusavano i ragazzi erano realmente avvenute. D’altra parte non poteva fare a meno di avvertire non sapeva che distanza di disprezzo e di divisione tra lui e compagni; quella stessa distanza che, ora se ne accorgeva, frapponevano tra loro e il negro; soltanto che il negro, invece di esserne come lui umiliato e offeso, pareva in qualche modo goderne. Più di una volta tentò di attaccare il discorso sull’argomento che gli bruciava, ma sempre incontrò sia la conzonatura sia una noncuranza ingiuriosa.
(…)
Dalla spiaggia erano passati alla boscaglia bassa dei pini giovani; poi varcarono un sentiero sabbioso ed entrarono nel canneto. Le canne erano folte, molte portavano in cima a bianchi pennacchi, i ragazzi apparivano e scomparivano tra quelle lunghe e verdi lance, sdrucciolando sulla melletta e smuovendo le canne con un fruscio arido delle rigide foglie fibrose. Trovarono alla fine un punto dove il canneto si allargava intorno un po’ di proda melmosa; come apparvero, grossi ranocchi saltarono da ogni parte dentro l’acqua compatta e vitrea; e qui, l’uno contro l’altro, sotto gli occhi del Saro che seduto a ridosso delle carni sopra un sasso pareva assorto a fumare ma in realtà li spiava tra le palpebre socchiuse, presero a spogliarsi. Agostino si vergognava, ma timoroso di nuove beffe cominciò anche lui a slacciarsi i pantaloni, procurando di mettervi molta lentezza e sogguardando gli altri. I ragazzi invece parevano gioiosi di mettersi nudi e si strappavano i panni urtandosi e interpellandosi scherzosamente. Erano, contro lo sfondo delle canne verdi, tutti bianchi, di una bianchezza squallida e villosa, dall’inguine fino alla pancia; e questa bianchezza rilevava nei loro corpi quel non so che di storto, di sgraziato e di eccessivamente muscoloso che è proprio della gente che fatica manualmente. Soltanto Sandro, biondo all’inguine come in capo, grazioso e proporzionato, forse perché aveva la pelle egualmente abbronzata per tutto il corpo, non pareva neppure nudo; e per lo meno non nudo in quella laida maniera di piscina popolare. I ragazzi preparandosi a tuffarsi, facevano cento lazzi osceni, scosciandosi, dandosi delle spinte, toccandosi, con un’impudenza è una sfrenata promiscuità che stupiva Agostino affatto nuovo a questo genere di cose. Era anche lui nudo, i piedi nudi neri lordi di melletta fredda, ma volentieri si sarebbe nascosto dietro quelle canne, non fosse altro per sfuggire agli sguardi che il Saro, accovacciato e immobile, in tutto simile a un’enorme batrace abitatore del canneto, avventava su di lui gli occhi socchiusi. Soltanto, come al solito, la sua ripugnanza non era più forte della torbida attrattiva che lo legava alla banda; e mescolata con essa indissolubilmente, non gli permetteva di capire quanto piacere si nascondesse in realtà in fondo a quel ribrezzo. I ragazzi si confrontavano a vicenda, vantando la loro virilità e la loro prestanza. Il Tortima, che era il più vanitoso al tempo stesso, così nerboruto è sbilanciato, il più plebeo e squallido, si esaltò al punto di gridare ad Agostino: «e se mi presentassi un bel mattino tua madre… così nudo… lei che direbbe? ci verrebbe con me?»
«No» disse Agostino.
«E io invece dico che ci verrebbe subito» disse il Tortima, «mi darebbe un’occhiata… tanto per valutarmi… e poi direbbe: “su Tortima, andiamo”».
Tanta goffaggine fece ridere tutti. E al grido di “su Tortima, andiamo” si slanciarono l’uno dopo l’altro nel fiume, buttandosi a capofitto proprio come quei ranocchi che il loro arrivo poco prima aveva disturbato.
La proda era circondata d’ogni parte dalle alte canne, in modo che si vedeva non più che un tratto del fiume. Ma come furono nel mezzo della corrente, apparve loro il fiumicello intero che con un modo insensibile della compatta e scura acqua di canale andava a sfociare poco più giù, tra i sabbioni. A monte il fiume si inoltrava tra due file di bassi e gonfi cespugli argentei che si spandevano sull’acqua specchiante certe loro vaghe ombre; fino ad un piccolo ponte di ferro dietro il quale le canne, i pini, i pioppi, folti e premuti gli uni contro gli altri, chiudevano il passaggio. Una casa rossa, mezzo nascosta tra gli alberi, pareva sorvegliare questo ponte.
Per un momento Agostino, nuotando in quell’acqua fredda e possente che pareva voler portar via le gambe, si sentì felice; e dimenticò ogni cruccio e ogni torto. (…)
Ma era meno forte ed esperto degli altri; e stancantosi ben presto, si lasciò andare secondo la corrente verso la foce. Presto i ragazzi con le loro grida e i loro schiamazzi gli furono alle spalle; i canneti si diradarono, l’acqua si fece limpida e incolore scoprendo il fondo sabbioso tutto percorso da fluttuanti increspature grigie. Finalmente, passata una pozza più profonda, specie di occhio verde della corrente diafana, egli mise i piedi nella sabbia e, lottando contro la forza dell’acqua, uscì sulla proda. Il fiumicello confluiva nel mare arricciandosi e formando come una groppa d’acqua. Perdendo la sua compattezza, la corrente si allargava a ventaglio, si assottigliava, non più che un velo liquido sui sabbioni lisci. Il mare risaliva il fiume con leggere onde orlate di spuma. Pozze dimenticate dalla corrente riflettevano qua e là il cielo brillante nella sabbia intatta e gonfia d’acqua. Tutto nudo, Agostino passeggiò per un poco su quelle sabbie tenere e specchianti, godendo a imprimervi con forza i piedi e a vedere l’acqua subito fiorire e allargare l’orme. Ora provava un vago, disperato desiderio di varcare il fiume e allontanarsi lungo litorale, lasciando alle sue spalle i ragazzi, il Saro, la madre e tutta la vecchia vita. Chissà che forse, camminando sempre dritto davanti a sé, lungo il mare, sulla rena bianca e soffice, non sarebbe arrivato in un paese dove tutte quelle brutte cose non esistevano. In un paese dove sarebbe stato accolto come voleva il cuore, e dove gli fosse stato possibile dimenticare tutto quanto aveva appreso, per poi riapprenderlo senza vergogna né offesa, nella maniera dolce e naturale che pur doveva esserci e che oscuramente avrebbe voluto. Guardava alla caligine che sull’orizzonte avvolgeva i termini del mare, della spiaggia e della boscaglia e si sentiva attratto da quella immensità come dalla sola cosa che avrebbe potuto liberarlo dalla presente servitù. Le grida dei ragazzi che si avviavano attraverso la spiaggia verso la barca, lo destarono da queste dolenti fantasie. Uno di loro agitava i suoi vestiti, Berto gridava: «Pisa… si parte». Si scosse e camminando lungo il mare raggiunse la banda.
Tutti i ragazzi si erano affollati nell’acqua bassa; il Saro badava ad avvertirli paternamente che la barca era troppo piccola per contenerli tutti; ma si vedeva che faceva per celia. Come infuriati, i ragazzi si gettarono gridando sulla barca, venti mani afferrarono i bordi e in un batter d’occhio la barca si trovò riempita di quei corpi gesticolanti. Alcuni si distesero sul fondo; altri si ammonticchiarono a poppa, intorno al timone; altri a prua; altri ancora sui sedili; alcuni infine si sedettero sui bordi lasciando penzolare le gambe nell’acqua. La barca era veramente troppo piccola per tanta gente e l’acqua arrivava fino quasi ai bordi.
«Allora, ci siamo tutti» disse il Saro pieno di buon umore. Ritto in piedi, sciolse la vela e la barca scivolò al largo. I ragazzi salutarono con un applauso questa partenza.
Ma Agostino non condivideva il loro buon umore. Spiava un’occasione favorevole per discolparsi e ottenere giustizia della calunnia che lo opprimeva. Approfittò di un momento che i ragazzi discutevano tra loro, per avvicinarsi al negro che se ne stava tutto solo, inerpicato a prua, e pareva, così nero, quasi una polena di nuovo genere; e stringendogli forte il braccio gli domandò: «di un po’… che cosa sei andato a dire poco fa di me?»
Il momento era mal scelto, ma Agostino non aveva potuto prima di allora avvicinare il negro, perché costui, consapevole del suo odio, durante tutto il tempo che erano stati a terra aveva fatto in modo di star lontano da lui. «Ho detto la verità» disse Holmes senza guardarlo.
«E cioè?»
Il negro ebbe una frase che spaventò Agostino: «non mi stringere, io ho detto soltanto la verità… ma se tu continuerai a metter su Saro contro di me, io andrò a raccontare ogni cosa a tua madre… sta attento Pisa».
«Che?» esclamò Agostino intuendo l’abisso che gli spalancava sotto i piedi, «cosa dici?… sei pazzo?… io… io». Balbettava incapace di seguire con le parole quello che l’immaginazione ad un tratto, come per un lurido strappo, gli mostrava. Ma non ebbe il tempo di continuare. Sulla barca era scoppiata una grande sghignazzata.
«Eccoli lì tutti e due, uno accanto all’altro» ripeteva Berto ridendo, «eccoli lì, bisognerebbe avere una macchina fotografica e fotografarli insieme, Homs e Pisa… restate, cari, restate insieme». Il viso bruciante di rossore, Agostino si voltò e vide che tutti ridevano. Lo stesso Saro sorrideva sotto i baffi, gli occhi socchiusi nel fumo del sigaro. Ritraendosi come dal contatto di un rettile, Agostino si staccò dal nero, si prese le ginocchia fra le braccia e guardò il mare con occhi pieni di lagrime.
Era ormai il tramonto, rosso e nebuloso all’orizzonte, sopra al mare violetto e percorso di luci vetrine e aguzze. La barca, nel vento che si era levato impetuoso, se ne andava come poteva, con tutti quei ragazzi a bordo che la facevano pericolosamente inclinare sopra un fianco (…) Agostino ora sentiva una pesantezza, un senso di oppressione e di chiuso dolore che il mare fresco e ventilato e l’incendio magnifico del tramonto sulle acque violette gli rendevano più amaro e insoffribile. Gli pareva sommamente ingiusto che in quel mare, sotto quel cielo, corresse una barca come la loro, così colmo di cattiveria, di crudeltà e di perfida corruzione. Quella barca traboccante di ragazzi in tutto simile a scimmie gesticolanti e oscene, con quel Saro beato e gonfio al timone, gli pareva tra il mare e il cielo, una vita triste e incredibile. A momenti si augurava che affondasse; e pensava che sarebbe morto volentieri tanto si sentiva anche lui infetto di quella impurità e come bacato (…). Si rendeva oscuramente conto di essere entrato, con quella funesta giornata, in una età di difficoltà e di miserie, ma non riusciva a immaginare quando ne sarebbe uscito.

Agostino (1962) | MUBI

Potremo definire questo estratto come estremamente significativo, grazie anche alla focalizzazione interna, della presa di coscienza di un mondo adulto e del “diventare” adulto di Agostino; dividiamo il brano in parti:

  1. all’inizio Agostino (chiamato dalla “banda” Pisa, dalla città di origine del ragazzo) si rende conto dell’esclusione sociale e culturale dei ragazzi della banda (il popolo) e della loro visione del mondo “smaliziata, violenta e impulsiva”;
  2. all’ingiusta accusa che i ragazzi gli muovono, egli non riesce ad opporsi e giudica i loro atteggiamenti come “animaleschi” paragonandoli alle ranocchie che avevano attirato, precedentemente la sua attenzione;
  3. la sua cultura borghese l’allontana, ma gli fa provare anche un terribile senso di colpa, quando Holms lo minaccia di rilevare tutto a sua madre, a cui oppone, appunto, un impacciato balbettio;
  4. Agostino si libera di ogni costrizione soltanto a contatto con la natura, quando fa il bagno; solo allora si sente libero, sotto il sole cocente e la trasparenza delle acque, ma questa sensazione fa a pugni con il suo tormento interiore, determinato soprattutto da un senso di repulsione/attrazione che prova verso la “banda”;
  5. presa di coscienza oscura e incerta del suo passaggio dall’incanto dell’infanzia al disincanto dell’adolescenza.

Intanto, sul piano politico, dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia, i due, Moravia e Morante, per non essere arrestati dai fascisti, tentano di raggiungere Napoli, ma sono costretti a fermarsi a Fondi (comune a sud del Lazio), dove vivono insieme a contadini e ad altri rifugiati (periodo fondamentale per l’spirazione di due grandi opere, il moraviano La ciociara e La Storia della Morante del 1974) .

La romana - Alberto Moravia - Libro Usato - Bompiani - | IBS

Del 1947 è La romana, romanzo che lo riconcilia con il pubblico, grazie anche al film omonimo di Luigi Zampa del 1954. Il clima cambiato dopo la liberazione e la conseguente cultura neorealista che s’impone in quegli anni (soprattutto a livello cinematografico) gli permettono di riflettere sull’elemento “popolare” (già visto, in parte in Agostino); infatti il romanzo è condotto con la voce narrante di Adriana ed il mondo è visto attraverso i suoi occhi, mentre lotta tra le sue semplici aspirazioni e quelle di sua madre che vuole per lei una vita facile e agiata, da ottenere grazie alla sua bellezza.

Il romanzo si svolge ai tempi dell’Italia fascista, ma la politica rimane nel sottofondo. La protagonista e voce narrante è Adriana, una ragazza ventenne, popolana ma di grande bellezza, che vive con la madre vedova, donna completamente disincantata da una vita di stenti, che vuole per la figlia una vita felice fatta di agi e ricchezze. Affinché Adriana possa sfruttare la sua bellezza la spinge a posare nuda per alcuni pittori, come primo passo per una scalata sociale; la ragazza entra così in contatto con un mondo mediocre ed ipocrita. Adriana, invece, ha altri sogni: vorrebbe sposarsi e vivere in tranquillità in una bella casetta, nulla di più. Ad alimentare questi desideri è Gino, un autista mal visto dalla madre di Adriana proprio per il suo lavoro. La protagonista scopre con Gino l’amore, sia sentimentale sia carnale, ma il personaggio si rivela ben presto un ipocrita essendosi finto celibe. Nel frattempo Gisella, (come lei modella) la invita a farsi mantenere (come fa lei) da gente ricca e facoltosa. Adriana comincerà quindi a frequentare uomini in cambio di denaro, oltre a dedicarsi a qualche piccolo furto. Conoscerà Astarita, un funzionario fascista che prima seduce, con la complicità della corrotta Gisella, Adriana e poi ne fa la propria accompagnatrice, (sarà lui a svelarle la situazione matrimoniale di Gino). Avviatasi sulla strada della prostituzione e riallacciati i rapporti con Gino, compie un furto nella casa dei padroni dell’amante, su sua istigazione. La restituzione della refurtiva (che aveva portato all’incriminazione di una cameriera innocente) diventa per Gino l’occasione di far soldi con il ricettattore Sonzogno, che di lì a poco, eliminato Gino, diventa il nuovo e violento amante della donna. Nel mentre, entra in scena Mino, un giovane studente antifascista. Adriana, incinta di Sonzogno, ricercato dalla polizia e dallo stesso Astarita, fa credere a Mino (cui si affeziona, e di cui rispetta gli ideali, benché le sembrino irreali ed improduttivi) che il nascituro sia suo. Incarcerato per motivi politici, Mino svela però i nomi dei compagni cospiratori; Adriana, su intercessione di Astarita, lo fa rilasciare, ma il rimorso spinge il giovane al suicidio. Sonzogno, in fuga, uccide Astarita ma poi cade in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine: Adriana, rimasta sola in attesa del figlio che Mino, in una lettera, ha legalmente riconosciuto, può forse sperare in un futuro migliore, con l’aiuto della famiglia di Mino.

Questo romanzo inaugura una seconda fase della narrativa moraviana che si concluderà nel 1957 con un’altra memorabile figura femminile in La ciociara. Eppure,  pur in questa nuova fase, Adriana non è così diversa sia dal disilluso Michele de Gli indifferenti che dall’adolescente Agostino del romanzo omonimo: anche per lei si tratta di una presa di coscienza di un mondo “altro”, quindi di una specie di “crescita” che la spinge ad accettare un mondo fatto di “sesso e di potere”. Per questo potremo dire che Moravia usi il topos della scalata sociale attraverso la prostituzione come i romanzi sette/ottocenteschi di De Defoe (Moll Flanders) e Zola (Nanà) – per non parlare del contemporaneo Il petalo cremisi e bianco di Michel Faber, scrittore olandese di lingua inglese. 

IL PITTORE E LA MODELLA

A sedici anni ero una vera bellezza. Avevo il viso di un ovale perfetto, stretto alle tempie e un po’ largo in basso, gli occhi lunghi, grandi e dolci, il naso dritto in una sola linea con la fronte, la bocca grande, con le labbra belle, rosse e carnose e, se ridevo, mostravo denti regolari e molto bianchi. La mamma diceva che sembravo una madonna. Io mi accorsi che rassomigliavo a un’attrice del cinema in voga in quei tempi, e presi a pettinarmi come lei. La mamma diceva che, se il mio viso era bello, il mio corpo era cento volte più bello; un corpo come il mio, diceva, non si trovava in tutta Roma. Allora non mi curavo del mio corpo, mi pareva che la bellezza fosse tutta nel viso, ma oggi posso dire che la mamma aveva ragione. Avevo le gambe dritte e forti, i fianchi tondi, il dorso lungo, stretto alla vita e largo alle spalle. Avevo il ventre, come l’ho sempre avuto, un po’ forte, con l’ombelico che quasi non si vedeva tanto era sprofondato nella carne; ma la mamma diceva che questa era una bellezza di più, perché il ventre deve essere prominente e non piatto come si usa oggi. Anche il petto l’avevo forte ma sodo e alto, che stava su senza bisogno di reggipetto: anche del mio petto quando mi lamentavo che fosse troppo forte, la mamma diceva che era una vera bellezza, e che il petto delle donne, oggidì, non valeva nulla. Nuda, come mi fu fatto notare più tardi, ero grande e piena, formata come una statua, ma vestita parevo invece una ragazzina minuta e nessuno avrebbe potuto pensare che fossi fatta a quel modo. Ciò dipendeva, come disse il pittore per il quale incominciai a posare, dalla proporzione delle parti.
Fu la mamma che mi trovò quel pittore: prima di sposarsi e di fare la camiciaia, era stata modella; un pittore le aveva dato da fare delle camicie e lei, ricordandosi del suo antico mestiere, gli aveva proposto di farmi posare. La prima volta che mi recai dal pittore, la mamma volle accompagnarmi, sebbene protestassi che potevo benissimo andarci da sola. Provavo vergogna, non tanto di avere a spogliarmi di fronte ad un uomo per la prima volta in vita mia, quanto delle cose che prevedevo la mamma avrebbe detto per invogliare il pittore a farmi lavorare. E infatti, dopo avermi aiutata a sfilare le vesti per il capo e avermi fatta mettere tutta nuda in piedi nel mezzo dello studio, la mamma accalorata incominciò a dire al pittore: «Ma guardi che petto… che fianchi… guardi che gambe… dove li trova lei un petto, delle gambe, dei fianchi come questi?». Pur dicendo queste cose, ella mi toccava, proprio come si fa con le bestie per invogliare i compratori al mercato. Il pittore rideva, io mi vergognavo e, siccome si era d’inverno, avevo molto freddo. Ma capivo che non c’era alcuna malizia nella mamma e che lei era fiera della mia bellezza perché mi aveva messo al mondo e, se ero bella, lo dovevo a lei. Anche il pittore pareva comprendere questi sentimenti della mamma e rideva senza malignità, in maniera affettuosa, così che mi sentii subito rinfrancata e, vincendo la mia timidezza, mi avvicinai in punta di piedi alla stufa per riscaldarmi. Quel pittore poteva avere quarant’anni ed era un uomo grasso, dall’aspetto allegro e pacifico. Mi sentivo guardata da lui senza desiderio, come un oggetto, e questo mi rassicurava. Più tardi, quando mi conobbe meglio, mi trattò sempre con gentilezza e con rispetto, non più come un oggetto ma come una persona. Io provai subito molta simpatia per lui e forse avrei potuto anche innamorarmi di lui, per gratitudine, soltanto perché era così gentile e così affettuoso con me. Ma lui non mi diede mai confidenza, trattandomi da pittore e non da uomo; e i nostri rapporti, per tutto il tempo che posai per lui, restarono corretti e distanti, come il primo giorno.
Quando la mamma ebbe finito di lodarmi, il pittore, senza dir parola, andò a certi suoi scartafacci ammucchiati sopra una seggiola e, dopo aver di sfogliati, tirò fuori una stampa a colori e la mostrò alla mamma dicendo a fior di labbra: «Ecco tua figlia». Mi mossi anch’io dalla stufa per guardare la stampa. Rappresentava una donna nuda, distesa sopa un letto coperto di ricche stoffe. Dietro il letto c’era una cortina di velluto e, sospesi per aria, tra le pieghe della cortina, due putti con le ali, simili a due angioletti. La donna effettivamente mi somigliava; soltanto, sebbene fosse nuda, da quelle stoffe e anche da certi anelli che aveva sulla dita, si capiva che doveva essere stata una regina o qualche altro personaggio importante, mentre io non ero che una ragazza del popolo. La mamma dapprima non capì e guardò sconcertata la stampa. Poi, tutto ad un tratto, parve afferrare la somiglianza ed esclamò trafelata: «Proprio così… è lei… vede se avevo ragione… e chi è questa?»

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Gina Lollobrigida (La romana nel film di Zampa) con i quattro attori del film che interpretano rispettivamente Gino, Astarita, Mino e Sonzogno

L’intento di Moravia è di “creare la figura di una donna piena di contraddizioni e di errori e, ciò nonostante, capace per forza ingenua di vitalità e slancio di affetto di superare queste contraddizioni e rimediare a questi errori, e giungere ad una chiaroveggenza e ad un equilibrio che ai più intelligenti e ai più dotati spesso sono negati”. Ma quello che può lasciare il lettore perpelesso è la non perfetta aderenza tra i pensieri e la “bassa cultura” di Adriana. Infatti sin dall’incipit emerge la sua semplicità, ma in altri passi la sua consapevolezza sembra oltrepassi tale ingenuità, lasciando scoperto il pensiero autorale.

Di tale incongruenza se ne accorge anche la critica: “(…) ne La romana, si potrebbe  parlare di una contaminazione tra neorealismo ed esistenzialismo negativo, dove l’esistenzialismo potrebbe entrare in funzione di uno specchio deformante di fronte al dato realistico della scottante materia su cui è costruita la trama (…). Più che altrove risulta chiaro, in questa creatura primitiva che, nonostante la sua dichiarata professione, ragioni a tratti come un filosofo esistenzialista largamente dotato di introspezione psicologica, il singolare processo di sovrapposizione e di identificazione in virtù del quale l’autore stesso si sostituisce, consapevolmente, pare, alla sua protagonista, alterandone in senso artisticamente negativo, la schietta fisionomia popolana”. (Ines Scaramucci). Inoltre ciò che si rimprovera all’autore è che il lungo romanzo sembri la sovrapposizione di più romanzi brevi, in ognuno dei quali Adriana racconta le sue storie d’amore con ogni uomo con cui si è relazionata (Gino, Astarita, Sonzogno, Mino); inoltre la critica ha sottolineato un eccessivo ricorso al “romanzesco” – si veda il finale – piuttosto che la capacità di renderci un personaggio “vivo”. Ciò non gli toglie tuttavia la sua grande attenzione verso il mondo femminile, che sa descrivere sempre mostrando la sua abilità nel coglierne anche le più piccole sfumature.

Dopo La Romana, in successione annuale, dà alle stampe due brevi romanzi sui quali aveva lavorato sin dai tempi di Capri, La disubbidienza, stampato nel ’48 e L’amore coniugale nel ’49.

Ne La disubbidienza il giovane protagonista è Luca, di quindici anni, (poco più grande rispetto ad Agostino, che ne ha tredici) di cui si racconta la difficoltà della crescita e il tortuoso cammino dell’adolescenza. Nato in un’agiata famiglia borghese, affettuosa ma incapace di comprendere le reali esigenze del ragazzo, Luca vive con sgomento il desiderio di ribellione che lo porta a gesti incomprensibili per i genitori ma anche per sé: inizia a disfarsi di giocattoli e di oggetti a lui cari; si disinteressa della scuola che prima era sempre stata al primo posto. A tali forme di ribellione, si aggiunge poi l’intenzione di scoprire l’erotismo, e Luca sceglie la governante di casa, non più giovanissima, non particolarmente avvenente, ma così attraente per gli occhi ingenui del ragazzo. Tra ripugnanza e curiosità, Luca accetta le attenzioni della donna, che tuttavia si ammala presto. E’ questa l’occasione perché Luca inizi a pensare alla morte e al sentimento del distacco… Una caduta in una depressione giovanile, quindi, forse insanabile, se al suo capezzale non fossero giunte le cure di un’infermiera amorevole, generosa, ora materna ora quasi seducente. Sarà con lei che Luca riuscirà a scoprire l’amore fisico, superando quel senso di disgusto iniziale, e sentendosi finalmente un uomo.

La Disubbidienza (Aldo Lado, 1981) - TUTTO IL RESTO - Gente di Rispetto

Luca è senza dubbio il fratello maggiore di Agostino, se infatti quest’ultimo è ancora un bambino che attraversa una fase che lo condurrà all’adolescenza (scoperta disincantata della realtà), il primo è un ragazzo nella piena temperie adolescenziale che si “opporrà” (disubbiderà) al mondo. Afferma Manacorda: “Come Agostino, è la storia di un’iniziazione liberatrice, anche se ne sono spostati i termini, ché là si trattava dell’affrancamento da un ovattata tenerezza materna con tutte le sue implicazioni psicologiche ed economiche, qui del superamento di un complesso di inferiorità fisica. Questa condizione del protagonista determina una decisione di «sciopero» nei confronti della vita, con un’inconscia ma sintomatica applicazione della tecnica della lotta sociale alla individuale lotta per la vita. Luca, il protagonista, si astiene dalla vita, ma non per stoica saggezza sibbene per una sua incapacità ad inserirvi, a comunicare, che ha un’iniziale motivazione fisiologica cui la successiva coscienza della ripugnanza della società della quale dovrebbe entrare a far parte finisce per conferire una giustificazione sul piano non più soltanto naturale ma storico”. 

IL RIFIUTO DELL’IDEOLOGIA BORGESE

Egli avrebbe sotterrato il denaro nel luogo stesso dove un tempo aveva pensato che avesse giaciuto l’assassinato; e seppellendoli il denaro, in un certo senso vi avrebbe sepolto anche se stesso; o, almeno, quella parte di se stesso che era attaccata al denaro. Vagamente, inoltre, a questi propositi più seri, si mescolavano ricordi di tesori sepolti in circostanze avventurose, echi di letture della sua prima adolescenza.
Era lo Scarabeo d’oro di Poe che soprattutto aveva in mente. Ma come una specie di alibi, rivolto a togliere ogni tragicità al sacrificio, e tenerlo nei limiti del gioco. Oltre al denaro, aveva portato seco una boccetta di vetro azzurro dentro la quale aveva chiuso una carta con la spiegazione del luogo dove avrebbe sotterrato il suo piccolo tesoro. Ignaro di criptogrammi, Luca si era accontentato di scrivere la spiegazione in gergo scolastico, aggiungendo una effe ad ogni sillaba. Questa boccetta, come nella novella, l’avrebbe nascosta nel cavo di uno degli elci che circondavano il piazzale.
Attraversò un grande prato quadrato guardando davanti a sé. In fondo al prato, il bosco d’elci si agitava di qua e di là con i suoi tronchi neri come una folla in preda al panico la quale ondeggi prima di fuggire. (…) Entrò nel bosco godendo a camminare sull’erto strato di foglie morte. Nel silenzio del sottobosco udì un fischio sottile di uccello; e poi, volgendosi, vide l’uccello stesso, grosso e nero, saltellare in terra e quindi levarsi a volo e nascondersi tra le foglie. Notò pure che, avviandosi per il bosco, provava una sensazione di libertà; e pensò che era bello agire, sia pure per distruggere la propria vita; e che agire era proprio questo: compiere atti secondo idee e non per necessità.
Nel piazzale non c’era nessuno. Egli vi si aggirò un momento pensando al tempo in cui aveva avuto la certezza del morto sepolto, e gli parve di ritrovare intatta l’aria romita e un po’ sinistra che durante l’infanzia l’aveva sedotto. Ecco il muro decorativo, con le nicchie vuote, le lapidi spezzate, le cornici sgretolate. Ecco i finestroni coi sedili e le grosse inferriate. Egli si arrampicò fino a una di quelle finestre e guardò dall’altra parte, nel giardino zoologico. C’era il fogliame fitto di una siepe di lauri, ma tra le foglie, gli parve di intravvedere le penne verdi e dorate di un grosso uccello esotico. Un ruggito lontano lo fece trasalire: le belve come allora, come sempre, avevano fame. Scese dalla finestra e si avvicinò al luogo designato. C’era tuttora lo stesso elce vetusto, sventrato in una grande apertura nera, con il ramo principale proteso verso il piazzale e appoggiato ad un sostegno di mattoni come il braccio di uno zoppo sopra una stampella. Sotto l’elce, c’era il morto. Tutto ad un tratto gli tornò il senso crudele e patetico di esservi stato sepolto lui, assassinato senza pietà.
Si inginocchiò sotto l’albero con un temperino prese a scavare una buca. Sotto il fogliame morto, la terra era fradicia e leggera, tutta piena di frantumi marciti di corteccia. Egli smuoveva la terra e poi con la mano la toglieva e la metteva da parte, in un piccolo mucchio. Terminata la buca, tolse lentamente di tasca i biglietti da banca e prese a lacerarli uno dopo l’altro, lasciando cadere i pezzi in fondo alla buca. Scoprì di provare per quel denaro un odio profondo; come si odia qualcuno che ci ha dominato e contro cui ci si è ribellati. Anche l’idea che il denaro fosse tenuto in tanta considerazione dai genitori e che lui, senza saperlo, per tanti anni, avesse pregato davanti a un forziere pieno di quel denaro, contribuiva al suo risentimento. Lacerando quei biglietti, sentiva di vendicare le sue preghiere, di compiere una riparazione. Ma anche il denaro era sacro; seppure in una maniera tutta diversa dall’immagine sacra che gliel’aveva nascosto mentre pregava. Era sacro per quelle effigi regali e quei simboli che ne garantivano il valore; ed era sacro perché avrebbe potuto essere felicità per tante persone. Per il povero, per esempio, che ogni mattina quando andava a scuola gli tendeva la mano all’angolo della strada. Ma darlo ad un povero sarebbe stato in fondo rispettarlo, confermarne il valore. E invece Luca voleva veramente distruggerlo, non soltanto nel proprio desiderio ma anche nella realtà. Idolo odiato, come sentiva, non ci voleva meno di quella lacerazione profanatoria, per sconsacrarlo definitivamente.
Quando ebbe finito di stracciare i biglietti, mescolò i pezzi e poi, tratta di tasca una busta piena di monete di argento, la ficcò in fondo alla buca sopra i biglietti. Compiva questi gesti con un senso di rigore grave e consapevole, seppure mescolato di mortale tristezza. Gli tornò in mente il morto assassinato e sepolto e di nuovo l’assalì quella strana pietà per se stesso. Intanto riempiva di terra la buca. Finito che ebbe, pareggiò il suolo e ricoprì ogni cosa con il tappeto delle foglie morte.
Si levò spolverandoli le ginocchia bagnate e sporche di terra e allora si ricordò della boccetta di vetro turchino e della novella di Poe. Ma questa volta gli mancò il coraggio di eseguire quella parte del piano. Provava una tristezza funebre e ammaliata e capiva che, dopo tutto, non era stato un gioco. Lui non era il corsaro sanguinario e insensibile alla fine di una vita di avventure e di libertà; quel piazzale non era il litorale deserto di una terra selvatica; infine nessuno avrebbe mai scoperto con gioia il suo povero tesoro di biglietti stracciati e di monetine d’argento. La mediocrità di se stesso, del luogo e del tesoro gli parve ad un tratto la prova migliore della serietà strenua di quanto andava facendo e dell’impossibilità di illudersi attribuendogli il valore di un gioco. Trasse di tasca la boccetta, l’aprì, tolse il cartiglio, e lo stracciò in pezzi minuti. La boccetta la schiacciò sotto il tacco. Allontanandosi, gli parve di aver agito come un pazzo. Tuttavia doveva esserci un senso in questa pazzia soltanto lui non era ancora in grado di scoprirlo.

La disubbidienza (1981) | MUBI

Scena de “La disubbidienza” di Aldo Lado (1981)

Qui il protagonista, che già precedentemente aveva dato prova di volersi liberare di tutte quelle “qualità borghesi” che, come fossero nuovi totem della classe al potere, lo portano a “disubbidire” loro, porta alle estreme conseguenze questo atto: cancellare, sminuzzando e seppellendo il denaro, sminuzza e seppellisce il dio in cui credono i suoi genitori (nascondono i soldi dietro un’icona religiosa, cui Luca rivolgeva le sue preghiere) e quindi “cancella” le figure genitoriali e cancellandole, rende se stesso, che di quella classe fa parte, un morto. L’azione che in questo passo compie è infatti estremamente ritualizzata e il terreno dove sotterra il denaro viene immaginato come il terreno su cui verrà seppellito un morto che Luca identifica come se stesso.

L’amore coniugale e altri racconti, pubblicato, com’è stato già detto nel ’49, può certamente definirsi un metaromanzo:

La storia è ambientata in una villa in Toscana, negli anni Trenta del secolo scorso. L’io narrante, Silvio Baldeschi, scrittore maturo e agiato, coltiva ambizioni letterarie, la moglie, Leda (nell’intimità Dina), è un’anima più semplice disinteressata al mondo della letteratura e dell’arte; nonostante questo il marito si fida molto del suo giudizio critico. Tutte le sere i due fanno l’amore in modo appassionato, ma ciò sembra togliere all’uomo la forza creativa necessaria per scrivere: convinto che le difficoltà che incontra davanti al foglio bianco derivino dalle fatiche del sesso, che lo svuotano completamente di energie, egli lo comunica alla moglie, quindi si concede un periodo di castità, per trovare le energie per scrivere. La moglie accoglie la proposta di Silvio con convinzione e lo incoraggia a perseguire la carriera di scrittore. Silvio si fa redere giornalmente dal barbiere del borgo in cui è situata la villa. Antonio. Il barbiere è un uomo pingue, piuttosto comune, dai lineamenti grossolani, che ha una famiglia con cinque figli a carico, ma in paese ha fama di essere un donnaiolo, un libertino, un erotomane. Leda confessa al marito di essere stata molestata dall’uomo e gli chiede di licenziarlo. Al principio non può credere che la moglie possa cedere al desiderio di quell’uomo rozzo, ma lei chiede di licenziarlo perché le confessa di essere stata molestata. Silvio tergiversa, quello che conta è aver trovato l’energia letteraria. Termina il romanzo, da lui intitolato L’amore coniugale, ma non lo soddisfa. Un giorno vede il barbiere e la moglie abbandonarsi sul fieno, non prova gelosia, ma solo insoddisfazione. In lui prevale il sentimento di sconfitta sia come marito che come scrittore.

L'AMORE CONIUGALE - ALBERTO MORAVIA - Foto 1 di 1

La vicenda, che ripercorre un po’ il topos della donna che “impedisce”, grazie alla sua potenza erotica, la possibilità creatrice dell’uomo (lo abbiamo letto nel primo Verga e in D’Annunzio) acquista qui un valore freudiano:

AMORE E CREAZIONE ARTISTICA

C’è nell’opera di Poe una novella che torna acconcia per descrivere la condizione del mio animo in quel tempo: è quella in cui è descritta l’avventura di un pescatore attirato con il proprio battello nelle spire di un vortice marino. Egli gira con la barca tutt’intorno le pareti del baratro e insieme con lui, sopra, accanto e sotto, girano innumerevoli relitti di precedenti naufragi. Egli sa che girando si avvicina sempre più al fondo del vortice dove l’aspetta la morte, e sa quale sia l’origine di quei relitti. Ebbene la mia vita poteva paragonarsi ad un costante vortice. Io ero preso nelle spire di un nero imbuto e sopra, sotto e accanto a me vedevo girare con me tutte le cose che amavo. Quelle cose di cui, secondo gli altri, vivevo e che invece vedevo travolte con me nello stesso strano naufragio. Io sentivo di girare in cerchio con quanto di bello e di buono è stato creato al mondo e non cessavo un sol momento di vedere il fondo nero dell’imbuto che prometteva a me e a tutti gli altri relitti una fine inevitabile. C’erano momenti in cui il vortice sembrava restringersi, appianarsi, girare più lentamente e restituirmi alla superficie calma della vita quotidiana; c’erano altri momenti, invece, in cui i giri si facevano più rapidi e più profondi e io allora scendevo girando sempre più in basso e con me scendevano tutte le opere e le ragioni umane e io quasi desideravo di essere inghiottito definitivamente. In gioventù queste crisi erano frequenti e posso dire che non c’è stato giorno, tra i venti e i trent’anni, in cui io non abbia accarezzato l’idea del suicidio. Nnaturalmente io non volevo nella realtà uccidermi (altrimenti mi sarei ucciso davvero), ma questa ossessione del suicidio era purtuttavia il colore dominante del mio passaggio interiore.
Ai rimedi pensai più volte; e ben presto mi resi conto che soltanto due cose avrebbero potuto salvarmi: l’amore di una donna e la creazione artistica. Sembrerà un po’ ridicolo che io nomini due cose così importanti in maniera tanto sbrigativa, come se si trattasse di due comuni medicine da acquistarsi in qualsiasi farmacia; ma questa sommaria definizione non rivela se non la grande chiarezza a cui, verso i trentacinque anni, ero giunto circa i problemi della mia vita. All’amore mi pareva di aver diritto come tutti gli altri uomini di questa terra; e alla creazione artistica ero convinto di essere portato per natura dai miei gusti e anche da un talento che nei momenti migliori mi illudevo di possedere.
Ora avvenne invece che io non oltrapassassi mai le due o tre prime pagine di qualsiasi composizione; e con le donne non raggiungessi mai quel sentimento profondo che convince noi stessi e gli altri. Ciò che mi nuoveva di più negli approcci sentimentali e creativi era proprio quella facilità dell’entusiasmo altrettanto pronto ad accendersi quanto rapido a cadere. Quante volte a un bacio strappato da labbra ritrose, a due o tre pagine scritte di furia, mi parve di aver trovato quel che cercavo. Ma poi, con la donna, scivolavo subito in un sentimentalismo verboso che finiva per allontanarla da me; e sulla pagina mi perdevo in sofismi, oppure in una abbondanza di parole cui mi induceva, in mancanza di seria ispirazione, una momentanea facilità. Avevo il primo impeto buono che ingannava me e gli altri, a cui poi subentrava non so che fiacchezza fredda e generica. E io mi accorgevo che in realtà non avevo tanto amato e scritto quanto voluto amare e scrivere. Talvolta trovavo anche la donna che per tornaconto e per compassione sarebbe stata disposta a lasciarsi ingannare e a ingannarmi; tal’altra la pagina sembrava resistere e invitarmi a proseguire. Ma ho questo di buono almeno: una coscienza diffidente che mi ferma a tempo sulla strada dell’illusione. Strappavo le pagine e con un protesto cessavo di frequentare la donna. Così, in questi tentativi passò la giovinezza.

Il rapporto di coppia, la crisi del matrimonio borghese, il difficile rapporto uomo-donna, il tradimento e il fallimento esistenziale sono gli altri fondamentali temi affrontati da Moravia in questo piccolo romanzo, dove lo scrittore romano mette in luce una grande capacità di introspezione psicologica. Con la rinuncia momentanea al sesso, in favore della creazione artistica, Moravia ci introduce al tema freudiano e dunque psicoanalitico della sublimazione. In Moravia, infatti, il sesso è usato come la chiave per comprendere la realtà. La donna ha un’esistenza più naturale dell’uomo, animata dall’istinto, un’innocenza che talvolta si muta in “crudeltà”“determinazione fredda e brutale, senza scrupoli di delicatezza”, assenza di “semplice buon gusto”. E in queste caratteristiche la donna manifesta il suo fascino e il suo mistero. Le idee di Moravia sulla donna sono note. Nell’Intervista sullo scrittore scomodo (a cura di Nello Ajello) pubblicata da Laterza nel 1978 affermò: “Per un romanziere, la donna è interessante in quanto selvaggia, o almeno per metà selvaggia, cioè non totalmente integrata nella società. Lasciamo stare le ragioni storiche che hanno prodotto questo suo mezzo apartheid: sono d’altronde piuttosto evidenti. Questo carattere semi-indomito, semi-selvaggio rende la donna, già di per sé, un personaggio drammatico.”

Interessanti sono anche le pagine, contenute all’interno del racconto, in cui l’autore ci suggerisce il metodo per analizzare e recensire correttamente un testo letterario.

Scrittori e popolo. da Alberto Asor Rosa: Good brossura (1976) | librisaggi

 

Nel 1952 la casa editrice decide di raccogliere tutti i racconti di Moravia in un unico testo, in due volumi. L’opera ricevette il Premio Strega, suscitando il risentimento di Gadda nei confronti dello scrittore romano. Lo stesso ci dice che il premio gli venne dato non perché la sua opera fosse migliore di quella di Gadda (arrivato secondo con Quer pasticciaccio brutto di via Merulana) , ma come “protesta” contro l’autorità ecclesiastica che aveva messo all’indice la sua opera, sottolineando l’incongruità di tale istituto censorio. Tra i racconti c’è uno in particolare che mette in luce il dibattito culturale che puntualizza la posizione degli intellettuali nel dopoguerra verso il popolo, quello che efficacemente può essere sintetizzato dal titolo di un famoso saggio di Alberto Asor Rosa Scrittori e popolo (1965):

ANDARE VERSO IL POPOLO

La macchina si fermò ed essi discesero. La strada in quel punto passava davanti ad una gola angusta formata dalla confluenza di due mediocri montagne incolte e sassose. Dall’altra parte la pianura allagata si stendeva a perdita d’occhio con larghi specchi d’acqua grigia e gelata alternati a ciuffi di cespugli e gruppi di alberi fronzuti. Qualche rovina di casa emergeva dalle acque, melanconicamente specchiandosi i muri sgretolati e le finestre piene di cielo. Allagata era pure la gola montuosa; ma in fondo, laddove le due montagne si congiungevano, un fumo azzurro si levava a mezza costa e stagnava per l’aria. A prima vista si pensava al braciere di un carbonaio; poi guardandolo meglio, si distingueva una capanna incappucciata dal basso tetto di paglia annerita. Era il tramonto, una nuvolaglia fredda e oscura ricopriva il cielo. L’aria era immobile e come intirizzita. Tra l’inondazione e la gola montuosa, il nastro di asfalto nero della strada descriveva un esse che pareva il guizzo di un rettile che cercasse con ogni forza di fuggire.
«Bisogna andare fino a quella capanna lassù», disse il giovane indicando il fumo azzurro sul pendio, «lì potranno darci un secchio e dell’acqua.»
La ragazza fece una smorfia di scontento. Aveva una faccia tonda, con una bocca capricciosa, un piccolo naso aquilino, e occhi grandi e inespressivi, a fior di testa. Alta, il cappotto a grandi scacchi scozzesi le modellava morbidamente i contorni dei fianchi opulenti e del petto florido. Era senza cappello e i capelli lunghi e bruni le si arricciavano tutt’intorno la fronte e le guance come una graziosa criniera. «Non puoi prendere l’acqua con qualche altro mezzo senza andare lassù?» domandò imbronciata.
«Con quale mezzo?» domandò il compagno. Non aveva più di vent’anni, ma nei grossi tratti del viso magro, nei forti baffi neri, nella voce nasale, dimostrava già qualche cosa di petulantemente virile. Anche lui era vestito alla moda sportiva, a scacchi, con la giacca a vento di cuoio, i pantaloni sbuffanti, e i calzettoni e un basco calcato sugli occhi.
«Arrangiati,» e la rispose stringendosi nelle spalle.
«Come? con le mani?» Egli domandò ironicamente. Ella non disse nulla, si guardava intorno e pareva malcontenta. «Io lo so,» disse ad un tratto, «queste fermate si rassomigliano tutte… Per un motivo o per un’altro andiamo alla casa del contadino… Ma poi, a mezza strada, cerchi sempre di baciarmi».
Il compagno scosse la testa, ma pareva lusingato dall’accusa.
«Su, Ornella,» disse con serietà finta e sforzata, «ti giuro che questa volta andiamo veramente per prendere l’acqua… del resto,» guardando un grosso cronometro d’oro che teneva al polso, «non abbiamo tanto tempo da perdere se vogliamo essere in città per l’ora di cena… deciditi… se vuoi, puoi aspettarmi qui.»
«Sì, tutta sola,» ella proferì in tono riottoso, «e poi passano le macchine dei militari e mi danno fastidio come stamattina… e tu intanto fai le tue inchieste sui contadini… chiacchieri con loro e ti dimentichi della mia esistenza.»
«Ma insomma,» la perpessità del giovane suonava falsa perché agli pareva oltremodo sicuro di se stesso, «se non vuoi aspettare perchè temi che i militari di diano fastidio… no vuoi venire con me perché temi che ti baci… si può sapere cosa vuoi?»
«Vengo,» ella si decise improvvisamente con una scontrosa civetteria, «se mi prometti di star buono.»
«Te lo giuro.»
«Allora andiamo.»
Egli chiuse lo sportello della macchina e si avviò per il sentiero che portava alla capanna. La ragazza lo seguì, camminando malferma sui sassi.
«Io mi domando,» disse il giovane precedendola, «di che cosa possano vivere i contadini che abitano questa capanna. Coltivazione non ce n’è, né qui né per molto spazio intorno. La pianura è allagata. Mah, mistero.»«Vivranno di rendita,» rispose la ragazza aggrappandosi con le unghie alla manica del giovane per non cadere.
«Ti ho già detto tante volte, Ornella,» egli la rimproverò, «che non mi piace la tua mancanza sensibilità di fronte alle sofferenze della povera gente… che diamine… sembra che tu lo faccia apposta.»
«Quel che m’importa,» ella disse fingendo di non aver udito, «è che tu non ti fermi come al solito a fare le tue eterne domande ai contadini… non posso soffrire i contadini.»
«Invece bisogna parlarci,» rispose il giovane, «a parlarci si vengono a sapere una quantità di cose interessanti.»
«Interessanti per te.»
«Ma non lo sai,» egli disse leggermente e quasi ironicamente, «che bisogna andare verso il popolo?»
Adesso erano a mezza via tra la capanna e la strada maestra. Si vedeva distintamente il fumo azzurro uscire non già da un comignolo ma dai fianchi gonfi del basso tetto di paglia. Il sentiero correva a mezza costa. Cinquante metri più giù l’acqua che allagava la gola non rifletteva il cielo bensì lasciava intravvedere, in una trasparenza gelata, l’erba avara, di un verde opaco, che tappezzava il suolo. «Che brutto posto,» disse la ragazza rabbrividendo e guardandosi intorno.
Dalla cima di uno dei monti, si levò un grande uccello nero, e cominciò a scendere ad ali spiegate e immobili, in lenti giri, verso il fondo della gola. «Che importa,» disse il compagno goffamente, «ci siamo noi.» In così dire, si voltò, passò un braccio intorno alla vita della ragazza e l’attirò a sé.
«Ecco… e tu mi avevi giurato che non l’avresti fatto,» ella gridò. Il giovane sorrise e tentò di baciarla. Ella gli mise la palma della mano aperta sulla faccia, cercando di respingerlo. In questo gesto sconvolgeva il bel viso in una smorfia di accanimento e di ripugnanza. Ma gesto e smorfia parevano più che altro civetterie, ripulse convenzionali. Il giovane, nonostante quella mano puntata sulla faccia, avvicinava sempre più le proprie labbra alle sue. Ella cambiò gesto e, con piccoli pugni, presi a tempestargli di colpi la faccia. Ma anche i colpi erano deboli e senza convinzione. Più che veramente ritrosa e sdegnata, ella pareva fingere sdegno e ritrosia. E infatti, dopo un momento, cessò di colpirlo e si lasciò baciare di buona grazia, chiudendo gli occhi e cingendolo il collo con un braccio. «Questi orribili baffi,» disse subito, come si separarono.
«Questo orribile rossetto,» egli rispose in tono vanitoso, asciugandosi la bocca e guardando le macchie di rossetto che restavano sul fazzoletto.
Ripresero a camminare verso la capanna. Ora avevano percorso tre quarti del sentiero e la strada maestra appariva quasi remota, con la macchina piccola e scura ferma presso il fossato, nella luce bassa del tramonto temporalesco. Di lassù si vedeva anche maggiore estensione di pianura allagata. E altri cespugli, altri gruppi di alberi, altre rovine di case che si specchiavano tristemente nelle acque grigie e immobili.
Il giovane la precedeva dondolandosi sui fianchi, con una vanità così visibile che ella, ad un tratto, si irritò fortemente. «Meriteresti che io tornassi indietro,» disse fermandosi e battendo i piedi in terra
«Provaci.»
«E’ quello che faccio.»
Ella si voltò e prese a camminare, incespicando, in direzione della strada maestra. Il giovane la raggiunse, la prese per un braccio e guardandola con attenzione sufficiente e ironica: «Ornella, è mai possibile che tu debba sempre fare i capricci?»
«E tu perché mi hai baciata,» ella domandò già arresa.
Ormai erano giunti alla capanna, una base circolare di pietre murate a secco e un tetto di paglia scura, conico che giungeva fin quasi a terra. La porta, piccola e bassa, schiacciata da un architrave formato da una pietra più grossa delle altre, faceva pensare piuttosto ad una stalla per animali che ad un’abitazione umana. Un albero completamente morto e secco, col tronco denudato di corteccia e rami ridotti a spuntoni forcuti, si inclinava verso la capanna. Infilate per i manichi in quegli spuntoni, pendevano due o tre marmitte annerite, qualche tazza e una pignatta di terracotta. Un’ascia da boscaiolo era appesa per il ferro in un’inforcatura dell’albero. In cima al ramo più alto si scorgeva un grande teschio di animale infilato per l’orbita in uno stecco coi denti lunghi e bianchi alzati verso il cielo tetro. Altro ossame, costole, vertebre, tibie, teschi, fiancheggiava sparso dovunque sullo spiazzo davanti la capanna. Nel mezzo del quale un cerchio nero di tizzoni spenti e due o tre ceppi d’albero disposti come sedili suggerivano l’idea di gente radunata intorno un fuoco.
«E ora,» domandò la ragazza girandosi e guardandosi intorno con ripugnanza, «cosa facciamo?»
«Bussiamo e ci facciamo ricevere dal padrone di casa,» rispose il compagno con soddisfazione. Egli andò all’uscio della capanna e bussò col pugno.
Quasi subito la porta si dischiuse, tentennò e si aprì del tutto. Ma nessuno comparve. «Ehi,» gridò il giovane con petulanza, chinandosi spingendo lo sguardo nell’interno della capanna, «ehi, di casa, c’è nessuno?»

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«Vieni, vieni, vieni pure avanti signorino,» rispose una voce stridula, smagliata, allegra.
«Su entriamo,» disse il giovane. «Entrare lì dentro?» ella domandò con ribrezzo. «Quante storie, entriamo,» egli ripeté prendendola per un braccio. La fanciulla ubbidì e chinando il capo e le spalle entrò nella capanna. Dopo di lei entrò il compagno.
Per un momento stettero ritti, le spalle alla porta. Un fuoco vivace ardeva in terra, sotto un tripode di ferro sormontato da una grossa pentola nera. Tutt’intorno la pentola, la ragazza, piena di impaccio e di ripugnanza, vide varie facce che il fuoco illuminava inegualmente. Erano facce di ragazzi, ma gonfie, rudi, con gli occhi piccoli e i capelli arruffati, pesanti, come ingrommati. Tra i suoi figli che le stavano aggrappati addosso e guardavano in silenzio i visitatori, la madre si sporgeva a girare con le due mani in un lungo mestolo nella pentola; e come la fanciulla ebbe rivolto gli occhi verso di lei, rabbrividì pensosamente.
Aveva una testa da far pensare a quelle bambole di stoffa e di segatura che per l’uso e gli strapazzi si anneriscono e si sformano senza tuttavia rompersi. Sul viso gonfio e piatto gli occhi piccoli, straordinariamente scintillanti, si perdevano in un mare di grinze sottili. Dalla gran bocca ridente spuntava un solo dente lungo e giallo. I capelli le stavano ritti tutt’intorno la testa, come tanti spilli intorno un puntaspilli. C’era una certa bonarietà in quel viso; ma corretta da una inquietante ed ilare eccitazione. E i bagliori rossi del fuoco, illuminandola a tratti secondo i movimenti delle fiamme, le davano un aspetto di apparizione, come di strega affaccendata intorno alla sua caldaia. «Buonasera, buonasera,» ella ripeté con voce strillante.
«Siete voi la padrona di casa?» domandò il giovane. Anche lui era sconcertato dall’aspetto della donna, ma non voleva mostrarlo.
«I tedeschi ci hanno distrutto la casa, ci hanno allagato il podere, ci hanno portato via le bestie, ci hanno rubato la roba… questa era la stalla delle capre, signorino», gridò la donna con impetuosa allegria.
«E ora come fate?» domandò il giovane. La fanciulla, riconoscendo l’inizio di uno di quei suoi interminabili interrogatori, ebbe una smorfia di noia e gli diede col gomito un colpo sul braccio. Ma lui fece un gesto col capo come per dire: “lasciami in pace.” La fanciulla levò gli occhi al cielo e sospirò. «Come facciamo,» continuava intanto la donna, «non sappiamo come fare… mio marito ha la malaria e non può lavorare… i miei figli non hanno vestiti, non hanno scarpe, vanno in giro nudi,» ed indicò gli stracci bucati, i piedi nudi e neri dei figli, «abbiamo finito proprio ieri la farina… guarda;» si alzò, andò in un angolo della capanna e ne tornò con un secchio vuoto che scosse per aria sprigionando una nuvola di bianca polvere. «E’ proprio finita,» ripeté soddisfatta buttando via il sacco. E poi, sporgendo la faccia ridente verso la fanciulla, con una esplosione più forte di quella sua ingiustificata allegria: «Come faremo?… moriremo di fame.»
«Morirete di fame,» ripeté il giovane ormai del tutto assorbito dal dialogo, «ma vediamo… non potete andare al paese più vicino e farvi dare la roba della tessera?»
«Il paese vicino l’hanno distrutto le bombe,» gridò la donna con fervore, «le bombe l’hanno distrutto… e la roba della tessera non c’è, ci sono soltanto le tessere… la roba è per chi paga… e noi non abbiamo quattrini, signorino.»
Queste informazioni fornite con tanto entusiasmo sembravano destare nel giovane uno scomodo malessere; visibilmente, egli avrebbe preferito che non fossero vere. «Eppure i vostri figli non hanno l’aspetto patito e neppure voi,» egli osservò. Effettivamente, la donna sembrava corpulenta, della maniera sformata, appunto, delle bambole di stoffa e di segatura. E i ragazzi erano tutte e quattro pasciuti, seppure in un loro modo torvo.
«Non siamo patiti perché i miei figli trovano la roba,» gridò la donna con rinnovata allegria.
«E in che modo?»
«Rubano, signorino,» gridò la donna con lo stesso entusiasmo con il quale prima aveva strillato: “Muoiono di fame.”
«Andiamo via,» mormorò la ragazza spaurita. Ma il giovane non le diede retta, sebbene fosse anche lui sconcertato. «E che rubano» domandò cercando di dare alla sua voce un’intonazione di normale curiosità.
«Eh, signorino, quello che possono… quello che c’è… adesso sulla montagna ci sono molte bestie… rubano i capretti e gli agnelli… vanno di notte e rubano i capretti e gli agnelli.» «Ma i pastori» domandò il giovane «non se ne accorgono?»
«I pastori no, che non se ne accorgono… se ne accorgono dopo, signorino… loro le bestie le chiudono, ma i miei figli vanno di notte, aprono le porte delle stalle e si pigliano gli agnelli e i capretti.»
«Vi arresteranno,» disse il giovane con improvvisa severità.
«E come fanno ad arrestarci? Non ci sono più carabinieri,» l’entusiasmo della donna pareva al colmo «e poi le guardie hanno fame anche loro,» soggiunse strillando come se il giovane fosse stato sordo, «tutti hanno fame oggi, signorino, tutti.»
«Ma rubare è brutto, è un delitto,» egli insistette con ostinazione.
«Rubare è brutto,» gridò la donna quasi affettuosamente, «ma morire di fame è più brutto ancora, signorino.»
«Ma smettila, smettila una buona volta, e andiamo via,» disse la ragazza. Aveva parlato quasi ad alta voce e la donna l’udì. «Non ti piace la capanna, eh signorina,» gridò «ma siamo in campagna… compatire e perdonare bisogna… perdonare e compatire.»
«La signorina ha fretta perché dobbiamo tornare a casa,» disse il giovane.
«La signorina è bella,» gridò la donna con entusiasmo, «la signorina è ben vestita… non ti trovi bene, eh, qui dentro, signorina.»
Finalmente il giovane si decise a porre un termine al dialogo: «Siamo venuti» disse, «per chiedervi se potete prestarci un recipiente e indicarci un pozzo dove prendere l’acqua.»
«Un secchio d’acqua,» gridò la donna, «ma subito, l’acqua non costa niente…» si levò andò in fondo alla capanna e ne tornò con un secchio. «Bisogna andare a prenderla di fuori,» soggiunse sempre gridando, «là fuori al pozzo… è lontano il pozzo… ma c’è mio marito al pozzo… ti aiuterà mio marito.» Ella si affacciò alla porta e facendo una voce lunga e lamentosa gridò: «Ohi, Alfredo.» Una voce d’uomo non meno lamentosa rispose da lontano: «Ohi Leonia.» Poi ricadde il silenzio.
«Va’ signorino,» disse la donna porgendo il secchio al giovane, «va’ pure… mio marito ti aspetta accanto al pozzo… prendi il sentiero dietro la capanna… però è meglio che la signorina aspetti qui…» soggiunse in fretta, «è brutto il sentiero… la signorina si scalderà accanto al fuoco.»
Il giovane che aveva già messo il capo fuori dalla porta, si raddrizzò e guardo la ragazza. «In fondo è meglio che mi aspetti qui,» disse, «vado e torno.» La fanciulla avrebbe voluto protestare ma non ebbe il tempo. «Siediti qui,» disse la donna spolverando con zelo un banco davanti al fuoco.
Il giovane intanto era uscito. La ragazza non osò rincorrerlo, e con un gesto schifiltoso sedette cautamente sull’angolo del banco. Subito la donna andò a chiudere la porta. La capanna ripiombò nel buio, salvo che intorno al tripode sotto il quale, in un bagliore circoscritto, il fuoco ormai agonizzava.
«Scaldati signorina,» disse la donna. Andò in fondo alla capanna e prese a frugare. Addossati gli uni contro gli altri, in un solo mucchio di Cenci, i quattro ragazzi fissavano in silenzio sulla fanciulla gli occhi intenti. Ella aprì la borsa, ne trasse delle sigarette, ne accese una con l’accendino quindi ripose astuccio accendino nella borsa e accavallò le gambe.
La donna tornò dal fondo della capanna con una bracciata di sterpi e un’accetta. Posò l’accetta sul banco e cacciò gli sterpi sotto la pentola, tra le braci. Quindi si gettò carponi in terra, la guancia contro il suolo fangoso, e prese a soffiare. Le fiamme corsero per gli sterpi, divamparono, avvolsero con rosse lingue i fianchi neri della pentola. Faville rosse salirono crepitando nell’oscurità della capanna.
«Ecco un bel fuoco acceso,» gridò la donna festosa, «ti piace il fuoco eh, signorina… è caldo… ripara dal freddo… dammi la tua borsa signorina.» Queste ultime parole furono pronunciate senza modificare la solita intonazione allegra e entusiasta. La ragazza la guardo, il viso le si sbiancò, le labbra le tremarono: «La borsa… perché?»
«Ma te l’avevo detto signorina,» gridò la donna in tono accorato e affettuoso rimprovero, quasi supplichevolmente, «te l’avevo detto… noi rubiamo… e se no come faremmo?» Ella si sporse, prese la borsa dalle ginocchia della ragazza, l’aprì e scosse in terra tutto quanto conteneva. Caddero il portasigarette, l’accendino, il tubo del rossetto, il portacipria e altri simili oggetti. Uno dei ragazzi, forse attirato da quel luccichio di cose metalliche e preziose, allungò una mano. La madre lo percosse sulla testa con un colpo bizzarro, tra il pugno e lo schiaffo: «Giù le mani.» Quindi rivolta alla fanciulla: «E’ tutto oro, signorina, è tutto oro?»
«Mario, Mario,» gridò ad un tratto la ragazza, balzando in piedi. Ma la donna fu più lesta e afferrata l’accetta andò a mettersi tra lei e la porta. «Signorina, perché lo chiami?… è con mio marito al pozzo.» La guardò un momento in tralice, con quei suoi occhi brillanti. «Ha il fucile mio marito» soggiunse con gioia.
La ragazza non disse nulla. Guardava alla donna, poi portò una mano alla bocca e se la morse.
«Siediti, signorina,» continuò quella, «ma togliti prima il paltò… anche il paltò mi serve. E fece il gesto di mettere la mano sul cappotto della ragazza.
«No, me lo tolgo da me,» disse la fanciulla con voce alta e astratta. Disfece i grossi bottoni dalle asole, si sfibbiò la cintura, fece per sfilare le maniche. «Aspetta signorina,» gridò la donna slanciandosi, «aspetta ti aiuto.» Nonostante i gesti disperatamente schivi della ragazza, ella l’aiutò a togliersi il cappotto e se lo buttò sopra un braccio. Ee ora togliti le scarpe signorina… anche le scarpe.»
«Ma io,» disse la fanciulla bianca in viso e le labbra tremanti, come farò poi a camminare?»
«Camminerai benissimo… i miei figli camminano tutti a piedi nudi… poi quando vai a casa, te le rifai le scarpe.»
La fanciulla era rimasta in un leggero vestito avana, con i polsini e il bavero di lino bianco. Sedette sulla panca e accennò chinandosi a slacciare le scarpe. Erano scarpe sportive, gialle, con la suola di gomma. «No, signorina,» gridò la donna, «no, te le tolgo io le scarpe.»
Si gettò in ginocchio per terra, prese in grembo il piede della ragazza e muovendo con delicatezza le dita tozze tra i lacci, aprì la scarpa e la sfilò dal piede, mettendola da parte. Tolse anche l’altra scarpa nella stessa maniera, ma questa volta non poté fare a meno di esaminarla alla luce delle fiamme. «Che bel piede hai,» riprese poi accarezzando il piede piccolo e raccolto della ragazza, «che bel piede piccolo piccolo… e le calze di seta,» soggiunge levando il viso in atteggiamento di preghiera, le calze di seta, signorina, non vuoi darmele?»
«Prendete, prendete tutto,» gridò la fanciulla e scoppiò in un pianto impaurito, nervoso, singhiozzando dentro il braccio levato.
«Piangi, signorina piangi, anch’io, quando i tedeschi mi presero gli ori, piansi e poi mi sentii meglio.»
«Prendetele… prendetele,» ella ripeté. Senza stornare il braccio dagli occhi e continuando a singhiozzare, ella andò con l’altra mano al bordo del vestito, lo rovesciò sopra il ginocchio, stese in fuori la bella gamba tonda calzata di seta e con le dita risalì lungo la coscia a slacciare i cappi delle giarrettiere. La donna inginocchiata, la guardava estatica, le mani sollevate e aperte come a significare che non voleva toccarla, che la lasciava fare da sé. Slacciata la calza della gamba sinistra, la fanciulla la tirò giù fino al ginocchio, quindi si girò sull’altro fianco, stese fuori l’altra gamba, si slacciò anche la seconda calza e l’abbassò sullo stinco. Finalmente si coprì il volto con le due mani, e stette immobile, in un atteggiamento desolato, la veste rivoltata sulle ginocchia, le gambe distese e come offerte.
«Grazie, signorina, grazie,» ripeté con gratitudine la donna. Ella arrotolò la calza sulla gamba della piangente come avrebbe potuto fare un’esperta cameriera, la ricondusse sul piede e poi, passando una mano sotto il calcagno, la tolse del tutto. Ripeté lo stesso procedimento per l’altra calza e si alzò in piedi. «Me le metterò io le calze, e anche le scarpe metterò io,» gridò come se avesse creduto di consolare la ragazza rivelandole la destinazione degli oggetti rubati. «Ma col paltò,» soggiunse sedendosi ed esaminando la stoffa, «col paltò ci farò i calzoni ai ragazzi… ci verranno due paia di calzoni,» gridò soddisfatta. «E forse anche la giacchettina per Natalino,» concluse.
La fanciulla non disse nulla. Singhiozzava, le lunghe gambe bianche stese verso il fuoco. La donna che aveva finito di esaminare il soprabito, lo ripiegò con cura e lo posò sulla panca. Arrotolò quindi le calze le mise dentro le scarpe che dispose in terra sotto il soprabito. Alfine si voltò di nuovo verso la ragazza e domandò in tono festoso: «Non hai altro signorina?… non hai anelli, non hai collane, non hai braccialetti? Io, quando mi sono sposata, avevo anelli, avevo collane, avevo braccialetti… e i tedeschi si sono presi tutto… tutto si sono presi i tedeschi, signorina.»
«Non ho più nulla,» ella rispose tra i singhiozzi.
La donna disse, come parlando a se stessa: «Hai un bel vestito… ma quello non te lo prendo… noialtre donne non sta bene che ci facciamo vedere mezze nude, nevvero signorina? Il vestito te lo lascio, signorina.» Chinandosi in avanti scoperchiò la pentola e prese a girare con forza il mestolo tra il fumo della vivanda. I ragazzi che fino allora erano rimasti immobili, tesero le facce verso quel fumo. «Vuoi mangiare?» gridò la donna. «Vuoi mangiare con noi?… E’ capretto… roba di campagna, si sa…»
«No, non voglio mangiare,» disse la ragazza. Ella si tolse il braccio dal viso, tiro giù la veste e si voltò da una parte, quasi mostrando la schiena alla donna. I piedi nudi cercava di non appoggiarli in terra; ma già aveva i calcagni neri di fango.
La donna disse ai figli, in tono giubilante: «La signorina non vuol mangiare.» Quindi con un forchettone di stagno pescò nella pentola un primo pezzo di carne e lo tese ad uno dei ragazzi che subito l’afferrò e l’addento. La donna distribuì altri tre pezzi, uno per figlio, ne prese uno per sé, e incominciò a divorarlo con accanimento, ungendosi tutta la faccia con l’intingolo. «Non vuoi mangiare?… proprio non vuoi?» insistette, il boccone tra i denti, voltandosi verso la fanciulla.
Questa non si mosse, non parlò. La porta si aprì e il giovane senza basco, bianco e spaurito in viso, affacciò la testa nella capanna. «Ornella,» disse.
La fanciulla si levò in fretta e uscì dalla capanna. Ormai era quasi buio; nell’ombra, dietro il giovane, ella intravide una figura d’uomo, ritta, con un viso lungo e scuro di barba, gli occhi intenti, la mano sulla cinghia del fucile. Ella guardò il compagno: era anche lui a piedi nudi, in mutande e maniche di camicia.
«E’ buio,» gridò la donna, «ma Alfredo vi accompagnerà… tieni, Alfredo.» Sbucò ad un tratto dalla capanna porgendo al marito un mazzo di cannucce infiammate. La luce rossa saltò ai visi e tutto intorno fu notte affatto.
In silenzio l’uomo si mosse, precedendo i due derubati, quella specie di face nella mano.
«Addio signorina, addio» giunse la voce della donna.
La ragazza taceva, stringendosi al fianco del compagno. Anche lui taceva. Reggeva il secchio pieno d’acqua e camminava a testa china, posando con difficoltà i piedi tra i sassi e il fango. Accanto ai suoi, i piedi piccoli e contratti della fanciulla, parevano eseguire una specie di danza. La luce davanti a loro lasciava nel buio l’uomo e sembrava che avanzasse da sola nella notte.
Gelati e assorti ad evitare i ciottoli aguzzi e il grosso fango, non si accorsero di essere giunti al termine del sentiero se non quando al suolo rupestre successe il liscio asfalto. Il giovane andò alla macchina, svitò il tappo del radiatore e prese a versare l’acqua. La ragazza aprì lo sportello e si gettò sul sedile.
Il giovane vuotò il secchio e lo rese all’uomo. Costui disse tranquillamente: «Buonanotte,» e scomparve nel buio.
Il giovane entrò nella macchina, chiuse lo sportello e accese il motore. «Mi hanno rubato tutto, tutto, tutto» ella disse stringendosi a lui con una voce che lo spavento rendeva vacua e riflessiva.
«Ed io allora?» egli rispose indicando il piede nudo con il quale premeva il pedale. La macchina partì, imboccò un lungo rettifilo e prese a correre nella notte, preceduta, sul nastro nero dell’asfalto, dall’alone bianco della luce dei fanali.  

Il testo è significativo: scritto nel 1944 e pubblicato su rivista, venne infine inserito nel testi I racconti  (ripubblicato in seguito con il titolo Racconti 1927 _ 1951) che vinsero il Premio Strega nel ’52.

Non è la prima volta che Moravia ci presenta personaggi popolari, li abbiamo già incontrati in Agostino. Ma sia in questo romanzo che in questo racconto essi sono disegnati in modo fortemente anti idillico, stravolti nel primo da una esclusione di tipo economico, qui da un motivo bellico. L’azione, infatti, s’immagina nel periodo della guerra di Liberazione, in cui due borghesi si rivolgono ad una contadina per chiedere dell’acqua per il radiatore della macchina, ma vengono derubati di tutto quello che possiedono. La forza del racconto sta nella presentazione borghese: i due giovani “recitano” la vuota commedia sentimentale del bacio prima rifiutato e poi accolto, quindi succede l’invito ad “andare verso il popolo” del giovane. Anche qui viene a mancare l’azione: la donna ed i figli si preparano a mangiare, mentre spogliano la povera ragazza. E’ evidente che l’intento moraviano è quello di mostrarci la borghesia che si affaccia verso il popolo senza avere una grammatica che le permetta di capire la sua condizione; non può che opporle un sistema fatto di giustizia “borghese” che le è completamente impermeabile. Insomma, sembra dirci l’autore romano, la borghesia intellettuale che prova a rappresentare le esigenze della classe popolare, non ne possiede per nulla gli strumenti.

Nel 1951 Moravia dà alle stampe uno dei suoi romanzi più controversi, ma da cui è stato tratto uno dei film più belli degli anni Settanta; sto parlando de Il conformista.

Il conformista by Moravia Alberto: (1951) | Studio Bibliografico Orfeo (ALAI - ILAB)

L’ottavo romanzo sembra nascere da un’esigenza che potremo definire biografica: sappiamo che lo scrittore romano era nipote di Amelia Rossella e i suoi figli, Carlo e Nello, fondatori di Giustizia e Libertà, furono barbaramente uccisi da sicari filofascisti e ritrovati in un bosco vicino a Parigi (episodio ripreso nel romanzo). Scrive infatti Moravia alla zia: “tra le tante testimonianze che ho ricevuto, la tua è quella che mi ha fatto più piacere. Tu hai mostrato di capire il senso del libro e il suo intento […]. Soprattutto mi fa molto piacere che tu abbia apprezzato la pagina sui due, nel bosco. Io ho scritto quella pagina per i tuoi figli, soltanto quella pagina e lì ho espresso il profondo sentimento che aveva destato in me la vostra tragedia” e aggiunge “il romanzo l’ho scritto per spiegare a me stesso e agli altri perché possano avvenire tali tragedie e in che modo. Sarebbe stato facile fare come tanti: mettere da una parte i cattivi e dall’altra i buoni” ma “la mia intenzione era più alta: volevo scrivere un libro che equivalesse a una tragedia e nelle tragedie non ci sono né cattivi né buoni, ma solo personaggi dai diversi destini.”

Carlo e Nello Rosselli testimoni di Giustizia e Libertà - Trentino Cultura

Carlo e Nello Rosselli

La struttura del libro è di tipo tragico, come si vede nell’articolazione del racconto: un prologo (tre capitoli), una parte prima (quattro capitoli), una parte seconda (undici capitoli) e l’epilogo (tre capitoli). D’altra parte la vita di Marcello è narrata come fosse già determinata da un destino tragico: non per niente Moravia ce la racconta tutta sin dall’infanzia.

Marcello Clerici, protagonista del romanzo, sin da ragazzo percepisce quel senso di anormalità e inadeguatezza dalla quale cercherà per tutta la vita di liberarsi. In questo periodo viene avvicinato da un uomo, Lino, che con la falsa promessa di regalargli una rivoltella lo avvicina, cercando di approfittarsi di lui, ma Marcello trova la forza di liberarsi dalla sua presa e a far fuoco con l’arma che le era capitata tra le mani e fugge, convinto di averlo ucciso. Nella parte centrale del romanzo, Marcello, diventato grande, è costretto a fare i conti con il trauma vissuto nell’infanzia e che vive con intenso disagio l’anormalità. Infatti cerca di omologarsi al modo di vivere corrente: si comporta comunemente, secondo l’etica piccolo borghese e accoglie convintamente il fascismo. È in questa fase che a Marcello, impiegato statale presso i servizi segreti, viene affidata la missione di rintracciare a Parigi il suo ex professore dell’università, adesso impegnato come militante antifascista all’estero. Egli accetta, e il caso vuole che la missione coincida con il periodo del suo matrimonio, così che il viaggio di nozze viene scelto come copertura per la missione. Giunto a Parigi, Marcello rintraccia il professore il quale, ricevuta la chiamata del suo ex alunno, lo invita a casa. Marcello e Giulia, sua moglie, vi si recano e qui non solo emerge che il professore e sua moglie sanno tutto di Marcello e dei suoi scopi, ma si crea anche un curioso triangolo: Marcello infatti resta folgorato dalla bellezza della moglie del professore e crede anche di essersene innamorato, ma questa si scopre subito avere inclinazioni omosessuali, ed essersi invaghita disperatamente di Giulia. Comunque la sera stessa del primo incontro le due coppie si rivedono, e durante la cena Marcello segnala al collega chi è il professore e lo informa che questi il giorno dopo sarebbe partito per la propria casa in Savoia. A Parigi sarebbero dovuti rimanere Marcello, Giulia e la moglie del professore che parte con il marito e Marcello e Giulia fanno ritorno in Italia. Qui dopo alcuni giorni vengono a sapere dell’uccisione dei due sulla strada per la Savoia e Marcello scopre da Orlando che prima che fosse compiuto l’omicidio era stato inoltrato l’annullamento della missione che però non era arrivato in tempo agli esecutori. Alla fine del romanzo Marcello osserva dalla finestra la città in festa per la Liberazione. Marcello e Giulia sono preoccupati per il loro passato; decidono di fuggire, ma quella sera egli decide di recarsi nel centro della città a osservare il giubilo di coloro che festeggiano. Si ritrovano quindi a Villa Borghese e qui Marcello incontra, ormai impiegato come guardiano notturno, Lino, che non era morto. Scacciato Lino i due vanno via e tornano a casa. Il giorno successivo Marcello, Giulia e la figlioletta partono per villeggiare con i nonni a Tagliacozzo, da dove poi progettano di fuggire per l’estero, possibilmente per un paese lontano. Sulla strada, mentre Marcello guida, l’auto in corsa viene raggiunta da un aereo che, nel fare fuoco sulla zona, la colpisce. Marcello, ferito, viene ribaltato fuori e prima di morire ha solo il tempo di accorgersi che non c’è vita neanche dentro l’auto perché anche moglie e figlia vengono ferite mortalmente.

Il brano fa parte della prima parte, quella riguardante l’infanzia e l’adolescenza di Marcello: 

LA RIVOLTELLA

Egli doveva a tutti i costi ottenere che Lino mantenesse la promessa e gli desse la rivoltella, pensò Marcello più tardi affrettandosi per le strade, verso il viale dei platani. Marcello si rendeva conto che Lino gli avrebbe dato l’arma soltanto che egli avesse voluto e, pur camminando, si domandò quale contegno avrebbe dovuto tenere per raggiungere più sicuramente il suo scopo. Pur non penetrando il vero motivo delle smanie di Lino, con istintiva civetteria quasi femminile intuiva che il modo più spiccio per entrare in possesso della rivoltella era quello suggeritogli il sabato avanti da Lino stesso: non curarsi di Lino, disprezzarne le offerte, respingerne le suppliche, rendersi, insomma, prezioso; finalmente non accettare di salire nella sua macchina se non quando fosse ben sicuro che la rivoltella era sua. Perché, poi, Lino tenesse tanto a lui, e lui fosse in grado di fare questa specie di ricatto, Marcello non avrebbe saputo dirlo. Lo stesso istinto che gli suggeriva di ricattare Lino, gli lasciava intravvedere, dietro i suoi rapporti con l’autista, l’ombra di un affetto insolito, di una qualità imbarazzante quanto misteriosa. Ma la rivoltella era in cima a tutti i suoi pensieri; né, d’altra parte, avrebbe potuto affermare che quell’affetto e la parte quasi femminile che gli toccava di recitare gli riuscissero veramente spiacevoli. La solo cosa che avrebbe voluto evitare, come pensò affacciandosi tutto sudato per il gran correre, sul viale dei platani, era che Lino lo prendesse per la vita, come aveva fatto nel corridoio della villa, la prima volta che si erano veduti.
Come sabato, la giornata era tempestosa e rannuvolata, percorsa da un vento caldo che pareva ricco di foglie rapinate un po’ dappertutto al suo turbolento passaggio: foglie morte, cartacce, piume, lanugine, fuscelli, polvere. Sul viale il vento aveva investito proprio in quel momento un mucchio di foglie secche sollevandole in gran numero molto in su, tra i rami denudati dei platani. Egli si distrasse a guardare le foglie che volteggiavano per l’aria, sullo sfondo del cielo tetro, in tutto simili a miriadi di gialle mani dalle dita bene aperte, e poi, abbassando gli occhi, vide tra tutte quelle mani d’oro mulinanti nel vento, la lunga forma nera e lucida dell’automobile ferma presso il marciapiede. Il cuore prese a battergli più in fretta, non avrebbe saputo dire perché; tuttavia, fedele al suo piano, non affrettò il passo e tirò avanti, incontro alla macchina. Trascorse senza fretta accanto al finestrino e subito, come ad un segnale lo sportello si aprì e Lino, senza berretto, sporse la testa fuori dicendo: «Marcello, vuoi salire?»
Non potè fare a meno di meravigliarsi di questo invito così serio, dopo i giuramenti del primo incontro. Così Lino si conosceva bene, pensò; ed era persino comico vederlo fare una cosa che aveva preveduto lui stesso di fare nonostante ogni volontà contraria. Egli proseguì come se non non avesse udito e si accorse, con oscura soddisfazione, che la macchina si era mossa e gli veniva dietro. Il marciapiede, molto ampio, era deserto a perdita d’occhio tra le fabbriche regolari e piene di finestre e i grossi tronchi inclinati dei platani. La macchina lo seguiva al passo, con un ronzio sommesso che suonava carezzevole all’orecchio; dopo una ventina di metri, l’oltrepassò, si fermò a qualche distanza; poi lo sportello si aprì di nuovo. Egli passò senza voltarsi e udì di nuovo la voce struggente che supplicava: «Marcello, sali… ti prego… dimentica quello che ti ho detto ieri… Marcello mi senti?» Marcello non poté fare a meno di dirsi che quella voce era un po’ ripugnante: che aveva Lino da lamentarsi in quel modo? Era una fortuna che nessuno passasse per il viale, altrimenti egli si sarebbe vergognato. Tuttavia, non volle scoraggiare del tutto l’uomo e, pur oltrepassando la macchina, si voltò a metà a guardare indietro, come per invitarlo ad insistere. Si accorse di lanciare un’occhiata quasi lusinghiera, e, tutto d’un tratto, provò, inconfondibile, lo stesso sentimento di umiliazione non spiacevole, di finzione non innaturale che, due giorni prima, per un momento gli aveva ispirato la gonnella legatagli alla vita dai compagni. Quasi che, in fondo, non gli fosse dispiaciuto, anzi fosse portato per natura a recitare la parte della donna sdegnosa e civetta. Intanto la macchina si era mossa di nuovo dietro di lui. Marcello si domandò se fosse giunto il momento di cedere e decise, dopo riflessione, che il momento non era ancora giunto. La macchina gli passò accanto senza fermarsi, soltanto rallentando. Egli udì la voce dell’uomo che lo chiamava: «Marcello…» quindi, subito dopo, il rombo improvviso della macchina che si allontanava.
Improvvisamente temette che Lino si fosse spazientito e se ne andasse; lo invase una gran paura di avere a presentarsi, il giorno dopo, a mani vuote a scuola; e prese a correre gridando: «Lino… Lino, fermati Lino.» Ma il vento si portava via le parole, disperdendo le per aria insieme con le foglie morte, in un turbinio angoscioso e sonoro; la macchina rimpiccioliva a vista d’occhio; evidentemente Lino non aveva udito e se ne andava; e lui non avrebbe avuto la rivoltella; e Turchi, una volta di più l’avrebbe canzonato. Poi egli respirò e riprese a camminare con passo quasi normale, rassicurato: la macchina era corsa avanti non per sfuggirlo ma per aspettarlo ad una traversa; adesso, infatti, si era fermata, sbarrando il marciapiede per tutta la sua larghezza.
Gli venne una specie di rancore contro Lino per aver provocato lui quell’umiliante batticuore; e decise in cuor suo con subitaneo impulso di crudeltà, di farglielo scontare con una ben calcolata durezza. Intanto, senza fretta, era giunto alla traversa. La macchina era lì, lunga, nera, luccicante con tutti i suoi vecchi ottoni e la sua carrozzeria antiquata. Marcello accennò a girarle intorno: subito lo sportello s’apri e Lino si affacciò.
«Marcello», disse con una decisione disperata, «dimentica quanto ti ho detto sabato… hai fatto fin troppo il tuo dovere… vieni, su, Marcello.»
Marcello si era fermato presso il cofano. Tornò un passo indietro e disse con freddezza, senza guardare l’uomo: «Non ci vengo… ma non perché sabato mi hai detto di non venirci… perché proprio non mi va.»
«E perché non ti va?»
«Perché sì… perché dovrei salire?»
«Per farmi piacere…»
«Ma io non ho voglia di farti piacere.»
«Perché? Ti sono antipatico?»
«Sì» disse Marcello abbassando gli occhi e giocando con la maniglia dello sportello. Si rendeva conto di fare un viso crucciato, restio, ostile e non capiva più se lo facesse per commedia o sinceramente. Era certo una commedia quella che stava recitando con Lino; ma se era una commedia, perché provava un sentimento così forte e così complicato, mischiato di vanità, di ripugnanza, di umiliazione, di crudeltà e di dispetto? Udì Lino ridere piano, affettuosamente poi domandare: «E perché ti sono antipatico?». Questa volta alzò gli occhi e guardò in viso l’uomo. Era vero, Lino gli era antipatico, pensò ma non si era mai domandato perché. Guardò il viso, quasi ascetico nella sua magrezza severa, e allora comprese perché non aveva simpatia per Lino: perché, come pensò, era un viso doppio, in cui la frode trovava addirittura un’espressione fisica. Gli sembrò, guardandolo, di ravvisare questa frode soprattutto nella bocca: sottile, secca, sdegnosa, casta a prima vista; ma poi, se un sorriso ne disserrava e rovesciava le labbra, lustra sulla erta e infuocata mucosa di non sapeva che vogliosa acquolina. Esitò guardando Lino che sorridendo aspettava la sua risposta, e poi disse sinceramente: «Mi sei antipatico perché hai la bocca bagnata.»
Il sorriso di Lino scomparve, egli si rabbuiò: «Che sciocchezze inventi adesso?… e poi subito riprendendosi, con disinvoltura scherzosa: «Allora signor Marcello… vuol salire nella sua macchina?»
«Salgo» disse Marcello decidendosi finalmente «soltanto un patto.»
«Quale?»
«Che mi dai veramente la rivoltella.»
«Intesi… vieni, su.»
«No, devi darmela adesso, subito,» insistette Marcello ostinato.
Ma non ce l’ho qui, Marcello», disse l’uomo con sincerità, «è rimasta sabato in camera mia… adesso andiamo a casa e la prendiamo.»
«Allora non vengo,» si decise Marcello in una maniera inaspettata anche lui, «arrivederci.»
Mosse un passo come per andarsene; e questa volta Lino perse la pazienza. «Ma vieni, non fare il bambino,» esclamò. Sporgendosi, afferrò Marcello per un braccio e lo attirò sul sedile accanto a lui. «Adesso andiamo subito a casa,» soggiunse, «e ti prometto che avrai la rivoltella…» Marcello, contento, in fondo, di essere stato costretto con la violenza a salire nella macchina, non protestò, limitandosi ad atteggiare il viso a un broncio puerile. Lino, alacremente, chiuse lo sportello, accese il motore; e la macchina partì.
Per un lungo momento non parlarono. Lino non pareva loquace, forse, come pensò Marcello, era troppo contento per parlare; quanto a lui, non aveva nulla da dire: adesso Lino gli avrebbe dato la rivoltella e poi egli sarebbe tornato a casa e il giorno dopo avrebbe portato la rivoltella a scuola e l’avrebbe mostrata a Turchi. Più in là di queste semplici e piacevoli previsioni il suo pensiero non andava. Solo timore era che Lino volesse in qualche modo frodarlo. In tal caso, come pensò, avrebbe inventato qualche malizia per spingere Lino alla disperazione e costringerlo a mantenere la promessa.
Fermo, il pacco dei libri sulle ginocchia, egli guardò sfilare i grandi platani e i casamenti fino in fondo al viale. Come la macchina attaccò la salita, Lino quasi a conclusione di una lunga riflessione domandò: «Ma chi ti ha insegnato a essere così civetta, Marcello?»
Marcello, non ben sicuro del significato della parola, esitò prima di rispondere. L’uomo parve accorgersi della sua innocente ignoranza e soggiunse: «Voglio dire così furbo.»
«Perché?» domandò Marcello.
«Così.»
«Sei tu il furbo,» disse Marcello, «che mi prometti la rivoltella e non non me la dai mai.»
Lino rise e con una mano andò a battere sul ginocchio nudo, con voce esultante: «Lo sai, Marcello, che sono tanto contento che tu sia venuto oggi… quando penso che l’altro giorno ti pregai di non darmi retta e di non venire, mi rendo conto quanto si possa essere sciocchi qualche volta… davvero sciocchi… ma per fortuna tu hai avuto più buon senso di me, Marcello.»
Marcello non disse nulla. Non capiva troppo bene quello che gli diceva Lino e, d’altra parte, quella mano posata sul ginocchio gli dava fastidio. Aveva cercato più volte di smuovere il ginocchio ma la mano non era stata tolta. Per fortuna, ad una svolta ecco una macchina venire incontro. Marcello finse di spaventarsi, esclamò: «Attento, quella macchina ci viene addosso,» e questa volta Lino ritirò la mano per girare il volante. Marcello respirò.
Ecco la strada di campagna, tra le mura di cinta e le siepi; ecco il portale con il cancello dipinto di verde; ecco il viale di accesso, fiancheggiato di piccoli cipressi spennacchiati e, in fondo, il luccichio dei vetri della veranda. Marcello notò che, come l’altra volta, il vento tormentava i cipressi, sotto uno scuro cielo temporalesco. La macchina si fermò, Lino balzò a terra e aiutò Marcello a discendere, avviandosi, poi, con lui, verso il porticato.
Questa volta Lino non lo precedeva ma lo teneva per un braccio, forte, quasi avesse temuto che egli volesse scappare. Marcello avrebbe voluto dirgli di allentare quella stretta ma non fece in tempo. Come volando, tenendolo quasi sollevato da terra per il braccio, Lino gli fece attraversare la sala di soggiorno e lo spinse dentro il corridoio. Qui, in una maniera inaspettata, la afferrò al collo, duramente, dicendo: «Stupido che sei… stupido… perché non volevi venire?»
La voce non era più scherzosa ma roca e rotta seppure meccanicamente tenera. Marcello stupito fece per levare gli occhi e guardare in faccia a Lino; ma, nello stesso tempo, ricevette una spinta violenta. Come si getta lontano un gatto o un cane dopo averlo afferrato per la collottola, Lino l’aveva lanciato dentro la camera. Poi Marcello lo vide e girare la chiave nella serratura, intascarla e voltarsi verso di lui con un’espressione mischiata di gioia e di rabbioso trionfo. Egli gridò forte: «Adesso basta… farai quello che vorrò io… basta Marcello, tiranno, piccola carogna, basta… fila dritto, ubbidisci e non una parola di più.»
Pronunziava queste parole di comando, di disprezzo e di dominio con una gioia selvaggia, quasi con voluttà; e Marcello, per quanto confuso, non poté fare a meno di avvertire che erano parole senza senso, piuttosto strofe di un canto trionfale, che espressione di un pensiero e di una volontà consapevoli. Spaventato, attonito, vide Lino andare e venire per la cameretta, a gran passi, togliendosi il berretto dal capo e gettandolo sul davanzale; facendo una palla di una camicia appesa su una seggiola e chiudendola in un cassetto; spianando la coperta spiegazzata e compiendo insomma, altrettanto gesti pratici con una furia piena di oscuro significato. Poi lo vide, sempre gridando all’aria con le sue incoerenti frasi di prepotenza e di imperio, avvicinarsi alla parete, sopra il capezzale, staccarne il crocifisso, andare all’armadio e gettarlo in fondo al cassetto con ostentata brutalità; e comprese che, con quel gesto, in qualche modo, Lino voleva dare a vedere di aver messo da parte gli ultimi scrupoli. Come a confermarlo in questo timore, Lino trasse dal cassetto dal comodino la rivoltella tanto desiderata e mostrandogliela gridò: «La vedi…  ebbene non l’avrai mai… dovrai fare quello che voglio io senza regali, senza rivoltelle… per amore o per forza.»
Così era vero, pensò Marcello, Lino voleva frodarlo, come aveva tenuto. Sentì di diventare bianco in viso per l’ira; e disse: «Dammi la rivoltella o me ne vado.»
«Niente, niente… o per amore o per forza.»
Lino brandiva tuttora la rivoltella in una mano; con l’altra afferrò Marcello per un braccio e lo scagliò nel letto. Marcello cadde a sedere, con tanta violenza che sbatté la testa contro il muro. Subito Lino, passando improvvisamente dalla violenza alla dolcezza e dal comando alla supplica, gli si inginocchiò davanti. Gli circondava le gambe con un braccio e posava l’altra mano, che stringeva tuttora l’arma, sulla coperta del letto. Gemeva e invocava Marcello per nome; quindi, sempre gemendo, gli cinse con ambedue le braccia le ginocchia. La rivoltella adesso era sul letto, abbandonata, nera sulla coperta bianca. Marcello guardò Lino inginocchiato che ora alzava verso di lui il viso supplichevole, bagnato di lacrime e infiammato di desiderio e ora lo abbassava a strofinarglielo contro le gambe come fanno col muso certi cani devoti; poi impugnò la rivoltella e, con una spinta forte, si levò in piedi. Subito Lino, forse pensando che egli volesse secondare il suo amplesso, aprì le braccia e lo lascio andare. Marcello fece un passo nel mezzo della stanza e poi si voltò.
Più tardi, pensando a quanto era accaduto, Marcello doveva ricordare che il solo contatto del calcio freddo dell’arma aveva destato nel suo animo una tentazione spietata e sanguinaria; ma in quel momento non avvertiva che un forte dolore alla testa, laddove l’aveva sbattuta contro la parete; e al tempo stesso un’irritazione, una ripugnanza acuta verso Lino. Questi era rimasto in ginocchio presso il letto; ma come vide Marcello fare un passo indietro e puntare la rivoltella, si girò alquanto, pur senza alzarsi; e spalancando le braccia, con un gesto teatrale, gridò istrionescamente: «Spara, Marcello… ammazzami… sì, ammazzami come un cane.» Sembrò a Marcello di non averlo mai odiato come adesso, per quel suo miscuglio ripugnante di sensualità e di austerità, di pentimento e di libidine; e, insieme atterrito e consapevole, quasi parendogli di dover compiacere la richiesta dell’uomo, premette il grilletto. Il colpo echeggiò di schianto nella piccola camera; e lui vide Lino cadere di fianco e poi rialzarsi, mostrandogli la schiena e aggrappandosi con le sue mani al bordo del letto. Lino si tirò su pian piano, cadde di fianco sul letto e rimase immobile. Marcello gli si avvicinò, posò la rivoltella sul capezzale, chiamo a bassa voce «Lino», e poi senza aspettare risposta, andò alla porta. Ma era chiusa e la chiave, come ricordò, Lino l’aveva tolta dalla toppa e messa in tasca. Esitò, gli ripugnava di frugare nelle tasche del morto; quindi gli occhi gli caddero sulla finestra e rammentò che era a pianterreno. Scavalcando la finestra girò in fretta il capo gettando un lungo sguardo circospetto e pieno di paura allo spiazzo e all’automobile ferma davanti al porticato: capiva che se qualcuno fosse passato in quel momento, l’avrebbe visto a cavalcioni sopra il davanzale; e tuttavia non c’era altro da fare. Ma non c’era nessuno, e, al di là dei radi alberi che circondavano lo spiazzo, anche la campagna brulla e collinosa appariva deserta perdita d’occhio. Egli discese dal davanzale, prese il pacco dei libri dal sedile della macchina e si incamminò senza fretta verso il cancello. Nella sua coscienza, come in uno specchio, si rifletteva tutto il tempo, mentre camminava, l’immagine di se stesso, ragazzo in pantaloni corti, i libri sotto il braccio, nel viale fiancheggiato di cipressi, figura incomprensibile e piena di sbigottito presagio.

il conformista

Jean-Louis Trintignant: Marcello Clerici in “Il conformista” film di Bernardo Bertolucci

Lo splendido binomio con cui Moravia chiude il brano, induce il lettore ad interrogarsi su quale “presagio” Marcello s’interrogasse. Sappiamo quanto fosse un bambino difficile, affetto da comportamenti “sadici” verso gli animali (torture alle lucertole e l’uccisione di un gatto) e come tali comportamenti provocassero in lui una forma di quasi cancellazione della sua “diversità” verso una omologazione che lo rendesse indistinto verso gli altri. Tale “diversità” si accentua nella sua repressa omosessualità, ma riconosciuta dai compagni di classe, che gli infilano una gonnellina a forza – episodio che lo porterà a conoscere Lino che, come si è visto, tenterà di approfittarsi di lui. La sicurezza  di averlo ammazzato, di essere un assassino, comporterà in lui la voglia di “annullarsi” in un grigiore comune che lo porterà a fidanzarsi con una ragazza abbastanza formosa da diventare una buona madre, comprarsi un appartamento abbastanza elegante con mobili altrettanto di buon gusto (chiaramente tutto rateizzato) posto in mezzo ad altri appartamenti uguali dove tutti fanno le stesse cose: lavorare, mangiare, dormire e dalle radio sentire la voce del padre di tutti loro, colui che guida per il meglio il popolo: Mussolini. Entrerà quindi in un sistema oliato, diventando un funzionario statale. Sarà proprio questo lavoro a dar lui l’occasione di pagare il fio del giovanile omicidio, uccidendo non come atto singolo, quindi “impulsivo”, ma come atto pubblico, cioè per la patria: trovare a Parigi un intellettuale antifascista (suo professore universitario), indicarlo a dei sicari e quindi ammazzarlo.

Конформистът (1970) - Filmite.BG

Che il comportamento di Lino sia determinato da una famiglia con un vecchio padre, spesso iroso ed in ultimo uscito fuori di senno, ed una madre assente, spiega soltanto in parte la psicologia di Marcello, ma è lo stesso autore che ci induce a sottolineare la diversità tra una donna, bovaristicamente disegnata, e suo figlio, così grigiamente rappresentato, con questo splendido ritratto:

LA MADRE DI MARCELLO 

Udì un rumore di motore nel giardino, verso l’ingresso, e subito si alzò, con un movimento brusco che fece fuggire la lucertola. Senza fretta, uscì dalla Pergola e si avviò verso l’ingresso. Una vecchia automobile nera stava ferma nel viale, a breve distanza dal cancello ancora spalancato. L’autista, vestito di una livrea bianca e passamani turchini, stava chiudendo il cancello ma, come vide Marcello, si fermò sollevando il berretto. «Alberi», disse Marcello con la sua voce più quieta, «oggi andiamo alla clinica, è inutile che rimettete la macchina nel garage.» «Sì, signor Marcello,» rispose l’autista. Marcello gli lanciò un’occhiata di sbieco. Alberi era un giovane dalla carnagione olivastra e dagli occhi neri come il carbone, con la sclerotica di una bianchezza lucida di porcellana. Aveva tratti molto regolari, denti candidi e serrati, capelli neri accuratamente impomatati. Non alto, dava, però, un senso di grande proporzione forse per via delle mani e dei piedi molto piccoli. Aveva l’età di Marcello ma sembrava più vecchio, a causa, forse, della mollezza orientale che si insinuava in ogni suo tratto e pareva destinata, col tempo, a diventare pinguedine. Marcello lo guardò ancora una volta, mentre chiudeva il cancello, con profonda avversione; quindi si avviò verso la villa. Aprì la porta-finestra ed entrò nel salotto, quasi al buio. Subito lo colpì il tanfo che ammorbava l’aria, ancora leggero in confronto a quello delle altre stanze in cui i dieci pechinesi di sua madre si aggiravano liberamente, ma tanto più notevole qui dove non penetravano quasi mai. Aprendo la finestra, un po’ di luce entrò nella sala ed egli vide per un momento i mobili coperti di foderine grigie, i tappeti arrotolati e appoggiati ritti negli angoli, il pianoforte imbacuccato in lenzuoli appuntati con spilli. Traversò il salotto e la sala da pranzo, passò nel vestibolo, si avviò su per la scala. A mezza rampa, sul marmo di un gradino (il tappeto, troppo logoro, da tempo era scomparso e non era stato mai rinnovato), c’era un escremento di cane ed egli ci girò intorno per non calpestarlo. Giunto sul ballatoio, andò alla porta della camera materna e l’aprì. Non fece neppure a tempo a disserrarla completamente che, come un fiotto a lungo contenuto il quale trabocchi improvviso, tutti e dieci i pechinesi gli si gettarono tra le gambe con qualche abbaiamento per il ballatoio e la scala. Incerto e annoiato, li guardò correre via, graziosi con le loro code a pennacchio e i loro musi scontenti e quasi gatteschi. Poi, dalla camera immersa nella penombra, gli giunse la voce di sua madre: «Sei tu, Marcello?» «Sì, mamma, sono io… ma questi cani?» «Lasciali andare… poveri santi… Sono stati chiusi tutta la mattina… lasciali pure andare.» Marcello aggrottò le sopracciglia in segno di malumore ed entrò. L’aria nella camera gli parve subito irrespirabile: le finestre chiuse avevano conservato dalla notte, mischiati, i diversi odori del sonno, dei cani e dei profumi; il calore del sole che ardeva dietro le imposte, pareva già farli fermentare e inacidire. Rigido, guardingo, quasi avesse temuto, muovendosi, di sporcarsi o di impregnarsi di quegli odori andò al letto e sedette sulla sponda, le mani sulle ginocchia. Adesso, pian piano, abituandosi gli occhi alla penombra, poteva vedere la camera intera. Sotto la finestra, nel chiarore diffuso dalle lunghe tende ingiallite e impure che gli parevano fatte dello stesso floscio tessuto di molti panni intimi sparsi per la stanza, stavano allineati numerosi piatti di alluminio con il cibo dei cani. Il pavimento era sparso di scarpette e di calze; presso l’uscio del bagno in un angolo quasi buio, si intravedeva una vestaglia rosa rimasta su una seggiola, come era stata gettata la sera avanti, mezza in terra e con una manica penzolante. Dalla camera, il suo occhio freddo e pieno di ripugnanza passò al letto sul quale giaceva sua madre. Al solito, ella non aveva pensato a ricoprirsi al suo ingresso ed era seminuda. Distesa, le braccia alzate e le mani riunite dietro la testa, contro la spalliera materassata di seta azzurra lisa e annerita, ella lo guardava fissamente, in silenzio. Sotto la massa di capelli sparsi in due gonfie ali brune, il viso appariva fine e smunto, quasi triangolare, divorato dagli occhi che l’ombra ingrandiva e incupiva in maniera mortuaria. Ella indossava una trasparente sottoveste verdolina che le giungeva appena al sommo delle cosce; e, una volta di più, lo fece pensare piuttosto che alla donna matura che era, ad una bambina invecchiata e insecchita. Il petto scarnito mostrava sullo sterno come una rastrelliera di ossicini aguzzi; attraverso il velo, le mammelle riassorbite si rivelavano con due macchie scure e tonde, senza alcun rilievo. Ma soprattutto le cosce destavano insieme ripugnanza e pietà in Marcello: madre e sfornite erano proprio quelle di una bambina di dodici anni che non abbia ancora forme donnesche. L’età della madre si vedeva in certe smagliature macerate della pelle e nel colore: una bianchezza gelida, nervosa, maculata di misteriose chiazze quali bluastre e quali livide. “Botte,” egli pensò, “o morsi di Alberi.” Ma sotto il ginocchio, le gambe apparivano perfette, con un piccolissimo piede dalle dita raccolte. Marcello avrebbe preferito non mostrare a sua madre il proprio malumore; ma anche questa volta non seppe trattenersi: «Ti ho pur detto tante volte di non ricevermi così, mezza nuda,» disse con dispetto, senza guardarla. Ella rispose, insofferente ma senza rancore: «Uh, che figlio ha austero mi ritrovo,» tirandosi sul corpo un lembo della coperta. La voce era rauca e anche questo dispiaceva a Marcello. Ricordava, durante l’infanzia, di averla udita dolce e limpida come un canto: quella raucedine era un effetto dell’alcol e degli strapazzi. Egli disse dopo un momento: «Allora, oggi andiamo alla clinica.» «Andiamoci pure,» disse la madre tirandosi su e cercando qualche cosa dietro la spalliera del letto, «sebbene io mi senta tanto male e a lui, poveretto, la nostra visita non faccia assolutamente né caldo né freddo.» «E’ pur sempre tuo marito e mio padre,» Disse Marcello prendendosi la testa fra le mani e guardando in basso. «Sì, certamente lo è,» ella disse. Adesso aveva trovato la peretta della luce e la premette. Sul comodino si illuminò fiocamente una lampada che, come parve a Marcello, era involtata in una camicia femminile. «Sebbene,» ella continuò levandosi dal letto e mettendo i piedi in terra, «ti dico la verità, qualche volta mi augurerei che morisse… tanto lui non se ne accorgerebbe neppure… e io non spenderei più i soldi per la clinica… ne ho così pochi… pensa,» soggiunse in tono improvvisamente lamentoso, «pensa che dovrò forse smettere l’automobile.» «Be’, che male c’è?» «C’é molto di male» ella disse con un risentimento e un’impudenza puerili, «così, con la macchina, ho un pretesto per tenere Alberi e per vederlo quando mi pare… dopo, questo pretesto non l’avrò più.» «Mamma, non parlarmi dei tuoi amanti,» disse Marcello con calma, ficcando le unghie di una mano nelle palme dell’altra. «I miei amanti… è il solo che abbia… se tu mi parli della gallina della tua fidanzata, ho ben io il diritto di parlare bene di lui, povero caro, che è tanto più simpatico e più intelligente di lei.» Stranamente, questi insulti alla fidanzata da parte della madre che non poteva soffrire Giulia, non offendevano Marcello. “Sì, e vero,” pensò, “può anche darsi che sembri una gallina… ma mi piace che sia così.» Disse in tono raddolcito: «Allora, vuoi vestirti?… Se vogliamo andare alla clinica, è tempo di muoversi.» «Ma sì, subito.» Leggera, quasi un’ombra, ella attraversò in punta di piedi la camera, raccolse al passaggio, dalla seggiola, la vestaglia rosa e, pur gettandosela sulle spalle, aprì l’uscio del bagno e scomparve.

Yvonne Sanson - IMDb

Yvonne Sansonne: La mamma di Marcello nel film

L’ennesimo ritratto femminile, disegnato con brevi tratti eppure così preciso; ma se dovessimo dare a Marcello e al suo omologante grigiore il segno di una metafora sul fascismo, il ritratto della madre potremmo metaforicamente interpretarlo come simbolo del periodo giolittiano o della belle époque, estremamente libero, intellettualisticamente un po’ snob, ma nel frattempo corrotto e degradato (si pensi allo scandalo della Banca di Roma), a cui il fascismo – oltre a diversi motivi di tipo economico e sociale – rispose con una volontà di un riscatto valoriale, in cui tale valore era rappresentato nell’identificarsi nello Stato e quindi nella cancellazione dell’individuo come persona singola.

 EPILOGO

Discesero dalla macchina e, braccio sotto braccio, si avviarono verso i giardini che si trovavano dietro il museo. Il parco era deserto, gli avvenimenti politici l’avevano spopolato perfino delle coppie di innamorati. Nella penombra, si vedevano biancheggiare sullo sfondo silvestre e oscuro degli alberi, le statue di marmo dai gesti elegiaci o eroici. Camminarono fino alla fontana e per un momento indugiarono in silenzio, a guardarne l’acqua nera e immobile. Adesso Giulia stringeva la mano al marito, inserendo fortemente, come in un minimo abbraccio, le sue dita tra le dita di lui. Ripresero a camminare, imboccarono un viale molto buio, in un bosco di querce. Dopo qualche passo, Giulia si fermò improvvisamente, e, voltandosi, cinse il collo a Marcello con un braccio e lo baciò sulla bocca. Stettero così, abbracciati, baciandosi, un lungo momento, ritti nel mezzo del viale. Poi si separarono e Giulia sussurrò, prendendo il marito per mano e tirandolo verso il bosco: «Vieni, facciamo l’amore qui… in terra.»
«Ma no,» non poté fare a meno di esclamare Marcello, «qui?…»
«Sì, qui», ella disse, «perché no… Vieni, ho bisogno di farlo per sentirmi rassicurata».
«Rassicurata di che?»
«Tutti pensano alla guerra, alla politica, agli aereoplani… e invece si potrebbe essere così felici… vieni… lo farei anche in mezzo ad una delle loro piazze,» ella soggiunse con subitanea esasperazione, «se non altro per dimostrare che io almeno sono capace di pensare ad altro… vieni.»
Ella pareva esaltata, adesso, e lo precedeva nell’ombra fitta, tra i tronchi degli alberi.«Vedi che bella camera da letto», la udì mormorare, «presto non avremo più casa… ma questa è una camera da letto che non potranno portarci via… vi potremo dormire e amare tutte le volte che vorremo.» D’improvviso ella scomparve dai suoi occhi, come entrando dentro terra. Marcello la cercò e poi la intravvide, in quella oscurità, distesa ai piedi di un albero, in terra, un braccio sotto la testa a far da guanciale, l’altro alzato verso di lui, silenziosamente, in atto di invitarlo a stendersi al suo fianco. Egli ubbidì e, appena si fu disteso, Giulia gli si avviticchiò strettamente, con le gambe e con le braccia, baciandolo con forza cieca ed ottusa per tutto il viso, come cercando sulla fronte e sulle guance altre bocche attraverso le quali penetrare in lui. Ma quasi subito il suo abbraccio si allentò, e Marcello la vide levarsi a metà sopra di lui, guardando nel buio: «qualcuno sta venendo,» ella disse. Marcello si levò anche lui a sedere e guardò. Tra gli alberi, ancora lontana, si vedeva la luce di una lampadina tascabile avanzare oscillando, preceduta in terra da un debole chiarore circolare. Non si sentiva un sol rumore, il fogliame morto che ricopriva il terreno soffocava i passi dello sconosciuto. La lampadina avanzava nella loro direzione e Giulia, ad un tratto, si ricompose e si levò a sedere, prendendosi le ginocchia tra le braccia. Seduti fianco a fianco, contro l’albero, guardarono la luce avvicinarsi: «Sarà una guardia,» mormorò Giulia. Adesso la lampadina proiettava il suo raggio in terra a poca distanza da loro, poi si alzò e il raggio li investì in pieno. Abbagliati, guardarono a loro volta alla figura maschile, non più che un’ombra, dal cui pugno scaturiva quella luce bianca. La luce, pensò Marcello, doveva abbassarsi, una volta che la guardia li avesse bene bene guardati in faccia. E invece, no, ecco la luce prolungare lo sguardo, in un silenzio che gli parve pieno di meraviglia e di riflessione. «Ma si può sapere che cosa volete?» domandò allora con voce risentita. «Non voglio nulla, Marcello,» rispose subito una voce dolce. Nello stesso tempo la luce si abbassò e prese di nuovo a muoversi, allontanandosi da loro. «Ma chi è?» Mormorò Giulia, «sembra che ti conosca…» Marcello stava fermo, senza respiro, profondamente turbato. Poi disse alla moglie: «Scusami, un momento… vengo subito.» Di un balzo fu in piedi e rincorse lo sconosciuto. Lo raggiunse sul limite del bosco, presso il piedistallo di una di quelle statue di marmo bianco. Poco distante c’era un fanale, e, come l’uomo, al rumore dei suoi passi si voltò, lo riconobbe subito, sebbene fossero trascorsi tanti anni, dal viso glabro e ascetico sotto i capelli tagliati a spazzola. Allora, l’aveva veduto chiuso nella tunica di autista; anche adesso indossava una divisa nera, abbottonata fino al collo, con pantaloni sbuffanti e gambali di cuoio nero. Teneva il berretto sotto il braccio e stringeva in mano la lampadina tascabile. Disse subito sorridendo: «Chi non muore si rivede.» La frase parve a Marcello fin troppo adatta alle circostanze, sebbene in maniera scherzosa e, forse, inconsapevole. Disse, ansimando per il turbamento e per la corsa: «Ma io credevo di… di averti ucciso.» «Io, invece, speravo che tu l’avessi saputo Marcello, che mi avevano salvato,» rispose Lino tranquillamente, «un giornale, è vero, annunziò che ero morto ma perché ci fu un equivoco… morì un’altro all’ospedale, nel letto accanto al mio… e così tu mi credevi morto… allora ho detto bene: chi non muore si rivede.»Ora, più che del ritrovamento di Lino, Marcello provava orrore del tono discorsivo, familiare, eppure funebre che si era stabilito subito tra di loro. Disse con dolore: «ma dall’averti creduto morto sono venute tante conseguenze. E tu invece non eri morto.» «Anche per me, Marcello, vennero tante conseguenze,» disse Lino guardandolo con una specie di compassione, «pensai che fosse un avvertimento e mi sposai… poi mia moglie morì,» soggiunse più lentamente, «tutto è ricominciato come prima… adesso faccio la guardia notturna… questi giardini sono pieni di bei ragazzi come te.» Disse queste parole con una sfrontatezza placida e dolce, senz’ombra, però, di lusinga. Marcello notò per la prima volta che i suoi capelli erano quasi grigi e che il viso era un po’ ingrassato. «E tu ti sei sposato… quella era la tua moglie, nevvero?»Improvvisamente, Marcello non poté più sopportare quel chiacchiericcio sommesso e squallido. Disse, afferrando l’uomo per le spalle e scuotendolo: «Mi parli come se nulla fosse successo… ma ti rendi conto che hai distrutto la mia vita?» Lino rispose, senza tentare di svincolarsi: «Perché mi dici questo, Marcello? Sei sposato, magari hai anche figli, hai l’aria di essere agiato, di che ti lamenti? Sarebbe stato peggio se tu mi avessi ucciso davvero.»«Ma io,» non poté fare a meno di esclamare Marcello, «io quando ti ho conosciuto ero innocente… e dopo non lo sono più stato, mai più.» Vide Lino guardarlo con stupore: «Ma tutti, Marcello, siamo stati innocenti… non sono forse stato innocente anch’io? E tutti la perdiamo la nostra innocenza, in un modo o nell’altro… è la normalità.» Egli si liberò a fatica dalla stretta già allentata di Marcello e soggiunse in tono di complicità: «guarda, ecco tua moglie, sarà bene che ci lasciamo.»IL CONFORMISTA di Bernardo Bertolucci – Casa del Cinema

Immagine iconica del film “Il conformista” di Bernardo Bertolucci

“Perdere l’innocenza è la normalità”, dice Lino a Marcello, sottolineando che a farlo sono tutti. Ma Marcello l’ha persa credendo d’uccidere un uomo, ma questo uomo non è morto ed è lì, che gli rinfaccia l’inanità del suo gesto. Tutto il vivere di Marcello, quindi, è diventato inutile ed egli, normale tra i normali, quando la normalità diventa altro, non riesce a riciclarsi: all’autore (ma oserei dire allo stesso personaggio) non resta che sparire, uscire dalla storia insieme a coloro con cui l’aveva costruita: la consapevolezza del vuoto non può che essere la morte.

Il romanzo ebbe critiche feroci: Gioanola, critico psicoanalista, così lo liquida: «Dopo l’incontro con Freud e Marx, Moravia scrive i suoi libri peggiori, condotti come temi svolti su un argomento prestabilito, La disubbidienza e Il conformista, (quest’ultimo basato) sull’equazione risibile tra deviazioni sessuali spiattellatte in tutta la casistica e “conformismo” politico sotto specie nera di fascismo: Freud e Marx accoppiati a fornire ragioni esplicative per un teorema assurdo, il tutto in un intrigo con esecuzioni capitali e morti… che resuscitano»; non diverso il giudizio di Manacorda, critico marxista: «Sia pure per via negativa il romanzo serviva però ad illuminare la personalità di Moravia. Nessuno in Italia era stato quanto lui capace di penetrare nei più intimi recessi il marcio della società borghese che si era appunto incarnato nella realtà fascista; ma la sua analisi era stata condotta sempre al livello delle strutture – sesso e denaro – con una tendenza piuttosto a sprofondare nell’angoscia dell’esistenza che non a levarsi alla critica razionale delle istituzioni. I suoi personaggi sono sempre uomini, non mai cittadini, e quando vogliono comparire in tale veste risultano forzati e distorti. Il conformismo, insomma, è come l’indifferenza o la disubbidienza, la noia, il disprezzo o l’attenzione, tutti atteggiamenti propri di un’universale condizione umana, quasi un segno metafisico; i fatti dell’individuo da evento di cronaca tendono perciò a farsi emblema di un carisma naturale, ad uscire con loro ultimo senso dai parametri della storia per entrare nell’indeterminato dell’esistenza. Per questo il conformismo, che avrebbe dovuto esplicitamente alludere al rapporto fra stato e cittadino in un periodo ben individuato della nostra storia, scade a svolgimento di un caso patologico, la ricerca di mimetizzazione di un pervertito entro l’elefantiaco complesso burocratico-politico del suo Stato. Problema e soluzione del tutto paralleli a quelli della disubbidienza, anche se per Luca la patologia sessuale si risolveva, anziché nella partecipazione, nell’astensione.
Il fatto concreto, recente, ancora bruciante nel paese restava invece appena un episodio e uno strumento di una storia tutta individuale per quanto riguarda il protagonista e tutta universale per quanto riguarda le perenni possibilità dell’uomo. Il conformista proprio perché aveva portato al limite questa insufficienza della dialettica moraviana tentandone invano l’integrazione di un impegno tipico, rappresentò per ciò stesso lo scacco maggiore di Moravia, il tentativo non riuscito di entrare con i suoi personaggi non soltanto nel corpo sociale dell’Occidente borghese, ma in quello specificamente politico dell’Italia fascista, dove il conformismo era stato ben altro che medicina per invertiti, tesi inaccettabile e insufficiente anche se intesa in un suo valore di simbolo-limite.»

Eppure, al di là dell’incomprensione critica, il tema che appariva nel risvolto  di copertina della prima edizione de Il conformista, cioè quello per cui “in tutti i tempi entrare a far parte di una società o comunità, condividerne i miti e le ideologie, ottenerne l’assistenza, comportarono sempre un prezzo molto alto sia di rinunzia alla libertà di pensiero e di azione, sia, addirittura, di complicità criminale. Questo romanzo vuole essere la storia del prezzo pagato da un conformista moderno per ottenere di appartenere ad una società inesistente.” doveva a tal punto affascinare lo scrittore romano che ne fa l’argomento anche del romanzo che stava elaborando contemporaneamente che tuttavia non verrà concluso e apparirà nelle diverse redazioni solo postumo: I due amici. Tuttavia la condivisione ideologica, questa volta, è quella del PCI degli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale. In una intervista del ’53 Moravia, parlando del nuovo lavoro, afferma: “La storia di alcuni ragazzi comunisti e delle loro vicende amorose in rapporto all’ideologia politica: volevo cioè rappresentare la misura in cui incide sulla vita sentimentale un partito che non lascia all’uomo residui d’individualità”

I Due amici

I tre frammenti recuperati nel Fondo Moravia tra carte e manoscritti dell’autore narrano l’amicizia fra Maurizio, cinico e dongiovanni, e Sergio, antifascista incapace di agire e pieno di rancore inespresso nei confronti dell’amico più fortunato, raccontata in tre momenti diversi, da tre voci diverse. Dal litigio a causa di una vedova, Emilia, che entrambi amano e che spinge Sergio a rompere i rapporti con Maurizio, agli scontri per la diversa posizione sociale, che ispira Sergio, comunista, dalle continue rivendicazioni di classe, ai compromessi ed in ultimo ai tradimenti e alle sfide nel contendersi Nella, una ragazza di umili origini, arrivata a Roma per trovare lavoro e amata prima da Sergio poi da Maurizio.

Ciò che rende simile questo “abbozzo” di narrazione a Il conformista è che se Marcello non trova la sua autenticità perchè immolata nell’altare del conformismo fascista, Sergio è annebbiato dall’ideologia comunista ed immola per essa l’amore cedendo la donna di cui è innamorato al suo rivale.

Il romanzo sul quale comunque aveva già intinto la penna durante la composizione sia de Il conformista che de I due amici e nel quale troviamo anche alcuni elementi che dovevano far parte dell’opera non portata a termine, è Il disprezzo, pubblicato nel 1954 e dal quale, anche questa volta, venne tratto un importantissimo film con la regia di Jean Luc Godard e dal titolo Le mépris:

Riccardo Molteni è un giovane intellettuale innamorato perdutamente di sua moglie Emilia. Quando per accontentarla decide di comprare casa, si vede costretto ad accettare il lavoro di sceneggiatore. Battista, produttore cinematografico di successo, lo assume per una prima sceneggiatura, poi gli affida una sceneggiatura più importante, si tratta di “rivitalizzare” il genere “peplum” affrontando l’Odissea omerica, che il regista Rheingold vuole affrontare in modo psicoanalitico, mentre il produttore vuole scene “popolari” per attrarre il grande pubblico.  Riccardo, pur essendo fedele ad Emilia, si accorge che lei invece si sta raffreddando nei suoi confronti, finché lei infine ammette di disprezzarlo. Quando con Emilia viene invitato a Capri alla villa di Battista per lavorare sulla sceneggiatura con il regista tedesco, Riccardo vede Battista baciare Emilia. Ciò lo spinge a decidere di abbandonare il progetto di lavoro e fare ritorno a Roma. Il mattino, al risveglio, trova un messaggio da parte della moglie che lo avverte che lei è già partita con Battista. Mentre Riccardo passa il resto della giornata a Capri, i due fuggitivi hanno un incidente d’auto nel quale Emilia perde la vita.

Anche per questo romanzo qualche critico fa risalire l’ispirazione ad un fatto reale, la fine del rapporto di Alberto Moravia con Elsa Morante. Non è un caso che le liti burrascose tra i due avvennero nell’isola di Capri, ospiti nella casa di Curzio Malaparte, dove anche si ambienta parte del romanzo che il narratore romano sembra abbia scritto proprio durante il suo soggiorno campano. Tuttavia è bene sottilineare che Elsa, intellettuale, non è Emila (dattilografa), mentre più stringente sembra il rapporto tra Riccardo e Alberto: anche il primo è un intellettuale, ma anche, per necessità, uno scrittore per il cinema, sebbene la sua grande ambizione sia scrivere per il teatro; anche Moravia scrive sceneggiature, anche se sottolinea non spinto da necessità (anche se il cinema gli offre buoni introiti), ma un narratore di storie come lui non può prescindere dal mezzo che nel Novecento diventa il modo più idoneo e “popolare” di narrare storie.

Il disprezzo by Alberto Moravia | Goodreads

Nel romanzo Battista offre a Riccardo il destro per girare un film sull’Odissea di Omero; sappiamo come il produttore voglia fare della mitologia omerica un nuovo film in costume che si richiami  a quelli di gran successo biblici, mentre Rehinolg ne vuol dare una lettura psicoanalitica, lettura che Molteni non può accettare (dirà che tradirà lo spirito omerico) ma che richiama troppo le tensioni tra lui ed Emilia (quest’ultima letta, secondo il regista, troppo aderente all’Emilia che lui sta perdendo)

TI DISPREZZO

Si possono immaginare le cose più spiacevoli e immaginarle con la sicurezza che sono vere. Ma la conferma di queste supposizioni o meglio di queste certezze giungerà sempre in attesa e dolorosa, come se non si avesse immaginato nulla. In fondo io avevo sempre saputo che Emilia non mi amava più. Ma sentirmelo dire da lei mi fece lo stesso un effetto agghiacciante. Ella non mi amava più: queste parole, tante volte pensate, assumevano, pronunziate dalla sua bocca, un significato tutto nuovo. Erano un fatto, non una supposizione per quanto mischiata di certezza. Avevano un peso, una dimensione che nella mia mente non avevano mai avuto. Non ricordo bene come dicessi questa dichiarazione. Probabilmente trasalii come chi si mette sotto una doccia gelata sapendo che è gelata, e tuttavia, ricevendola, tradisce lo stesso, come se non l’avesse mai saputo. Poi cercai di riprendermi, dimostrarmi in qualche modo ragionevole e obiettivo. Dissi più dolcemente che potei: «vieni qui… siediti e spiegami perché non mi ami più».
Ella ubbidì e sedette di nuovo, questa volta sul divano. Rispose un po’ irritata: «Non c’è nulla da spiegare… non ti amo più e questo è proprio tutto quello che ho da dire.»
Io mi rendevo conto che più cercavo di mostrarmi ragionevole e più la spina di quel dolore ineffabile mi si affondava nella carne. Risposi, la faccia contorta da un sorriso sforzato: «Ammetterai almeno che mi devi una spiegazione… anche quando si licenzia la serva, le si spiega il perché.»
«Io non ti amo più, non ho altro da dire.»
«Ma perché?… Tu mi amavi, no?»
«Sì, ti ho amato… molto… ma ora non ti amo più.»
«Mi hai amato molto?»
«Sì, molto, ma ora è finito.»
«Ma perché? Ci sarà un perché.»
«Ci sarà, forse… ma non lo so dire… so soltanto che non ti amo più»
«Non ripeterlo così spesso», esclamai quasi mio malgrado, alzando un poco la voce.
«Sei tu che me lo fai ripetere… Non vuoi convincerti e allora te lo ripeto.»
«Ora ne sono convinto.»
Seguì il silenzio. Emilia adesso aveva acceso una sigaretta e fumava guardando in basso. Io stavo chino, la testa tra le mani. Dissi alla fine: «Se te lo dico io, il motivo, tu lo riconoscerai?»
«Ma io stessa non lo so.»
«Ma se te lo dico, potrai riconoscerlo.»
«Va bene, su… dillo.»
«Non parlarmi in questo modo», avrei voluto gridare, ferito dal suo tono sbrigativo e indifferente. Ma mi trattenni e, cercando di mantenere quel mio tono ragionevole, incominciai: «Ricordi quella ragazza che qualche mese fa veniva in casa nostra a battere a macchina una sceneggiatura… quella dattilografa… tu ci sorprendesti mentre ci baciavamo… fu una debolezza stupida da parte mia… ma non ci fu che quel bacio, il primo e l’ultimo, te lo giuro… poi non l’ho mai più rivista… ora, di’ la verità, non è stato forse quel bacio a distaccarti da me?…  di’ la verità… non è stato a partire da quel bacio che tu hai cominciato a non amarmi di più?»
Mentre parlavo, la guardavo con attenzione. Ella ebbe un primo movimento quasi di sorpresa e di conseguente diniego: come se la mia supposizione le fosse sembrata del tutto assurda. Poi, come vidi chiaramente, un’improvvisa riflessione le fece cambiare espressione. Rispose lentamente: «Beh, mettiamo che sia stato quel bacio… ora che lo sai, ti sembra di star meglio?»
Fui subito sicurissimo che non era stato il bacio, come ella adesso pretendeva di farmi credere. Era chiaro: in un primo momento Emilia era stata addirittura sorpresa dalla mia supposizione, tanto era lontana dalla verità; poi, un calcolo improvviso gliel’aveva fatta accettare. Non potevi fare a meno di pensare che il motivo del suo disamore dovesse essere molto più grave di quel bacio senza conseguenze. Un motivo, probabilmente, che ella non voleva rivelarmi per un superstite riguardo verso di me. Emilia non era cattiva, come sapevo, e non amava offendere nessuno. Evidentemente il vero motivo era offensivo.
Dissi con dolcezza: «Non è vero, non è stato il bacio.»
Ella si meravigliò: «Perché?… Se ti ho detto di sì.»
«No, non è stato il bacio… è stata un’altra cosa.»
«Non so cosa vuoi dire.»
«Lo sai benissimo.»
«No, non lo so, parola d’onore.»
«E io ti dico che lo sai.»
Ella si spazientì, in una sua maniera quasi materna: «Ma perché vuoi sapere tante cose? Ecco come sei… perché vuoi frugare… che te ne importa?»
«Perché preferisco la verità, qualunque essa sia, alla menzogna… Oltre a tutto, se non mi dici la verità, posso immaginare chissà che cosa… qualche cosa di molto brutto.»
Ella mi guardò un momento, in silenzio, in una maniera singolare: «Che te ne importa», riprese poi, «hai la coscienza tranquilla, no?»
«Io, sì, certo.»
«E allora che può importarti del resto?»
Insistetti: «Dunque è vero… dunque è qualcosa di molto brutto.»
«Non ho detto questo… ho detto soltanto che se tu hai la coscienza tranquilla, tutto il resto non deve importarti.»
«Io ho la coscienza tranquilla, è vero… ma questo non vuol dire nulla… qualche volta anche la coscienza inganna.»
«La tua no, non è vero?», ella disse con un’ironia lievissima che non mi sfuggì tuttavia, e mi parve anche più offensiva della sua indifferenza.»
«Anche la mia.»
«Beh, devo andare», e ella disse improvvisamente, «hai altro da dirmi?»
«No, non te ne andrai prima di avermi detto la verità.»
«Te l’ho già detta la verità: non ti amo più.»
Che effetto mi facevano quelle quattro parole. Diventai pallido e la supplicai dolorosamente: «Ti ho già pregato di non dirmelo più… mi fa troppo male.»
«Sei tu che mi costringi a ripeterlo… a me, certo, non fa alcun piacere dirlo.»
«Perché vuoi che io creda che tu non mi ami più a causa di quel bacio?» proseguii seguendo il filo della mia riflessione, «un bacio è una cosa da nulla… quella ragazza era uno sciocca qualsiasi e non l’ho mai più rivista… tu queste cose le sai e le comprendi… no, la verità è che tu non mi ami più» adesso più che parlare compitavo le parole cercando di esprimere la mia difficile e oscura intuizione, «perché qualcosa è successo… qualche cosa che ha cambiato il tuo sentimento verso di me… anzi, forse, qualche cosa che ha cambiato prima di tutto l’idea che tu ti facevi di me poi, conseguentemente, anche il sentimento.»
Ella disse, con sincero tono di sorpresa e quasi di lode: «Bisogna riconoscere che sei intelligente.»
«Dunque è vero.»
«Non ho detto che è vero… ho detto soltanto che sei intelligente.»
Io cercavo e sentivo che la verità mi stava, come si dice, sulla punta della lingua. Insistetti: «Insomma, tu prima che avvenisse una certa cosa, pensavi bene di me… dopo, hai pensato male… e perciò hai cessato di amarmi.»
«Può anche darsi che sia andata così.»
D’improvviso provai un sentimento orribile: quel mio tono ragionevole, lo sentii, era falso. Io non ero ragionevole, soffrivo, anzi, acutamente, ero disperato e furioso, ero distrutto; e perché mai dovevo tenere un tono ragionevole? Non so quel che mi avvenne in quel momento. Prima ancora che me ne rendessi conto, ero balzato in piedi, urlando: «Ma non credere che io sia qui a chiacchierare del più e del meno» e le ero saltato addosso e l’avevo afferrata per il collo e l’avevo rovesciata sul divano e le urlavo in faccia: «Di’ la verità… dilla una buona volta… dilla!»
Sotto di me, il suo grande corpo perfetto che amavo tanto si dibatteva, ella si era fatta rossa e come gonfia in volto, dovevo stringere forte, e capii che, in fondo, desideravo ucciderla. Ripetei: «Dilla la verità una buona volta», e nello stesso tempo strinsi con forza raddoppiata e pensai: «Ora l’ammazzo… ma meglio morta che nemica.» Poi sentii che, con un ginocchio, ella cercava di colpirmi al ventre e infatti ci riuscì, con una tale violenza che mi mancò il fiato. Questo colpo mi addolorò quasi quanto la frase: “Non ti amo più”: era infatti il colpo di un nemico, il quale cerchi di far più male che sia possibile al suo avversario. Nello stesso tempo, il mio odio omicida cadde, rilasciai alquanto la presa e lei si liberò dandomi una spinta che quasi mi fece cadere dal divano. Quindi, prima ancora che mi riavessi, mi gridò con voce esasperata: «Io ti disprezzo… ecco quello che provo per te, ed ecco il motivo per cui non ti amo più… ti disprezzo e mi fai schifo ogni volta che mi tocchi… Eccola la verità… ti disprezzo e mi fai schifo.»
Ero in piedi. L’occhio, e subito dopo la mano, mi andarono ad un portacenere massiccio di cristallo che si trovava sul tavolo. Ella certamente credette che volessi ucciderla perché cacciò un gemito di paura e si coprì il viso con il braccio. Ma il mio angelo custode mi assistette: non so come riuscii a dominarmi, riposerai il portacenere sul tavolo e uscii dalla stanza.

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Brigitte Bardot e Michel Piccoli ne Le mépris tratto da Il disprezzo di Moravia

Sin dalle prime righe quello che emerge è che il romanzo è in forma autodiegetica ed strutturato come un lungo flashback che il protagonista, Molteni, ripercorre dopo la morte della protagonista. Infatti potremo definirlo quasi un romanzo sul concetto dell’assenza: assenza dell’amore di lei per lui, assenza della possibilità di un film, assenza di una realizzazione intellettuale; per questo nel romanzo, come il passo dimostra, vi è il tentativo dell’omicidio, nel prosieguo del libro quello del suicidio e quindi la morte reale. Emilia nel libro sarà viva soltanto come fantasma/illusione della mente di lui. Un altro personaggio che non sa “rapportarsi” con la realtà in cui vive.

Dice Sanguineti, famoso critico letterario: “E’ ne Il disprezzo che la problematica centrale di Moravia trova la sua summa più precisa e complessa, quasi un’unitaria enciclopedia della sua varia tematica” prosegue Fàvaro “la scrittura, la vita coniugale, le aspirazioni e le frustrazioni, la svalutazione del sentimento e dell’arte, il disprezzo al quale non si può rimanere indifferenti costituiscono la materia di un conflitto senza soluzione, se non con la morte”.

Moravia - La Ciociara | Historian

E’ nel ’57 che Moravia, in modo diretto, affronta e supera quelle che in quel tornio di anni possono definirsi tematiche “neorealiste”. Pubblica, infatti, La ciociara uno dei suoi romanzi più riusciti e dal quale Vittorio De Sica trasse, nel 1960, uno dei film più belli della cinematografia italiana, con una strepitosa Sophia Loren, vincitrice del premio Oscar.

Anche questo romanzo nasce da una suggestione biografica: Alberto Moravia ed Elsa Morante, infatti, si erano rifugiati, durante l’occupazione nazista di Roma, a Fonni, paese della Ciociaria (territorio laziale, corrispondente all’incirca nei dintorni di Frosinone). Comincia a progettarlo sin dal ’46, ma si rende conto di dover “sedimentare” l’esperienza per poterne fare materia di romanzo e non di cronaca. Infatti afferma:

Cesira è una contadina della Ciociaria (un luogo posto a sud del Lazio, al confine con la Campania), sposata con un negoziante di Roma. Il romanzo è narrato in prima persona ed è la donna stessa a dirci che, rimasta vedova, gestisce il piccolo negozio del defunto marito. Ha una figlia di nome Rosetta, molto bella, un po’ ingenua e molto devota. Vivono a Roma e cercano in tutti i modi di sopravvivere alle angherie della Seconda Guerra Mondiale. Cesira appena verrà a sapere che l’esercito tedesco è pronto ad entrare a Roma per scontrarsi con l’esercito alleato, metterà da parte le provviste e cucirà i suoi pochi averi nelle fodere dei vestiti ed insieme alla figlia adolescente scapperà nella Ciociaria, in campagna. Durante il viaggio madre e figlia sopporteranno la fame, il freddo, la sporcizia per diversi mesi e nel frattempo attenderanno l’arrivo delle forze alleate. Tra queste ultime vi è divisione marocchina delle truppe francesi che, sorprese Cesira e Rosetta in una chiesa disabitata, le violenteranno. Le due donne verranno sconvolte da questo avvenimento cambiando col tempo anche il modo di concepire la vita.

Come per La Romana anche qui Moravia usa l’io narrante, ma con più efficacia ne sottolinea il ruolo di “vittima” della storia, di chi la legge con strumenti materiali, quali la fame, la difesa della prole (Rosetta), la sicurezza, ma forse, perché più “materiali”, più efficaci se non fossero stravolti dall’annullamento di essi per colpa della guerra; ma chi usa invece strumenti intellettuali non riesce ad opporsi: il Michele de Gli indifferenti, diventa il Michele de La ciociara, ma ambedue saranno due figure di sconfitti.

Scena del film "La Ciociara" - Regia Vittorio De Sica - 1960 - L'attore Jean- Paul Belmondo e l'attrice Sophia Loren in primo piano.

Sophia Loren e Jean Paul Belmondo: Cesira e Michele

MICHELE

Era l’una, ormai, e così pensammo di mangiare qualche cosa, un po’ di pane e formaggio. Proprio mentre stavamo mangiando, ecco giungere di corsa il figlio di Paride, dicendo, tutto affannato, che erano arrivati i tedeschi. Non capimmo a tutta prima perché pensavamo logicamente che, dopo tante cannonate, fossero gli inglesi a dover arrivare; e io anzi insistetti con lui che era un bambino e poteva aver capito male: «Vuoi dire gli inglesi.» «No i tedeschi.» «Ma i tedeschi sono fuggiti.» «E io ti dico che invece sono arrivati.» Ma ecco Paride a spiegare il mistero: era arrivato effettivamente un gruppo di tedeschi in fuga e adesso stavano a sedere sulla paglia, all’ombra di un pagliaio e non si capiva che volessero. Io dissi a Michele: «Be’ che ce ne importa dei tedeschi?… noi aspettiamo gli inglesi e non i tedeschi… lasciamo i tedeschi a cuocere nel loro brodo.» Ma Michele, purtroppo non mi diede retta: gli si erano accesi gli occhi al racconto di Paride; bisogna credere che al tempo stesso odiasse i tedeschi e ne fosse attratto; l’idea di vederli in fuga e disfatti dopo averli incontrati tante volte superbi e vittoriosi, si vedeva che lo eccitava e gli piaceva. Disse a Paride: «Andiamo a vedere questi tedeschi,» e si avviò. Rosetta ed io lo seguimmo.
Trovammo i tedeschi, come Paride ci aveva informato, all’ombra del pagliaio. Erano cinque e in vita mia non ho mai veduto gente più strapazzata ed esausta di loro. Stavano buttati sulla paglia uno di qua e uno di là, distesi a gambe e braccia aperte, come morti. Tre dormivano o almeno stavano ad occhi chiusi, un altro stava a occhi aperti, supino, fissando il cielo, un quinto, disteso anche lui sul dorso, si era fatto come un cuscino con un mucchio di paglia e guardava dritto davanti a sé. Notai soprattutto quest’ultimo: era quasi albino, con la pelle rosa e trasparente, gli occhi azzurri circondati di peli quasi bianchi, i capelli di un biondo chiarissimo, fini e lisci. Aveva le guance grigie di polvere e rigate come da lacrime che fossero colate sulla polvere e ci si fossero seccate; le narici nere di terra o di non so che di sudiciume; la bocca screpolata; e gli occhi cerchiati di rosso, con due freghi neri di sotto che parevano due unghiate. I tedeschi, si sa, hanno sempre l’uniforme in ordine, pulita e stirata come se uscisse allora dalla naftalina. Ma le uniformi di questi cinque erano gualcite e sbottonate; parevano avere cambiato persino colore come se fossero state investite con violenza da un getto di polvere o di nerofumo. Molti sfollati e contadini facevano cerchio intorno, a qualche distanza, guardando i tedeschi in silenzio, come si guarda uno spettacolo incredibile; i tedeschi stavano zitti e non si muovevano. Michele, dunque, si avvicinò e domandò donde venissero. Aveva parlato in tedesco ma l’albino, senza muoversi, come se la sua nuca fosse stata inchiodata sopra quel cuscinetto di paglia, rispose parlando piano: «Può parlare in italiano… conosco l’italiano.» Michele allora ripeté la domanda in italiano e l’altro rispose che venivano dal fronte. Michele domandò che cosa fosse successo. L’albino, sempre con quel suo atteggiamento di paralizzato, staccando pian piano le parole l’una dall’altra, con un tono cupo, minaccioso e sfinito disse che loro erano artiglieri; che erano stati sottoposti per due giorni e due notti ad un terribile bombardamento aereo; che, nonché i cannoni, persino il terreno sul quale si trovavano era saltato in aria; e che, alla fine, dopo avere veduto morire gran parte dei loro compagni, avevano dovuto sloggiare e fuggire. «Il fronte,» egli concluse lentamente, «non è più sul Garigliano ma più a nord e noi dobbiamo raggiungerlo.» Così, benché fossero ridotti  a quel modo che parevano già morti, parlavano ancora di far la guerra e di resistere.
Michele domandò allora chi avesse sfondato il fronte, se gli inglesi o gli americani; e questa fu una domanda imprudente perché l’albino ebbe un sogghigno e disse: «Che le importa a lei chi fossero? Caro signore, lei deve contentarsi di sapere che tra poco i suoi amici saranno qui, ecco tutto.» Michele finse di non accorgersi del tono sarcastico e minaccioso e domandò che cosa potesse fare loro. L’albino disse: «Dateci qualche cosa da mangiare.»
Ora si era veramente agli sgoccioli, tutti quanti, e, forse con l’eccezione di Filippo, tra sfollati e contadini non credo che avrebbero potuto mettere insieme una pagnotta. Così ci guardammo in faccia, costernati; e io, interpretando il sentimento comune, esclamai: «Da mangiare? E chi ce l’ha la roba da mangiare? Se non ce la portano al più presto gli inglesi, qui moriamo tutti di fame. Aspettate anche voi gli inglesi e l’avrete la roba da mangiare.»Vidi Michele fare un gesto di disapprovazione come per dire “stupida” e capii che avevo detto una cosa che non avrei dovuto dire. Il tedesco intanto mi guardava fisso come se avesse voluto ben imprimersi nella memoria la mia faccia. Disse lentamente: «Un ottimo consiglio: aspettare gli inglesi.» Stette fermo ancora un poco e poi, levando a fatica un braccio, andò a frugarsi in seno sotto la giubba: «Ho detto che vogliamo qualche cosa da mangiare.» Adesso nella mano egli stringeva un’enorme pistola nera e la puntava contro di noi, pur senza muoversi né modificare il proprio atteggiamento. Mi venne una paura terribile, e forse non tanto per la pistola quanto per lo sguardo dell’albino che pareva proprio quello di un animale selvatico preso in trappola che, però, minacci ancora e mostri i denti. Michele, invece, non si turbò e disse con semplicità a Rosetta: «Va’, corri da mio padre e digli che ti dia un po’ di pane per un gruppo di tedeschi che ne hanno bisogno.» Disse queste parole in una maniera particolare, come per suggerire a Rosetta che doveva spiegare che quel pane i tedeschi lo richiedevano con la pistola. Rosetta subito corse verso la casa di Filippo. In attesa del pane, restammo tutti fermi, facendo cerchio intono al pagliaio. L’albino, dopo un momento, riprese: «Non abbiamo bisogno soltanto del pane… abbiamo anche bisogno di qualcuno che venga con noi e ci indichi il sentiero per andare a nord e raggiungere il nostro esercito.» Michele disse: «Il sentiero eccolo lì,» indicando la mulattiera in direzione della montagna. L’albino disse: «Lo vedo anch’io. Ma non conosciamo queste montagne. Abbiamo bisogno di qualcuno. Per esempio quella ragazza.» «Quale ragazza?» «Quella che è andata a prendere il pane.» Mi si gelò il sangue a queste parole: se portavano via Rosetta, in mezzo alla guerra, chissà che cosa poteva succedere, chissà quando l’avrei rivista. Ma Michele disse subito, senza perdere la calma: «Quella ragazza non è di queste parti. Le conosce meno di voi.» «E allora,» disse l’albino, «verrà lei, caro signore. Lei è di queste parti, no?» Io avrei voluto gridare a Michele: «Digli che sei forestiero!» ma non ebbi tempo. Troppo onesto per mentire, lui aveva già risposto: «Sono di queste parti ma anch’io non le conosco. Ho sempre vissuto in città.» L’albino, a queste parole, ebbe quasi un riso e disse: «A sentir lei nessuno le conosce queste montagne. Verrà lei. Vedrà che tutto ad un tratto scoprirà di conoscerle molto bene.» Michele, a questo, non rispose nulla, si limitò a corrugare le sopracciglia al di sopra degli occhiali. Intanto Rosetta era tornata, tutta affannata, con due piccoli pani che mise in terra, sulla paglia, tendendo in avanti la mano e sporgendosi, proprio come si fa con gli animali selvatici di cui non ci si fida. Il tedesco notò il gesto e disse con una nota di esasperazione nella voce: «Dammi il pane nelle mani. Non siamo mica cani arrabbiati che mordono.» Rosetta raccolse i pani e glieli porse. Il tedesco rinfoderò la pistola, prese i pani e si levò a sedere.
Adesso anche gli altri si erano levati a sedere, si vede che non dormivano e che avevano seguito tutto il dialogo benché ad occhi chiusi. L’albino cavò di tasca un coltello e tagliò i due pani in cinque parti uguali e le distribuì ai compagni. Mangiarono piano piano, noi stavamo sempre intorno, in cerchio e non dicevamo una parola. Quando ebbero finito e fu una cosa lunga perché mangiavano, per così dire, briciola a briciola, una contadina gli porse in silenzio un concone di rame pieno d’acqua e loro ne bevvero chi due e chi anche quattro ramaiolate: erano propri morti di fame e di sete. Poi l’albino tirò di nuovo fuori la pistola.
«Allora,» disse, «bisogna che andiamo se no si fa tardi.» Rivolse queste parole ai compagni che subito cominciarono lentamente a tirarsi su in piedi. Quindi si voltò verso Michele: «E lei viene con noi per indicarci il sentiero. Restammo tutti atterriti perché credevamo che l’albino l’avesse poco prima detto, così, tanto per dire; e invece, adesso, si vedeva che l’aveva detto sul serio. Anche Filippo era accorso e aveva assistito anche lui in silenzio al pasto dei tedeschi. Ma quando vide l’albino puntare la pistola contro Michele, cacciò quasi un gemito e con un coraggio che nessuno gli conosceva, si parò tra la pistola e il figlio: «Questo è mio figlio, avete capito? è mio figlio.»
L’albino non disse nulla. Fece però con la pistola un gesto come per scacciare una mosca; voleva dire che Filippo si mettesse da parte. Ma  Filippo, invece, gridò: «Lui, mio figlio, non conosce le montagne, verità di Vangelo. Lui legge, scrive, studia, come potrebbe conoscere le montagne?»
L’albino disse: «Verrà lui e basta.» Adesso si era levato in piedi e, pur senza abbassare la pistola, si aggiustava con l’altra mano il cinturone.
Filippo lo guardò come se non avesse capito bene. Lo vidi inghiottire e passarsi lingua sulle labbra: doveva sentirsi soffocare e, non so perché, mi ricordai in quella frase che lui ripeteva tanto volentieri: “ccà nisciuno è fesso.” Poveretto, adesso lui non era più né fesso né furbo; era un padre e basta. Infatti, dopo essere rimasto un momento come fulminato, gridò di nuovo: «Prendete me al posto di mio figlio. Io le montagne le conosco. Prima di essere commerciante sono stato merdaiolo ambulante. Le ho girate tutte le montagne. Vi porto io per mano, montagna montagna, fino al vostro comando. Conosco i sentieri più comodi, più segreti. Vi porto, ve lo prometto.» Egli si voltò verso la moglie e disse: «Ci vado io. Voi non state in pensiero, torno domani prima di sera.» Aggiungendo l’azione alla parola, si tirò su la fascia dei pantaloni e, atteggiando tutto il viso ad un sorriso, che in quel momento parve proprio straziante, si avvicinò al tedesco e gli mise la mano sul braccio, dicendo con una disinvoltura forzata: «Be’, andiamo, abbiamo parecchia strada da fare.»
Ma il tedesco non l’intendeva in questo modo. Disse calmo: «Lei è troppo vecchio. Verrà suo figlio, è il suo dovere.» E scostandolo semplicemente con la canna della pistola, andò a Michele e gli fece cenno, sempre con la pistola, di precederlo: «Andiamo.» Qualcuno, non so chi, gridò: «Michele, scappa.» Avete visto il tedesco? Con tutto che fosse sfinito, si voltò come un fulmine dalla parte donde era venuto il grido e sparò. Per fortuna il colpo si perdette tra le pietre della macera; ma il tedesco raggiunse lo stesso il suo scopo che era di intimidire i cittadini e gli sfollati e di impedirgli di fare qualcosa per Michele. Infatti tutti si sparpagliarono atterriti, riformando però il cerchio un po’ più lontano; e quindi guardarono in silenzio il tedesco che se andava, spingendo avanti Michele con la canna della pistola, nella schiena. Così partirono e io ho ancora davanti agli occhi, come se ci fossi presente, la scena della loro presenza: il tedesco con il braccio piegato per puntare la pistola, Michela che gli camminava davanti e, ricordo, aveva un pantalone più lungo che quasi gli andava a finire sotto il tacco e uno più corto che lasciava vedere la caviglia. Camminava piano Michele, forse sperando che noialtri ci saremmo rivoltati contro i tedeschi e gli avremmo dato modi scappare; la maniera con cui strascicava le gambe mi suggerì l’idea che si tirasse dietro una pesante catena. La processione dei quattro tedeschi, di Michele e del tedesco albino sfilò sotto di noi per il sentiero che portava a valle e quindi scomparve lentamente nella macchia. Filippo, che come tutti gli altri, allo sparo era scappato per poi fermarsi a poca distanza a guardare, quando l’albino e Michele furono per svoltare, tutto ad un tratto diede come un ruggito e fece per slanciarsi dietro. I contadini e gli sfollati gli furono subito addosso e lo trattennero che ruggiva e ripeteva il nome del figlio e piangeva a grosse lagrime che gli rigavano la faccia. Adesso erano accorse anche la madre e la sorella e stentavano a capire, domandando spiegazioni a destra e a sinistra; ma appena capirono, si misero a piangere anche loro e ad urlare il nome di Michele. La sorella singhiozzava forte ripetendo tra i singhiozzi: «Proprio adesso che stavano per finire tutte cose, proprio adesso.» Noi non sapevamo che dire perché, quando c’è un dolore vero con cause vere, le parole non possono diminuirlo e bisognerebbe invece annullare la causa del dolore e questo noi non potevamo fare. Alla fine Filippo si riebbe e disse alla moglie prendendola per le spalle e aiutandola a camminare: «Vedrai che tornerà… certo… non può non tornare… indicherà la strada e tornerà.» La figlia, pur piangendo, dava ragione al padre: «Vedrai, mamma, che torna prima di sera.» Ma la madre disse quello che spesso dicono le madri in questo caso e purtroppo il più delle volte ci azzeccano perché, si sa, l’istinto della madre è più forte di qualsiasi ragionamento: «No, no, lo so che non tornerà, ho il presentimento che non lo vedrò mai più.»

La ciociara", 1960 | Cinema | Rai Cultura

Nonostante la materia nuova, che si riallaccia con il clima neorelistico, sia per la tematica (la condizione contadina durante la fine della Seconda Guerra Mondiale) sia per lo stile, (le parole dei protagonisti mimano il linguaggio popolare), il personaggio di Michele – non è un caso si chiami allo stesso modo del giovane protagonista de Gli indifferenti – non riesce ad aderire alla realtà. L’intellettuale sembra non comprendere ciò che la guerra gli pone di fronte, fa “vivere” la sua curiosità di conoscenza non riuscendo “a comunicare con la realtà, a servirsi degli stessi oggetti che lo circondano senza mistificarli” (Carlo Salinari)

LA VIOLENZA DELLA GUERRA

Finalmente, ecco apparire in fondo alla pianura distesa e verde, una lunga striscia di colore incerto, tra il bianco e il giallo; i sobborghi di Roma. E dietro questa striscia, sovrastandola, grigia sullo sfondo del cielo grigio, lontanissima, eppure chiara, la cupola di San Pietro. Dio sa se avevo sperato durante tutto l’anno di rivedere, laggiù all’orizzonte, quella cara cupola, così piccola e al tempo stesso così grande da potere essere quasi scambiata per un accidente del terreno, per una collina o una montagnola; così solida benché non più che un ombra; così rassicurante perché familiare e mille volte vista e osservata. Quella cupola, per me, non era soltanto Roma ma la mia vita di Roma, la serenità dei giorni che si vivono in pace con se stessi e con gli altri. Laggiù, in fondo all’orizzonte, quella cupola mi diceva che io potevo ormai tornare fiduciosa a casa e la vecchia vita avrebbe ripreso il suo corso, pur dopo tanti cambiamenti e tante tragedie. Ma anche mi diceva che questa fiducia tutta nuova, io la dovevo a Rosetta e al suo canto e alle sue lacrime. E che senza quel dolore di Rosetta, a Roma non ci sarebbero arrivate le due donne senza colpa che ne erano partite un anno prima, bensì una ladra e una prostituta, quali, appunto, attraverso la guerra e a causa della guerra, erano diventate.
Il dolore. Mi tornò in mente Michele che non era con noi in questo momento tanto sospirato del ritorno e non sarebbe più stato con noi; e ricordai quella sera che aveva letto ad alta voce, nella capanna di Sant’Eufemia, il passo del Vangelo su Lazzaro; e si era tanto arrabbiato con i contadini che non avevano capito niente ed aveva gridato che eravamo tutti morti, in attesa della resurrezione, come Lazzaro. Allora queste parole di Michele mi avevano lasciata incerta; adesso, invece, capivo che Michele aveva avuto ragione; e che per qualche tempo eravamo state morte anche noi due, Rosetta ed io, morte alla pietà che si deve agli altri e a se stessi. Ma il dolore ci aveva salvate all’ultimo momento; e così, in certo modo, il passo di Lazzaro era buono anche per noi, poiché, grazie al dolore, eravamo alla fine, uscite dalla guerra che ci chiudeva nella sua tomba di indifferenza e di malvagità ed avevamo ripreso a camminare nella nostra vita, la quale era forse una povera cosa piena di oscurità e di errore, ma pur tuttavia la sola che dovessimo vivere, come senza dubbio Michele ci avrebbe detto se fosse stato con noi.

La ciociara di De Sica e Zavattini è uno dei film più femministi di sempre

Sophia Loren

La guerra raccontata da Moravia incide nell’esistenza, la trasforma, la disumanizza: infatti essa dà vita allo scatenamento degli istinti bestiali non più controllabili; deturpa le coscienze, le rende simili alle bestie; è l’epilogo di Rosetta che da bambina fragile, sotto la guida della madre che cerca di conservare fino in fondo il senso dell’onestà, diventa infine, dopo la violenza subita, una prostituta. Ma ci dice Cesira, diventare “altro” da quello che si è stato è comunque un ricominciare, un vivere, una prospettiva di un domani, di contro alla cecità feroce di una guerra dal popolo subìta, né voluta, né capita, e prendere atto, senza intellettualismi, che, forte di un sentimento vitale datale dall’essere donna, non bisogna rinunciare a fare patti con la realtà. 

Precedono e seguono il romanzo due raccolte Racconti romani (1954) e Nuovi racconti romani (1959), che, insieme con La romana e La ciociara costituiscono la fase cosiddetta “neorealista” di Moravia.Amazon.it: Racconti romani - Moravia, Alberto - Libri

Fra le due raccolte non vi è differenza, né tematica né strutturale, tanto da poter parlare di un’opera unitaria: sono tutti raccontati in prima persona e presentano, per la maggior parte, personaggi “minori” della Roma del dopoguerra: disoccupati, meccanici, faccendieri, camerieri e via dicendo; inoltre hanno tutti la stessa lunghezza, corrispondente, più o meno, allo spazio dedicato loro dal Corriere della Sera, dove vevivano regolarmente pubblicati. Da ciò ne deriva che la loro edizione in volume fosse posteriore e non tenne in considerazione la cronologia con cui il giornale li proponeva. Moravia sottolinea come l’ispirazione per tali racconti sia stata più cinematografica che “letteraria”, sebbene egli prenda spunto dal poeta dialettale romano Belli, per riprodurre, novellisticamente, personaggi dei suoi sonetti. Si è che per Moravia il neorealismo letterario ha una certa dose di “liricità” in quanto racconta l’esperienza partigiana vissuta dagli stessi scrittori, mentre la sua opera, come appunto i film “neorealistici” scendevano sulle strade per filmare, senza filtro ideologico, la situazione che si presentava davanti alla macchina da presa (basti pensare al film capolavoro del neorealismo Ladri di biciclette di Vittorio de Sica)Alberto Moravia: NUOVI RACCONTI ROMANI. – Biblioteca Liceo Gullace Talotta

LADRI IN CHIESA

Che fa il lupo quando la lupa e i lupetti hanno fame e stanno a pancia vuota, lamentandosi e bisticciandosi tra loro, che fa il lupo? Io dico che il lupo esce dalla tana e va in cerca di roba da mangiare e magari, dalla disperazione, scende al paese ed entra in una casa. E i contadini che l’ammazzano hanno ragione di ammazzarlo; ma anche lui ha ragione di entrare in casa loro e di morderli. Così tutti hanno ragione e il torto non c’è l’ha nessuno; e dalla ragione nasce la morte. Quell’inverno io ero come il lupo e, anzi, proprio come un lupo non abitavo in una casa ma in una grotta, laggiù, sotto Monte Mario, in una cava abbandonata di pozzolana. Ce n’erano di parecchie di grotte, ma le più erano ostruite dai rovi, due sole erano abitate, quella mia è quella di un vecchio che è un po’ mendicava e un po’ andava in giro a raccogliere stracci e si chiamava Puliti. Il luogo, a ridosso del monte, era giallo e pelato, con le aperture delle grotte tutte affumate e nere. Davanti la grotta di Puliti c’è da sempre un bidone di benzina che ci serviva da fornello e mia moglie, in piedi, con il bambino al petto, che menava la ventola per accendere i carboni. Dentro, la grotta era perfino meglio di una camera in muratura; spaziosa, asciutta, pulita, con il materasso in fondo e la roba appesa ai chiodi. La famiglia, dunque, la lasciavo alla grotta e andavo a Roma a cercar lavoro; ero bracciante e per lo più lavoravo negli sterri. Poi venne l’inverno e, non so perché, di sterri se ne fecero sempre meno, e io cambiai mestiere tante volte ma sempre per poco tempo, e, alla fine, restai senza lavoro. La sera, quando tornavo alla grotta, e vedevo, alla luce della lampada a olio, mia moglie accovacciata sul materasso che mi guardava, e il bambino che teneva al petto che mi guardava, e i due bambini più grandi che giocavano in terra che mi guardavano, e leggevo in quegli otto occhi la stessa espressione affamata, mi pareva proprio di essere un lupo con una famiglia di lupi e pensavo: “Uno di questi giorni se non gli porto da mangiare, vuoi vedere che mi mozzicano?” Puliti, quel vecchiaccio, che a vederlo con la sua bella barba bianca pareva un Santo e poi invece, appena apriva bocca, subito si capiva che delinquente era, mi diceva: «Perché li mettete al mondo i figli? Per farli soffrire? E tu, intanto, perché non fai il ciccarolo? Con le cicche, sempre, qualche cosa ci rimedi». Ma io non me la sentivo di andare in giro a raccattare cicche: volevo lavorare con le mie braccia. Una sera, dalla disperazione, dissi a mia moglie: «Non ce la faccio più… sai che ti dico? Mi apposto all’angolo di una strada e il primo che viene…» Mia moglie mi interruppe: «Vuoi andare in galera?» E io: «Almeno in galera si mangia.» E lei: «Tu sì… ma noi?» Quest’ultima obiezione, lo confesso, fu decisiva.
Fu Puliti che mi suggerì l’idea della chiesa. Frequentava le chiese per mendicare e le conosceva, si può dire, tutte, una per una. Disse che se mi facevo chiudere la sera in una chiesa, poi, se ci sapevo fare, la mattina potevo scappare senza che mi vedessero. Avvertì poi: «Fa’ attenzione, però… i preti mica sono scemi… la roba buona la tengono nella cassaforte e quelli che vedi sono fondi di bicchieri». Finalmente affermò che se la sentiva, una volta che avessi fatto il colpo, di rivendere la roba. Insomma, mi mise una pulce nell’orecchio, sebbene, poi, non ci pensassi e non ne parlassi più. Ma le idee, si sa, sono come le pulci, camminano da sole e, quando meno te lo aspetti ti danno un morso e ti fanno saltare in piedi.
Così, una di quelle sere, l’idea mi diede il morso e io ne parlai a mia moglie. Ora bisogna sapere che mia moglie è religiosa e al paese, si può dire, stava più in chiesa che in casa. Disse subito: «Che, sei diventato matto?» Io avevo prevenuto l’obbiezione e le risposi: «Questo non è un furto… La roba, nella chiesa, perché ci sta? Per fare il bene… Se noi prendiamo qualche cosa, che facciamo? Facciamo il bene… a chi, infatti, si dovrebbe fare il bene se non a noi che abbiamo tanto bisogno?» Lei parve scossa e domandò: «Ma tu come le hai pensate tutte queste cose?» Io dissi: «Non te ne occupare e rispondi: non è scritto forse che bisogna dar da mangiare agli affamati?» «Sì» «Siamo o non siamo affamati?» «Sì» «Ebbene in questo modo facciamo il nostro dovere… anzi facciamo un’opera buona.» Insomma tanto dissi, sempre insistendo sulla religione che era, come sapevo, il suo punto debole, che la convinsi. Soggiunsi, poi: «Ma siccome non voglio che rimani sola, verrai con me… così, in galera, se ci scoprono, ci andremo insieme». «E le creature?» «Le creature le lasciamo a Puliti… poi ci penserà il Signore.» Così ci mettemmo d’accordo e quindi ne parlammo a Puliti. Lui discusse il piano, approvandolo; ma alla fine disse, lisciandosi la barba: «Domenico, dà retta a me che sono vecchio… i cuori d’argento lasciali stare… è roba da poco… attaccati alle gioie». Quando ripenso a Puliti, alla sua barba e alla gravità con cui mi dava questi consigli, quasi quasi mi viene da ridere.
Il giorno fissato, lasciammo i bambini a Puliti e scendemmo con il tram a Roma. Proprio come due lupi affamati che scendono dal monte al paese; e chiunque, vedendoci, ci avrebbe preso per due lupi: mia moglie bassa e tarchiata, tutto petto e spalle, con i capelli crespi ritti che le facevano come una fiamma sulla testa, la faccia risoluta; io magro scannato, il viso a coltello nero di barba, gli occhi incavati e scintillanti. Avevamo scelta una chiesa antica, dalle parti del Corso, in una traversa. Era una chiesa grande e molto buia per via che ci aveva case tutt’intorno; con due file di colonne e, al di là delle colonne, due navate strette e buie con tante cappelline, piene di tesori. Di vetrine con cuori d’argento e dorati, ce n’erano in quantità, appesa alla pareti. Ma io avevo messo gli occhi su una vetrinetta più piccola, dove, tra pochi cuori più preziosi, stava in mostra una collana di lapislazzuli su un fondo di velluto rosso. Questa vetrinetta si trovava in una cappella dedicata alla Madonna; e, infatti, in cima all’altare, sotto un baldacchino, c’era la statua della Madonna, di grandezza naturale, tutta dipinta, con la testa circondata da un nimbo di lampadine e, ai piedi, molti vasi di fiori e molti candelabri. Entrammo in chiesa che era già notte e, al momento che non c’era nessuno, ci nascondemmo dietro l’altare, in quella cappella dove era la vetrina. C’erano due o tre scalini, dietro la statua, e sedemmo su quelli. A un’ora tarda, il sacrestano prese a girare per la chiesa, strascicando i piedi e borbottando: «Si chiude;» ma dietro quell’altare non ci venne e si limitò a spegnere tutte le lampadine all’infuori di due lumettini rossi, uno per parte. Poi lo udimmo che chiudeva le porte e alla fine traversò la chiesa per tutta la sua lunghezza e se ne andò dalla parte della sacristia. Eccoci dunque al buio, in quel corridoietto, tra l’altare e la parete dell’abside. Io avevo la febbre e dissi sottovoce a mia moglie: «Su, facciamo presto… apriamo la vetrina». La udii rispondere: «Aspetta… che fretta c’è?» e poi la vidi uscire dal nascondiglio. Andò in mezzo alla cappella, fece lì, in quella penombra, un inchino, si segnò, poi, camminando a ritroso, fece un altro inchino e si segnò una seconda volta. Finalmente la vidi inginocchiarsi in terra, in un angolo della cappella, e giungere le mani come per pregare. Che preghiere fossero non saprei, ma capii che non era poi tanto convinta di far bene, come le avevo detto, e voleva premunirsi per quanto poteva. La vedevo chinar la testa nascondendo il viso sotto la massa dei capelli e poi rialzare il viso in quella lucetta rossa muovendo le labbra e poi riabbassarlo, proprio come al rosario. Mi avvicinai e le mormorai, inquieto: «Le preghiere potevi anche dirle a casa, no?» Ma lei, rude: «Lasciami perdere… va’, gira, la chiesa è tanto grande… proprio qui hai da stare?» Sussurrai:«Vuoi intanto che tu preghi, che io apra la vetrina?» E lei, sempre sgarbata: «Non voglio nulla… anzi, quel ferro, dallo a me». Il ferro era un paletto più che sufficiente per aprire quella vetrinetta traballente: glielo diedi e mi allontanai.
Presi a girare per la chiesa, senza sapere che fare. La chiesa, in penombra, mi faceva paura, con le volte alte e buie che a un sospiro rintronavano; con l’altare maggiore, laggiù in fondo, monumentale, luccicante appena, con i confessionali neri e chiusi, appiattati al buio delle navate laterali. Camminando in punta di piedi, andai alla porta, tutto solo, tra le due file di banchi vuoti, e allora tornai indietro e andai a sedermi nella navata di sinistra, davanti a una tomba illuminata da una lucernetta rossa. La tomba, murata nella parete, aveva una grande lapide di marmo nero, lucido, e due figure, una per parte; uno scheletro che impugnava una falce e una donna nuda avvolta dei propri capelli. Ambedue le figure erano di marmo giallino, brillante, scolpito benissimo; e io mi distrasse un poco a osservarle e a furia di guardare mi pareva, forse a causa del buio, che si muovessero e che la donna accennasse a fuggire dallo scheletro e questi, galante, la trattenesse per un braccio. Allora, per rinfrancarmi, pensai alla grotta, ai figli, a Puliti, e mi dissi che, se in quel momento mi avessero proposto di tornare indietro e di scegliere di nuovo quello che dovevo fare, avrei fatto la stessa cosa o perlomeno una cosa molto simile a questa. Insomma, non era un caso che fossi in quella chiesa, e non era un caso che ci fossi per quello scopo, e non era un caso che non avessi trovato niente di meglio da fare. Tra questi pensieri mi venne sonno e mi addormentai. Fu un sonno pesante, senza sogni, sigillato dal freddo che in quella chiesa pareva di cantina. Così dormii e non mi accorsi di nulla.
Poi qualcuno mi scoteva e io, nel sonno, dissi: «Aho, vacci piano… che ti prende?» Finalmente, siccome continuavano a scuotermi, aprii gli occhi e vidi gente: il sacrestano che mi guardava con gli occhi fuori dalla testa; il parroco, un vecchio, coi capelli bianchi spettinati e la veste ancora sbottonata; due o tre guardie e, tra le guardie, mia moglie, più tetra che mai. Dissi, così, senza muovermi: «Lasciateci stare… siamo sfollati e siamo entrati in chiesa per dormire.» Allora una delle guardie mi mostrò qualcosa che, lì per lì, tanto ero intontito dal sonno, scambiai per un rosario: la collana di lapislazzuli: «E questa… anche questa per dormire?» Insomma dopo qualche altra spiegazione, le guardie ci presero in mezzo e uscimmo dalla chiesa.
Era ancora notte, ma verso l’alba, con le strade deserte e bagnate di guazza. Andavamo di fretta, per quelle straducce, tra le guardie, a testa china, muti. Vedendo mia moglie che camminava davanti, poveretta, così tarchiata e bassa, con la gonnella corta e i capelli ritti sulla testa, mi venne compassione dissi a una delle guardie: «Mi dispiace per lei e per i miei figli». La guardia mi domandò: «Dove ce l’hai i figli?» Glielo dissi, e lui: «Ma tu un padre di famiglia… come ti è saltato in mente? Non hai pensato ai tuoi figli?» Io gli risposi: «E’ proprio perché ci pensavo che ho fatto quello che ho fatto.»
Al Commissariato, un giovane biondo, seduto dietro una scrivania, come ci vide, disse: «Ladri sacrileghi, eh.» Ma mia moglie, tutto d’un tratto, gridò con una voce terribile: «Davanti a Dio, non sono colpevole». Io non le conoscevo quella voce e rimasi a bocca aperta. Il commissario disse: «Allora è tuo marito il colpevole». «Neppure». «Sta’ a vedere che il colpevole sono io… e la collana come l’hai avuta?» E mia moglie: «La Madonna è scesa dall’altare, ha aperto la vetrinetta e mi ha dato la collana». «La Madonna eh… anche il piè di porco? ti ha dato la Madonna?» E mia moglie sempre con quella voce, alzando la mano: «Potessi morire se non ho detto la verità». Continuarono a interrogarci, non so quanto tempo, ma io dicevo che non avevo visto niente, come era vero; e mia moglie ripeteva che la Madonna le aveva dato la collana. Ogni tanto gridava: «Uomo inginocchiati davanti al miracolo». Insomma, pareva esaltata o addirittura matta. Andò a finire che la portarono via, mentre continuava a gridare e invocare la Madonna: credo che la mandassero in infermeria. Poi il commissario voleva sapere da me se mi risultava che mia moglie fosse matta e io gli risposi: «Magari lo fosse davvero;» pensando che i matti non soffrono e le cose le vedono come pare a loro. Ma pensavo pure che poteva darsi che mia moglie avesse detto la verità e quai mi dispiaceva di non aver visto con gli occhi miei la Madonna scendere dall’altare, aprire la vetrina e consegnarle la collana.

In Ladri in chiesa, che, come in tutti i racconti delle due raccolte, è condotto da un io narrante, si possono leggere più componenti: sebbene ci presenti  una situazione di vera disperazione per la povertà (non senza un taglio che potremmo definire mutuato dalla cinematografia attraverso la zoommata all’interno della grotta), da un lato vira su un registro comico (il protagonista che s’addormenta in chiesa), dall’altro su un registro miracolistico a cui la disuminità della loro condizione li porta a sperare. Da sottolineare l’uso di vocaboli che si richiamano al vernacolo romanesco come mozziccano, ciccarolo, mescolate, invece con espressioni colte come affumate o costruzioni come davanti la grotta.

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Prima di riprendere con il romanzo, Moravia, d’altra parte come molti suoi colleghi, pubblica, nel 1958, un libro odeporico (riferito a un viaggio): Un mese in URSS in cui raccoglie le corrispondenze dal paese sovietico per il Corriere della Sera; in effetti in quel periodo l’Unione Sovietica rappresentava un vero e proprio laboratorio politico: la morte di Stalin e quindi dello stalinismo come forma oppressiva per chi osava contraddire il “grande padre” (che, tra le altre cose, godeva di una enorme popolarità); la speranza di un cambiamento con Nikita Krusciov che, nel XX Congresso del PCUS nel 1956, denunziò pubblicamente Stalin e dichiarò il culto della personalità come contrario al marxismo; la repressione per la rivolta d’Ungheria che sottolineava il ruolo dell’URSS come potenza egemone del blocco cosiddetto sovietico.

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Il lavoro di Moravia, tuttavia, presenta delle caratteristiche che vanno oltre il “classico” reportage di viaggio: se il fine descrittivo si conserva nell’illustrare le caratteristiche di città come Tibilissi, Erivan e Samarcanda, in molte parti del testo l’autore cerca la specificità sovietica nei grandi intellettuali che, in quanto russi, l’hanno sì preceduta, ma che sono stati capaci di informarla all’interno dell’uomo russo/sovietico: si percepisce per l’attenzione che Moravia presta a Gogol, a Dostoevskij, sino al mitico Tamerlano. Si veda questa pagina tratta da un capitolo in cui Moravia s’interroga sulla difficoltà sovietica ad accettare la prosa del grande autore di Delitto e castigo: l’articolo (il I capitolo del libro) s’intitola Marx e Dostoevskij ed è ambientato nella Leningrado di allora:

LENINGRADO E L’APPARTAMENTO IN CUI ABITO’ DOSTOEVSKIJ 

Ed ecco, infine, i quartieri vecchi della città, con le strade brevi e larghe tagliate a scacchiera, fiancheggiate di casamenti tetri e scalcinati, col vecchio acciottolato qua e là interrotto da buche e da pozze, lustro e nero sotto la pioggia. Strade vuote, tranquille e lugubri in cui giocano, noncuranti della pioggia, i monelli. Entriamo in un vasto portone dalla soglia sconnessa e fangosa, ci affacciamo nel cortile ingombrato da alte, nere cataste di legna da ardere. Le pareti di questo cortile sono lebbrose, scalcinate, percorse qua e là da maligne fessure a zig zag. Una donna di mezza età si affaccia da una delle scale e ci domanda se vogliamo visitare l’appartamento in cui abitò a lungo Dostoevskij.
Le rispondiamo che siamo qui per questo e quindi la seguiamo su per la scala. E una scala ampia, di una tetraggine brutale e sinistra: pareti nerastre chiazzate di umidità, scalini di sordida pietra grezza e raschiata, alcuni dei quadri spezzati o mancanti, ringhiera di rozzo legno tagliato senza arte, scura e sommaria. La scala è buia, di una tristezza atroce, e siamo a primavera; bisogna immaginarla nei lunghi inverni nevosi, con le tenebre dentro e fuori.
Perché mi sono soffermato a descrivere questa scala? Perché questa è la scala per cui andava e veniva Dostoevskij il quale abitò per anni in questo casamento; ma è anche la scala per cui andava e veniva l’eroe di Dostoevskij, Raskolnikov, prima e dopo il delitto dell’usuraia. Già, perché io sono qui insieme con due studiosi di Dostoevskij, i quali mi informano che questo è senza alcun dubbio il casamento dove abitava Raskolnikov; pur essendo nello stesso tempo quello in cui abitava l’autore di Delitto e castigo. In altri termini, l’identificazione di Dostoevskij con Raskolnikov fu completa, egli mise Raskolnikov nel proprio appartamento, anzi nella propria stanza, lo fece muovere per le proprie scale e in generale per tutti i luoghi che lui stesso frequentava, in quel tempo, a Pietroburgo.
Ecco il pianerottolo, all’ultimo piano; la donna apre, nell’ombra, una porta nera come il bitume e ci precede in uno stretto corridoio tutto ingombro di armadi, si passa a pena. Su questo corridoio danno due porte dietro le quali, a causa della coabitazione cui sono costretti gli abitanti delle grandi città russe, abitano due famiglie; la terza porta in fondo, è quella della donna, cioè di Dostoevskij, ossia di Raskolnikov. Ma lasciamo parlare Dostoevskij: «La stanzuccia di lui veniva a trovarsi proprio sotto il tetto di un’altro casamento di cinque piani e rassomigliava piuttosto ad un armadio che ad una stanza». Effettivamente la stanza in cui entriamo è molto piccola e soprattutto stretta, quasi una continuazione del corridoio. Per lo stesso verso, sono allineati il letto, un armadio, un tavolino con la macchina da cucire. In fondo alla stanza c’è la finestra con le solite tende tendine e controtendine ma non so davvero come si faccia ad arrivarci perché lo spazio sotto il davanzale è tutto occupato da un tavolo tondo sul quale, accanto ad un servizio da tè di porcellana, c’è un ferro da stiro acceso e una camicetta con le maniche distese che la donna stava stirando al nostro arrivo. In questa stanzetta abitava Dostoevskij il quale, a sua volta, ci fece abitare Raskolnikov. Qui fu meditato dallo scrittore il delitto dell’usuraia e qui fu fatto meditare al personaggio. Ci ritiriamo ringraziando la donna.
Dopo la casa di Dostoevskij e di Raskolnikov, i due studiosi russi mi fanno fare tutto il percorso esatto («settecentotrenta passi in tutto» ci informa Dostoevskij) tra la casa dell’assassino e quello dell’assassinata. Ecco il malinconico, nero canale della Fontanka, ecco il ponte a schiena da asino tra due file di palazzi marmorei, ecco la informe piazza Sennaia, o Mercato del Fieno, ecco la strada dove abitava l’usuraia, molto simile a quella dove abitava Dostoevskij.
Varco di nuovo un tetro portone, salgo di nuovo per una scala tenebrosa, umida, sinistra, mi soffermo sul buio pianerottolo dell’usuraia. Il campanello che Raskolnikov tirò più volte prima e dopo il delitto è là, presso la porta; forse, se lo tirassi, la porta si schiuderebbe piano piano e la testa ripugnante della vecchia si affacerebbe. Ma no, c’è stata la rivoluzione, non ci sno più usurai in Russia. Mentre torniamo indietro, i due studiosi russi mi assicurano che Dostoevskij, così psicologico, così astratto da dare nel fantastico, era, nei riferimenti topografici e in genere nelle descrizioni d’ambiente, di una precisione fotografica. «Noi sappiamo tutto dei personaggi di Dostoevskij e tutto a Leningrado è rimasto tale e quale come ai tempi di Dostoevskij, e Dostoevskij, a sua volta, ha descritto ogni cosa senza cambiare né aggiungere nulla». La mattinata procede sulla Neva, nel punto preciso in cui il demoniaco Svidrigailov si avviò sul fangoso e sdrucciolevole pavimento di legno in direzione della piccola Neva…»

Case museo della letteratura | Letteratura | Rai Cultura

La casa di Dostoevsij

Moravia afferma “io ho scritto un libro sull’Unione Sovietica perché m’interessavano il disgelo, lo stalinismo, il passaggio da una civiltà all’altra” ma è innegabile che l’autore cerchi, oserei dire antropologicamente, di capire la società russo/sovietica e per fare ciò parte dalla convinzione secondo cui “in senso largo, ogni popolo si specchia nella propria letteratura e ne è rispecchiato”, perché “c’è più verità storica e sociale nei libri di poesia che nei gravi studi di molti storici e sociologi”. Ci dice cioé Luca Clerici, prefatore di questo testo di Moravia, che “per capire la realtà sovietica non serve dunque guardarla in faccia ma occorre studiarne il riflesso letterario, la sua rappresentazione astratta”.

Del 1960 è La noia, romanzo che riconcilia Moravia con il suo pubblico di lettori (il libro avrà lo stesso successo de Gli indifferenti):

Dino, di famiglia borghese e ricca, si è rivolto alla pittura per noia: sperando cioè, di realizzare, per mezzo dell’espressione artistica, quel rapporto con le cose che altrimenti non gli riesce di stabilire. Ma dopo dieci anni di lavoro, l’atto di distruggere la tela alla quale sta lavorando gli si rivela come il suo primo vero gesto creativo. Conosce Cecilia, di cui si dice che abbia portato alla disperazione e alla morte un uomo, e ne diventa l’amante, curioso di scoprire che cosa l’aveva resa indispensabile all’altro. La ragazza gli si rivela disponibile a tutto e a tutti, e perciò inafferabile; nonostante il “possesso” fisico, avverte che ella gli sfugge. Vorrebbe sentirla sua perché, venendogli a noia, si ricollegherebbe nella dimensione consueta della realtà. Ma non riesce ad averla né con il denaro, che lei accetta e spende con un altro, né con una proposta di matrimonio, respinta, né con un gesto omicida, dal quale si ritrae appena in tempo. Sopravvissuto a un tentativo di suicidio, Dino si accorge che non desidera più possederla: l’ama in modo diverso, accettando che viva al di fuori di lui.

Con il romanzo La noia Moravia supera il cosiddetto periodo del “neoralismo” (costituito da La romana, La ciociara, Racconti romani e Nuovi racconti romani) per approdare ad un approfondimento della tematica già presente ne Gli indifferenti, prendendo spunto dalla lettura di Wittgenstein e dal dibattito culturale sull’alienazione e la reificazione che la nuova civiltà industriale stava producendo, riducendo le cose intorno a noi “altre” o trasformandole in oggetti senza alcun rapporto con noi.

Tutto ciò viene chiarito nell’incipit del romanzo:

DEFINIZIONE DELLA NOIA

Penso che, a questo punto, sarà forse opportuno che io spenda qualche parola sulla noia, un sentimento di cui mi accadrà di parlare spesso in queste pagine. Dunque, per quanto io mi spinga indietro negli anni con la memoria, ricordo di aver sempre sofferto della noia. Ma bisogna intendersi su questa parola. Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente. Oppure, altro paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto è chiaro ed evidente, qui ci sono le poltrone, lì i divani, più in là gli armadi, le consolle, i quadri, i tendaggi, i tappeti, le finestre, le porte; un momento dopo non c’è più che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per trasformazioni successive e rapidissime, un fiore passare dal boccio all’appassimento e alla polvere.
Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza. Per esempio, può accadermi di guardare con una certa attenzione un bicchiere. Finché mi dico che questo bicchiere è un recipiente di cristallo o di metallo fabbricato per metterci un liquido e portarlo alle labbra senza che si spanda, finché, cioè, sono in grado di rappresentarmi con convinzione il bicchiere, mi sembrerà di avere con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla sua esistenza e, in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate che il bicchiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che ho detto, ossia che mi si palesi come qualche cosa di estraneo, col quale non ho alcun rapporto, cioè, in una parola, mi appaia come un oggetto assurdo, e allora da questa assurdità scaturirà la noia la quale, in fin dei conti, è giunto il momento di dirlo, non è che incomunicabilità e incapacità di uscirne. Ma questa noia, a sua volta, non mi farebbe soffrire tanto se non sapessi che, pur non avendo rapporti con il bicchiere, potrei forse averne, cioè che il bicchiere esiste in qualche paradiso sconosciuto nel quale gli oggetti non cessano un solo istante di essere oggetti.
Dunque la noia, oltre alla incapacità di uscire da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse uscirne, grazie a non so quale miracolo.
Ho detto che mi sono annoiato sempre; aggiungo che soltanto in tempi abbastanza recenti sono riuscito a capire con sufficienza chiarezza che cosa sia realmente la noia. Durante l’infanzia poi anche durante l’adolescenza e la prima giovinezza, ho sofferto della noia senza spiegarmela, come coloro che soffrono di continui mal di testa ma non si decidono mai a interrogare un medico. Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di spiegare e che gli altri, nel caso mia madre, attribuivano a disturbi della salute o altri simili cause; un po’ come il malumore dei bimbi più piccoli viene attribuito allo spuntare dei denti. Mi avveniva, in quegli anni, di cessare improvvisamente di giocare e di restare ore intere, immobile, come attonito, sopraffatto in realtà dal malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l’avvizzimento degli oggetti, ossia dall’oscura consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto. Se in quei momenti mia madre entrava nella stanza e vedendomi muto, inerte e pallido per la sofferenza, mi domandava che cosa avessi, rispondevo invariabilmente: «mi annoio»; spiegando così, con una parola di significato chiaro e angusto, uno stato d’animo vasto e oscuro. Mia madre, allora, prendendo sul serio la mia affermazione, si chinava ad abbracciarmi e poi mi prometteva di portarmi al cinema quel pomeriggio stesso, ossia mi proponeva un divertimento che, come sapevo ormai benissimo, non era il contrario della noia né il suo rimedio. E io, pur fingendo di accogliere con gioia la proposta, non potevo fare a meno di provare quello stesso sentimento di noia, che mia madre pretendeva fugare, per le sue labbra che si posavano sulla mia fronte, per le sue braccia che mi circondavano alle spalle, nonché per il cinema che lei mi faceva balenare come un miraggio davanti agli occhi. Anche con le sue labbra, con le sue braccia, con il cinema, infatti, io non avevo alcun rapporto in quel momento. Ma come avrei potuto spiegare a mia madre che il sentimento di noia di cui soffrivo non poteva essere alleviato in un modo? Ho già notato che la noia consiste principalmente nell’incomunicabilità. Ora non potendo comunicare con mia madre dalla quale ero separato come da qualsiasi altro oggetto, in un certo modo ero costretto ad accettare il malinteso e a mentirle.

Questo tema della noia, presente quasi ossessivamente in tutto il romanzo, viene condotto in questa pagina con un taglio propriamente didascalico; in essa – attraverso sottolineature esplicative sul chiarirsi riguardo al significato del termine stesso, e sull’uso, per rendere più esplicito il suo significato – ci dà il taglio che potrebbe essere quasi saggistico. Imparentato infatti al romanzo sartriano La nausea (di cui Moravia tradusse un capitolo), l’opera moraviana s’inserisce a pien diritto nel tema dell’ “incomunicabilità” reso “popolare”, in quel periodo, dai film di Michelangelo Antonioni, quali La notte, L’avventura, L’eclisse (tutti recensiti da Moravia per la rivista L’Espresso).

Il libro narra l’incapacità da parte del ricco borghese Dino di creare un rapporto con la realtà: tale mancanza, come esplicitato, dà origine alla noia.   

Se la realtà è costituita da elementi, da cose egli cerca di prenderne possesso sia attraverso la pittura, sia attraverso il sesso: nel primo caso il suo tentativo risulterà fallimentare, non riuscendo a dare vita a quadri, foss’anche astratti; nel secondo cercando di possedere Cecilia che, amante del pittore che lo ha preceduto (Balestrieri), dopo la sua morte diventa la sua amante; ma la  “realtà” Cecilia, nella sua giovinezza spensierata e nella sua voluttà erotica, gli si offre senza mai diventare sua, sfuggendogli, non permettendo di indagarla in quanto, parafrando un altro testo moraviano, lei è tautologicamente ciò che è, e lui deve accettare che diventi anche amante di altri.

Cultura in circolo: COMMENTO DE "LA NOIA" DI ALBERTO MORAVIA

Horst Buchholz e Catherine Spaak

Cecilia nell’offrigli il sesso, gli offre il corpo e quindi il reale, ma egli non vuole solo il sesso, vuole possederla “intellettualmente”, fare di essa un qualche cosa che, esistendo fuori di sé, possa capirla, interpretarla e prenderla. A tale scopo le chiederà di sposarlo, ricoprendola, letteralmente da bigliettoni di denaro, sottratti alla madre. Di fronte alla sua negazione e quindi all’impossibilità di rapportarsi con Cecilia/reale egli tenterà il suicidio, andando a scontrarsi, mentre percorre a tutta velocità una strada di campagna, contro il fusto di un platano. Soltanto all’ospedale, guardando fuori dal suo letto di ricovero, egli scoprirà di vedere le “cose” con occhio diverso, riconoscendole: forse Dino, sfiorata la morte, scopre la vita che gli scorre accanto.

Un' idea dell'India - Alberto Moravia - Libro Usato - Bompiani - | IBS

Nel 1962 Moravia scrive il suo secondo libro odeporico: viene infatti invitato dal Corriere della sera a presentare un reportage sull’immenso continente indiano. A fare il viaggio non sarà, però, solo: ad accompagnarlo sarà la sua nuova compagna (dopo la fine del rapporto con Elsa Morante) Dacia Maraini e soprattutto l’amico intellettuale Pier Paolo Pasolini che, anch’egli per il quotidiano Il Giorno, dovrà a sua volta inviare articoli per i lettori. La raccolta di tali articoli diventerà per Moravia un breve testo dal titolo Un’idea dell’India, per Pasolini un’opera pubblicata da Longanesi, L’odore dell’India. I titoli suggeriscono qualcosa: lo sguardo attento e distaccato di Moravia non può che cogliere un’idea dell’immensità del continente indiano; lo sguardo più viscerale dell’autore friuliano non può che coglierne l’essenza sensoriale (in questo caso olfattiva) che questo paese orientale gli offriva.

Moravia rimane impressionato da due caratteristiche della realtà indiana: l’estrema povertà e la onnipresente religiosità, anzi sembra cogliere un rapporto diretto della seconda sulla prima, tanto che questo connubio inestricabile il popolo indiano non può che subirlo; da qui il loro sguardo che potremo definire di serena rassegnazione.

Moravia cerca d’individuare la peculiarità indiana, da cui, secondo il nostro, discendono tutte le sue sovrastrutture, nella religiosità:

INTRODUZIONE

Allora sei stato in India. Ti sei divertito?
No.
Ti sei annoiato?
Neppure.
Che ti è accaduto in India?
Ho fatto un’esperienza.
Quale esperienza?
L’esperienza dell’India.
E in che cosa consiste l’esperienza dell’India?
Consiste nel fare l’esperienza di ciò che è l’India.
E che cos’è l’India!
Come faccio a dirtelo? L’India è l’India.
Ma poniamo che io non sappia affatto che cos’è l’India. Dimmi tu che cos’è.
Neppure io so veramente che cosa sia l’India. La sento, ecco tutto. Anche tu dovresti sentirla.
Cosa vuoi dire?
Voglio dire che dovresti sentire l’India come si sente, al buio, la presenza di qualcuno che non si vede, che tace, eppure c’è.
Non ti capisco.
Dovresti sentirla, laggiù, a oriente, al di là del Mediterraneo, dell’Asia minore, dell’Arabia, della Persia, dell’Afghanistan, laggiù, tra il Mare Arabico e l’Oceano Indiano, che c’è e ti aspetta.
Mi aspetta per che fare?
Per non fare nulla.
Ancora una volta non ti capisco.
O meglio, per non fare, assolutamente.
Va bene. Ma tu non mi hai ancora detto che cos’è l’India.
L’India è l’India.
Dimmelo in una formula, in una sentenza, in uno slogan.
Ebbene l’India è il contrario dell’Europa.
Ne so quanto prima. Bisognerebbe prima di tutto che tu mi dicessi che cos’è l’Europa.
Preferisco trovare uno slogan per l’India. Diciamo così, allora, che l’India è il paese della religione.
E questo sarebbe il contrario dell’Europa. Ma anche l’Europa è religiosa.
No, l’Europa non è religiosa.
Eppure le religioni pagane del Mediterraneo e dei paesi nordici, il Cattolicesino, la Riforma…
Non importa. L’Europa non è religiosa.
Che cos’è l’Europa?
Se fossi un indiano, forse te lo saprei dire. Come europeo mi riesce difficile.
Allora immagina di essere un indiano.
Come indiano ti direi: l’Europa, quel continente dove l’uomo è convinto di esistere e di essere al centro del mondo, e il passato si chiama storia, e l’azione è preferita alla contemplazione; l’Europa dove si crede comunemente che la vita vale la pena di essere vissuta e il soggetto e l’oggetto convivono in buona armonia, e due illusioni come la scienza e la politica sono prese sul serio e la realtà non nasconde niente, eppure, non per questo, è niente; l’Europa che cosa ha a che fare con la religione?
Ecco un indiano un po’ presuntuoso. Se non altro egli ignora il passato dell’Europa, voglio dire il passato religioso, i secoli durante i quali furono costruite le cattedrali.
Il medioevo, stavo per dirlo. Non è vero che il nostro indiano ignori il medioevo; egli, anzi, lo apprezza perché, appunto, è il solo periodo storico dell’Europa che gli faccia pensare all’India. Ma egli sa pure che per la grande maggioranza degli europei il ricordo atavico del medioevo è un ricordo di ignoranza, di infelicità, di rozzezza, di arretratezza e di miseria. Nella persistenza tenace di questo pregiudizio del senso comune popolare contro il medioevo, il nostro indiano ravvisa una prova di più che l’Europa in fondo non è religiosa. E infatti la fine del medioevo gli europei la chiamano Rinascimento; secondo il punto di vista dell’India dovrebbero invece chiamarla Decadenza.
Ma infine non si può negare che senza la religione non si spiega gran parte della storia d’Europa.
L’idea del nostro indiano è diversa. Egli pensa che gli europei così inventivi per quanto riguarda la scienza, la politica, le arti, hanno dimostrato, invece, una mancanza completa di originalità e di capacità creativa nel campo della religione. La storia d’Europa non si spiega con la religione bensì con lo sforzo degli europei per conciliare le esigenze della religione con quelle di tutto ciò che le è estraneo o avverso. In realtà il carattere principale della religione in Europa è il compromesso; quanto a dire che gli europei non sono in fondo veramente religiosi. Del resto, a riprova, dice il nostro indiano, basta vedere che cosa gli europei sono riusciti a fare del cristianesimo nel giro di pochi secoli Che cosa?Una contaminazione con tutto ciò che non è religioso, un’appendice è una giustificazione della vita mondana, un puntello della politica, un ornamento, una comodità, una superfluità, una cosa che non serve a niente e non significa niente.
Beh, lasciamo stare le idee di questo indiano che oltretutto mi è piuttosto antipatico. Torniamo all’India, come l’hai vista tu. Sto ancora aspettando che tu mi spieghi che cosa hai voluto dire con la frase: l’India è il paese della religione. Intanto di quale religione? In India ci sono molte religioni. Del buddismo? Dell’Induismo? Del jainismo? Dell’Islam?
No, di nessuna di queste religioni.
Eppure, che io sappia, ho nominato le principali religioni indiane.
L’India non è il paese di una religione storicamente ben definita, con un fondatore, uno sviluppo, un passato, un presente un futuro. L’India e il paese della religione come situazione esistenziale. Della religione senza più. Per assurdo, anche se in India non ci fossero religioni, l’India sarebbe egualmente il paese della religione.
Ma una religione senza più non esiste. Esistono le religioni; e, per ciascuno degli adepti, la propria religione.
Se dovessi fare un paradosso, ti direi che le le religioni, come dici tu, proprio perché sono religioni cioè hanno un fondatore, uno sviluppo, un passato, un presente, un futuro, non sono già più la religione, Sono, in un certo senso, dei risultati di secondo grado e quasi sempre dei compromessi.
Allora dimmelo tu che cos’è la religione.
Te l’ho già detto: la religione è l’India e l’India è la religione. 

L’introduzione è svolta in forma dialogica e questa scelta dà vita ad una struttura fortemente paratattica e, vista l’attenzione che Moravia sin da La noia attribuisce alla tautologia – da lui derivata da Wittengstein – gli fa affermare che l’India è la religiosità e la religiosità è l’India. Ai termini non si aggiunge nulla: il concetto d’identità li rende intercambabili. Da qui derivano tutte le conseguenze, come fosse la religiosità causa della struttura politica, come la divisione in classi e la loro impermeabilità, e dell’economia che genera l’estrema povertà.

Nonostante Gandhi abbia abolito la struttura classista indiana, essa permane proprio come ideologia religiosa ed è quasi impossibile sradicarla.

Pier Paolo Pasolini - Le pagine corsare : Pasolini in India (1961). La religione.

Il libro inoltre, forse in modo più incisivo di quello dell’Urss, ci descrive le città e i vari templi, tacendo, forse perchè poco conosciuta in Occidente, la cultura indiana, che, nonostante la dominazione inglese, non è riuscita ad incidere sulla mentalità dell’immenso continente indiano. Ci rimangono le sculture nei templi, i volti scuri, le mani tese a chiedere elemosina in qualunque posto andasse (anche questo come dato diffuso, oserei dire – per come ne parla Moravia – “naturale”, come andare al lavoro) i volti scuri dei paria, i perizoma sui corpi scheletrici e la grandezza e lucentezza degli occhi delle donne indiane ed infine la gentilezza e la trascuratezza perchè nulla di questo mondo è importante. 

Nello stesso anno pubblica un libro di brevi racconti, forma per lui sempre più congeniale – dal titolo L’automa. Il testo ne presenta 41 e sono tutti della lunghezza di un elzeviro (rubrica fissa, affidata a uno o più giornalisti in rotazione; nel XX secolo  a scrivere tale rubrica furono sempre più scrittori: oltre ad Alberto Moravia, Dino Buzzati, Tommaso Landolfi ed Eugenio Montale. Molti di loro, in seguito, raccolsero i loro elzeviri in volume).

L'automa

Se per automa, come afferma il dizionario, s’intende una “macchina che riproduce i movimenti (e in genere anche l’aspetto esterno) dell’uomo e degli animali, quindi, figurativamente, persone prive di volontà propria, che agiscono o si muovono macchinalmente senza coscienza dei loro atti”, potremo dire che i personaggi protagonisti della raccolta moraviana, questo fanno. Prendiamo ad esempio un racconto:

PICCOLA E GELOSA

La pineta era deserta, avvolta in un’area azzurra e fumosa nella quale i raggi rossi del sole già basso parevano restare impigliati e come incapaci di penetrare fitti intrighi di rovi e di arbusti. Silvio accostò la macchina al marciapiede e disse: «Tre macchine vuote nessuno intorno… in questo momento ci sono in questo bosco almeno tre coppie che si dicono le stesse cose e si vogliono bene più o meno nello stesso modo. Noi saremo la quarta.» Avrebbe voluto che la donna comprendesse dal tono ironico che lui pensava proprio il contrario; ma lei gli sorrise, fiduciosa. Penso che con lei bisognava parlare chiaro e brutale: non era intelligente e questo era ancora il suo minor difetto. Ma come dirle: da oggi non ci vedremo più? Silvio aprì lo sportello e la guardo scendere: bassa ma snella, con la gonna stretta e corta, e una giubba enorme di cuoio; la testa grossa, gonfia di capelli neri; il volto pallido, olivastro, passionale. Ricordò la definizione sommaria che ne aveva dato un suo amico la prima volta che l’aveva veduta: “Piccola e gelosa”, e sospirò pensando che era vero. Ma si accorse pure che poteva ormai gusardarla con freddezza e oggetività, con sguardo sgombro di sentimento. Prima, quando l’amava ancora, pensò, la contemplava senza veramente vederla; adesso la vedeva, come si vede un oggetto qualsiasi, senza contemplarla. Si sentì rinfrancato da questa riflessione che lo confermava nella sua volontà di separarsi da lei. E la seguì per un sentiero, tra i pini.
La donna lo procedeva con passo baldanzoso, quasi correndo verso quel luogo nel bosco, ancora sconosciuto ad ambedue, dove si sarebbero distesi sull’erba e sarebbero stati, come lui aveva previsto, la quarta coppia a fare la stessa cosa in quello stesso momento. Anche questa risolutezza, pensò, un. tempo lo turbava come un tratto insolito in una donna; adesso gli pareva invece un indizio in più della sua ottusità. Camminarono senza parlare per il sentiero che serpeggiava tra la macchia folta e alla fine sbucarono in una larga radura illuminata dal sole, tutta sparsa di cartacce annerite e schiacciate. «Le cartacce di questa estate,» osservò con perplessità, «non vorrai mica sederti qui, in questo mondezzaio».
La donna alzò le spalle: «Per me andrebbe bene lo stesso.» Silvio rispose recisamente: «Non per me.» Adesso gli era venuta un’idea che gli piaceva, forse perchè era crudele: di solito, in passato, la ricerca del luogo adatto in quella stessa pineta era lunga e meticolosa: aveva da essere un luogo pianeggiante, ombroso d’estate, solatio nelle altre stagioni, chiuso dalla macchia agli sguardi indiscreti, non umido né troppo asciutto e polveroso. Era una ricerca piacevole, per la premeditazione e la tacita intesa che ci mettevano. Adesso, pensò, avrebbe fatto il contrario: avrebbe rifiutato uno dopo l’altro tutti i luoghi che la donna gli proponeva finché non si fosse accorta che lui non desiderava alcun luogo e che tra di loro non c’era più alcuna intesa. Un po’ come la quercia alla quale doveva essere impiccato Bertoldo, pensò; la quercia non si trovò mai appunto perché era Bertoldo che avrebbe dovuto sceglierla. Contento di questa trovata, seguì la donna fischiettando.
«Sei allegro» lei disse, voltandosi a metà con una sfumatura quasi di inquietudine nella voce, come se fosse stata gelosa della sua allegria. Silvio rispose: «Sì, è una bella giornata, questa.»
«Anche per me.»
«Perché?»
«Oh, lo sai, perché stiamo insieme. E tu, perché?»
«Indovina.»
«Come faccio a saperlo?»
«Indovina.»
Adesso erano in una radura, di nuovo: protetta, senza cartacce, esposta al sole. Silvio notò tuttavia che era un po’ in discesa e sparsa di sassi. «Mettiamoci qui,» propose la donna.
«Qui? Ma non lo vedi che è in discesa, appena seduti ci sentiremo scivolare giù.»
«Va bene, cerchiamo un altro posto.»
La donna riprese a camminare avanti e disse: «Vediamo intanto se indovino il motivo per cui, per te, questa è una bella giornata. Dimmi fuoco e acqua.» Era, questo, un gioco che facevano spesso. Si chinò, colse un filo d’erba, se lo mise in bocca e soggiunse: «Dunque per te questa è una bella giornata. Motivo?»
«O bella, tu devi indovinare.»
«Ma dammi almeno qualche indicazione.»
Silvio esitò: «Mettiamo che lo sia perché sto per liberarmi di qualche cosa.»
«Liberarti di qualche cosa? Del tuo raffreddore di ieri?»
«Acqua, acqua.»
«Perché non ci mettiamo qui?» domandò la donna indicando il suolo. Era una radura, pianeggiante e ben chiusa d’ogni parte della macchia. Silvio scosse subito il capo: «Non lo vedi che è polverosa? Poi, quando ci alziamo, siamo coperti di polvere dalla testa ai piedi.»
«Uh, quanto sei difficile oggi» disse la donna con civetteria. «Beh, andiamo ancora avanti.»
Andarono avanti. Adesso la pineta era così fitta che non c’erano più sentieri. Al loro passaggio la frasca del bosco ceduo si apriva con un fruscio selvatico; le spine agganciavano i loro vestiti; i rami vi lasciavano invescate le foglie gialle dell’autunno. «Dunque tu stai per liberarti di qualche cosa,» riprese la donna, «vediamo un po’: di un oggetto o di una persona?»
«Prova a dirlo.»
«Di un oggetto.»
«Acqua, acqua.»
«Di una persona.»
«Fuoco.»
«Di una persona?» Erano arrivati in un punto oltre il quale non pareva si potesse andare. L’intrico dei rovi e degli arbusti era così folto che il sole stesso pareva giungerci in brandelli incerti, misteriosi, come se i suoi raggi si fossero strappati e infranti al passaggio. Ma un grande arbusto di forma rotonda si apriva in basso rivelando una cavità ampia, quasi una grotta dentro il fogliame. «Ficchiamoci là dentro, sembra una piccola stanza.»
«Là dentro?» Silvio storse la bocca, «bisogna strisciare, sporcarsi.»
«Nient’affatto. Guarda». Con foga, la donna si gettò a quattro zampe, noncurante di lui che la guardava, penetrò camminando sulle mani e sulle ginocchia, come un animale, dentro la cavità; quindi si rivoltò e gli gridò ridendo: «Vieni subito… è bello qui dentro.»
«No, no,» disse Silvio con accento perentorio, «non ci vengo… e tu fammi il piacere di uscire subito fuori.»
La sua voce dovette suonare sgradevole alla donna perché il riso le morì sulle labbra; senza dir parola, strisciò fuori dalla cavità e uscì levandosi in piedi: «Ma che hai, oggi?»
«Niente, cerchiamo un altro luogo.»
Ella parve sospirare; ma si riprese subito e, precedendolo, disse: «Dunque, tu vuoi liberarti di una persona. Al tuo posto, lo so di chi vorrei liberarmi.»
«Di chi?»
«Della tua cameriera… non la posso soffrire… mi guarda sempre di traverso quando vengo a trovarti… soltanto a causa di questa cameriera, vorrei che ci fidanzassimo… così non avrebbe più niente da ridire. Dunque è la cameriera?»
«Acqua.»
«Allora è Gildo.»
Gildo era il migliore amico di Silvio. La donna ne era gelosa come di tutte le persone che aveva trovato nella vita di lui allorché si erano conosciuti. Silvio disse con voce cattiva: «Acqua di nuovo… non sperarlo neppure.»
«Io non spero niente,» disse la donna, «per me non è un buon amico… ecco tutto.»
«Acqua, acqua, un fiume, un mare d’acqua.»
«Va bene,» disse lei stizzita, «allora, per caso, non sarebbe tua madre?»
Anche la madre era una delle persone di cui la donna era gelosa, sia perché non vedeva di buon occhio i loro rapporti, sia per la sola ragione che Silvio le era affezionato. Lui disse: «Acqua, si capisce. Non ti pare che stai esagerando?»
«Perché? Tua madre non può soffrire me e io non posso soffrire lei.»
«Sì, ma comunque: acqua.»
«Ne sei proprio sicuro?»
Silvio la guardò ed ebbe ad un tratto quasi compassione di lei. Nessuno di coloro che lo circondavano aveva simpatia per lei; e adesso anche lui le si voltava contro. Trasalì, vedendola annunziare trionfante: «Questo è il luogo ideale.»
Era effettivamente una radura alla quale non si poteva obiettare niente: pianeggiante, illuminata dal sole, coperta di aghi di pini, chiusi nella macchia. «Io non mi muovo più di qui» disse la donna con una voce al tempo stesso bellicosa e triste. Silvio notò quest’accento insolito e non osò protestare. Il suo sguardo errò per la radura, Quindi si alzò verso gli arbusti che la circondavano: «Ma siamo a ridosso del viale,» esclamò. Si avvicinò agli arbusti: il viale correva, infatti, proprio a un passo da loro, deserto a perdita d’occhio, già invaso dalla caligine turchina del tramonto. La donna rispose con quella sua strana voce malinconica ed aggressiva: «Non me ne importa niente… Io rimango qui.» Così dicendo, si sdraiò, malamente, restando un momento con le gambe in aria e poi riprendendo l’equilibrio a fatica. Silvio capì che non poteva più rifiutarsi e sedette anche lui dicendo: «Però non mi piace questo luogo… Siamo troppo vicini alla strada.»
La donna non rispose. Gli prese la mano e guardandolo negli occhi domandò con voce chiara: «Sono io, nevvero, la persona di cui vuoi liberarti?»
Silvio capì che doveva rispondere ma non ne ebbe il coraggio e cercò di guadagnar tempo. Domandò a sua volta: «Che cos’è che te lo fa pensare?»
«Poco fa, in macchina, ho detto: che bella giornata, vorrei morire in una giornata come questa. E tu hai mormorato tra i denti: magari. Credevi che non avessi inteso; ma io ho l’udito molto fine.»
Silvio rimase così sconcertato che non trovò niente da ridire. La donna proseguì con fermezza: «Tu desideri addirittura la mia morte. E’ triste questo. Non credi che in questo caso sia meglio lasciarci?»
Silvio levò gli occhi verso di lei quasi sperando di trovare un appiglio per la risposta che doveva dare. Si aspettava di vedere un volto desolato, patetico, insopportabile; fu meravigliato scoprendo invece che la donna appariva calma e rassegnata. Lei lo amava davvero, pensò, al punto di essere anche disposta a perderlo. Poi notò un particolare: come la pineta sotto i raggi del sole, così, via via che il suo sguardo si spostava dal basso in alto, nello stesso tempo il volto di lei si animava. La bocca sorrideva appena, con il suo migliore e più seducente sorriso, un sorriso che lui amava forse perché ambiguo e un po’ crudele; le guance, di solito pallide, parevano leggermente arrossarsi; gli occhi che aveva grandi e torbidi, sembravano farsi più chiari e luminosi. D’improvviso, gli venne in mente che ancor più che amare, era importante, almeno per lui, essere amato. E che la sua decisione non era forse che un puntiglio dell’orgoglio; dopo il quale sarebbe stato solo con sua madre, i suoi amici, la sua cameriera e tutte le persone, insomma, che odiavano la donna, ma non potevano sostituirla. Pronunziò alla fine lentamente: «Stai dicendo delle cose assurde… io non desidero lasciarti.»
«Davvero?»
«Davvero.»  

I racconti de L’automa stanno a Il disprezzo e a La noia (e in seguito a L’attenzione) allo stesso livello per cui i Racconti romani stanno a La romana e a La ciociara.

Piccola e gelosa ne esemplifica bene i temi: i protagonisti sono perlopiù (anche se non sempre) formati da coppie e la narrazione si accentra sulla loro relazione. In primo luogo è bene sottolineare come in essi Moravia torni a privilegiare la terza persona, quasi per meglio radiografare, attraverso uno sguardo esterno, le dinamiche che intercorrono tra un uomo e una donna. Ed è quasi sempre l’elemento femminile ad innescare l’azione cui l’uomo soggiace, non riuscendo o essendo incapace di gestirla. Silvio infatti ammette che ancor più che amare, era importante, almeno per lui, essere amato, cioè che più che agire l’importante per lui era essere agito.

Salvatore Lo Leggio: Moravia e la setta degli indifferenti (Edoardo Sanguineti)

Alberto Moravia

D’altra parte Moravia sembra prefigurare la crisi ed il cambiamento che l’istituzione del “fidanzamento” e quindi del “matrimonio” stavano ormai vivendo negli anni del “boom economico”, o meglio di un neocapitalismo in cui il possesso di beni sembrava un vero e proprio imperativo. L’autore non affronta in modo diretto la “nuova borghesia” (non dimentichiamo che fu accusato di aver abbandonato gli ambienti popolari e le sue velleità), ma ne sottolinea la difficoltà dell’identità e della comunicazione. Non a caso L’automa entra a buon diritto tra i testi “esistenzialisti” della contemporanea cultura europea (si pensi a Sartre).

Tali temi saranno affrontati in una raccolta di saggi, pubblicata nel 1964, dal titolo L’uomo come fine e altri saggi. L’editio princeps ne contiene 33, quella, ripubblicata negli anni ’80, solamente 12.

Libreria antiquaria Pontremoli

I saggi sono perlopiù letterari: e vanno dal rapporto fra memoria e scrittura a riflessioni sul comunismo e la letteratura, nonché su notazioni su alcuni autori amati (Belli) e non (Pavese ed Hemingway). Essi sono scritti tra il ’42 e il ’62 e riflettono le discussioni “letterarie” che in quel periodo dividevano gli intellettuali: quale fosse il compito di uno scrittore all’interno di un sistema totalitario (è evidente che il riferimento sia l’Unione Sovietica) cosa s’intendesse per realismo narrativo e quindi il romanzo oggettivo e soggettivo, un importante riflessione sull’opera manzoniana ed anche un interessante confessione su come sia nata in lui l’idea della scrittura de Gli indifferenti.

Ma la vera motivazione ce la offre lui nel Prefazione; eccone uno scorcio:

PREFAZIONE

I saggi riuniti in questo volume sono tutti saggi letterari. Questa affermazione sorprenderà perché il saggio che dà il titolo al libro non è un saggio letterario. Ma a parte il fatto che io sono un uomo di lettere e che qualsiasi cosa io scriva non può non riguardare la letteratura, penso che L’uomo come fine riguardi la letteratura direttamente e immediatamente. L’uomo come fine è infatti una difesa dell’umanesimo in un momento in cui l’antiumanesimo è in voga. Ora la letteratura è per sua natura umanistica. Ogni difesa dell’umanesimo è dunque una difesa della letteratura.
Le ragioni per cui il mondo moderno è antiumanistico non sono misteriose. Ci sono certamente all’origine dell’antiumanesimo del mondo moderno un desiderio o meglio, una nostalgia di morte, di distruzione, di dissolvimento che potrebbero essere l’ultimo rigurgito della grande orgia suicida delle due guerre mondiale; ma c’è anche la ragione più normale, più solita propria di certe disaffenzioni: il logorio, la stanchezza, lo scadimento dell’umanesimo tradizionale; la sua immobilità, il suo conservatorismo; la sua ipocrisia di fronte agli eventi tragici della prima metà del seolo.
Per tutti questi motivi, vorrei sottolineare che L’uomo come fine non vuole affatto essere una difesa di questo umanesimo tradizionale ormai defunto; bensì un attacco all’antiumanesimo che oggi va sotto il nome di neocapitalismo; e un cauto approccio all’ipotesi di un nuovo umanesimo.

Alla luce di quanto scritto potremo individuare due motivazioni nel discorso moraviano : uno di tipo socio-politico (palese); l’altro di ordine letterario (taciuto). Nel primo la frecciata dell’autore si dirige sul sistema neocapitalista che facendo di un romanzo una merce, ed essendo un romanzo costruito su personaggi riduce essi stessi “merce”. Affinché il romanzo possa ritrovare la sua funzione deve ridiventare “umanistico” cioè fare dell’uomo un fine e non più un mezzo; come dice mirabilmente affrontando I promessi sposi, in cui il vero protagonista non è un personaggio, ma la religione: infatti per lui le parti meno riuscite saranno proprio le conversioni, dove al centro dell’episodio vi è proprio la religione. Per quanto riguarda il fatto letterario, Moravia, pur non parlandone direttamente sembra “polemizzare” sia con chi predica la morte del romanzo (gli intellettuali del Gruppo ‘63 come Eco, Balestrini, Guglielmi, Sanguineti ed altri) chi centrandosi sull’io, trasformando se stesso come mito perdendo il fine ultimo (come Pavese ed Hemingway).

Quindi nel ’65 è il momento de L’attenzione:

L’attenzione è la storia di un romanziere e del romanzo che sta scrivendo. La forma narrativa è come quella di un diario sul quale Francesco Merighi, un giornalista, tiene nota e analizza, attraverso il suo rapporto con sua moglie Cora e la sua figliastra Baba, la sua personale ricerca dell’autenticità. Egli pensava di averla raggiunta quando conosce Cora, d’origine popolare, che, proprio per questo, “autentica” in quanto, avendo lui sempre vissuto una vita agiata in una società borghese, era stato colpito dalla falsità che vi regnava. Se ne innamora, la aiuta economicamente a metter su un laboratorio di sartoria e va a viverci insieme, ma lei vuole continuare ad avere la sua libertà e una vita autonoma. Francesco accetta le sue condizioni e quindi si sposano. Quando Francesco scopre che Cora, oltre che alla sartoria gestisce anche una casa di tolleranza, capisce che anche Cora crede che i rapporti umani si basino sul profitto economico invece che sui valori ideali. Se ne disamora e incomincia a viaggiare per lavoro sempre più spesso e fa in modo di rimanere all’estero sempre più a lungo, finchè, per motivi differenti, nei periodi in cui fa ritorno a Roma intraprende un rapporto quasi incestuoso con la figliastra. Gli incontri tra Francesco e Baba sono, insensatamente, per amore, favoriti da Cora. Quando l’uomo si accinge a rivedere il diario che dovrebbe costituire la base del romanzo, si accorge di quanto poco esso rispecchi la realtà che avrebbe voluto riprodurre. E’ quasi tentato di rinunciare all’opera quando si rende conto che il diario steso è già un romanzo, non solo “per i pochi avvenimenti accaduti, ma anche e soprattutto per quelli che non erano accaduti affatto e che aveva sognato o inventato”.

L’attenzione si struttura, come del resto La noia, come un romanzo-saggio, in questo caso maggiormente incisivo perchè se sul primo si riflette sul rapporto tra arte e realtà, qui si specifica meglio tra romanzo e realtà, tra trasposizione letteraria degli eventi della vita e la liceità dell’interpretazione di essi, quindi dell’attenzione con cui osservare lo svolgersi della vita stessa; ma se la scrittura romanzesca registra in modo impassibile gli eventi che costituiscono la vita, come insegna la contemporanea école du regard di Alain Robbe-Grillet, che ruolo ha la fantasia/immaginazione autoriale?

DAL DIARIO DI FRANCESCO

Ho riletto le pagine del diario in cui ho raccontato la visita ai genitori di Cora; e sento il bisogno di avvertire, come ho già fatto altrove, che anche qui ho modificato la verità fattuale. Questa volta però la modificazione non è avvenuta quasi mio malgrado come per l’invenzione del rinvenimento dell’Edipo Re di Sofocle sul mio tavolino di notte; ma è stata apportata consapevolmente e volontariamente, anche se per motivi, in fondo, non del tutto chiari. Che vuol dire questo? Vuol dire, credo, che i motivi per cui ogni tanto sento il bisogno di cambiare i fatti via via che li riporto nel diario sono molteplici e variano secondo la natura dei fatti medesimi e il genere di rapporto che ho con essi. Così, in certi casi, amputo, maschero o addirittura sopprimo; in altri, sviluppo, dilato, ricostruisco…
Prendiamo per esempio la visita ai genitori di Cora. Ho riportato fedelmente o quasi (avrò cambiato soltanto qualche parola o omesso qualche frase) i nove decimi della visita; fino, cioè, al momento in cui il vecchio nonno è apparso nella cabina dell’ascensore; ma ho inventato, o meglio ho sviluppato a modo mio tutto l’incidente successivo, quando il nonno ha affermato di non conoscerci, si è rifugiato nell’ascensore ed è tornato a pianterreno.
Nella realtà le cose sono andate in questo modo: il nonno è uscito dall’ascensore, aveva l’aria di essere ubriaco, vacillava, ha perfino inciampato, ci ha salutato confusamente, come se non ci riconoscesse, ed è entrato subito in casa. La vecchia allora si è scusata per il marito dicendo che quando era ubriaco non riconosceva nessuno. Baba ed io l’abbiamo salutata e ce ne siamo andati.
E’ evidente che estendendo e completando la scena quando l’ho riportata nel diario, io ho modificato la verità. Infatti nel diario il nonno non soltanto non ci riconosce, ma anche lo dice, lo conferma, lo sottolinea. In altri termini il suo contegno non è confuso e ambiguo come era nella realtà; è chiaro e deciso. E mentre nella realtà il fatto che il nonno non ci riconosceva poteva essere del tutto casuale e insignificante, ossia nient’altro che un effetto del vino, nel diario il mancato riconoscimento da parte del nonno acquista un significato, sottintende un giudizio.
Nel diario, insomma si direbbe che il nonno non ci riconosce non tanto perché è ubriaco, quanto perché il benessere dovuto al denaro di Cora, denaro di cui il vecchio “sente”, secondo le parole di Baba, la provenienza, ha finito per renderlo straniero a se stesso e agli altri. Cioè nel diario io interpreto la realtà, l’aggiusto, la integro, la completo, secondo una mia idea, o meglio, ideologia. Il denaro di Cora, secondo questa idea, non può, essendo guadagnato com’è guadagnato, non provocare estraneazione e irrealtà. Così inventando che il vecchio non ci riconosce, in realtà non invento niente, mi limito a prolungare una direzione, sviluppare un germe. La verità, intuita e ricostruita, non viene, in fondo, modificata. Ma egualmente, nella realtà le cose sono andate in modo diverso; e l’incidente del mancato riconoscimento, di sicura efficacia in un romanzo, resta pur sempre un’invenzione. E’ vero, il denaro mal guadagnato generalmente corrompe e rende estranei a se stessi e agli altri; questo l’ho notato più volte, ne ho avuto innumerevoli prove. Ma ciò non vuole affatto dire che sia una regola; e che comunque, anche se è una regola, il nonno di Baba non costituisca una eccezione a questa regola.
In altre parole: può darsi benissimo che, in fin dei conti, al nonno di Baba non importi nulla che il denaro di Cora sia guadagnato con la casa di appuntamenti. Egli beve perché gli piace il vino, sa tutto di Cora, o meglio lo sente, e se ne infischia, ama Cora lo stesso, come un padre ama la propria figlia, la coscienza lo lascia lo stesso tranquillo, e magari, lui approva, chissà, il commercio della figlia.
Ed io non so niente del padre di Cora, assolutamente niente. L’ho soltanto visto: una macchia di colore, un oggetto voluminoso, qualche cosa che è passato per un momento nel mio campo visuale e poi è scomparso.
Naturalmente la scena del mancato riconoscimento potrà essere inclusa nel romanzo senza danni, anzi con qualche vantaggio; ma dubito che l’includerò. E questo non tanto perché è inventata, quanto perché ciò che mi ha spinto a inventarla è qualcosa di non schietto, di non genuino, insomma di inautentico, di cui vorrei liberarmi, appunto, scrivendo questo diario.

Ci dice Moravia in una riflessione apparsa su Nuovi Argomenti del 1966: “Il romanziere è prima di tutto un bugiardo; e il romanzo del romanzo serve appunto a dirci la verità che si nasconde dietro le bugie”; aggiungeremo noi che il romanzo del romanzo serve anche a rivelarne la struttura e le norme che lo costuiscono: il metaromanzo moraviano, in ultima analisi, assume la stessa funzione che, circa mezzo secolo prima, ebbe I sei personaggi in cerca d’autore per il teatro, ciò svelare i meccanismi scenici e l’autonomia dei personaggi rispetto l’autore. Ciò non toglie che, per l’autore romano, la facoltà dell’interpretazione e non solamente della registrazione della realtà, concessa da un autore, è dovuta soprattutto all’inautenticità della vita stessa che usando un termine che il Francesco del romanzo applica sulla realtà, si basa sulla “corruzione”; ogni cosa, ogni sguardo è corrotto: l’autore del diario e (diremo noi) Moravia, scava all’interno della corruzione per svelare la “falsità” del nostro vivere.

L'attenzione (1985) - IMDb

Pellicola di Mario Soldati del 1985  dal libro di Moravia

L’attività scrittoria di Moravia non conosce soste e insieme a Dacia Maraini ed Enzo Siciliano fonda, nel 1966, il Teatro del Porcospino, raccogliendo sollecitazioni e fermenti a favore del teatro che dal 1964 variamente si sviluppano nella penisola, anche grazie all’esperienza del “Living theatre”. A dare inizio alle rappresentazioni in tale teatro nella stagione 66/67, il 20 ottobre, è L’intervista di Moravia, testo sulla impossibilità di un’informazione attendibile e affidabile, seguito il 23 ottobre dell’anno successivo dall’atto unico Perché Isidoro?, sulla civiltà dell’abuso consumistico. Il Teatro del Porcospino avrà vita breve e a causa dei costi elevati. Moravia raggiunge il successo nel campo della scrittura teatrale con un dramma in due atti: Il mondo è quello che è, messo in scena alla Fenice di Venezia, l’8 ottobre 1966. In quello stesso anno scrive il suo capolavoro teatrale, una vera tragedia Il dio Kurt.

Il mondo è quello che è

Interessante, da un punto di vista delle sollecitazioni culturali che investivano il dibattito culturale degli anni tra il ’60 e il ’70 è  Il mondo è quello che è dove il filosofo/medico Milone insegna ad un gruppo di pazienti “verbali” a distinguere, e quindi usare, parole “sane” e parole “malate”. Alla fine della “cura” così le commiata:

 MILONE

(Entrano Semanta vestita da sposa, Piero in abito da cerimonia, Pupa, Buratti, Lucio, Olinda vestiti di festa. Tutti seggono, tranne Milone che sta in piedi, dietro una piccola tavola.)
MILONE: Ci siamo tutti, mi pare.
TARCISIO: Sì, tutti.
MILONE: Come voi sapete, oggi non è una seduta normale. Oggi mi congedo da voi, voi vi congedate da me. Ma voglio che vi rendiate conto che non si tratta del normale commiato di un gruppo di amici che si separano dopo aver passato l’estate insieme. Quello che abbiamo fatto qui durante gli ultimi tre mesi è stato più importante che riposarsi e godere di una gradita ospitalità. Se non mi ripugnasse di adoperare una parola tra tutte malsana e inguaribile come Storia, direi che in questi tre mesi, senza rendercene conto, noi abbiamo fatto, appunto, della Storia.
(Milone si ferma, guarda agli ascoltatori.)
Sì, signori, abbiamo fatto della Storia. Valendomi del mio diritto di parlare come meglio mi piace, voglio spiegarvi questa mia affermazione nel linguaggio che, secondo la cura, dobbiamo considerare malato. Dunque, che cosa vuol dire fare della Storia? Vuol dire, signori, come dice il poeta, andare a cercare il nuovo in fondo all’ignoto, cioè rischiare. Sì, rischiare su quello che non si sa, che non si è mai sperimentato, che non si conosce. Ora è proprio questo che durante i tre ultimi mesi noi abbiamo fatto con la terapia del linguaggio.
(Milone si ferma, guarda agli ascoltatori.)
Che cosa c’è infatti di più antico della comunicazione per mezzo della parola? Gli uomini ancora camminavano a quattro zampe e già parlavano e probabilmente le parole che pronunciavano erano già malate. Via via attraverso i millenni, dalla preistoria fino ad oggi, gli uomini hanno cambiato e infinite abitudini buone e cattive ma non quella, tra tutte difettosa e apportatrice di mali, di comunicare con la parola. Non abitiamo più nelle caverne, non ci vestiamo più di pelli, non divoriamo più i nostri nemici, ma continuiamo imperterriti a parlare. Non soltanto. Con mezzi meccanici di riproduzione di meravigliosa efficacia come la stampa, la radio e l’incisione su dischi, noi moltiplichiamo le parole, quanto dire che spargiamo ai quattro venti, a miliardi, i germi delle nostre future malattie.
(Milone si ferma, riprende fiato.)
Signori, ci voleva molto coraggio per andare controcorrente in una situazione così antica e così irreparabilmente compromessa. Ora noialtri questo coraggio l’abbiamo avuto. Ad un andazzo che durava, si può dire, da sempre, abbiamo avuto il coraggio di dire: basta.
(Milone si ferma, tace un momento.)
Sì, basta. Basta con le parole e le proposizioni malate; cioè basta con le parole e le proposizioni che vanitosamente, stupidamente, velenosamente, pretendono di avere un significato, di dire qualche cosa. Basta, basta, basta.
(Nuovo silenzio di Milone.) Per questo, pur congedandomi da voi, tengo a ringraziarvi in maniera speciale. Avete rischiato, avete avuto fiducia in me voglio dire nella terapia del linguaggio. Siete stati i primi a comprendere, accettare, praticare la cura: un giorno sarete considerati dei precursori, dei pionieri. Grazie, grazie, grazie.
(Milone tace un momento.)
Siete stati i primi ma non sarete gli ultimi. Perché adesso debbo darvi un annuncio importante che vi riempirà, ne sono certo, di soddisfazione e di fierezza.
(Milone si ferma, guarda agli ascoltatori.)
Cosimo, il nostro dottor Cosimo, visti i risultati della cura, ha deciso, con chiaroveggenza pari alla generosità, di porgermi il suo potente aiuto. Signori, l’annuncio di cui vi ho parlato è questo: presto, molto presto, grazie a Cosimo, sarà creato un centro-studi per la terapia dei linguaggi.
(Milone tace un momento.)
Credo che non ho bisogno di sottolineare l’enorme importanza di questo centro-studi. Ciò che era soltanto un’intuizione solitaria oppure un passatempo, diventa in questo modo qualche cosa di serio, di sistematico, di organizzato. Ma c’è di più.
(Milone si ferma un momento.)
Finora la terapia del linguaggio è stata individuale. E’ vero, abbiamo lavorato in gruppo; ma, come voi sapete, alla fine ognuno riusciva ad ottenere un trattamento particolare. Con il centro-studi di Cosimo, la cura esce dalla fase diciamo così sperimentale e perciò individuale. Signori con il centro-studi verrà affrontato il problema fondamentale della terapia di massa.
(Milone tace per un istante.)
Viviamo in un’epoca di masse e a ben guardare la terapia del linguaggio presuppone le masse così come le masse presuppongono la terapia del linguaggio. All’individuo isolato sarà ancora lecito, sia pure per poco tempo, adoperare parole e proposizioni che significano qualche cosa; ma le masse dovranno al più presto essere aiutate a imparare a parlare senza dir niente. Questo, se vogliamo che essi assolvano il loro compito, diciamo così, storico, che è di produrre per consumare e di consumare per produrre.
(Milone tace un momento.)
Il centro studi di Cosimo verrà dunque creato per elaborare la terapia di massa. Sarà situato nei pressi della fabbrica di Cosimo; disporrà di un laboratorio di un adeguato numero di scienziati; In capo a due, tre, quattro anni al massimo dovrà avere messo a punto una teoria della terapia di massa efficace e precisa. (Milone tace per un momento.) Allora e soltanto allora verrà il momento di passare dagli studi alla pratica. E qui, signori, il mio discorso diventa necessariamente vago anche se profeticamente lirico. Vedo delle cliniche, dei pronti soccorso, degli ospedali, dei sanatori per la cura di massa dei linguaggi. Vedo milioni e milioni di pazienti affluire disciplinatamente e volontariamente in queste case di cura. Vedo un numero sempre maggiore di uomini liberarsi per sempre dalle malattie del linguaggio. Vedo un’intera umanità approdare finalmente alla terra promessa del silenzio. Sì, signori, del silenzio. Perché questo è e non può non essere lo scopo ultimo della cura: il silenzio. Il silenzio assoluto, così nella parola come, per modo di dire, nel silenzio stesso.
(Milone tace per riprendere fiato. In questo momento si ode un rumore di voci quindi un servitore entra trafelato e fa un cenno a Milone. Zione va a confabulare sottovoce con il servitore, poi, turbato, torna indietro, fa un gesto come per dire che vuole parlare.)
Signori, qualche cosa di grave è successo.
TUTTI: Ma che cosa? Che c’è? Perché? Come mai?
MILONE: Ecco. Guardate.
(Si ode una voce più chiara che domanda: dove la mettiamo? Poi quattro uomini entrano in scena portando il corpo esanime e sgocciolante di Lena, Tutti si precipitano a guardare il cadavere facendo cerchio in silenzio. Il primo a parlare è Milone.)
MILONE: Sì, guardatela bene, è Lena, la cameriera sordomuta. O meglio: era. Ma al tempo stesso non è nulla.
(Milone tace per un momento, poi riprende.) Portatela laggiù, fuori dalla nostra vista, al padiglione della piscina, adagiatela su una seggiola a sdraio, per ora. (I quattro uomini escono con il corpo di Lena.)
BURATTI: Non è nulla, eh? Ma secondo la cura, beninteso.
MILONE: Precisamente: secondo la cura. Non dobbiamo farci sopraffare da parole come: morte, dolore, vita, anima, amore e simili, signori. Queste parole, signori, potrebbero farci credere che una certa persona di nome Lena esisteva realmente, che essa ha realmente amato, che si è realmente uccisa per amore. Ma sono parole malate e noi non le pronunzieremo e così la realtà che queste parole potevano evocare non albeggerà nelle nostre coscienze. Non solo. Io trarrò occasione da quanto è avvenuto poco fa per mostrarvi una volta di più, come agisca la terapia del linguaggio.
(Milone si ferma, riprande fiato.)
Dunque, in breve: poco fa, Lena, di anni diciotto, domestica, nubile, figlia di Giovanni, quarant’anni, giardiniere, e di Rosa, età trentott’anni, casalinga, abitante nella foresteria di Villa Semantema, Via del Fonema, Numero 89, in un momento di sconforto, forse dovuto all’infermità di cui era afflitta, essendo sordomuta e minorata mentale dalla nascita, si è data volontariamente la morte, gettandosi nella piscina situata nel parco della suddetta Villa Semantema. Alcuni animosi, tra i quali Giovanni di Giovanni, quarantaquattro anni, cameriere, coniugato con Cesira, cuoca, trent’anni, e Italo Paolini, trentaquattr’anni, autista, celibe, si gettavano nell’acqua e ne ritiravano il corpo ormai esanime della sventurata. Ma tutti gli sforzi erano inutili. Nonostante le fosse subito praticata la respirazione artificiale, non era possibile richiamare alla vita la povera suicida. Le indagini sulle cause del folle gesto, affidate al brigadiere Romeo Proietti dei locali carabinieri, proseguono. (Mentre Milone recita l’immaginaria notizia di cronaca nera, tutti lo guardano immobili e attoniti come se davvero, a misura che lui recita la sua filastrocca, la morte di Lena e Lena stessa svanissero dalla realtà. Gradualmente le luci si abbassano, la scena è al buio. Cala il sipario.)

Il mondo è quello che è (1966/67) - Teatro Stabile

Rappresentazione del testo teatrale allo Stabile di Torino (1966/67)

Il testo teatrale si accentra, come ben si arguisce, sulla proprietà linguistica, o per meglio dire, non proprietà linguistica, in quanto essa è solamente significante, mai significato. Se la parola significato rimanda a qualcosa di oggettivamente determinato, essa è “sana”, se invece si riferisce ad un sentimento o ad un termine puramente astratto, essa è “malata”. Ne risulta che, usando solo le sane, la lingua diventa talmente neutra da non significare nulla, arrivando così al grado zero. D’altra parte afferma Wittgenstein “il mondo è quello che è” perché “il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, è tutto avviene come avviene; non vi è in esso alcun valore – né se vi fosse avrebbe un valore” (aggiungiamo noi) determinabile da una proposizione priva di logica.

Wittgenstein rimane così importante per il Moravia di questo periodo che nel 1967, intitola un nuovo libro di racconti con un’espressione tautologica, fortemente debitrice del pensiero del filosofo tedesco: Una cosa è una cosa. Si tratta di 44 racconti tutti con protagonista un uomo medio, ad eccezione dell’ultimo il cui protagonista è un cane. Come afferma Moravia stesso, tutti questi racconti “sono scritti in prima persona” quindi in essi l’autore “esplora il mare della soggettività;  cioé quello che avviene quando l’uomo non soltanto si accorge di sovrapporre i propri significati alle cose, ma cessa di occuparsi realmente delle cose e dedica tutta la sua attenzione ai significati. Per quanto possa sembrare strano, è proprio questo i momento in cui, appunto, le cose diventano cose.”

Una cosa è una cosa - Alberto Moravia - copertina

UNA COSA E’ UNA COSA

Non comunichiamo; o meglio comunichiamo in tanti modi ma non con la parola. Le ho chiesto: «Che hai fatto stamane?» Lei mi ha risposto: «Sono stata a spasso.» «Dove?» «In giro.» «Ma dove in giro?» «Per le strade del centro.» «Ma che hai fatto?» «Sono stata a spasso.» Sono rimasto zitto un momento cercando di trasformare mentalmente in immagini quelle parole: spasso, in giro, strade, centro; di vedere cioè mia moglie in atto, appunto, di andare a spasso per le strade del centro; ma non ho visto niente. Ho chiuso gli occhi senza che lei se ne accorgesse, fingendo di guardare al mio piatto; ho pensato a lei, alta, elegante, flessuosa, con quel non so che di maldestro e di provocante nei fianchi stretti e nelle lunghe gambe che mi piace tanto; a lei che andava a spasso per le strade del centro; ma non ho visto né lei, né i negozi, né le automobili, né i marcipiadi, nè nulla. Le parole non mi dicevano nulla, non suscitavano alcuna sensazione; anzi, per poco che le ripetessi più volte, avevano un’allarmante tendenza a cambiarsi in suoni insensati.
Ho socchiuso le palpebre, ho guardato verso di lei, attraverso gli sprazzi aguzzi dei bicchieri e delle caraffe di cristallo. Indossava una camicetta a strisce gialle e arancioni, aperta sul petto; tutto a un tratto sono stato colpito dall’intensa espressività di un bottone, l’ultimo sotto il collo. Questo bottone mi diceva, anzi mi gridava, «Sono il bottone più alto della camicetta. Stamane, quando tua moglie è uscita, ero inserito nella mia asola; adesso ne sono fuori. Può darsi che io sia stato liberato dall’asola per una innocente civetteria, per lasciar vedere il principio del seno; ma può anche darsi che la camicetta sia stata sbottonata da una mano alacre e impaziente, gettata insieme con gli altri panni su una seggiola, in una stanza straniera, e quindi, una o due ore dopo, indossata di nuovo e riabbottonata in fretta, salvo l’ultimo bottone in alto, lasciato aperto per distrazione.» Lungo eh? E per giunta maliziosamente particolareggiato, un vero piccolo racconto o meglio romanzo. Mi sono domandato se per caso stessi diventando geloso, ma mi sono subito rassicurato. Infatti, alzando gli occhi e passando con lo sguardo dalla camicetta al volto di mia moglie, mi sono accorto che ciascun tratto di quella faccia pur così nota, mi inviava un’informazione nella quale era impossibile ravvisare l’espressione inconscia di un mio sentimento. Erano informazioni obbiettive, insomma, io non c’entravo. Gli occhi glauchi, stretti, lunghi, luminosi mi gridavano: «Noi siamo gli occhi;» il naso un po’ grande, leggermente ricurvo: «Io sono il naso;» la bocca carnosa, tumida, imbronciata: «Io sono la bocca.» Era persino imbarazzante; come trovarsi di fronte ad una folla vociante e non sapere a chi dar retta.
Ho deciso di scegliere uno tra tutti quei postulanti, la bocca per esempio. Ma subito mi sono accorto che altri messaggi, altre informazioni mi venivano incontro, attraverso lo spazio, con la fottezza e la violenza vibranti di frecce lanciate da numerosi arcieri: «Io sono la peluria scura, appena visibile che ombreggia il labbro superiore. Io sono la piega grave all’angolo della bocca. Io sono il rossetto chiaro, vivo come il sangue. Il sono il brillare umido, come di madreperla bagnata, dei denti che appena si intravedono. Io sono il calore del respiro che è causa di minuti screpolii sulle labbra. Io sono il disegno sulle labbra, ricurvo e spesso e al tempo stesso curiosamente informe. Io sono la fossetta di sopra del labbro superiore. Il sono la punta rosea della lingua che in questo momento si sporge appena a leccare i denti…» Assordato da tutte queste notizie tumultuose ed esigenti, ho scosso la testa. Quindi ho detto:
«Voglio farti una proposta.»
«Quale?»
«D’ora in poi non parliamoci più.»
«Ma che vuoi dire, che ti prende?»
«Voglio dire quello che dico: non parliamoci più.»
«Ma perchè?»
«Perchè non ce n’è bisogno.»
«Tu non mi vuoi più bene. Vorresti che io non ci fossi, che non esistessi, non potendo farmi scomparire, cerchi di rendermi muta.»
«Al contrario. Tu sei così parlante che la parola è ormai superflua.»
«No, lo so, tu vorresti che io fossi una cosa tra le tante, un oggetto che si guarda e poi si lascia lì. Tu vorresti che io fossi come quel bicchiere.»
Stavo per risponderle che lei era infinitamente più espressiva e più comunicativa di qualsiasi bicchiere, ma sono tutto ad un tratto ammutolito. Infatti, quasi involontariamente, alla sua frase indispettita, ho guardato in direzione del bicchiere e, o meraviglia, ecco l’oggetto, per così dire, levarsi in punta di piedi e gridarmi con quanta voce aveva: «Io sono il bicchiere. Hai capito? Io sono il bicchiere.» Confuso, ho indugiato a considerare il piccolo ma presuntuoso interlocutore. Quando, finalmente, mi sono riscosso dal mio stupore e ho levato di nuovo gli occhi, ho visto che la seggiola di mia moglie era vuota: sdegnata, addolorata, si era alzata, era uscita dalla stanza.
Impensierito, sono rimasto fermo, guardando alla seggiola, chiedendomi che cosa dovevo fare. Ma, improvvisamente, quella vipera, è il caso di dirlo, mi ha gridato in tono offeso: «Ma che guardi? Che cerchi? Io sono la seggiola, te ne rendi conto? Io sono la seggiola.» E allora, irresistibilmente, sono scappato dalla stanza. Di corsa sono entrato nell’anticamera, ho aperto la porta, sono uscito.
Abitiamo al pianterreno di un palazzo che dà su un piccolo giardino pubblico. Quattro aiuole, quatrro alberi per aiuola. Nel mezzo delle aiuole, uno spiazzo ghiaiato con quattro panchine. Nel centro dello spiazzo, una fontanella. Sono andato a sedermi su una di quelle panchine, all’ombra di un leccio. Il giardino era deserto; ma le cartacce sparse dovunque in grande quantità, le siepi schiantate, i fili di ferro divelti, l’erba rognosa, mi hanno subito gridato: «Questo giardino adesso è deserto perché è l’inizio del pomeriggio. Più tardi si riempirà di bambini. Tutto questo squallore e queste distruzioni sono opera loro.» Ho finto di non udire queste informazioni in certo modo deprimenti e ho guardato davanti a me. Sulla panchia di fronte stava seduto un soldato, sola presenza umana in tutto il giardino. Ho cencentrato la mia attenzione sul soldato.
Allora mi sono accorto che tra il soldato e gli alberi, la panchina, la ghiaia, la fontanella, i cespugli e, insomma, tutti gli oggetti che lo circondavano, stava avvenendo, come dire? una gara, o meglio, per essere più precisi, una contesa. Il soldato con voce sommesa, rassegnata, indifferente mi inviava quest’informazione: «Sono un soldato.» Ma tutti gli altri oggetti intorno a lui, affermavano invece la loro identità con voci più perentorie, quasi a dire: «Non ci sono che io. Gli altri non esistono.»
Del resto, nella persona stessa del soldato, c’erano alcuni particolari che mostravano di avere una vitalità maggiore della sua. Le scarpe, per esempio. «Noi siamo scarpe.» proclamavano i due oggetti neri, posati melensamente sulla ghiaia bianca, uno di qua e l’altro di là, «forse non te ne sei accorto, ma noi siamo nientemeno le scarpe.» Sconcertato da tanta sicumera, dopo avere per un poco considerato le due calzature, ho levato gli occhi verso il soldato, ilo quale se ne stava curvo, i gomiti appoggiati alle ginocchia, decifrando, come mi è sembrato, una rivista di fumetti. Non mi ero sbagliato, c’era davvero una contesa tra il soldato e gli oggetti che lo attorniavano. Infatti, adesso, il volto assorto del giovane militare non mi diceva più: «Sono un soldato»; ma, come un postulante che tira fuori un titolo di studio o di nobiltà o onorifico, per farsi ascoltare. affermava con una certa quale enfasi velleitaria e intimamente scoraggiata: «Io sono un uomo.» Ho abbassato gli occhi di nuovo. Una cartaccia in terra, presso la panchina, urlava con violenza sbracata: «Io sono una cartaccia.» Com’era più sicura di sé, più reale e, a modo suo, più profonda, quella cartaccia, del volto opaco e immobile del soldato.
Mi sono sentito quasi soffocare; tanto più che mni era venuta un’idea: e se mia moglie avesse ragione? Se, davvero, lei non fosse stata, per me, che una cosa tra le tante, né più importante né più significativa delle altre? Mi sono alzato, sono tornato quasi di corsa verso casa, sono entrato, ho aperto l’uscio dell’appartamento. Noncurante dei tanti oggetti che, nella penombra, mi chiamavano per farmi notare la loro presenza, sono andato direttamente alla camera da letto. Sapevo che mia moglie doveva essere lì.
La porta era socchiusa, l’ho aperta appena e mi sono affacciato a guardare. Le tendine bianche delle finestre mantenevano la camera in una luce giusta, né troppo forte né troppo bassa; gli oggetti, si sarebbere detto, non avevano né ombre né chiaroscuri; i loro volumi, i loro colori, le loro linee erano chiari, netti, precisi ma senza ineguaglianze di toni o di rilievo: democraticamente, tutti quegli oggetti della camera erano eguali, non ce n’era uno che fosse o sembrasse più visibile, più significativo, più espressivo di un altro. Il vaso di fiori sul cassettone valeva la caraffa dell’acqua sul comodino; il lume accanto al letto valeva la poltrona presso la finestra; l’armadio valeva la toletta. Il mio sguardo è scivolato su tutte queste cose cercando un appiglio, un motivo di preferenza. Ma no, niente. La testa di mia moglie, chiusa e nascosta nell’incavo del braccio, valeva il cuscino su cui stava affondata; il suo corpo, la coperta sulla quale si rannicchiava; i suoi piedi, la trapunta di seta su cui posavano. Ho guardato con intensità al corpo ripiegato su stesso; certo mia moglie piangeva perché ho udito un rumore come di un lamento mischiato a soffi e a suoni sommessi, ma questo rumore non mi è sembrato che fosse più interessante e importante di quello che faceva sul cassettone il transistor acceso su un volume basso, canterellando in sordina. Poi da tutta la persona di mia moglie si è levato un messaggio chiaro, perentorio: «Che hai da guardarmi? convinciti una buona volta, io sono una cosa come le altre, nient’altro che una cosa.» Allora ho richiuso pian piano la porta e me ne sono andato in punta di piedi.

Borghese il personaggio di questo racconto omonimo, in cui gli oggetti rivendicano la loro perentoria presenza di contro ad un uomo che, di fronte ad essi, non sa agire. La dimostrazione è data propria dall’incapacità di contestualizzarli, quindi di leggerli all’interno di una realtà che gli sfugge. Quando alla fine riesce a vederli senza che loro rivendichino la loro perentoria presenza, sarà la donna stessa a rendersi oggetto per rivendicare, di fronte a lui, la sua incapacità interpretiva, tanto che dovrà allontanarsi non essendo riuscito a renderla “viva”. Forse torniamo a Wittgenstein e nell’incacità di definire le “cose” essendo il linguaggio metafisico e gli oggetti fisici; ma sarà anche la “mercificazione” che durante il boom economico pervade in modo totale la società da rendere “autonomi” gli oggetti stessi e noi dipendenti da loro. Aggiunge Walter Pedullà in La letteratura del benessere (1973): “Ma – per chiara volontà dell’autore – tutti questi personaggi sono accumunati dall’appartenenza allo stesso emisfero sociale, cioé alla borghesia e in particolare a quella della fase in cui, conquistate le cose che hanno rappresentato da secoli i suoi valori irrinunciabili, tenta di capirne il significato assoluto attribuitogli e si accorge che esse si afflosciano vuote e inespressive.”

Nello stesso anno pubblica, o meglio raccoglie in volume, gli articoli commissionategli dal Corriere della Sera, a seguito di un suo viaggio in Cina, che compirà insieme a Dacia Maraini coautrice per quanto riguarda l’apparato fotografico. Tale volume prenderà il titolo di La rivoluzione in Cina ovvero Il Convitato di pietra.

La rivoluzione culturale in Cina

La visita in Cina corrisponderà, dopo la rivoluzione comunista del ’49, alla grande rivoluzione culturale voluta da Mao Tze-tung, iniziata nel 1966 e terminata dieci anni dopo con la morte del grande timoniere.

Il viaggio vorrebbe colmare la grande curiosità che l’iniziativa maoista aveva propocato presso gli intellettuali europei; infatti, la presenza dello scrittore romano e della sua compagna (cui spetterà l’apparato iconografico del volume), con l’avvallo governativo cinese, si svolge proprio all’inizio della scelta da parte di Mao, come afferma Moravia, di operare sulle coscienze al fine di mutare ontologicamente il modo di pensarsi dei cittadini cinesi. Non vi sono “individui”, ma masse uniformi nel modo di vestirsi, di comportarsi, di rapportarsi: ciò comporta che Moravia non descrive “personalità” (l’unica eccezione lo scrittore, di cui non ci dice il nome e con cui parla attraverso citazioni tratte dal Libretto rosso ed un vecchio operaio che orgogliosamente gli mostra il suo fornelletto).

La riuscita della rivoluzione culturale per Moravia sta nell’aver coniugato confucianesimo e maoismo e taomismo:

CONFUCIO, MAO, CLAUSEVITZ

Una delle massime di Confucio dice a un dipresso così: «Portare gente ignorante alla guerra vuol dire portarla al disastro.» Possiamo anche ammettere che Confucio abbia voluto intendere per gente ignorante semplicemente gente non addestrata; tuttavia è significativo che si parli anche qui di insegnamento, non di sentimento. Facciamo adesso un salto di molti secoli e veniamo a Mao Tze-tung. Come è noto, Mao, oltre a tante altre cose, è stato anche e soprattutto un capo militare sia durante la guerra civile contro i nazionalisti del Kuomintang sia nella lotta contro gli invasori giapponesi. Il piccolo libro rosso delle citazioni di Mao è in buona parte composto di massime sulla condotta della guerra ed originariamente, prima di diventare il breviario di tutti i cinesi, era stato destinato all’esercito. Ora, proprio nel libro di Mao, si può leggere questa massima senza dubbio marxista; ma di un marxismo non troppo lontano dal confucianesimo: «Tra il civile e il militare esiste una certa distanza ma non c’è tra di loro la Grande Muraglia e questa distanza può essere facilmente varcata. Fare la rivoluzione, fare la guerra, ecco il mezzo che permette di varcare la distanza. Quando noi diciamo che non è facile imparare e applicare quello che si è imparato, noi intendiamo dire che non è facile imparare qualche cosa a fondo e applicarla con scienza consumata. Quando noi diciamo che un civile può rapidamente trasformarsi in militare, noi vogliamo dire che non è difficile essere iniziati all’arte militare. Per riassumere queste due affermazioni conviene qui ricordare un vecchio proverbio cinese: “Niente è difficile per chi si applica a far bene quello che fa. Iniziarsi all’arte militare non è difficile e perfezionarsi è anche possibile pur che ci si applichi e si sappia imparare.”»
La citazione di Mao è lunga; quella di Confucio brevissima; ma il significato è pur sempre lo stesso: la violenza si insegna e si impara. L’uomo non nasce violento, l’uomo nasce colto e civile. Cioè non nasce militare ma nasce letterato. Ma noi sappiamo che in Occidente invece l’uomo nasce violento, privo di saggezza, intriso di sangue e di sesso, primitivo: per secoli il cristianesimo non ha fatto che ricordarcelo. E senza ricorrere a considerazioni di specie religiosa, limitiamoci a notare che il bambino cinese, in passato, era iniziato prestissimo ai riti del rispetto verso i superiori (genitori, maestri, dirigenti, imperatore) nonché alle massime della saggezza confuciana che, appunto, era all’origine di quei riti; mentre il bambino occidentale giocava e tuttora gioca prima di tutto al soldato; per accostarsi poi molto più tardi (e quasi sempre di malavoglia) ai libri.
Del resto paragoniamo adesso alle massime di Confucio e di Mao sull’insegnamento dell’arte della guerra, quelle di un classico occidentale sulla stessa materia: von Clausevitz. Ecco un primo pensiero: «L’intervento del pensiero lucido e ancor più il predominio della ragione, toglie alle forze emotive buona parte della loro violenza…» E ancora: «L’intrepidità costituisce una vera forza creatrice… fortunato l’esercito nel quale l’intrepidità intempestiva è frequente: è una escrescenza lussureggiante ma che sta a denotare un terreno fertile. Anche il colpo di audacia, cioè l’intrepidità insensata non è da disdegnarsi: in fondo è forza d’animo che si esercita in una specie di passione, nell’assenza di qualsiasi controllo della ragione.» Come si vede, mentre i cinesi ma Mao e Confucio pensano che il civile deve imparare la violenza la quale può essere insegnata come qualsiasi altra materia, l’occidentale Clausevitz, invece, consiglia di non sottrarre, con l’insegnamento ossia l’uso della ragione, la violenza alle forze emotive del soldato. Quest’ultimo nasce violento ed è bene che la sua violenza rimanga intatta, senza aggiunte o modificazioni mentali. Tutt’al più si tratterà di avviarla verso il suo fine cioè verso l’omicidio, attraverso una disciplina durissima e indecifrabile».

La Rivoluzione Culturale cinese in 5 libri

Questo brano ci offre il modo con cui Moravia si avvicina all’enigma della Rivoluzione culturale cinese: quello dell’argomentazione di tipo sillogistico. Lo scrittore europeo cerca infatti le connessioni che possano spiegare ciò che egli percepisce attraverso lo sguardo: l’uniformità delle giovanissime guardie rosse, con i loro nastro al braccio ed il libriccino di Mao in mano, lo sguardo attento verso le scritte appese che riportavano le massime del grande capo, il modo ordinato e ritmico delle manifestazioni sempre accompagnate dal ritratto di Mao, tutte queste manifestazioni egli le legge come “seconda” natura dell’essere cinese, nata già “colta” sul modo di concepire la vita confuciano. Ed ecco allora la sostituzione di Confucio con Mao e ciò che era religiosamente accettato continua ad esserlo sotto forma politica. Per Morava la Cina non conosce trasformazioni repentine, ma solo una continuità millennaria talvolta interrotta mai poi ripresa nelle sue forme essenziali.

Tra il 1970 ed il 1976 Moravia pubblica tre libri di racconti; il primo, Il Paradiso (1970) contiene 34 storie, il secondo Un’altra vita (1973) 31, il terzo Boh (1976) 30; le 95 storie di queste tre raccolte, hanno l’io narrante femminile. Perché Moravia scelse, questa volta, di dare la parola alle donne? Perché, secondo lui, in questo periodo storico esse hanno superato l’idea maschile d’essere soltanto “oggetto di bellezza” ma, in quanto piene d’imprevedibilità, non sono completamente integrate nella società ma neppure completamente estranee ad essa. Se l’uomo continua a rivestire un ruolo, la donna sta alla ricerca della propria identità e quindi, per Moravia, risulta essere “letterariamente” più personaggio. Risulta evidente che, avendo le tre raccolte una stessa struttura, esse possono essere considerate come un unicum, sebbene si noti una leggera “evoluzione” nell’idea sulla femminilità dell’autore. Tuttavia la critica concorda nel considerare i vari ritratti di donna qui presenti come una chiarificazione/preparazione al personaggio di Desideria del romanzo La vita interiore.

Il Paradiso racconta la difficoltà delle donne di “accettare” la realtà così com’è, sentendosi oggetto in un mondo completamente mercificato che le tratta come oggetti:

Il Paradiso

VENDUTA E COMPRATA

Sono una donna giovane e bella, moglie di un uomo giovane e ricco. Una volta alla settimana, salgo nella mia macchina, esco dall’abitato, mi dirigo verso una certa strada di campagna. Parcheggio la macchina in un fosso e quindi cammino forse cento metri. Ecco uno spiazzo davanti uno rustico chiuso con una catena e un lucchetto rugginosi. Al di là della staccionata si intravvede una proprietà in stato di abbandono: erbaccia e arbusti dovunque, alberi da frutta con frutti sparsi in terra che marciscono, grandi alberi fronzuti, mai potati, con i rami e il fogliame secchi mischiati ai rami e al fogliame verdi. Io seggo sopra la staccionata, una gamba penzolante nel vuoto e l’altra con il piede appoggiato molto in su, sopra una sbarra. Indosso invariabilmente una minigonna ma senza calzamaglia e, soprattutto, senza slip. Sono insomma nuda di sotto e ho calcolato che in questa posizione qualsiasi automobilista che sbuchi dalla curva poco lontana, di fronte a me, sia in grado di spingere immediatamente il suo sguardo tra le mie gambe su su fino all’oscurità dell’inguine. Non aspetto mai molto, anche perché per far capire chi sono o meglio chi pretendo di essere, fingo di fumare una sigaretta. E infatti non passano mai più di dieci minuti che un’automobile si ferma e una faccia congestionata si sporge dal finestrino. Mi si chiede quanto voglio; lo dico; quasi tutti accettano; la macchina, su mio consiglio, viene parcheggiata sul lato della strada; quindi prendo per mano il cliente lo guidò lungo la siepe di sambuco fino ad un certo varco che ho aperto io stessa nella siepe. La proda è ripida, aiuto l’uomo a salire, quindi lo precedo per un sentiero in cui l’erba folta (siamo di maggio, quando l’erba è più rigogliosa) conserva la traccia di altri miei precedenti passaggi. Andiamo dritti ad un grande albero, e io mi stendo subito in terra. Quei fa per gettarsi su di me ma io lo respingo e gli dico che voglio il denaro in anticipo: «Scusami sai, ma ho avuto giorni fa una brutta avventura, uno è scappato senza pagarmi, sono sicura che tu non lo faresti, ma insomma che ti fa, dammeli adesso e non ci pensi più.» Gli uomini, quando hanno desiderio, sono buoni e docili. Non c’è n’è uno solo che non tiri fuori il portafogli e non mi dia subito la somma pattuita. Poi lui si butta su di me e allora, proprio in quel momento, fingo di sentirmi male. Gettò un grido, mi rovescio sull’erba, mi comprimo il cuore con una mano. L’uomo esterrefatto si tira indietro, mi guarda. Pur gemendo e comprimendomi con la mano il cuore, prendo con l’altra dalla borsetta ancora aperta il denaro e glielo restituisco balbettando: sono malata di cuore. Ma tu vattene. E’ una cosa che mi prende ogni tanto e poi mi passa. Naturalmente non se ne parla di fare l’amore. Eccoti il tuo denaro, scusami, ma lasciami, vattene.» Figurarsi l’uomo che, per un momento, ha temuto di trovarsi tra le braccia una moribonda. Non ce n’è uno che non prenda il denaro e non se ne vada in gran fretta. Allora, appena sono sicura che se n’è andato davvero, mi levo, raggiungo la strada, cammino fino alla mia macchina, ci salgo, me ne torno a casa, a Roma. Come ho detto, questa specie di rito lo celebro una volta la settimana. Non mi è mai avvenuto di incontrare una seconda volta un cliente. Se uno di loro mi incontra, il ricordo del mio malore gli toglie qualsiasi desiderio di avvicinarmi di nuovo. E del resto anche se mi imbattersi in qualcuno abbastanza invaghito per ritornare, sono ben decisa a ripetere di nuovo la commedia del malessere improvviso.
Questa specie di rituale in un certo modo simbolico attraverso il quale riesco a vendermi senza darmi, ha un’origine precisa, naturalmente, e io so benissimo qual è. Bisogna sapere che quando mi sono sposata cinque anni fa con Siro, mio marito, mi illudevo che lui mi amasse come io l’amavo: appassionatamente, esclusivamente. Appena due mesi dopo il nostro matrimonio, ho scoperto che mi ingannava, in maniera oltretutto per me molto umiliante, cioè senza alcun particolare motivo sentimentale o anche erotico, così, come si fanno tante cose che si sono sempre fatte, per abitudine, per automatismo. Siro era solito far l’amore con molte donne alla volta e non poteva considerare il vincolo coniugale un motivo sufficiente per rinunziare a questa sua abitudine.
Naturalmente ho cominciato a soffrire perché, come ho detto, amavo mio marito di vero amore, appassionato ed esclusivo. Sapevo di essere tradita e più volte ho pensato di vendicarmi col tradirlo a mia volta. Ma a quanto pare sono incapace di essere infedele. Naturalmente avrei potuto lasciarlo. Ma, purtroppo, nonostante il tradimento, continuavo ad amare Siro.
La mia sofferenza aveva un suo ritmo, un suo metodo o meglio li ha acquistati col tempo. Soffrivo soprattutto nelle prime ore del pomeriggio. Era questa infatti la parte della giornata in cui non avevo niente da fare; niente se non pensare a mio marito e alla sua infedeltà.
Non avevo voglia di vedere nessuno, non volevo distrarmi né occuparmi, non sapevo insomma che fare di me stessa. Allora, tutto ad un tratto, dopo aver tentato invano di leggere un libro che gettavo via quasi subito o di ascoltare un disco che fermavo dopo i primi giri o di guardare alla televisione che spegnevo alle prime immagini, indossavo in fretta e furia un soprabito ed uscivo. Salivo in macchina e andavo al centro della città. Che cosa mi attirava laggiù, nella confusione della folla e del traffico? Dapprima ho pensato che fosse la vita senza più, dalla quale mi sentivo esclusa; Poi mi sono accorta che la mia attrazione aveva un oggetto in fondo abbastanza preciso. Erano i negozi che mi attiravano, le loro vetrine piene di oggetti messi in mostra per essere venduti, soprattutto i negozi di abbigliamento.
Parcheggiavo la macchina e quindi, negozio dopo negozio, percorrevo lentamente le strade del centro. A questo punto debbo notare che in passato non avevo mai provato per i negozi che fastidio e ripugnanza. Sono una di quelle donne, raro nel mio ceto, che si vestono alla buona, come viene viene, pur di non perdere il tempo e di non trovarsi nella noiosa necessità di fare una scelta. Inoltre non sono mai riuscita a fare il salto dal necessario al superfluo, dal funzionale all’elegante, dal decoroso a lussuoso. Piuttosto che vestirmi, mi era sufficiente ricoprirmi. Infine mi affezionavo ai vestiti vecchi, forse perché mi annoiava l’acquisto dei nuovi. Adesso, invece, tutto ad un tratto, spuntata da chissà dove, mi scoprivo una vocazione di consumatrice accanita. Questa vocazione mi è stata rivelata dal mio stesso aspetto fisico. Mi è accaduto un giorno di guardarmi nello specchio di un negozio e sono stata sorpresa e quasi spaventata dal cambiamento intervenuto nella mia faccia: sono bruna e magra, ma ho o meglio avevo una faccia dall’ovale regolare ossia senza visibile sproporzione tra la parte superiore e l’inferiore. Ebbene, adesso la parte inferiore del mio viso appariva affilata e smunta. La bocca sembrava più larga, il naso più lungo. E gli occhi, addirittura, mi avevano “mangiato” la faccia. Da grandi si erano fatti enormi, con un’espressione che non ricordavo di avere mai avuto: cupida, avida, vorace.
Con quegli occhi esorbitanti e affascinati ispezionavo minuziosamente la vetrina quindi entravo con decisione nel negozio e compravo. Non compravo un oggetto solo, mettiamo una minigonna, ma cinque, dieci oggetti tutti eguali: cinque, dieci minigonne. Cercavo di darmi un contegno di compratrice normale, dritta contro il banco, le due mani sulla borsa, gli sguardi alla merce che le commesse via via mi mostravano. Ma tutto ad un tratto qualche cosa come un meccanismo scattava dentro di me. Tendevo la mano e dicevo: «Compro questo, e questo e questo. Ma di questo ne prendo quattro, e di quest’altro sei.» La mia voce insieme imperiosa e malsicura risuona aggressivamente tra il cicaleccio e l’andirivieni dei negozi; più di una volta ho sorpreso le commesse scambiarsi sguardi di furtiva e ironica intesa mentre si affrettavano a servirmi.
In realtà l’acquisto, lo sentivo bene, era il risultato di una specie di esplosione dell’angoscia troppo a lungo compressa e respinta. Ho sentito una volta due commesse, nel momento in cui entravo, dirsi sottovoce, in fretta: «Ecco la matta.» Sbagliavano, come spesso avviene in questi casi, non soltanto non ero matta affatto; ma anche facevo tutti quegli acquisti, in apparenza sregolati e caotici, per non diventare matta sul serio, col preciso e consapevole intento di alleviare la mia quasi insopportabile tensione.
Devo dire che pur nella indiscriminata voracità del mio affannoso comprare, si poteva distinguere un criterio di scelta: non compravo, a ben guardare, qualsiasi cosa; compravo in molti esemplari esclusivamente dei capi di vestiario. La mia preferenza andava alla roba più personale, cioè agli indumenti che stanno sotto i vestiti e a contatto con la pelle: le calze, i reggiseni, i reggicalze, gli slip, le calzamaglie, i guanti, le sottane. Avevo cassetti pieni traboccanti di calze mai messe chiuse nei loro sacelli di cellophane; di grovigli di giarrettiere di tutti i colori; di mucchi di reggipetti di stoffe dai più vari disegni. Ma gli slip neri, rosa, verdini, azzurrognoli, traforati, trasparenti, opachi, rinforzati, ornati di merletti, infiocchettati, semplici o complicati, da educanda o da cortigiana erano di gran lunga l’oggetto più collezionato. Subito dopo venivano per importanza le calzamaglie, le calze, i reggiseni. Immaginate adesso che questi indumenti sospesi nel vuoto nell’ordine di cui di solito vengono indossati e avrete l’involucro vuoto del corpo femminile, anzi il corpo stesso come appare agli uomini nel momento breve e, per loro, inebriante, che si frappone tra la conquista già avvenuta e l’amplesso imminente. Ma che cosa realmente significavano per me queste compere? Non lo sapevo ancora. Sentivo però oscuramente che trasformavo in rito liberatorio la situazione contingente e casuale che era all’origine della mia angoscia.
Purtroppo c’era un giorno in cui non potevo fare acquisti e così liberarmi dell’angoscia: la domenica. E infatti, a riprova della virtù terapeutica dell’acquistare, la domenica era per me una giornata spaventosa, la peggiore della settimana. Restavo a casa sola perché Siro che nei giorni feriali mi tradiva, dedicava le domeniche alla partita di calcio; e non sapevo che fare. Non mi riusciva di star ferma, andavo e venivo per le stanze e i corridoi e le terrazze; intanto mi mordevo le labbra, mi torceva le mani; avrei voluto gridare, sbattere la testa contro i muri, strapparmi i capelli, rotolarmi in terra. Ogni tanto andavo nel guardaroba, aprivo gli armadi, guardavo alla roba di cui rigurgitavano i cassetti quasi avessi voluto, contemplandone la misteriosa abbondanza, risalire al rapporto per me ancora oscuro tra l’infedeltà di mio marito e la mia frenesia consumistica. Ma la roba non mi dava la risposta che cercavo. Mio marito mi tradiva: questo era un fatto; io ero una matta che comprava dieci reggiseni alla volta: questo era un altro fatto. Il rapporto tra i due fatti non si svelava ancora.
Una domenica, Siro era uscito come il solito per andare allo stadio e io mi sono sentita addirittura sull’orlo della follia. Poi all’improvviso mi sono detta che forse vendere mi avrebbe fatto lo stesso effetto benefico che comprare. Donde mi venisse quest’idea, non so; probabilmente dalla riflessione che così per vendere come per comprare ci vogliono degli oggetti, cioè delle cose inanimate di cui si dispone come si vuole per mezzo del denaro. Avevo sinora comprato; perché non avrei provato a vendere? Mi sono subito attaccata al telefono e ho fatto il numero di una rigattiera che qualche tempo addietro mi aveva offerto di comprare qualsiasi vestito o altro indumento di cui non avessi più bisogno. L’ho trovata a casa sua; e ha subito mostrato molto interesse sentendomi enumerare convulsamente i numerosi capi del mio corredo di nevrotica. Ma mi sono sentita mancare il cuore quando la donna mi ha detto che oggi, essendo domenica, non si muoveva di casa.
Così non c’era niente da fare. Non potevo comprare nulla e non potevo vendere nulla. Ho infilato, in un turbine di disperazione, il soprabito e mi sono diretta in macchina, come facevo gli altri giorni, verso il centro. Ho parcheggiato l’automobile e ho preso a camminare lungo i negozi di una delle strade più eleganti della città. I negozi erano chiusi, ma le vetrine piene di oggetti esposti in mostra permettevano dei lunghi indugi contemplativi. Era il primo pomeriggio, poca gente passava, si era d’autunno, con il sole d’ottobre che è così dolce a Roma. Allora mentre contemplavo affascinata un’esposizione di camicette, mi sono sentita toccare un braccio. Mi sono voltata io ho visto un uomo né brutto né bello, né giovane né vecchio, proprio un uomo qualsiasi di mezza età, che mi faceva un gesto d’invito indicando una macchina ferma a poca distanza. L’ho guardato appena, ho guardato l’automobile; quindi con la stessa fretta con la quale nei negozi ero solita fare i miei acquisti. Ho accettato con un cenno del capo avviandomi accanto a lui. Siamo saliti in macchina e siamo partiti.
Non abbiamo parlato affatto fino a quando siamo usciti dalla città. Poi d’improvviso lui ha detto: «Ti piacciono le camicette, eh. Oggi è domenica; ma domani col denaro che trappoco ti darò potrai comprartene anche più d’una.» Questa frase mi ha fatto capire finalmente, come per un’illuminazione repentina, il rapporto che collegava l’infedeltà di mio marito con la mia mania dell’acquisto. Mentre il mio, diciamo così, “cliente” continuava a guidare in silenzio, mi sono detta che nel mio rapporto con mio marito, fin da principio, per lui, non ero stata che un oggetto il quale si aspettava di essere “adoperato”, o se si preferisce “consumato”. Nel nostro caso, l’uso, il consumo, erano le carezze, i baci, gli amplessi, gli orgasmi. Ma mio marito, dopo appena due mesi di matrimonio, aveva cessato quasi del tutto di “adoperarmi”, di “consumarmi”, insomma di prendere il suo piacere con me. E allora, dopo essermi illusa di essere stata per lui la moglie che si ama, per la prima volta avevo scoperto che non ero in realtà che un oggetto che si può o non si può adoperare, un bene che si può o non si può consumare e che comunque non ha una sua esistenza autonoma all’infuori dell’uso e del consumo.
Ma degli oggetti ci si stanca e allora vengono riposti o gettati via. Così aveva fatto Siro con me: non mi aveva più adoperata; ed io ero incerta se adesso dovevo considerarmi il vaso rotto che si butta via nella pattumiera oppure il vaso intatto ma il cui disegno ci ha stancato che si ripone nell’armadio.
Naturalmente tutto era avvenuto fuori della mia consapevolezza, nel mio inconscio. Per liberarmi dall’angoscia, inconsciamente avevo finto con me stessa di essere mio marito; io avevo preso a consumare indumenti che in un certo modo, sia per l’uso ai quali erano destinati sia per la loro forma, potevano simboleggiare il mio corpo disprezzato. Ero diventata, insomma, consumatrice in quanto mi ero sentita non consumata. Poiché, per esempio, mio marito aveva smesso, come gli avveniva nei primi tempi del nostro amore, di gettarmi sul letto, dopo colazione, di strapparmi lo slip e far l’amore con me senza vestirmi; io avevo comprato decine e decine di slip. Ma adesso, in questa automobile che correva sulla Flaminia portandomi al luogo dove, come una merce qualsiasi acquistata in un negozio, sarei stata consumata dal mio sconosciuto compratore, io tornavo ad essere l’oggetto che ero stata nei primi tempi del matrimonio. Non mi identificavo più con mio marito, trasformandomi in consumatrice di indumenti che simboleggiavano il mio corpo. Offrivo invece direttamente in vendita il corpo in carne e ossa ad un compratore reale per nulla simbolico. Tuttavia, siccome non cercavo il piacere, non avevo bisogno di denaro e probabilmente amavo ancora mio marito, mi contentavo di fingere la vendita, come in una specie di rito.
D’improvviso avvertito qualcosa di inquietante e di minaccioso nel mio compagno il quale, dopo quella frase sulle camicette, non aveva più aperto bocca. Mi sono voltata un poco e l’ho guardato per osservarlo meglio. Guidava, si sarebbe detto, con ferocia, la testa protesa in avanti, gli occhi cupidi fissi sull’asfalto, spingendo la macchina gran velocità, infilando le strade ai bivi come se fossero state le mie gambe aperte. Quindi, senza voltarsi, ha detto con una specie di concentrato furore: «Tu sei quella che mi ha fatto lo scherzo del malessere l’altra volta. Non mi riconosci? Ma questa volta, malessere o no, l’amore hai da farlo. Anche morta.»

La protagonista di questo racconto è giovane e ricca e vende simbolicamente il proprio corpo lungo una strada di campagna: simbolicamente perché, trovato il compratore, gli prende i soldi ma nel momento in cui è necessario giungere all’atto finge una crisi cardiaca e spinge il cliente spaventato alla fuga. Il simbolismo, con la ritualizzazione della prostituzione, è funzionale al bisogno della donna di sentirsi comprata come uno dei tanti vestiti che lei stessa acquista in modo compulsivo, per alleviare la sofferenza e l’angoscia prodotte dai continui tradimenti del marito.

Le protagoniste di queste storie vengono reificate, ma ciononostante non perdono lucidità e consapevolezza: sanno di essere subordinate ed economicamente dipendenti dagli uomini e così impossibilitate a una diversa forma di realizzazione che non sia riconducibile al ruolo di moglie/madre/amante. Venduta e comprata si conclude con una forma di tragica beffa del caso cui spesso queste donne sono condannate: l’uomo a cui si era sottratta all’inizio del racconto torna ora sulla scena e la costringe – così suggerisce il finale – a passare tramite la violenza fisica dal piano del simbolico a quello del reale.

UN'ALTRA VITA MORAVIA ALBERTO BOMPIANI 1973 \ RILEGATO CON SOVRACCOPERTA - Foto 1 di 2

 

In Un’altra vita le 31 donne che si raccontano sembrano invece mettere l’accento sulla vita che a loro sarebbe piaciuto fare o hanno già fatto o vivono in un sogno: mai sulla vita che conducono: insomma le loro vite sono sempre “altre” rispetto alla realtà.

LINEA ROSSA LINEA NERA 

Sono una donna che prende sul serio la vita; ma che, strano a dirsi, non sa mai troppo bene da quale parte prenderla. Così, nel dubbio, ho finito per decidere di fare sempre esattamente il contrario delle cose che mi sento di fare. Spirito di contraddizione, si dirà. Sì, certo; ma verso me stessa, o, se volete, la parte inerte e passiva, pigra di me stessa. Questa mia fissazione di contraddirmi è diventata ben presto ossessiva fino all’allucinazione. Che cos’era, infatti, se non una allucinazione, la linea rossa che, mentre Cosimo, il mio fidanzato, mi esponeva il suo piano, vibrava e si allungava tra me e lui? E la voce che mi incitava: «Salta, ma salta dunque, cretina!»
Il piano di Cosimo era semplice: andare a gettare delle bombe durante la dimostrazione contro l’ambasciata americana. A me, come guidatrice bravissima, si chiedeva soltanto di far da “palo”, aspettando al volante di una macchina, in una strada vicina. Quando Cosimo ha finito l’ho guardato e sono rimasta colpita dal contrasto tra il suo piano il suo aspetto di ragazzo di buona famiglia, dai capelli corti, sbarbato, vestito di grigio, con la camicia bianca e la cravatta scura. Anche la voce, con l’accento romano molle e signorile dei quartieri alti, non andava d’accordo con le bombe. Provavo paura; e proprio per questo, alla fine, ho detto: «Ci sto».
Alla dimostrazione è venuto anche un altro del movimento. E sono rimasta stupita vedendolo, perché era il benzinaio sotto casa nostra da cui, un giorno si e un giorno no, mi rifornivo di benzina. Si chiamava Tito: era un bel ragazzo biondo; ma semplice come il pane. Cosimo sembrava fiero di presentarmelo. Ma io mi sono messa a ridere dicendo che lo conoscevo benissimo.
Siamo andati alla dimostrazione; e a me mi hanno lasciata in una strada tranquilla, sotto le mura, a due passi da una camionetta della polizia che aspettava anch’essa. Mi sono incantata a guardare i poliziotti che chiacchieravano e fumavano. Pensavo che loro ed io eravamo tutti lì per le bombe, ma loro per impedire che fossero gettate ed io per gettarle. Poi, tutto ad un tratto, i poliziotti sono risaliti sulla camionetta che è partita a gran velocità. Dopo un poco, Cosimo e Tito si sono buttati nella macchina e io, come d’accordo, sono scattata via subito. Cosimo ha annunziato con la sua voce beneducata e pariolina: «Ci siamo fatti finalmente il nostro poliziotto.»
Se l’erano fatto davvero; nel senso che, come ho appreso il mattino dopo dai giornali, un agente era rimasto leggermente ferito. Ho accompagnato Cosimo e poi sono tornata a casa mia, passando per la pompa di Tito che doveva tornare al lavoro. Ma quando Tito, dopo avermi rifornito di benzina, ha appoggiato il gomito sul finestrino per darmi il resto, ho visto la linea rossa che vibrava, accesa, tra me e lui. E ho sentito la voce che diceva: «Ma non lo vedi quant’è meglio di Cosimo? Salta.» Anche questa volta provavo ripugnanza; soprattutto per via della differenza sociale. E appunto perché la provavo, ho detto con una voce dolce: «Domani è domenica. La pompa è chiusa. Che fai domani?»
La linea rossa l’ho poi rivista ancora molte volte. Era tra me e mio padre quando gli ho detto che me ne andavo a vivere per conto mio. Era tra me e Cosimo quando gli ho detto di Tito. Era, infine, tra me e una giovane coppia scandinava che, qualche tempo dopo, sono andata a trovare insieme con Tito. Pittrice lei e albina; pittore lui, e albino. Con un magnifico bimbo dai capelli color del lino. Stavano in un grande studio pulito come uno specchio e quasi del tutto vuoto. Colori e pennelli erano tutti disposti in ordine, su una mensoletta, puliti, anch’essi, come mai adoperati. Ci siamo seduti in terra, sulla moquette ad ascoltare dischi. Quando il marito mi ha offerto la cartina già aperta, con la polverina bianca, ho visto di nuovo la linea rossa allungarsi, vibrante, tra me e lui. La solita voce ha sussurrato: «Su, da brava, salta.» La moglie mi ha incoraggiata, strizzandomi l’occhio, tutta allegra. Ma è stata proprio la strizzatina di quell’occhio inumano, freddo e azzurro come un ghiacciolo, a farmi paura. Ho voluto sormontare la paura e ho teso la mano.
Chiodo scaccia chiodo. La droga ha schiacciato Tito che uno di quei giorni si è sentito di troppo e se n’è andato. Adesso, a causa della droga, avevo sempre voglia di volare. Provavo, struggente, il desiderio di andare alla finestra, spogliarmi, salire in piedi sul davanzale. Di sotto, nella strada, ci sarebbe stata una folla immensa a guardare in su, a me che, tutta nuda, stavo in piedi nel riquadro della finestra. Dopo essermi esibita ben bene, avrei spiccato il volo. Prima di tutto avrei fatto alcuni giri sulla folla, planando come un gabbiano al di sopra di un mare in tempesta. Poi sarei partita via come una freccia, verso l’orizzonte.
Quest’idea del volo è diventata un’ossessione; così che un giorno che m’ero drogata più del solito, mi sono levata di scatto dal sofà, mi sono spogliata e sono andata alla finestra. Per fortuna da qualche tempo ero perseguitata dalle attenzioni non disinteressate di una certa ragazzona dalle gambe da giocatori di calcio e dalla faccia di pugilatore che si chiamava Tosca. Lei era presente quando mi sono spogliata per volare. Corrermi dietro, afferrarmi per le braccia con mani di ferro, trasportarmi di peso su un sofà, è stato cosa di un attimo. Poi, mentre lei, chinata su di me, mi prendeva sistematicamente a schiaffi, ho visto la linea rossa accendersi di improvviso tra me e lei. La voce ha detto: «Salta. Meglio una donna come Tosca che la droga.» Ma io provavo orrore di Tosca; ed è stato proprio quest’orrore che, ad un tratto, mi ha spinto a gettarmi singhiozzando tra le sue braccia.
Tosca mi ha soggiogato al punto che vestivamo in maniera identica, con le stesse camicette, gli stessi pantaloni, gli stessi stivali. Grande e robusta, lei; piccola e fragile, io: sembravamo una coppia di teatro di varietà. Mi aveva soggiogata; però non veramente conquistata. E’ vero, sono una masochista; ma ci sono dei limiti a tutto. Tosca, ogni volta che cercavo di affermare la mia autonomia, ripeteva, con ottusa brutalità, la scena che aveva segnato l’inizio del nostro legame: lei che mi prendeva a schiaffi; e io che le buttavo le braccia al collo. Non cambiava, Tosca, insomma; e si deve a questa sua stupidità, se il giorno che Tito, il benzinaio, è rispuntato d’improvviso, ho subito accettato di andarmene con lui.
Tito non era più il ragazzo semplice che avevo conosciuto due anni prima. O meglio, era rimasto semplice ma la sua semplicità adesso era quella del delinquente. La sua idea era che io, come al tempo delle bombe, aspettassi in una macchina col motore acceso. Lui, intanto, insieme con un suo amico, un certo Trapani, avrebbe svaligiato il negozio di un orefice. Mai la linea rossa si era frapposta così vibrante e accesa, tra me la cosa che non volevo fare. La solita voce mi diceva: «Salta. Hai fatto trenta, perché non faresti trentuno?» Avevo una paura terribile. Se non avessi avuto paura avrei rifiutato. Invece ho detto con un filo di voce: «D’accordo.»
Tutto, poi, si è svolto come in un balletto di nuovo genere. Alle tre del pomeriggio, con un tempo freddo e sereno e poca gente per le strade, ho fermato la macchina davanti al negozio dell’orefice. Tito e Trapani sono discesi. Tito ha dato un colpo violento col cric nella vetrina. La quale si è spaccata in molti pezzi aguzzi che sono scivolati in terra. Attraverso lo squarcio, Trapani ha messo il braccio dentro, ha arraffato oggetti, li ha gettati in una borsa di plastica, ha steso di nuovo il braccio. Proprio in quel momento, il motore che tenevo acceso, si è spento.
Ho cercato di riaccenderlo: niente. Girava a vuoto, con un ringhio impotente. Ho alzato gli occhi e allora ho visto due guardie che risalivano di corsa la strada venendo verso di noi. Tutto ad un tratto, ho visto una linea tra me e le guardie; ma questa volta, per la prima volta, nera. Mi sono affacciata, ho gridato a Tito e a Trapani: «Scappate, il motore non funziona.» Li ho visti scappare in su, spargendo, nella fuga sulle pietre pulite e grigie del marciapiede, tanti brillanti oggettini d’oro. Quando le guardie sono state presso la macchina, mi sono affacciata al finestrino e ho gridato di nuovo: «Cercate i ladri? Si sono rifugiati in quel portone.» Le guardie hanno continuato la rincorsa. Nello stesso tempo, il motore si è riacceso. Ho riportato la macchina nel luogo dove l’avevamo rubata. Quindi ho preso un taxi e sono tornato alla casa di mio padre, dopo due anni di assenza.
Dopo quel giorno, non ho più visto che la linea nera. Era tra me e casa mia, quando ci sono entrata. Era tra me e mio padre e mia madre, quando li ho abbracciati. Era tra me e Cosimo, quando lui è venuto a trovarmi e dopo avermi detto che avevamo ambedue molte cose da perdonarci, mi ha informato, fatuo, che aveva scoperto di essere “reazionario, conservatore, codino”. E perché allora non ci sposavamo? Strano, ho provato, di fronte alla linea nera che in quel momento la solita voce mi incitava a saltare, lo stessissimo sentimento di estrema ripugnanza di quando Cosimo mi aveva parlato delle bombe. E proprio per questo, ho accettato di sposarlo.
Quanti cardinali c’erano alla festa delle mie nozze? Io dico almeno una dozzina. Non facevo che inchinarmi a baciare vecchie mani inanellate. Gli zucchetti rossi galleggiavano tra le tante teste degli invitati, come tanti fiori in un acquitrino tropicale. Cosimo andava in giro dicendo a tutti che aveva scoperto di essere reazionario, conservatore e codino: ed io non facevo che saltare linee nere, le quali tutte quante mi ripugnavano e per questo appunto le saltavo.
Adesso siamo sposati e abbiamo due bambini. Cosimo non lavora: amministra i suoi beni ed i miei. E dorme. Oh, quanto dorme quest’uomo! Otto ore, almeno, per notte; e poi, come si dice a Roma, la “pennichella” cioè due o anche tre ore di giorno. Qualche volta mi levo sul gomito e lo guardo mentre dorme. Ci credereste? La linea rossa, la vecchia linea rossa della rivolta, è tornata ad allungarsi e a vibrare tra me e lui. Senonché non so come interpretarla. La voce mi dice: «Salta» ma non mi dice in che modo. Che cosa dovrei fare? Prendere un candeliere e darglielo in testa? Oppure, più semplicemente andarmene in punta di piedi per non più ritornare? Oppure, più disperatamente, svegliarlo con un grido acuto, straziante, il grido della mia serietà e del mio continuo impegno sempre traditi? Ma ancora: perché la vita deve essere tutta una trasgressione? Oppure la trasgressione della trasgressione? 

Questo racconto offre una duplice lettura:

  1. la storia circolare di una donna che, attraverso esperienze che vanno dalla ricca quiete borghese iniziale (simboleggiata dalla linea nera) al ritorno problematico di essa, vive ogni tipo di vicissitudini: la rapina, il tradimento, l’uso di stupefacenti (linea rossa) per poi ritrovarsi infine borghesemente sposata con un ricco “reazionario, conservatore, codino”. Il fatto è che tali scelte sembrano dettate più da uno “spirito di contraddizione” che da una propria volontà;
  2. l’anticipazione della figura della “voce” che sarà determinante ne La vita interiore, facendo sì che le figure moraviane abbiano un es così “diretto” da prevalere sempre sull’elemento razionale.

Afferma il critico Casini: “Il nuovo Moravia avverte nei suoi personaggi la tendenza a incrinarsi, a contraddire e contraddirsi, a dissociarsi, sdoppiarsi, alienarsi, in forme ora comiche ora patologiche, ora oniriche ora dialettiche” e avverte lo stesso Moravia: “Devo dire che alla crisi del personaggio sono arrivato assai tardi […]. Pirandello lascia che il personaggio si dissolva come individuo, io credo che il personaggio esista comunque, ma il suo essere si rifrange in possibilità molteplici e contraddittorie di azione. (Siciliano 1982, p. 120)

La terza raccolta di racconti femminili. Boh, mette in luce una maggiore corporeità delle donne stesse, in cui l’evidenza fisica sembra risolversi quasi in descrizioni espressionistiche, ma proprio queste descrizioni sembrano nascondere una profonda incredulità nonché rabbia di fronte ad atteggiamenti maschili inspiegabili.

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BOH

Gli amici mi dicono che il mio cattivo carattere si vede appena mi metto di profilo. Di fronte ricordo i cani pechinesi: occhi tondi, sporgenti dallo sguardo fisso e malevolo; naso schiacciato; bocca grande dalle labbra serpeggianti. Ma di profilo, secondo loro, la mia faccia fa pensare semplicemente a un pugno chiuso, teso contro qualcuno, con l’intenzione di darglielo sul naso. Bisogna però dire che, più che un cattivo carattere col quale ci si nasce e non c’è niente da fare, si tratta di una rabbia oscura che mi è venuta una certa età, diciamo quindici anni, e poi non mi ha lasciato più. Questa rabbia, come certi orologi a cui non si dà la carica perché si caricano da soli con i movimenti del braccio, si monta da sé senza motivo né provocazione. Dalla rabbia, poi, mi viene una continua voglia di litigio. Sento già, a questo punto, il solito ficcanaso domandare: “Ma perché la rabbia, perché la voglia di litigare?” E, io, come faccio sempre con chi vuole sapere troppo e non sa che, invece, non c’è niente da sapere, gli rispondo precisamente così: “Boh.”
Soprattutto la mattina, appena mi sveglio, mi ritrovo un tale furore che, se il mondo fosse, che so io, un piatto o un bicchiere, non ci penserei un momento a sbatterlo in terra e a mandarlo a pezzi. Eh, sì, ho bisogno di litigare come il fumatore di fumare, il bevitore di bere e il drogato di drogarsi. Purtroppo, però, a casa la voglia di litigio non posso sfogarla. I miei genitori, negozianti senza fortuna (hanno una profumeria in una strada in Prati in cui, di negozi come loro e meglio del loro, ce ne saranno, a dir poco, una decina), sono due anziani, svaniti angeli che si vogliono bene come il primo giorno di matrimonio. Mia sorella, più piccola di me, studentessa alle magistrali, è anche lei un angelo del genere studioso, applicato, pignolo. Mio fratello è un fannullone, magari persino un po’ delinquente; ma per me, siccome gli sono affezionata, è un angelo anche lui. Così, non potendo sfogarmi in questa famiglia di angeli, ho trovato un sistema. La mattina esco di casa e vado ad appostarmi in una strada qualsiasi, preferibilmente presso un semaforo. Qui mi appoggio a un fanale, come fanno le battone di cui imito gli atteggiamenti, tirando indietro il petto e spingendo avanti il ventre, in modo da mettere in evidenza il rilievo del pube, gonfio e oblungo come una saponetta e le gambe, la mia cosa più bella, così perfette da far pensare che non sono mie e che le ho scambiate con un paio di quelle che si vedono nei negozi di calze. Appena scorgo una macchina con un uomo solo al volante, alzo la mano e faccio il gesto dell’autostop. Il guidatore mi guarda la mano, mi guarda la faccia, mi guarda la saponetta del pube, mi guarda le splendide gambe da manichino, e poi la sua corsa, pur proseguendo come per forza d’inerzia, rallenta, finisce, poco più in là, in una frenata. Lo raggiungo, salgo in fretta e furia, chiudo lo sportello. Senza tanti complimenti, domando: «Dove vai?»
Il tu li fa ringalluzzire; non sanno che do del tu a cani e porci, dal tempo della contestazione. Rispondono immancabilmente, gentili, accomodanti: «E tu dove vuoi andare?» Allora faccio un breve calcolo mentale sul tempo che ci vuole per fare una litigata completa e bene articolata; e poi rispondo, poniamo che mi trovo dalle parti mie cioè presso piazza Cavour: «Debbo andare a piazza Bologna.» Be’, credeteci o no, pochi rifiutano; i più ingranano subito speranzosi; e poi, pur gridando, cominciano a fare le solite domande: «Chi sei, come ti chiami, cosa fai, studi, lavori, hai fidanzato, hai il ragazzo, fate l’amore eccetera eccetera». Rispondo brevemente; quindi, senza indugio, passo all’attacco. Mettiamo che alla domanda sulla professione uno risponda: «Faccio il costruttore.» Immediatamente gli piombo addosso: «Che cosa? Fai il costruttore? Bravo, desideravo proprio da tanto tempo incontrare uno della tua categoria per dirgli tutto il male che ne penso. Be’, sai che ti dico? Ti dico che voialtri costruttori fate schifo. Sì, schifo. Speculate sulle aree fabbricabili; comprate a dieci e rivendete a cento; i vostri intrallazzi così al comune come in Vaticano non si contano; lavorate soltanto per i miliardari; fate salire il prezzo degli appartamenti e così la povera gente non può neppure sperare di farsi la casa. E almeno fossero belle, le vostre case! Ma no, fanno schifo, sono come voi, che siete ben vestiti e decorosi di fuori quanto marci e brutti di dentro: E questo lo dico perché lo so. Con un’amica che deve sposarsi ne ho visitate di case, poco tempo fa, non si sa quante. Ma che sono case queste? I pavimenti ballano; gli infissi e le porcellane sono di infima qualità; gli intonaci cascano a pezzi; apri una finestra e ti trovi davanti un muro, ne apri un’altra ti affacci in un cortile che sembra un pozzo. Niente alberi, niente verde, niente giardini. Siete degli affamatori, soltanto che, invece di colpire la gente allo stomaco, la colpite nell’abitazione che è forse anche più necessaria del cibo, eccetera eccetera» Sono stata, ancora giovanissima, nella contestazione, poi me ne sono allontanata; ma mi sono rimaste nella memoria molte delle cose che dicevano i gruppettari; e così, qualunque sia la professione del guidatore di turno, trovo sempre qualche cosa da dire, non rimango mai a corto di argomenti.
Ma ora viene, diciamo così, il bello. Insultato e svillaneggiato, il guidatore non fa quasi mai la cosa prevedibile: aprire la portiera, invitarmi a scendere. Sia che speri di portarmi a letto, sia, più probabilmente, che sia uno dei tanti masochisti, non discute neppure e, curvo e aggrondato sotto la grandinata degli insulti, va avanti a guidare, da un semaforo all’altro, da una strada all’altra, fino al luogo in cui debbo scendere. Quando si ferma, poi, mica mi lascia andare così, come qualcuno che è meglio perdere che trovare. Al contrario, il più delle volte, chiede umilmente, insistentemente e, diciamo pure, abbiettamente, un appuntamento. Ma si può sapere come sono fatti gli uomini? Perché gli piace tanto essere trattati male? Boh.
Uno di questi giorni esco di casa pensando: «Il primo che mi capita oggi, parola, lo mangio vivo.» Vado ad appostarmi al semaforo del Lungotevere, il mio luogo preferito perché c’è posto e gli automobilisti possono mettersi da parte e raccattarmi senza difficoltà. Sono, al solito, in minigonna; mi appoggio al fanale e incrocio le gambe; la saponetta del pube sporge al massimo di visibilità; il petto, che ho cascante e voluminoso, me lo sono tirato su più che ho potuto, quasi mi sfiora il mento. A tutta prima accenno il gesto dell’autostop fiaccamente e neghittosamente, sicura di me e del mio fascino; poi, vedendo che non fa effetto, con più energia: niente. Sconcertata, faccio allora un gesto al quale ricorro di rado, soltanto quando comincio a disperare: porto la mano all’inguine e mi gratto, tirando un po’ su la minigonna, come se avessi un prurito. Subito, una grande automobile bianca, di un bianco vecchio e ingiallito, frena di colpo con un cigolio stridente, fermandosi a poca distanza. Mi slancio di corsa, mi ingolfo dentro, dico: «Vado a corso Trieste, e tu?»
Una grossa voce bene educata mi risponde: «Corso Trieste? D’accordo.»
Il semaforo scatta, lui gira il ponte, lo percorre, imbocca via Tomacelli. Mi assesto meglio che posso poi lo guardo. Ha una testa strana, piatta di dietro e con la fronte a baule davanti, che fa pensare a quella di un gufo. Ha i capelli neri incollati, come dal sudore, sulle tempie; gli occhi tondi perduti in fondo a orbite oscure, sotto sopracciglia di carbone; il naso a becco, così il ricurvo che la punta gli entra quasi in bocca; i baffi irti e neri; il mento ripiegato in su, con una fossetta scura nel mezzo. La faccia è rossa, intirizzita, da contadino o da cacciatore, da persona, insomma, abituata a stare all’aperto. Lo studio attentamente perché nel suo profilo c’è qualche cosa di anormale, che non mi torna. Dico al fine: «Senti un po’, fammi il piacere, girati verso di me.»
Lui si gira subito, dicendo baldanzoso: «Eccomi qui. Qual è il problema?»
Allora capisco. Sotto lo spazzolino nero dei baffi, la bocca appare tirata verso l’alto da una ferita come non ancora rimarginata, di carne viva, che gli parte dal labbro superiore e va a finire dentro la narice sinistra. Dico: «Grazie. Adesso puoi voltarti di nuovo. Ho capito tutto.»
«Hai capito che cosa?»
«Che ci hai una bocca schifosa, con il labbro leporino.»
Per un poco non dice nulla. Poi mormora, con dolcezza: «C’è a chi piace.»
«Non a me.»
«Pazienza.»
«Pazienza un corno.»
Mi sto montando, lo sento, sono già carica, quasi al punto che la chiavetta della molla di questo mio misterioso orologio del furore non gira più se non con uno sforzo estremo. Però do un ultimo giro con questo pensiero: “Ha l’erre moscia, la voce di naso, deve essere un mondano, uno snob, un uomo da salotto.» Quello che vedo mi conferma nella supposizione. Indossa un vestito blu scuro con la riga gessata; ha la camicia bianca; ha la cravatta un po’ all’antica, a strisce; ha i gemelli d’oro ai polsini. Il mio sguardo si sposta sulle mani che stringono il volante: tozze, quadrate, corte, con peli radi e dritti e unghie lucide, piatte, a spatola, molto curate. Deve essere uno di quelli che, dal barbiere, non la finiscono più con i pannicelli caldi, il taglio dei peli nelle radici e nelle orecchie, la frizione, il lavaggio. E intanto abbandonano con languida sufficienza la mano alla manicure chiacchierona rannicchiata alla meglio, con le grosse cosce traboccanti, su un minuscolo sgabello. Insomma, un’antipaticone numero uno. Il mio sguardo passeggia come una mosca riflessiva sulle sue mani, si ferma un momento su un anello che porta al dito medio della destra. L’anello ha un castone con qualche cosa inciso, forse un monogramma, ma non distinguo bene. Domando, a un tratto: «Ma tu che fai?»
«Come, che faccio?»
«Che mestiere, quale professione?»
Non risponde subito, pare riflettere. Poi dice: «Exportimport.»
«Che roba è?»
Spiega con quella sua cortesia mondana, in fondo insultante: «Vuol dire: esportazione-importazione. Scambi commerciali, insomma.»
Commerciante! Come i miei genitori! Come la gente che i miei genitori conoscono e frequentano! Subito mi slancio, a testa bassa: «Commerciante? Sei commerciante? So tutto dei commercianti perché ce li ho in famiglia. La razza peggiore che ci sia al mondo, la più sfaticata, la più inutile, la più dannosa! Già, perché è proprio a causa dei commercianti che i prezzi salgono e tutto costa sempre di più mentre i soldi della spesa bastano sempre di meno. Lo sai cosa siete voi commercianti? Dei parassiti, ma di quelli veri, tipo pidocchi e piattole, che vivono succhiando il sangue, senza farsi accorgere, zitti zitti, ben nascosti, ben dissimulati, ben mimetizzati. La vostra grande trovata, con la quale siete andati avanti per secoli a succhiare il sangue della gente, è di affittare una stanza, metterci un banco e qualche scaffale e poi a comprare a dieci all’ingrosso per rivendere a venti al dettaglio, stando alla cassa oziosi, col culo sulla seggiola, le braccia incrociate e la testa vuota. Eh, so tutto di voi, tutto, non m’incantate, conosco tutti i vostri trucchi, le vostre offerte speciali, occasioni, liquidazioni, novità, sconti, crolli dei prezzi, pagamenti a rate, saldi, ribassi, fallimenti e così via…»
Mi fermo per riprendere fiato; e lui ne approfitta per dirmi, per niente offeso: «Tutto bene. Ma io non sono un bottegaio, come mi sembra che tu abbia inteso erroneamente. Non ho un negozio. Ho un ufficio. Mi occupo di affari.»
Rimango male. Anche perché uomo d’affari è un termine generico, che può voler dire tante cose e sul quale, appunto per questo, non c’è niente da dire. Domando sconcertata: «Uomo d’affari? Ma che affari?»
«Affari.»
Debbo trovare qualche altra cosa. E subito. Siamo infatti già dalle parti di piazza Ungheria; corso Trieste non è molto lontano. Tutto a un tratto il mio sguardo, forse reso più acuto dalla necessità, scopre finalmente ciò che è inciso nel costone dell’anello che lui porta al dito: uno stemma. Sì, è proprio uno stemma, non c’è dubbio, con la corona e i soliti aggeggi: palle, strisce, leoni, gigli e che altro ancora. Con improvvisa, collerica alterazione della voce, domando, indicando l’anello: «Che è questo? Uno stemma?»
«Sì, almeno fino a prova contraria.»
«Allora tu sei nobile?»
«Dicono.»
«Che sei? Conte? Barone? Duca? Principe? Marchese?»
Ci pensa su e poi risponde, evasivo e galante: «Per te sono Paolo e basta.»
Grido gonfia di furore ancora inespresso: «L’avrei giurato che sei nobile. L’avrei giurato perché soltanto un nobile può essere antipatico come te. Vi conosco, voi nobili, ho avuto un ragazzo che era nobile, per un’estate intera siamo in giro col suo macchinone fuoriserie, da una spiaggia all’altra, da un night all’altro, un cretino numero uno, si chiamava Uguccione. Vi conosco e vi dico: ammazza ammazza siete tutti una razza: sfaccendati, ignoranti, presuntuosi, smidollati, degenerati. Ma che ci state a fare al mondo? A portare in giro la vostra superbia, eh? A darvi delle arie perché ci avete il blasone ricamato sulla camicia, eh? A guardare dall’alto in basso quelli che non ci hanno titolo, eh? E perché poi? Perché ci avete l’albero con tutti i cartellini in cui ci sono scritti i nomi dei vostri antenati su su fino al cosiddetto capostipite, eh? Perché conoscete nome e cognome dei vostri avi, eh? Perché sapete o credete di sapere chi erano, eh? Ma tu non sai niente. No, proprio niente. Te lo dico io chi erano i tuoi antenati di cui sei tanto fiero. Erano tutti dei delinquenti, dei criminali, dei briganti, dei rapinatori, dei banditi, sì, dei veri e propri banditi di strada. E così da una prepotenza all’altra, da una rapina all’altra hanno accumulato tutte quelle ricchezze che permettono a voi discendenti di non fare un cavolo nella vita, ciondolando di notte nei night e prendendo su, di giorno, le ragazze che fanno l’autostop; e tu sei un fannullone, nonostante l’export-import, e vale più l’unghia di un ragazzo delle borgate che te tutt’intero, con la tua macchina, il tuo vestito blu, i tuoi gemelli e la tua buona educazione.»
Che sollievo! Che soddisfazione! Mi sto scaricando e mi sento meglio, sempre meglio via via che mi scarico. Continuo ancora un bel po’ con la mia tirata contro la nobiltà; e poi me ne esco con questa conclusione dettata dal furore, inaspettata e stupefacente non soltanto per lui ma anche per me: «E poi, guarda, è meglio che fermi e mi lasci scendere, non è ancora corso Trieste, ma non importa, andrò a piedi, mi siete troppo antipatici, te e la tua classe, sciò, sciò, alla larga.»
Ma lui non si ferma, forse comprende che in realtà non voglio affatto scendere. Si limita a leccarsi con un pezzo di lingua rosso e osceno il labbro leporino e poi dice: «Brava!»
«Brava un corno!»
Non si offende, al contrario. Continua inflessibile: «Sì, brava; perché, anche se con qualche esagerazione, hai detto esattamente quello che penso anch’io. Sì, i nostri antenati, di noialtri nobili, erano dei banditi, dei briganti, dei masnadieri. Erano cioè degli uomini interi, completi, ancora vicini alla natura, con tutti gli appetiti naturali intatti. Uomini da preda, insomma; e la loro preda erano i pacifici, i civilizzati, i sedentari. Intrepidi, forti e feroci divoravano i deboli, i vili. E io e tutti gli altri come me dobbiamo cercare di rassomigliare a questi antenati spietati, a questi banditi. Se non vogliamo scomparire, dobbiamo prenderli come modelli.»
Urlo: «Ah, bene, bene, bei modelli, dei banditi di strada, ma fammi il piacere, vergognati.»
Non se ne dà per inteso. Tace per un momento, poi riprende con quel suo tono insieme didattico e salottiero: «Però non si parla come te se in qualche modo, magari senza saperlo, non si hanno degli antenati simili. Come ti chiami tu?»
Parla sul serio o parla per scherzo? Parla sul serio. Rispondo malvolentieri: «Mi chiamo Sebastiana.»
«Sebastiana, cosa?»
Ora pare impossibile, ma mi ha proprio incastrata. Infatti, ho davvero un nome di nobile anche se non sono affatto nobile. Un nome che, specie a scuola, mi esponeva a facili sarcasmi: “Come ti chiami? Colonna? Allora sei una principessa Colonna.” “No, Colonna, con un negozio in Prati.” “Allora non sei una principessa, sei una qualsiasi bottegaia.” Rispondo, in tono riluttante: «Colonna.»
Dà in un’esclamazione di gioia, come se avesse trovato finalmente la soluzione di un enigma tormentoso. Grida giubilante: «Colonna. L’avrei giurato! Buon sangue non mente!»
Rispondo infuriata: «Macché sangue, macché sangue! Mi chiamo Colonna come potrei chiamarmi, che so io, Rossi, o Proietti. Nessuno è nobile in casa mia, grazie a Dio. Poveri sì, ma non nobili. E poi è inutile che tu cerchi di lisciarmi, di adularmi. Mi stai antipatico, come tutti quelli della tua classe; e tutte le tue piaggerie non servono proprio a niente: Hai una faccia fessa, nei due sensi, quello vero perché ci hai lo spacco del labbro leporino e quello figurato perché sei uno stronzo e puzzi di snobismo lontano un miglio.»
Ma va’ a sapere con i pazzi. Non si scompone, si limita a scuotere la testa, come un maestro di fronte a uno scolaro recalcitrante: «No, Sebastiana, non ci sono classi ma soltanto razze. E le razze sono soltanto due, quella dei signori e quella degli schiavi. E il signore lo riconosci dal fatto che la sua morale consiste nel dominare. E lo schiavo lo riconosci dal fatto che la sua morale consiste nell’obbedire. Ma sia ben chiaro: signori si nasce, non si diventa. E così anche schiavi. E’ una questione di razza non di classe. Si può passare da una classe all’altra; ma qualunque cosa si faccia, non si può passare da una razza ad un’altra. Ora, Sebastiana, certe cose in te mi fanno pensare che anche tu appartieni, magari senza saperlo, alla razza dei signori.»
«Ma quali cose?»
«Per esempio la tua capacità d’indignazione.»
Grido fuori di me: «Ti sbagli, non ne azzecchi una. Quello che mi indigna sei proprio tu, con la tua stronzissima idea di essere un signore. Macché signore, macché signore. Tu signore, con quella faccia, con quei gemelli, con quel vestito! Ma fammi ridere.»
Paziente, mi spiega: «Tu intendi la parola signore come si usa a Roma: signore, cioé elegante, ricco, largo del suo denaro. Ma Sebastiana, questo è il senso corrente. Te l’ho già detto: signore per me vuol dire la bestia da preda che si getta sugli animali più deboli e li divora e ha il diritto di farlo appunto perché è il più forte.»
Mi metto a ridere, isterica: «L’hai detto, bestia. Sì, soltanto un bestione può parlare in questo modo. Ma fammi il piacere. Chi credi di incantare con queste scemenze?»
Non risponde, bada a guidare, calmo, calmissimo. Poi porta una mano al taschino della giubba e prende qualche cosa: «E questo ti incanta?»
Ora bisogna sapere che io non ho mai soldi. Quello che si dice: mai. Il negozio, come ho detto, va male; e i miei genitori, sia pure senza dirmelo apertamente, mi fanno capire che debbo arrangiarmi. E infatti, mi arrangio. Come mi arrangio? Qui si viene la maggiore contraddizione della mia vita. Mentre da una parte ho bisogno di litigare, dall’altra ho bisogno di soldi. Certo, potrei andare a letto con gli uomini dell’autostop, guadagnando così il denaro di cui ho bisogno; ma non posso, questa è una delle tante impossibilità della mia vita. Potrei anche rinunciare alle scenate e sciorinare le mie difficoltà, piagnucolosa, lacrimosa, straziante: mossi da compassione, quelli dell’autostop certo mi aiuterebbero. Ma anche questo mi è impossibile, ho bisogno delle scenate come dell’aria che respiro. Così, non potendo e non volendo fare né la battona né la pitocca, ripiego sulla contraddizione: prima insulto ben bene l’automobilista di turno; poi, nel momento di scendere, cambiando voce, chiedo timida e sommessa: «Di’ un po’, potresti farmi un piccolo prestito?»
Contraddizione, ho detto. Ma si vede che non sono così contraddittoria come credo di essere; oppure gli uomini amano le contraddizioni. Già, perché non è affatto raro che quello stesso individuo da me or ora abbondantemente svillaneggiato, alla mia richiesta di un prestito, si metta la mano in tasca e mi dia del denaro. Anzi ho notato che i più insultati sono spesso più generosi. Ancora una volta: masochismo? E sennò, cosa? Boh.
Adesso, con questo Paolo, mi succede addirittura che i soldi me li dà lui prim’ancora che glieli chiedo. Guardo il biglietto da diecimila che mi tende, con aristocratica negligenza, tra due dita; e intanto mi avviene la solita cosa che sempre mi avviene alla vista del denaro, forse proprio perché ne vedo così poco: la mente mi si annebbia, il furore mi cade, una specie di stupore mi paralizza, mi svuota. Sono in trance, ipnotizzata, magnetizzata, soggiogata. Vedo il biglietto color rosa carne, con il ritratto di Michelangelo da una parte e l’ovale bianco della filigrana dall’altra; e non penso nulla. Alla fine articolo: «Sono diecimila lire.»
«Sono per te.»
«Me le dai?»
«Sì.»
Afferro il biglietto, lo caccio nella borsa. E poi, ecco, mi viene l’avidità, anche questa è una conseguenza della ipnosi in cui mi piomba la fissa del denaro. Aggiungo, infantile e implorante: «Soltanto dieci? Non puoi darmene venti?»
Qualcuno dirà: che sfacciataggine. E invece no: è una specie di timidezza, provocata dalla povertà. Sono così povera, che mi succede col denaro come con la fame a chi ne ha avuta troppa: dopo aver mangiato, gli rimane l’appetito e vorrebbe mangiare di nuovo. Ma Paolo questa volta non cede. Dice: «Dieci bastano. Ma se vieni a trovarmi domani in ufficio, te ne darò altrettante magari anche di più.»
Balbetto: «Ma domani è domenica. Non c’è nessuno negli uffici, domani.»
«Appunto.»
Appunto che cosa? Sarebbe un ottimo pretesto per un’altra scenata, proprio adesso, al momento di andarmene. Ma sono scarica; e il denaro mi impedisce di ricaricarmi, di riprendere quota. Dico, invece, con voce sommessa, come se non volessi farmi sentire da qualcuno che sta ad ascoltarmi: «D’accordo, verrò. Ma tu, intanto, non potresti darmi un accontino, per esempio cinquemila. Per venire da te, ho bisogno almeno almeno di un paio di pantaloni decenti.»
«Non è un ricevimento. Non ci sarò che io. Va benissimo come sei adesso.»
La macchina si ferma, mi guardo intorno: con disperazione, con orrore, riconosco corso Trieste. Una strada come un’altra, in altri momenti; adesso la strada del mio fallimento, della mia sconfitta. Dico, ansiosa: «E a che ora?»
«Vieni alle cinque.»
«E l’indirizzo?»
Si mette la mano in tasca e io, per un momento, spero davvero che tiri fuori un altro biglietto da diecimila. Nient’affatto, è un biglietto da visita. Nome, cognome, indirizzo, export-import e, naturalmente, anche la corona nobiliare, con tanti raggi e tante palline, simile a un insetto, al di sopra del nome.
Metto il biglietto nella borsa e lui mi apre la portiera. Dico in fretta: «E grazie, sai»; e poi, sul punto di scendere, da vera pazza, ecco, piegò il capo sulla sua mano e gliela bacio con abietta gratitudine. E’ vero che al momento di sfiorarla con le labbra provo la tentazione di morderla; ma è soltanto una tentazione; e cos’è una tentazione che non si sfoga? Niente, meno che niente. Ma allora perché quel bacio? Boh. Smonto, poi rimango ferma sul marciapiede a guardare, arrabbiata a morte, la macchina che si allontana.
Domenica, eccomi in una strada di palazzi nuovi. Gli altri giorni sarebbe un caos di macchine ferme e ruggenti, a volte nella nube di gas dagli scappamenti impazienti. Oggi, invece, che è domenica, è un deserto, tanto che addirittura ci incrocio un gatto il quale, in quel momento, traversa calmo calmo l’asfalto in senso inverso. Sì, un deserto; ma l’appuntamento con Paolo mi rende questo deserto, altrimenti piacevole, un po’ sinistro, vagamente minaccioso, certo enigmatico. Paolo non è, infatti, il ragazzo che, mentre i genitori sono in campagna o al mare per il week-end, si va a trovare a casa sua, per passare con lui un tranquillo e rilasciato pomeriggio domenicale a base di sigarette, dischi, alcool, sesso e magari pure un’occasionale fumata. Paolo… è Paolo. Cioè un uomo che mi è antipatico, che mi ripugna e di cui ciononostante accetto l’invito chiaramente equivoco e malintenzionato. Certo, c’è la promessa ancora uno o magari due o tre altri biglietti da diecimila. Ma l’ho già detto: il denaro mi affascina se lo vedo, per così dire, in carne e ossa, squadernato sotto il naso; lontano e invisibile, cessa di ipnotizzarmi e, bene o male, torno me stessa. Ma allora perché sono qui, perché ci vado, perché, insomma, mi sono lasciata incantare? Contraddizione, al solito. E si ritorna al punto di partenza: perché mi contraddico così spesso? Boh.
Basta, ecco il palazzo. Lo guardo di sotto in su e rimango abbagliata dalla facciata tutta cristalli e acciaio, chiara e scintillante, con il riflesso freddo e azzurro del cielo in ciascuna finestra. Strano: tutto questo nitore, questo scintillio, questa purezza di materiali e di linee; e poi, in fondo a una stanza, in uno degli appartamenti, Paolo col suo labbro leporino, i suoi baffi, i suoi sopraccigli di carbone, i suoi occhi di gufo. Mi avvicino al portone, è chiuso. Cerco di guardare attraverso i vetri; ma sono vetri speciali, di quelli trasparenti soltanto dall’interno, e non vedo nulla. Presso il portone, però, c’è una fila di targhe e tra le altre anche quella dell’export-import. Mi decido e premo il bottone del campanello, in un piatto d’ottone grande come una scodella.
Quasi subito, la porta si apre, come se il mio arrivo fosse spiato attraverso quei vetri oscuri da qualcuno che mi aspettava; e, sulla soglia, appare un ragazzo coi capelli lunghi. Ma non lunghi ma la maniera dei ragazzi di oggi; lunghi alla maniera delle ragazzine di ieri. Questi capelli scendono ai due lati di una faccia bianca, liscia e un po’ paffuta, che fa pensare a quelle dei cherubini e serafini, dalle ali attaccate alla testa, che svolazzano in cielo nei quadri delle chiese. Pure angelici sono gli occhi un po’ svenevoli che mi guardano, ispirati e interrogativi; il naso all’insù dalle narici strette; la bocca a cuore, con gli angoli arricciati. E’ piccolo, come un fantino; ma ben proporzionato, con le mani e i piedi che fanno tenerezza tanto sono minuscoli. Gli dico, con simpatia: «Sei il portiere?»
Risponde modesto: «No, il figlio. Papà è andato in campagna.»
«Be’, debbo andare al quinto piano, dall’export-import.»
«Dal signor Paolo? Ti ci porto io.»
Mi precede verso l’ascensore, entra, lo seguo, fa per chiudere le porte. Dico, indicando i bottoni dei piani: «Non ho bisogno di essere accompagnata. Per premere un bottone, sono buona anch’io.»
Mi guarda senza rispondermi; poi disinvolto ma non insolente, stende il braccio e preme il bottone del quinto piano. Insisto arrabbiata: «Ma che sei sordo? Ho detto che non ho bisogno di essere accompagnata.»
Mi lancia un’occhiata ambigua e poi pronunzia: «Ordini superiori.»
«Ma ordini di chi?»
Non risponde. Adesso mi fissa il petto, forse soltanto perché è al livello dei suoi occhi. Ha un’espressione curiosa, che non riesco a interpretare, quasi preoccupata. Dice in fretta: «Oggi è domenica, questo è un palazzo di uffici e non c’è nessuno. Lo sai che siamo soli nel palazzo?»
Rispondo crudemente: «E chi se ne frega.»
«Allora dammi un bacio.»
Così dicendo preme il bottone dell’alt. L’ascensore si ferma.
Ora, un bacio potrei anche darglielo se non altro perché è un tale perfetto angelo da quadro d’altare. Dico di più: forse non mi dispiacerebbe. ma quall’ “allora” mi fa infuriare. Perché “allora”? “Allora” che cosa? Evidentemente: “Allora dammi un bacio, tanto siamo soli e tu sei una debole femminuccia e io posso fare di te quello che voglio.” Lo fisso dritto negli occhi, con sguardo acuminato. Quindi rispondo, marcando le parole: «Un bacio a te? Povero scemo.»
Ci credereste? Ecco che l’angelo, con espressione risoluta e concentrata si avventa su di me, afferra il bordo della camicetta e, in un solo strappo, fa saltare l’unico bottone. Quindi si attacca alla reggipetto, lo tira giù da una parte, con forza e determinazione. Un seno sbotta di fuori; l’angelo, senza esitare, ci dà una crudele stilizzata. Gemo dal dolore; rispondo con un colpo di ginocchio allo stomaco. L’angelo fa un salto, mi acchiappa per i capelli e mi tira la testa in giù, cercando di avvicinare la mia bocca alla sua. Imbestialita, alla cieca, lo graffio in faccia. L’angelo lascia immediatamente i miei capelli; Mi raddrizzo scarmigliata e ansimante; eccolo lì, rifugiato in fondo all’ascensore, che mi guarda, mortificato, passandosi la mano sul viso graffiato. Dice, poi, lamentoso: «Che ti chiedevo, in fondo? Un bacio.»
Rispondo, infuriata, tendendo la mano a premere di nuovo il bottone dell’ascensore: «Guarda, è meglio che stai zitto.»
Implora, con voce supplichevole: «Almeno promettimi che non dirai niente al signor Paolo.»
Buona idea! L’assalto dell’angelo potrà servirmi da pretesto per una ulteriore scenata Paolo. E poi, proprio perché l’angelo, con la sua faccia paffuta rigata dai graffi, mi fa tenerezza, voglio dimostrarmi dura con lui. Grido, violenta: «Non prometto nulla.»
Mi guarda con espressione per niente spaventata. Semmai incuriosita, come chi spia da dietro un vetro, l’evoluzione di un pesce in un acquario. Ma non ho il tempo di approfondire questa sensazione. L’ascensore si ferma, volto alle spalle all’angelo e discendo in fretta, senza voltarmi.
La porta dell’import-export è aperta, la spingo, mi ingolfo con impeto nell’anticamera e poi in un lungo corridoio, tra due file di porte. Moquette grigia, porte rosse, soffitto bianco. Dove sarà Paolo? Apro le porte una dopo l’altra e trovo dappertutto lo spettacolo solito degli uffici nei giorni festivi: macchine per scrivere incappucciate, fogli di carta bianca, foglie di carta carbone sparsi dovunque, come dalla ventata di un temporale. Ogni porta spalancata invano, cresce il mio furore. Mi sto caricando, esattamente come quando faccio l’autostop. Una frase mi gira, come una trottola spietata, per la testa: «Ora l’accomodo io.»
Arrivo in fondo al corridoio, irrompo. Paolo sta seduto in una grande stanza quasi vuota, dietro un tavolo di vetro e di acciaio. Ha il solito vestito blu scuro, i soliti gemelli d’oro ai polsini, la solita cravatta a strisce, stavo quasi per dire il solito labbro leporino. Subito l’investo con inaudita violenza: «Il figlio del portiere mi ha aggredito nell’ascensore. Guarda la mia camicetta, guarda i miei capelli. Mi ha strappato la camicetta, mi ha acchiappato per i capelli, mi ha strizzato il seno. Ma dove siamo? Ma chi credete di essere? Tante arie e poi permettere che si aggredisca la gente degli ascensori eccetera eccetera.»
Urlo; ma Paolo non mi risponde, non mi interrompe. Anche lui mi guarda come, poco fa, l’angelo nell’ascensore: con un’attenzione incuriosita, come attraverso un vetro. Insomma, si può sapere che hanno tutti e due a spiarmi in questo modo? Finisco: «Ma che maniere sono queste? Chi me la ripaga la camicetta? Ma io lo denunzio, quel teppista, sicuro, lo denunzio.» Alla fine Paolo si muove, in maniera studiata, però e come “recitata”. Tende un braccio ad aprire una scatola sul tavolo, ne prende una sigaretta, se l’infila nella fessura del labbro leporino. Gesti assai facili e comuni, direte, che qualsiasi persona compie senza sforzi e senza intenzione, come viene viene. Ma Paolo, questi gesti così normali, a quanto pare, li fa apposta per nascondere qualche cosa di anormale. E infatti li sbaglia, come un attore esordiente e intimidito: mette in bocca la estremità senza bocchino e non se ne accorge se non quando fa scattare la fiamma dell’accendino. Allora rimette la sigaretta nel modo giusto e riavvicina la fiamma. Strano: la mano gli trema così forte che per un momento non ce la fa ad accendere. D’improvviso, allora, ho paura: la mano, è chiaro, gli trema perché c’è nella sua testa, per me, un piano bell’e fatto, premeditato, che a lui stesso ispira turbamento, vergogna, chissà, forse spavento. Lo vedo, intanto, abbassare la mano, riposare l’accendino sul tavolo e restare a occhi bassi, in silenzio, guardandosi, si direbbe, la mano che tuttora gli trema. Dice, alla fine, con una voce strana: «Vuoi che lo punisca?»
Impressionata dal tremito della mano e dal tono della voce, adesso vorrei dire di no, che non lo desidero, che ormai ho perdonato. Ma come sempre, vince in me la contraddizione; e così la curiosità prevale sul timore. Balbetto falsamente: «Certo che lo voglio.»
Silenzio. Adesso Paolo guarda alla tavola sulla quale c’è un foglio di carta. Con la penna traccia ghirigori e pare che rifletta. Alfine tende la mano al citofono, preme il bottone. Si sente un gracchiare indistinto; quindi, molto chiara, la voce dell’angelo: «Sì, signor Paolo?»
«Vieni subito su.»
Domando impressionata: «E adesso che gli fai?»
Non risponde. E’ assorto a seguire con gli occhi i ghirigori che va disegnando sul foglio di carta. O meglio, come mi accorgo, a contemplare il tremito della propria mano mentre fa i ghirigori. Aspetto che mi risponda; e intanto, anch’io, chissà perché, fisso la mano che trema, con affascinata curiosità. Poi sento la sua voce, corta e autoritaria: «Spogliati.»
Lo guardo, incerta. Ha parlato a me o me lo sono immaginato? Dico: «Eh?»
Ripete, questa volta in maniera marcata: «Ho detto: spogliati!»
Com’è strano l’animo umano: O per lo meno il mio, così mutevole, così pieno di contraddizioni. Sono una rivoltata, una ribelle, una contestatrice, si può dire, fin dalla nascita. Eppure, ecco, mi basta adesso un ordine dato con la voce che ci vuole e nel momento giusto, per rendermi obbediente e disciplinata come un soldato di fronte all’ufficiale. O meglio, come mi dico, mentre, fin troppo sollecita e zelante, prendo senz’altro a tirarmi via il vestito per la testa, come un attore di fronte al regista. Già, al regista, perché Paolo mi ha imposto, in qualche modo, non so che parte, in non so quale sua commedia; e io, inspiegabilmente soggiogata, a quanto pare, ormai, ho accettato di recitarla.
Ma che parte è, alla fine? Chi me lo fare, per esempio, una volta sfilato il vestito, di andare in punta di piedi a posarlo in una seggiola? E poi di strapparmi in gran fretta gli slip e reggipetto, col timore complice, si direbbe, di non fare in tempo prima che l’angelo, altro attore della commedia, faccia il suo ingresso? Adesso sono nuda; e poiché mi vergogno del mio seno enorme e cascante, ripiego un braccio a sorreggerlo, come si fa con un infante che si allatta. Impacciata, mi avvicino alla tavola e domando timidamente: «Debbo restare in piedi oppure sedermi?»
«Resta pure in piedi.»
Ecco, si bussa alla porta. Invitato da Paolo, con la solita voce strangolata,, a farsi avanti, l’angelo dapprima si affaccia con precauzione tra i due battenti, come per rendersi conto del punto in cui è giunta la rappresentazione. Quindi, senza dubbio soddisfatto da quello che vede, (Paolo assorto, a occhi bassi, a disegnare sul foglio di carta; me, in piedi, nuda ma con gli stivali, di fronte al tavolo), entra francamente e deliberatamente, dicendo: «Signor Paolo, mi ha chiamato?»
«Sì, ti ho chiamato. Allora tu aggredisci nell’ascensore le persone che vengono a visitarmi?»
C’è un momento di silenzio. Poi avviene qualche cosa che, ormai, mi aspettavo; e che mi conferma definitivamente nell’idea che stiamo recitando tutti una commedia. L’angelo, approfittando del fatto che Paolo sta tuttora a guardarsi la mano che trema, si volta verso di me e, sfacciatamente anche se pur sempre da angelo, mi strizza l’occhio, come per dire: “E’ tutta una cosa convenuta tra me e il signor Paolo. Ma noi due siamo d’accordo con lui.” E’ un attimo. Quindi con voce contrita, ossequiosa e falsa, l’angelo spiega: «Signor Paolo, lei ha ragione. Ma la signorina era, come dire, un po’ svestita, e io allora ho perso la testa…»
Faccio appena in tempo a pensare che l’angelo è un pessimo attore, che, ecco, scoppia un urlo disumano: «Zitto, schiavo.»
«Ma signor Paolo…»
«Taci, paria.»
Alla buonora! Se l’angelo recita male, in compenso Paolo recita benissimo; o, meglio, è se stesso, più vero del vero, tanto se stesso da far paura. Balza in piedi, batte un pugno sul tavolo, urla: «Schiavo, paria, se non vuoi che lo dica a tuo padre, adesso devi inginocchiarti davanti a Sebastiana e baciarle i piedi.»
Così la commedia si sviluppa; e svuluppandosi, mi coinvolge sempre più, pur senza lasciarmi indovinare i prossimi sviluppi. Ero, un momento fa, una povera squillo, che si spogliava di fronte al cliente; adesso che sono? Chissà, dorse una specie di dea. Vedo, infatti, quasi incredula, l’angelo gettarsi carponi ai miei piedi, con un buffo gesto di prosternazione; e poi lo vedo che, con vivo movimento volontario, allunga il collo verso i miei stivali. Paolo urla come invasato: «Non basta. Non soltanto devi baciarle i piedi, ma anche leccarli.»
Esegue, l’angelo, o fa finta? Difficile a dirsi perché, a causa degli stivali, non posso capire se li bacia oppure li lecca. Paolo urla: «Tutti e due, tutti e due»; e l’angelo, obbediente, sposta il capo da un piede all’altro. Quindi trasalisco e faccio quasi un salto. Paolo ha fatto il giro della tavola, è venuto a mettersi alle mie spalle, mi ha afferrato da dietro per le braccia, con una forza tremenda, fino a farmi male. Intanto la sua testa si affaccia sulla mia spalla e la sua voce mi suggerisce all’orecchio, sommessa, intensa, frenetica: «E adesso fagli pipì sul capo. Sì, dài, orinagli sulla testa.»
Che mi succede? Semplicemente che non sono più il personaggio della commedia di Paolo; sono di nuovo me stessa. E, infatti, molto naturalmente, d’istinto, rispondo: «Questo, no.»
«Ma perché, no?»
«Perché non mi va.»
«Perché non ti va? E’ un paria, un servo, uno schiavo. Su dài, fagliela sulla testa. Ti do quello che vuoi; ma fagliela.»
Si vede, però, che nei patti tra l’angelo e Paolo non era compresa questa faccenda dell’orina. Infatti l’angelo, dopo un momento di incertezza, di immobilità, come chi non è sicuro di aver sentito bene, ecco, si scosta con ribrezzo sul pavimento, si leva traballante in piedi e dice, trafelato: «Signor Paolo, questo poi, no.»
Sembra che sia finito. Adesso parrebbe che non ci resti a me e all’angelo, proprio come due attori che hanno terminato di recitare, che fare un bell’inchino e andarcene. E invece no; lo sento, con assoluta sicurezza, che la commedia avrà ancora una svolta. Non mi sbaglio. Paolo mi gira intorno, mi passa davanti, grida: «E allora se non vuoi farla sulla sua testa, falla sulla mia. Sì, sulla mia.» E poi ecco, si butta in terra, si inginocchia, mi mette la testa fra le gambe.
Quadro: io a gambe larghe, uno stivale di qua e l’altro di là, il braccio piegato a sostenermi il seno, appoggiata di fianco al tavolo; l’angelo, in piedi, ha qualche distanza, ancora rosso in faccia per lo sforzo; questo pazzo di Paolo, carponi, davanti a me, le braccia alzate a stringermi le ginocchia e la faccia girata in su, in speranzosa attesa, come sotto una doccia che non si decide a zampillare.
Ora, però bisogna sapere che tutto quello che in qualche modo ha a che fare con i bisogni corporali suscita in me una irrefrenabile, isterica ilarità. Perché la suscita? Boh, è un fatto come un’altro e tanto basta. Il riso mi ha già tentato quando Paolo mi ha ingiunto di orinare sul capo all’angelo; ma adesso che mi implora di farlo a lui, scoppia irresistibile. Rido mio malgrado, come un’idiota, come una demente, con una gioia selvaggia e cretina che io stesso non capisco. Poi Paolo insiste, da laggiù in terra dove si accovaccia: «Su, dài»; e io, allora, gli grido di nuovo, contorcendosi dalle risa: «No, no, e poi no, ah, ah, ah, ah.»
«Dài.»
«Ma ti dico di no. Ah, ah, ah.»
Come fuori di sé, allora lui prende improvvisamente a scuotermi per le caviglie, allo stesso modo che si fa con un albero per far cascare i frutti. Vacillo, pur continuando più che mai a ridere. Ma lui mi dà uno scossone così forte che perdo l’equilibrio e urto col fianco contro la tavola. Dal dolore, mi passa il riso. Grido esasperata: «Basta. E adesso lasciami. Sei pazzo?»
Sì, è proprio pazzo. Mi scuote di nuovo, sto per cascare daccapo; l’occhio mi va ad un portacenere di vetro, sulla tavola. L’afferro, mi piego, gli do un colpo sulla testa, con forza rabbiosa. Subito caccia un urlo, lascia la presa, porta la mano al capo, si rovescia sul fianco, resta immobile, ripiegato su se stesso, nella posizione, mi viene fatto di pensare, del feto nel ventre della madre.
Mi chino, faccio per sollevargli il capo, sento alla mano una sensazione di bagnato, mi guardo la mano, vedo che è sporca di sangue. Mi viene una paura terribile; Ma questa paura non solamente non diminuisce ma cresce quando mi accorgo che lui non è affatto morto come ho temuto. In realtà è vivo, fin troppo vivo. Sta immobile, la guancia contro la moquette, la mano sul capo e quei suoi occhi tondi di gufo sbarrati e fissi, a guardare, si direbbe, qualche cosa che è solo lui a vedere. Proprio questi occhi spalancati, che dovrebbero rassicurarmi perché dimostrano che non l’ho ammazzato, mi spaventano definitivamente. Così, quello che non ho voluto fare poco fa di mia volontà, lo faccio ora, mio malgrado, per il terrore. Sento che orino, non però normalmente, come al cesso; ma a schizzi, a spruzzi, a sussulti, alla spicciolata; e poiché vedo che l’orina gli cade sui capelli, sulla faccia e anche su quei suoi terribili occhi sbarrati, mi muovo per non bagnarlo virgola in direzione della seggiola, sulla quale ho deposto il vestito e gli altri panni. L’orina continua a uscirmi a piccoli getti involontari, riga di una striscia scura di bagnato il tappeto chiaro, mi sgocciola sugli stivali. Afferro il vestito, il reggiseno e lo slip, mi volto verso l’angelo che se ne sta ancora lì stupefatto, e gli dico a bassa voce prendendolo per mano: «Vieni, su, andiamo.»
Ma ci tiriamo subito indietro, spaventati e rispettosi: Paolo si sta alzando, ecco, è in piedi. Forse non ci vede, certo non ci guarda. Si passa una mano sulla faccia, quindi, barcollando, attraversa la stanza. Non va, però, alla porta da cui siamo entrati io e l’angelo. Ci passa davanti, apre un piccolo uscio che non avevo notato, scompare. Per l’uscio aperto, sentiamo il rumore dell’acqua che scorre: Paolo si sta lavando. Mi volto verso l’angelo e gli dico: «Dài, scappiamo.»
So che il palazzo è vuoto perché è tutto di uffici ed è domenica. Così non esito a buttarmi giù per le scale, nuda come sono, seni e capelli al vento, coi soli stivali, e con i panni sul braccio. Tenendoci per mano, io trascinandolo e l’angelo lasciandosi trascinare, giravoltiamo di corsa, da una rampa all’altra, per cinque piani arriviamo all’ingresso. Ma non ci fermiamo. La bussola del portiere ci invita; a un mio sguardo interrogativo, l’angelo risponde con un cenno degli occhi, come per dirmi che ho indovinato. Gli do una piccola stretta alla mano come per suggellare l’intesa, lui fa lo stesso; quindi correndo, eccoci precipitiamo per una scaletta angusta, giù giù, nel seminterrato, dov’è il quartierino del portiere. In fondo, è la fuga dall’ufficio di Paolo che continua; e pur continuando, va a concludersi nel luogo prevedibile: il lettone matrimoniale dei genitori dell’angelo.
Più tardi, stiamo in silenzio, supini, distesi l’uno a fianco dell’altro, sulla coperta di seta dai colori sgargianti. Come mi piacciono i seminterrati, per farci l’amore e poi rilasciarmi a sonnecchiare dopo l’amore. La stanza ha il soffitto molto basso; ed è piena di mobili e di cianfrusaglie; e c’è l’odore di chiuso e di cucina, come in tutte le portinerie. Dietro i vetri opachi delle due finestrelle a bocca di lupo, vedo ogni tanto trascorrere appaiate le ombre delle gambe dei passanti. Lo specchio dell’armadio, laggiù in fondo al letto, riflette di scorcio i nostri due corpi nudi, coi piedi che sembrano attaccati alle ginocchia. Io stringo in mano il membro dell’angelo, circondandolo con due dita come un anello; lui mi posa, a piatto, sul pube, la mano aperta. Alla fine, l’angelo domanda: «Secondo te, il signor Paolo perché fa quelle cose?»
«Perché gli piace.»
«E perché gli piace?»
«Boh.»

Riccardo Gasperina Geroni, critico letterario, nel suo saggio Donne ribelli, donne oggetto: il mondo femminile nei racconti di Alberto Moravia individua nell’ultima raccolta, appunto, Boh, una “rabbia” nel mondo femminile, così com’è testimoniato nel racconto omonimo, che rivela ciò che appare esternamente, ma senza che ve ne sia un motivo. Sebastiana, infatti, ex sessantottina, sfoga la “rabbia” adescando clienti e quindi ingiuriandoli rispetto alla loro posizione sociale, ma da dove derivi tale rabbia non è dato sapere. Potremo parlare di, a fronte di una mancata rivoluzione, di una rivolta che tuttavia anch’essa non trova un fine pratico/morale, se non, dopo l’attacco d’ira, sentendosi “placata”. Tale disegno non funziona con il cliente nobile e pervertito, che le offre del denaro; ma proprio quando quest’ultimo cerca di obbligarla a dei riti urofagici, lei si riscatta con l’angelo (che ha tentato di sedurla nell’ascensore) scappando e facendoci l’amore. Ma ciò che rimane in loro due incompreso è il meccanismo dell’inconscio, in questo caso, nell’intero racconto, sia dell’esplosione di rabbia, sia delle pratiche sessuali: ciò che la ragione non riesce a controllare bisogna commentarlo, secondo Moravia, solo con un “boh”.

Se abbiamo analizzato le tre raccolte femminili insieme, come figlie di una stessa ispirazione (tanto che la stessa casa editrice ne fa un’edizione unica nel 1976), non dobbiamo dimenticare  che, in questa prima metà degli anni ’70, ad un anno del Paradiso pubblica il romanzo Io e lui (1971) e l’anno seguente un ennesimo libro di viaggio, questa volta in Africa, il cui titolo è A quale tribù appartieni? (1972)

Io e lui

 

Il protagonista di Io e lui Federico, conduce una vita di stile borghese: ha trentacinque anni ed è sposato con Fausta, da cui ha avuto un figlio, Cesarino. Federico ha velleità artistiche, scrive sceneggiature e vorrebbe dirigere il film “L’espropriazione“, ma il suo tentativo rimane frustrato in quanto non riesce a “sublimarsi”, perché il suo “es” (il suo membro “sproporzionato”) non riesce a stare tranquillo, ma interloquisce continuamente facendolo fallire sessualmente, umanamente e lavorativamente. Federico e il suo “lui” seguono da vicino i mutamenti storici e sociali del Sessantotto con curiosità e ammirazione; vorrebbe incarnare il modello di intellettuale militante di sinistra proposto dai movimenti, ma appartiene a una generazione precedente ed è bollato dai gruppi rivoluzionari come reazionario.

Alla base dell’idea della stesura del romanzo ce la offre Moravia in un dialogo con il critico Geno Pampaloni: «volevo da tempo scrivere un libro comico; da sempre consideravo il romanzo comico come una meta da raggiungere. Di fronte ad uno sterminato numero di romanzi seri, i grandi romanzi comici si contano sulle dita di una mano o poco più… […] La comicità mi pare qualche cosa di molto difficile: essa implica l’esperienza indispensabile della serietà, mentre la serietà non implica affatto l’esperienza della comicità. C’era per me anche un altro motivo per scrivere un romanzo comico: ero stufo del mio solito personaggio dell’intellettuale. Ho voluto prenderlo in giro, renderlo ridicolo. L’ho creato sessualmente superdotato e intellettualmente infatuato di psicanalisi o meglio dell’idea di origine psicanalitica che l’arte sarebbe il risultato di quel processo psichico che va sotto il nome di sublimazione. E’ un po’ la stessa idea de L’amore coniugale nel quale il protagonista si astiene dal rapporto sessuale con la moglie per conservare intatta tutta la sua energia creativa che vuole invece dedicare al romanzo che sta scrivendo. Ma L’amore coniugale è in chiave drammatica, Io e lui in chiave comica

Io e lui (1973) - IMDb

Già nella descrizione di Rico vi è qualcosa di satiresco: non alto, pelato, con stomaco prominente e un membro di grandezza spropositata. Ma è soprattutto nella banalizzazione che il protagonista fa del concetto freudiano di sublimazione, il quale può essere inteso come «la trasformazione di pulsioni sessuali o aggressive, poco accettabili socialmente, in attività intellettuali o comportamenti ai quali la società riconosce un pieno valore», che troviamo il nucleo “comico” del romanzo. Infatti Rico si sente desublimato in quanto il suo “lui” prevale sul suo “io”, tanto da indurlo alla ricerca di una continua attività sessuale, non permettendogli di indirizzare la sua pulsione erotica verso un qualcosa di artistico, quale, in questo caso, la regia.

Il suo problema potrebbe essere risolto dopo la conoscenza di Irene, incontrata in banca mentre preleva soldi da versare alla “causa” rivoluzionaria che gli ha commissionato la sceneggiatura del film a cui lui vorrebbe fosse affidata, appunto, la regia. Irene, infatti, non ricerca rapporti sessuali con uomini, in quanto si è votata all’autoerotismo; creare un rapporto con lei significherebbe dunque mettere a tacere il suo organo, che tuttavia, “per dispetto” sottolineando la femminilità delle sue gambe lo porta verso la sessualità che Rico vorrebbe reprimere. Di fronte a tanta insistenza del suo organo, decide di punirlo tramite un suo amico di mestiere psicoanalista:

ANALIZZATO!

La mattina, appena svegliato, mentre la mia mente è ancora offuscata e impotente, “lui” si scatena. Come se volesse dimostrarmi che la vera continuità della vita, il vero filo d’Arianna in questo labirinto assurdo non è la mia ambizione sublimatoria bensì la sua ossessiva attività irreparabilmente desublimata, “lui” riprende l’avvenimento del giorno prima e me lo ripropone nel ricordo, beninteso a modo suo. Queste rievocazioni mattutine, per lo più le subisco, insonnolito, intorpidito, e non del tutto ostile, quasi concedendomi nel dormiveglia una vacanza di onirico e inoperante erotismo. S’ intende che “lui” accompagna le rievocazioni con le solite metamorfosi, come a sottolineare la sua completa, proterva autonomia che gli consente di essere attivissimo, non soltanto quando sono sveglio ma anche quando sono addormentato.
Così anche stamane, il giorno dopo il mio primo incontro con Irene. Apro gli occhi e mi accorgo di star coricato su un fianco, con “lui” adagiato sul lenzuolo, così pesante e così enorme da suggerire l’idea che io sono una campana cascata giù dalla sua torre e giacente spezzata sul suolo, con il solo, massiccio battacchio rimasto intatto tra i frantumi. Paragone imprudente; “lui”, infatti, interloquisce subito, tutto vispo: «Sta’ tranquillo, la campana non è infranta, sentirai tra poco che rintocchi!» Trascrivo poi il dialogo così come è seguito tra noi due:
Io: «Ma che diavolo dici? Quali rintocchi? Si può sapere perché sei già così eccitato alle otto del mattino? Non potresti star tranquillo e riposarti, come faccio io, come fanno tutte le persone sensate?»
“Lui”: «Le gambe di Irene!»
Io: «Non ricordarmi la serata di ieri. Hai rovinato tutto. Per colpa tua, forse, non rivedrò mai più Irene. La sola donna al mondo che potrei amare. L’unica. Ma già, cosa ne sai tu dell’amore?»
“Lui”: «Le gambe di Irene!»
Io: «Si era abbandonata, mi aveva fatto delle confidenze che probabilmente non aveva mai fatto a nessuno… e tu, stupido e brutale come un bufalo, eccoti a guastarmi ogni cosa!»
“Lui”: «Le gambe di Irene!»
Io: «Le telefonerò, questo è certo. Ma prima di farmi vivo con lei, voglio esser sicuro che tu non rovinerai di nuovo ogni cosa con il tuo ignobile comportamento.»
“Lui”: «Le gambe di Irene!»
Io: «Amerò Irene, lo sento, ne sono sicuro. Amarla, sarà per me come diventare regista: passare, cioè, dal rango dei desublimati a quello dei sublimati. Ma perché questo avvenga, tu devi riconoscere una volta per tutte la verità della sublimazione.»
“Lui”: «Le gambe di Irene!»
Io: «Ti propongo un patto: libertà, per te, di intervento, sia pure velleitario e votato al fallimento, in tutte le altre occasioni della mia vita. Ma in presenza di Irene, assoluta passività, o meglio, inesistenza.»
“Lui”: «Le gambe di Irene!»
Io: «Adesso devi dirmi se accetti il patto.»
“Lui”: «Le gambe di Irene!»
Io: «Dico a te, canaglia. Accetti o no?»
“Lui”: «Le gambe di Irene!»
Io: «Così questa è la tua risposta, questo ritornello? Ho capito. Dovrò adottare con te delle misure… drastiche.»
“Lui”: «Le gambe di Irene!»
Io: «E’ un pezzo che l’ho deciso. Ho differito finora l’attuazione del mio progetto nella speranza che saresti rinsavito da solo. Questo non è avvenuto. Dunque, sia pure con rincrescimento, mi vedo costretto ad agire.»
“Lui”: «Le gambe di Irene!»
Io: «Oggi stesso andiamo da Vladimiro e questa volta non ci sono santi: vuoterò il sacco fino in fondo. Chi ci rimetterà sarai proprio tu. La tua forza sta nell’oscurità, segretezza, incertezza dei nostri rapporti. Illuminarli con la luce della ragione vuol dire distruggerti. Ma tanto peggio per te. L’hai voluto.»
Per capire questo mio minaccioso discorso bisogna sapere che Vladimiro è un mio amico dei tempi dell’università, il quale esercita o meglio (data la scarsità della clientela) vorrebbe esercitare la professione dello psicanalista. Privo o quasi di malati da curare, Vladimiro, forse anche per questo, è un dottore molto serio. D’altra parte la sua serietà è, per così dire, garantita dal fatto che lui stesso è un perfetto caso di grave nevrosi, manifestamente bisognosa di una prolungata cura psicoanalitica. Ci vado anche per questo. Nevrotico e al tempo stesso medico specializzato in nevrosi, sono convinto che Vladimiro è il solo che possa comprendere il mio particolarissimo caso il quale, a ben guardare, non è propriamente da curarsi (che c’è, infatti, di patologico nell’essere due invece che uno?) ma soltanto da prendere in considerazione con spirito amichevole e privo di pregiudizi.
Così, quello stesso pomeriggio, previa telefonata per fissare l’appuntamento (Vladimiro, al telefono, pretende a tutta prima di non sapere dove infilare la mia visita, ma poi, naturalmente, accetta l’ora che preferisco). Eccolo, il quartiere: strade, o meglio trincee di cemento, tra file e file di casamenti gremiti di inutili balconi; negozi dalle grandi vetrine piene di merce scadente; utilitarie disposte a spina di pesce lungo i marciapiedi; non una sola macchina di lusso: eh, eh, non ha fatto molta strada, Vladimiro! E’ la prima volta che vado da lui; un tempo viveva in famiglia, poi si è sposato, ha cambiato casa ha messo su lo studio. Perché provo soddisfazione al pensiero che non abbia avuto successo nella sua professione? Perché, almeno di fronte lui, non voglio stare “sotto”. Lo conosco troppo bene; so con precisione che anche lui è desublimato, seppure in maniera diversa dalla mia; non ammetto assolutamente che mi stia “sopra”. Fallito io, fallito lui; nevrotico io, nevrotico lui; velleitario io, velleitario lui: perché dovrebbe starmi “sopra”? Tuttavia, pur guidando la macchina attraverso le strade affollate, mi sento sempre più nervoso al pensiero di incontrarmi con Vladimiro. Quale contegno tenere con lui affinché fin da principio si renda conto che con me certe arie di superiorità, sia pure scientifica, deve farsele passare? Ci penso su e decido finalmente: sarò anch’io scientifico come lui, anzi più di lui. Vale a dire che invece di un dottore e di un paziente, ci saranno due dottori e un paziente. Vladimiro sarà uno dei dottori, io l’altro. E il paziente, chi sarà? Ovviamente “lui”.
Rinfrancato da questa soluzione, parcheggio la mia utilitaria tra le tantissime utilitarie di una strada polverosa e sconvolta che (lo noto con soddisfazione) il comune di Roma, da anni, deve aver dimenticato di asfaltare. L’appartamento è al terzo piano di uno di quei casamenti impiegatizi. Vi salgo in ascensore. Eccomi sul pianerottolo; vi danno tre porte: l’appartamento di Vladimiro non può essere molto grande. Suono, mi apre non già un’infermiera in camice bianco o una segretaria occhialuta, ma lui stesso, Vladimiro, in maniche di camicia sbracciata, con il colletto aperto, senza cravatta. Dunque non può permettersi neppure un’infermiera, neppure una segretaria! Mentre ci stringiamo la mano, do un rapido sguardo in giro: ingresso minimo, una carrozzina da bambini in un angolo, un attaccapanni. Per l’aria, un appetitoso, ma non precisamente lussuoso, odore di cucina. Vladimiro mi dice: «Sono contento di vederti,» battendomi la mano sulla spalla in maniera non protettiva, forse veramente amichevole, di un’amicizia tutta sua, però, patetica e nevrastenica. Eccoci nello studio. Una stanza piccola, un cubo, appena lo spazio per il tavolo, la libreria, il sofà degli interrogatori. Alla finestra pendono due tende verdi, povere e smilze, tra le quali si intravede la brutale facciata piena di balconi del casamento di fronte. C’è un’aria pulita, ordinata ma anche irreparabilmente modesta in questo studio. Non posso fare a meno di pensare che su quel sofà non si distende mai nessuno. Povero Vladimiro! Ancora uno che, come me, avrà una moglie insaziabile la quale, in complicità con il suo “lui”, gli sottrae tutta l’energia di cui avrebbe bisogno per avviare un sia pure timido inizio di sublimazione. Ma lui non ha avuto il coraggio di andarsene, come me. E dire che è analista e che non ha neppure la scusa dell’ignoranza.
Vladimiro siede dietro il tavolo e mi fa cenno di prendere posto su una seggiola davanti a lui. E’ alto, magro e secco. Fuori dalle mezze maniche della camicia escono due braccia scarnite, prive di muscoli. I capelli sono corti e ispidi di un bruno incerto che tende al giallo, come la paglia vecchia. La faccia di adolescente precocemente invecchiato è segnata da due grosse rughe tristi, così che pare storta. Gli occhi sono di un brutto colore tra il verde e il giallo, come di cane. Ha il naso appuntito ma con le narici larghe. E un’espressione amara sulla bocca grande sinuosa. Sebbene siano le sette e faccia ancora giorno, accende una lampada fortissima e ne dirige il raggio in faccia, abbagliandomi. Gli dico subito: «Piantala con quella lampada. Non sono uno che si lascia impressionare, non sono il cliente al quale si possano spillare le cento o duecento mila lire al mese. Sono soltanto un vecchio amico che viene ad esporti il suo caso per niente affatto clinico.»
Sorride, di un sorriso buono, anche se nevrotico. Abbassa la lampada e dice: «Scusami, ma la lampada, qualche volta, è utile.»
Prendo il mio tempo. Cavo di tasca un pacchetto di sigarette, ne offro a Vladimiro che rifiuta, ne accendo una, ripongo accendino e sigarette in tasca, aspiro rigetto il fumo dalla bocca e dalle narici. Tutto questo, sedendo curvo, le braccia incrociate sul tavolo, gli occhi rivolti in basso. Dico alla fine: «E tu come te la passi? Ti sei messo bene: un bello studiolo, raccolto, tranquillo, intimo, arredato con gusto sobrio. Scommetto che tua moglie ti ha scelto i mobili.»
«No, a dire il vero li ho scelti io.»
«Ma tua moglie lavora? Ti aiuta nella professione?»
«Mia moglie non lavora.»
«E che fa?»
«Fa la moglie. Voglio dire: lavorava, si occupava di assistenza sociale, ma abbiamo avuto due bambini e allora, siccome non abbiamo la bambinaia, se ne occupa lei.»
Parla lentamente, cercando le parole, con visibile imbarazzo, con un’area di sofferenza, di disagio, come se stesse sulle spine. Noto sul tavolo una fotografia incorniciata d’argento: «Questa è tua moglie?»
«Sì.»
«Permetti?»
Prendo la fotografia e la guardo: l’avrei giurato, una bruna dagli occhi neri, dolci, struggenti, dal visino affilato, dedicato, cereo. Sono queste le donne pericolose. Molto più pericolose di Fausta per esempio, nonostante la vistosa sensualità di quest’ultima. Quegli occhioni sentimentali, chiaro indizio di un sesso vorace, spiegano molte cose: la nevrosi di Vladimiro, il suo fallimento, la modestia della casa, l’odore di cucina nell’ingresso. Eh, sì, con una moglie simile la desublimazione è sicura, fatale, inevitabile, irreversibile. Rimetto la fotografia sulla tavola e dico: «Molto carina, tua moglie.»
Non raccoglie il complimento. Si torce sulla seggiola, pronuncia alla fine: «Rico, tu mi hai telefonato dicendomi che si trattava di una cosa urgente. Beh, di che cosa si tratta?»
Ci siamo! Non rispondo subito. Fumo, meditabondo, guardando in basso. Voglio essere scientifico, e, per esserlo, debbo impostare subito il tono giusto. Alla fine, dico con voce chiara, staccando bene le sillabe: «Vladimiro, prima di tutto devo fare una premessa doverosa.»
«Sentiamo.»
«Devi sapere che, per mia sfortuna o fortuna, non so, la natura mi ha eccezionalmente dotato.»
Ci sono le persone impassibili, la cui impassibilità è dovuta ad una completa mancanza di espressione. Ce ne sono altre, invece, che sono impassibili perché, pur essendo fortemente espressive, hanno una sola espressione, sempre la stessa, qualunque cosa avvenga. Vladimiro appartiene alla seconda categoria. Sempre, inalterabilmente, lui ha in viso un’espressione perplessa, angosciata, preoccupata, imbarazzata; ma poiché questa espressione lui ce l’ha egualmente sia che gli dica “Buongiorno”, sia invece che gli si annunzi: “Dottore, vorrei uccidere mio padre”; è come, a ben guardare, se fosse costantemente del tutto inespressivo e impassibile. Così adesso. Mi guarda con aria angosciata e io penso che quell’aria lì lui ce l’ha sempre e così sento il bisogno di spiegarmi meglio, perché lui, forse, non mi ha neppure udito: «In altri termini, Vladimiro, per dirla in parole povere, ho un organo sessuale di proporzioni veramente straordinarie.»
Faccio una pausa, aspiro una boccata di fumo, rigetto il fumo dal naso e fisso il piano del tavolo. Quindi riprendo: «Tu mi dirai che non è questione di proporzioni ma di educazione. Hai ragione. Ci sono degli organi sessuale giganteschi che però stanno restare al loro posto e così passano quasi inosservati; e ce ne sono invece di molto piccoli che si agitano senza discrezione e si fanno notare. Ma il peggio avviene quando è l’organo gigantesco a agitarsi, a farsi notare. Ora, questo, Vladimiro, è purtroppo il mio caso.»
Faccio una pausa, come per sottolineare le mie ultime parole, aspiro una boccata di fumo, la rigetto dal naso con aria riflessiva e compresa. Vladimiro si sostiene il viso con la mano sinistra e l’indice puntato verso l’estremità del sopracciglio sinistro che, in questo modo, risulta tirato molto in su; ma non apre bocca: aspetta.
Riprendo, spazzando via, con la mano, dal tavolo alcune briciole di cenere cadute dalla sigaretta: «Come avrai capito, si tratta di un organo che sarebbe eufemistico definire invadente. Per essere esatti, non mi lascia letteralmente vivere. Sì, proprio così: vivere. Io non chiederei di meglio che farmi, come si dice, i fatti miei, ma “lui” interviene. Continuamente. Mette il naso, praticamente, in tutto quello che faccio; si rende visibile nei momenti meno opportuni; tenta di forzarmi la mano; e, insomma, pretende da me un’ubbidienza che sono assolutamente risoluto a negargli.»
Pausa e silenzio. Vladimiro mi guarda con attenzione; ma non commenta. Ripiglio il mio discorso: «A questa invadenza, a questa, diciamolo pure, sua prepotenza, cosa posso opporre io? Chiaro: sia una prepotenza pari, o meglio superiore alla sua, sia, invece, la ragione. Questa seconda alternativa è la mia, Vladimiro, va da sé. Sono infatti un uomo di cultura, un intellettuale. Qualsiasi ricorso alla violenza mi ripugna. Così, fin da principio, con “lui”…»
«Chi è “lui”?»
«Il mio organo. Dicevo: così, fin da principio con “lui” ho adoperato la ragione. Discuto, cerco di ragionare, cercò di persuaderlo: tra me e “lui” è un continuo dialogo. O meglio, per essere precisi, un continuo battibecco.»
«Tu gli parli e… “lui” ti parla? Vuoi dirmi che tu veramente gli parli e “lui” veramente ti parla?»
«Sì, veramente. Che c’è di strano?»
«Uhm, nulla. Ma che… voce ha?»
«Dipende. Una voce, comunque, intonata al suo carattere. Il più delle volte insinuante, sussurrante, subdola, viscida. Ma in determinate circostanze, quando gli prende, anche aggressiva, violenta, perentoria.»
«Quando gli prende, eh!»
«Sì. Quando gli prende. Qualche volta, ma più raramente, può essere addirittura sinistra, truce. Se, però, siamo soli, io e “lui”, allora il suo tono più frequente è quello della vanagloria, della prosopopea.»
«Perché… è vanitoso?»
«Vanitoso è poco dire. Si crede assolutamente il più bello, il più forte, il più potente della sua, diciamo così, categoria. Secondo lui, nessuno, nel mondo intero, gli sta a pari. Un mostro di vanità!»
«Ma… parla di qualsiasi cosa? Oppure interviene soltanto per le cose del sesso?»
«Vladimiro, tu sai benissimo che non c’è nulla che non possa essere trattato in chiave sessuale. Letteratura, arte, scienza, politica, economia, storia, tutto può essere guardato da quel punto di vista lì. Non dico che non sia, alla fine, riduttivo. Dico che è una delle cose che si fanno. E “lui” lo fa, oh se lo fa!»
«Ma… per esempio…?»
«Per esempio: cosa c’è di meno sessuale di un paesaggio? Montagne, pianure, fiumi, vallate: dov’è il sesso? Eppure. L’altro giorno, per esempio, faccio una gita in campagna. La strada, a un certo punto, si infila tra due colline rotondeggianti, oblunghe, che via via si abbassano fino a diventare due rilievi abbastanza pronunziati. Ci crederesti? “Lui”, subito, prende a sussurarmi: “Non sono due colline, sono due gambe femminili e anche molto belle. Divaricate, spalancate. E la strada corre dritta verso la gola in cui si congiungono o meglio sembra che si congiungano. E adesso noi, con la nostra macchina, penetreremo con violenza, a 150 all’ora, nella gola” eccetera, eccetera. Vedi il doppio senso, no?»
«Lo vedo, infatti. Ma… in quali altri modi interviene nella tua vita?»
«Coi sogni, naturalmente.»
«Sogni erotici, eh?»
«Non voglio dilungarmi sui sogni, Vladimiro. Quello è il suo, diciamo così, regno. Quello che ci combina alla fine non mi riguarda e non mi interessa. Semmai vorrei esprimere un voto: che lasciasse stare i sogni realistici e si tenesse unicamente ai simbolici.»
«Realistici?»
«Non mi piace, per esempio, sognare che sono a letto con una donna di cui non vedo la faccia perché mi mostra le spalle. Poi la donna si volta e scopro che è mia madre. Preferisco di gran lunga sognare che salgo una scala e in cima alla scala c’è una casa con la porta aperta e io mi dirigo verso questa porta aperta, gradino dopo gradino, e magari la casa ha un aspetto lugubre, con tutte le finestre chiuse ed è circondata da cipressi, e proprio sul punto di varcare la soglia, qualcuno mi pugnala la schiena e io cado in terra e mi sveglio. Si capisce: quella casa dalla porta aperta è mia madre. L’aria lugubre della casa, è il mio senso di colpa. La pugnalata nella schiena, io stesso me la do, per impedirmi di commettere l’incesto e così via. Ma, Vladimiro, siamo pur sempre nel simbolismo, cioè nell’indiretto, nel mediato, nel rebus, nell’indovinello. S’intende, io posso decodificare il sogno, sciogliere il rebus; ma sono anche libero, liberissimo di prendere la rappresentazione simbolica alla lettera, senza ricercarne il significato. Ebbene, Vladimiro, io preferisco il simbolo alla realtà. Sognare una casa con la porta spalancata mi lascia indifferente. Mi dico: “Toh, che sogno strano, chissà cosa vorrà dire.” E poi non ci penso più. Invece sognare mia madre, proprio mia madre con la sua faccia, la sua espressione e tutto quanto, a letto con me, ammetterai che è piuttosto seccante. Ti svegli, ci ripensi e ci rimani male, magari, tutto il giorno. Ora, purtroppo, “lui” da qualche tempo ha quasi completamente abbandonato il simbolismo per il realismo. Non mi fa più sognare, per esempio, un orologio, noto simbolo del sesso femminile, come un tempo; mi presenta, invece, brutalmente, anche se in sogno, il sesso femminile vero e proprio, perfetto in tutti i suoi particolari, con la sua forma, il suo colore, magari i suoi movimenti, così com’è nella realtà della veglia. Ora l’orologio me lo dimenticavo appena sveglio; il sesso, no. E io lo so perché fa così, Vladimiro. Per dispetto. Già, perché, per motivi che sarebbe troppo lungo esporre, io e “lui”, da qualche tempo siamo in pessimi rapporti. Allora, “lui” si vendica in questo modo: abbandonando il simbolismo nel quale, notalo bene, è maestro, per un realismo o meglio naturalismo quanto mai rozzo e grossolano.»
Scuoto il capo, pensoso, deprecativo, meditabondo, guardando in basso e buttando fumo dalle narici. Vladimiro fa un gesto con la mano come per accantonare qualche cosa. «Dei sogni parleremo in seguito. Riprendiamo piuttosto la questione del dialogo. Dunque voi due discorrete tutto il tempo. Ma in che modo? Voglio dire: tu gli parli ad alta voce o che?»
«Soltanto quando sono solo e sono sicuro che nessuno ci ascolta. Già, perché si tratta di cose talvolta, come dire?, un po’ delicate. E allora è meglio prendere qualche precauzione.»
«Quando siete soli, dunque, tu gli parli ad alta voce. E lui cosa fa?»
«Mi risponde.»
«Anche lui ad alta voce?»
«Si capisce»
«Vuoi dire che tu lo senti come senti me in questo momento?»
«Certo.»
«Lo senti con le orecchie?»
«Scusa, Vladimiro, con che cosa vuoi che lo senta? Con il naso?»
«Questo, però, quando sei solo. E quando sei in compagnia? Anche in presenza di terzi parlate ad alta voce?»
«No, in presenza di terzi non parliamo ad alta voce. Parliamo mentalmente.»
«Mentalmente?»
«Sì, cioé io penso una cosa e “lui” ne pensa un’altra e così il dialogo o meglio il litigio fra me e “lui” continua lo stesso. Ma, in presenza di terzi, “lui” a dire il vero, più che dialogare o magari litigare, tende a comandare.»
«Comandare?»
«Sì. Poi, naturalmente, io sono più o meno libero di ubbidire. Ma “lui”, il tentativo di imporsi a me, lo fa sempre.»
«E cosa comanda?»
«Chiaro: di agire secondo i suoi desideri.»
«Per esempio?»
«Beh, mettiamo che ci sia un ricevimento in una villa, in questi giorni d’estate. Una bella ragazza accetta di passeggiare con me per i viali del giardino. “Lui” mi comanda subito di spingere la passeggiata fino ad una certa panchina. Poi mi comanda, una volta seduti, di portare la conversazione su certi argomenti. Quindi, mi comanda di accostarmi molto vicino alla ragazza. Finalmente, dopo qualche approccio preliminare, mi comanda di saltarle addosso.»
«Saltarle addosso?»
«Beh, sì, tirarle fuori un seno, ficcarle le mani sotto la gonna, sbatterla sull’erba, e roba simile.»
«Lui comanda. E tu?»
«Di solito, prima di tutto, cerco di convincerlo che non è il caso. “Gli” faccio osservare per esempio che la ragazza è fidanzata; che mi metterei nei guai; e così via. Niente, fiato sprecato, non mi dà retta. Va a finire che in un momento di debolezza gli cedo. Salto addosso alla ragazza e naturalmente vengo respinto e magari anche schiaffeggiato.»
«Sempre così finisce? Con uno schiaffo?»
«Spesso. Ma intendiamoci, Vladimiro. Non perché io non piaccio alle donne; ma perché “lui” non è affatto psicologo, intuitivo, insomma, diciamolo pure, intelligente; e così non capisce mai quando certe cose si possono fare e quando no. Non è mica un caso che nel linguaggio corrente “lui” sia spesso nominato come il simbolo di un certo particolare tipo di stupidità.»
«Quale specie di stupidità?»
«Beh direi la stupidità che si esprime nella presunzione e nella mancanza di tatto. Sapessi le brutte figure mi fa fare? Da farmi vergognare come un ladro! Da farmi desiderare di scomparire sotto terra!»
Scuoto il capo, pensoso e amaro ma pur sempre scientifico, cioè distaccato e obiettivo. Ho le mani sulla tavola, una delle mani stringe tra le dita la sigaretta; l’altra ha al medio un anello con un cammeo giallo che apparteneva a mio padre. Porto la mano con la sigaretta alla bocca, aspiro un po’ di fumo, tossisco, riprendo con voce seccata e severa: «Nel mio caso, poi, le brutte figure sono aggravate dal fatto che non sono un uomo tutto casa, moglie, bambini, famiglia e basta. Sono un professionista serio, noto e stimato, in un ambiente assai particolare, quello del cinema. Dico particolare perché l’ambiente cinematografico è piuttosto favorevole all’intraprendenza di individui senza scrupoli come “lui”. Centinaia, che dico? migliaia di donne sognano di lavorare nel cinema e cercano di farsi largo in tutti i modi, non escluso, appunto, quello di fare appello non già al giudizio professionale, alla considerazione tecnica, insomma alla ragione, ma direttamente, sfrontatamente, a “lui”.»
Sto zitto un momento, storcendo la bocca con disgusto, sotto lo sguardo attento di Vladimiro. Riprendo, d’improvviso: «E poi c’è la questione dell’indiscriminazione.»
«L’indiscriminazione?»
«Sì. Finora ho parlato di donne giovani a cui posso piacere o meno. Ho parlato di brutte figure. Ma la sua indiscriminazione si spinge molto oltre la brutta figura.»
«Oltre?»
«Sì, oltre. Gli piacciono tutte: le brutte come le belle, le giovani come le vecchie e purtroppo anche le giovanissime. Intendiamoci, Vladimiro, tutto questo rimane puramente teorico perché, dopo tutto, per agire, “lui” ha bisogno di me senza di me non può nulla. Non toglie, però, che qui si esce dal campo della normalità e si entra a vele spiegate nella psicopatologia e, magari, nella medicina legale. Trovare qualche cosa di eccitante nel corpo disfatto di una vecchia o in quello ancora asessuato di una bambina è infatti perversione bella e buona, almeno secondo me: dico bene?»
Vladimiro non risponde. Quel “dico bene?” rimane per aria, sospeso nel silenzio. Insisto: «Tu forse mi troverai troppo severo, troppo rigido. Ma io, su certe cose, non transigo. Assolutamente. E poi, lasciamelo dire, Vladimiro, quel che è troppo è troppo. La misura è colma.»
Vladimiro tace pur sempre, considerandomi fissamente ma come da lontano, quasi mi vedesse attraverso un cannocchiale rovesciato in fondo al quale la mia immagine gli appare piccolissima anche se nitida. Riprendo: «Beninteso “lui” si difende. Si giustifica. Non tanto, forse sul piano morale, perché, come avrai capito è assolutamente amorale, quanto sul piano, come dire?, storico-culturale. Ho detto che è stupido; ma non ho detto che è incolto. Naturalmente si tratta di una cultura raffazzonata, orecchiata, da autodidatta. Del resto dove troverebbe il tempo per dedicarsi agli studi, che richiedono, in ogni caso, una concentrazione di cui è assolutamente incapace? Ma, soprattutto, direi che la sua è una cultura specializzata. Sulle cose che lo riguardano, ha una discreta informazione. Delle altre non sa niente. Dunque… ma perché ho parlato della sua cultura?»
«A proposito dell’incriminazione.»
«Ah, sì, volevo dire che la sua indiscriminazione,“lui” la giustifica con argomenti culturali. Come ho detto, si tratta di nozioni più che altro storiche, pescate qua e là, senza metodo e senza rigore, col solo scopo, eminentemente pratico, di giustificarsi nei nostri battibecchi. E’ una cultura sui generis. Niente di profondo, niente di organico, niente di sistematico. Qualche frettolosa lettura di volgarizzazione sulle religioni primitive; qualche incursione nell’antropologia; qualche scorribanda nell’esoterismo orientale. Ma di tutto quanto, Vladimiro, un pizzico, non più che un pizzico. Non toglie che, con la consueta faccia tosta, “lui” domani, a difesa della propria indiscriminazione, ti scaricherà sulla testa, tutti in un mucchio, i nomi di non so quante divinità: da Siva a Priapo, da Mutunnus Tutunnus a Konsei Myojin, da Hermes a Subigus, da Baal-Peor a Min, da Osiride a Kunado, da Frey a Pertunda che, a suo dire, sarebbero state in passato, altrettante sue precedenti incarnazioni. Così l’indiscriminazione di oggi sarebbe l’universalità di ieri. E “lui”, oggi come ieri, sarebbe un dio, con una scala di valori tutta sua. D’altra parte la sua riduzione a semplice parte del corpo umano, per giunta indecente e vergognosa, andrebbe interpretata come una vendetta del suo maggiore rivale, il Dio cristiano. Vedi il punto? La megalomania? L’egocentrismo? E al tempo stesso la mania di persecuzione che va sempre insieme con la mania di grandezza? Un dio! Come se non bastasse, un dio perseguitato da un’altro dio, rivale invidioso e malvagio! Insomma, se non ci fosse stato il Cristo (continuo a citarlo), “lui”, almeno qui in Italia, sarebbe ancora sugli altari, oggetto di un vero e proprio culto, sotto il bel nomino di dio Fascinus.»
«Il dio Fascinus?»
«Sì, il dio Fascinus. E’ Il suo nome preferito. E’ anche quello che rivela il suo vero carattere, in fondo piccolo-borghese. Dico piccolo-borghese perché soltanto ad un professorucolo di scuole medie di provincia verrebbe in mente di nobilitare le proprie tendenze particolari con riferimenti classicheggianti. Fascinus. Dal latino “fascinum” cioè incantesimo. Vedi il punto? Capisci dove vuole andare a parare? Come dire: affascinante, fascinoso, che emana un fascino al quale è impossibile sottrarsi, cioè che agisce sugli uomini come un incantesimo, come una magia, come una stregoneria. Fascinus! In questo nome c’è tutta la sua vanità, la sua presunzione, nonché il suo pressapochismo, il suo orecchiantissimo culturale!»
Scuoto il capo, con deplorazione, con compatimento, con disprezzo. Ripiglio dopo un momento di silenzio: «Sai cosa gli rispondo quando mi tira fuori il suo Fascinus? Gli rispondo: “Altri tempi. Allora affascinavi, oggi disgusti, quando non fai ridere. Non c’è Fascinus che tenga, certe cose semplicemente non si fanno. non si debbono fare, e tutti i Fascinus della Roma antica non giustificano né tantomeno scusano l’erotomania da strapazzo nella Roma di oggi.” Ma lui ha la risposta pronta, questo bisogna riconoscerlo. Lo sai cosa risponde? “Altri tempi, che vuol dire altri tempi? Io sono fuori del tempo. Non esiste il tempo per me.” Canaglia, sì, quanto vuoi, ma ingegnoso, loico, sofista.»
«Ma sono sempre così erudite le vostre discussioni?»
«Magari! Per lo più invece ci ingiuriamo come due lavandaie. Ma, in fondo in fondo, ci accusiamo di stupidità. “Lui” dice che lo stupido sono io e io dico che lo stupido è  “lui”. Secondo “lui” ragione è sinonimo di stupidità; secondo me… beh secondo me il contrario. In realtà, Vladimiro, parliamo un linguaggio diverso. Le parole hanno un senso per me e un altro per lui e così non ci comprendiamo. Già, perché la diversità delle parole adombra la diversità della scala dei valori. E allora come capirsi?»
«Ma questi vostri rapporti sono sempre stato così cattivi?»
Accenno di no con la testa, con l’aria contrita di chi riconosce, con onestà, una verità sgradevole: «No, un tempo, anzi, non posso negarlo, erano ottimi. Ma, Vladimiro, a quale prezzo per me! Al prezzo di una autentica schiavitù! “Lui” comandava ed io ubbidivo. Ero il suo succubo, il suo esecutore. Naturale che ad un certo punto mi sia ribellato.»
«Quanto tempo fa erano ottimi i vostri rapporti?»
«Bisogna risalire ai tempi della mia prima adolescenza. Mettiamo che avessi quattordici anni. Allora mi identificavo così completamente con “lui” che ho provato il bisogno, diciamo così, istintivo, ad un certo momento, di differenziarmi da “lui” almeno verbalmente, dandogli un nome.»
«Un nome?»
«Sì, se non altro per evitare confusioni quando “lui” ed io parlavamo, o meglio quando “lui” comandava ed io ubbidivo. Te lo immagini tu un dialogo così fatto: ‘Federico devi fare questo e quest’altro.’ ‘Sì, Federico, lo faccio subito.’ Vedi il punto? Federico io, Federico lui. Così ho deciso, per quanto lo riguardava, di latinizzare il nome.»
«Fascinus?»
«No, sarebbe stato come riconoscere che “lui” mi aveva incantato, affascinato. Ero succubo, è vero, ma già mi sentivo un poco ribelle. No, siccome io mi chiamo Federico ho pensato di chiamarlo Federicus Rex.»
«Federicus Rex?»
«A dire il vero in un primo momento avevo pensato di chiamarlo Federico il Grande.»
«Perché Federico il Grande?»
«E’ tutta una storia. Un giorno d’estate, a Ostia, dopo aver mangiato i soliti panini, verso le due, stavamo riuniti, tre o quattro ragazzi della stessa età, all’ombra, distesi su quella sabbia piena di detriti che di trova dietro alle cabine. Naturalmente si parlava di donne, qualcuno aveva già fatto l’esperienza, qualcun altro no; ad un certo punto, che è che non è, uno ha lanciato l’idea: ‘Vediamo chi ce l’ha più grande.’ Detto e fatto. Allora, con stupore, perché era la prima volta che mi succedeva di fare certi paragoni, mi accorgo che li batto, è proprio il caso di dirlo, tutti quanti di parecchie lunghezze. Erano tutti miei amici, compagni di scuola; così, venne fatto a qualcuno, molto naturalmente, per scherzo, di chiamarmi ‘Federico, il Grande.’ Ragazzate, anzi, ragazzinate.»
«Ma come mai sei passato da Federico il Grande a Federicus Rex?»
«Questa è ancora un’altra storia. Come sai, io allora abitavo con mia madre dalle parti di piazza Mazzini. Una notte passavo per una strada solitaria, mia madre mi aveva dato i soldi per andare al cinema del quartiere, ci correvo in gran fretta perché ci avevo un appuntamento con un amico. Ed ecco, proprio sul punto più scuro di questa strada, all’ombra di certi alberi che sporgevano da un giardino, una voce mi chiama: ‘Ehi, ragazzo.’ Mi sono fermato, mi sono avvicinato; era una prostituta piuttosto anziana, ma niente male, o almeno così mi è sembrato; non bisogna dimenticare che avevo quattordici anni e portavo da poco i pantaloni lunghi. Non ricordo troppo bene cosa ci siamo detti. Ricordo soltanto che tremavo per tutto il corpo perché era la prima volta, e lei se ne accorta, e mi ha detto: “Perché tremi così? Sta’ calmo. Dimmi piuttosto se hai la grana.” Non ho capito e lei, allora, mi ha spiegato che la grana voleva dire i soldi. Non ho detto nulla, ho aperto la mano per mostrargli il biglietto da mille lire che mia madre mi aveva dato per il cinema, già tutto spiegazzato e fradicio di sudore. Lei ha detto: “Sono pochini.” Ho risposto: “Mi serrvono per andare al cinema.” Lei si è messa a ridere, allora, e ha detto: “Beh, da’ qui. Adesso te lo faccio vedere io il cinema. Scommetto che è la prima volta, non è vero? Ma non tremare, vedrai quanto è bello il cinema.” E così si è presa il denaro e mi ha fatto fare l’amore in piedi, nell’ombra fitta di quegli alberi, stringendosi verso di me. Ora, appena quella donna ha visto “lui”, lo sai che ha detto? ‘Ma questo è il re.’ Io continuavo a tremare; e lei allora ha insistito: ‘Ma di che hai paura? Ci hai il re, i re non hanno paura di nessuno.’ Lì per lì non ci ho fatto caso, poi me ne sono ricordato; e, siccome mia madre, in una scatola, aveva alcune monete antiche tra le quali una di Federico di Prussia, con la scritta ‘Federicus Rex’, l’ho chiamato così, col nome latino.»
Vladimiro mi guarda e pare riflettere. Finalmente dice: «Va bene, gli hai dato un nome. Ma quand’è che hai cominciato a litigare con “lui”? Come mi sembra di capire, quando gli hai dato il nome di Federicus Rex, andavate ancora d’accordo.»
«Vuoi sapere quando mi sono veramente ribellato?»
«Sì. Quando e perché.»
Lo guardo e poi, grave e compreso, accenno affermativamente con il capo: «Ti dirò, mi aspettavo questa domanda. Me l’aspettavo tanto che mi sono preparato a rispondere in maniera esauriente e scientifica. Del resto, oggi, praticamente, sono venuto da te soprattutto per farmi muovere questa domanda e per risponderti. Tu mi comprendi, Vladimiro.»
Sto zitto un momento come per sottolineare l’importanza di ciò che sto per dire; quindi riprendo: «non soltanto ricordo l’anno in cui io e “lui” abbiamo cominciato a litigare, ma anche il mese se non proprio il giorno: marzo del 1950. Siamo nel 1970. Ho trentacinque anni. Sono dunque passati esattamente vent’anni da quando mi sono ribellato a “lui”.
«E quale è stato il motivo… della ribellione?»
«Ci vengo. Diciamo: una divergenza di opinione.»
«Di opinione? E su che cosa?»
«Su quello che è avvenuto veramente una certa notte di quel marzo del 1950.»
«Quella notte è avvenuto qualche cosa?»
«Secondo “lui”, sì. Secondo me, no.»
Vladimiro mi guarda e, questa volta, forse rendendosi conto che siamo giunti al punto centrale della nostra conversazione, tace con aria addirittura atterrita. Aspiro una lunga, abbondante boccata di fumo e poi la rigetto verso il piano lucido della tavola. Riprendo: «Debbo premettere Vladimiro che io allora ignoravo di essere il suo succubo E’ vero, sessualmente, ero molto precoce ma non sapevo che questa precocità la dovevo a “lui”. D’altra parte, non avendo ancora avuto un rapporto carnale con una donna, voglio dire un vero rapporto, non una cosa frettolosa, parziale e furtiva come quella che ti ho raccontata, non potevo fare a meno di pensarci continuamente. Era il mio pensiero dominante, o meglio, Vladimiro, sarebbe più esatto dire: la mia ossessione. Sì, Vladimiro: ossessione. Certo avrei potuto sfogarmi da solo come tutti i ragazzi da che mondo è mondo; ma vi ero contrario, non so perché, forse per orgoglio. Di qui una continua, acuta, insopportabile sofferenza.»
«Soffrivi?»
«Sì, indicibilmente, di desiderio. Vedi, Vladimiro, il desiderio è ciò che fa più soffrire. Ora, di solito, di fronte al desiderio noi ci comportiamo in due modi: o cerchiamo di non pensarci oppure lo soddisfiamo. Ma un desiderio che si prolunghi inalterato e senza soddisfazione oltre un certo limite di tempo, non lo sopportiamo. Io, Vladimiro, arriverei persino ad affermare che come non si resiste a certe temperature più di alcuni minuti, così non si può resistere al desiderio più di qualche ora. Ora te lo immagini tu un desiderio che non dura qualche ora, né qualche giorno, né qualche mese, ma anni, e sempre con la stessa intensità? Se te lo immagini, potrei farti un’idea di quanto io soffrivo.»
Sto zitto, scuotendo il capo. Vladimiro sta zitto anche lui. Quindi arrischia, cautamente: «E la divergenza di opinione?»
«Eccola. Una certa mattina di quel marzo del 1950 io ho pensato, molto ragionevolmente, che una certa cosa non era realmente avvenuta, ma me l’ero sognata. Che si fa coi sogni? Ci si pensa un poco su, si cerca per un poco di ricostruirli, di ricordarli e poi si alzano le spalle e si accantona per sempre il sogno per occuparsi di altre cose più importanti. Così stava per succedere anche quella certa mattina. Senonché, “lui”, rivelandosi, sia detto tra parentesi, per la prima volta come qualcuno distinto e diverso da me, “lui” salta su di improvviso dicendomi alto e forte che quella certa cosa io non me l’ero affatto sognata, bensì era veramente accaduta e che “lui” era lì per testimoniare, appunto, che era accaduta nella realtà e non nel sogno. Sì, Vladimiro, questa è stata la divergenza di opinione di quella mattina fatale. E da allora io e “lui” non abbiamo più cessato di litigare. Vent’anni di litigi. “Lui” continua a sostenere che la cosa è successa realmente; io persisto a rispondergli che è stato un sogno.»
«Ma qual era la cosa che, secondo te, era stato un sogno e secondo “lui” un fatto realmente accaduto?»
Assumo il mio tono più scientifico perché so di certo che in questo momento Vladimiro tiene appuntate su di me tutte le batterie della sua scienza, allo stesso modo che, all’inizio della visita, mi ha sbattuto in faccia la luce della sua lampada di alto potenziale: «Devi sapere, Vladimiro, che mia madre aveva l’abitudine, ancora nel 1950, di venire ogni sera, prima di coricarsi, a darmi il bacio della buona notte. Lo faceva da quando ero bambino. Una abitudine, del resto comune a molte madri. Ma, altolà, che fai?»
«Prendo qualche nota.
«Tu neanche per sogno. Niente note. Butta via quel taccuino e quella biro. Non voglio note. Quello che sto per dirti, oltre tutto, non è degno di essere annotato. Una semplice divergenza di opinioni, su un fatto, a ben guardare, poco importante: che c’è da annotare? E, poi, Vladimiro io non sono qui come paziente; sono qui come amico. Che ne diresti tu, se, puta caso, tu venissi a farmi una confidenza, a chiedermi un consiglio e mi vedessi scribacchiare mentre parli. Via il taccuino, via la biro. Parliamo.»
«Sì, Rico, parliamo.»
«Bravo. Dunque, dove eravamo?… Ah, già, al fatto che mia madre, ogni notte, ancora nel 1950, come tante madri del resto, veniva a darmi il bacio della buona notte. Mia madre entrava, per lo più verso mezzanotte, qualche volta anche più tardi, mi rincalzava le coperte, si chinava, mi dava un bacio in fronte dicendomi: “Dormi bene”, e se ne andava. Devi notare che il mio letto era in un angolo, con tutto un lato contro la parete, di modo che mia madre, quando mi rincalzava le coperte doveva o rincalzarle da una parte sola, oppure, piegarsi attraverso il letto per rincalzarle anche sull’altro lato. Qualche volta tutto questo avveniva in piena luce; io stavo ancora leggendo o magari studiando (avevo l’abitudine di studiare a letto) e allora era mia madre a spegnere la luce; qualche volta, invece, io avevo già spento la luce anche se non ero ancora addormentato. Ma, comunque, con o senza luce, niente di strano, niente di anormale, niente, diciamolo pure, Vladimiro, di interessante. Una madre che augura la buona notte al figlio: punto e basta.»
Vladimiro non dice nulla. Il taccuino e la penna gli stanno davanti, accanto alla mano destra, una mano magra e lunga come lui; ma la mano non si muove. Rimango zitto un momento e allora Vladimiro fa una smorfia come di dolore. Domanda finalmente con sforzo: «Ma… e la divergenza di opinione?»
«Vengo al punto. Io adesso ti esporrò le due versioni di questo fatto del bacio di mia madre, la mia e la “sua”. Prima la mia e poi la “sua”.»
«Vuoi dire prima la cosa come sogno e poi la cosa come evento realmente accaduto?»
«Esatto. Dunque, versione numero uno: la mia, quella del sogno. Mia madre viene a darmi la buona notte. Io ho già spento la lampada ma sono sveglio. Mia madre entra senza accendere le luci, si avvicina al letto, si china su di me, mi rincalza le coperte, prima da una parte poi dall’altra. Per far questo, naturalmente, è costretta a chinarsi su di me. Chinandosi, mi sfiora involontariamente con il gomito all’altezza del ventre. Mia madre, per qualche motivo che non comprendo, non riesce ad incalzare troppo bene la coperta e così lo sfioramento del gomito si tramuta in pressione, e questa pressione si direbbe che sia voluta, consapevole, intenzionale. Vorrei dirle: “Mamma sta’ attenta a quello che fai, potrebbe accadere qualche cosa di irreparabile, rialzati, te ne prego, rialzati e vattene”; ma, come avviene appunto nei sogni, non riesco a parlare. Intanto lei continua a star chinata, continua a rincalzare la coperta e il gomito a premere. Finalmente succede quello che temevo. Nello stesso momento mi sveglio e mi accorgo che ho avuto una polluzione notturna. Questa è la mia versione.»
Vedo un momento il racconto e ne approfitto per schiacciare la cicca nel portacenere e accendere un’altra sigaretta.
Gesti calmi, precisi, esatti. Tutto freddo, tutto scientifico.
Riprendo: «Versione numero due. Quella di “lui”, secondo la quale l’evento si sarebbe realmente verificato. Mia madre entra nel buio, io sono sveglio e, al solito, sto soffrendo per il desiderio. Mia madre si avvicina al letto, si china su di me mi rincalza le coperte prima da una parte e poi dall’altra. Per far questo, naturalmente, è costretta a chinarsi su di me e, chinandosi, esattamente come nel sogno, mi sfiora senza volerlo con il gomito all’altezza del ventre. A questo punto le due versioni divergono. Secondo “lui”, mia madre avverte la mia, chiamiamola così, sofferenza, si rialza senza finire di rincalzare le coperte, mi passa una mano sulla fronte, sente che brucia, mi domanda sottovoce come sto. Io rispondo che sto bene; ma, a quanto pare, almeno secondo “lui”, emetto un sospiro. Mia madre mi dice sottovoce: “Cerca di dormire, è tardi”; poi si china di nuovo attraverso il letto, come per rincalzarmi definitivamente le coperte sul lato contro la parete. Ma il suo gomito preme con forza, muovendosi, nello stesso tempo, in su e in giù con frettolosa, sbrigativa, affannata violenza. Finché, nel giro di pochi secondi, ottiene l’effetto che puoi immaginare. Il gomito si immobilizza, allora, duramente appoggiato, come per darmi il tempo di riavermi. Quindi mia madre un po’ ansimante ma pur sempre silenziosa, si rialza, mi dà il solito bacio in fronte e se ne va. Fine della seconda versione.»Segue un lungo silenzio. Sto a testa china e fumo silenziosamente, come per dar tempo a Vladimiro di radunare le idee. Finalmente commento: «Naturalmente, questa seconda versione, è tutta falsa, tutta inventata, tutta fantastica. Non toglie che “lui” la sostenga a spada tratta, inflessibilmente, da vent’anni. Adesso capirai perché ho detto che la mia vita, da vent’anni, è avvelenata da una divergenza di opinione tra me e “lui”.»
Silenzio. Osservo ancora con amarezza: «Ma già lo leggo nei tuoi occhi, tu, Vladimiro, sei inclinato a credere più a “lui” che a me.»
Vladimiro trasalisce profondamente come destandosi dal sonno e risponde in fretta: «Per niente, Io credo a te. E poi, a chi dovrei credere, se non a te? Qui, davanti a me, non ci sei che tu.»
«Giusto. Ora tornando alla divergenza di opinione, ti puoi facilmente immaginare, Vladimiro, il turbamento che ha provocato nel mio animo l’insinuazione inqualificabile del solito subdolo e malvagio individuo. Naturale che, sapendomi innocente, io abbia sviluppato un forte senso di colpa. Alla fine, mi sono veduto costretto a mitigare il senso di colpa con una spiegazione, diciamo così, razionale e, in un certo modo, scientifica, la quale si può riassumere in questo modo: “Sì, io sono convinto che è stato un sogno. Un sogno, naturalmente, ispirato da “lui”. Ma anche se, per assurdo, dovresti ammettere che non è stato un sogno ma un evento reale, ebbene anche in questo caso improbabile, io non c’entro, né tanto né poco. E’ stata insomma, una cosa tra “lui” e mia madre, non voluta né tanto meno approvata da me. Io non ho fatto che assistere. Perciò la cosa non mi riguarda e non voglio saperne nulla.” Che ne pensi, Vladimiro, di questa spiegazione? Non taglia forse, come si è soliti dire, la testa al toro?»
Vladimiro non mi approva né mi disapprova. Si torce sulla seggiola. Contrae tutta la faccia in una smorfia di intenso disagio. Alla fine riesce a dire: «Ma lui, quali prove adduce a favore della sua versione?»
Rispondo scioltamente: «Due prove, una fattuale e l’altra psicologica. Prova fattuale: mia madre, dopo quella sera, ha cessato del tutto di venire ad augurarmi la buona notte. Prova psicologica: il senso di colpa, secondo “lui”, sarebbe in me così forte da farmi addirittura inventare un sogno che non ho mai sognato pur di non riconoscere che le cose che pretenderei di aver sognato sono invece avvenute nella realtà della veglia.
Vladimiro non dà a vedere alcun sentimento; col solito sistema, già accennato, di mostrarsi ansioso, perplesso, afflitto né più né meno di quanto lo sia stato durante tutta la mia visita. Dice, finalmente, a fior di labbra: «La prova, diciamo così, fattuale ha un certo peso.»
«Ma quando mai! Sì, mia madre dopo quella notte non è più venuta a darmi il bacio in fronte. Ma non perché quella cosa sia veramente accaduta. Perché avendomi sfiorato senza volerlo il ventre col gomito, ed essendosi accorta del mio turbamento, ha temuto che un giorno o l’altro potesse accadere. Vedi il punto?»
Una volta Vladimiro non si pronuncia. Domanda: «E poi?»
«E poi cosa?»
«E poi cosa è avvenuto?»
«Niente. Te l’ho già detto. Vent’anni di litigi, durante i quali “lui”  ha mantenuto la sua versione e io la mia.»
«Ma dopo quella notte, come è stata la tua vita?»
«La mia vita? E’ stata come prima, non è cambiata.»
«No, voglio dire: la tua vita interiore.»
«Ah, la mia vita interiore? Beh, non tanto felice. Mettiti nei miei panni, Vladimiro. Volevo bene a mia madre. Questo bene adesso mi veniva avvelenato da un individuo, a dir poco estraneo, per motivi tutti “suoi” che non mi riguardavano in alcun modo. A dirla breve: vent’anni di inferno. Per fortuna, di lì a sei anni, nel 1956, mia madre è morta.»
«Tua madre è morta?»
«Sì, purtroppo, è morta.»
Mi colpisce il fatto che Vladimiro si faccia ripetere due volte la notizia della morte di mia madre. E’ vero, è stato appunto verso il 1956 che Vladimiro ed io, ormai ventenni, ci siamo separati, siamo andati ciascuno per la propria strada. Questo non toglie, però, che Vladimiro dovrebbe saperlo che mia madre è morta. Lo guardo, mi guarda di rimando, con la sua solita inespressiva anche se dolorosa perplessità. Poi dice dolcemente ma fermamente: «S’intende, Rico che tua madre non è morta.»
Sento di arrossire. Sento di sprofondare. Dove? Nel pozzo tenebroso della più insondabile desublimazione. E’ vero, infatti: mia madre non è morta. E’ viva, vivissima, e io mi domando perché mai mi è venuto in mente di dire che è morta. Segue un lungo silenzio. Vladimiro mi guarda, fisso; e io guardo Vladimiro. Poi, d’improvviso, assurdamente, mi prendo la faccia tra le mani e scoppio in singhiozzi. Che mi succede? Semplice: uno dei soliti perfidi sgambetti della desublimazione. Mi rendo conto, con acuta consapevolezza, che questo pianto inopinato manda per aria, irreparabilmente, il tono distaccato, scientifico con il quale avevo contato di fronteggiare la scienza di Vladimiro; ma non c’è niente da fare. Senza pudore, senza ritegno, senza freni, mi abbandono ad un dolore oscuro quanto cretino. Singhiozzo, la faccia tra le mani, di fronte a Vladimiro impassibile, che immagino, pur tra i singhiozzi, intimamente gongolante per il mio capitombolo emotivo. Finalmente, come certi effimeri anche se abbondanti acquazzoni di primavera, il pianto si dirada, cessa. Cavo di tasca il fazzoletto, mi asciugo gli occhi, mi soffio rumorosamente il naso. Dico seccamente: «Scusami.»
Vladimiro non risponde nulla. Riprendo dopo un minuto di silenzio: «Io lo so cosa stai pensando in questo momento.»
«Che cosa?»
«Che la mia salute non è… in perfetta condizione».
Con una sollecitudine un po’ sospetta, Vladimiro si affretta a rassicurarmi: «No, per niente. Tutto normale. La sola cosa, semmai, sulla quale farei qualche riserva, è il tuo dialogo con “lui”, Federicus Rex. Possibilmente, tu dovresti fare in modo che questo dialogo cessi.»
Rispondo acceso di repentino entusiasmo: «E’ proprio questo che cerco di fare tutto il tempo: metterlo a tacere, ridurlo al completo. Ma c’è una sola maniera per toglierlo di mezzo: sublimare la pulsione sessuale che, per il momento, “lui” confisca arbitrariamente per “suo” esclusivo uso e consumo. Finché non avvierò seriamente il processo di sublimazione, finché sarò un desublimato, quello che tu chiami il dialogo tra me e “lui” ho molta paura che non potrà non continuare.»
Strano, questi termini pur così canonici della sua scienza, non sembrano fare alcuna impressione a Vladimiro. O meglio, si direbbe che gli ispirano addirittura fastidio, preoccupazione, forse angoscia. Si torce sulla seggiola, si agita, osserva alla fine: «Non sarebbe meglio che tu prendessi la cosa un po’ più semplicemente?»
«E come?»
«Beh, sostituendo questi vostri dialoghi, diamo pure, immaginari con conversazioni vere e proprie con altre persone. Voglio dire persone reali della tua vita.»
«Ma anche “lui” è una persona reale, Vladimiro. Se non capisci questo, scusami, non capisci nulla.»
«E soprattutto dovresti dedicarti al tuo lavoro, alla carriera.»
«Qui sono d’accordo con te. Senza meno. E’ proprio questo, del resto, che finora mi sono affannato a dire. Sì, bisogna che “lui” collabori ad un piano sistematico di sublimazione. Una volta ottenuta la sua collaborazione, sono a posto.»
Sfrego le mani l’una contro l’altra, come a significare che, appena “lui” collaborerà, non ci saranno più problemi. Ma Vladimiro scuote il capo, poco persuaso: «No, vedi, tu continui a parlare di “lui”. E invece, dovresti fare come se non esistesse.»
«Ma esiste. Purtroppo esiste.»
«Va bene, esiste. Ma intanto sarebbe già molto che tu chiamassi le cose col loro nome.»
«E non le chiamo col loro nome?»
«No, vedi, Rico, voglio dire il loro nome corrente. Lascia stare la sublimazione, la desublimazione, dimentica di essere un intellettuale che ha letto Freud, immagina di essere, che so io? il garzone del fornaio.»
Rimango male e borbotto: «Siete bravi, voialtri: inventate certe parole e poi vorreste che non se ne facesse uso.»
«Sono termini scientifici che, in tutti i casi, vanno adoperati con misura.»
«Ma quale misura? Come si può essere misurati in questioni, come queste, di vita o di morte?»
«Dove sta la vita e la morte nella tua questione?»
Tutto ad un tratto, mi infurio e urlo, battendo un pugno sulla tavola: «La vita per me è sublimazione, la morte desublimazione. Se sublimerò, vivrò, cioè sarò un uomo degno di questo nome. Altrimenti, morirò alla mia umanità. Sarò un desublimato, cioè un disgraziato, un inferiore, un incapace, un impotente, tutto sesso e niente creazione. Farò parte, irrimediabilmente, della razza inferiore, soggetta, che esiste in tutto il mondo, nei paesi ricchi come nei poveri, e non è caratterizzata dal colore della pelle o dai tratti somatici, ma dalla congenita incapacità di sublimare.»
Mi tiro indietro, rosso e ansimante, afferro a caso il pacchetto delle sigarette e poi lo butto via, accorgendomi che, mentre facevo la mia sfuriata, ho posato sull’orlo del portacenere la sigaretta appena accesa. Vladimiro non pare affatto sconcertato dalla mia scenata. Impassibile e doloroso, si limita a guardarmi. Appena mi vede un po’ calmo, domanda: «Che cosa hai fatto finora… per essere un uomo?»
Vorrei riprendere il tono distaccato, scientifico dell’inizio della visita. Ma ci riesco soltanto in parte, lo sento. Rispondo enumerando con le dita, ma tuttora trafelato e ansimante: «Primo: mi sono separato da mia moglie. Abito per conto mio in un appartamento che ho preso in affitto per un anno. Secondo: in questo appartamento non entrano né entreranno donne. Queste due misure, separazione e castità, sono misure, diciamo così, negative. Sul piano, invece, positivo, posso già vantare due successi. Primo: sto per fare la regia di un film di grande importanza. Secondo: amo una donna di eccezionale bellezza e intelligenza e ne sono riamato. Non posso non ravvisare, Vladimiro, un rapporto, un nesso, una relazione, insomma, tra la separazione e la castità da una parte e la regia è l’amore dall’altro. Forse non è ancora proprio la sublimazione; ma poco ci manca. Girerò il film, amerò, e allora vedrò se c’è stata realmente sublimazione o meno.»

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Antonia Santilli e Lando Buzzanca in una scena del film

Il capitolo termina, naturalmente, con l’invito da parte da parte di Vladimiro di un percorso psicoanalitico che Rico, altrettanto normalmente rifiuta: primo, perché vede nello psicoanalista suo amico un desublimato (non ha fatto i soldi, ha lo studio in casa propria senza infermiera e quindi non è riuscito a sublimarsi nel lavoro che lo avrebbe reso un famoso e ricco analista); secondo: si rende conto di esser solo e il dialogo con “lui” non vuole né desidera cessarlo. (Viene in mente un altro grande autore novecentesco certamente presente a Moravia stesso, Svevo, con cui il protagonista Zeno condivide con Rino lo stesso problema individuato dai rispettivi analisti: il complesso d’Edipo).

Rimaniamo dunque all’interno del tema moraviano: il doppio. In questo romanzo il doppio fra istinto e ragione viene piegato freudianamente con il concetto di sublimazione e desublimazione, cioè con l’ “essere sopra” e l’ “essere sotto”, con il successo o l’insuccesso. Ciò fa del duplice Rico, un altro fratello di Riccardo de Il disprezzo, Silvio de L’amore coniugale, Dino de La noia, Francesco de L’attenzione: tutti intellettuali che non riuscono a dar forma alla propria creazione artistica.

Il tema del doppio, come ci dice lo stesso Moravia, che esplicita il suo riferimento, per Io e lui, a Dostoevskij de Il sosia, si arricchisce qui con il tema erotico che deriva da I gioielli indiscreti di Diderot, e soprattutto dalla riflessione sul sesso che in quel tornio di anni diventa culturalmente centrale: si pensi ai film di Bertolucci L’ultimo tango a Parigi e alla Trilogia della vita di Pier Paolo Pasolini. Questa tema non è mai mancato in Moravia, sin dai tempi de Gli indifferenti e soprattutto di Agostino, ma non era stato mai così evidente tanto da sfiorare la pornografia. Per questo tema Moravia afferma: “Il realtà il tema dell’erotismo non è propriamente dominante nel mio lavoro, ma appare solo come una variazione del tema principale che è quello del rapporto con la realtà. E’ abbastanza ovvio che la possibilità o meno dell’azione determina uno spostamento di questa problematica sul piano erotico. L’erotismo è quindi solo un’altra forma di azione, spesso addirittura l’ultima risorsa possibile. (…) In effetti, è probabilmente l’unica forma di attività giustificata in sé; o siamo “erotici” o non lo siamo (Moravia – Duflot, 1970).

L’erotismo si sposa, nel romanzo, con la liberazione sessuale prodotta negli anni della contestazione giovanile della fine degli anni Sessanta. Nel romanzo a Rico viene affidata la sceneggiatura di un film, L’espropriazione commissionatagli da un gruppo “rivoluzionario” capeggiato da un tal Maurizio. Ma tale sceneggiatura appare troppo borghese, per questo Rico accetta di confrontarsi con un gruppo di studenti al fine di correggerla:

fotobusta IO E LUI Lando Buzzanca Bulle Ogier Salce danza ventre Moravia og 1973

CONTESTATO!

Ma eccoci a Fregene. Nella notte estiva, alla luce di rari fanali, la pineta coi suoi tronchi inclinati qua e là, sembra scompigliata da una recente tempesta. Svoltiamo, prendiamo per un viale diritto, fiancheggiato di giardini. Attraverso i cancelli si intravedono le facciate delle ville. Alcune sono illuminate: sotto i portici, si vede gente che siede sulle seggiole a sdraio, conversando, mentre camerieri in giacca bianca girano coi vassoi delle bevande. Sulla ghiaia dei viali, i bambini, a quest’ora già a letto, hanno abbandonato grandi palloni a spicchi colorati, tricicli verniciati di rosso e di giallo. Ecco, in fondo al viale, due file di automobili parcheggiate contro i marciapiedi. Maurizio rallenta e si ferma. Domando, scendendo: «E’ qui?»
«Sì, è qui.»
Maurizio mi precede, varca il cancello, si inoltra lentamente, le mani in tasca, per un viale in fondo al quale scorgo la villa, una costruzione bassa, di mattoni rossi, di un piano solo. Camminiamo sulla ghiaia pulita, tra aiuole di un verde brillante, stridulmente illuminate da lampade dissimulate nelle siepi di bosso. Sotto il porticato, siede qualcuno che, come entriamo nel giardino, si alza e ci viene incontro. E’ Flavia, la fidanzata di Maurizio. Mentre si avvicina, faccio in tempo a guardarla. Ha la faccia lunga, bianca e cavallina, sotto una gonfia capigliatura rossa. Mi colpiscono gli occhi, grandi e smorti, di un blu opaco che spicca nella bianchezza fantomatica del volto. Cammina dinoccolata, muovendo le lunghe gambe con forse voluta goffaggine mondana. Un vestitino sbilenco, dalla cui scollatura si erge, diritto, il collo, si gonfia, poco al disopra della vita, come per un grosso pacco. Un altro rigonfio, simile anch’esso a quello di un pacco voluminoso, le solleva la veste in fondo alla schiena. Eccola, ormai, per così dire, in primo piano: ha proprio occhi e pallore da fantasma; e, sulle guance, sul collo, sul petto, sulle braccia, sulle gambe, una tempesta di efelidi rosse. Dice, con voce anch’essa, come le movenze, affettata e piena di sottolineature mondane: «Siete dei veri lentoni. Il gruppo è al completo da un pezzo. Scalpitano e protestano. Ma si può sapere cosa avete fatto?» Maurizio dice: «II traffico. Questo è Rico.»
«Come stai?»
Flavia mi siringe la mano in una maniera curiosa: mollemente e sensualmente; ma, proprio quando pare che la stretta stia per trasformarsi in carezza, le dita si aprono e la mia mano cade nel vuoto. Le dico: «Sono molto contento di incontrare il vostro gruppo. Sono sicuro che il dibattito sarà molto interessante. Sarà un incontro tra due generazioni. Questi incontri sono molto utili, si dovrebbero fare più spesso. Peccato soltanto non averlo saputo prima. Avrei buttato giù qualche appunto.» Flavia ha una risatina ben educata che soffoca sotto la bianca mano lentigginosa. Dice ambiguamente: «Anche senza appunti sono sicura che il dibattito andrà benissimo.»
Mi cammina accanto, dinoccolata, affabile e insieme un po’ altezzosa, come per una abitudine inconscia di ripudiati snobismi. Intanto “lui”, evidentemente impressionato dall’avvenenza di Flavia, sussurra le solite assurdità: «Fingi di fare un passo falso sulla ghiaia e urtale il fianco, un po’ di traverso, in modo che si renda conto della mia esistenza, della mia ammirazione, del mio desiderio.»
Insopportabile individuo! Farmi questi discorsi proprio adesso che sono finalmente in procinto di essere presentato al gruppo! Col rischio di dare a Flavia un’idea errata di me e di rovinare ogni cosa! Naturalmente, mi guardo bene dall’ascoltare i suoi suggerimenti. Dico, invece, tutto allegro a Maurizio: «Ti sono grato per questo incontro con il gruppo. Ho dato cinque milioni ma non me ne pento affatto, Ci sono delle esperienze che non si pagano mai abbastanza.»
Maurizio risponde: «Hai ragione.»
Flavia ci precede in casa. Passiamo per il porticato, entriamo per una portafinestra nel soggiorno, e ci troviamo di colpo dietro una tavola, di fronte a tre file di seggiole occupate da una trentina tra ragazzi e ragazze: il gruppo. Il soggiorno è lungo e stretto, con il soffitto basso; i mobili sono stati tolti per far posto alle seggiole; dell’arredamento non rimangono che le decorazioni di tipo marinaro consuete in simili dimore balneari: fiocine, salvagenti, timoni, reti, nasse, polene, gusci di tartaruga, qua e là appesi alle pareti. Sulla tavola, ricoperta da un tappeto rosso, ci sono un microfono, una bottiglia d’acqua e due bicchieri. A sinistra della tavola, sospeso per aria, vedo qualche cosa che mi sorprende: un vero e proprio semaforo, con tre luci, verde, rossa e gialla, in tutto simile a quelli dei crocicchi stradali, anche se più piccolo. Seguo con gli occhi il filo desemaforo. Corre lungo la parete di sinistra e poi discende all’estremità opposta della sala fino ad un tavolino sul quale sta una scatola nera con un quadrante pieno di bottoni. Un ragazzo siede a questo tavolino, davanti alla scatola
Domando sottovoce a Flavia: «A che serve il semaforo?»
«A regolare gli interventi.»
Guardo alla sala. Sono tutti ragazzi e ragazze, come si dice, di buona famiglia; anche se non tutti, necessariamente, di famiglie cosi ricche come quelle di Maurizio e di Flavia. Magliette, scialli, golfini, ponchi e pantaloni di tela, di velluto e di lana dai colori squillanti: sandali e scarpe di fogge insolite; parecchie barbe e numerose chiome lunghe; ma, a contrasto con tanta vivacità nei vestiti e nelle acconciature, una singolare, imprevista, sorniona compostezza negli atteggiamenti. Mi sento guardato, osservato, valutato, soppesato, giudicato. Poi, d’improvviso, mentre mi sto ancora domandando cosa significa questa accoglienza, ecco sento lo scatto del semaforo sopra la mia testa. Alzo gli occhi e vedo che si è accesa la luce gialla. Nello stesso tempo, con evidente rapporto come di causa e di effetto, tutti i ragazzi si levano in piedi e applaudono. L’applauso non sembra, però, spontaneo. I ragazzi battono le mani con una unanimità e un ritmo troppo regolari per non essere studiati. Quanto dura l’applauso? Forse un minuto. In tutti i casi ho l’impressione che duri molto, troppo, per essere un applauso sincero, dovuto al solo sentimento. Poiché immagino che applaudono me, mi sento imbarazzato e mi sforzo di nascondere l’imbarazzo applaudendo a mia volta. Ma allora, stranamente, come per significarmi che io non debbo applaudire, un altro clic del semaforo fa cessare di colpo i battimani nella sala. Alzo gli occhi. La luce del semaforo è verde. Maurizio si avanza verso il tavolo, leva un braccio come per annunciare che desidera parlare. Poi dice nel silenzio: «Vi presento Rico a cui, come sapete, il produttore Protti ha dato l’incarico di collaborare con me per la sceneggiatura dell’Espropriazione.»
Clic. Guardo al semaforo e vedo che questa volta si è accesa la luce rossa. Rifletto velocemente: luce gialla uguale applausi; luce verde uguale intervento; e luce rossa? Lo apprendo subito. I ragazzi prendono a ripetere in coro, restando seduti e strisciando i piedi in terra: «Ché si, Protti no.»
Dunque la luce rossa significa il contrario della luce gialla; vale a dire il contrario degli applausi; cioè: disapprovazione, ostilità. Non mi sento questa volta di unirmi al coro contro Protti. Oltretutto, se Protti venisse a saperlo, potrebbe facilmente vendicarsi, non facendomi più lavorare. Mi rendo conto che si tratta di una riflessione poco rivoluzionaria: ma come si fa a non pensare certi pensieri? Cosi abbozzo un sorriso di comprensione e aspetto che il coro finisca. Inopinatamente, a questo punto, “lui” sussurra: «Guarda per favore Flavia.» Guardo. Flavia sta in piedi accanto a me e io, per guardarla, mi tiro lievemente indietro. “Lui” riprende subito, infervorato: “Guarda come è alta, magra, allampanata, dinoccolata, longilinea! E, tuttavia, come è carica e ingombra al petto e in fondo alla schiena! E con quanta conturbante trasandatezza sta gettato di traverso, su questi volumi, lo straccetto del suo vestitino, incollandosi col tessuto sottile sulle parti più convesse. E’ un palo. Ma con tante cose belle e appetitose appese, come ad un albero di cuccagna!»
«E io, per farti piacere, dovrei arrampicarmi sul palo?»
«Proprio così.»
Clic. Alzo gli occhi: luce verde. Di colpo cessa il grido: «Ché si, Protti no.» Maurizio si fa avanti, assesta sul tavolo il microfono e dice: «Durante la nostra ultima riunione, vi ho esposto i cambiamenti che Rico aveva introdotto nel soggetto. Vi ho anche detto che mi ero opposto a questi cambiamenti, che l’avevo costretto a riconoscere che la nostra versione era la sola giusta e corretta e che lui si era impegnato a rispettarla. A questo punto, mi corre l’obbligo di informarvi che, come prova del suo pentimento e della sua buona volontà, Rico ha rinunziato ad ogni compenso e ha versato la somma di cinque milioni alla nostra amministrazione.»
Clic. Sono tanto sicuro che la luce sia gialla che non alzo neppure gli occhi per accertarmene. Mi atteggio, invece, ad un’aria di modestia compunta e discreta, in attesa degli imminenti, sicuri applausi. Ma mi succede invece come a chi, collocandosi tutto nudo sotto la doccia, sbaglia rubinetto e invece dell’acqua calda, sprigiona un getto d’acqua fredda. Gli applausi non vengono. Scoppia, invece, un coro ostilissimo, accompagnato dai soliti strusciamenti dei piedi in terra: «Ché si, Rico no.» Allora mi decido ad alzare gli occhi verso il semaforo: la luce è rossa, proprio cosi. A questa vista sento la mia faccia cambiare espressione e perfino forma, passando mio malgrado dalla finta e gonfia modestia ad un sincero e smagrito sgomento. Ascolto incredulo, quasi sperando di aver udito male. Ma no, ho udito benissimo, è proprio vero, i ragazzi gridano in coro: “Ché si, Rico no” E i cinque milioni?
Clic. Luce verde. Di botto il coro tace. Maurizio riprende, come se avesse indovinato il mio pensiero e intendesse rispondermi: «Voi non avete applaudito alla notizia dell’offerta dei cinque milioni e avete fatto bene. I cinque milioni versati alla nostra amministrazione non provano affatto che Rico sia un rivoluzionario. Adesso, poi, si è verificato un fatto nuovo il quale dimostra che la nostra diffidenza verso di lui era più che giustificata.» Maurizio tace un momento, guarda la sala e poi, inspiegabilmente, guarda me. Dico: inspiegabilmente, perché non comprendo il motivo di questo sguardo inespressivo, atono, inerte, apatico. Proprio uno sguardo da personaggio dipinto in un quadro, in un museo. Sono rabbioso, sono sgomento, sono confuso; ma Maurizio non pare rendersene conto, perché non è “vivo” ma “dipinto”. Riprende, dopo un momento di silenzio: «Ecco il fatto nuovo. Rico è andato pochi giorni fa da Protti, e gli ha detto che noi avevamo intenzione di fare un film contro di lui e contro il sistema. Lo scopo di questa che bisogna pur chiamare delazione controrivoluzionaria, è chiaro: allarmare Protti, fargli preferire la propria versione alla nostra, sabotare il film. Per fortuna, Protti, per motivi suoi, non ha aderito. Anzi, è stato proprio lui ad avvertirmi della mossa di Rico.»Clic. Sono sicuro che la luce non può essere che rossa e questa volta non mi sbaglio. Pur restando seduti, i ragazzi riprendono a ripetere in coro: «Che sì, Rico no,» strusciando i piedi sul pavimento. Sono annichilito. Con, per giunta, la consapevolezza bruciante di essere caduto, a causa della mia buona fede di desublimato bonaccione ed esuberante, in una trappola accuratamente preparata da una scatenata tribù di supersublimati in erba. Già, perché, qui, son tutti quanti più o meno simili a Maurizio: sublimati per nascita, per tradizione familiare, per ambiente sociale. Tutti ragazzi di buona famiglia, infatti; e buona famiglia in questo caso vuol dire famiglia i cui membri sono stati dei sublimati per almeno cinque generazioni. Che importa se in passato erano funzionari statali, banchieri, generali, giudici, medici, avvocati e adesso, invece, sono, o almeno si credono, rivoluzionari! La sublimazione era pur sempre uguale, così allora sotto i doppipetti di grisaglia all’inglese, come oggi sotto le magliette. E io, il desublimato per antonomasia, mi sono lasciato attirare, con l’esca della vanità, nel trabocchetto di un sedicente dibattito che, in realtà, si sta configurando sempre più come un vero e proprio linciaggio.

L'ESPRESSO 1968 Processo a MORAVIA con VELTRONI FUKSAS SCALZONE PETRUCCIOLI

Moravia rievoca in maniera narrativa il confronto reale avvenuto con gli studenti:

“Nel febbraio del 1968, si era recato alla «Sapienza», con Dacia Maraini e Laura Betti, per prendere la parola nel corso di un’occupazione, e sostenere gli studenti, ma viene contestato e viene considerato alla stregua di un oppositore, e prende piena coscienza di essere divenuto la controparte, soltanto quando viene colpito come da un sasso dallo slogan con il quale viene apostrofato all’entrata nell’aula 1 della Facoltà di Lettere: «Mao sì, Moravia no!». L’accusa ricorrente rivolta al romanziere romano dai giovani contestatori è che lui scrive per il «Corriere della Sera», «giornale della borghesia imperialistica». All’«Espresso» viene predisposto un dibattito con alcuni studenti, e in tal modo entra nel vivo il ’68 di Moravia: egli prova sulla sua persona quale sia il significato di quello slogan, lungamente ripetuto: «Non fidarti di nessuno che abbia più di trent’anni»; tanto ribadito da divenire martellante e quasi un mantra.” (Angelo Favaro)

Il rapporto dello scrittore romano con il movimento del ’68 potremo definirlo ambivalente: se da una parte egli, come il suo amico Pier Paolo Pasolini, imputa loro che sono: Tutti ragazzi di buona famiglia, infatti; e buona famiglia in questo caso vuol dire famiglia i cui membri sono stati dei sublimati per almeno cinque generazioni. Che importa se in passato erano funzionari statali, banchieri, generali, giudici, medici, avvocati e adesso, invece, sono, o almeno si credono, rivoluzionari! e lo stesso Pasolini, in una famosa poesia così esordisce contro gli studenti sessantottini:

Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccoloborghesi, amici.

Moravia non può far meno di affermare che il Michele de Gli Indifferenti, se fosse vissuto in quegli anni, sarebbe stato certamente un contestatario. Tuttavia lo scrittore ne mette in luce, con “cattiveria” ironica le contraddizioni, ed esse (in un romanzo erotico come Io e lui) non possono che essere sessuali: di fronte ad un movimento che si fregia, con diritto, di aver portato avanti le istanze per una piena libertà sessuale, Maurizio teme l’omosessualità e rivendica il diritto di sposarsi e metter su “borghesemente” famiglia con la sua fidanzata.

A quale tribù appartieni? : Moravia, Alberto: Amazon.it: Libri

Nel 1972 esce il quarto libro odeporico, questa volta a seguito di un viaggio in Africa, terra a cui, da questo momento, sarà sempre legato: A quale tribù appartieni? Il volume contiene le corrispondenze pubblicate sul «Corriere della Sera» tra il 1963 e il 1972, stesso anno della pubblicazione e, come è riportato sulla quarta di copertina a firma di Moravia stesso: “Questo libro è stato scritto nel modo seguente: viaggiando in Africa per svago e desiderio di estraniamento, senza fare inchieste né ricerche né nulla di tutto ciò che, quando si ha intenzione di scrivere un viaggio, si fa «apposta». In Africa ho voluto portare soltanto me stesso, così com’ero, con la cultura e l’informazione di cui già disponevo e niente di più. Se ho letto dei libri sull’Africa l’ho fatto per curiosità, non per crearmi una competenza, d’altra parte impossibile. Insomma si tratta di un libro di impressioni; cioè della storia di una felice e invaghita disponibilità. Così il fine che il libro, modestamente, si propone non è di informare, nè di istruire né tanto meno di giudicare ma di ispirare al lettore lo stesso interesse e la stessa simpatia che mi hanno spinto a viaggiare per il continente nero”.

AFRICA PREISTORICA E MAGICA 

Qualche volta mi sono posto il quesito: l’Africa nera, in senso storico, è più vecchia o più giovane dell’Europa? A ben guardare, in confronto all’Africa primitiva, ossia ancora avvolta nel bozzolo della natura, l’Europa che da quel bozzolo è uscita da un pezzo dovrebbe essere più vecchia. D’altra parte, però, è facile rendersi conto che l’Africa nera sta ad uno stadio della cultura che fu proprio dell’Europa alcune migliaia di anni or sono; dunque è l’Africa ad essere più vecchia. Ma l’Africa accede soltanto adesso alla civiltà industriale che in Europa è già impiantata da due secoli, perciò l’Africa è più giovane. Tuttavia non si può negare che l’africano non comprende il senso profondo di questa civiltà industriale, l’accetta senza capirla e non la capisce perché le sue concezioni religiose sono non soltanto anteriori al calvinismo, che è all’origine di quella civiltà ma anche, addirittura, al cristianesimo; dunque l’Africa è più vecchia. Ma non è forse l’africano più giovane dell’europeo in quanto più irrazionale, più spensierato, più infantile, più portato al ballo, al canto, alla pantomima ossia forme d’arte che non esigono maturità intellettuale, e così via? In realtà a conti fatti, gli africani sono insieme giovani e vecchi cioè la cultura dell’Africa e arcaica e al tempo stesso il suo innesto nel mondo moderno è ancora problematico e immaturo.
Gli africani dopo essere rimasti per millenni fermi a questa cultura, passano oggi, con un salto vertiginoso, alla cultura neocapitalista ed industriale. Così un viaggio in Africa, quando non è una scorribanda insipida per i grandi alberghi che gli occidentali hanno disseminato sul continente nero, è un tuffo nella preistoria.
Ma che cos’è questa preistoria che tanto affascina gli europei? Prima di tutto, diremmo, la conformazione stessa del paesaggio africano. Il carattere principale di questo paesaggio non è la diversità, come in Europa, bensì una terrificante monotonia. Il volto dell’Africa è dunque più simile a quello di un infante con poche fattezze appena accennate che a quello di un uomo sul quale la vita abbia impresso innumerevoli tratti significativi; ossia è più simile al volto della terra nella preistoria, quando non c’erano stagioni e l’umanità non era ancora comparsa che al volto della terra oggi, con le innumerevoli modificazioni apportate così dal tempo come dall’uomo. Questa monotonia, d’altra parte, presenta due aspetti propriamente preistorici: l’iterazione, ossiail  ripetersi di un solo tema o motivo fino all’ossessione e al terrore; e l’informità, ossia l’incapacità del limite, del finito, della figura, della forma, insomma.
Preistoria, per esempio, è la savana che fascia l’Africa per migliaia di chilometri da ovest a est, cioè dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano. La savana è una sterminata steppa color verde pallido sparsa, a perdita d’occhio, di una sola specie di albero, la piccola acacia africana, irta di spine, coi rami disposti a ombrello, e di una sola specie di cespuglio di forma rotonda, color verde scuro. Si corre e si corre. in macchina, per strada o per piste, per centinaia di chilometri e la steppa non finisce mai. non fa che ripetere se stessa, ossia i due motivi che le sono propri, l’acacia e il cespuglio.
Lontanissimo, talvolta, in quelle solitudini remote, si scorgono miriadi di punti neri che si spostano con rapidità tra il pullulare delle acacie e dei cespugli: sono branchi di zebre e di gazzelle che fuggono chissà dove, spaventati da chissà che cosa. Se ci si ferma in mezzo alla savana, al rombo dell’automobile subentra improvvisamente un silenzio vergine, sospeso, veramente preistorico nella sua profondità e trasparenza. Si ode il vento soffiare in sordina; il sole inonda di luce implacabile l’immensa steppa; ad un tratto ci si sente osservati e si scopre che, infatti, al di sopra degli ombrelli delle acacie, si levano, immobili, in cima ai colli enormi, òe piccole teste occhiute di alcune giraffe. Questi animali timidi e curiosi stanno qua e là tra gli alberi e più alti degli alberi; poi ad un gesto o ad una voce fuggono via, attraversando uno dopo l’altro la strada coi salti lenti, goffi e pesanti dalle gambe altissime e dai corpi massicci. Si riprende allora la corsa e la savana ricomincia a ripetere il motivo dell’acacia e del cespuglio milioni e milioni di volte, per centinaia, per migliaia di chilometri. Ogni tanto la savana pare sollevarsi un poco verso il cielo e configurarsi in colline lunghe e molli che sembrano doverle chiudere e darle la forma di una vallata; ma è un tentativo inane che invariabilmente si perde e si scioglie nella solita informità.
Preistoria è anche la foresta pluviale che si stente immediatamente sotto la savana, anch’essa per migliaia di chilometri, anch’essa di un solo colore, ininterrottamente, che, mentre nella savana è il verde pallido, nella foresta è il nero. Ho percorso la foresta, per esempio, sulla strada che, in Nigeria, va dal Lagos alla leggendaria Benin, un tempo sede di meravigliosi scultori e fabbri. La strada è stretta, diritta, di terra rossa come il sangue; si direbbe che la foresta sia una carne nera nella quale è stata tracciata una lunga ferita ancora aperta e viva. Si corre anche qui per centinaia e centinaia di chilometri senza che il paesaggio cambi: la foresta, come la savana, non fa che ripetersi, fino all’ossessione. Il motivo dominante è l’intrigo nero degli alberi, degli arbusti, delle liane e dei rampicanti che si leva, come una muraglia, ai due lati della strada è quasi impedisce la vista del cielo, ridotta ad una striscia azzurra parallela alla striscia rossa della strada.
Questo intrico, a tutta prima, appare assai vario e ricco di arborescenze, di tronchi, di rami penzolanti; ma anche questa varietà si ripete e alla fine l’occhio, sazio, cessa di ricercarla e di apprezzarla. Se ci si ferma all’improvviso nella foresta, anche qui si è colpiti dalla verginità e trasparenza del silenzio. La foresta sta ritta ai due lati della strada; un fiumicello si addenta, nero, putrido e immobile tra gli alberi; qua e là in riva a quell’acqua bassa e melmosa si scorgono tronchi enormi che sono caduti per vecchiezza e si disfanno in pace, la pace eterna e mortuaria della preistoria. La foresta è funerea, tetra, muta e vuota; a quanto pare non ci sono nella foresta che serpenti e insetti. Anche la foresta, come la savana, sembra ogni tanto voler uscire dall’informità e accennare a qualche cosa di finito, di riconoscibile, di formato, come una radura, un sentiero, un albero isolato, un gruppo di alberi; ma quasi subito questo accenno si disfà, svanisce nell’informità verde buia della vegetazione equatoriale.
La preistoria in Africa non è soltanto nella conformazione del paesaggio ma anche nella presenza universale della sola tendenza religiosa veramente autoctona, la magia. In Europa il mondo magico sopravvive con relitti modesti e indecifrabili, come rottami sul mare dopo un naufragio; ma in Africa si avverte tutto il tempo che il mondo magico è ancora completo, intatto e funzionante. Ora il mondo magico non è altro che il mal d’Africa visto non più dalla parte degli europei ma da quella degli africani. Il mal d’Africa è un fascino con un fondo di paura, che è poi paura della preistoria cioè delle forze irrazionali che l’uomo da tante migliaia d’anni è riuscito in Europa a respingere e a dominare e che qui in Africa sono ancora invece invadenti e scatenate. E’ una paura alla quale l’europeo finisce per abituarsi, anche perché egli ha le sue radici altrove e la sua personalità è più solida e meno labile di quella dell’africano; una paura insomma, angosciosamente piacevole. Ma la paura dell’africano privo di storia, con una personalità vacillante come la luce di una candela, è paura sul serio, spavento senza nome, terrore perpetuo e oscuro. La magia è l’espressione di questa paura della preistoria; essa è tanto laida, tetra e demenziale quanto il mal d’Africa è afrodisiaco anche se disgregante e annientatore. In realtà la magia è l’altra faccia del mal d’Africa.

I reportage moraviani sull’Africa avvengono proprio negli anni della decolonizzazione dei paesi europei dall’Africa: il nostro ne mette in luce gli aspetti più contradditori, quali la persistenza di confini tracciati con il “righello” dalle varie potenze del vecchio continente e la non coincidenza con le varie tribù africane; l’ottenuta “libertà” politica e la mancata libertà economica per quello che storici e Moravia definiranno neocapitalismo coloniale. Dice a tal proposito lo storico Jack Woddis: «Gli investimenti occidentali, i prestiti, le politiche commerciali e i programmi di “aiuto” sono tutti rivolti allo scopo di mantenere questi territori quali produttori di materie prime, retroterra dell’imperialismo, importatori dai paesi metropolitani della maggior parte dei loro macchinari e manufatti. Gli investimenti privati, per esempio, sono diretti principalmente verso le imprese minerarie le piantagioni, fonti di immenso profitto per l’imperialismo. […] Ben scarsi capitali sono invece investiti nelle attività manifatturiere, con il risultato che nei paesi sottosviluppati non riescono a formarsi le premesse per lo sviluppo. Stando così le cose, le nuove nazioni si trovano nei guai: e si vendono il loro petrolio e minerali a condizioni nettamente favorevoli ai compratori e da qui sono prodotti finiti a condizioni vantaggiose per i fornitori, mentre le loro difficoltà sono aggravate dagli accordi internazionali sui trasporti marittimi in base ai quali i nodi sono manovrati in modo tale da recare ulteriori svantaggi ai paesi nuovi». Ciò non toglie, da parte dello scrittore romano, una certa fascinazione, che farà dell’Africa il continente più amato per la sua incommensurabile assenza di tempo: la presenza animale, le capanne, le nudità, le danze tribali, i colori e non per ultimo le immensità spaziali fanno dell’Africa un luogo senza tempo, preistorico, appunto, dove per preistorico Moravia intende il prevalere della natura sull’uomo.

Sebbene, come detto prima, Moravia rimanga affascinato dall’Africa, il suo “razionalismo”, oserei dire il suo antropologismo illuministico non viene meno quando visita Zanzibar, in Tanzania, luogo da cui mercanti arabi praticavano il commercio degli schiavi:

LO SCHIAVISMO

La schiavitù è uno dei misteri dell’Africa, tanto più oscuro quanto più noto nei suoi aspetti storici. Il motivo economico, al solito, non spiega niente: la schiavitù prim’ancora che un fatto economico è un fatto umano cioè psicologico e, in senso lato, religioso e di cultura. Il mistero della schiavitù è doppio: dalla parte degli schiavisti e dalla parte degli schiavi. Per gli schiavisti ci limiteremo ad osservare che essi erano così crudeli, insensibili e avidi perché, in buona fede, credevano che la loro cultura fosse la sola cultura possibile e vedendo che la cultura dei negri era diversa dalla loro ne inferivano che i negri non erano uomini ma bestie. In altri termini lo schiavista era un razzista di specie molto moderna; il nome della cultura, negava agli schiavi l’umanità ossia la fratellanza; da questo a trattare il negro come merce non c’era che un passo. Ma che altro hanno fatto in anni recenti i nazisti con le popolazioni dell’Europa orientale?
Parte degli schiavi, viene invece fatto di domandarsi quanta parte di responsabilità avessero in questa tragedia della schiavitù gli africani stessi. Siamo costretti a rispondere che alcuni caratteri storici della cultura africana certamente hanno favorito la schiavitù. Per prima cosa è noto che i mercanti di schiavi arabi ed europei trovarono un’attiva collaborazione nei re e capi tribù di tutta l’Africa nera. Questi monarchi consideravano i loro sudditi non come cittadini sia pure fortemente limitati nelle loro libertà individuali ma come oggetti di proprietà, né più né meno. Così gli pareva del tutto naturale barattarli con le conterie, i fili di rame e di ottone, le stoffe e le armi da fuoco dei negrieri. In principio a quanto sembra, i re negri consegnavano agli schiavisti soltanto i sudditi che avevano commesso qualche delitto; ma in seguito si propagò l’usanza di razziare intere popolazioni innocenti. In altri termini i negrieri facevano un po’ come i cacciatori di safari oggi; pagavano un prezzo per il diritto di rapire tante giovinette, tante donne con bambini, tanti ragazzi, tanti uomini adulti. E’ comprensibile che vedendo il re accettare questa metamorfosi dei propri sudditi in merce, essi non provassero scrupoli più tardi a vendere o lasciare deperire o addirittura distruggere quella stessa merce.
Resta poi da dire qualche cosa sul cannibalismo che i due secoli or sono era frequente in Africa e che secondo noi è connesso con la schiavitù di allora e di sempre. Il cannibalismo era quasi sempre rituale e magico; ma agli schiavisti non poteva non fare l’effetto di essere invece puramente economico cioè dovuto alla cronica penuria alimentare dell’Africa. I negrieri ignoravano completamente la magia che era all’origine del cannibalismo; e non potevano non notare che l’uomo il quale serve da alimento ad un’altro uomo, ha tutti i caratteri di un oggetto, anzi è l’oggetto per eccellenza in quanto viene utilizzato completamente e immediatamente attraverso l’inghiottimento, la masticazione, la digestione e la defecazione. Così, proprio la magia, che nell’intenzione degli africani doveva servire a confermare, attraverso il cannibalismo rituale, la superiorità dell’uomo di fronte alla natura, cioè di fronte agli oggetti; proprio la magia, invece, per un equivoco quasi ironico, incoraggiava gli schiavisti a trattare i negri come cose inanimate.

Podcast "Per terre e per mari" • Ep.3 - Tre secoli di tratta degli schiavi • Neodemos

“Quello che è successo in Africa dagli anni Novanta in poi – sotto la spinta di una globalizzazione e modernizzazione selvaggia, dell’incancrenirsi delle situazioni e dell’avvento di spaventosi fondamentalismi razziali e religiosi – ha segnato una discontinuità così netta e drammatica, che l’Africa pur così vicina nel tempo visitata da Moravia sembra non esistere più.” (Simone Casini, Moravia in Africa)

Come molti viaggi, Moravia visitò parte dell’Africa con Pier Paolo Pasolini, il quale cercava le location per il suo film con la Callas, Medea. La sua morte, avvenuta il 2 Novembre 1975, viene così pianta dallo scrittore:

ORAZIONE DI ALBERTO MORAVIA AI FUNERALI DI PASOLINI  
trascrizione dell’orazione di Moravia ai funerali di Pasolini, il 5 novembre 1975

L'orazione funebre di Alberto Moravia al funerale laico di Pier Paolo Pasolini - Abbanews

«Poi abbiamo perduto anche il simile. Cosa intendo per simile: intendo che lui ha fatto delle cose, si è allineato nella nostra cultura, accanto ai nostri maggiori scrittori, ai nostri maggiori registi. In questo era simile, cioè era un elemento prezioso di qualsiasi società. Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo (applausi). Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro. Poi abbiamo perduto anche un romanziere. Il romanziere delle borgate, il romanziere dei ragazzi di vita, della vita violenta. Un romanziere che aveva scritto due romanzi anch’essi esemplari, nei quali, accanto a un’osservazione molto realistica, c’erano delle soluzioni linguistiche, delle soluzioni, diciamo così, tra il dialetto e la lingua italiana che erano anch’esse stranamente nuove.
Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono, no? Pasolini fu la lezione dei giapponesi, fu la lezione del cinema migliore europeo. Ha fatto poi una serie di film alcuni dei quali sono così ispirati a quel suo realismo che io chiamo romanico, cioè un realismo arcaico, un realismo gentile e al tempo stesso misterioso. Altri ispirati ai miti, il mito di Edipo per esempio. Poi ancora al grande suo mito, il mito del sottoproletariato, il quale era portatore, secondo Pasolini, e questo l’ha spiegato in tutti i suoi film e i suoi romanzi, era portatore di una umiltà che potrebbe riportare a una palingenesi del mondo. Questo mito lui l’ha illustrato anche per esempio nell’ultimo film, che si chiama Il fiore delle Mille e una notte. Lì si vede come questo schema del sottoproletariato, questo schema dell’umiltà dei poveri, Pasolini l’aveva esteso in fondo a tutto il Terzo Mondo e alla cultura del Terzo Mondo. Infine, abbiamo perduto un saggista. Vorrei dire due parole particolari su questo saggista. Ora il saggista era anche quello una nuova attività, e a cosa corrispondeva questa nuova attività? Corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene a un altro aspetto di Pasolini. Benché fosse uno scrittore con dei fermenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico, tuttavia aveva un’attenzione per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Un’attenzione diciamolo pure patriottica che pochi hanno avuto. Tutto questo l’Italia l’ha perduto, ha perduto un uomo prezioso che era nel fiore degli anni. Ora io dico: quest’immagine che mi perseguita, di Pasolini che fugge a piedi, è inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso, è un’immagine emblematica di questo Paese. Cioè un’immagine che deve spingerci a migliorare questo Paese come Pasolini stesso avrebbe voluto (applausi)».  

Moravia non è stato solo un amico fraterno per Pasolini, ma è stato anche l’intellettuale con cui ha condiviso momenti di analisi e riflessione sulla realtà che circondava entrambi. Perchè per Moravia l’intellettuale ha il compito di essere testimone di realtà, non dimenticarsi mai di avere senso civico, farsi testimone con passione attraverso la scrittura, la pittura, e le immagini del mondo. Per questo Moravia riscopre il senso del vates, dando al poeta Pasolini quella sacralità che l’essere poeta aveva nella cultura classica, e come sacro vates, al pari di Tiresia, con la stessa forza di “scandalo” contro la mediocrità del pensiero omologato, viene colpito dall’autorità statale a cui dava fastidio.

Moravia torna al romanzo con La vita interiore, opera di lunga gestazione (sette anni), tanto che qualche critico ipotizza l’inizio della sua elaborazione nello stesso periodo di Io e lui. La storia di Desideria esce nel 1978, poco prima della rottura di Moravia con la compagna Dacia Maraini (con cui si manterrà sempre in contatto).

Desideria è una ragazzina obesa che vive con la madre Viola, vedova e ricca, che un giorno le confessa di averla comprata da una prostituta. Dopo aver assistito a una scena di sesso a tre della madre, Desideria cambia e crescendo diventa un’adolescente bellissima che scatena in Viola una morbosa attrazione sessuale. Durante una vacanza Desideria conosce Emilio, che cerca di educarla al marxismo, inoltre prende coscienza che Viola è incestuosamente attratta da lei, avendola masturbata nel sonno. Desideria si ribella, vuole diventare una prostituta, ma ha come unico cliente un siciliano spiantato, Erostrato, che le fa credere di essere parte di un gruppo di estrema sinistra che organizza sequestri per finanziare l’imminente rivoluzione antiborghese; Desideria pensa di servirsi di lui per sequestrare Viola, in modo da estorcerle un riscatto. Il luogo in cui tenere Viola prigioniera, secondo Desideria, potrebbe essere la garçonniere della madre, attirata lì con la promessa di un’orgia con la figlia adottiva ed il siciliano più un uomo di Milano, Quinto, in grado di organizzare il rapimento. Quinto dopo aver fatto il sopralluogo nell’appartamento dove tenere in ostaggio Viola, violenta Desideria. A questo punto, Desideria gli rivela che Erostrato è in realtà una spia infiltrata dalla polizia nel suo gruppo rivoluzionario, come provato in un dossier dei carabinieri in mano ad un amante della madre, Tiberi, e gli chiede di accompagnarla da lui per farsi dare il fascicolo. Tiberi però quando incontra Desideria tenta di violentarla. Quinto, che non sa nulla di quanto accaduto con Tiberi, la porta in una casa di appoggio per terroristi dalle parti di San Giovanni; Desideria però prende la pistola dal suo giubbotto e lo uccide. Uscita dalla casa, Desideria non si reca alla garçonnière per l’orgia con la madre adottiva e con Erostrato, interrompendo improvvisamente il racconto asserendo che quanto detto basta per conoscerla “come personaggio”.

L’opera sembra avere alcuni punti di contatto con il romanzo precedente: come in Io e lui anche qui si tratta di una scissione del personaggio: Desideria, infatti, ha una Voce che l’indirizza all’azione; allo stesso modo di Io e lui anche qui il rapporto con la realtà politica nella quale si trovano sia i personaggi che l’autore, assume un’importanza fondamentale: nel primo il ’68 e la contestazione giovanile, qui gli anni ’70 ed il terrorismo: non è un caso che qualcuno ha definito La vita interiore come un “Io e lei“.

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IL MIO NOME E’ DESIDERIA

Desideria: Il mio nome è Desideria. E ho avuto una Voce.
Io: Una Voce? Quale Voce?
Desideria: Ti risponderò con il passaggio di un libro.
Io: Quale libro?
Desideria: La vita di Giovanna D’Arco. Anche lei aveva una Voce. Ecco il passaggio: “Arrivò questa Voce verso l’ora di mezzodì, un giorno d’estate, nell’orto di mio padre. La vigilia avevo digiunato. Raramente la udivo senza vedere il chiarore dalla parte da dove la Voce si fa sentire. La prima volta che udii la Voce , votai la mia verginità finche fosse a Dio piaciuto”.
Io: Perché Giovanna d’Arco? Cos’ha a che fare Giovanna d’Arco con te?
Desideria: In questo passaggio si parla di due cose che ho avuto in comune con Giovanna d’Arco: la Voce e la verginità.  Per alcuni anni una Voce mi ha parlato, mi ha guidato, mi ha comandato. E, al tempo stesso, ho voluto, come Giovanna D’Arco, votare la mia verginità finché non fosse accaduto un certo avvenimento. Insomma, come Giovanna D’Arco, in me Voce e verginità erano collegate, l’una giustificava l’altra, l’una c’era perché c’era l’altra.
Io: Ma questa verginità tu non l’hai votata a Dio, no?
Desideria: No, l’ho votata a qualche cosa di diverso; che è pur sempre una specie di divinità, oggi, per molti.
Io: Che cos’è?
Desideria: Preferisco non dirlo. Si capirà dal mio racconto.
Io: Adesso sei ancora vergine?
Desideria: No, non lo sono più.
Io: Allora vuol dire che quel certo avvenimento per cui avevi votato la verginità è accaduto.
Desideria: No, non è accaduto.
Io: E la Voce?
Desideria: La Voce se ne è andata.
Io: Così non sei più vergine e non hai più la Voce?
Desideria: Sì è così. Sto per raccontarti appunto la storia di come ho perduto insieme la Verginità e la Voce.
Io: Cioé la storia del voto.
Desideria: Diciamo pure: la storia del voto.

 Il passo è indicativo di due aspetti fondamentali del romanzo: quello strutturale e quello “contenutistico”:

Strutturale: Il romanzo è tutto in forma dialogica, vi è un Io che domanda e Desideria che risponde. Chi è Io? Qualcuno lo indica come l’autore stesso, Moravia (nelle diverse redazioni) ora lo vede come lo psicoanalista, o ancora come il giudice che interroga Desideria, infine decide di renderlo senza identità. Quindi la storia viene ricostruita attraverso, diciamo così, l’intervista, per questo tutto il racconto si struttura come un flashback, in cui la protagonista racconta (in un non tempo) il tempo in cui da bambina diventa adolescente; ma è proprio nell’adolescenza che le appare la Voce; quindi Desideria risponde all’intervistante (in un eterno presente) ciò che la Voce, incalzandola continuamente, la “costringeva” ad agire. Ciò vuol dire che il romanzo si struttura su tre voci parlanti: l’Io che interroga, la Voce che interagisce e comanda, Desideria che racconta. Il romanzo narra la storia di Desideria sin da quando era bambina sino all’anno della “maturità; e rileggendo la sua vita Desideria rivede il tempo in cui “adolescente” brutta e grassa, si risveglia “ragazza” bellissima e nomen omen “desiderabile”.

Contenutistico: Sacralizzazione e desacralizzazione; prendendo come spunto Giovanna d’Arco e il ruolo che la Voce ha affinché ella possa votarsi a Dio, il romanzo ci narra la storia di una vocazione “rivoluzionaria” in cui la stessa rivoluzione ha lo stesso ruolo che Dio aveva per Giovanna D’arco; per giungere alla palingenesi proletaria Desideria deve desacralizzare i valori alto borghesi di cui a parte; e affinchè tutto questo possa avere luogo, Desideria si deve votare al terrorismo.

Il fine ultimo che la Voce (il suo super-Ego) comanda a Desideria è la desacralizzazione familiare. La ragazza non ha padre, Viola, la madre l’ha comprata da una prostituta; il fatto di “essere figlia” e nel contempo “non essere figlia” genera in Viola un desiderio sessuale morboso, riproponendo, in un certo qual modo, quel rapporto edipico che aveva caratterizzato Agostino. Qui il tutto viene “complicato” dall’atteggiamento sessuale di Viola e dal desiderio saffico di possedere Desideria.

Prime Video: Desideria - La Vita Interiore

L’immagine di Viola è un altro capolavoro moraviano: il suo essere nevrotica e sola ci viene illustrato quasi all’inizio del romanzo, con Desideria ancora piccola:

VIOLA

Io: Chi era la tua vera madre?
Desideria: Una donna del popolo che, a quanto pare, si era disfatta di me per essere più libera di fare la vita che le piaceva. Ho il sospetto che questa donna fosse stata cameriera in casa nostra; e che, anche se Viola non era mia madre, suo marito fosse davvero mio padre. Ma soltanto il sospetto. Del resto non mi sono mai curata di chiarire il mistero poco interessante delle mie origini; ciò che mi importava, come vedrai, non era di sapere chi erano i miei veri genitori, ma a quale classe appartenevano. Anzi, in qualche modo, o evitato di risalire fino alla persona di mia madre; mi bastava essere sicura che era una del popolo. Ma tu volevi sapere come era la mia madre adottiva. Prima di tutto era ricca.
Io: La ricchezza non è un carattere individuale.
Desideria: In lei, sì. Era anzitutto ricca. Come altre donne sono anzitutto brune o bionde, lei era anzitutto ricca.
Io: Era molto ricca?
Desideria: Sì, era ricchissima; ma non è questo il punto.
Io: Qual è il punto?
Desideria: Era “soltanto” ricca.
Io: Soltanto?
Desideria: Voglio dire che, per molti motivi, non aveva che il denaro sul quale ricadere, nella vita.
Io: Cosa vuoi dire con “ricadere”?
Desideria: Viola era una specie di apolide, ma non nel senso che si dà di solito a questa parola. In un senso, come dire? molto più completo. Era apolide non soltanto per quanto riguardava la patria, poiché era al tempo stesso americana, greca e italiana; ma anche per quanto riguardava la società e la famiglia, perché, allo stesso modo che aveva una patria soltanto legale, cioé soltanto iscritta nel passaporto (era cittadina americana) così non aveva che un simulacro di famiglia e non faceva parte che di una apparenza di società. Era, insomma, la persona più fantasticamente sradicata che abbia mai conosciuto. Figurati che non parlava nessuna lingua.
Io: Si parla sempre una lingua, anche se la si parla male.
Desideria: Forse non mi sono spiegata bene.  Viola non si esprimeva in alcuna lingua, si limitava a farsi capire, un po’ come i turisti in viaggio in un paese straniero.
Io: Che lingua parlava?
Desideria: L’inglese, ma quello degli emigrati, povero e gergale, perché, pur essendo nata negli Stati Uniti, non aveva fatto che pochi studi; l’italiano, ma anche questo in maniera sommaria, inframezzandovi parole dialettali (i suoi genitori erano emigrati in America dalla Calabria); un po’ di francese; un po’ di greco, un po’ di arabo. Normalmente, in casa, si esprimeva in italiano. Quando si arrabbiava e voleva essere dura e altezzosa, allora, curiosamente, veniva fuori l’inglese. Il francese, il greco e l’arabo si limitavano a poche parole che risalivano ogni tanto alla superficie del discorso, come relitti di un naufragio dopo la tempesta. Insomma era apolide anche linguisticamente: nel suo genere, un vero e proprio mostro.
Io: Allora vuoi dire che la ricchezza era una specie di patria per lei. Che le sue radici erano il denaro, il benessere che il denaro le assicurava. Il mondo è pieno di gente così.
Desideria: Ti sbagli. Non riusciva a dare importanza al denaro. Era invece ossessionata dalle cose che non aveva, soprattutto la famiglia e la società.
Io: Vuoi dire che la sua vita si imperniava sul fatto di avere una figlia adottiva, di appartenere alla società romana.
Desideria: Ti sbagli ancora una volta, la sua vita si imperniava sull’erotismo. Forse c’era stato un tempo, quando era venuta per la prima volta a Roma, in cui la vita in famiglia, il posto nella società erano stati la sua preoccupazione principale. Ma questo tempo era ormai lontano; adesso non le restava che è una specie di cocciuta nostalgia, di ostinata speranza.
Io: Nostalgia, speranza di che cosa?
Desideria: Di avere un giorno, per qualche miracolo, tutto ciò che per volontà non era riuscita ad ottenere. Intanto, però, con sua piena ma impotente consapevolezza, l’erotismo era diventato il centro della sua vita.
Io: Che era? Una maniaca sessuale?
Desideria: Non lo era nel senso di chi ha fatto una scelta definitiva; lo era, per così dire, in mancanza di meglio o, se preferisci, in mancanza di ciò che lei si ostinava a considerare il meglio. Avrebbe preferito essere una buona madre di famiglia, una rispettabile signora borghese; ma queste due cose le si presentavano, purtroppo, come due convenzioni O meglio come due parti da recitare, piuttosto che da vivere. Al contrario, l’erotismo, con sua disperazione, era la cosa vera reale, autentica che lei si sentiva portata a fare spontaneamente.
Io: Come fai a sapere tante cose del passato della tua madre adottiva?
Desideria: Ti ho già detto che affiorava continuamente in lei la speranza di qualche miracolo che la strappasse dall’erotismo e la restituisse, o meglio l’inserisse davvero e per la prima volta in una realtà di segno diverso. Qualche volta li avveniva di agire per favorire volontariamente questo inserimento. Per esempio, per quanto riguarda la sua ambizione sociale, mi è rimasto ricordo preciso sebbene remoto e quasi incredibile, Di una specie di catastrofe mondana avvenuta quando ero ancora bambina.
Io: Una catastrofe?
Desideria: Sì, un grande, solenne, ricevimento, al quale lei aveva invitato, diciamo Virgo un centinaio di persone e, come se si fossero messi d’accordo tra di loro, non venne nessuno.
Io: Nessuno?
Desideria: Sì, per quanto possa sembrare incredibile, proprio nessuno. Ricordo i preparativi, soprattutto gli immensi vassoi disposti su due grandi tavole, pieni fino al lordo di pasticcerie e di cibarie. Ricordo pure Viola in uno straordinario vestito da ricevimento.

Desideria: La vita interiore (1980)

Io: Perché straordinario?
Desideria: Hai presente i cappucci che si mettono sulle teiere affinché il tè non si raffreddi? Oppure i vestiti immensi, tenuti da armature di vimini, che indossano le donne nei quadri di Velasquez? Ebbene, Viola, per l’occasione del ricevimento, aveva fatto l’acquisto di un vestito simile. Ho assistito, ammirata e sbalordita, alla vestizione della mia madre adottiva. Per prima cosa, la cameriera l’ha aiutata a fissare alla vita la crinolina, cioè una specie di gabbia dentro la quale il corpo di viola mi è apparso improvvisamente esile, quasi il corpo di una adolescente, per contrasto con la smisurata larghezza dell’armatura; poi, le hai infilato il vestito per la testa, e ha fatto scendere fino ai piedi la gonna, coi suoi volanti e i suoi festoni. Il vestito aveva una scollatura posteriore molto profonda che arrivava fin sotto le reni e metteva in valore il dorso che era la cosa più bella di Viola. Sul davanti, invece, il petto sfornito era chiuso in un corpetto attillato. Io non dubitavo che questo vestito fosse elegantissimo, che Viola forse la donna più bella del mondo e che la sua festa sarebbe stata un grande successo; ricordo che le saltellavo intorno ripetendo: “Mamma, sarai la più bella di tutte.” Ahimè, non prevedevo che questa competizione non ci sarebbe stata, poiché, come ti ho detto, come se gli invitati si fossero passati la parola, nessuno, proprio nessuno, è venuto al ricevimento. Viola, una volta finito di vestirsi, si è mossa maestosamente anche se con impaccio; per passare attraverso la porta, si è messa di sbieco; poi, camminando piano e facendo dondolare ad ogni passo la crinolina, è andata a sedersi nel soggiorno, davanti alle tavole del buffet, su un divano che quella gonna smisurata ha subito ricoperto quasi del tutto; e lì è rimasta ad aspettare. Dietro le tavole del buffet due camerieri se ne stavano in piedi, cercando di occupare il tempo con lo spostare le bottiglie o i vassoi; dal fondo del soggiorno giungevano gli arpeggi di un gruppo di suonatori sistemati sopra una specie di pedana; Viola stava ferma, le braccia aperte e distese sulla gonna, il busto eretto, gli occhi fissi su uno dei vassoi, nel quale troneggiava un grosso tacchino arrostito. E’ passata così un’ora, si poteva ancora supporre che gli invitati, come avviene spesso a Roma, fossero in ritardo. Ma quando anche la seconda ora è trascorsa senza che venisse nessuno, e i due camerieri, stufi di starsene in piedi, si sono seduti dietro il tavolo del buffet fumando e chiacchierando a bassa voce, e dal fondo del soggiorno non è più giunto alcun suono, come se i suonatori si fossero addormentati tutti e cinque sui loro strumenti; allora Viola ha detto a uno dei servitori che le portasse un whisky. Non so perché, questo whisky, bevuto in solitudine davanti al buffet intatto, nel silenzio del grande soggiorno illuminato e deserto, mi ha fatto capire, ad un tratto, che il ricevimento era fallito, che nessuno sarebbe venuto, che nessuno voleva saperne di mia madre e di me. Ero rimasta fino a quel momento anche io seduta su una delle immense poltrone del soggiorno; ma poiché ho visto Viola portare alla bocca il bicchiere e vuotarlo in un solo sorso e poi subito dopo far cenno al cameriere che gliene portasse un altro, sono scappata in camera mia, mi sono gettata sul letto, ho preso a singhiozzare per un senso oscuro di umiliazione e di offesa. Non ero stata io ad essere offesa e umiliata, ma mia madre; proprio per questo tanto maggiore era il mio sentimento di amarezza e di vergogna. Sono poi rimasta sul letto, al buio, senza avere il coraggio di alzarmi. Ogni tanto tendevo l’orecchio ad ascoltare se si sentiva il rumore degli arrivi; ma tutto era silenzio. Alla fine mi sono addormentata, forse avrò dormito un paio d’ore. Poi mi sono destata di soprassalto e, senza indugio, quasi meccanicamente, ravviando i capelli e stendendo con le mani la veste spiegazzata, sono tornata nel soggiorno. Senza dubbio licenziati da Viola, i camerieri e i suonatori erano scomparsi. Ma Viola stava tuttora seduta sul divano nel suo incredibile vestito, davanti al tavolino sul quale ho subito visto il bicchiere ancora mezzo pieno e la bottiglia quasi completamente vuota. Guardava davanti a sé, come due ore prima, gli occhi fissi all’enorme e ironico tacchino troneggiante sul vassoio del buffet; quasi avesse voluto evocare, con quello sguardo sbarrato, la folla assente degli invitati alla festa. Mi sono avvicinata, ho detto sottovoce: “Mamma, non è venuto nessuno. Forse ti sei sbagliata, era per domani”; e come risposta mi è subito arrivato un manrovescio violentissimo sulla bocca e sulla guancia, reso ancor più doloroso dai massicci anelli che aveva alle dita. Quindi si è alzata e, barcollando nel suo vestito oscillante e smisurato, si è avviata verso il fondo del soggiorno. Camminava in maniera incerta; si vedeva che era ubriaca. Nonostante il dolore del ceffone, ho provato, vedendola andarsene via così, con quella sua enorme gonna sbilenca, un senso forte di compassione. Poi è arrivata alla porta, ne ha aperto un battente, e si è messa di lato per far passare il vestito e… è cascata in terra e vi è rimasta, immobile, simile ad una gigantesca bambola dalle giunture spezzate.

Viola è un personaggio importante nell’economia del romanzo: donna fondamentalmente sola, la cui origine nonché straordinaria ricchezza la isolano ancor di più, viene descritta in questo passo come piena di una inconcludente nostalgia; Viola è, infatti, un donna sbagliata, desidera sempre ciò che sarebbe bene non desiderasse.
Vorrebbe essere una “normale” madre borghese, ma non riesce ad allontanare da sé il richiamo sessuale che la figlia adolescente le ispira: sarà forse perchè una normale “madre borghese” non si fa trovare dalla figlia adottiva in un atteggiamento di ménage a trois con l’amministratore e una cameriera, nell’atto di farsi sodomizzare. Atto “cristallizzato” nella mente di Viola, tanto da “rapire” i fidanzati di Desideria per ripetere quella situazione, insieme alla figliaNon è un caso che, se si parla di desacralizzazione dell’ideologia borghese, tale scelta deve colpire l’erotismo materno, se, come dice Moravia stesso, i terroristi sono fortemente moralisti.

Dapprima Desideria desacralizza il linguaggio, rivolgendo a Viola parole oscene e triviali che riguardano sempre la sfera sessuale, poi passa a desacralizzare la cultura, e non è un caso che ad essere oggetto di tale atto non può essere che il libro sacro per la letteratura italiana, e più specificatamente, per il romanzo italiano: I promessi sposi.

Desideria: La vita interiore (1980)

DISSACRAZIONE CULTURALE

Io: Torniamo al piano. Quale è stata, la trasgressione-dissacraziane che hai affrontato dopo quella del linguaggio?
Desideria: Quella della cultura.
Io: Ecco qualche cosa di importante: quale cultura?
Desideria: A quindici anni, per lo più per cultura si intende tutto ciò che viene insegnato a scuola. Così la dissacrazione è stata infantile ed esterna, non mi è neppure venuto in mente che la cultura dovessere essere trasgredita e dissacrata con un’altra cultura o, come si dice oggi, con la controcultura.  Ho invece organizzato una specie di rito scatologico col quale mi sono illusa di rigettare una volta per sempre la cultura di tutti i tempi e di tutti i luoghi, dalle origini fino ad oggi.
Io: Un rito scatologico?
Desideria: Sì, scatologico, escrementizio. Uno di quei pomeriggi che Viola era uscita e io ero rimasta a casa sola per preparare i compiti, ho preso I promessi sposi in una bella edizione di carta sottile, sono andata in bagno, ho posato il libro sul bordo del lavandino, ho tirato giù i pantaloni, mi sono seduta sulla tazza, ho defecato. Quindi ho messo il libro sulle ginocchia, l’ho aperto ad un passaggio scelto in precedenza, ho strappato la pagina, mi sono pulita il sedere, ho guardato per un momento alla pagina tutta gualcita e insudiciata, l’ho gettata sull’escremento, in fondo alla tazza, e ci ho orinato sopra.
Io: Perché proprio I promessi sposi?
Desideria: Forse perché a scuola attribuivano una grande importanza a quel romanzo; ma forse anche per quello che c’era scritto nella pagina che avevo strappato.
Io: Che pagina era?
Desideria: La pagina finale, in cui il personaggio di Renzo dice: “Ho imparato a non mettermi nei tumulti, ho imparato a non predicare in piazza, ho imparato a non alzare troppo il gomito,” eccetera, eccetera.Io: Chi aveva scelto questa pagina? Tu o la Voce?Desideria: Naturalmente, la Voce. Io non sapevo nulla di tumulti, di piazze, di alzare il gomito; quella pagina mi lasciava indifferente. Ma la Voce pareva intensamente irritata da quella pagina. “Pulisciti ben bene il culo con quella pagina,” mi ha detto in tono furioso, “mettiti bene in mente che nel momento stesso che ti pulisci il culo con quella pagina, e con tutta la loro maledetta cultura che te lo pulisci, in maniera definitiva e irreversibile.”Io: Loro, chi?Desideria: Loro, cioè Viola, la gente dei Parioli, gli insegnanti, eccetera, eccetera.Io: E tu avevi l’impressione che questo fosse veramente accaduto?Desideria: Questo, che cosa? Hai
Io: Voglio dire che quella pagina de I promessi sposi simboleggiasse davvero l’intera cultura dalle origini a oggi?
Desideria: Io non avevo alcuna impressione perché non ero colta. La Voce invece era colta E per lei l’operazione simbolica che ti ho or ora descritto, ha funzionato. Ha esclamato mentre premevo il bottone e scatenato il getto d’acqua sulla pagina insudiciata: “Non ti senti meglio adesso?”

Moravia aveva un rapporto che potremo definire complesso con I promessi sposi: imputava loro una sovrastruttura cristiana ideologica che ne inficiava il disegno generale: le parti migliori, per l’autore romano, sono quelle “decadenti”, riferite alla monaca di Monza e alla peste. Ma perchè qui la Voce sceglie l’ultima pagina? Se la Voce spinge Desideria all’azione rivoluzionaria antiborghese non può che scegliere, per dissacrare, la pagina in cui Renzo da filatore, diventa un borghese dai valori cattolici, un piccolo imprenditore er un buon padre di famiglia: tutto ciò contro cui deve lottare Desideria.

Erostrato è un personaggio che entra in contatto con Desideria quando lei, nella sua furia iconoclasta, decide di prostituirsi; il siciliano Erostrato sarà l’unico cliente. Desideria lo conquista, ma a farlo suo sarà Viola che “lo assume” come amministratore, ma in realtà ne fa il suo prostituto. La ragazza cercherà di coinvolgerlo nell’atto terroristico di rapire Viola e, con il riscatto, pagare le azioni rivoluzionarie. Ma di fronte ai suoi tentennamenti, così Desideria lo investe:

EROSTRATO

Desideria - La vita interiore - Film (1980) - MYmovies.it

Vittorio Mezzogiorno interpreta la parte di Erostrato

Desideria: “Vigliacco, bugiardo, ero venuta qui con l’intenzione di essere sincera con te e di fare in modo che tu lo fossi con me. Io non ti amo anche se il giorno del nostro primo incontro abbiamo fatto l’amore; non ti amo e non ti amerò mai; ma provo per te un sentimento di affetto come può provarlo una sorella per un fratello. E lo sai perché? Perché io sono una trovatella, una bastarda, una figlia del popolo venduta da sua madre ad una signora pariolina è introdotta a forza e senza il suo consenso in questa borghesia di merda e so anche, bada bene, Nonostante tutte le frottole che mi hai raccontate, so di certo che tu sei come me, sei un proletario, un figlio del popolo sprofondato fino agli occhi nel pantano borghese. Ma la differenza fra me e te è che io tutto questo non soltanto lo so, ma anche lo accetto e tu invece non lo accetti e a forza di non accettarlo quasi ti convinci di ignorarlo. Io ero venuta oggi affinché fra di noi ci fosse la verità, soltanto la verità con il suo coraggio e la sua luce; ed invece che cosa ho trovato? Un vigliacco che non parla e non risponde scappa via come un topo di fogna stanato dal suo buco. Sì, tu sei un bugiardo, non posso provarlo ma lo so di certo; non è vero che sei figlio di un barone siciliano proprietario di terre, non è vero che sei laureato in scienze economiche, non è vero che sei mantenuto a Roma da tuo padre; non è vero niente. Tu sei figlio del popolo, ma la vergogna di esserlo, la smania che ti divora di essere un borghese hanno fatto di te un uomo volgare, un tipo losco, un tanghero. Invece di ribellarti, ti sei adattato, hai mentito a te e agli altri, ti sei venduto, ti sei prostituito. Sei corrotto a fondo, fino al midollo, sei una vera e propria merda. Quanto al gruppo, all’azione rivoluzionaria e a tutte le altre balle, è chiaro che ti sei inventato ogni cosa, per abbindolarmi, per portarmi a fare l’amore a tre, come vuole Viola, di cui c’è il servo, il mantenuto, il mezzano. Adesso vorrai sapere come faccio ad essere così sicura, che sei un bugiardo, un vigliacco e una merda ed io ti rispondo che lo so perché ti ho capito fin dal nostro primo incontro e ho penetrato il tuo segreto, come se tu fossi stato trasparente e io ti avessi letto dentro. E quale è il tuo segreto? Il tuo segreto e che, dopo tutto, anche tu hai una coscienza, magari sepolta sotto un monte di merda, Stessa coscienza consiste nel fatto che sai di essere corrotto fino al midollo e siccome lo sai desideri morire, non esistere più, tornare ad essere quello che eri prima di nascere, vale a dire un feto, un embrione, nulla. E sai come me ne sono accorta? Me ne sono accorta dal modo con il quale quel giorno hai fatto l’amore orale. Mentre stavo supina, con le gambe spalancate e tu inginocchiato davanti a me mi baciavi il sesso, ho sentito con precisione che non cercavi il tuo piacere, ma volevi semplicemente morire, sì, morire dentro il mio ventre che per te virgola in quel momento, era il ventre di tua madre, cioè di fare a ritroso il cammino che avevi già fatto venendo al mondo, acciambellarti dentro di me, come il feto, con le braccia conserte e gli occhi chiusi, un embrione, un grumo di vita, un nulla. Sì, questo è ciò che mi chiedevi con la coscienza di chiedermi l’impossibile; infatti facevi un gemito triste e disperato che mi ha commosso, perché ci ho sentito tutto il tuo orrore della vita e tutta la tua nostalgia della morte. Mi ha commosso e mi ha ispirato il sentimento fraterno che oggi mi ha fatto venire qui per proporti il sequestro di Viola. Già, perché questa è la tua ultima occasione per tirarti fuori dalla merda ed essere un uomo e non avere più la nostalgia del nulla ed amare la vita. Se tu fai con me questo sequestro, anche se il gruppo non c’è non esiste, come sono convinta, fai qualche cosa che ti salva. Ma se rifiuti la mia proposta, allora non ci sarà più nulla da fare, sarai perduto senza rimedio e continuerai a battere alle porte del nulla, tra le gambe delle donne, a tentare l’impossibile e naturalmente non ti sarà aperto e perciò continuerai fino all’ultimo ad essere un vigliacco, un bugiardo, un uomo volgare, un prostituto, un tanghero!

Erostrato viene letto da Desideria, ma a far parlare Desideria è Moravia, quindi lo scrittore romano ci disegna un personaggio maschile fortemente ambiguo che risponde in modo perfetto alla complessità dei tempi. Erostrato è, infatti, oggi si direbbe, un doppiogiochista: informatore della polizia, mezzo mafioso che si è “infiltrato” nei gruppi rivoluzionari. Il tono con cui Desideria lo investe certamente non può essere capito da lui, che lo ignora. Egli tuttavia incarna, e qui la protagonista in qualche modo ripete il Moravia “africano” il binomio già dello schiavismo merce = nullità di umanità; Erostatrato si prostituisce a Viola, viene pertanto “comprato” da Viola, quindi è un nulla, e come un nulla sparirà, a fine romanzo, senza che noi lettori, potessimo sapere la sua fine.

La pagina è importante perché ci porta ad affrontare un altro discorso dell’autore Moravia: quello del sesso, descritto in modo esplicito. Ci riporta Daniela Mangione nell’Introduzione un riferimento su questo tema: “Nel mio libro il sesso serve a caratterizzare i personaggi, né più né meno come la redingote serviva a caratterizzare i personaggi di Balzac e di Dickens” ripete perentorio Moravia ai molti che lamentavano gli eccessi sessuali de La vita interiore. Notava Giuliano Gramigna, “Moravia configura ogni esercizio erotico come l’articolazione di una lingua nella quale ciascun ‘parlante’ prende atto di sé”. Il sesso svela e definisce l’identità dei personaggi; segna ritmi, modi e modelli di vita.

Prime Video: Desideria - La Vita InterioreKlaus Löwitsch e Lara Wendel in una scena del film

Il libro, alla sua uscita, 1978, ebbe un’accoglienza piuttosto fredda da parte della critica, quanto invece certamente positiva da parte dei lettori (a tutt’oggi rimane, forse, il romanzo, al netto de Gli Indifferenti, più letto di Moravia). Ciò in parte è avvenuto, secondo noi, per l’eccessiva attesa che l’opera stessa aveva suscitato in un periodo che, in qualche modo, aveva cancellato la sua peculiarità letteraria. Afferma Simone Casini, curatore del 5° vol. delle Opere complete di Moravia: “Ma La vita interiore è anche un azzardo molto maggiore di quanto Moravia avesse mai osato. Mettersi a scrivere un romanzo sul terrorismo degli anni settanta senza in realtà conoscerlo da vicino o da coetaneo, senza studiarne zolianamente ambiente e psicologie, senza naturalmente condividerne le idee e le abitudini, ma solo da acuto e assiduo osservatore critico, e inseguendo in effetti una problematica sì necessaria e pertinente ma anche diversa, modellata di fatto sui Demoni di Dostoevskij e sui propri personaggi da Gli indifferenti in poi, era un’operazione destinata inevitabilmente a creare una sorta di monstrum e a provocare quel disorientamento che infatti produsse, uscendo per fatalità nei giorni del delitto Moro.”Impegno controvoglia - Alberto Moravia - Libro Usato - Bompiani - saggi bompiani | IBS

Due anni dopo escono, a cura di Renzo Paris, i saggi raccolti in Impegno controvoglia, il cui sottotitolo recita: saggi, articoli interviste: trentacinque anni di scritti politici. Si tratta perciò di un’opera saggistica in cui il curatore ha raccolto ciò che Moravia ha pubblicato su varie riviste (Corriere della Sera, La Repubblica, L’Espresso, Nuovi Argomenti, per citare le maggiori) dal 1943 al 1978, precedute da un’intervista dello stesso Paris con lo scrittore romano.

L’opera inizia con tre saggi che lo pongono nettamente “contro” il fascismo (fra questi ricordiamo il fondamentale La Speranza ossia Crisianesimo e Comunismo scritto nel ’44); quindi procede con una serie di scritti che analizzano la “realtà politica e sociale” sia nazionale che internazionale: (i sessantottini; la guerra in Vietnam, il referendum per il divorzio. Molto interessanti, perché ancora estremamente attuali, le riflessioni sul conflitto israelo-palestinese; sul terrorismo e le BR, sulle stragi di Stato). Insomma un libro composito, tenuto insieme dalla forza ragionativa e dalla capacità di leggere in modo profondo dello stesso Moravia.

A chiarire il compito che lo scrittore romano affida all’intellettuale, illuminante è la risposta, nell’Introduzione dell’opera, che Moravia offre a Renzo Paris:

COMPITO DELL’INTELLETTUALE: IMPEGNARSI O DISIMPEGNARSI?

R.P.:  Accettando l’esistenza della lotta di classe nelle civiltà industriali avanzate, non ti sei mai spinto verso la militanza politica vera e propria, in polemica con Sartre, per non dover deperire come scrittore?
A.M.:  Non sono tanto sicuro che la lotta di classe sia propria della civiltà industriale avanzata. Direi anzi che la storia dimostra il contrario; la lotta di classe caratterizza semmai il passaggio dalla civiltà contadina alla civiltà industriale e sbocca spesso in una rivoluzione là dove come nella Francia del 1789 e nella Russia del 1917 questo passaggio non avviene in maniera graduale e pacifica. Ma una volta che la rivoluzione industriale sia stata veramente e completamente realizzata la lotta di classe pare essere sostituita da altre lotte, magari anche più eversive e violente ma non basate sulle differenze sociali. La rivoluzione francese e la rivoluzione russa sono due buoni esempi di lotta di classe rivoluzionaria dovuti al passaggio infelice dalla civiltà contadina alla civiltà industriale. In ambedue i casi si trattava di abbattere un nemico personalizzato e riconoscibile, il grande proprietario terriero, il padrone paleocapitalista. Ma nella civiltà industriale avanzata, la lotta di classe sia perché il proletariato, così nei paesi capitalisti come in quelli del socialismo reale, e stato coinvolto nel processo produttivo, sia perché hai latifondisti e hai padrone subentrano adesso le astratte multinazionali e le non meno astratte burocrazie statali, la lotta di classe, diciamo, si trasforma nella ben più temibile lotta per la qualità umana della vita, lotta priva di progetti alternativi che non siano utopistici e, per questo, sempre sull’orlo del rigetto totale, del nichilismo sistematico. Così, nel futuro, vi saranno forse ancora classi privilegiate e classi oppresse, ma esse serviranno sempre più a mascherare un destino alienante e disumanizzante comune a tutta la società presa nel suo insieme. Qualcuno giudicherà fantascientifiche queste previsioni. Ma il fatto che l’abolizione conclamata delle classi e dunque anche della lotta di classe nei paesi del socialismo reale non abbia portato alla fine dell’alienazione, sta dimostrare che l’alienazione è inerente alla natura stessa della civiltà industriale, nella quale, in realtà sono le masse ad alienare le masse. Lo stesso avviene a maggior ragione anche nei paesi più industrializzati dell’Occidente sia pure con una differenza: che le masse vi alienano le masse nel contesto di una società individualista e capitalista, mentre nei paesi dell’est si deve piuttosto parlare di una società socialista e castrense. Certo a est, non vi sono le differenze offensive di ricchezza che vi sono a ovest; ma il punto non è questo. Il punto è che nè la borghesia coi suoi manager né il proletariato coi suoi burocrati sembrano capaci di risolvere i problemi profondi della civiltà industriale. La quale, avanzando da ovest a est padre portare all’annullamento delle classi attraverso l’adozione di un modo di vita uniforme che vede da una parte la proletarizzazione della borghesia e dall’altra l’imborghesimento del proletariato.
In queste condizioni, la militanza politica dell’intellettuale è per lo meno problematica: al contrario delle masse che per lo più sono l’oggetto inconsapevole della storia, l’intellettuale dovrebbe esserne il soggetto lucido e consapevole. E infatti oggi abbiamo l’intellettuale impegnato che lotta senza desiderare veramente di vincere perché sa che la vittoria non potrà non portare alla propria sconfitta.
E quanto al fatto di accettare di deperire come scrittore, penso che nel caso di J. P. Sartre Si tratti di razionalizzazioni, peraltro molto umane, di una situazione personale: Sartre ha abbandonato la letteratura per la politica; da molti anni è più un politico che uno scrittore. Adesso mi sia consentito di razionalizzare a mia volta la mia situazione personale. Per conto mio, come ho già detto altre volte, l’impegno ossia il cosiddetto “engagement” Non è questione di necessità esterna, per cui, in determinate circostanze lo scrittore “deve” cessare di scrivere e “deve” invece impegnarsi nella politica, bensì di vocazione interiore: ci sono scrittori “impegnati” anche in tempi di distinzione politica e ci sono scrittori disimpegnati anche in tempi di turbolenza politica. Quanto a dire che in ambedue i casi si tratterà di vedere se lo scrittore si sentiva “chiamato” a deperire come scrittore. Che utilità può ricavare infatti qualsiasi società da uno scrittore che volontaristicamente si snatura e rifiuta se stesso per far piacere alla società stessa? E più radicalmente, perché non viene il sospetto che l’arte in generale assolve nella società una funzione diversa anzi opposta a quella della politica? E che il caso del realismo socialista ossia di una società letteraria nella quale gli scrittori accettarono con entusiasmo e con zero di deperire come scrittori, e istruttivo se non altro perché dimostra che la letteratura non è un corpo separato dallo Stato? E d’altra parte, formulata l’ipotesi che l’arte non sia “ingegneria delle anime” ma espressione individuale del represso collettivo, non si va più vicino alla verità dicendo che per l’artista il solo impegno degno di questo nome e l’impegno artistico? Anche perché l’impegno artistico e l’impegno più politico che sia possibile ad un’artista.

VenerdìPoesia n.17: Renzo Paris | Il vento distante

Renzo Paris

In modo più chiaro Moravia, rispondendo ad un intervistatore televisivo, spiega, come afferma da quanto riportato, il titolo contradditorio o ossimorico dell’opera: «Ogni volta che ho scritto di politica ho sentito che qualche cosa mi resisteva, questo qualche cosa è molto semplice: l’artista si occupa diciamo così della ricerca dell’assoluto, il politico del possibile; perciò in me resiste l’artista quando parla di politica, perché la tentazione dell’artista parlando di politica è di andare verso l’assoluto, che in politica è detestabile e invece bisogna tenersi possibile, al contingente. Però sono anche un cittadino voglio dire è innegabile che sono un cittadino un uomo che sente la politica, non soltanto, la segue con curiosità ma la sente come qualcosa di reale, perciò ci sono portato naturalmente. E perciò sì in fondo il “controvoglia” è falso: va bene ammetto che vi sia una certa falsità nel termine».

Lettere dal Sahara

Dopo un anno, nel 1981, la casa editrice raccoglie un’altra serie di reportage dal continente africano, scritti per il Corriere della Sera tra il 1975 e il 1981, dando al volume il titolo Lettere dal Sahara. Il testo, sempre di carattere odeporico, è strutturato in quattro parti (Diario d’Avorio; Lettere dal Sahara; Kenia e il Lago Rodolfo; Viaggio nello Zaire).

L’intento della raccolta giornalistica ce lo offre lo stesso Moravia:

DIARIO D’AVORIO

Inizio Il giornale di viaggio in Costa d’Avorio e mi domando che cosa scriverò. Non ho che l’imbarazzo della scelta. La Costa d’Avorio è un paese non grande poco meno dell’Italia con quattro milioni di abitanti ma con contrasti molto forti: a nord tribù animiste tra le più tradizionali di tutta l’Africa, i malinké, i senufo, sopratutto i lobi: a sud la grande città di Abidjan, la più bella e la più moderna del continente nero. Anche dal punto di vista naturale, la Costa d’Avorio è un paese, come si dice, di contrasti. A nord c’è la fascia della boscaglia; a sud, la foresta equatoriale, in parte ancora inesplorata (in francese forét à galerie, Cioè la foresta i cui alberi giganteschi, congiungendosi coi rami, creano delle vere e proprie gallerie vegetali). A questi aspetti più ovvi se ne aggiungono tantissimi altri di tutti i generi, così che, in fondo, potrei scrivere di tutto ossia, come si dice oggi nel gergo dell’industria culturale, ” a livello” indifferentemente sociologico, politico, culturale, antropologico, religioso ecc. ecc. Ma, dopo riflessione, alla fine, mi dico che non ne farò nulla. Scriverò invece un diario di pure e semplici impressioni; e poiché mi trovo in un paese che si chiama Costa d’Avorio lo chiamerò ” diario avorio”, immaginando di scriverlo via via in un libro dalla rilegatura d’avorio, simile agli antichi messali ornati di avori intagliati.
Le impressioni che consegnerò in questo diario saranno soprattutto “visive”; quanto a dire che descriverò quello che vedo nonché il “senso” di quello che vedo ma non più che il senso, cioè quello che penso della cosa nel momento stesso che la vedo. Sarà, insomma, il diario di un turista. So bene che le parole turista e turismo sono screditate; e che fanno pensare subito alle agenzie di viaggi, alla pubblicità delle crociere, agli autobus di Rome by night. Ma, dopo tutto, il turismo non è sempre stato soltanto consumismo; originariamente era una forma di educazione sentimentale; si partiva per il tour o per il grand tour per conoscere il mondo e, attraverso il mondo, se stessi; cioè, per constatare con l’esperienza diretta che, pur sotto diversissime apparenze, il mondo era pur sempre uno solo. Il turismo, insomma, era un modo di vedere la realtà non di spiegarla; di raccontarla non di smascherarla. Questa maniera di viaggiare richiedeva soprattutto sensibilità e curiosità; ma alla fine si rivelava più proficua delle inchieste dei cosiddetti esperti, perché informava il lettore non già delle cose divulgabili e approfonditi che tutti possono sapere ma di quelle che il viaggiatore era stato solo approvare, cioè appunto, come ho detto, delle sue impressioni.
D’altra parte le cose che si vedono cambiano molto meno di quelle che si pensano; e se cambiano questo avviene a causa del passare non già della moda ma del tempo. E infatti il turismo in passato è stato praticato da viaggiatori cui libri si leggeranno ancora quando quelli di molti sociologi, economisti, etnologi e storici saranno dimenticati perché, come si dice, superati. A questa categoria di scrittori turistici che ci hanno tramandato le loro impressioni, appartiene, per esempio, Stendhal, tanto per fare un solo nome. Stendhal non è mai stato in Africa; ma sono sicuro che se ci fosse stato, mi avrebbe parlato, come ha parlato dell’Italia: impressionisticamente, senza cercare di spiegarla e giudicarla, limitandosi ad evocarla e a descriverla.

«Lettere dal Sahara all’epoca della prima pubblicazione fu accolto abbastanza tiepidamente e duramente criticato da sinistra: si accusava Moravia di superficialità, di mancato approfondimento sociale e politico, di scarsa empatia con le popolazioni locali, di avere un approccio paternalistico, quasi da colonialista illuminato. Lui si difese rivendicando la propria natura di scrittore, precisando di non essere un giornalista ma piuttosto un artista “che dipinge la realtà che vede, affascinato dalle sensazioni che questa produce in lui, senza dover per forza svolgere delle inchieste, fare il punto della situazione e quindi spesso sorvolando su questioni importanti del contesto politico o sociale dei luoghi che visita”. E a dire il vero proprio in Lettere dal Sahara Moravia sottolinea: “Le impressioni che consegnerò in questo diario saranno soprattutto visive; quanto a dire che descriverò quello che vedo nonché il “senso” di quello che vedo ma non più che il senso, cioè quello che penso della cosa nel momento stesso che la vedo. Sarà, insomma, il diario di un turista”». (Mangialibri, blog on line).

Nel 1982 Moravia pubblica un nuovo romanzo, 1934, strutturato in 15 brevi capitoli con un narratore autodiegetico:1934 da Moravia, Alberto [A. Pincherle]: (1982) | Libreria Antiquaria Pontremoli SRL

Ambientato a Capri, vi si racconta la storia di Lucio, giovane intellettuale antifascista italiano, che si domanda, alla stregua del Werther di Goethe, se sia possibile vivere nella disperazione senza desiderare la morte. Sul battello per l’isola, incrocia gli occhi di una giovane tedesca con cui intesse un’intensa e articolata conversazione fatta di sguardi. Lucio se ne innamora perché legge negli occhi di lei la sua disperazione; Lucio, nonostante lei si accompagni ad un marito geloso, ormai innamorato, li segue. Riesce ad alloggiare nello stesso hotel e, durante la cena si siede accanto alla coppia, riprendendo a “dialogare” con gli occhi con la giovane ragazza, il cui nome è Beate, tentando in ogni modo di strapparle un appuntamento, perché Lucio, alla ricerca di “stabilizzare” la disperazione attraverso l’amore o la letteratura, percepisce che la giovane tedesca è sinceramente interessata a lui. Nei giorni seguenti Lucio rincorre Beate dovunque, cercando il suo sguardo: sente, nel vedere quegli occhi, che ha qualcosa di grande in comune con lei, quella stessa disperazione che in Lucio vuole essere “stabilizzata”. Capisce dunque che lui stesso potrebbe “salvarla”, e condividere il lo stato comune, risparmiando a entrambi il suicidio. Inaspettatamente Lucio riesce, dopo svariate “conversazioni” fatte solamente di sguardi, a parlare con Beate: poche parole, e uno strano appuntamento: Beate si accorda con Lucio di venirlo a trovare quella stessa notte; in cambio Lucio avrebbe dovuto fare con lei “una certa cosa”; siccome Lucio era venuto a conoscenza della passione nutrita da Beate per Kleist, sul quale lo stesso Lucio si era laureato all’università di Monaco e di cui sta traducendo un racconto, egli subito associa quella “certa cosa” al suicidio a due: Kleist infatti si suicidò nel 1811 con l’amica Henriette Vogel. In attesa di Beate Lucio fa la conoscenza di una governante caprese di origini russe, Sonia, un ex appartenente al Partito Socialista Rivoluzionario, una “morta vivente” di cui Lucio si interessa e con la quale trascorre il tempo prima della mezzanotte. Di qui un improvviso cambio di scena: Beate parte senza far visita a Lucio. Il giorno prima aveva però annunciato a Lucio l’arrivo a Capri della sua sorella gemella Trude insieme alla madre; eccola, infatti, la sera stessa: con sorpresa egli vede Trude e fa subito la sua conoscenza assieme alla madre, Paula. Dopo la cena Lucio e Trude passeggiano per le vie del paese al chiaro di Luna, ma Lucio è confuso e lo sarà anche nei giorni seguenti; lui ama Beate, eppure Trude le assomiglia così tanto fisicamente, ma si rende conto di avere di fronte due persone caratterialmente opposte: Beate riservata, misteriosa, dagli occhi oscuri e profondi; Trude vulcanica, irriverente e sfacciata, dagli occhi scintillanti. Di nuovo, Lucio cade in una profonda riflessione: Trude aveva materialmente soppiantato Beate, ma Lucio amava la spiritualità di quest’ultima. Trude, interessata a Lucio, propone al giovane italiano di inscenare una sorta di teatro in cui la stessa Trude avrebbe preso le parti, anche quella spirituale, di Beate e con cui lui avrebbe potuto soddisfare le sue voglie. Lucio è ancora più confuso, ma improvvisamente Paula dialogherà con il giovane intellettuale raccontandogli che Beate non è mai esistita e che lo scambio di persona è stato solo un gioco innocente: lei in realtà non è la madre di Trude bensì l’amante, ed insieme volevano solamente divertirsi alle spalle di un casanova italiano qualsiasi. A questo punto, stordito ma allo stesso tempo cosciente, Lucio capirà “il teatro nel teatro” messo in piedi da Beate; anche Paula stava mentendo: Trude era un’invenzione, una caricatura, mentre la donna reale è lei, Beate, la disperata Beate dagli occhi tristi. Ma la verità e lo “scherzo” venuto alla luce nulla saranno di fronte al destino mortale di Paula e Trude, rivelatesi disperate amanti e complici, in un intreccio “pieno di letteratura” e dettato dal sottile legame di amore e morte.

Parlando di 1934 non possiamo non riflettere su un dato: nel 1934 Moravia era un ventisettenne antifascista letterato come il Lucio del romanzo; ma il dato si ferma lì: lo stesso Moravia sottolinea come non vi sia nulla autobiografico. Un elemento più importante è la presenza culturale tedesca: Nietzsche con il suo Così parlò Zarathustra e una poesia al suo interno che diventa “messaggio” esplicito del protagonista per Beate; lo stesso filosofo tedesco che, differenziando caratterialmente le due “supposte” gemelle sembra ricalcare lo spirito apollineo e dionisiaco de Lo spirito della tragedia e, centrale in tutto il romanzo, Kleist e Henriette Vogel, suicidatosi insieme, risposta per Lucio dell’impossibilità di scindere Eros e Thanatos; ancora Dürer e l’Espressionismo nella descrizione di un tedesco che si accinge ad ascoltare il discorso del Fuhrer in radio, richiamato per il quadro Ritratto di un giovane uomo;  inoltre non bisogna dimenticare il titolo del romanzo, 1934, anno della Notte dei lunghi coltelli e quindi dell’edificazione del nazismo in Germania. Letterariamente invece il romanzo si distingue per un richiamo alle tematiche pirandelliane che affermano che la vita è una maschera e quindi tutto è teatro; infine, vi è un esplicito riferimento alla sua ultima produzione, in cui si affronta il tema del doppio: Rico e Federico Rex (Io e lui); Desideria e la Voce (La vita interiore) e qui Beate e Trude due anime in una persona.

STABILIZZARE LA DISPERAZIONE

Devo dire che, posando sulla scrivania la cartella del romanzo, non ho potuto fare a meno di provare un senso di colpa. Ero andato pochissimo avanti e invece non si trattava di un romanzo qualsiasi, La cui scrittura si può rimandare ad un futuro anche lontano; ma proprio di un certo romanzo particolare, collegato coi problemi attuali della mia vita e, nelle mie presenti condizioni, assolutamente necessario. Forse non sarà male che chiarisca questo punto.
Come ho già accennato, da alcuni anni ero ossessionato dall’idea di “stabilizzare” la disperazione. Soffrivo di una forma di angoscia che, appunto, consisteva nel loro sperare nulla né nel futuro immediato né in quello più lontano; il mio pensiero accarezzava frequentemente la soluzione del suicidio sia come liberazione dall’angoscia, sia come sbocco logico è inevitabile della mancanza di speranza. Ma, purtroppo o per fortuna, non siamo completamente uomini; anzi, lo siamo soltanto minima parte, diciamo un due per cento; per il rimanente novantotto per cento siamo animali. Di conseguenza, alla soluzione del suicidio, così razionale e umana si opponeva la parte animale e irrazionale, non abbastanza forte per abolire la disperazione, ma sufficiente a impedire quello che nella cronaca nera dei giornali va di solito sotto il nome di “gesto insano”.
Era un alternarsi continuo, nel mio animo, del due per cento di umanità e del novantotto per cento di animalità, per cui ora mi pareva che il suicidio fosse altrettanto maturo che è un frutto su un albero e bastasse alzare la mano per coglierlo, e ora invece mi avveniva, come adesso, per esempio, dopo l’incontro sul vapore, di tendere con ogni mezzo alla soddisfazione dei miei desideri. Quest’alternarsi contradditorio della disperazione e del desiderio mi umiliava. Come? Ero disperato, disperatissimo; ciò nonostante, nello stesso tempo, mi imbarcavo ad occhi chiusi nelle passioni proprie della mia età!
Alla fine mi e venuta l’idea che, immobilità per immobilità e contraddizione per contraddizione, tanto valeva “stabilizzare” consapevolmente e volontariamente la disperazione. Cosa intendevo per “stabilizzare”? In qualche modo, immaginando che la mia vita fosse uno Stato, istituzionalizzare la disperazione, cioè riconoscerla, diciamo così, ufficialmente come legge dello Stato medesimo; tutto questo grazie ad una presa di coscienza che mi avrebbe permesso di creare un equilibrio infrangibile tra disperazione e desiderio. Ma in che modo raggiungere la presa di coscienza? Qui interveniva il romanzo che avevo intenzione di scrivere. Nella misura in cui sarei avanzato nella scrittura, la mia vita interiore si sarebbe allontanata dall’idea del suicidio, pur restando imperniata su quella della disperazione. E questo perché avrei raccontato, appunto, nel romanzo, la storia di un uomo che finisce per uccidersi; cioè avrei trasferito sulla pagina ciò che restava lo stato di intenzione nella vita. In questo modo, attraverso l’esercizio della letteratura, avrei ottenuto che la disperazione ormai “stabilizzata” perché intellettuale, diventasse quello che credevo fermamente che, ai nostri giorni, doveva essere: la condizione normale dell’esistenza.Tutto questo, però, per quanto sentito come necessario, anzi indispensabile per continuare a vivere, era soltanto uno schema, qualche cosa, cioè, di simile a uno scheletro che andava a rivestito di carne o, se si preferisce, ha un tema narrativo che andava articolato e risolto in un racconto, con situazioni, personaggi, ambienti, ecc.
Allora sono cominciate le difficoltà. Mi sono accorto, infatti, che per mettere in piedi un personaggio sul quale scaricare l’ossessione del suicidio, non bastava la motivazione generica che era disperato; dovevo anche trovare il motivo per cui lo era. Dopo molte riflessioni, ho finito per identificare questo motivo dell’avversione irriducibile per il regime fascista che, in questo giugno del 1934, sta aumentando nel settimo anno di permanenza al potere. Era questo, certamente, un motivo plausibile di disperazione per un personaggio di romanzo; ma, per quanto mi riguardava personalmente, sapevo benissimo che pur nutrendo la stessa avversione non mi sarei certamente ucciso a causa del regime politico allora dominante in Italia.
Alla riflessione, mi appariva infatti che il suicidio, almeno nel mio caso, era una tentazione, per così dire, “prepolitica” a cui la politica avrebbe potuto, al massimo, fornire una giustificazione in più. In realtà, come pensavo, non mi sarei sentito meno disperato se il fascismo fosse caduto o, addirittura, fosse cambiato l’intero sistema sociale. Ma il mio personaggio doveva invece avere un motivo preciso, concreto e, soprattutto, unico, di uccidersi. Se i motivi fossero stati vaghi, astratti e soprattutto numerosi, sospettavo che avrebbe forse finito per non uccidersi affatto, impedendomi così di stabilizzare la disperazione e costringendomi a fare direttamente nella vita quello che non ero riuscito a fare indirettamente nel romanzo. No, il mio personaggio doveva uccidersi per permettermi di non uccidermi; e doveva uccidersi per una disperazione causata da un preciso motivo politico allo scopo di permettermi di continuare a vivere in una disperazione priva di motivi.

Alberto Moravia sull'isola del sogno - Isola di Capri Portal

Elsa Morante e Alberto Moravia a Capri

Ci dice Minore, nell’Introduzione all’opera: «che il romanzo è (anche secondo le intenzioni più volte rese esplicite da Moravia nelle interviste che lo hanno accompagnato) volutamente “retro” nel senso che esso assume una data immediatamente allusiva per i lampi ed i segnali che essa contiene: appunto il 1934, che segna il definitivo trionfo nazista, con la “notte dei lunghi coltelli” (la cui eco si riverbera nelle pagini finali). E’ l’inizio di quella mutazione antropologica di massa che porta alla catastrofe. In questo anno si svolge la storia di Lucio, ventisettenne italiano in vacanza a Capri, il quale è costituzionalmente antifascista, ma soprattutto appare immerso in una permanente condizione di “disperazione” che si direbbe letteraria ed esistenziale. Essa appare diversamente connotata rispetto ad altri sentimenti moraviani: come l’“indifferenza” o la “noia” che, in modi non omologhi, sono la constatazione di un rapporto con la realtà, con gli oggetti o le persone. La disperazione nasce da una sorta di eccesso di vitalità e di attenzione “romantica” al destino che non trova sfogo, se non attraverso la puntigliosa consapevolezza della sua esistenza, degli interrogativi che il sapone, delle specificità comportamentali che vuole». La consapevolezza, appunto come dice Minore, non può che trovarla nell’“istituzionalizzazione” del dolore, cioè nel ritenerlo come dato costitutivo dell’essere umano, quindi “interno“ all’uomo stesso. Da qui il tono razionale del testo: Lucio s’interroga e indaga se stesso sulla disperazione confrontandosi con quella di Beate quindi con la sua negazione di Trude.

Sempre nello stesso anno escono le Storie della preistoria, che potremo definirle un divertissement il cui pubblico di riferimento, per l’unica volta in tutta la sua produzione, è quella dei ragazzi (ne uscirà anche un’edizione scolastica).

Storie della preistoria - Bompiani

Si tratta di 24 fiabe che, come tali, hanno come protagonisti animali antropomorfizzati: se gli animali sono “preistorici” è evidente che il riferimento per la stesura di questo volume non può essere che l’Africa da lui spesso definita, nei suoi viaggi, continente prima della storia; ma sentiamo nel suo interno anche l’eco dei grandi favolisti classici (Esopo e Fedro) europei (Le Fontaine), nonché per lo spirito il Leopardi delle Operette morali:

I SOGNI DELLA MAMMA PRODUCONO MOSTRI

Alcuni miliardi di anni fa, tutto era molto più alla buona di oggi e si poteva andare da Na Tura ed esporle delle lagnanze sul modo col quale lei andava creando il mondo. Madre Na Tura era una donnona gigantesca, così grande che, se uno le saliva sulla testa, anche con un buon cannocchiale non arrivava a vederne i piedi; stava distesa in una pianura sterminata, avendo come guanciale una montagna e come giaciglio un deserto; e creava il mondo sognando. Ma i suoi sogni non erano come i nostri, che una volta svegli, addio, chi se li ricorda più; i sogni di madre Na Tura diventavano immediatamente realtà. Per esempio: uno di quei giorni madre Na Tura sognò un animale strano davvero: una specie di ombrello che camminava con quattro zampe e aveva una testa e una coda. Ed ecco, subito, nel grembo di madre Na Tura, ecco annaspare penosamente la ridicola Tarta Ruga. E volete sapere perché mai avesse sognato un animale così? Perché qualcuno era venuto a dirle che sarebbe stato bene creare un animale il quale, quando pioveva, potesse ripararsi dalla pioggia senza ricorrere a qualche caverna o anfratto. Questo per dirvi che madre Na Tura aveva carattere affettuoso e compiacente, proprio come si conviene ad una madre.
Basta, uno di quei giorni una deputazione di Maia Lini, dopo una scalata di molte ore arrivò fino alla cima della montagna sulla quale madre Na Tura appoggiava la testa: Il capo della deputazione, fattosi sotto l’orecchio colossale, urlò, con quanta voce aveva in gola: «Mamma! Mamma! Mamma». Madre Na Tura sollevò una palpebra grande come una cupola, con ciglia ognuna grossa come un tronco d’albero, scoprendo la pupilla glauca che pareva un lago, e domandò languidamente: «Caruccio, che hai? Dillo alla tua mamma che hai.» A questa affettuosa domanda, il Maia Lino rispose: «Come tu sai, noi Maia Lini, siamo una comunità pacifica, in cui tutti godono gli stessi diritti e sono sottoposti agli stessi doveri. Ma da qualche tempo non è più così.» «E cioè?» «Cioè, alcuni di noi, non sappiamo se per tua volontà o per caso, si sono trasformati e, duole dirlo, non per il meglio: la delicata pelle rosea si è ricoperta di setole nere; dalla bocca sporgono alcuni denti aguzzi e ricurvi che è difficile non chiamare zanne. Questi individui che si sono, da sé, denominati Cin Ghiali, sono violenti e prepotenti e, grazie alle loro zanne, hanno creato una vera e propria tirannide per cui loro comandano e noi dobbiamo ubbidire. Madre Na Tura provvedi un po’ tu.»
Madre Na Tura obiettò: «Io, veramente, vi avevo creati tutti uguali. Che storia è questa? Dite la verità?»
I Maia Lini le assicurarono in coro che era la verità: Madre Natura rifletté, sospirò; poi disse: «Quelle cosiddette zanne mi fanno pensare che ho fatto un sogno, diciamo, un po’ brutto, qualche cosa come un incubo. Si sa, certe volte mangio pesante e allora può accadere di sognare mostri. Come infatti chiamare se non con il nome di mostro un Maia Lino dalla cui bocca spuntino fuori due zanne?»
«E’ quello che pensiamo anche noi,» esclamarono i Maia Lini.
«E poi,» continuò madre Na Tura, «simili creature prepotenti e sanguinarie contraddicono assolutamente all’idea che mi faccio del Creato nel quale, invece, dovrebbe regnare la ragione.»
I Maia Lini non avevano mai sentito parlare della ragione. Chiesero in coro: «La ragione? Che è la ragione?» Madre Na Tura rispose: «E’ qualche cosa, diciamo, come il sale nelle vivande. Di solito non dimentico di metterne un pizzico in qualsiasi animale mi venga fatto di sognare. Vuol dire che d’ora in poi, ce ne metterò una manciata abbondante. Del resto da qualche tempo provo come un desiderio oscuro di mettere al mondo un certo animale piuttosto complicato che, appunto, dovrebbe essere fornito di ragione in misura maggiore degli altri. Adesso, a cena, starò attenta a mangiare cose leggere, poi mi farò una bella dormita, e mi sa che questa volta sognerò l’animale del tutto ragionevole che, tra l’altro, visse servirà dai vostri malvagi Cin Ghiali. Così, cari Maia Lini, tornate fiduciosi a casa, lasciate fare alla vostra mamma che vi vuole bene e vedrete che tutto si risolverà per il meglio.»
Naturalmente i Maia Lini si ritirarono subito pieni di gratitudine e di timore reverenziale: madre Na Tura, in quei tempi lontani, oltretutto, perdeva la pazienza facilmente: tutta una razza di animaloni chiamati dinosauri virgola che erano venuti un po troppo spesso a esporre le loro lagnanze (avrebbero voluto essere più piccoli e meno stupidi) erano stati spazzati via fino all’ultimo; eppure erano andati avanti a vivere la bazzecola di centocinquanta milioni di anni. Se ne andarono i Maia Lini e, per qualche tempo, diciamo sette o ottocento milioni di anni, non successe nulla. Madre Na Tura, come aveva promesso, si era tenuta leggera cena: appena uno o due vulcani con tutta la lava, innaffiati da un fiume di media portata: adesso dormiva della grossa. Soltanto ogni due o tre secoli, dava un sospiro oppure si rivoltava su un fianco. Ma vedete un po cosa vuol dire essere madre Na Tura! Quei sospiri crearono i venti che ancora oggi soffiano per l’aria; e quanto al rivoltarsi sul fianco, ogni volta che accadde ci fu un terremoto che cambiò in qualche punto la faccia della Terra.
Arrivò finalmente il giorno del risveglio. Era una giornata perfetta, di mattina presto, col cielo del più puro azzurro ancora tinto di rosa; senza un alito di vento; con un sole mite, una luce di limpida, gli alberi mai così verdi, i fiori mai così smaglianti. Madre Na Tura si svegliò, sì levò su un gomito e fece appena in tempo a intravedere, laggiù, in fondo al deserto sul quale stava distesa, due figurette remote che si allontanavano tenendosi fiduciose per mano: un uomo e una donna. Camminavano su due sole gambe; madre Na Tura pensò che questa volta aveva sognato il suo capolavoro. Soddisfatta, segui con gli occhi di due figure che, circonfuse di luce, si allontanavano sempre e alla fine scomparvero. Allora si voltò su un fianco e si addormentò di nuovo.
Il suo sonno durò poco: appena un miliardo di anni.
Aprì gli occhi, sentì in confuso delle voci, si girò: ecco, laggiù, ai piedi della montagna che le serviva da guanciale la solita deputazione dei Maia Lini. Madre Na Tura sporse la mano, ne prese uno tra due dita e se lo portò all’altezza degli occhi. Domandò, poi: «Ebbene, siete ancora voi. Come è andata?»
E quello: «Benissimo, non poteva andare meglio. Hai sognato la cosa giusta al momento giusto.»
«E cioè?»
«Sono venuti dei Maia Lini in in tutto simili a noi, altrettanto rosei, teneri, dolci e inermi, con la sola differenza che noi camminiamo a quattro zampe e loro a due; e ci hanno portati via, lontano dai detestabili Cin Ghiali, in un luogo magnifico, in cui non manca nulla, proprio nulla, per essere felici.»
«E com’è questo luogo,» domandò madre Na Tura con curiosità.
«Sono capannoni ad un piano solo con tanti reparti in ciascuno dei quali può stare alloggiata un’intera famiglia. I Maia Lini a due gambe provvedono affinché non manchiamo di nulla. Così, ad ore regolari, ci servono un pasto prelibato composto di semola, crusca, ghiande e una deliziosa brodaglia nella quale abbondano le mele marce e le patate andate a male. Quindi ci lavano tutti quanti, a fondo, con la pompa.
Ci tengono bene, insomma: tutto è terso, specchiante, scintillante. Figurati che per non farci cascare sugli scalini, allorché usciamo dal capannone per passeggiare all’aperto, hanno persino costruito un piano inclinato sul quale i nostri zoccoli non possono scivolare.»
Madre Na Tura commentò con compiacimento: «Bene, bene, mi sa che questa volta ho sognato l’animale più razionale tra quanti ne ho messi al mondo. Adesso, figli miei, ho sonno e desidero schiacciare un pisolino. Ma voglio che mi teniate informata. Tornate, diciamo, tra un migliaio di anni. Buona notte.»
Passarono mille anni. Madre Na Tura si svegliò, sì stiro e, che è che non è, si trovò naso a naso con il solito Maia Lino che subito le urlò come un forsennato: «Mamma, tradimento, tradimento!»
«E cioè?»
«Quegli esseri che abbiamo chiamato Maia Lini a due gambe, sono dei mostri, degli autentici mostri. Ci trattano bene, ci tengono puliti e pasciuti, ci ingrassano; ma lo sai perché?»
«No, perché?»
«Per mangiarci. Ad un certo momento, quando siamo grassi al punto giusto, ecco, ci legano per i piedi ad una specie di catena che scorre. La catena scorre con un fracasso terribile, e loro, via via, ci sgozzano, ci dissanguano, ci fanno a pezzi. Non insisto sul modo con il quale questi pezzi vengono poi preparati; basti dire che veniamo trasformati in tanti oggetti che loro, a quanto pare, chiamano salsicce, prosciutti, zamponi, salami e così via, secondo la parte del nostro corpo che vi è stata adoperata: orrore, orrore, orrore. E tu ci avevi promesso che avresti sognato l’animale più fornito di ragione del Creato. Ahimè, lui la ragione l’adopera per divorarci! E per giunta per divorarci con la nostra stessa collaborazione! Ahimè, mamma, anche tu ci hai tradito!»
Adesso qualcuno vorrà sapere che cosa rispose madre Na Tura acquisto accuratissimo e disperatissimo rimprovero. Nessuno ci crederà: non rispose nulla. Prese tra due dita il Maia Lino, lo depose con delicatezza in terra, 15 giro su un fianco e si addormentò di nuovo. 

M. Lattes 18_Quando_i-pensieri_gelavano_da-Moravia-Storie-della-preistoria - Fondazione Bottari Lattes

Un disegno che accompagnava Le storie della preistoria

Moravia nel descrivere la Na Tura di questa fiaba non può non essere stato suggestionato dalla famosissima Operetta morale leopardiana Dialogo di un islandese e la natura: “Ma (l’islandese) fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi,» anche la Na Tura è gigantesca, e forse anche nello scrittore romano “indifferente”. Ricordando il finale dello scrittore recanatese in cui la Natura affermava il “disinteresse” per la felicità dell’uomo, la Na Tura moraviana è altrettanto “inconsapevole”: è il sogno a determinare  il Creato: il fatto poi che l’ultimo sogno abbia generato un essere razionale e che questo essere razionale usufruisca della propria ragione per fare del male,  non ci allontana dalla disillusione leopardiana rispetto alla Natura. Infatti il testo è puntellato di storie in cui il mondo primordiale “animale” ripete le nostre inquietudini e incapacità: è che Moravia, al contrario di Leopardi, non vuole “rivestire” i suoi racconti di verità; le basta sorridere sulla vanità, sull’impossibilità del desiderio, sull’amore impossibile: tutto con estrema leggerezza ed il sorriso.

Amazon.it: LA COSA E ALTRI RACCONTI - Moravia, Alberto - Libri

Nel 1983 Moravia pubblica La cosa e altri racconti dedicando il volume alla nuova compagna Carmen Llera che le starà a fianco sino alla morte. Si tratta di 20 racconti, in cui il nostro si misura, per la gran parte di essi, sull’erotismo: ci dice Moravia che essi sono nati allo stesso modo in cui è venuto alla luce il suo primo romanzo, Gli Indifferenti.
Infatti egli scrive sdraiato a letto, a seguito di un incidente stradale che le ha procurato la frattura del femore, meditando sulle sua “capacità vitale” alla soglia del settantacinquesimo anno e neosposo di una giovane donna (ben 44 anni di differenza di età). Tuttavia il sesso descritto in queste pagine continua ad essere l’unica tensione in personaggi incapaci di rapporti con la realtà; per meglio dire è solo attraverso la pulsione sessuale, il suo vagheggiamento, l’agognato rapporto fisico con l’altro che l’uomo può ritrovare se e la conoscenza di se. Quindi per Moravia la sessualità ha un vero è proprio compito gnoseologico.

Nell’opera non vi sono soltanto racconti erotici; ne è un esempio Tuono rivelatore in cui, attraverso ellissi narrative, ci viene rappresentata la fuga di un uomo adulto da una situazione di pericolo e l’approdare, attraverso il flash-back, in un’epoca lontana, sicura, dal sapore edipico: quindi il suo perdersi indefinito nell’uscire dalla scena e quindi da sé:

TUONO RIVELATORE

Erano cinque giorni che fuggivo a zig zag per far perdere le mie tracce, da Parigi ad Amsterdam, da Amsterdam a Londra, da Londra ad Amburgo, da Amburgo a Marsiglia, da Marsiglia a Vienna, da Vienna a Roma, ora in treno e ora in aeroplano, senza dormire o dormendo poco e scomodamente; avevo ormai più voglia di dormire che di vivere Virgo e credo che mi sarei addormentato anche davanti a quello stesso plotone di esecuzione del quale cercavo scampo con questa mia fuga senza fine. Avevo tanto sonno, al mio arrivo a Roma, che quando, alla stazione Termini, mio figlio, come d’accordo, mi è venuto incontro, gli ho chiesto per prima cosa se mi aveva trovato un luogo dove potessi dormire al sicuro. Mi ha risposto che avrei avuto un appartamento tutto per me e che lì potevo dormire a quanto volevo, Nessuno al mondo conosceva l’esistenza di questo appartamento all’infuori di lui.
Intanto mi aveva preso di mano la valigia e mi camminava accanto mentre uscivamo dalla stazione. Non ho potuto fare a meno di guardarlo: erano quasi due anni che non lo vedevo. Mi è sembrato, così in confuso, data la mia estrema stanchezza, che non fosse cambiato in nulla salvo in due particolari: la barba che un tempo non aveva; e la fissità inquietante degli occhi, anche questo una cosa nuova. L’ho ringraziato di essere venuto e di avere trovato l’appartamento; gli ho detto che sua madre, rimasta a Parigi, lo mandava a salutare; gli ho anche detto, con sincero compiacimento, che avevano un aspetto buonissimo, migliore dell’ultima volta, due anni prima, che ci eravamo visti. Mi ha risposto che questo dipendeva dalle soddisfazioni del lavoro: era entrato a far parte di una impresa di export-import; guadagnava bene; per ora abitava all’albergo ma presto avrebbe messo su casa tanto più che si era fidanzato con una ragazza italiana e contava di sposarsi al più presto. Intanto che mi forniva sorridendo queste informazioni, eravamo arrivati all’automobile. Ho messo la mia valigia nel portabagagli, sono salito, lui si è seduto sul volante e siamo partiti.
Non conosco troppo bene la città di Roma; però ho seguito con attenzione, più che altro per curiosità, il percorso della macchina e ho riportato l’impressione, che da un semaforo all’altro, abbiamo attraversato tutto il centro antico della città, quindi abbiamo varcato un ponte e siamo passati dall’altra parte del Tevere. Mio figlio, pur guidando, non cessava un momento di discorrermi affettuosamente; diceva quanta era contento di vedermi dopo una così lunga separazione; faceva dei progetti per l’avvenire mio e di sua madre.
Ora correvamo lungo il Tevere. Dalla macchina potevo vedere la sponda opposta, dall’altra parte del fiume, folta di alberi in cui gonfi fogliami argentei arrivavano a sfiorare le acque gialle e lucide. Dietro gli alberi si allineavano le case; al di sopra delle case, grandi nuvole temporalesche, nere e minacciose, salivano su rapidamente ad occupare la parte del cielo rimasta ancora azzurra. Mio figlio mi ha detto che senza dubbio stava per venire un temporale; era sempre così, da alcuni giorni: la mattina faceva bel tempo, poi la giornata si guastava e, nella notte, infallibilmente, scoppiava un uragano, con vento, tuoni, lampi, pioggia.
La macchina corso per un pezzo sul largo asfaltato del lungotevere, sapendo da una parte i parapetti del fiume e dall’altra una fila ininterrotta di casamenti; quindi si è fermata in un punto tranquillo e privo di traffico, attraversato da una di quelle barriere dipinte di rosso e di bianco che si mettono quando una strada non è transitabile. Mio figlio mi ha spiegato che in quel tratto il greto del fiume era crollato; vi si facevano da tempo dei lavori di sistemazione; per questo motivo non ci passavano le macchine e così era una vera e propria oasi di pace nel mezzo della città affollata e tumultuosa. Sono disceso dalla macchina e mi sono guardato intorno: effettivamente il lungotevere qui era quasi deserto: due o tre monelli si rincorrevano con i pattini; una coppia di innamorati camminava lentamente tenendosi per la vita; in una macchina ferma presso il parapetto, un uomo e una donna ascoltavano la radio.
Ho alzato gli occhi verso il cielo: il temporale si stava addensando sempre più; l’azzurro era ridotto ad un piccolo squarcio intorno il quale le nuvole premevano tumultuosamente, l’una contro l’altra, come per mancanza di spazio. Mio figlio, tutto ridente, mi ha fatto notare ancora una volta la tranquillità del luogo: «Non è forse un posto ideale per chi non vuole farsi notare?» Quasi senza pensarci, ho risposto: «E’ anche un luogo ideale per assassinare qualcuno, appunto, senza farsi notare.» Mio figlio mi ha battuto la mano sulla spalla: «Via, via; d’ora in poi non devi più pensare a cose simili. D’ora in poi devi fidarti di me; ci penserò io a organizzarti una vita serena e sicura.»
Adesso aveva estratto un mazzo di chiavi e si era avvicinato al portone di una di quelle palazzine; ha detto che non c’era portiere che, in tal modo, potevo uscire ed entrare quando volevo senza essere né visto né sorvegliato. Siamo entrati nell’androne ma non abbiamo preso l’ascensore: l’appartamento stava pian terreno. Mio figlio ha aperto la porta e mi ha preceduto nell’ingresso del quartierino che mi è subito apparso assai squallido, di quel particolare squallore opaco e stanco che è proprio delle case che sono rimaste a lungo disabitate. I mobili erano del tutto anonimi, quasi più da ufficio che da abitazione; ed erano ridotti al puro necessario: nel salotto c’erano soltanto un divano e due poltrone; nella camera da letto, soltanto il letto, una seggiola e un tavolino. C’era pure una cameretta, presso il piccolo ingresso, con un giaciglio disfatto sul quale qualcuno pareva aver dormito di recente. Siamo passati davanti alla cucina, e allora ho visto, ritta davanti al fornello, una giovane donna africana. Ho chiesto a mio figlio chi fosse quella donna e lui mi ha risposto che era una cameriera somala che mi avrebbe cucinato e fatto le pulizie per tutto il tempo che avrei abitato nell’appartamento. «Parla la nostra lingua,» ha soggiunto mio figlio, «di lei ti puoi assolutamente fidare».
Ci siamo messi a sedere nella camera, io sul letto e mio figlio sulla seggiola; quasi subito, la somala è entrata portando sul vassoio la cena or ora cucinata. Mentre il con gesti e aggraziati, chinandosi in avanti, disponeva i piatti sul tavolino l’ho guardata e ho notato che era alta, flessuosa ed elegante, con le spalle larghe, le braccia tonde e forti, i fianchi stretti, nel suo genere una vera bellezza. Ha disposto i piatti, ha fatto un leggero inchino, guardandomi direttamente negli occhi, come se avesse voluto farmi capire qualche cosa virgola e poi se ne è andata. Mio figlio mi ha invitato a mangiare; ho gettato uno sguardo ai piatti e ho visto che contenevano il cibo tradizionale del nostro paese, cucinato, a quanto si sarebbe detto, con ogni cura; ma appena ho pensato distendere la mano a prendere qualche cosa, ho provato una insormontabile quanto misteriosa ripugnanza e ho detto a mio figlio che non avevo fame, avevo soltanto sonno e mi lasciasse adesso riposare e poi ci saremmo visti il giorno dopo e allora avrei fatto tutte le cose normali della vita, a cominciare dal fare onore all’ottima cucina nazionale preparata dalla cameriera somala.
Mio figlio è rimasto un po’ sconcertato da questo mio rifiuto; ha insistito affinché io mi nutrissi almeno un poco; altrimenti, ha detto, mi sarei ammalato, visto che secondo la mia stessa ammissione non mangiavo da un giorno. Ho risposto che la paura mi aveva tolto ogni appetito; adesso avrei dormito; dormendo la paura mi sarebbe passata; al mio risveglio, avrei avuto fame di nuovo e allora avrei pensato a mangiare. Malcontento ma rassegnato, mio figlio ha chiamato per nome la cameriera; la somala è riapparsa; mentre rimetteva i piatti sul vassoio, chi è di nuovo inchinata pezzo di me, guardandomi dritto negli occhi, prima di uscire. Mio figlio adesso si era alzato in piedi improvvisamente, vi accettato le braccia al collo, baciandomi sulle due guance e dicendo che adesso dormissi pure: ci saremmo rivisti il giorno dopo.
Non so perché, nonostante il tormento di quella terribile voglia di dormire, appena mio figlio è uscito dalla stanza, ho ricordato che mentre mi abbracciava, avevo sentito la sua mano palparmi non già sulle spalle che sarebbe stato normale, ma lungo i fianchi giù giù fino alla base della schiena, un gesto insolito e improbabile da parte sua: a quel modo si palpano le persone sospette, per vedere se hanno armi. A questo ricordo, e seguito un desiderio improvviso di osservare di nuovo mio figlio. Mi sono precipitato alla finestra, ho disserrato le imposte, ho guardato fuori.
Proprio in quel momento lui usciva dalla casa e saliva in macchina. Ancora una volta senza motivo, ho indugiato alla finestra per seguire con gli occhi la macchina mentre si allontanava. Ma la macchina non è andata molto lontana. Alla bandiera rossa e bianca, si è fermata. Un uomo che stava seduto in posa oziosa, con le gambe penzolanti, sul parapetto, ne è disceso, è accorso alla macchina. Mio figlio gli ha aperto lo sportello e la macchina è ripartita.
Non ho pensato nulla. La mia mente era occupata dal sonno allo stesso modo che una fitta nebbia occupa un paesaggio impedendo di veder quello che sia. Ho chiuso la finestra, mi sono gettato sul letto, tutto vestito com’ero e sono rimasto per poco supino e con gli occhi aperti. La porta della camera era socchiusa; mi sono detto che avrei dovuto chiuderla a chiave; ma non ce l’ho fatta. La somala doveva essere in cucina; la sentivo cantare sottovoce non so che nenia del suo paese. Cullato da questo canto sommesso che pareva, come gli sguardi di poco fa, destinato esclusivamente a me, mi sono addormentato.
Ho dormito con violenza, come protestando contro qualche cosa, forse contro il sonno stesso. Tutto il tempo sentivo che stringevo con forza i denti e con rabbia i pugni. Ad un certo momento, nella notte, ho sentito il tuono rotolare cupo e fragoroso e poi, negli intervalli di questo rotolare, propagarsi il fruscio della pioggia. Allora, pur dormendo, mi è sembrato di vedere il vasto asfalto del lungotevere tutto ribollente sotto lo scroscio dell’acquata; poi lampeggiava forte e io scorgevo un uomo seduto sul parapetto in atteggiamento ozioso, il quale, di improvviso ne scendeva e si dirigeva verso una macchina ferma sotto la pioggia e io sapevo che nella macchina si trovava mio figlio. Ho rivisto questa scena parecchie volte: l’uomo stava seduto, poi scendeva e correva verso la macchina e poi eccolo di nuovo seduto che scendeva e correva e così via e così via.
Alla fine, però, pur nel sonno, a forza di sentire suonare e scocciare la pioggia, nella mia mente si è formata questa domanda: “Dove e quando ho sentito questi tuoni, questo scroscio?” Pur sempre dormendo mi sono dato la risposta: dell’infanzia. Sono più vicino ai sessant’anni che ai cinquanta; mi ricordo mi faceva tornare indietro di mezzo secolo. Ero nella casa paterna, mi svegliavo di soprassalto nel buio, sentivo lo scroscio della pioggia e il fracasso del tuono, allora mi levavo dal letto e correva a rifugiarmi nella camera accanto, tra le calde sicure braccia di mia madre. Così adesso. Mi sono alzato ad un tratto con istintivo, irresistibile impulso, ho attraversato la stanza e sono uscito nel corridoio.
La porta della camera in cui dormiva la somala era socchiusa; c’è il buio nero come la pece e la luce violenta ed effimera dei lampi, mi sono affacciato. Non ho voluto accendere la lampada; pensavo che mi sarebbe bastato intravedere la donna tra un lampo e l’altro, come avevo intraveduto mia madre quella notte, cinquanta anni addietro. E così è stato. Ogni tanto lampeggiava e allora vedevo la somala che dormiva profondamente, la guancia appoggiata sulla Palma della mano, il corpo avvolto nel lenzuolo, il braccio nudo ripiegato. L’ho spiata così, tra un lampo e l’altro, a lungo; ricordavo il suo sguardo direttamente rivolto verso di me mentre serviva e sparecchiata la cena; e mi domandavo che cosa avesse voluto dirmi che se veramente era lei che voleva dirmi qualche cosa o ero io che desideravo che qualche cosa mi fosse detto. Alla fine mi sono sentito più calmo e padrone dei miei nervi. Allora mi sono ritirato chiudendo dietro di me la porta, sono tornato nella mia camera. In realtà mentre contemplavo la donna addormentata, avevo preso una decisione e adesso non mi restava che metterla in atto.
Ehi ho aspettato disteso supino sul letto ancora un paio d’ore; quindi nel primo chiarore, mi sono alzato, ho preso la mia piccola valigia e sono uscito in punta di piedi dalla stanza. Nel corridoio, posso stato un momento davanti alla porta della somala e ho ascoltato, chissà perché. Ma non mi è giunto nessun rumore: dormiva. Ho aperto l’uscio, ho attraversato l’atrio che sono uscito sul lungotevere. Era l’alba, con tutti gli alberi inzuppati di pioggia; l’asfalto sparso di lucide pozze d’acqua; il cielo color mastice, tra il bianco e il grigio. Nel momento in cui chiudevo il portone, i fanali ancora accesi dei marciapiedi si sono spenti tutti insieme. Ho preso a camminare di buon passo verso il ponte più vicino.

Carmen Llera: "Per Moravia sposarmi fu un atto di coraggio" - la Repubblica

Alberto Moravia con la nuova compagna Carme Llera

“Il racconto s’inserisce in una posizione mediata tra il reale e il mito che ad esso direttamente si aggancia. Da tale punto di vista, la fuga del padre dal plotone di esecuzione, la fuga dal figlio, la tecnica del flash-back (il ritorno all’infanzia che è piuttosto il ritorno al grembo materno), la corsa del protagonista al ponte più̀ vicino e pertanto il desiderio d’evasione da una realtà̀ insopportabile, il monologo interiore, sono tutti segni che rispecchiano la disintegrazione dell’uomo storico.” (Carolina Messi Albanese)

Moravia torna al romanzo con L’uomo che guarda, edito nel 1985:

Edoardo detto Dodo è un giovane professore universitario di letteratura francese, ex sessantottino, che vive, con la giovane e bella moglie, Silvia, in due stanze nella casa “principesca” del padre al centro di Roma, avendo rifiutato per “contestazione” l’eredità materna di un appartamento nello stesso palazzo. Tranne qualche rara eccezione, le sue giornate si svolgono così: si alza la mattina molto presto, si lava e rade, si veste da intellettuale, scende a comprare i giornali, risale in casa e prepara la colazione per suo padre, barone universitario della facoltà di Fisica, costretto a letto dai postumi di un incidente stradale. La sua caratteristica è guardare il mondo e soprattutto virato verso la scopofilia determinata dalla vigoria sessuale paterna e dall’esibizionismo di Silvia: Nel corso della vicenda scoprirà che la moglie diventa l’amante del padre, riproponendo, in forma rovesciata la vicenda edipica. Il tutto viene amplificato dalla fantasia di Dodo che immagina la fine del mondo per una esplosione nucleare sulla cupola di San Pietro.

DODO

Ore sei e trenta. Dormo poco, non più di sei ore per notte e, appena mi sveglio, dedico cinque, dieci minuti a quella rara occupazione che va sotto il nome di pensiero. A che cosa penso? A dirlo così può persino parere ridicolo: alla fine del mondo. Non so quando e in che modo è cominciata questa abitudine; forse non tanto tempo fa, in seguito alla lettura di un libro che per caso ho trovato sulla scrivania di mio padre che è professore di fisica all’università, un libro tra i tanti sulla guerra nucleare. Oppure sarà stato un altro motivo venuto da chissà dove e poi scomparso dalla mia memoria, come scompare il seme una volta che la pianta è cresciuta. D’altra parte improprio dire che penso alla guerra nucleare. Semmai penso all’impossibilità di pensarci. Ma è fuori dubbio che in quei cinque, dieci minuti dopo il risveglio non penso ad altro
Devo dire che quei pochi minuti della prima mattina quando penso alla bomba sono forse il momento della giornata in cui mi accade di pensare veramente cioè astrattamente e questo perché io vivo soprattutto attraverso gli occhi e quei dieci minuti sono i soli in ventiquattro ore durante i quali mi avviene di essere in condizioni favorevoli al pensare: al buio, senza far nulla, e soprattutto senza alcun oggetto da guardare. Il resto del tempo faccio e vedo sempre qualche cosa e fare e vedere mi impediscono di pensare. Ma cinque, dieci minuti di pensiero in un giorno non sono forse sufficienti? E infatti, il pensiero della fine del mondo ha fatto presto a diventare ossessivo. Durante la giornata lo dimentico, è vero; ma appena mi sveglio, ventiquattro ore dopo, mi accorgo con stupore che è sempre lì, inalterabile, incombente e soprattutto impensabile.
Ore sette. Mi alzo avendo cura di non svegliare Silvia che mi dorme accanto. Cammino tutto nudo e a piedi scalzi (non ho mai posseduto un pigiama, vestaglia, pantofole chissà perché, forse per inconscia polemica contro l’edonismo borghese) e vaso nell’angusto asimmetrico stanzino che mio padre ha ricavato per me e mia moglie in un angolo del suo vasto appartamento. Non c’è vasca, soltanto una doccia là dove il soffitto obliquo è più basso, che Silvia più piccola di me riceve a testa alta e io invece, più alto di lei, a testa bassa.
Dopo la doccia, con gesto abituale, tolgo l’appannatura del vapore dal vetro della piccola finestra e guardo nel cortile, al di sopra delle pareti ritte e nude, verso il cielo, per vedere il tempo che fa. Quindi mi metto davanti allo specchio del lavandino per farmi la barba.
Nasce adesso la questione della barba: debbo raderla o no? Ho una barba fitta e dura che rado con difficoltà; inoltre sono pigro e trasandato e così, praticamente, finiscono per radermi un giorno sì e un giorno no. Intanto che dibatto il dubbio dell’opportunità di radermi un giorno sì e un giorno no, ne approfitto per guardarmi: la mia immagine mi incuriosisce come se fosse quella di un altro.
Sono un bell’uomo sui trentacinque anni, ma non sono un uomo bello: la differenza è importante: Ho un volto dai tratti insieme virili e deboli: occhi chiari, dallo sguardo scrutatore e spesso ironico ma con sopracciglia poco energiche, voltate in giù; naso dritto e deciso che, però, si increspa alle narici con aria schifiltosa; bocca con dentatura bianca e aguzza di lupo ma labbra carnose e molli; capelli neri e vivi ma già radi sulla fronte e alle tempie; mento forse volitivo in partenza che si ripiega su se stesso formando una fossetta nel mezzo. Che più? Vorrei vedere anche il resto della persona ma l’altezza dello specchio me lo impedisce; almeno fino a quando cambierò casa, sarò costretto, la mattina, a vedermi soltanto in faccia.
Tuttavia il resto della persona lo vedo poco dopo essermi vestito, quando passo per l’anticamera e lanciò un’occhiata di sfuggita all’antico specchio oscuro e graffiate che sovrasta la console. No mi riconosco, allora, tra indispettito e compiaciuto, com’è quel particolare personaggio che di solito viene designato col nome di intellettuale. Sì, sono un intellettuale e si vede subito se non altro nel mio modo di vestire, come è da crederci che nel medioevo si vedesse chi era chierico tra i panni che indossava: camicia azzurra, cravatta nera, pullover blu oppure marrone, giacca di velluto a coste verde o beige con fondelli di cuoio ai gomiti, blue-jeans ovvero pantaloni di flanella grigia, scarpe cosiddette da deserto, di camoscio scuro. Ma la spia alla qualità di intellettuale lo fa soprattutto l’aspetto logoro e stanco di questi indumenti: il cuoio dei fondelli è lustro, la camicia è lisa, la cravatta è vecchia e attorcigliata, i pantaloni da tempo hanno perduto la piega. Del resto, all’infuori di questo cosiddetto “spezzato”, non dispongo che di un abito blu per le grandi occasioni: cerimonie, riunioni ufficiali, ricevimenti ecc. ecc.
Ore sette e trenta. Appena vestito, scendo nel vicolo della vecchia Roma in cui si trova il palazzo e vado all’edicola dell’angolo a ritirare i giornali per mio padre. Da quando ha avuto il grave incidente di macchina che lo costringe a letto da ormai tre mesi, sbrigo per lui questa e altre piccole incombenze che non mi sarei mai sognato di addossarmi “prima”. Perché metto tra virgolette “prima”? Perché dal giorno dell’incidente oh, per così dire, scoperto di essere oltre a un intellettuale, anche un figlio.

Nel secondo capoverso Dodo afferma: “io vivo soprattutto attraverso gli occhi e quei dieci minuti sono i soli in ventiquattro ore durante i quali mi avviene di essere in condizioni favorevoli al pensare”. Il protagonista ci sta dicendo che la realtà egli la registra attraverso lo sguardo, osservandola. Ciò significa che lo stesso protagonista, attraverso l’io narrante, ci narra la storia che noi leggeremo “immaginandola” attraverso le parole, ponendoci di fronte ad essa da spettatori, allo stesso modo di un voyeur che guarda la vita essendone estraneo. Moravia sembra ricordare la frase “Chi vive quando vive, non vede, vive” de La carriola di Luigi Pirandello: Dodo infatti guarda, osserva, scruta, attraverso lo sguardo la realtà, ma seguendo l’adagio dello scrittore siciliano, non vive o meglio vive “riservandosi“ di mettersi un po’ in disparte. In “disparte” rispetto a chi? Ma al padre, con cui, seguendo il classico rapporto “conflittuale“ tra padre e figlio si “materializza“ nello sguardo del figlio al membro paterno “estremamente” vitale e senza remore morali (sino ad arrivare a far sesso con la nuora more ferarum), mentre lui, mentre possiede la moglie non può che “guardarla” come una Madonna, cioè un essere divino.
Come può un giovane uomo figlio amare e odiare un altro uomo padre nello stesso tempo?
Come può un giovane uomo figlio sposato con una giovane e bella moglie tollerare e sopportare un altro uomo anziano padre che fa l’amore con la piacente, sensuale, nonché un po’ esibizionista sposa di Dodo?

L'uomo che guarda

L’uomo ghe guarda di Tinto Brass tratto dal libro di Moravia

Certamente Moravia ricorre ancora alle tematiche freudiane, sulle quali costruisce una narrazione che vede, come tutta la sua narrazione precedente, un borghese intellettuale che ha difficoltà a vivere, o meglio come tutti i personaggi maschili dei suoi romanzi, siano essi indifferenti o desublimati, incapaci di entrare in sintonia con la vita vera. Non possiamo dimenticare, tuttavia, che tra il padre di Dodo e Silvia possiamo leggere la vera storia di Moravia con la sua nuova giovane compagna, Carme Llera, dando al romanzo una certa vena autobiografica.

L’altro grande tema è quello nucleare: riecheggiano tra le pagine del libro l’interesse quasi ossessivo di Moravia – che nel 1982 aveva visitato Hiroshima realizzando commossi reportage, dal 1984 era deputato europeo nelle liste del PCI e contemporaneamente a questo romanzo scriveva il saggio L’inverno nucleare – per la questione della possibile (e si scoprirà poi, decenni dopo, sfiorata davvero) guerra atomica tra USA e URSS.

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Tale discorso non viene meno nemmeno nella pièce L’angelo dell’informazione, dalla struttura di commedia borghese: Dirce (la donna), Matteo (il marito), Vasco (l’amante). Ma l’immancabile tema del “triangolo” amoroso, del tradimento da parte di una moglie spigliata, che rivendica il proprio diritto di amare il marito senza rinunciare al rapporto con l’amante, viene come irrigidito in una sorta di schematismo dimostrativo: se il suo matrimonio è messo in crisi da una mancanza di verità all’interno della coppia, dall’innata tentazione di occultare la relazione clandestina dietro una cortina di menzogne, lei reagisce puntando a un eccesso di verità, a uno sfoggio di dettagli intimi spinto quasi a un’esibizione maniacale. Inoltre il marito della donna fa il commentatore politico per un importante quotidiano, per il quale sta seguendo un grave incidente internazionale, il famoso abbattimento – avvenuto nell’83, da parte di un Mig sovietico – di un jumbo sud-coreano con 250 passeggeri a bordo: e, destreggiandosi fra lanci d’agenzia, aggiornamenti, conferme o smentite dell’ultima ora, teorizza il fatto che nella moderna industria dell’informazione vi siano due modi per impedire la conoscenza di quanto realmente sta accadendo, nascondere le notizie, non darle proprio, o fornirne una tale quantità che la verità ne resti schiacciata e sostanzialmente inaccessibile.

(Matteo strappa dalla macchina per scrivere il foglio già scritto per metà, lo getta nel cestino, mette un altro foglio. Dirce rientra nella camera, dal bagno.)

DIRE LA VERITA’

DIRCE: Che stai scrivendo?
MATTEO: Il pastone.
DIRCE: Che cos’è il pastone?
MATTEO: Te l’ho già detto altre volte: è un insieme di informazioni sugli avvenimenti internazionali del giorno.
DIRCE: E quali sono oggi gli avvenimenti del giorno?
MATTEO: E’ scoppiata una gravissima crisi tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
DIRCE: C’è sempre una crisi.
MATTEO: Hanno abbattuto un grande aeroplano nel mare del Giappone. Un Jumbo.
DIRCE: E tu devi scriverne?
MATTEO: Si capisce. I lettori vogliono essere informati e io li informo.
DIRCE: Anche nella vita privata c’è sempre una crisi. Ma la differenza tra la vita privata e la vita pubblica è che nella prima non c’è la possibilità di risolvere la crisi, dicendo la verità. Invece nella vita pubblica lo potete fare.
MATTEO: Chi ti dice che io dica la verità?
DIRCE: Tu ai lettori fornisci delle informazioni esatte, no?
MATTEO: Certo.
DIRCE: Dunque tu dici la verità.
MATTEO: Nient’affatto. Ci sono due maniere per nascondere la verità. O non dare alcuna informazione, che è la maniera, diciamo, così tradizionale. Oppure darne troppe, con tutti i mass-media di cui disponiamo, che è la maniera veramente moderna.
DIRCE: Non ti capisco. Tu dici: il Jumbo è stato abbattuto. Questa è un’informazione ma anche la verità.
MATTEO: Prendiamo un caso celebre: l’assassinio del presidente Kennedy. Di questo assassinio sappiamo tutto, più che tutto. Ma appunto perché disponiamo di una massa enorme di informazioni, in realtà non sappiamo né sapremo mai nulla. Invece dell’assassinio di Enrico IV di Francia, benché in quel tempo non ci fossero i mass-media cioè informazioni di alcun genere, sappiamo tutto, cioè, appunto, la verità.
DIRCE: Sarà. Ma il Jumbo è stato veramente abbattuto e noi lo abbiamo saputo subito. Non è forse questa un’informazione che è anche una verità?
MATTEO: No, è una notizia. Poi ne verranno molte altre, e alla fine ricopriranno la verità come la neve ricopre la terra sulla quale cade.

A spasso con Moravia fra bugie, verità, fake news

L’angelo dell’informazione rappresentato nel febbraio 2018 al Teatro Out Off di Milano

Il tema della “commedia” moraviana è certamente quello della “verità” e nasce anche da quell’aspetto voyeuristico che abbiamo già incontrato in L’uomo che guarda: Matteo non può fare a meno di conoscere il modo di far l’amore con l’amante allo stesso modo di Vasco che esige che la donna racconti tutto su come il marito faccia sesso con lei; insomma Moravia stigmatizza l’ipocrisia borghese del “non dire” la verità per non mettere in crisi il rapporto di coppia. Ma questo tema non può non riflettersi nel compito mass-mediologico del giornalista Matteo: così come il coprire la verità con l’inganno è tipico di ogni tradimento sentimentale il riempire di troppi contenuti un episodio importante (come l’abbattimento del Jumbo coreano in territorio russo, con 256 morti) possa in qualche modo nascondere la “realtà” della possibile futura guerra nucleare tra USA e URSS.

Ed è proprio questo il tema che, come dice Moravia stesso, lo “ossessiona”, tanto da presentarlo sia in uno dei racconti di La cosa (C’è una bomba anche per le formiche) che, com’è detto, nel romanzo. Per questo parallelamente all’opera letteraria viene alla luce un volume a cura di Renzo Paris che raccoglie “interviste, articoli, saggi scritti dal 1982 al 1985 sulla questione nucleare” dal titolo de L’inverno nucleare (1986)

Nel testo c’è un capitolo in cui Moravia si intervista, o meglio il Moravia scrittore intervista il Moravia candidato al Parlamento Europeo il cui compito precipuo è quello di intervenire per il disarmo nucleare:

OSSESSIONATO DAL PROBLEMA NUCLEARE

D: Ora che te ne importa degli armamenti nucleari? Non hai forse detto che sei un artista? Che cosa hanno a che fare gli armamenti nucleari con l’arte?
R: Hai ragione; poco o niente. Ma la questione non si pone così, almeno per me. La questione è che il problema nucleare tra qualche tempo si è installato nella mia mente con gli stessi caratteri di necessità espressiva che sono propri dei problemi artistici. Ad occuparci del problema nucleare per dirla con una frase infantile “Ehi non lo faccio apposta”. E perciò la mia candidatura al Parlamento Europeo non è dovuta a un motivo di interesse certamente personale ma ad una necessità, diciamo così, interiore. In parole poverissime: da qualche tempo io sono ossessionato dal problema nucleare.
D: Vuoi dire che ne hai preso coscienza?
R: Sì, ma in maniera ossessiva. Non posso dire le origini di questa ossessione, non posso indicarne le cause. Due anni fa sono stato invitato In Giappone dal Japan Foundation, una grande istituzione culturale. Prima di me era stato invitato Borges che non è certamente ossessionato dal problema nucleare. Da notarsi che ero stato altre volte in Giappone, avevo già visitato a Hiroshima il luogo dell’esplosione nucleare ma non me ne ero occupato più di tanto. Questa volta, invece, di fronte alla lapide dei martiri di Hiroshima che porta la scritta enigmatica “riposate in pace perché noi non ripeteremo l’errore”, mi sono accorto, cioè ho preso coscienza, che il problema nucleare, alla fine, mi riguardava personalmente.

L’approccio moraviano al tema nucleare non è politico, ma metafisico: infatti se l’uomo a in sé il senso della propria fine che non cancella l’eternità della persistenza dell’essere umano, che ne sarà quando un’esplosione nucleare cancellerà l’uomo dalla faccia della terra, che ne sarà della sua “speranza” di eternità quando tutto verrà meno se mai il mondo dovesse oggi essere cancellato? Il tema è quindi l’uomo, la scienza che crea strumenti di distruzione totale per mano dell’uomo stesso e il destino del mondo: per questo si tratta di temi che toccano la fine dell’umanità e quindi temi filosofici.

L’altro volume pubblicato come raccolta di suoi articoli, terzo dedicato all’Africa, dopo un viaggio compiuto con Dacia Maraini tra il 1983 e il 1986 è Passeggiate africane edito nel 1987. Gli articoli appartengono tutti alla terza pagina del Corriere della Sera.

Passeggiate africane - Alberto Moravia - ioviaggioinpoltrona

L’ANIMA DELL’AFRICA

Mi è stato rimproverato che nei molti viaggi che ho fatto in Africa non mi sono abbastanza occupato delle situazioni politiche, sociali, economiche, ideologiche ecc. ecc. del continente nero.
Questo è vero almeno in parte ma paradossalmente è un effetto del mio grande amore per l’Africa. Per fare un paragone esatto è come se, parlando con amici di una donna che amo, parlassi soprattutto delle sue opinioni politiche, della sua situazione economica, della sua posizione in società e non piuttosto della sua bellezza. Bellezza! ecco la parola che da sola spiega il mio silenzio, su tanti aspetti dell’Africa nera che gli africanisti considerano, del resto a ragione, importanti. Bellezza! Io sono stato affascinato dalla bellezza dell’Africa e per bellezza non intendo la bellezza delle cartoline illustrate in tricromia, bensì qualche cosa di inspiegabile, di misterioso, di indicibile che si direbbe aleggia sul continente nero allo stesso modo dell’anima secondo i greci, Cioè qualche cosa di superficiale e di esterno e appunto per questo affascinante per la sensibilità che è il mezzo privilegiato di ogni visione estetica.
Perché l’Africa è bella? Perché è il luogo della terra nel quale la natura ha eretto a se stessa un monumento in cui pare di ravvisare il metodo, l’ordine, il disegno, l’intenzione e la regolarità che sono proprie delle opere d’arte umane. Altrove, questo disegno è questo metodo sono incerti e in parte cancellati dagli uomini. In Africa per motivi storici, geografici e climatici il metodo è stato applicato fino in fondo e il disegno è perfetto. Si noti per esempio la sistematica divisione dell’Africa in tante zone parallele dal nord al sud. A nord c’è la fascia mediterranea temperata. Poi viene il deserto. Al deserto succede la savana. Dopo la savana subentra la boscaglia. Alla boscaglia segue la foresta. Poi sotto l’equatore tutto ricomincia: foresta, boscaglia, savana, deserto, zona temperata. Come se la parte superiore dell’Africa si specchiasse riflettendo la propria immagine nella parte inferiore. Ciascuna di queste zone in se stessa è perfetta. Nella zona mediterranea si vive con quattro stagioni, con la vegetazione, con i cieli e i paesaggi della Grecia e dell’Italia, della Spagna meridionale. Nel deserto, il più grande, il più bello di tutti i deserti della terra, regna il sole.
Nella savana convivono gli uomini e gli animali selvaggi in una simbiosi primordiale. La boscaglia e pullulante di arbusti e di piante, è stregata e piena di spettri. Infine la foresta è pura vitalità che si esprime in una lotta tra pianta e pianta, tra albero e albero, tra liana e liana, in un terreno buio e pieno di acquitrini, senza altri animali che i serpenti e le scimmie. Anche il clima ha una simmetria e un ordine che sembrano umani perché in qualche modo metodici: nel deserto non piove mai; nella foresta chiamata pluviale, piove a stagioni e ore fisse.
Ma nella bellezza dell’Africa non c’è soltanto questo metodo e questa simmetria che sembrano umane; c’è pure un mistero che è senz’altro disumano o se si preferisce extraumano. E’ il mistero che si è espresso nella religione autoctona dell’Africa, l’animismo, e che ci avverte che l’Africa ha soprattutto e prima di tutto un’anima. Tutti gli altri paesi del mondo hanno una storia; L’Africa, lei, ha invece un’anima che tiene il luogo della storia. Cosicché la storia dell’Africa, alla fine quando tutto è stato detto, è la storia della sua anima. 

Rispetto ai libri “africani” che hanno preceduto Passeggiate africane, A quale tribù appartieni?, Lettere dal Sahara, questo testo appare più lirico: certo continuano ad esserci le “pennellate” di squarci paesaggistici: ma non possiamo notare lo sguardo “meravigliato” di fronte alla foresta o alle Cascate Vittoria, nonché lo sguardo disilluso di un neocapitalismo feroce che uccide la foresta per costruire la ferrovia transgabonese uccidendo una “perla” di biodiversità vegetale e animale (così come gli illustra un ecologo francese) o che costruisce alberghi elegantissimi per accogliere uomini d’affari di paesi capitalistici e ancora la divisione “razzista” in Rhodesia (nonostante la recentissima legge Vecchio signore il soprannome appuntoche derivava dalla vittoria dei neri sui bianchi). E’ l’Africa destinata a cambiare (in peggio), ma certo, almeno per l’autore romano, non si riuscirà, finché ci saranno lembi di non storia, a strapparle l’anima.

L’ultimo romanzo pubblicato in vita è Il viaggio a Roma: 

Il protagonista, Mario De Sio, parte da Parigi per raggiungere a Roma il padre, che non vede da quindici anni, essendo stato allevato da uno zio. Ha vent’anni, non lavora ma si definisce poeta, pur non avendo scritto alcuna poesia in quanto già tutte scritte da Apollinaire. Sull’aereo incontra Jeanne e sua figlia Alda ed accetta l’opportunità che l’incontro e in seguito la vita gli offriranno, in virtù di quella dote che lui chiama disponibilità. A partire dalla visita della casa in cui egli ha passato l’infanzia gli sovvengono dei ricordi, fra i quali una scena vista in infanzia. La mamma che lo guarda mentre fa l’amore con un uomo biondo che non è il padre. Tale immagine diventa un’ossessione, che gli impedisce altre storie.

Il Viaggio a Roma - Clexidra - libri rari e fuori commercioIl tema portante del romanzo, ad una prima lettura, è l’incesto: Mario, infatti, superando una porta su cui poggia, lasciando un piccolo spazio per il passaggio, un divano, vede la madre stare a cavalcioni su un uomo che non è il padre e che durante l’orgasmo l’osserva quasi ad invitarlo a non distogliere lo sguardo. Questa scena primaria non verrà mai superata da Mario se lui non farà l’amore con una donna che, almeno negli occhi e nello sguardo, non riveda gli occhi e lo sguardo della madre. Quindi la sua è una ricerca di un “ideale” femminino. Ideale femminino che possiamo vedere (non vi è Jeanne) nelle tre donne apparse insogno a Mario stesso:

 TRE DONNE

Guardo spesso a questo anziano è un po’ maniaco giardiniere e non posso fare a meno di ricordare ogni volta, altra citazione letteraria, la frase con la quale si conclude il Candido di Voltaire: “Bisogna coltivare il nostro giardino.”
Ancora un ammonimento ad agire, in questa frase, come nei versi di Apollinaire! In questi ultimi e nella vita che dovrei agire; nella frase di Voltaire, nella letteratura. A causa della sua passione per il giardinaggio, ho appioppato al vecchio signore il soprannome appunto di “Monsieur Voltaire”. “Ecco Monsieur Voltaire che coltiva il suo giardino,” penso ogni volta che lo vedo, “ecco che coglie i fiori per farne un mazzo.” C’è dell’ironia in questi pensieri; ma forse, chissà, anche un po’ di ammirazione.
Ma adesso, nel mio sogno poiché sto sognando, Monsieur Voltaire non si vede. Tuttavia sono consapevole di aspettare non so quale apparizione, la sua o di qualcun altro. Infatti ora leggo e ora guardo alla finestra. Forse guardo più spesso che leggo.
Ecco, infatti, apparire, invece di Monsieur Voltaire, tre donne in atto di incedere lentamente, le spalle rivolte verso di me. Riconosco subito Alda, mia madre e Esmeralda, sia per il modo di vestire, sia per l’aspetto fisico, caratteristico, come mi rendo conto immediatamente, d tre età successive: l’adolescenza, la giovinezza, la maturità. Alda, con la sua maglietta succinta e i suoi blue jeans corti e striminziti mi ricorda ancora una volta il saltellare mal sicuro di un puledro o di un vitello appena nato; mia madre con la camicetta aperta sulla spalla nuda e la minigonna che le copre appena il sedere, dimena, provocante, i fianchi; infine Esmeralda incede ieratica, stampando ad ogni passo le forme oblunghe delle natiche nella tunica lunga fino ai piedi.
Mi dico, guardando, che sono manifestamente la stessa persona in tre età diverse e mi accorgo che questo pensiero è dettato dallo stessissimo inconfessabile desiderio che tutte e tre mi ispirano mentre camminano. Sì, mi attraggono egualmente il saltellare dinoccolato di Alda, lo sculettamento sfrontato di mia madre, l’ancheggiamento pesante di Esmeralda.
Le tre donne camminano piano, come passeggiando, tenendosi per mano eppure, curiosamente, sembrano estranee l’una all’altra. Questa vicendevole estraneità è sottolineata dal fatto che non soltanto non si parlano ma neppure si guardano: Esmeralda rivolge gli occhi verso terra, come chi teme di inciampare; Alda, verso il cielo, su su, al di sopra del cortile; mia madre, più sorprendente, ecco si volta e, sfacciatamente, mi strizza l’occhio. Penso, a questo punto, di aprire la finestra e di chiamarle; mi alzo, cerco di spalancare le imposte, ma la maniglia non gira, non ci di riesco. Intanto, con mio amaro rammarico, Le tre donne salgono lentamente gli scalini sotto la pensilina, scompaiono dentro il portoncino, non senza che mia madre, sola delle tre, Si volti di nuovo e mi lanci un’occhiata di intesa. Intanto, qualcuno mi preme la mano sulla spalla e io cerco di liberarmi da questo contatto insistente che sento connesso in maniera oscura con la mia impossibilità di aprire la finestra. Così vado avanti per un poco, tentando nello stesso tempo di disserrare le imposte e di scrollare da me la mano che mi preme sulla spalla. Finalmente, inviperito, mi volto e allora mi sveglio. 

Nel brano, che sembra riandare alle Tre età klimtiane, vediamo la sfrontata Alda, lolita che, secondo i suoi piani, dovrebbe diventare dapprima la figlia quindi l’amante di Mario, una volta che lui s’insidasse in casa dalle madre Jeanne, fornendo lei l’idea di una nuova famiglia; Esmeralda, amante e futura moglie del padre, in cui il rapporto “rovesciato” farebbe di lui un figlio amante della matrigna e quindi la madre che occhieggia verso il figlio ma rappresenta l’impossibilità di varcare la porta (la maniglia non gira) che rappresenterebbe l’infrazione del più terribile dei tabù.

Mario non risolverà (come gran parte dei protagonisti maschili dei romanzi moraviani) i suoi turbamenti: giovane indeciso, irrisolto, poeta senza essere poeta, citazionista letterario per l’incapacità di essere un letterarato, dapprima Apollinaire, quindi Voltaire, sembra vagare e cadere nelle situazioni per la naturale “disponibilità” a lasciare trascinare negli eventi. A questa sua condizione conribuisce anche la descrizione di Roma: “Eppure Roma, questa Roma del viaggio a Roma è incredibilmente più precisa e dettagliata che in altri romanzi. Un dato non trascurabile: lo notò, all’uscita del romanzo, anche Antonio De Benedetti, che ne chiese ragione all’autore in un’intervista mobile, sui luoghi del libro. Spiegava Moravia: «Nei romanzi e racconti, che ho scritto prima del Viaggio a Roma, la città è un fondale mai descritto nei particolari. La ragione è semplice. La capitale, in quei romanzi e in quei racconti, non ha funzione nella psicologia dei personaggi. Nel Viaggio a Roma, viceversa, come dice il titolo, definisce e determina i problemi del protagonista». Deve esserci stata una minuziosa mappa mentale, all’origine di questo romanzo. Tanto che, passando per piazzale delle Belle Arti, ci si convince che la casa del personaggio Mario De Sio sia esattamente questo «pretenzioso palazzo dalla facciata coperta di nicchie, cornicioni, balconcini, colonne […] in un curioso stile tra coppedè e piacentiniano». E d’altra parte il quartiere Parioli si annuncia molto presto le romanzo: nel secondo capitolo già si imbocca via Bertoloni, e si arriva di corsa a un appartamento di via Archimede.” (Paolo di Paolo, Nuovi Argomenti, 2007)

Mentre cominciano, per la casa editrice Bompiani, le raccolte di tutte le opere di Moravia, Opere (1927-1947) (1986) e Opere (1948-1968) (1989), escono i racconti La villa del venerdì e altri racconti, la cui pubblicazione avverrà l’ultimo anno della sua vita, 1990.

La villa del venerdì e altri racconti

Non è nuova la struttura di questa raccolta, a due racconti “lunghi” (o “romanzi brevi”) ne seguono 14 ” brevi”, forse, per rispettare, maggiormente; il primo dei due dà il titolo all’intera raccolta, La villa del venerdì, e affronta il tema della gelosia: Alina e Stefano hanno affittato una villa in un famoso luogo di villeggiatura per due motivi: “l’uno di lavoro e l’altro sentimentale. Il motivo di lavoro è che su quella stessa spiaggia passa l’estate il regista con il quale sta scrivendo una sceneggiatura. Il motivo sentimentale è di far piacere alla moglie, Alina. La moglie ha un amante e Stefano lo sa. Quest’amante ha anche lui una villa dove abita solo, a circa trenta chilometri di distanza da quella di Alina e Stefano”.

Alina si reca ogni venerdì dall’amante per poi tornare da Stefano la domenica sera. Pur accettando il tradimento della “moglie”, la quale afferma di amare ambedue, Stefano non può fare a meno, in quel fine settimana di assenza, di “rodersi” dalla gelosia.

LA GELOSIA

Di solito, dopo la partenza di Alina, esce dalla camera e va a sedersi in una sdraia, sulla terrazza, di fronte al mare. Fuma, guarda la distesa nera del mare sulla quale brillano qua e là le luci quiete delle barche dei pescatori e pensa ad Alina. La vede, con gli occhi dell’immaginazione, filare dritta sull’autostrada nella macchina piccola e agile, suo dono recente per il ventinovesimo anniversario di lei. Corre veloce verso il piacere e gli pare che persino nella corsa della sua macchina metta un ritmo di danza. Corre attraverso i gruppi sfavillanti di luminarie degli alberghi, dei ristoranti, dei bar, poi corre per lunghi tratti bui di macchia disabitata. Corre inflessibilmente, arriva e… Adesso lui la vede già a cose fatte cioè ad amplesso avvenuto. Sta seduta su una sdraia accanto all’amante, magari mano nella mano, silenziosa, intenta come lui a guardare al mare nero sparso delle luci ammiccante e tranquille dei pescatori. E Stefano si accorge di soffrire indicibilmente per quest’immagine casta e appagata, molto più che se se la figurasse nuda, supina su un letto, con l’uomo tra le gambe spalancate. Sì, soffre della loro felicità e, soprattutto, del carattere normale e, in qualche modo, coniugale di questa felicità.
Quest’idea che la moglie e l’amante si amino allo stesso modo che lui e Alina si sono amati e tuttora si amano, gli riesce talmente insopportabile che ad un tratto non c’è la fa più, si alza, vanno nel suo giorno a prendere una bottiglia di whisky, la sua bevanda preferita. Poi torna alla sdraia, e col proposito lucido e dichiarato di ubriacarsi, tracanna in un solo sorso uno, due, tre bicchieri con molto whisky e poco ghiaccio. Non è abituato a bere; dopo il terzo bicchiere, è già ubriaco. Allora si alza, va nella camera da letto, si butta tutto vestito sulle lenzuola, si addormenta di un sonno pesante e disperato. Durante la notte, si sveglia, confusamente si spoglia, si riaddormenta. 

E’ letteratura la capacità di Moravia di scandagliare l’animo umano: il modo di vivere la gelosia da parte del protagonista del racconto è realistica, veriterio fors’anche di un vissuto che lo stesso scrittore romano andava vivendo: non dimentichiamo che probabilmente anche Moravia, nella sua senilità, si era sposato con Carmen Llera di quarantesei anni più giovane; probabilmente poteva essere ossessionato dalla sua giovinezza e quindi dalla sua maggiore libertà; ci dice Aldostefano Marino: “Un amore per la libertà che Moravia cercò sempre in tutte le donne con cui ebbe a trascorrere anche solo qualche ora d’amore. Eppure, in quella relazione con Llera, Moravia detestava quella libertà: era ciò che li faceva litigare di più, perché lui negli anni era diventato geloso e molto attento a lei. Tuttavia Moravia preferiva sapere anziché essere ingannato, e così, Llera gli raccontava tutto, senza menzogne, in virtù di quella libertà che non si esauriva nella sola narrazione.”

L’altro famoso racconto è Il vassoio oltre la porta che ci riporta in quel clima di “scoperta” del sesso che già Moravia aveva magistralmente affrontato in Agostino:

GIAN MARIA, LA MONTAGNA, IL CORVO E LA DONNA

Il cielo, prima di tutto: remoto, appena visibile lassù in alto, in fondo alla gola, come respinto indietro dalla montagna gonfia e poderosa, di un blu duro di smalto sul quale si tagliavano i picchi rosa del Gruppo del Brenta, striata di bianche falde di neve. Sotto, la massa imponente serpeggiante del nevaio. Poi ancora, come una barba irsuta sotto un volto ostile, la foresta con gli abeti incalzanti i ranghi serrati all’assalto del pendio. Infine, i prati del fondovalle, di un verde luminoso, con le macchie bianche e nere delle vacche che pascolavano.
Gian Maria, ti steso al sole sulla sdraia della terrazza dell’albergo, guardava questo paesaggio con occhi perplessi; non era alpinista e neppure amante della montagna: quasi stupito, si domandava che cosa era venuto a fare quassù virgola in questa valle solitaria e arcigna, invece di passare l’estate come gli altri anni in qualche affollata e cordiale località marina. La risposta alla domanda la sapeva in anticipo: per lavorare, cioè per scrivere un dramma o meglio (la distinzione per lui era importante) una tragedia; ma, pur formulandola, si rendeva conto che non era così. In realtà, sotto questa idea della tragedia da scrivere, c’era, assurda ma insistente, quella della tragedia da vivere. Gian Maria aveva diciotto anni ed era convinto di avere sino ad ora soltanto vegetato. Quello che nel suo linguaggio interiore chiamava la “vera vita”, secondo lui non l’aveva neppure sfiorato. Ora, forse perché la parola tragedia indicava insieme intensità e letteratura, la “vera vita” non poteva essere che tragica. Di qui il pretesto della tragedia da scrivere in questo luogo severo e drammatico, forse favorevole alla tragedia da vivere.
Pensava a queste cose con sufficiente chiarezza, ma senza trarne alcuna conclusione. Poi stornò gli occhi dalla montagna e guardò alla terrazza. In fila sulle sdraie, gli ospiti dell’albergo giacevano distesi al sole, immobili e come assorti in una contemplazione fisiologica. Altri alternavano senza troppa curiosità, oziosamente, intorno ad un cannocchiale, montato su un sostegno a tre piedi, attraverso il quale si poteva sfruttare la montagna intorno. Ma in quel momento stava avvenendo una piccola scena che si ripeteva ogni giorno: un grosso corvo addomesticato, tutto nero e lucente, saltellava lungo le file delle sdraio e come cercando qualche cosa. Ogni tanto si fermava, girando il capo di lato come fanno gli uccelli per guardare, quindi tendeva il collo ad afferrare col becco il laccio di una scarpa che sporgesse da una sdraia e tirava con tutta la sua forza finché il nodo non si scioglieva. Questa esibizione era seguita con divertimento e simpatia dai clienti dell’albergo che ridevano e la commentavano facetamente. Dalla sdraia immediatamente vicina a quella di Gian Maria sporgeva una scarpa di donna, un elegante scarponcino di camoscio. Il corvo si fermò, adocchio il laccio, lo afferro col becco e tirò. Ma il nodo non si sciolse. La donna a cui apparteneva la scarpa ritrasse il piede con violenza, esclamando: “Vattene, brutta bestiaccia!”.
Gian Maria fu colpito dal tono singolare della voce, come di un’esasperazione costante e antica; e, forse, Ancor più dal fatto che questa reazione, invece di riuscirgli antipatica, gli ispirasse un sentimento di simpatia. Sorpreso, guardo la donna e subito si meravigliò di non averla notata prima. Una gonfia, folta capigliatura fulva e un’enorme paio di occhiali neri le riducevano il viso al naso minuscolo e alla larga bocca rossa e sensuale. Era un viso felino, ma non veniva fatto di pensare al gatto, bensì ad un animale più feroce della stessa specie, per esempio, a causa della mascella tonda e sporgente, ad una pantera punto al contrario delle altre clienti dell’albergo, per lo più infagottate in maglioni e pantaloni sportivi, era vestita da città, con giacca e gonna dritte di taglio maschile. Gian Maria fu anche impressionato da un particolare che gli parve significativo: ai lobi delle orecchie, al collo, ai polsi, alle dita, la donna ostentava una quantità di gioielli vistosi e massicci. Una catenella d’oro le circondava la caviglia. Aveva spalle larghe, vita ristretta e fianchi ampi; le gambe distese sulla sdraia erano magre ed eleganti. Gian Maria cercò pure di indovinare l’età e giudicò che fosse vicino ai quarant’anni.
Gian Maria era timido nella parola; forse per questo, quasi illudendosi che non si notasse, che gli accadeva di essere sfrontato negli sguardi. Prese così ad osservare con insistenza la donna e intanto cercavo una frase sul corvo e sulle sue prodezze che gli fornisse il pretesto per attaccare discorso. Pensò a qualche cosa come: “Che sfacciato quel corvo!”, che esprimesse solidarietà, oppure: “Come si chiama quel corvo?”, ma si accorse che, comunque la rigirasse, non sarebbe stato capace di pronunziarla a causa della timidezza. Fissava gli occhi sulla grande, enigmatica bocca rossa e carnosa e provava una sensazione di completa incapacità di parlare, accompagnata, però, tra la bizzarra idea che forse gli sarebbe stato più facile chinarsi e sfiorare con le proprie labbra quelle della sconosciuta. 

La montagna e la volontà dell’intellettuale diciottenne di scrivere una tragedia, ci rimandano alla sua adolescenza quando, malato di tubercolosi, trascorreva le giornate ad Asiago meditando Gli indifferenti che dovevano avere una forma tragica. Ma qui il tutto si “complica” con la presenza femminile. Moravia non smette di paragonare la bellezza muliebre al mondo animale: il richiamo alla “pantera” sembra prefigurare il romanzo che non riuscirà a pubblicare, al quale stava, presumibilmente, già lavorando; ma come sempre è l’estrema sensualità femminile che mette in scacco la capacità maschile di affrontare “naturalmente”, la realtà.

Gli altri 14 racconti, tutti di un’estensione ridotta, in linea con lo spazio dedicatogli dal giornale, più o meno riprendono il tema della gelosia; ma ve ne sono due particolarmente efficaci da un punto di vista politico, ambedue scritti con piglio sarcastico: Pensa!, in cui si stigmatizza l’uso improprio del denaro pubblico da parte di un ente statale e la Donna dagli occhi strabici, in cui sottolinea come, nella società contemporanea, esista ancora la figura del libertus, cioè di colui che “servendo” un personaggio importante, si specializza così tanto sulle sue necessità e voglie da, pur annullandosi, diventare ricco grazie alle sue prebende.

Il 26 settembre 1990 Alberto Moravia muore, nella sua casa sul Lungotevere, accudito dalla sua ultima compagna, Carmen Llera. Postumi usciranno varie pubblicazioni: il romanzo La donna leopardo, l’interessante intervista rilasciata ad Alain Elkann con la quale il nostro ripercorre la sua vita, Vita di Moravia, appunto e una ennesima raccolta di racconti non ancora riuniti in volume, Romildo, a cura di Enzo Siciliano.

Ne usciranno altre di tipo episolare o di resoconti politici quand’era parlamentare europeo, che se aggiungono curiosità sull’uomo Moravia, nulla ci dicono sul suo suo essere grande narratore del Novecento italiano.

Alberto Moravia. LA DONNA LEOPARDO . BOMPIANI 1^ edizione 1991

La donna leopardo narra la storia di Lorenzo e Nora: il primo fa il giornalista e viene invitato dal direttore del suo giornale a scrivere un reportage sul Gabon. In Africa Lorenzo porta anche Nora e viene raggiunto dal direttore Colli e sua moglie Ada. Nora prova attrazione per Colli, creando così una situazione in cui non solo Lorenzo viene tradito e tenta di tradire a sua volta, ma assume anche il ruolo del marito geloso degli ipotetici incontri amorosi tra Colli e la moglie. Lorenzo li immagina, Ada li comprova, invitandolo a tradire “come specchi” i loro rispettivi coniugi. Si è tuttavia che questi supposti amori sono talmente “evanescenti” allo stesso modo di come lo siano i loro. il libro sembra alludere all’impossibilità di afferrare la “verità”.

Il brano da noi scelto segue una discussione tra Colli e Leonardo sul compenso del giornalista e sul modo in cui il direttore possa aumentarglielo. Ma ad un tratto la discussione assume una piega diversa: 

LA DONNA LEOPARDO

Lorenzo pensò: “Così alla fine l’ha detto Che potrebbe aumentare i miei compensi. E io non mi offendo. Che mi succede?” Ma non ebbe il tempo di rispondere, perché Colli che pareva adesso a guardare al di là di lui e come attraverso lui, esclamò d’improvviso: «Guardi, guardi, là dietro di lei.»
Lorenzo si voltò. Colli soggiunse a bassa voce: «Secondo lei che cosa può essere?»
Al di là delle ceppaie della natura così simili a tante piovre a congresso Lorenzo vide allora sospese a mezzaria nell’oscurità della foresta due piccole luci fosforescenti, circolari. Erano ciecamente due occhi ma avevano la singolare proprietà di risplendere io al tempo stesso di non guardare. Colli disse sottovoce, il tono di complicità avventurosa: «E ora che si fa?» Lorenzo pensò ad un tratto: “Gli occhi di Nora”. Quasi nello stesso momento gli occhi si spensero e ci fu lo spostamento frusciante di un corpo massiccio entro il fogliame tenebroso.
«Ha visto,» interrogò Colli, «cosa crede che fosse?»
Lorenzo capì che Colli non voleva riprendere la discussione e si strinse nelle spalle dicendo malvolentieri: «Qualche animale. Forse una gazzella.»
«Gazzella no di certo. Intanto erano gli occhi di un felino. E poi stavano più su degli occhi di una gazzella. Stavano quasi ad altezza d’uomo. Per me erano occhi di un grosso felino arrampicato su un albero.»
«Ma quale felino?»
«Un gatto selvatico. Oppure un leopardo».
Ormai il tono della conversazione era diventato del tutto amichevole. Lorenzo domandò: «ci sono dei Leopardi nel Gabon?»
«Ci sono,» informò Colli versandosi della birra, «e se non bastano quelli reali, ci sono quelli immaginari.»
«Immaginari?»
«Sì», spiegò Colli ion ormai piacevole e ozioso racconto, «ci sono individui, a quanto pare, dotati a loro insaputa di facoltà magiche ai quali viene attribuita la capacità di trasformarsi in animali. Sono persone qualsiasi e come ho detto non sono consapevoli di questa loro proprietà. Senza volerlo e saperlo possono trasformarsi in bufali, in antilopi o magari, come potrebbe essere stato il caso poco fa, in leopardi e via dicendo. Anzi, a proposito di bufali, la prima volta che venni nel Gabon mi fu raccontata una bella storia. In un villaggio, nei pressi di Franceville, dopo il tramonto un bufalo ammazza una donna che dopo il lavoro si affrettava verso casa. Passano alcuni giorni ed ecco apparire di nuovo il bufalo vespertino: a cornate ammazza un vecchio contadino. Ancora altri due giorni, e questa volta viene ammazzata una bambina. Allora si riunisce il consiglio del villaggio e viene deciso di assoldare un cacciatore professionista, un bianco. Ma il bufalo fa fuori anche il bianco. Nuova riunione dei saggi del villaggio: decidono allora che non si tratta di un bufalo vero e proprio ma di un uomo bufalo cioè di un uomo che ogni giorno, dopo il tramonto, si trasforma in bufalo. Naturalmente i saggi sanno chi è l’uomo bufalo: è tal dei tali, contadino con famiglia, indirizzo, nome, tutto. Detto e fatto, viene inviato un commando di animosi hai l’indirizzo dell’uomo bufalo. Lo trovan, beve tranquillamente la birra, fuori della capanna: “Tu sei l’uomo bufalo?”
“No, non sono l’uomo bufalo.”
“Sì, sei l’uomo bufalo, lo dicono i saggi del villaggio.” “Allora benissimo, se lo dicono i saggi vuol dire che è vero.” In breve lo prendono, lo legano, lo portano al villaggio, lo condannano a qualche anno di prigione. Poi tutta la comunità decide di trasferire il villaggio a qualche chilometro più in là. E chi s’è visto s’è visto.»
Lorenzo domandò: «Allora secondo lei quei due occhi che abbiamo visto nel buio erano gli occhi di un uomo leopardo o magari di una donna leopardo?»
«Secondo me, naturalmente, no. Ma secondo qualche gabonese, probabilmente, sì.»
Ci fu a questo punto un allegro clamore: «E’ pronto» Gridò sonora uscendo dalla casetta con una zuppiera tra le mani, seguita da che portava su un vassoio i piatti e le posate. Nora, molto eccitata, posso la zuppiera sulla tavola e disse: «abbiamo fatto la cucina internazionale: spaghetti italiani, olio di semi francese, tonno spagnolo, peperoncino africano, olive greche. Come secondo ci sarà carne in scatola inglese Le sardine portoghesi. Invece del pane, gallette gabonesi.» Ada disse in tono scontento: «peccato che i letti non sono all’altezza della cucina. Dormiremo in terra, in mezzo agli scarafaggi.»
«Via, via, bando alle lamentele. Poteva andare molto peggio,» gridò Colli. «Abbiamo trovato tutto. Perfino la donna leopardo.»
Nora domandò: «Che è la donna leopardo?»
Colli si servì gli spaghetti, poi spiegò raccontando per la seconda volta la storia dell’uomo bufalo. Come Colli ebbe finito, Lorenzo non poté fare a meno di dire alla moglie: «Quei due occhi assomigliavano ai tuoi. Appena li ho visti ho pensato: toh, gli occhi di Nora.»
Nora si infatuò subito scherzosamente di questa spiegazione: «Ma si capisce, sono la donna leopardo, soltanto che io so di esserlo, attento Colli ora ti mangio,» e ridendo fece il gesto di avventarsi con le dita protese contro Colli. Ada disse a bassa voce, tra i denti: «buon appetito.» 

Ci racconta Siciliano: “La mattina in cui è morto, sulla sua scrivania c’era l’ultima stesura de La donna leopardo, conservata con cura in una rigida cartellina blu. Vi aveva apposto la parola «fine» da qualche giorno. Aveva preso appuntamento per l’indomani con la dattilografa. Lo avrebbe dettato, come era solito fare, e, magari, qua e là corretto nella forma. Il romanzo, a quel punto, sarebbe passato dalla versione manoscritta a quella battuta a macchina.

La donna leopardo in versione teatrale

Dalle parole di Siciliano arguiamo che La donna leopardo manca dell’ultima revisione, ma, sempre nella testimonianza dell’amico scrittore, l’impianto sarebbe stato quale quello che oggi leggiamo. Dopo tanti viaggi in Africa, a cui, come detto dedicò tre volumi, è questo l’unico romanzo ambientato nel continente nero. Ma questa ambientazione non costituisce soltanto una “scenografia” su cui interagiscono i personaggi: si è che l’inconoscibilità di Nora (donna-leopardo), capace di divorare il suo uomo facendolo consumare nella gelosia, corrisponde al mistero africano, la sua impenetrabilità è la chiusura con cui lei si chiude alle sue domande e il suo non poter essere catturata richiama alla mente la libertà dei grandi felini africani.

Se La donna leopardo è un romanzo che, se fosse vissuto un po’ più a lungo avrebbe certamente aggiunto un altro tassello alla sua opera di narratore, Romildo risulta solo un’operazione editoriale: vengono qui infatti riuniti, sempre da parte di Enzo Siciliano, racconti che non erano stati inseriti da Moravia in nessuna delle sue pur non episodiche nelle sue raccolte. “In questo volume sono riuniti i racconti che Moravia, lungo l’arco della sua vita, senza mai radunarli in volume, pubblicò su giornali e riviste. Sono pagine sparse, perdute talvolta su testate di cui non c’è più notizia: molti sono ritagli ritrovati fra le sue carte, in casa, ammucchiati nel caotico disordine che per lo scrittore era abituale. Ad esempio, del testo che titoliamo Insulti è stata conservata solo la traduzione inglese apparsa in USA su Playboy (giugno 1974): scomparso l’originale italiano, mediamo in appendice una versione possibile. Può darsi che altri testi, attraverso un attento scrutinio in emeroteca, possono essere rintracciati. Comunque, la maggior parte di questi racconti sono quelli che Moravia medesimo scelse di non perdere, certamente in vista di qualcosa che non compì mai.” (Enzo Siciliano, dall’Introduzione al volume Romildo).

Forse di questa raccolta la parte più interessante è quella dedicata ai testi di natura autobiografica, come quello in cui il nostro ci racconta un suo incontro con Eugenio Montale:

A CENA CON MONTALE

Sto a tavola con Eugenio Montale e, pur pensando che non sarà facile intervistarlo (come si fa a intervistare un poeta?), lo guardo e mi accorgo che non è affatto cambiato da quando, molto tempo fa, ci siamo conosciuti. Se lo vedessi ora, per la prima volta, mi colpirebbero gli stessi caratteri che mi hanno colpito allora: la curiosa forma della capigliatura che gli cresce, rigogliosa e ostinata, fin nel mezzo della fronte; l’ingenuità dolce un po degli occhi celesti; l’imperiosità del naso di curvo; il broncio che gli gonfia la bocca e che ancora oggi potrebbe sfogarsi sia in un solfeggio meditabondo sia nella breve, stupefatta e canzonatoria risata nella quale si esprime il suo particolarissimo, quasi straziante senso del comico. Ma Eugenio Montale è un critico letterario tra i nostri migliori. Mi dice:
«Non ci sono più i generi letterari. Direi quasi: purtroppo.»
«Non ci sono ma potrebbero rinascere. Da qualche anno si assiste al fenomeno della creazione, da parte della critica, di un elenco di modelli, tutti più o meno d’avanguardia. Dai modelli ai generi letterari il passo è breve, non ti pare?»
«Non credo che la critica moderna, per quanto si sforzi, potrebbe trasformarsi in retorica e creare, come dici tu, dei modelli. L’avanguardia, ha come fine il continuo superamento e la continua distruzione dei modelli. La retorica tendeva invece alla conversazione e, magari, all’imbalsamazione.»
«Tuttavia, se si legge certa critica, non ti sembra, Montale, che gli stessi nomi si ripetono continuamente, in maniera ossessiva, senz’alcun accenno di superamento e tanto meno di distruzione: Joyce, Proust, Kafka, Musil, Rimbaud, Lautréamont, Eliot ecc. ecc.? Tu stesso sei stato, sei tuttora, un modello. Quanti saggi ti sono stati dedicati finora?»
«A dire il vero, Ossi di seppia, che è del 1925, ebbe alla pubblicazione un numero ristretto di articoli critici. Ma da allora, ogni anno, fino ad oggi, i saggi sulla mia opera si sono seguiti con regolarità, senza interruzione, anzi, con accrescimento numerico continuo. Tornando ai generi letterari, il fatto che non esistano più presenta non pochi svantaggi accanto a vantaggi innegabili. Già, perché, secondo alcuni, l’opera d’arte non comincerebbe ad esistere se non quando è stata, per così dire, creata dal fruitore, il quale, senza sforzi, si sostituisce all’autore e crea, lui, l’opera d’arte.»
«Non pensi che la parola “fruizione” stia ad indicare, in fondo, il fenomeno tutto moderno del consumo?»
«Non lo so. Direi piuttosto che fruizione sta per successo, mentre consumo sta per popolarità. Si ha fruizione, ossia successo, con poche migliaia di lettori. Io, per esempio, ho venduto quarantamila copie di Ossi di seppia in quarant’anni. Si ha popolarità, cioè consumo, oltre le poche migliaia. O l’uno o l’altro.»
«Eppure, in Italia, l’Ulysses di Joyce ha superato le cinquantamila copie.»«Sì, ma quanti l’anno letto? I fuitori sono quelli che lo hanno letto davvero. Gli altri sono… gli altri.»
Non ti pare allora, Montale, che la buona letteratura non può ormai aspirare che alla fruizione, cioè al successo? E’ nel cinema, oggi, che si verifica il fenomeno della qualità congiunta alla quantità. In Francia, per esempio, Godard è al tempo stesso fruito e popolare. Ma Robbe-Grillet è soltanto fruito.»«Sono d’accordo, la letteratura ha perduto molto del suo prestigio.»
«Abbiamo fatto il nome di Robbe-Grillet. Che ne pensi del nouveau roman?»
Per quanto riguarda i romanzi, sono piuttosto incline alla tradizione. I romanzi del nouveau roman saranno nuovi e importanti, non discuto; ma sono noiosi e quindi difficilmente leggibili, almeno per me.»
«Forse non sono romanzi, ma lunghi poemi in prosa. Vogliono mettersi fuori dalla durata. Automaticamente si mettono anche fuori dalla narrativa.»
«Dirersti che il romanzo è legato alla durata e che, senza durata, non c’è romanzo?»
«Sì, il romanzo deve narrare, cioé avere una durata. Infatti non ci sono buone poesie narrative (sono sempre le meno valide nell’opera dei poeti) come non ci sono, in fondo, buoni romanzi lirici. Tu, per esempio, sei un poeta non narrativo; anche se il romanzo s’intravede spesso dietro le tue poesie. Prendiamo La casa dei doganieri, una tua poesia che per una quantità di motivi mi ricorda irresistibilmente un’altra poesia famosa, A Silvia di Leopardi. Perché me la ricorda? Forse perché in ambedue queste poesie c’è il romanzo, cioè non sarebbe difficile recuperarvi dei personaggi (almeno due), una storia, un ambiente fisico e sociale e via dicendo. Ma, al tempo stesso, il romanzo non c’è, perché sono due poesie, cioè due composizioni poetiche che si mettono fuori dalla durata, cioè non raccontano bensì “illuminano”. Ma, dimmi, in questo momento stai preparando un nuovo libro?»
«Ho ventotto poesie nuove. Quattordici Verranno pubblicate prossimamente da Strumenti critici.»
«Non si può dire che la tua produzione sia abbondante.»
«La mia produzione è scarsa perché sono vissuto più di quanto credessi di vivere. Certi poeti hanno avuto il presentimento che sarebbero morti giovani e allora si sono affrettati a dare il più presto possibile il meglio di sé. Anch’io, quand’ero giovane, avevo questo presentimento di morire presto, forse perché sapevo di avere delle cose da dire e temevo di non fare in tempo. Poi mi sono accorto che vivevo, che continuavo a vivere e allora non ho più avuto alcuna fretta, è così sono arrivato a settant’anni con l’opera che altri, scomparsi precocemente, avevano già dato a venticinque anni.
Ho aspettato, insomma, pazientemente, quasi distrattamente e in tutti i casi liberamente, che un’intuizione oscura, un sentimento ineffabile si precisassero, un po’ come si forma, in maniera lentissima, strato dopo strato, la perla intorno al nucleo originario. Del resto, non si può mai sapere quando la poesia è giunta al punto di maturità. La poesia è imprevedibile. La differenza tra la poesia e il prodotto meccanico è tutta qui: nell’imprevedibilità della prima, nella prevedibilità del secondo. Questo deve essere progettato in tutti i particolari, la poesia no.»

Moravia legge Montale. Montale legge Moravia - Limina | Rivista

Questo passo viene pubblicato su Il corriere della sera il 3 marzo del 1968.

E’ evidente che i due tra i maggiori letterari ci fosse stima, pur nella diversissima “carriera” letteraria, uno poeta e l’altro narratore. Importante è tuttavia sottolineare come ambedue esordissero nello stesso clima letterario e continuassero, attraversando l’intero secolo a produrre opere e a riflettere sulla contemporaneità: infatti Ossi di seppia è del ’25, Gli indifferenti del ’29.

Qui si discute e si riflette sul compito della letteratura in un periodo in cui sembra venir meno la funzione sia della poesia che del romanzo. Gli anni che vanno dal ’63, anno in cui a Palermo “nasce” la neoavanguardia da parte di alcuni intelletuali, tra i quali Guglielmi, Eco e Sanguineti, fino al ’68, anno dell’articolo, sono ricchi di “messa in discussione” di tutti i modelli; opere come Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e Metello di Vasco Pratolini vengono accusati di obbedire a logiche di consumismo letterario che le apparentano di più ai romanzi d’appendice che alla letteratura. Di contro a loro Moravia e Montale sembrano ribadire la funzione della narrativa e della poesia: se Sanguineti con Laborintus frammenta completamente il linguaggio e Manganelli con Il serpente annulla il senso del racconto, se pure vogliono rappresentare il caos della realtà e l’incomunicabilità dell’uomo contemporaneo, al fine perdono proprio il concetto di rappresentatività, risultando per lo più opere illegibili se non agli addetti ai lavori.

Vita di Moravia - Bompiani

Ed eccoci all’ultimo lavoro che non si può dire di Moravia, ma frutto di una lunga intervista che il vecchio scrittore concedeva ad un giovane autore Alain Elkann, secondo lo stile, allora molto in voga in Francia, dell’entretiens, che potremo banalmente tradurre “conversazioni”. Tale intervista divenne in seguito un libro postumo, pubblicato nel ’92 con il titolo Vita di Moravia.

DOSTOEVSKIJ IN MORAVIA E NELLA CULTURA EUROPEA 

A.E.: Mi hai detto che io non posso immaginare che posto occupava allora Dostoevskij nella cultura europea. Perché?
A.M.: Sei di un’altra generazione, non puoi immaginare perché non sei vissuto in quell’epoca. Se tu pensi che un grande borghese come Gide ha scritto un romanzo che si chiama Les faux monnayeurs (I falsari) unicamente perché aveva scoperto Dostoevskij allora capisci che la mia infatuazione per l’autore di Delitto e castigo aveva la radice nella cultura europea del momento. Era insomma l’equivalente di ciò che è stata la moda dell’esistenzialismo nel secondo dopoguerra, ma una moda che era l’indizio di un profondo smarrimento, che Dostoevskij ha descritto meglio di qualsiasi altro romanziere. Del resto Dostoevskij è stato in un certo modo il creatore dell’esistenzialismo: al rapporto tra individuo e società, come in Balzac, Flaubert, Dickens, Tolstoj ecc., ha sostituito il rapporto dell’individuo con se stesso. Delitto e castigo non è la storia di un ambizioso che fallisce, come in Le Rouge et le Noir di Stendhal, ma quella di un uomo che ha ucciso e ne prova rimorso e il rimorso è un rapporto tutto interiore dell’uomo con se stesso. Io sono nato alle lettere in quel momento storico lì. Oltre ad Dostoevskij, fui molto influenzato dai surrealisti sul sogno e l’inconscio, come fonti di ispirazione. In realtà la mia avanguardia è stata il surrealismo. E questo spiega anche una cosa, che i miei romanzi, a tutt’oggi, partecipano di un’ambiguità che li distingue, cioè sono realistici, ma al tempo stesso simbolici. Un po’ com’erano i surrealisti. E’ una cosa che ho in comune con una generazione intera, mettiamo quella di Buñuel, he aveva la mia età. Dico Buñuel perché è l’autore cinematografico al quale mi sento più affine. 

Qui Moravia ci conferma di come la grande letteratura russa sia penetrata profondamente nella cultura occidentale: d’altra parte lo stesso Freud considerava Dostoevskij un precursore della psicoanalisi, così come sicuramente i surrealisti consideravano il sogno l’unica vera realtà, sogno che sta alla base del percorso analiico di Freud. Moravia che si considera un esistenzialista non può che ammettere la sua filiazione a partire dall’atto mancato di Michele ne Gli indifferenti. Ci piace ricordare che La coscienza di Zeno, pubblicata da Svevo nel 1923, con la psicoanalisi come protagonista, subì un vero e proprio silenzio fino al 1925, proprio quando il giovane Moravia inizia a scrivere il suo primo romanzo.

QUALE FUTURO PER I GIOVANI?

A.E.: Ammesso che si riesca ad evitare la catastrofe, come saranno la vita e la società di domani?
A.M.: Penso che la scienza occuperà un posto sempre più grande nella vita degli uomini. Dico questo perché se si guarda allo stato delle cose del mondo nel suo insieme, si deve constatare che la sola attività umana che abbia segnato un progresso innegabile e la scienza nonché le sue applicazioni tecnologiche. Ora, ciò che mi colpisce e il contrasto misterioso e probabilmente significativo tra il vertiginoso progresso scientifico e l’altrettanto vertiginosa degradazione della natura. Tutto ha un significato magari insensato. Qual è il vero significato di questo contrasto? Forse non è affatto un contrasto ma qualche cosa di logico: la conoscenza porterebbe alla morte.
A.E.: Insomma, come si devono preparare alla loro vita futura i ragazzi di oggi?
A.M.: È difficile rispondere. Il fatto che spesso la loro risposta consista nell’uso della droga ci fa capire che le giovani generazioni potrebbero semplicemente voltare le spalle alla verità. Io mi auguro che questo non avvenga e che venga trovato un nuovo rapporto tra la conoscenza è la vita.
A.E.: In che senso?
A.M.: Nel senso che la conoscenza serva non già la morte ma alla vita.
A.E.: Con questa frase consideri che il libro sulla tua vita sia finito?
A.M.: Sì.

Un Moravia che sembra malinconicamente disilluso sulla capacità dei giovani di trovare una nuova via alla conoscenza. Muore a 83 anni e durante tutti questi anni ne ha visti di giovani sin a partire da quel ’22, quando dal balcone di casa li vede con i mitra in spalla inneggiando Mussolini, o quando intorno agli ’70 borghesi velleitari lo processarono (non li accusò come fece Pasolini) o ancora quando li vide ammazzare innocenti durante il periodo delle Brigate rosse.

Vita di Moravia - Elkann, Alain: 9782264017178 - IberLibro

E’ che lo scrittore romano è stato forse il testimone più importante di quasi l’intero Novecento: se si escludono le opere di D’Annuzio e di Pascoli (certamente fondamentali ma immersi ancora ad una cultura fortemente umanistico/ottocentesca), Moravia partecipò con il primo romanzo alla grande stagione creativa che vedeva le immense opere di Joyce e di Proust, ma anche la narrativa di Céline, di Gide e del nostro Pirandello; ma l’autore romano seppe anche andare avanti, inaugurando un rapporto fruttuoso tra romanzo e cinema (quest’ultima la forma più importante narratologicamenre parlando del Novecento) e intervenendo spesso al dibattito pubblico, partecipando a dibattiti televisivi. Un intellettuale certamente moderno il cui studio può illuminare la storia sia popolare che borghese dell’Italia.

Lettere a uno scrittore | Casa Museo Alberto Moravia

Moravia ritratto da Renato Guttuso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PLINIO IL GIOVANE

Salvatore Lo Leggio: Plinio il Giovane. In diretta da Roma antica (Lidia Storoni)

Plinio il Giovane (facciata del Duomo di Como)

Biografia

Della vita di Plinio il Giovane ci informa lui stesso: nel suo Epistolario, infatti, parla molto di sé e dice che Cecilio Secondo nasce nel 61 a Secundum Comum tra il 61 o il 62. La famiglia d’origine, agiata e prestigiosa nella provincia, pur non avendo il rango di senatoriale, era tra le più illustri, in cui regnava un forte rispetto per la tradizione. Alla morte del padre venne adottato dallo zio, da cui assunse il nome, Plinio il Vecchio, che lo portò a Roma e lo affidò agli insegnamenti retorici di Quintiliano.

Inziò la sua attività politica sotto Domiziano, fu infatti tribuno militare in Siria, questore e pretore; raggiunse il culmine del cursus honorum con la nomina di console nel 100 sotto Traiano, riuscendo inoltre ad ottenere la  sua piena fiducia, diventando un consigliere dell’imperatore, entrando a far parte del collegium principis. Nel 111 venne mandato, come legato consolare (governatore) in Asia Minore, dove dovette affrontare la difficile questione dell’espandersi della religione cristiana. Dovette morire intorno al 113, non avendo più suoi notizie successive a quella data.

Opere

Sappiamo probabilmente che fu autore di versi, sebbene lui le ritenesse un lusus con cui intrattenere i suoi alti e colti amici, ma al di là di pochi versi non ci è giunto niente, lo stesso accade per la sua attività forense; le uniche opere a noi giunte sono il Panegyricum Traiani e l’Epistolario.

Panegyricum Traiani

S’intende per panegirico un genere letterario greco vicino all’encomio. Nominato console da Traiano, Plinio pronuncia un vero e proprio elogio dell’imperatore per ringraziarlo della carica da lui ottenuta nel 100:ZB Zürich / C. Plinii Caecilii Secundi Panegyricus Traiano imperatori dictus ...

Edizione del 1748

ELOGIO PER UN NUOVO PRINCIPE

Discernatur orationibus nostris diversitas temporum, et ex ipso genere gratiarum agendarum intelligatur, cui, quando sint actae. Nusquam ut deo, nusquam ut numini blandiamur: non enim de tyranno, sed de cive; non de domino, sed de parente loquimur. Unum ille se ex nobis, et hoc magis excellit atque eminet, quod unum ex nobis putat; nec minus hominem se, quam hominibus praeesse meminit. Intelligamus ergo bona nostra, dignosque nos illis usu probemus, atque identidem cogitemus, quam sit indignum, si maius principibus praestemus obsequium, qui servitute civium, quam qui libertate laetantur. Et populus quidem Romanus dilectum principum servat, quantoque paullo ante concentu formosum alium, hunc fortissimum personat; quibusque aliquando clamoribus gestum alterius et vocem, huius pietatem, abstinentiam, mansuetudinem laudat. Quid nos ipsi? divinitatem principis nostri, an humanitatem, temperantiam, facilitatem, ut amor et gaudium tulit, celebrare universi solemus? Iam quid tam civile, tam senatorium, quam illud additum a nobis «Optimi» cognomen? quod peculiare huius et proprium arrogantia priorum principum fecit. Enimvero quam commune, quam ex aequo, quod felices nos, felicem illum praedicamus? alternisque votis, «haec faciat, haec audiat», quasi non dicturi, nisi fecerit, comprecamur? Ad quas ille voces lacrimis etiam ac multo pudore suffunditur. Agnoscit enim sentitque, sibi, non principi, dici.

Dai nostri discorsi si veda subito quanto i tempi siano diversi e bastino le caratteristiche dei ringraziamenti per far capire a chi e quando furono pronunciati. Non ricorriamo mai a piaggerie che lo proclamino un dio, che lo proclamino un essere sovrumano; infatti non parliamo di un tiranno ma di un cittadino, non di un padrone ma di un padre. Ad accrescergli superiorità e preminenza è proprio questo suo crederci uno di noi, questo suo ricordarsi non meno di essere uomo quanto di essere a capo degli uomini. Rendiamoci conto pertanto della nostra fortuna, dimostriamo di meritarcela con l’uso che ne facciamo ed esaminiamo assiduamente se non prestiamo una più solerte obbedienza agli imperatori che si compiacciono della schiavitù dei cittadini che non a quelli che ci tengono alla loro libertà. Il popolo romano sa certamente operare una distinzione tra gli imperatori: non molto tempo fa, in un’altro, era la bellezza che veniva acclamata dalla folla compatta, in questo invece è l’impavida intrepidezza che viene glorificata con un identico applauso; una volta era il modo di porgere e di cantare di un’altro che gli strappavano grida di entusiasmo, ora invece sono la devozione, il disinteresse e la benevolenza di questo che suscitano uguali ovazioni. E noi personalmente come ci comportiamo? Tutti insieme, trascinati dall’amore e dalla gioia, siamo soliti esaltare pubblicamente la divinità del nostro imperatore oppure la sua umanità, la sua discrezione e la sua arrendevolezza? E poi che cosa c’è che si addica tanto ad un cittadino, che si addica tanto ad un senatore quanto la denominazione di «Ottimo» che noi gli abbiamo assegnata? La boria altezzosa degli imperatori precedenti gliene ha fatto un appellativo specifico ed individuale. Proprio! Quale atmosfera di solidarietà e di uguaglianza testimoniamo quando affermiamo in pubblico che noi siamo fortunati e che egli è fortunato, e quando, alternando l’augurio, esprimiamo questi voti: «Tale sia sempre sia la sua condotta, tale sia la sua gloria», facendo capire che non diremo così se tale non fosse la sua condotta! A queste esclamazione il suo volto si bagna di lacrime e si cosparge di rossore. Infatti si accorge e sente che quelle voci di plauso sono dirette alla sua persona e non alla sua dignità.
(F. Trisoglio)


Traiano

Da questo passo intendiamo come Plinio voglia “esaltare” l’essere princeps di Traiano rispetto ad altri principes che lo hanno preceduto (chiaro il riferimento a Domiziano e a Nerone): cioè essere sì un princeps ma soprattutto un cives, circondato omnibus civibus, cioè, sembra dirci Plinio, un primus inter pares; ma non è esattamente così.

Innanzitutto il “primus inter pares” di memoria augustea richiedeva un difficile equilibrio tra il Cesare ed il Senato; in questo caso il senato, composto soprattutto da provinciali nominati dallo stesso Tiberio, non poteva che essere sottomesso; in secondo luogo la qualità che Plinio vuole assegnargli appartiene maggiormente ad una captatio benevolentiae che ad una realtà dei fatti. Infatti egli qui sembra voler dar sfoggio dell’oratoria epidittica, all’interno della quale s’inserisce quella elogiativa. E’ un tipo di oratoria nata in Grecia, nel periodo di Alessandro Magno e che si era affermata, a Roma, in tempi piuttosto recenti. Molto presumibilmente dovevano essere piuttosto numerosi, ma possediamo soltando il Panegirico di Plinio il Giovane, per farcene un’idea.

Quello che qui Plinio vuole dimostrare è come tali elogia, precedentemente a Traiano, fossero falsi, invece il suo corrisponde a verità. Se avesse usato uno stile meno ridondante, iperbolico, retoricamente eccessivo, non avremmo avuto nessun problema a ritenere il giudizio dell’intellettuale romano corretto: sono gli stessi storici a ricordarci la grandezza di Traiano che aveva allargato i confini di Roma, l’aveva abbellita (si pensi al Forum Traiani), aveva ottenuto una “pace sociale” aiutando i più deboli, attraverso le elargitiones; ma lo stile smaccatamente adulatorio, più che “sminuire” la “grandezza” di Traiano, ledono la “sincerità” del suo “laudatore” (anche se non siamo lontani dal credere che la superficialità dell’autore corrisponda alla “verità” del suo sentire).

EpistolarioPlinio il Giovane e le lettere con Traiano sui cristiani - La Nuova Bussola Quotidiana

Per parlare dell’Epistolario di Plinio dobbiamo rifarci non a quello di Seneca, ma a quello di Cicerone. Se il primo, infatti, aveva un fine filosofico facendo sì che l’autore neroniano svilupasse le sue teorie da trasmettere ad un solo destinatario (Lucilio), il secondo non aveva un filo logico, ma nasceva da episodi che mano mano capitavano al protagonista. Lo stesso fa Plinio che non raccoglie le sue lettere (che nessuno può obiettare che non siano state realmente spedite) in modo organico, ma in modo oseremo dire casuale, per conservare, come ci dice l’autore stesso, quella varietas che rende piacevole la lettura.

Le lettere sono 247, raccolte in nove libri, a cui se ne aggiunge un decimo che contiene la corrispondenza tra Plinio e l’imperatore Traiano.

Non possiamo trovare nelle lettere dello scrittore comasco la profondità del pensatore stoico, nè l’umanità dell’uomo Cicerone: infatti esse risultano straordinarie per il modo in cui ci fa rivivevere la vita di corte offrendoci squarci della vita mondana dell’alta società imperiale. Uomo dalle molteplici amicizie, Plinio abbonda le lettere di parole elogiative verso ognuno di loro; ma ciò non toglie che talvolta autocelebri anche se stesso: scrive per incensare le opere del suo amico Tacito o per i versi di Marziale; per complimentarsi verso qualche lieto evento o per il raggiumento di qualche carica; commenta in modo positivo l’attività forense di qualcuno.

Non mancano lettere in cui il nostro esprime l’amore per la campagna, raccontando la bellezza di luoghi nei quali egli possedeva meravigliose ville, oppure le eleganti prose in cui mostra lo splendore di luoghi visitati.

Interessante la lettera in cui Plinio, su richiesta di Tacito, che molto probabilmente voleva inserire l’episodio nel suo libro storico, parla della morte dello zio:

PLINIO IL VECCHIO E L'ERUZIONE DEL VULCANO
(6, 10)

Erat Miseni classemque imperio praesens regebat. Nonum Kal. Septembres hora fere septima mater mea indicat ei apparere nubem inusitata et magnitudine et specie. Usus ille sole, mox frigida, gustaverat iacens studebatque; poscit soleas, ascendit locum, ex quo maxime miraculum illud conspici poterat. Nubes (incertum procul intuentibus, ex quo monte, Vesuvium fuisse postea cognitum est), oriebatur, cuius similitudinem et formam non alia magis arbor quam pinus expresserit. Nam longissimo velut trunco elata in altum quibusdam ramis diffundebatur, credo, quia recenti spiritu evecta, dein senescente eo destituta aut etiam pondere suo victa in latitudinem vanescebat, candida interdum, interdum sordida et maculosa, prout terram cineremve sustulerat. Magnum propiusque noscendum, ut eruditissimo viro, visum. Iubet liburnicam aptari; mihi, si venire una vellem, facit copiam; respondi studere me malle, et forte ipse, quod scriberem, dederat. Egrediebatur domo; accipit codicillos Rectinae Casci imminenti periculo exterritae (nam villa eius subiacebat, nec ulla nisi navibus fuga); ut se tanto discrimini eriperet, orabat. Vertit ille consilium et, quod studioso animo incohaverat, obit maximo. Deducit quadriremes, ascendit ipse non Rectinae modo, sed multis (erat enim frequens amoenitas orae) laturus auxilium. Properat illuc, unde alii fugiunt, rectumque cursum, recta gubernacula in periculum tenet adeo solutus metu, ut omnis illius mali motus, omnis figuras, ut deprenderat oculis, dictaret enotaretque. Iam navibus cinis incidebat, quo propius accederent, calidior et densior, iam pumices etiam nigrique et ambusti et fracti igne lapides, iam vadum subitum ruinaque montis litora obstantia. Cunctatus paulum, an retro flecteret, mox gubernatori, ut ita faceret, monenti: «Fortes», inquit, «fortuna iuvat, Ponponianum pete!» Stabiis erat, diremptus sinu medio (nam sensim circumactis curvatisque litoribus mare infunditur); ibi, quamquam nondum periculo appropinquante, conspicuo tamen et, cum cresceret, proximo, sarcinas contulerat in naves certus fugae, si contrarius ventus resedisset. Quo tunc avunculus meus secundissimo invectus; complectitur trepidantem, consolatur, hortatur, utque timorem eius sua securitate leniret, deferri in balineum iubet: lotus accubat, cenat, aut hilaris aut, quod aeque magnum, similis hilari. Interim e Vesuvio monte pluribus locis latissimae flammae altaque incendia relucebant, quorum fulgor et claritas tenebris noctis excitabatur. Ille agrestium trepidatione ignes relictos desertasque villas per solitudinem ardere in remedium formidinis dictitabat. Tum se quieti dedit et quievit verissimo quidem somno; nam meatus animae, qui illi propter amplitudinem corporis gravior et sonantior erat, ab iis, qui limini obversabantur, audiebatur. Sed area, ex qua diaeta adibatur, ita iam cinere mixtisque pumicibus oppleta surrexerat, ut si longior in cubiculo mora, exitus negaretur. Excitatus procedit, seque Pomponiano ceterisque qui pervigilaverant reddit. In commune consultant, intra tecta subsistant an in aperto vagentur. Nam crebis vastisque tremoribus tecta nutabant, et quasi emota sedibus suis nunc huc nunc illuc abire aut referri videbantur. Sub dio rursus quamquam levium exesorumque pumicum casus metuebatur, quod tamen periculorum collatio elegit; et apud illum quidem ratio rationem, apud alios timorem timor vicit. Cervicalia capitibus imposita linteis constringunt; id monimentum adversus incidentia fuit. Iam dies alibi, illic nox omnibus noctibus nigrior densiorque; quam tamen faces multae variaque lumina solvebant. Placuit egredi in litus, et ex proximo adspicere, ecquid iam mare admitteret; quod adhuc vastum et adversum permanebat. Ibi super abiectum linteum recubans semel atque iterum frigidam aquam poposcit hausitque. Deinde flammae flammarumque praenuntius odor sulpuris alios in fugam vertunt, excitant illum. Innitens servolis duobus adsurrexit et statim concidit, ut ego colligo, crassiore caligine spiritu obstructo clausoque stomacho qui illi natura invalidus et angustus et frequenter interaestuans erat. Ubi dies redditus – is ab eo, quem novissime viderat, tertius – corpus, inventum integrum illaesum opertumque, ut fuerat indutus: habitus corporis quiescenti quam defuncto similior. Interim Miseni ego et mater – sed nihil ad historiam, nec tu aliud quam de exitu eius scire voluisti. Finem ergo faciam.

(L. Rusca)

L’ultimo giorno di Pompei, di Karl Pavlovic Brjullov, 1830-1833

Egli (Plinio il Vecchio) era a Miseno e comandava la flotta. Il nono giorno prima delle calende di settembre (24 agosto), verso l’ora settima, mia madre lo avverte che si scorge una nube insolita per vastità e per aspetto. Egli, dopo aver preso un bagno di sole e poi d’acqua fredda, aveva fatto uno spuntino giacendo e stava studiando: chiese le calzature, salì a un luogo dal quale si poteva veder meglio quel fenomeno. Una nube si formava (a coloro che la guardavano così da lontano non appariva bene da quale monte avesse origine, si seppe poi dal Vesuvio), il cui aspetto e la cui forma nessun albero avvrebbe meglio espressi di un pino. Giacché, proptesasio verso l’alto come un altissimo tronco, si allargava poi a guisa di rami; perché, ritengo, sollevata dapprima sul nascere da una corrente d’aria e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella o cedendo al proprio peso, si allargava pigramente, a trattio bianca, a tratti sporca e chiazzata, a cagione del terriccio o della cenere che trasportava. Da persona erudita qual era, gli parve che quel fenomeno dovesse essere osservato meglio e più da vicino. Ordina che si prepari un battello liburnico: mi permette, se lo voglio, di andar con lui; gli rispondo che preferisco rimanere a studiare, anzi per avventura lui stesso mi aveva assegnato un compito. Stava uscendo di casa quando riceve un biglietto da Rettina, moglie di Casco, spaventata dal pericolo che la minacciava (giacché la sua villa era ai piedi del monte e non vi era altro scampo che per nave): supplicava di essere strappata da una così terribile situazione. Lo zio cambiò i propri piani e ciò che aveva intrapreso per amor di scienza, condusse a termine per spirito di dovere. Mette in mare la quadriremi e si imbarca lui stesso per recar aiuto non solo a Rettina, ma a molti altri, giacché per l’amenità del lido la zona era molto abitata. Si affretta là donde gli altri fuggono, va dritto, rivolto il timone verso il luogo del pericolo, così privo di paura, da dettare e descrivere ogni fenomeno di quel terribile flagello, ogni aspetto, come si presenta ai suoi occhi. Già la cenere cadeva sulle navi, tanto più calda e densa quanto più si approssimava; già della pomice e anche dei ciottoli anneriti, cotti e frantumati dal fuoco; poi ecco un inatteso bassofondo e la spiaggia ostruita da massi proiettati dal monte. Esita un momento, se doveva rientrare, ma poi al pilota che lo esorta a far ciò, esclama: «La fortuna aiuta gli audaci , punta verso Pomponiano!». Questi era a Stabia, dall’altra parte del golfo (giacché il mare si addentra seguendo la riva che va via via disegnando una curva). Quivi Pomponiano, benché il pericolo non fosse prossimo, ma alle viste però e col crescere potendo farsi imminente, aveva trasportato le sue cose su alcune navi, deciso a fuggire, se il vento contrario si fosse quietato. Ma questo era allora tutto favorevole a mio zio, che arriva, abbraccia l’amico trepidante, lo rincuora, lo conforta, e per calmare la paura di lui con la propria sicurezza, vuole essere portato al bagno: lavatosi, cena tutto allegro o, ciò che è ancor più, fingendo allegria. Frattanto dal Monte Vesuvio in parecchi punti risplendevano larghissime fiamme e vasti incendi, il cui chiarore la cui luce erano resi più vivi dalle tenebre notturne. Lo zio andava dicendo, per calmare le paure, e cerca case che bruciavano abbandonate e lasciate deserte dalla fuga di contadini. Poi si recò a riposare dormi di un autentico sonno: giacché la sua respirazione, resa più pesante e rumorosa dalla vasta corporatura, fu udita da coloro che passavano accanto alla soglia. Ma il livello del cortile, attraverso il quale si accedeva a quell’appartamento, se era già talmente alzato, perché ricoperto dalla cenere mista alla lapilli virgola che, se egli si fosse più a lungo indugiato nella camera virgola non avrebbe potuto più uscirne. Svegliato, ne esce raggiunge Pomponiano E gli altri che non avevano chiuso occhio. Si consultano fra loro, se debbano rimanere in un luogo coperto o fuggire all’aperto. Continue e prolungate scosse telluriche scuotevano l’abitazione e quasi l’avessero strappato dalle fondamenta sembrava che ora andasse da una parte ora dall’altra, per poi di assestarsi. D’altra parte all’aperto si temeva la pioggia dei lapilli per quanto leggeri e porosi; tuttavia, confrontati i pericoli, egli scelse di uscire all’aperto. Ma se in lui prevalse ragione a ragione, negli altri timore a timore. Messi dei guanciali sulla testa li assicurano con lenzuoli; fu questo il loro riparo contro quella pioggia. Già faceva giorno ovunque, ma colare regnava una notte più scura e fonda di ogni altra, ancorché mitigata da molti fuochi e varie luci. Egli voglio uscire sulla spiaggia e vedere da vicino se fosse possibile mettersi in mare; Ma questo era ancora agitato e impraticabile. Quivi, riposando il sopra un lenzuolo disteso, chiese e richiese dell’acqua fresca e la bevve avidamente punto ma poi le fiamme il puzzo di zolfo che le annunciava mettono in fuga taluni e riscuotono lo zio. Sostenuto da due schiavi si alzò in piedi, ma subito ricadde, perché, io suppongo, l’area ispessita dalla cenere aveva ostruita la respirazione è bloccata la trachea che gli aveva per natura delicata e stretta e frequentemente infiammata punto quando ritorno il giorno (il terzo dopo quello che aveva visto per ultimo) Il suo corpo fu trovato intatto e illeso, coperto dei panni che aveva indosso: l’aspetto più simile a un uomo che dorme, che è un morto. Frattanto a miseno io e la mamma… Pacio non importa alla storia virgola e tu non volevi conoscere altro che racconto della sua morte. Faccio dunque punto.

Pierre Henri de Valenciennes (1813)

Il celeberrimo passo di Plinio il Giovane dedicato al famoso zio, si muove su due livelli:

  • la descrizione con cui mostra l’avvenimento vulcanico attraverso un climax stilistico che permette anche una certa “suspance”, giocando con un pianissino o lontano per concludere con la morte di Plinio il Vecchio;
  • la figura dello zio, che contrasta con la violenza del vulcano, emergendo sia da un punto di vista filosofico (il bagno prima dell’esplosione sismica, ricorda la morte di Seneca), scientifico (la curiositas tipica per chi vuole capire la realtà), umano (la volontà di aiutare l’amico)

Il nostro, inoltre, mostra una grandissima perizia retorica utilizzando figure come quella del chiasmo, dell’allitterazione, dell’antitesi, a dimostrazione di una profonda eleganza stilistica.

Altra lettera fondamentale la leggiamo nel X libro, quella in cui chiede all’imperatore, come comportarsi con i membri della religione cristiana che si stava diffondendo in modo piuttosto esteso:

CHE FARE CON I CRISTIANI?
(10, 96)

Cognitionibus de Christianis interfui numquam: ideo nescio quid et quatenus aut puniri soleat aut quaeri. Nec mediocriter haesitavi, sitne aliquod discrimen aetatum, an quamlibet teneri nihil a robustioribus differant, detur paenitentiae venia, an ei, qui omnino Christianus fuit, desisse non prosit, nomen ipsum, si flagitiis careat, an flagitia cohaerentia nomini puniantur. Interim, <in> iis qui ad me tamquam Christiani deferebantur, hunc sum secutus modum. Interrogavi ipsos an essent Christiani. Confitentes iterum ac tertio interrogavi supplicium minatus; perseverantes duci iussi. Neque enim dubitabam, qualecumque esset quod faterentur, pertinaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri. (…) Affirmabant autem hanc fuisse summam vel culpae suae vel erroris, quod essent soliti stato die ante lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem seque sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta ne latrocinia ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum appellati abnegarent. Quibus peractis morem sibi discedendi fuisse rursusque coeundi ad capiendum cibum, promiscuum tamen et innoxium; quod ipsum facere desisse post edictum meum, quo secundum mandata tua hetaerias esse vetueram. Quo magis necessarium credidi ex duabus ancillis, quae ministrae dicebantur, quid esset veri, et per tormenta quaerere. Nihil aliud inveni quam superstitionem pravam et immodicam. Ideo dilata cognitione ad consulendum te decucurri.

Jean-Léon Gérome: Ultime preghiere dei martiri cristiani (1883)

Non ho mai preso parte a nessuna istruttoria sul conto dei cristiani: pertanto non so quali siano abitualmente gli oggetti e i limiti sia della punizione che dell’inchiesta. Sono stato fortemente in dubbio se si debba considerare qualche differenza di età, oppure se i bambini nei più teneri anni vadano trattati alla stessa stregua degli adulti che hanno raggiunto il fiore della forza; se sia d’uopo mostrarsi indulgenti davanti al pentimento, oppure se a chi sia stato effettivamente cristiano non serva a nulla l’aver rinunciato; se si debba punire il nome in se stesso anche quando sia immune da turpitudini, oppure le turpitudini connesse con il nome. Provvisoriamente, a carico di coloro che mi venivano denunciati come cristiani, ho seguito questa procedura. Li interrogavo direttamente se fossero cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda volta e una terza volta, minacciando loro la pena capitale: se perseveravano, ordinavano che fossero messi a morte. (…) Attestavano poi che tutta la loro colpa, o tutto il loro errore, consisteva unicamente in queste pratiche: riunirsi abitualmente in un giorno stabilito prima del sorgere del sole, recitare tra di loro a due cori un’invocazione a Cristo considerandolo dio e obbligarsi con giuramento, non a perpretare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né aggressioni a scopo di rapina, né adulteri, a non eludere i propri impegni, a non rifiutare la restituzione di un deposito, quando ne fossero richiesti. Dopo aver terminato questi atti di culto, avevano la consuetudine di ritirarsi e poi di riunirsi di nuovo per prendere un cibo, che era, ad ogni modo, quello consueto e innocente; avevano però sospeso anche quest’uso dopo il mio editto con il quale, a norma delle tue disposizioni, avevo vietato l’esistenza di sodalizi. Ciò tanto più mi convinse della necessità di indagare che cosa ci fosse effettivamente di vero, attraverso a due schiave, che venivano chiamate diaconesse, ricorrendo anche alla tortura. Non ho trovato nulla, all’infuori di una superstizione balorda e squilibrata. Pertanto ho aggiornato l’istruttoria e mi sono affrettato a chiedere il tuo parere.

Mentre Plinio è in Bitinia, sia per situazioni pratiche che per sciogliere qualche dubbio, si rivolge allo stesso Traiano, mostrando il rapporto di fiducia che ormai intercorreva tra il funzionario e l’imperatore.

Questa lettera ha lasciato più di un dubbio: “In passato l’epistola di Plinio è stata giudicata un falso, anche se elaborata non molto tempo dopo la morte dell’autore, visto che Tertulliano nell’Apologeticum dimostra di conoscere tanto la lettera pliniana quanto la risposta dell’imperatore; e l’opera tertullianea è datata 197. Decaduta l’ipotesi del testo apocrifo e riconosciuta l’autenticità della lettera, alcuni critici hanno tuttavia affermato che l’epistola era stata pesantemente rimaneggiata  e interpolata dall’intervento del martire Apollonio, vissuto nel II secolo. Altri studiosi, infine, hanno sostenuto che Plinio avrebbe costruito la lettera non a seguito di un’indagine da lui effettivamente condotta nella sua provincia, bensì alla stregua di un passo liviano in cui lo storico aveva descritto la repressione dei Baccanali” (Conte – Pianezzola)

 

 

 

 

 

 

PLINIO IL VECCHIO

Biografia

Sulla vita di Gaio Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio ci informa, attraverso il suo Epistolario, il nipote, figlio di una sorella, Cecilio Secondo, detto appunto, per distringuerlo dal famoso zio, Plinio il Giovane.
Nasce a Secundum Comum, l’attale Como, intorno al 27 d.C., da famiglia di origine equestre. Come gran parte dei giovani si traferì a Roma dove compì studi retorici. In seguito, sotto l’imperatore Claudio, iniziò la carriera militare che lo portò a partecipare in modo non continuativo a due campagne militari in Germania, tra il 45 e il 58. Tornato a Roma, si eclissò durante Nerone (di cui molto probabilmente non condivideva la politica), per poi riaffacciarsi sotto Vespasiano, che lo impiegò in cariche amministrative e militari: fu procuratore nella Gallia Narborense, poi in Africa ed infine nella Gallia Belgica.

Nel 79 divenne un membro importante dei consiglieri del princeps e fu nominato prefetto della flotta imperiale di Capo Miseno in Campania. Era in servizio quando avvenne la devastante eruzione del Vesuvio, che avrebbe causato la distruzione di Ercolano, Pompei e Stabia. Plinio si recò sul posto sia per portare aiuto alle popolazioni colpite sia per studiare “da vicino” il fenomeno, ma, investito da esalazioni tossiche dovute all’eruzione o per un probabile collasso, morì il 25 agosto dello stesso anno.
La sua morte ci viene raccontata in modo mirabile e dettagliato in una lettera che suo nipote indirizza al grande storico Tacito.

Il grande classico. Le confessioni di Plinio il Giovane - la Repubblica

Thomas Burke: Plinio il Vecchio rimprovera il giovane nipote perchè non pone attenzione all’eruzione del Vesuvio

Personalità e opere perdute

Da Plinio il Giovane sappiamo che fu

Sed erat acris ingenium, incredibile studium, summa vigilantia. Lucubrare a Volcanalibus incipiebat, non auspicandi causa, sed studiendi, statim a nocte multa; hieme vero hora septima, vel cum tardissime, octava, saepe sexta. Erat sane somni paratissimi, nonnumquam etiam inter studia instantis et deserentis. Ante lucem ibat ad Vespasianum imperatorem: nam ille quoque noctibus utebatur: inde ad delegatum sibi officium. Reversum domum, quod reliquum erat temporis, studiis reddebat.

Ma egli possedeva un ingegno penetrante, una passione incredibile, un’insuperabile capacità di resistere al sonno. Incominciava le sue veglie di lavoro durante le feste di Vulcano e ciò non per trarre degli auspici favorevoli, ma per procurarsi del tempo favorevole allo studio: allora iniziava quando ormai era notte fonda, d’inverno invece vi si accingeva all’una o, quando faceva più tardi, alle due, spesso a mezzogiorno: va ad ogni modo ricordato che gli era assai pronto ad addormentarsi; talora anche durante le sue stesse indagini erudite si appisolava e si risvegliava. Prima di giorno andava dall’imperatore Vespasiano (poiché anch’egli sfruttava le notti per i suoi lavori) poi all’ufficio che gli era stato affidato. Tornato a casa, il tempo che gli rimaneva lo dedicava allo studio.  (trad. di F. Trisoglio)

Questa sua indefessa attitudine verso lo studio gli permisero di comporre opere storiche, come Bella Germaniae (Sulle guerre germaniche), A fine Aufidi Bassi una storia che trattava il priodo tra il 50 ed il 70 riprendendo l’opera precedente dello storico Aufidio Basso, De iaculatione equestri (Sul modo di lanciare il giavellotto dal cavallo) e il De vita Pomponi Secundi (Sulla vita di Pomponio Secondo, un poeta tragico). Tutte queste opere, più altre di carattere puramente retorico-letterario, sono andate perdute. L’unica opera pervenuta è la Naturalis historia.

Edizione del 1573

Naturalis historia

Potremo definire la Naturalis historia come una vastissima enciclopedia in 37 libri. Tale opera è così strutturata:

Libro I: indice e fonti;
Libro II: Cosmologia e geografia fisica;
Libri III – VI: Geografia;
Libro VII: Antropologia
Libri VIII – XI: Zoologia
Libri XII – XIX: Botanica
Libri XX – XXXII: Medicina;
Libri XXXIII – XXXVII: Matallurgia e mineralogia (con excursus sulla storia dell’arte).

Appare evidente dagli argomenti appartenenti ai vari libri che l’opera di Plinio tende ad abbracciare l’intero scibile. Se infatti esistevano opere di trattatistica (De architectura di Vitruvio o De re rustica di Columella, per citare i più famosi), nessuno si era posto il fine di raccogliere in modo integrale tutto ciò che presentava la natura o che il mondo aveva elaborato, neppure nella letteratura greca.

Si trattava per l’autore comasco d’inventariare la somma delle conoscenze dell’uomo e forse ciò ne indica la finalità. Il fatto stesso di porre all’inizio di essa l’indice e le fonti delle infomazioni fa sì che essa possa essere utilizzata come un’enciclopedia da cui il lettore romano colto poteva scegliere di volta in volta l’argomento più consono ai suoi interessi o ai suoi bisogni del momento.

Il metodo di lavoro ce lo indica lui stesso in un passo, dal carattere proemiale, appartenente ai libri XXVIII – XXXII riguardante i rimedi medici tratti dagli animali:

L’AUTORITA’ DELLE FONTI
(28, 1-3)

Dictae erant naturae omnium rerum inter caelum ac terram nascentium, restabantque quae ex ipsa tellure fodiuntur, si non herbarum ac fruticum tractata remedia auferrent traversos ex ipsis animalibus, quae sanantur, reperta maiore medicina. Quid ergo? Dixerimus herbas et florum imagines ac pleraque inventu rara ac difficilia, iidem tacebimus, quid in ipso homine prosit homini, ceteraque genera remediorum inter nos viventia, cum praesertim nisi carenti doloribus morbisque vita ipsa poena fiat? Minime vero, omnemque insumemus operam, licet fastidii periculum urgeat, quando ita decretum est, minorem gratiae quam utilitatium vitae respectum habere. Quin immo externa quoque et barbaros etiam ritus indagabimus. Fides tantum auctores appellet, quamquam et ipsi consensu prope iudicii ista eligere laboravimus potiusque curae rerum quam copiae institimus. Illud admonuisse perquam necessarium est, dictas iam a nobis naturas animalium et quae cuiusque essent inventa – neque enim minus profuere medicinas reperiendo quam prosunt praebendo – nunc quae in ipsis auxilientur indicari, neque illic in totum omissa; itaque haec esse quidem alia, illis tamen conexa.

Avevamo finito di illustrare le proprietà di tutte le forme di vita comprese tra il cielo e la terra e restava da parlare dei prodotti che si estraggono dal suolo; ma il fatto di aver trattato i rimedi ricavati dalle erbe e dalle piante ci distoglie dal programma e ci indirizza verso una medicina più efficace, quella offerta dalle creature del regno animale che ne sono anche l’oggetto. E allora? Avremmo descritto le piante, l’aspetto dei fiori e tanti vegetali rari e difficili da trovarsi, e poi dovremmo tacere delle risorse presenti nell’uomo stesso da lui utilizzabili, e degli altri tipi di rimedio che vivono in mezzo a noi, quando sappiamo che solo per chi è esente da dolore e malattie la vita in sé non è un tormento? No di certo. Anzi vi metteremo tutto il nostro impegno, anche a rischio di diventare noiosi; abbiamo infatti deciso di preoccuparci più dell’utilità pratica che della piacevolezza. Indagheremo perfino le usanze straniere e le pratiche dei barbari. Ci affideremo soltanto alle autorità delle fonti, sebbene anche personalmente siamo giunti ad una scelta del materiale in base all’accordo delle testimonianze, privilegiando l’esattezza rispetto all’abbondanza. Ma è necessaria una premessa: abbiamo già parlato delle proprietà degli animali e delle scoperte dovute a ciascuno di essi – infatti furono utili come scopritori di terapie e continuano ad esserlo col fornircele essi stessi -; ora dovremmo descrivere i rimedi che racchiudono in sé, materia parzialmente trattata nei libri precedenti. Così la presente esposizione è diversa, ma al tempo stesso collegata con quella di prima. (trad. di U. Capiani e I. Garofalo)

Il passo in primo luogo ci conferma come Plinio, sapendo che la sua opera è di consultazione, inserisca il discorso sui prodotti tratti dalla terra tra gli argomenti che lo hanno preceduto e che lo seguiranno. Inoltre ricorda che questa materia era sta già sommariamente affrontata (“abbiamo già parlato delle proprietà degli animali e delle scoperte dovute a ciascuno di essi”), quindi ci dice in che modo egli è andato a “ricercare” le informazioni per affrontarla: autorità delle fonti e scelta del materiale sulla base dell’autorevolezza e precisione delle testimonianze. Per meglio dire “proprio perché l’intenzione è l’utilità pratica”, Plinio si preoccupa di segnalare che “quanto scrive è tratto dagli autori più degni fede”: d’altra parte non dovremo meravigliarci. Come poteva un autore antico procedere a verifiche sperimentali o giungere in luoghi – i più disparati – dove alcuni fenomeni avvenivano?

Tale metodologia lo porta a riportare tutto ciò che si dice su un determinato argomento, come accadeva nella paradossografia (genere letterario nato in età ellenistica in cui si raccoglievano i paradossi o le mirabilia) e a stare un po’ lontano dal rigore scientifico aristotelico e finanche dal Seneca delle Naturales quaestiones.

LUPI E LUPI MANNARI
(VIII, 80-84)

Sed in Italia quoque creditur luporum visus esse noxius vocemque homini, quem priores contemplentur, adimere ad praesens. Inertes hos parvosque Africa et Aegyptus gignunt, asperos trucesque frigidior plaga. Homines in lupos verti rursusque restitui sibi falsum esse confidenter existimare debemus aut credere omnia quae fabulosa tot saeculis conperimus. Unde tamen ista vulgo infixa sit fama in tantum, ut in maledictis versipelles habeat, indicabitur. Evanthes, inter auctores Graeciae non spretus, scribit Arcadas tradere ex gente Anthi cuiusdam sorte familiae lectum ad stagnum quoddam regionis eius duci vestituque in quercu suspenso tranare atque abire in deserta transfigurarique in lupum et cum ceteris eiusdem generis congregari per annos VIIII. Quo in tempore si homine se abstinuerit, reverti ad idem stagnum et, cum tranaverit, effigiem recipere, ad pristinum habitum addito novem annorum senio. Id quoque adicit, eandem recipere vestem. Mirum est quo procedat Graeca credulitas! Nullum tam inpudens mendacium est, ut teste careat. Item Scopas, qui Olympionicas scripsit, narrat Demaenetum Parrhasium in sacrificio, quod Arcades Iovi Lycaeo humana etiamtum hostia faciebant, immolati pueri exta degustasse et in lupum se convertisse, eundem X anno restitutum athleticae se exercuisse in pugilatu victoremque Olympia reversum. Quin et caudae huius animalis creditur vulgo inesse amatorium virus exiguo in villo eumque, cum capiatur, abici nec idem pollere nisi viventi dereptum. Dies, quibus coeat, toto anno non amplius duodecim. Eundem in fame vesci terra inter auguria; ad dexteram commeantium praeciso itinere si pleno id ore fecerit, nullum ominum praestantius. Sunt in eo genere qui cervari vocantur, qualem e Gallia in Pompei Magni harena spectatum diximus. Huic quamvis in fame mandenti, si respexerit, oblivionem cibi subrepere aiunt digressumque quaerere aliud.Un lupo mannaro a...Taranto - MediterraneoAntico

Anche in Italia si crede che lo sguardo dei lupi sia dannoso e che tolgano l’uso della voce ad un uomo se lo guardano per primi. Africa ed Egitto li producono senza vigore e piccoli, mentre i paesi più freddi generano esemplari forti e feroci. Dobbiamo ritenere senz’altro falso quello che gli uomini possano trasformarsi in lupi e poi tornare uomini, oppure dobbiamo credere a tutte quelle favole che da tanti secoli sappiamo essere tali. Nondimeno indicherò l’origine di questa diceria, così radicata fra il popolo che l’espressione «lupo mannaro» si usa come insulto. Secondo Evante, che pure non è disprezzabile fra gli autori greci, in Arcadia si racconta che un membro della famiglia di un certo Anto viene tirato a sorte e condotto presso uno stagno di quella regione. Appesa la veste a una quercia, egli passa a nuoto lo specchio d’acqua e se ne va in luoghi deserti e si trasforma in lupo, e rimane per nove anni in un branco insieme agli altri di quella specie. Se durante questo periodo si è tenuto lontano dall’uomo, ritorna poi a quello stesso stagno, e riattraversatelo, riprende il suo aspetto umano, e alla sua antica immagine si aggiunge un invecchiamento di nove anni. Lo scrittore aggiunge anche questo particolare, che riprende la stessa veste. E straordinario fino a che punto si spinga la credulità dei Greci. Nessuna bugia è tanto spudorata da essere priva dell’autorità di un testimone. Così Scopas, che scrisse Gli olimpionici, narra che Demeneto di Parrasia, durante un sacrificio che gli Arcadi facevano a Giove Liceo, ancora a quel tempo con vittime umane, mangiò le viscere di un ragazzo che era stato immolato e si trasformò in lupo; egli stesso, riacquistata forma umana dopo nove anni, si esercitò nel pugilato e ritornò vincitore da Olimpia. Inoltre il popolo crede che nella coda di questo animale ci sia un talismano amoroso in un piccolo ciuffo di peli e che il lupo, quando viene catturato, lo getti via: il talismano non ha alcuna proprietà se non è strappato ad un’esemplare vivo. Si crede che i giorni nei quali il lupo può accoppiarsi nell’arco di un intero anno non siano più di dodici e che quando ha fame mangi la terra; fra i presagi, se un lupo taglia la strada a destra di chi cammina e ha la bocca piena, nessun auspicio è più favorevole. Fanno parte di questa specie di animali chiamati lupi cervieri, come quello che abbiamo detto fu portato dalla Gallia e si vide nell’arena durante i giochi di Pompeo Magno. Dicono che questo, mentre mangia, per quanto sia affamato, se guarda dietro di sé, si dimentica di ciò che sta mangiando e se ne va a cercare altro cibo. (trad. E. Giannerelli)

E’ questo un passo tratto dalla sezione riguardante la zoologia. Possiamo notare come qui l’autore citi sia dati reali che le cosiddette mirabilia, cioè aneddoti curiosi e superstizioni. Questo testimonia come di un argomento egli tenda a dirci tutto, ma nello stesso tempo come polemizzi sull’attendibilità delle fonti greche sulla credulità popolare.
Se mai dovessimo trovare nell’opera di Plinio un sottofondo filosofico, potremmo indicarlo nello stoicismo, cioè in quella visione del logos che guida l’intero mondo, che l’uomo deve conoscere per far sì che egli possa rispecchiarne in sé la sua virtù; ma sarebbe “limitante”. Più che un solo riferimento in lui dobbiamo parlare di un vera e propria affabulazione di tutto il sapere, tanto da fargli dire che non esisteva nessun libro tanto brutto da non avere in sé qualche utilità.
In questo abbracciare il mondo e riflettere su di esso, Plinio, pur a volte così lontano dalla nostra sensibilità scientifica, arriva a delle riflessioni che suscitano in noi meraviglia per la loro modernità:

Plinio e Leopardi

LA NATURA MATRIGNA
(7, 1 – 3)

Mundus et in eo terrae, gentes, maria, flumina insignia, insulae, urbes ad hunc modum se habent, animantium in eodem natura nullius prope partis contemplatione minore, si quidem omnia exequi humanus animus queat. Principium iure tribuetur homini, cuius causa videtur cuncta alia genuisse natura, magna, saeva mercede contra tanta sua munera, ut non sit satis aestimare, parens melior homini an tristior noverca fuit. Ante omnia unum animantium cunctorum alienis velat opibus. Ceteris varie tegimenta tribuit, testas, cortices, coria, spinas, villos, saetas, pilos, plumam, pinnas, squamas, vellera; truncos etiam arboresque cortice, interdum gemino, a frigoribus et calore tutata est: homine tantum nudum et in nuda humo natali die abicit ad vagitus statim et ploratum, nullumque tot animalium aliud ad lacrimas, et has protinus vitae principio; at Hercule risus precox ille et celerrimus ante XL diem nulli datur. Ab hoc lucis rudimento quae ne feras quidem inter nos genitas vincula excipiunt et omnium membrorum nexus; itaque feliciter natus iacet manibus pedibusque devinctis, flens animal ceteris imperaturum, et a suppliciis vitam auspicatur unam tantum ob culpam, qua natum est. Heu dementia ab his initiis existimantium ad superiam se genitos!

Così, come l’ho descritta, è la situazione del mondo, con le sue terre, le popolazioni, i mari, i fiumi importanti, le isole, le città. Ma degna di non minore attenzione, in quasi tutti i suoi aspetti, sarebbe la natura degli esseri viventi che lo popolano, sol che l’intelligenza umana fosse in grado di indagarne ogni sua parte. Cominceremo a buon diritto dall’uomo, in funzione del quale sembra che la natura abbia generato tutto il resto. Ma essa ha preteso, in cambio di doni così grandi, un prezzo alto e crudele, fino al punto che non è possibile dire con certezza se essa sia stata per l’uomo più una buona madre o una crudele matrigna. In primo luogo lo costringe, unico fra tutti gli esseri viventi, a procacciarsi all’esterno i suoi vestiti. Agli altri, in vario modo, la natura fornisce qualcosa che li copra: gusci, cortecce, pelli, spine, peli, setole, piume, penne, squame, velli; anche i tronchi degli alberi li protegge dal freddo e dal caldo, con uno e talora due strati di corteccia. Soltanto l’uomo essa getta nudo sulla nuda terra, il giorno della sua nascita, abbandonandolo fin dall’inizio ai vagiti e al pianto e, come nessun altro fra tanti esseri viventi, alle lacrime, subito, dal primo istante della propria vita: invece il riso, per Ercole, anche quando è precoce, il più rapido possibile, non è concesso ad alcuno prima del quarantesimo giorno. Subito dopo il suo ingresso alla luce, l’uomo è stretto da ceppi e legami in tutte le membra, quali non si impongono neppure agli animali domestici. Così lui, che ha aperto gli occhi alla felicità, giace a terra con mani e piedi legati, piangente – lui, destinato a regnare su tutte le altre creature – e inaugura la sua vita fra i tormenti, colpevole solo di esser nato. Che stoltezza quella di chi, dopo inizi siffatti, si ritiene destinato ad imprese superbe!

Questo passo appartiene, e funge da introduzione, alle sezione dedicata all’antropologia. Deve essere stato studiato a fondo da Leopardi che lo riecheggia in Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e ne La ginestra. Ma se tale tematica nel pensatore recanatese era situata in una speculazione ferrea e rigorosa, in Plinio la visione pessimista sulla natura dell’uomo si alterna a temi, diciamo così, ottimisti, come quelli in cui stoicamente si lasciava andare all’entusiasmo di fronte alle meraviglie della natura. “Si può credere che una certa alternanza – nell’opera pliniana – di toni ottimistici e altri pessimistici possa dipendere dalla pluralità delle fonti consultate, che lo inflenzarono diversamentre. Né si può escludere che tali mutamenti di prospettiva derivino dall’oggettiva difficoltà del naturalista di trovare una spiegazione per tutto e in primis di quell’angoscia, di quel dolore, di quella precarietà della vita umana nei quali, durante la sua ricerca, si era imbattuto. (Mauro Reali).

D’estrema modernità è poi il passo riguardante la distruzione della natura:

ACCANIMENTO DELL’UOMO CONTRO LA NATURA
(XXXVI, 1-3)

Lapidum natura restat, hoc est praecipua morum insania, etiam ut gemmae cum sucinis atque crystallinis murrinisque sileantur. Omnia namque, quae usque ad hoc volumen tractavimus, hominum genita causa videri possunt: montes natura sibi fecerat ut quasdam compages telluris visceribus densandis, simul ad fluminum impetus domandos fluctusque frangendos ac minime quietas partes coercendas durissima sui materia, caedimus hos trahimusque nulla alia quam deliciarum causa, quos transcendisse quoque mirum fuit. In portento prope maiores habuere Alpis ab Hannibale exsuperatas et postea a Cimbris: nunc ipsae caeduntur in mille genera marmorum. Promunturia aperiuntur mari, et rerum natura agitur in planum; evehimus ea, quae separandis gentibus pro terminis constituta erant, navesque marmorum causa fiunt, ac per fluctus, saevissimam rerum naturae partem, huc illuc portantur iuga, maiore etiamnum venia quam cum ad frigidos potus vas petitur in nubila caeloque proximae rupes cavantur, ut bibatur glacie. Secum quisque cogitet, et quae pretia horum audiat, quas vehi trahique moles videat, et quam sine iis multorum sit beatior vita. Ista facere, immo verius pati mortales quos ob usus quasve ad voluptates alias nisi ut inter maculas lapidum iaceant, ceu vero non tenebris noctium, dimidia parte vitae cuiusque, gaudia haec auferentibus!cartografia romana

Carta romana

Resta da considerare la natura delle pietre, nelle quali la follia dei costumi umani si esplica più che altrove, anche a tacere delle gemme, dei gioielli d’ambra e dei vasi di cristallo e di murra. In effetti tutti gli oggetti di cui abbiamo trattato fino a questo libro può sembrare che siano stati prodotti per l’utilità degli uomini: ma le montagne la natura le aveva fatte per sé come una sorta di scheletro che doveva consolidare le viscere della terra e nel contempo frenare l’impeto dei fiumi e frangere i frutti marini, nonchè stabilizzare gli elementi più turbolenti con l’aiuto della loro solidissima materia. Noi invece tagliamo a pezzi e trasciniamo via, senza nessun altro scopo che i nostri piaceri, montagne che un tempo fu oggetto di meraviglia anche solo valicare. I nostri avi considerarono quasi un prodigio che le Alpi fossero state attraversate da Annibale, e più tardi dai Cimbri – ora questi stessi monti vengono fatti a pezzi per ricavarne marmi delle specie più varie. I promontori vengono spaccati per lasciare passare il mare, e la natura è ridotta ad un piano livellato. Svelliamo ciò che era stato posto a far da confine fra popoli diversi, si fabbricano navi per caricarvi i marmi, e le vette montane sono portate a destra e a sinistra sui flutti, l’elemento naturale più selvaggio – la cosa rimane comunque più perdonabile di quando, per avere bevande fresche, se ne va a cercare il vaso fra le nubi e, per averle ghiacciate, si scavano le rocce più vicine al cielo. Tutti dovrebbero riflettere su queste cose, rendersi conto del prezzo che hanno, della grandezza dei massi che si spostano e si portano via, del fatto che senza di essi la vita di molti sarebbe tanto più felice. E questo lavoro, o meglio queste sofferenze, per quale utilità o per quale piacere gli uomini se li sobbarcano, se non pesare su pavimenti di pietre variopinte? – come se questo piacere non lo togliesse il buio della notte, che occupa la metà della vita di ognuno. (trad. A. Corso)

Certo non possiamo attribuire a Plinio una coscienza ecologica: eppure il sapere che già nel I sec. d.C. tali argomenti venivano rilevati da un naturalista, ci fa pensare al lungo sfruttamento dell’uomo su ciò che la natura ci offre. Qui lo sdegno dell’autore è nel non pensare a quali conseguenze porterà lo sfruttamento selvaggio dell’ambiente, ma soprattutto a come tale sfruttamento viene finalizzato per un ottenere dei benefici irrisori, che certo non portano alla felicità dell’uomo.

PLINIO. Storia naturale. 1982-88 - Foto 1 di 3

La Naturalis historia curata da Italo Calvino

Ci piace concludere con un grande autore italiano che molto ha amato Plinio il Vecchio, Italo Calvino, di cui prendiamo un estratto tratto da Perché leggere i classici, 1995:

Quando parliamo di Plinio non sappiamo mai fino a che punto possiamo attribuire a lui le idee che esprime; suo scrupolo è infatti di metterci di suo il meno possibile, e tenersi a quanto tramandano le fonti; e ciò conformemente a un’idea impersonale del sapere, che esclude l’originalità individuale. Per cercare di comprendere qual è veramente il suo senso della natura, quanto posto ha in esso l’arcana maestà dei principi e quanto la materialità degli elementi, dobbiamo tenerci a ciò che è certamente suo, cioè alla sostanza espressiva della sua prosa. Si vedano ad esempio le pagine sulla Luna, dove l’accento di commossa gratitudine per questo «astro ultimo, il più familiare a quanti vivono sulla terra, rimedio alle tenebre» (II 41: novissimum sidus, terris familiarissimum et in tenebrarum remedium…) e per tutto quel che esso ci insegna col moto delle sue fasi e delle sue eclissi, si unisce alla funzionalità agile delle frasi a rendere questo meccanismo con cristallina nettezza. È nelle pagine astronomiche del libro II che Plinio dimostra di poter essere qualcosa di più del compilatore dal gusto immaginoso che si dice di solito, e si rivela uno scrittore che possiede quella che sarà la principale dote della grande prosa scientifica: rendere con nitida evidenza il ragionamento più complesso traendone un senso d’armonia e di bellezza. Questo, senza mai inclinare verso la speculazione astratta. Plinio si tiene sempre ai fatti (a quelli che lui considera fatti o che qualcuno ha considerato tali): non accetta l’infinità dei mondi perché la natura di questo mondo è già abbastanza difficile da conoscere e l’infinità non semplificherebbe il problema (II 4); non crede al suono delle sfere celesti, né come fragore al di là dell’udibile né come indicibile armonia, perché «per noi, che stiamo al suo interno, il mondo scivola giorno e notte in silenzio» (II 6).

PIER VITTORIO TONDELLI

Tondelli è uno scrittore | GQ Italia

Pier Vittorio Tondelli nasce a Correggio, in provincia di Reggio Emilia, nel 1955. Qui passa i primi anni della sua vita, frequentando gli istituti scolastici e raggiungendo la maturità presso il Liceo Classico “Rinaldo Corso”. E’ in questo periodo che partecipa attivamente alle attività dell’oratorio, facendo parte dell’associazionismo cattolico e scrivendo, presso piccole riviste ciclostilate, brevi articoli con lo pseudonimo di Vicky. Ed è ancora nella cittadina emiliana, pur in piena adolescenza, che mostra la sua vocazione “artistica”, scrivendo e mettendo scena piccoli lavori teatrali, tra i quali ricordiamo una sua rappresentazione tratta dal romanzo di Saint-Exupéry.

Nell’anno accademico 1974/1975 si sposta a Bologna, dove s’iscrive al DAMS (acronimo per Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo). Tale corso universitario, il primo in Italia, nasce nel 1971 e costituirà per la città emiliana un coacervo di sperimentazioni artistiche assolutamente innovative dal punto di vista culturale: tra i primi docenti il semiologo e scrittore Umberto Eco, il regista teatrale Luigi Squarzina, il narratore Gianni Celati, il critico letterario Luciano Anceschi. Grazie ad esso Bologna diventerà il centro di raccolta delle più svariate esperienze creative e di diversi apporti di giovani intellettuali provenienti da tutta Italia, soprattutto dalle regioni del Sud.I festeggiamenti per i 50 anni del DAMS | Zero

Un’assemblea al DAMS (in primo piano Umberto Eco e Luigi Squarzina)

Ma gli anni ’70 sono anche anni in cui il dibattito, pur feroce, esploso nella rivolta studentesca, sfocerà negli “anni di piombo” con l’eversione di frange extraparlamentari sia di destra che di sinistra e che troveranno nel rapimento ed uccisione di Aldo Moro (parlamentare della Democrazia Cristiana) e nell’attentato alla Stazione di Bologna i punti estremi di quella strategia della tensione e della lotta armata che caratterizzeranno quel decennio.
Insomma, per quegli anni «teniamo buona la qualifica di “anni di piombo”, che vale se non altro a conservare memoria di quell’inaudito sbocco di sangue. Anche se, per equità, sarebbero Piombo e Tritolo (prima il tritolo, in ordine di apparizione) i materiali simbolici del periodo. Ma l’applicazione della pena di morte da parte di bande di superbi (“superbi” è l’aggettivo, secondo me di mirabile precisione, adoperato dal professor Enrico Fenzi per definire il fondamentale vizio umano del terrorismo rosso, nel quale aveva militato) non racconta dei Settanta, che l’aspetto più macroscopico e più mediatico. Quello che produceva i titoli cubitali, magari offuscando il resto e quasi tutto il resto.
(…)
La straordinaria energia artistica di quel periodo trasportò dentro la cultura di massa prodotti fino allora di fronda o di cantina, come la canzone d’autore. Non solo la letteratura, il teatro, il cinema, la grafica, il fumetto, i festival di poesia: fu la socialità nel suo complesso a vivere una stagione febbrile e creatrice nella quale sperimentare a tutti i costi – anche nei costumi sessuali – fu certamente anche un vezzo e una moda; e generò non pochi fenomeni di vero e proprio kitsch “di sinistra”; però dava voce e corpo a un’irrequietezza culturale e politica che si respirava a pieni polmoni, ovunque fino a stordirsi. Il contagio era ingovernabile, trascinava “fuori casa”, sconsigliava la pigrizia, quasi obbligava a confrontarsi con abitudini, scenari, costumi inediti. Tra i quali il consumo di droghe prese la mano a molti: tra le stragi del decennio quello dell’eroina è ricordata poco e male ma lo contraddistinse, nel male e nel dolore, tanto quanto la violenza politica» (Michele Serra)

I maestri del fumetto: Andrea Pazienza | Pixartprinting

Andrea Pazienza

E’ questo l’humus culturale che respirò Pier Vittorio Tondelli nella Bologna degli anni Settanta, la voglia di sperimentare che coinvolse, appunto, la musica, con gli Skiantos di Freak Antoni, il fumetto con i disegni e le storie di Andrea Pazienza e con i racconti raccolti nella sua opera prima Altri libertini. 

Altri libertini esce per i tipi Feltrinelli nel 1980 con la definizione di romanzo. Infatti nonostante fosse composto da sei racconti, lo stesso Tondelli li inquadra come sei episodi di una stessa vicenda, in cui si racconta (con richiami interni) la vita di diversi giovani che, in un periodo completamente “post”, post moderno, (nato con il Nome della rosa di Eco, pubblicato nello stesso anno), post anni di piombo, post ideologie sembrano cercare una nuova identità nella nullificazione di se stessi attraverso l’eroina, il sesso e l’idea utopica di un’altrove.

Altri libertini | Pier Vittorio Tondelli usato Narrativa Italiana

Edizione originale di Altri libertini

NELLA SOFFITTA DELL’ANNACARLA

La notte la facciamo poi dall’Annacarla, nella sua soffitta di Piazza Bonifazio Asioli dove in questi anni ci si e sempre ritrovati a tirar mattino tanto da farla diventare un’istituzione del giro nostro, un po’ come lo Sporting. E in quelle stanze piene di spot arancioni e paralumi violacei è successo un po’ di tutto e non c’è nessun fricchettino che sia passato da queste parti che non abbia trovato ospitalita tra gli Oscar Mondadori sparsi qua e la e tutt’intera la collezione dei Classici dell’Arte Rizzoli impilata come pronta alla rivendita tra la collana grigiobianca di Psicologia e Psicoanalisi di Feltrinelli, gli Strumenti Critici Einaudiani e quelli di Marsilio e di Savelli un po’ bistrattati in seconda fila accanto alle Edizioni Mediterranee e alia Biblioteca Blu e ai Centopagine e ai rari Squilibri, troppo pericolosamente accanto agli Adelphi e ai Guanda civettosamente sparsi accanto ai beveraggi; e non c’è stato nessun precario capitato quaggiù a settembre a vendemmiare che non si sia stonato di tutti quegli incensi Made in India sempre accesi e sparsi, dai secchissimi bastoncini Musk di Lord Shiva agli aromi primaverili dei Bouquet dei Three Birds e a quelli Agarbatti cioé Jasmine, Patchouly, Rose, Amber, Violet, Chameli, Lotus, Mogra e quegli altri cofanetti sparsi del Panda Brand Incense ancora Ambergris e Jasmine, eppoi Sandal Wood e Cypre vicini quasi a confondersi coi sottilissimi Meigui Xiang, Tan Xiang, Tisian Tsang altri bastoncini fragili e sottili e puzzolenti anche dalle loro scatole cellophanate come quelli impastati al talco, i tibetani Wing Tun Fook pestilenziali davvero, insomma non c’è stato nessuno che una volta uscito da quelle stanze coi bracieri accesi senza soluzione di continuità non abbia stramaledetto quegli odori, così come non c’è stato nessun intellettuale della nostra provincia che qui non sia venuto a rovistare fra le centinaia di dischi e la selva dei posters e manifesti e gigantografie accatastate e usate come seggiole, oppure appesi alle pareti assieme alle sete e ai tappetini di cammello, come la foto di Carlos e Smith ancora riconoscibili all’Azteca di Città del Messico col pugno alzato e guantato di nero sul podio della premiazione, un gagliardetto delI’UCLA accanto a Mark Frechette e Daria Halprin spersi nel boro di Zabriskie Point e appena distinguibili sotto altri manifesti i capelli zazzeruti di Pierre Clementi nei Cannibali di Liliana Cavani, il viso spigoloso di Murray Head a confronto col pacato Peter Finch in Sunday, Bloody Sunday e appena la scritta Al Pacino in Panico a Needle Park e un guantone di Fat City e la città frontiera di The Last Picture Show, il ciuffo di Yves Beneyton nei Pugni in Tasca, quello di Giulio Brogi in La Città del Sole, Sotto il segno dello Scorpione, l’Invenzione di Morel e anche una foto di scena di John Mulder Brown che abbraccia la sagoma di Jane Asher nella piscina di Deep End e un’altra di Taking Off, una di Joe Hill, una delle Quattro Notti di un Sognatore che lambisce il viso di Hiram Keller nel Satyricon di Fellini che un po’ si confonde con le locandine del Fantasma del Palcoscenico e quelle di The Rocky Horror Picture Show e sopra due disegni di Ronald Tolkien comprati da Foyles dignitosamente rivestiti di vetro come il piccolo Escher e le fotografie che riempiono tuttaquanta la parete e per la maggior parte autografate come quella di Francesco Guccini, di Peter Gabriel, di Marco Ferreri ritratto per le giornate del cinema italiano il due di settembre del settantatré, Annacarla coi capelli sciolti e le spalle nude, Ferreri con una camicia bordata di pizzo sul davanti e poi ritratti scattati qua e là a convegni e simposi e seminari e convivi, giornate rassegne e dibattiti a cui nessuno in questi anni si è sottratto… così nella mansarda ci prepariamo a far un cenone che qualcuno ha portato una stecca di fumo da Bologna e non bisogna mica farla invecchiare quella roba.

E’ una pagina dell’episodio che dà il titolo al libro ed è indicativa perché ci indica come la prosa di Tondelli, così accumulativa, sia in parte completamente diversa da quella tipica delle narrazioni “tradizionali”: il suo modo di scrivere è infatti fatto di paratassi e soprattutto sostantivato, costruito su oggetti e nomi di persone più che di azioni espresse da verbi, ma che inoltre ci dà le suggestioni letterarie tipiche di  quella generazione.

E’ evidente che tali suggestioni siano le stesse dell’autore, anche se appare chiaro che, per ammissione dello stesso autore, ci siano gli americani Kerouac, Bukowski e Burroughs, nonché gli immancabili Ferlinghetti e Corso, autori obbliganti in quegli anni; ma è altrettanto evidente come il nostro senta il ritmo narrativo, nonché tematico di Hubert Selby, cantore americano degli emarginati della società americana, come appare in questa pagina, la cui scrittura ha certamente evocato l’autore di Correggio:Autostrada A10, in arrivo due weekend di passione: da Genova a Savona bisognerà passare da Masone o fare l'Aurelia - IVG.it

VIAGGIO

Notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade d’Emilia a spolmonare quel che ho dentro, notte solitaria e vagabonda a pensierare in auto verso la prateria, lasciare che le storie riempiano la testa che così poi si riposa, come stare sulle piazze a spiare la gente che passeggia e fa salotto e guarda in aria, tante fantasie una sopra e sotto all’altra, però non s’affatica nulla. Correre allora, la macchina va dove vuole, svolta su e giù dalla via Emilia incontro alle colline e alle montagne oppure verso i fiumi e le bonifiche e i canneti. Poi tra Reggio e Parma lasciare andare il tiramento di testa e provare a indovinare il numero dei bar, compresi quelli all’interno delle discoteche e dei dancing all’aperto ora che è agosto e hanno alzato persino le verande per godersi meglio le zanzare e il puzzo della campagna grassa e concimata. Lungo la via Emilia ne incontro le indicazioni luminose e intermittenti, i parcheggi ampi e infine le strutture di cemento e neon violacei e spot arancioni e grandifari allo iodio che si alzano dritti e oscillano avanti e indietro così che i coni di luce si intrecciano alti nel cielo e pare allora di stare a Broadway o nel Sunset Boulevard in una notte di quelle buone con dive magnati produttori e grandi miti. Ne immagino ventuno ma prima di entrare in Parma sono già trentatré, la scommessa va a puttane, pazienza, in fondo non importa granché.

L’incipit con quell’ipallage, i verbi all’infinito ad indicare spazio, campi semantici che contrastano “raminga, fuggitiva, vagabonda e riempire” “stare, spiare, lasciare”, per concludere con quel “però” con valore deduttivo che indica un senso di apatia, di abbandono verso un altrove irraggiungibile, concluso con un “nulla” certamente più suggestivo di un “niente”.

Il tutto condito con una prosa il cui ritmo segue i fili del discorso del narratore che sembra richiamare più una partitura musicale di tipo jazzato, il cui finale sembra spegnersi in un assolo, che rimanda a un non so che di malinconico con quel “la scommessa va a puttane, pazienza, in fondo non importa granché”: assolo che si spegne, smorzandosi, in un silenzio assoluto.Forever young: una guida all'opera di Pier Vittorio Tondelli a 30 anni dalla morte

Il libro fu sequestrato per oscenità, per poi essere assolto, ma ciò (come sempre) esercitò una maggiore capacità di divulgazione: qualcuno parlò di semplice libro generazionale, ma ci furono anche lettori più attenti che ne individuarono le novità stilistiche e narrative. Certo alcune scene potevano certamente risultare disturbanti, come in Postoristoro, dove un ragazzo viene masturbato per trovare una vena per iniettarsi l’eroina, ma, al di là del fatto che erano situazioni che realmente accadevano e che denunciavano come la generazione degli anni Ottanta si stesse perdendo, il modo in cui venivano descritte lo riscattavano, trasformando il dato cronachistico in letteratura, in quanto mescolava linguaggio crudo, osceno, con espressioni dialettali o con espressione liriche, tutte risolte attraverso lo sguardo attento (e forse “innocente”) dell’autore stesso.

Il successo del libro, convinse la casa editrice a pubblicare un testo, già in parte “anticipato” nelle pagine de “Il Resto Del Carlino” che aveva chiesto all’autore di descrivere un anno di servizio militare. Nascono così dieci episodi col titolo Diario del soldato Acci che, insieme alle prose Affari militari farà parte del progetto un Weekend Postmoderno.Vita di leva, quando era d'obbligo il servizio militare - Corriere.it

Prima di parlare del romanzo, è necessario fare una precisazione: il servizio militare, più precisamente detto coscrizione obbligatoria di una classe, venne istituito sin dal 1861 e venne abrogato solamente nel 2004. Ciò significa che tutti i ragazzi, all’incirca dai diciotto ai venticinque anni, a seconda degl’impegni studenteschi, dedicavano all’incirca 12 mesi della loro gioventù alla patria.

PAO PAO, (ripetizione dell’acronimo che sta per Picchetto Armato Ordinario), pubblicato nell’ottobre del 1982, racconta infatti la storia, certamente autobiografica, dello stesso Tondelli il quale svolse l’obbligo militare nel 1981.

.Amazon - Pao Pao. : TONDELLI Pier Vittorio -: Libri

Copertina dell’edizione originale

L’INCIPIT

Ma Renzu, il mio grande amico Renzu, lo rivedo dunque per l’ultima volta in una parata primaverile di granatieri a Roma, a quasi un anno da quel nostro primo e gelido inizio di servizio militare su alla rupe di Orvieto, fine aprile dell’ottanta o giù di lì, ma ancora un vento gelido e sferzante spazzava la piazza d’armi mentre i ragazzi marciavano e correvano, i ferrei granatieri, i prodi artiglieri e i piccoli e saettanti bersaglieri che incontravo ogni giorno all’infermeria con vescicacce aperte e contusioni ai piedi per via di quegli anfibi così rigidi e appunto così militareschi che dovevano calzare come scarpettine da danzatrici e batterci sopra i ritmi e la grancassa come proprio allievi del Bolscioj.

LA FINE

Io sono lì nel piazzale, in piedi sul muricciolo sotto le palme, i camion mi sfilano davanti e io mi sbraccio e grido Renzu, Renzu e finalmente vedo l’Agi Carcassai che fa un versaccio e grida il di me nome come un indemoniato. Ma Renzu non lo scorgo, proprio non gliela faccio, so che c’è ma come distinguerlo fra altre centinaia simili in tutto a lui? Poi finalmente la banda prende a suonare la marcia dei granatieri, i ragazzi in costume storico sfilano come tanti tableaux vivants, davanti quelli del Seicento, poi quelli napoleonici, poi quelli del regno e così via. Allora corro verso l’uscita e mi arrampico sul muro del Castro lungo il viale e lì li vedo sfilare tutti, proprio tutti, finché nel plotone in fondo non scorgo Renzu, impassibile, sudato, lo sguardo dritto, la mascella serrata, le mani inguantate e rattrappite sul fucile, il suo passo cadenzato. Ma lui non può scorgermi. Così corro avanti fino a Piazza Esedra fra i passanti esultanti e scolaresche vocianti e il fiume dei reduci che mi travolge fra alamari di stoffa biancorossi e visi vecchi e storpi e gridamenti e tutti lì ad applaudire ed acclamare i prodi granatieri, gli autobus fermi sotto il sole, i taxi che suonano i clacson, la gente che guarda e s’affolla prima di qua e dopo di là e a questo punto uno mi mette una mano sulle spalle e dice più o meno ehi ehi che felice rivederti, ed io mi volto ed è quell’odiosissimo tenente Stravella con il capitano di Orvieto e allora sono infognato lì con loro a parlottare, ma intanto la parata si snoda e già sta per scendere per via Nazionale tutta indrappeggiata con striscioni e coccarde patriottiche e sempre la gente che esulta e acclama, gruppi di reduci già imbriachi che si trascinano abbracciati fra un bar e l’altro e hanno ricamate sul giubbetto tutte le battaglie e le spedizioni che han fatto e medaglie e medagliette e fregi sui baschi come dei goliardi, ma io sono lì intrigato con questi due e non gliela faccio a smollarmi finché non approfitto di una loro distrazione e scappo via, ma Renzu, il grande amico Renzu non si accorgerà di me finché quasi non lo sfiorerò con un versaccio e allora lui finalmente volterà un attimo il viso al mio indirizzo e io salterò sulle teste delle persone e correrò fra le transenne e mi sbraccerò gettando il basco in aria e lui nient’altro farà che una smorfia trattenuta e raggelata, lì in prima fila del suo plotone, al centro, ecco Renzu che mostra il pregio della sua razza marchigiana, il Renzu dello Champagne fregato a Orvieto e delle canne e delle sbronze per le stradine della rupe, il Renzu dei seggi elettorali, il Renzu che saltava davanti al duomo cantando il mio nome con quel suo sound preziosissimo che non ho più sentito, mai più, il Renzu ora inquadrato che non può parlare né muoversi lì intruppato e incastrato da far paura e io che continuo a chiamare il suo nome correndo giù per Via Nazionale passando davanti a Grandelele a Miguel e Beaujean e tutti gli altri che sfilano e marciano e battono il tempo della grancassa, e gli grido sto bene caro Renzu e fatti vivo e lui storcerà gli occhi, solo quelli e finalmente i nostri sguardi si incontreranno per un attimo fra la folla e sarà come ci fossimo detti mille cose e io riderò a quello sguardo e m’illuminerò a quel suo bagliore, Renzu che spinge le pupille nell’angolo dell’occhio e mi incontra e io prenderò a gridare di nuovo spingendomi fra la gente e le donne e i turisti e i marocchini, mi farò largo in quella calca di persone che strepitano e applaudono e sorridono, ma Renzu non potrà dir niente, manco una parola, manco un saluto con le mani o un gesto di bocca, segnerà il passo e alzerà il fucile davanti alle autorità, ma dirà niente, solo la grancassa che strabatte la marcia e la mia voce Renzu, Renzu che si smorza infine nel caos di Piazza Venezia stracolma di auto e di gente.

Soldati della Folgore

I due passi mostrano come la struttura del romanzo sia circolare, inizia con lo stesso personaggio e la stessa immagine con il quale finisce; nel mezzo la storia che Tondelli definisce “sentimentale” di un gruppo di giovanotti costretti a convivere in una caserma, cercando un senso verso un’istituzione che certamente tale senso aveva totalmente perduto.

Ciò fa del romanzo un Bildungsroman (romanzo di formazione), in cui i protagonisti (è un romanzo corale, in cui l’io narrante vive e pensa in relazione a tutti gli altri) cercano spazi di libertà in un ambiente che li nega. Il fatto è che tale spazi di libertà non sono solamente descritti come ricerche centrifughe che allontanano i ragazzi dal centro (la caserma) verso luoghi “diversi”, ma anche come capovolgimento della morale “patriottica” in cui il sesso e l’amore raccontato è quasi esclusivamente gay, accompagnato da ubriacature, canne e romanticismo a iosa.

A salvare il tutto è che Tondelli evita di fare un romanzo solo ed esclusivamente basato sui sentimenti, che in qualche modo lo avrebbe eccessivamente “carattetizzato”: il suo modo di descrivere mescola vari registri stilistici, per cui, anche se nell’ultima pagina tale pericolo vi corre, il modo in cui descrive il suo incontro con Renzu, il suo sbracciare e la “rigidezza coatta” di Renzu, lo rendono straniante, sottolineato dall’espressione “lui storcerà lo sguardo” e da quello splendido finale in cui Renzu si perde nel caos e nella folla di Piazza Venezia.

Ciò ci conduce ad un ultima osservazione: nella seconda parte del romanzo, concluso il CAR (Centro Addestramento Reclute) ad Orvieto e spostato alla caserma Macao vicino a Termini, Roma, con le sue piazze, le sue trattorie, i luoghi degli incontri gay, la spiaggia di Ostia, diventa a sua volta protagonista, in quanto ciò che avviene nel romanzo non può che avvenire perché è lì che avviene. 

TRA PARENTESI

– (Ma è tutto già successo, e succederà di nuovo quella sera in cui non sentii i Weather Report giù al Palazzetto di Roma per il loro concerto che invece attendevo da mesi, serata davvero memorabile sotto il cielo molto Star Wars della capitale con i Boeing colorati che solcavano il blu intenso e le stelle planetarie che si muovevano – ne sono certo – e traballavano attorno ai loro sistemi, la sera in cui non feci quello che dovevo fare o quello che avevo programmato trovando un’insana soddisfazione a lasciarmi solo in un bettolaio stracolmo di turisti a buttar dentro il terzo litro di birra – e non sarebbe stato l’ultimo – quella tiepida sera in cui vagavo fra Trastevere e Campo de’ Fiori confuso in mezzo ai turisti e ai soldati in libera uscita e alle coppiette mercenarie di Ponte Sisto che mi guardavano vogliose perché quelli erano tempi in cui potevo far girare la testa a chiunque, erano i tempi del successo e della voglia di stare al mondo, i tempi supremi del mio egoismo che mi permetteva di star a mio agio con tutti, con i coatti del Circo Massimo, i negri di Termini, i battoni dei Cinquecento, i punkettari di S.S. Apostoli, gli intellettuali dei salotti, i cinematografari delle terrazze, be’ quella sera nutrivo una brutta storia dentro come una bestia che mi rodeva e mi faceva pensare e metteva tutto sossopra con macabri pensieri di morte per cui decisi che non mi sarei fatto vedere dove mi si aspettava poiché tanto la mia immagine era già là e già sapevo come sarebbe andata a finire, insomma la noia forsanche la malinconia accidiosa di dire tutto è sempre uguale e simile a se stesso da che mondo e mondo e invece io ho paura come fossi il primo uomo, quella sera così pericolosamente incline a un suicidio bevuto e cinico che per fortuna o puro caso talmente era evidente che non sfiorò neppure il nervo più scoperto, quella sera bighellona e vagabonda e ubriaca e meditabonda sull’acqua limacciosa del Tevere, ecco quella sera incontrai a Piazza Argentina, miracolosamente incontrai il vecchio compagno di università Gabriele, a Roma per il corso nella Guardia di Finanza, e lo trascinai sotto un albero del lungotevere e gli dissi quel che tutta sera stavo dicendo a me, ho vent’anni ed è ora che capisca come va il mondo, e lui avrebbe raccontato di tutti i suoi sfasamenti di caserma e aggiunto: è tutto un problema che noi siamo cariche affettive che vanno e girano e s’attaccano dove s’attaccano senza possibilità di spiegazione, insomma quel che sta succedendo o ci succederà non puoi né spiegarlo né prevederlo, tutto meno che la morte. E io allora al quarto litro di schifosissima e pisciatissima birra avrei come un pezzente vomitato giù dall’argine e avrei detto non mi piace come vanno le storie della gente, nemmeno la mia, è come se tutto fosse troppo piccolo e racchiuso quando invece sento il mio cervello partire e volare e alzarsi mio dio fin verso quell’oltre che non posso dire, non so, ma che ci sto a fare qui dove il Tempo m’insegue e mi bracca e non sono più io sempre diverso da un attimo all’altro e mi dimentico, mi dimentico, le cose che cambiano, i muri, i cieli che s’illuminano, qual è la nostra vera storia? E Gabriele avrebbe poi accompagnato il di me fantoccio in albergo e buttato su letto, avrebbe solo detto passerà, quel che c’è di buono in tutto quello che provi è che domani nient’altro rimarrà che una cicatrice suturata di quel che provi, che si riaprirà e si richiuderà fino alla fine così come le ore si aprono e si chiudono una nell’altra poiché il Tempo ti ammazza, questo è certo, ma anche ti salva. Sarà allora in quella sera scazzata in cui il terrore della mia consapevolezza al mondo quasi quasi era giunto ad abbattermi come una bestia al macello, sarà in quella notte che deciderò di non aprire più parentesi nella mia vita senza la certezza di poterle chiudere, di non spingere più con le droghe il mio cervello in un tempo vuoto dal quale non si torna indietro se non con una sola ineliminabile certezza, che io non sei tu, non lo sei mai stato e non lo sarai mai, solo un sacco di sangue marcio che va al diavolo…) –

Ed il pensiero si fa pagina, lo scorrere di pensieri e rimpianti diventa letteratura in un fluire di parole che scorrono, con pochissime pause (tre punti fermi ed un interrogativa) che non vogliono fermare, ma far riprendere fiato in un ricordo vissuto/vissuta un’assenza, il cui tema è infatti un non esserci, scandito dall’anafora di quella sera in cui non…

Caserma Castro Pretorio - Wikipedia

Caserma di Castro Pretorio dove è ambientato il romanzo

Il terzo romanzo, dopo l’esperienza teatrale di Dinner Party del 1984, è Rimini, che potremo anticiparlo con un piccolo estratto tratto da un Weekend Postmoderno, intitolato Adriatico kitsch, scritto nel 1982:

E’ dunque questa della riviera adriatica una cosmogonia estiva e ferragostana della libido nazionalpopolare che, a dispetto dei decenni, delle mode e delle recessioni, persiste, più o meno intatta, nel costume e nelle manie della nostra gente, per cui ancora una volta sul fianco destro delle patrie sponde s’inscena la sfilata del desiderio in un missaggio di antiche forme e nuovissime attitudine, insomma ecco in breve qualche nota dalla riviera postmoderna.

Rimini - Pier Vittorio Tondelli - Italian fiction - Storytelling - Library - dimanoinmano.it

Per la prima volta Tondelli cessa con una sorta di autobiografismo, sia esso generazionale che ideologico, per raccontare una storia, fatte di diverse storie, quasi a voler dimostrare a se stesso di saper “raccontare” e dar vita ad una narrazione: scommessa (certamente vinta) ma non facile, perché il vero protagonista è la città romagnola e la varia umanità che entra in questo divertimentificio. Vi sono diverse storie, infatti, che camminano tra loro, talvolta sfiorandosi, talaltra svolte in modo autonomo senza incontrarsi. Le storie principali sono:

1) Marco Bauer e Susy e la storia gialla
2) Bruno May e il suo amore per Aelred e il romanzo da scrivere
3) Robby e Tony e il finanziamento per un film da fare
4) Beatrix e Claudia e un riavvicinamento sororale
5) Alberto e Milvia, un amore vero, ma clandestino

Marco Bauer (l’unico a cui l’autore dà la possibilità di raccontarsi, essendo un personaggio autodiegetico) viene nominato direttore de La pagina dell’Adriatico e incontra la piccola redazione, composta da Susanna Borgosanti, Romolo Zanetti, il giovane Guglielmo ed il fotografo Johnny.

MARCO BAUER

«Sono Romolo Zanetti», disse, con un breve sorriso di cortesia. «Faccio il corrispondente qui da vent’anni».
Ci stringemmo la mano. Mi fece entrare per primo.
La redazione era composta di tre stanze, più un bagno e un cucinotto. Nella sala grande stavano tre scrivanie, un grande divano addossato a una parete ingombra di riproduzioni di stampe antiche, due poltrone su cui erano appoggiate riviste e quotidiani senza nessun ordine apparente, un buffet con vetrinette colmo di bottiglie, un lampadario a gocce, due finestre e una porta-finestra da cui si passava per raggiungere il balcone affacciato sul Corso.
«Le piace?» chiese Zanetti, avvicinandosi al buffet e prendendo due bicchieri.
«Sì, mi piace,» risposi perplesso.
Offrì del porto e mi spinse, con gentile premura, verso una seconda sala in cui stavano due telecopy collegati con Milano. Alla fine mi fece entrare nel suo ufficio arredato come un vero e proprio studio.
«E qui che vengo a scrivere i miei saggetti», disse compiaciuto.
«Quali saggetti?»
«Mi interesso di storia antica, sa? Prenda pure». Mi consegnò una pubblicazione di una trentina di pagine stampata da una tipografia di Rimini. Lessi il titolo. Si trattava di uno studio condotto sull’iscrizione di una lapide funeraria romana. Ringraziai Zanetti e spinsi l’opuscolo nella tasca della giacca. Tornammo nel salone. Mi misi a girare per la sala guardando le riviste impilate, i tavoli, le macchine da scrivere. C’era ovunque molta polvere. Il tappeto, per esempio, non sembrava battuto da un secolo.
«Non si preoccupi», disse Zanetti che si era accorto delle smorfie. «La donna delle pulizie è venuta soltanto ieri. Per riaprire la stanza. Ma tornerà».

«Riaprire?»
«D’inverno sono il solo che lavora, qua dentro. Sto nel mio studio. Qui ricevo una qualche visita. Interviste di prestigio, capisce?»

Annuii.
«Lo scorso inverno non è successo nulla», disse rassegnato. Sì palpeggiò la gola. I suoi modi erano vagamente untuosi, la sua voce, al contrario, simpatica. Portava un paio di occhiali con lenti a mezza luna che si toglieva e metteva in continuazione. Aveva i capelli brizzolati, corti e curati in modo maniacale nel taglio sopra le orecchie e sulla nuca. Non c’era un pelo di troppo. Era grasso e la sua pancia generosa esplodeva dalle fettucce delle bretelle tirate. Indossava un completo beige e non portava cravatta.
«Vuol forse dirmi che il porto è stato aperto due anni fa?»

Zanetti tossì. In quel preciso momento suonò il telefono.
Mi avventai al ricevitore. «Sì?»
«Romolo! Sono… Chi parla?» Era la voce di una ragazza. Una voce sensuale e calda.
«Bauer».
«Ah, è già arrivato?»
«Eravamo d’accordo per la mezza, signorina Borgosanti», dissi gelido, guardando Zanetti. Abbassò gli occhi come fosse colpa sua.
«Telefonavo per avvertire… Fra dieci minuti sarò lì.»

«La aspettiamo».
Zanetti si avvicinò. «E’ una brava ragazza. Sono tre anni che lavora qui d’estate. E’ molto intraprendente».
Era un complimento? «Talmente tanto che non sta qui», dissi.
«Quello è il suo tavolo».Indicò la scrivania verso la finestra.
«Perché il ‘suo’?»
«Per via della sedia», disse sottovoce quasi confidasse segreto.
Mi venne da ridere. «La sedia?»
Il corrispondente raggiunse il tavolo e scostò la sedia. Cristo, non era una sedia, era una poltroncina Luigi XV con il tessuto ad arazzo e una scena di passeggio cittadino nell’ovale dello schienale e tanti ghirigori sulle zampette e sui braccioli! Avevo voglia di bestemmiare. Quella cretina s’era addirittura portata la poltrona come i generali sul campo di battaglia. Zanetti mi invitò a provarla. «E’ per via della schiena. Susy è a disagio con quelle altre», disse Zanetti, con l’aria di voler aggiustare qualcosa.
«Certamente. E a che ora prendete il tè, qui?» Lo guardai con aria di sfida. Parve offendersi. Ritrasse improvvisamente le dita dal bracciolo che stava accarezzando.
«Com’è che gli altri praticanti non sono qui?» dissi.

«Ne abbiamo uno solo. Arriverà a luglio».
«Santiddio!» urlai. «Me ne hanno promessi due. Vogliono ingrandire, alzare la tiratura, allargarsi e mi danno una principessa del pisello e un diavolo di praticante! Non stiamo lavorando al supplemento di un giornale letterario letto da qualche marchesa. Stiamo facendo una professione moderna, dinamica, veloce. Non voglio avere l’impressione di lavorare a
un giornale rococò. O al foglio della Deputazione di Storia Patria! Molte cose cambieranno, qui dentro, glielo assicuro».
«Potrà cambiare quello che vuole, Bauer. Ma non la mia sedia».
Mi voltai. Era lì che si stava togliendo la giacchetta gettandola distrattamente sul divano. Era la principessa e che razza principessa. Aveva capelli neri, occhi neri, pelle abbronzata, paio di gambe affusolate inguantate in calze trasparenti, nere, scarpe col tacco alto anch’esse nere. E una camicetta senza maniche di seta bianca che lasciava indovinare un paio di tette da schianto, ritte e dai grandi capezzoli scuri.
«Mi chiamo Susanna Borgosanti», disse la fata. Era una favola, una bellissima favola.
«Ciao, Susy» fece Zanetti.
Mi avvicinai per stringerle la mano. La porse lentamente un gesto dinoccolato. «Molto piacere», soffiò guardandomi dura negli occhi.
«Sono contento che lei sia arrivata. Stavo facendo rilevare alcune questioni a Zanetti». Mi arrestai. «Vorrei fare una riunione e vorrei anche il marmocchio. E’ possibile?»
«E’ possibile», disse lei.
«Alle diciotto?»
«Certo. Alle diciotto».
«Allora a stasera. Ah, dimenticavo. Voglio anche il fotografo. Provvederò io stesso ai beveraggi, non disturbatevi». E uscii.

(…)
«Ecco come intendo organizzare il nostro lavoro», dissi alzandomi in piedi e posando il bicchiere vuoto su una scrivania. Eravamo nella sala grande della redazione da una ventina di minuti circa. Erano le sei e mezza del pomeriggio. Avevo portato con me un paio di bottiglie di scotch e qualche bibita da allungare per sbloccare un poco la tensione che immaginavo alta. Almeno per quanto mi riguardava. Zanetti era seduto sul divano di fianco a Susy e mi guardava con una nota di apprensione. Ogni tanto Susy si infilava le dita fra i capelli, formava un ricciolo e lo stuzzicava tenendo gli occhi bassi. Il moccioso invece ci dava dentro con lo scotch. Si chiamava Guglielmo, aveva l’aria sveglia e mi piaceva. Aveva detto che la sua massima aspirazione era diventare cronista. Lui stesso giocava in una squadra di rugby. Aveva un buon fisico e reggeva bene l’alcool: le prime qualità che si chiedono a un buon giornalista. Di questo fui contento. Sapevo che avrei potuto fidarmi di lui. Il fotografo invece era un ragazzone attorno ai quaranta, del tutto calvo sul cranio ma con due sbuffi di capelli arruffati che gli scendevamo da sopra le orecchie e dalla nuca. Aveva un paio di baffi prodigiosi, foltissimi e neri. Gli occhi piccoli, gonfi, dalle pupille cerulee erano incassati nel volto come se qualcuno glieli avesse cacciati indietro. In realtà tutto il suo viso aveva una espressione bastonata e schiacciata come il grugno di un mastino. Era grasso, tozzo, con piccole mani cicciottelle. Portava anelli di fattura grossolana a entrambi i mignoli e una pesante catena d’oro pendeva al centro del petto premendo contro i peli del torace. Indossava una camicia nera aperta fino all’ombelico e un paio di jeans stracciati e scampanati in fondo. Ai piedi un paio di scarpe da tennis con un buco in coincidenza dell’alluce destro; ma anche quello di sinistra premeva e tendeva la tela per far capolino. Cosa che sarebbe avvenuta presumibilmente entro un paio di giorni. O forse, quella sera stessa.
«Innanzitutto vorrei che qui ci organizzassimo come in una redazione centrale. L’unica differenza sarà che ognuno di noi diverrà l’unico responsabile del proprio settore e non riceverà nessun altro aiuto se non da se stesso». Andai con gli occhi sui loro visi. Erano attenti e tesi. «La Pagina dell’Adriatico», proseguii, «svolge soprattutto un servizio di cronaca. Per questo non sorgono molti problemi se non quello di distribuirci bene le fonti di informazione e i settori di intervento. Ma la Pagina dell’Adriatico vuole anche essere qualcosa di più e di meglio. Vuole offrire un servizio di informazione completa non soltanto su quel che succede ma anche su tutto ciò che è nell’aria. Inoltre, essendo un giornale popolare, dovremo assolvere a una funzione di intrattenimento. Il lettore deve sentire anche dal proprio giornale che è in vacanza, che ha tempo da dedicare a se stesso e al proprio divertimento. Potenzieremo le rubriche quotidiane di consigli e suggerimenti per la vacanza. Daremo questi consigli e nello stesso tempo gli offriremo il modo per tenersi informato senza annoiarsi».
Feci una pausa e mi versai un goccio di scotch. Stavo andando bene, benché parlassi a braccio. Mi stavano seguendo con attenzione. Non era ancora fiducia, ma attenzione, sì. Solamente il fotografo rollava distrattamente una sigaretta col tabacco olandese.

«Ecco il piano», ripresi. «Il nostro corrispondente ufficiale, lei, Zanetti, si occuperà della cronaca giudiziaria, di quella nera e, se sarà il caso, di quella gialla. Questo perché Zanetti già conosce, ed è conosciuto, da tutte le fonti indispensabili a questo genere di informazioni: carabinieri, questura, commissariati di zona, procure. Non credo, d’altra parte, che avrà molto lavoro in questo periodo di vacanza. Quindi a lui spetteranno anche i rapporti con gli enti pubblici, in particolare con l’Azienda di Soggiorno e con gli uffici turistici delle varie municipalità costiere. Le, sta bene?»
Zanetti trasse un profondo sospiro. Si palpeggiò la gola, «Questo fa già parte del mio lavoro», sottolineò.

«E’ per questo che continuerà a farlo. Ma lo farà, se possibile, in modo nuovo, più svelto e più sbrigativo. Mi bastano le notizie. Non voglio i commenti. Abbiamo poco spazio e dovremo sfruttarlo al meglio».
Parve rassicurato. Quando attaccai con Susy, la sua espressione divenne quasi felice. Sapevo il perché. Per il momento non lo avevo estromesso dal suo studiolo.
«Per quanto riguarda te, Susy, ti occuperai della cronaca rosa, della cultura e dello spettacolo. Questo perché voglio che tu copra tutti gli avvenimenti con lo stesso stile. Non mi interessa se ci sarà un concerto di Schönberg o uno di Mick Jagger. Voglio sapere dove alloggiano il direttore d’orchestra o il cantante. Voglio il loro parere sulla Riviera e non sulla loro musica. Voglio sapere cosa mangiano prima o dopo il concerto. E’, sufficientemente chiaro?»
«Vuoi scandali o semplicemente pettegolezzi?»
«Oh, no, mia cara», dissi, fingendo di ridere. «Voglio semplicemente alzare la tiratura».
«Tutto qui?»

«Avrai tre rubriche quotidiane: moda, salute, gastronomia».
Susy rise apertamente. Era la prima volta che lo faceva da quando l’avevo conosciuta, qualche ora prima. Rise spingendo avanti la bocca e aprendo le labbra in modo da spalancare la visione dei denti bianchissimi e serrati. Il suono della risata aveva qualcosa di estremamente infantile. Si arrotolava su se stesso per riprendere poi più squillante. Solamente nel momento in cui portò con eleganza le dita contro le labbra – qualche secondo più tardi – parve placarsi. «Mi devi scusare», disse, «ma non ho nessuna intenzione di sgobbare tanto su queste sciocchezze».
«Se sono sciocchezze non ti costeranno fatica», risposi appoggiandomi al ripiano della scrivania. «E poi, come saprai, queste cose
sono il giornale».
Ci fu qualche attimo di silenzio imbarazzato. Il fotografo tossì ripetutamente e si versò un po’ di aranciata.
«E per me?» intervenne Guglielmo. Si stropicciava le dita nervosamente. Restavano pochi settori ancora da coprire e già intuiva, con apprensione, quale sarebbe stato il suo.
«Ti occuperai di giovani e di sport. Tornei cittadini, gare di bocce, maratone di paese, vela, wind-surf, tornei di pesca, competizioni per la costruzione di castelli di sabbia, pugilato, basket, minigolf. Tutto. Ogni giorno voglio almeno cinque servizi di sport. Non ha importanza di quale sport si tratti, ma li voglio. Non dovrai preoccuparti per la lunghezza: dal semplice trafiletto alla cartella e mezzo. Mai di più. E anche interviste agli atleti, dal semplice turista che fa la gara di nuoto al campione arrivato qui per un torneo importante. Abbiamo da queste parti l’autodromo di Misano e l’ippodromo di Cesena. Voglio sapere chi li frequenta, chi gioca ai cavalli, chi paga un centone sopra l’altro per fare un giro di pista su una Ferrari presa a noleggio. Non voglio dichiarazioni di dirigenti, allenatori, amministratori, politici. Non frega niente a nessuno. Tanto meno a me. Voglio solo i protagonisti sul campo. E per te, Guglielmo, vale lo stesso discorso di prima: non mi interessano le tattiche di gara, né chi ha deciso che il tal ciclista dovesse scattare proprio a quel chilometro in cui ha preso avvio la sua fuga. Voglio sapere con chi sono venuti qui. Se con la moglie o la fidanzatina o l’amante o la mamma. Solo questo mi interessa. Non siamo un giornale sportivo. Siamo un giornale di cronaca spicciola. Tutto ci riguarda, ma solo il particolare ci interessa. O.k.?»
Il ragazzo rimase serio e immobile. Mi guardò, e la sua espressione era quella che cercavo. Diffidenza, ma volontà di scavalcare quella stessa diffidenza impegnandosi al massimo. Dimostrarmi quello che poteva valere.
«Ognuno di voi, ogni giorno, fin d’ora sa quello che deve fare. Sa quali avvenimenti coprire. Ma ognuno, ogni giorno, sarà tuttavia disponibile per le eventualità del momento: sarà l’inviato e il

caposervizio di se stesso. Per quanto mi riguarda, oltre a coordinare il lavoro e mantenere i contatti con Milano, mi occuperò dei servizi speciali». Mi guardarono in un modo interrogativo. Li lasciai nel loro brodo. Poi riattaccai: «Questo vuol dire, prima di tutto, i servizi fotografici».
Il fotografo ebbe un balzo e mi guardò con curiosità. «In apertura di supplemento voglio tutti i giorni una sequenza di fotografie organizzata come un servizio. Fotografie di notevole richiamo e curiosità. Potrà anche trattarsi di una sola foto svolta, però, con ingrandimenti successivi di un qualche particolare, come una notizia».
«Non ci sono tante cose qui da fotografare. Le solite turiste a seno nudo».
«Il tuo compito è di dimostrarmi il contrario».
«Non c’è nient’altro», insistette il fotografo.
«Ci sarà. Perché tu lo troverai o lo inventerai. Il reportage di prima pagina sarà la tua rubrica fissa. Sei un giornalista a tutti gli effetti».
«Certo. Ma…»
«D’accordo?» Lo stavo pungolando.

«Non so se riuscirò… Ogni giorno…»
“Sappiamo tutti che tu ci riuscirai.”
Spense la sigaretta nel posacenere. Sbuffò il fumo dalle narici. Stava dicendo di sì. Non gli lasciai certo il tempo per fare obiezioni. Mi bastava che, davanti a tutti, non opponesse una resistenza valida. Gli avrei lasciato una vita intera per essere perplesso, ma non un secondo per rifiutare.

(…)

I cambiamenti che imposi furono accettati con qualche mugugno, soprattutto da parte di Zanetti che trovò ogni occasione buona per manifestare il suo dissenso scuotendo la testa, ma poi, in fondo, lasciandomi fare. Riunii le scrivanie al centro del soggiorno in modo che si potesse lavorare gomito a gomito. Tolsi dalla porta le vecchie stampe e feci appendere una grande cartina geografica che raffigurava la costa dalla foce del Po fino al promontorio di Gabicce. Centotrenta chilometri all’incirca che costituivano la nostra zona di intervento. Sul cerchietto che indicava Rimini infilzai uno spillo rosso. Alla base della cartina misi una cassettina divisa in piccoli scompartimenti, ognuno ripieno di spilli dalla capocchia colorata. Distribuii i colori: bianco a Susy, giallo a Guglielmo, blu a Johnny e verde chiaro a Zanetti. Io mi tenni quelli rossi. Ogni componente della nostra redazione avrebbe dovuto segnalare sulla cartina la propria presenza in qualsiasi località diversa dalla redazione. In questo modo avrei sempre avuto la situazione dei movimenti sotto controllo e, in più, mi sarei reso conto con un solo sguardo se per quel giorno stavamo coprendo tutta la zona che ci era stata assegnata, non tralasciando nemmeno un qualche fottuto borgo sperduto nel delta del Po.

Rimini di Tondelli: un classico che diverte

La descrizione che l’autore fa di uno dei principali protagonisti della storia è tutta affidata alla sua idea di come “costruire” il giornale:

  • fortemente egocentrico e volitivo
  • non colto;
  • si lascia sedurre dal fascino femminile in modo sensuale
  • cerca la precisione per controllare la realtà
  • ha l’idea che la “realtà” non sia quella “vera”, ma quella riportata sul giornale (se non c’è, si deve fare in modo che ci sia)

E’ evidente che un personaggio così non poteva essere amato dall’autore, ma è proprio un tale personaggio che gli permette di disegnare la parabola di una sconfitta, di chi, volendo “vivere” e capire la vita si trova ad essere oggetto di scelte altrui e da colui che deve controllare, essere controllato. Nel romanzo sembra che Marco Bauer si trovi sempre nel posto sbagliato, marionetta di chi guida le fila in un gioco più grande di lui, e pertanto che non possa che accettare la sconfitta.

Tale sconfitta gliela procurerà la donna di cui è diventato amante, quella Susanna, per meglio dire Susy del romanzo, che, lui inconsapevole, fa parte del gioco:

SUSY

Mangiammo qualcosa al ristorante di fianco al motel. Avevo bisogno di mandar giù un boccone. Lo stomaco mi sembrava una caverna puzzolente di gin e stretta come una bara. Dovevo sforzarmi di mandar giù qualcosa. Altrimenti di lì a poco avrei rigettato in strada anche le viscere.
La sala del ristorante era illuminata e deserta. Gran parte dei clienti infatti si era radunata davanti al televisore per avere notizie di come procedeva la fine imminente. Dal nostro tavolo potevamo sentire gli speakers alternarsi e dare notizie in diretta. Intervistavano il capo della polizia, qualche sindaco, la gente per strada.
«Torniamo a Rimini», disse Susy.
Accennai un sì. Ero distrutto. Continuavo a fissare sul tavolo quella busta gialla. Proprio non sapevo cosa avrei fatto il giorno dopo. Andare alla polizia? Consegnare tutto? Abbandonare il giornale? Far finta di niente? C’era qualcosa per cui valesse la pena di agire? No, non lo sapevo proprio. Susy restò in silenzio per tutta la durata della nostra cena. Il suo cervello cercava di capire i vari passaggi della questione, ma forse ancora non ci riusciva. Anch’io, d’altra parte, vivevo quei momenti come un incubo. Avrei pagato chissà cosa, tutti gli stipendi futuri della mia grande carriera per qualcuno che fosse arrivato lì a dirmi: “Ehi, Bauer, é solo un sogno.” Ma nessuno entrava in quel diavolo di ristorante. E il sogno era sempre più simile alla realtà.
«Guida tu, Susy», chiesi. «Lascia la tua macchina al parcheggio; verremo domani. Ho solamente voglia di cacciarmi sul letto, terminare la sbronza e dormire».

Susy acconsentì. Innestò la marcia della Rover e lasciammo il parcheggio in direzione di Rimini. Poco prima di giungere in città ci trovammo inesorabilmente stretti nella morsa di un ingorgo. Molte auto lasciavano la città in direzione della campagna e della collina retrostante. C’erano stati alcuni tamponamenti. Il traffico era interrotto dalle autoambulanze che per poter raggiungere gli ospedali invadevano la corsia opposta di marcia. Così, pur viaggiando in senso contrario alla ressa di auto che fuggivano, ci trovammo ugualmente bloccati.
«Potremmo proseguire a piedi», disse Susy. «Non siamo troppo lontani dal centro».
«Preferirei andare a dormire», dissi.
«Ma dove? Il tuo residence é troppo lontano. Potresti però venire da me».

«E’ una buona idea. Allora che si fa?»
La colonna accennò a muoversi. Avanzammo lentamente per una ventina di metri, poi di nuovo ci trovammo bloccati.

«Non ce la faccio più», strillò Susy. «Ora lascio la macchina!»
«Appena puoi, Cristo!» urlai. «Appena trovi un viottolo, uno spiazzo. Guarda laggiù».
Tra i fanalini rossi delle vetture che ci precedevano scorsi una strada che si addentrava nella campagna. Svoltammo a destra, lasciammo la Rover e continuammo a piedi. Fummo costretti a camminare al centro della corsia perché da una parte e dall’altra il ciglio era occupato da macchine lasciate in sosta. La gente, dentro alle vetture, aveva espressioni neutre e assenti. Più di noia che di paura. Avrebbero senz’altro passato la notte in quel gigantesco ingorgo da cui non avanzavano né potevano indietreggiare. Cercavano scampo e avrebbero dovuto arrendersi all’immobilità. Proseguimmo verso il centro di Rimini. Ai lati della strada, verso i binari della ferrovia, un’auto bruciava schizzando scintille infuocate sull’asfalto. La gente tentava di tenersi distante. Una ragazza piangeva. C’era del sangue. I poliziotti tentavano di far circolare quelle poche auto che potevano, ma era tutto inutile. Quella notte poteva anche non succedere nulla: la terra non tremare, il mare non riversarsi sulla spiaggia, le fiamme non attaccare le case e le piante e ogni genere di costruzione. Tutto poteva restare tranquillo come in una qualsiasi sera d’agosto sulla costa. Il peggio sarebbe in ogni modo accaduto per conto suo. Stava già accadendo. L’uragano si agitava non sul lungomare, né sulla costa, ma dentro al cervello della gente.
Le strade che portavano a Rimini erano gremite di folla. Lasciata la provinciale ingorgata dalle auto, ora il centro appariva in preda ai pedoni. Migliaia, centinaia di miglia di formiche che andavano avanti e indietro, vorticosamente, senza conoscere la propria direzione, né tantomeno la propria meta.
Afferrai Susy per mano. Con l’altra mi serravo al petto la busta. Avevo il terrore che mi fosse strappata via dall’urto della gente.
«Facciamo il lungomare», disse Susy. «Tagliamo via questa ressa. Vieni».
Dovevamo urlare per capirci tra il chiasso infernale. Raggiungemmo a fatica il grande viale. Lo spettacolo fu impressionante. La spiaggia, davanti a noi era illuminata a giorno da fotoelettriche e da grossi fari appesi ai normali pali della luce. La gente era seduta gomito a gomito con pacchi, tende, asciugamani, sporte, sacchetti di ogni colore e di ogni dimensione. Tutti guardavano in direzione del mare come se da un momento all’altro qualcosa avesse dovuto sgorgare: un’isola, un vulcano, una balena, un mostro. Ogni tanto, la sequenza della gente seduta era interrotta da gruppi che, attorno a un fuoco, saltavano e ballavano e suonavano passandosi fiaschi di vino. Riuscii a vedere i pattini che solitamente stanno all’asciutto, al largo. C’erano delle luci che provenivano dal buio del mare e un cartello che diceva “La fine del mondo sul moscone. Cinquemilalire l’ora. Per tutta la notte.”

Proseguimmo fra le motorette dei ragazzi che sfrecciavano in ogni direzione fra urla, bottiglie gettate in terra, richiami, impennate. Da questa parte della città la forza pubblica era praticamente assente. Ognuno era lasciato solo a se stesso. C’era gente che in ginocchio pregava, altra che ballava, altra ancora che si stringeva e si baciava. Improvvisamente un gruppo di ragazzi dai capelli lunghi fece irruzione sul lungomare provenendo da una trasversale. Gridavano come ossessi e facevano roteare delle catene. Trascinai Susy da una parte. Ci riparammo dietro il tronco di un pino marittimo. «Quanto manca alla tua casa?» chiesi.
«Oltre la rotonda», disse lei.
Feci un lungo sospiro. Le strinsi più forte la mano. «Forza», dissi. Sbucammo dal nascondiglio. Procedevamo svelti con la testa china come se tutto quanto si stava svolgendo sulla strada non ci riguardasse. Ma quando giungemmo alla rotonda, fummo costretti a sollevare gli occhi.
Un paio di negozi al piano terra di un grande edificio bruciavano gettando bagliori infuocati sulla piazzetta. Le macchine erano bloccate in mezzo alla strada. La gente fuggiva terrorizzata dal palazzo, saltando sulle capote delle auto, lasciando brandelli di vestiti sui paraurti, strillando e piangendo. Dal fuoco sbucarono come demoni tre-quattro-cinque ragazzi con il viso nascosto dal passamontagna. Reggevano in mano piastre per hi-fi, dischi, videoregistratori, telecamere. Gridavano per spaventare la gente, ma era inutile. Nessuno si sarebbe sognato di fermarli. Dall’altro lato della piazza, un grosso autobus prese improvvisamente fuoco. Fu il panico. Sentii un rumore provenire alle mie spalle. Mi voltai, ma fu troppo tardi. Una motoretta mi investì in pieno. Lasciai la mano di Susy. Caddi a terra. Sentii l’odore della benzina. Era tutto buio, là in fondo. Un dolore violento mi torse la gamba sinistra. Un dolore acuto e veloce e rapido. Non lasciai la busta gialla che tenevo serrata al petto come una corazza. L’urto mi spinse sotto a una macchina ferma. Ero incastrato, non riuscivo a uscire. Vidi del fumo e le gambe di Susy e il suo braccio allungato e il suo viso chino che mi parlava e mi diceva qualcosa e io che dicevo no, no, e scuotevo il capo. I clacson urlarono da pazzi, le sirene delle autoambulanze, dei vigili del fuoco, tutto gridava sotto quella maledetta macchina. L’olio del motore mi gocciolava sul volto, Susy continuava, china, ad allungare il braccio. Fu allora che le consegnai il pacco e il dolore alle gambe divenne più forte. Mi aggrappai con le mani ai ferri del telaio dell’auto, riuscii a togliere il viso da quella carrozzeria puzzolente. Vidi le sue gambe, dritte, il suo volto, le sue braccia accanto al fuoco. La sua espressione assente davanti a quei pezzi di carta che incendiati volavano via nel turbine della fine del mondo. Poi tutto divenne nero e caldo e troppo odoroso. Un odore fortissimo e nauseante. Persi i sensi. Per me l’ultima notte del mondo finì in quel momento.

E’ più o meno la fine del romanzo: Marco Bauer era riuscito a scoprire un fatto corruttivo tra il comune riminese e un politico democristiano della stessa città: il fatto si è che lo stesso Bauer aveva precedentemente avvolorato la tesi del suicidio.  Ora si ero reso conto che forse era ben altro: e tale prova era tutto in quel plico, lascitogli da un convento di clausura, che si stringeva al petto e che la sua donna, la sua amante, gli toglie dalle mani e gli dà fuoco.

Pier Vittorio Tondelli a Riccione

In un mondo di cartapesta, anche gli amori sono orchestrati in un mondo di cartapesta; non ci può essere tragedia che non possa essere riassorbita, e laddove tragedia ci dev’essere è sempre figlia di un amore sbagliato, come per Bruno May, scrittore omosessuale e Aelred:

BRUNO MAY

A Londra, tre anni prima, nel tardo pomeriggio di una rigidissima giornata di novembre, Bruno stava partecipando, in compagnia di amici, al vernissage di una collettiva di scultura in una galleria di Floral Street, a due passi dal Covent Garden. L’esposizione si sviluppava su due piani. Nella scala al pian terreno stavano alcune opere costituite da carrelli da supermarket colmi di oggetti elettronici; alcune gomme di auto sovrapposte e impilate per circa due metri di altezza e percorse da striature colorate di vernice; due cartelli segnaletici capovolti e decorati da strisce di plastica nera simile a quella dei sacchi per la spazzatura. C’era inoltre un tavolo dietro cui un cameriere offriva birra e pasticcini. Al piano superiore stavano il resto delle opere e la gran massa dei visitatori avvolta dal fumo delle sigarette. Bruno trovò insopportabile resistere ancora e benché gli acrochages lo interessassero per la casualità degli accostamenti simile per certi versi alle associazioni libere della poesia, uscì ben presto. Si fermò sulla soglia della galleria per terminare la sua birra. Un ragazzo stava attraversando la via provenendo da Saint James Street. Reggeva un portfolio sotto il braccio. Un ciuffo rossiccio di capelli gli pendeva sul viso ondeggiando a ogni passo di una particolarissima andatura dinoccolata e, nello stesso tempo, strascicata. Bruno lo osservò meglio. Le punte dei piedi leggermente rivolte all’esterno, la schiena curva e un braccio penzoloni rendevano la sua andatura totalmente indipendente dall’esterno, dalle automobili che passavano, dai pedoni che erano obbligati a scansarlo per non farsi urtare, dai clacson che suonavano. Il ragazzo camminava in simbiosi con la propria andatura, così naturalmente sovrapposto alla artificialità del suo passo, così completamente abbandonato alla legge dei gesti appresi (che parlavano di palestre, di basket ball, di cavalli, di lavoro a tavolino) che il suo carattere si diffondeva, completamente svelato, all’esterno. Bruno notò che la sua corazza gestuale non appariva come una difesa, non nascondeva, non occultava; anzi parlava chiaramente e dolcemente. La sua camminata infatti, nient’altro era, che il tic del suo animo.
Il ragazzo indossava un giubbone da parà color piombo, zeppo di tasche e cerniere. Il cappuccio che scendeva sulle spalle era decorato con strisce sottili di pelliccia maculata. Portava un paio di pantaloni bianchi sporchi di colore e calzava grosse scarpe di pelle grigia che sembravano ortopediche. Quando si incrociarono, si guardarono per un istante negli occhi. Bruno lo seguì con lo sguardo. Vide che salutava alcune persone. Decise di rientrare.
Il ragazzo si era appartato e stava mostrando il contenuto del portfolio a una donna. Bruno si avvicinò e gettò lo sguardo su quelle tavole. Chiese di poterle vedere da vicino. Si trattava di grandi collages fatti con matite, pennini, retini, carte geografiche e topografiche, fotografie dipinte e ritoccate. Riunivano tutte le immaginarie metropoli del globo sotto una medesima atmosfera: fra le cupole della Piazza Rossa di Mosca spuntavano palmizi hawaiani; caratteri cirillici costituivano scritte pubblicitarie in una Times Square percorsa da una identica fauna umana negroide o asiatica. Una devastazione atmosferica e geotermica aveva ridisegnato il mondo. Parlò al ragazzo. In quel momento Reginald Clive, un critico abbastanza noto, salutò Bruno. Ne approfittò per presentare il ragazzo e così sapere il suo nome. Aelred, così si chiamava, si dimostrò impacciato. Bruno dovette soccorrerlo sostenendo la conversazione. Reginald apprezzò le tavole. Si congedò dicendo che doveva passare in Fleet Street a buttar giù il pezzo. Si diedero un appuntamento telefonico.
«Non sarei mai riuscito a mostrare qualcosa a Clive nemmeno pagandolo mille sterline», disse Aelred. Bruno gli raccontò come lo aveva conosciuto a Venezia, qualche anno prima.
«Perché non vieni a mangiare qualcosa con me al club?» propose Aelred.
Bruno indugiò.
“E’ qui vicino… Ho voglia di bere qualcosa di buono. E tu?”
Bruno rispose di sì, aveva anche lui una gran voglia di bere. Salutò gli amici e uscì in compagnia di Aelred.
Il club era nascosto in un intrigo di viuzze strettissime attorno al Covent Garden. Per raggiungerlo procedettero uno davanti all’altro poiché non c’era spazio per due. Aelred disse qualcosa a proposito di Charles Dickens che Bruno non afferrò. Giunsero davanti al club. Si trattava di un ristorantino polveroso anni quaranta. Davanti all’entrata stava un panchetto di legno su cui era posto il registro delle visite. Aelred salutò il cameriere e firmò invitando Bruno a fare altrettanto nello spazio riservato ai visitors. Il cameriere spostò il panchetto e li fece passare.

Il ristorante era vuoto. Seguì Aelred che passava tra i tavoli apparecchiati con destrezza. Si diressero verso uno sgabuzzino. Aelred accese la luce tirando una corda che pendeva dalla lampadina spiovente. Più avanti iniziava una scala di legno. La discesero. Immediatamente li investì uno sbuffo di aria calda, odore di sigarette e di alcolici. Si sentiva, in sottofondo, musica rock.
Entrarono in una grande stanza circolare con il soffitto a volta e le pareti verniciate di nero. Al centro stava il banco degli alcolici con un paio di rubinetti per la birra e uno scaffale ripieno di bottiglie ben allineate. Nella parete attorno si aprivano alcune nicchie che avanzavano nel cemento per qualche metro. Il fondo era ricoperto di cuscini colorati. Davanti a ogni nicchia stava l’imitazione di un rudere antico decorato da luci intermittenti. La fauna era abbastanza giovane, sui trent’anni. Aelred presentò Bruno a qualche amico: una soprano critico musicale di una rivista marxista, un pittore calvo e grassoccio, un tenore che aveva studiato in Italia, un architetto che Bruno già aveva visto, nella galleria di Floral Street. Ordinarono dello scotch e chiacchierarono con i membri del club. Erano tutti alticci, la soprano, un donnone imponente vestita di un robe manteau lungo fino ai piedi cantò il brindisi della Cavalleria Rusticana in onore di Bruno. Quando finì il club esplose in applausi e grida di compiacimento.

Bruno andò al bancone per un altro scotch. «Bevi qualcosa, Aelred?» Aelred non rispose. Bruno ripeté la domanda, si girò e si accorse che non stava rivolgendosi ad Aelred, ma a un altro ragazzo. Si scusò. Guardò attorno ma non lo vide. Prese il bicchiere e raggiunse il gruppo di prima. Domandò alla soprano se lo avesse visto in giro. La donna fece un grande sorriso e cantò il brindisi dalla Lucrezia Borgia. Bruno scorse una nicchia vuota. Si sedette a bere. Passò mezz’ora. Di Aelred nessuna traccia. Prese un altro scotch e lo bevve d’un fiato. Aveva fame, ma certo non si sarebbe fermato in quel posto a cenare da solo. Chiese al barman due biglietti da visita del club. Uno se lo infilò rapidamente in tasca. Sull’altro scrisse una frase di congedo e il proprio indirizzo. Lo riconsegnò al cameriere pregandolo di consegnarlo ad Aelred qualora fosse reato. Il barman prese il biglietto e lo infilò in mezzo a due bottiglie di whisky.

Loving, il libro che racconta l'amore con le fotografie del passato

L’amore nasce da una visione. Alread è un’epifania, ma un’epifania disturbante; sembra che non vi sia “naturalezza”: cammina come se l’andatura fosse in simbiosi con la sua andatura, sovrapposto all’artificialità; si lascia a gesti appresi e il suo carattere si diffondeva, completamente svelato, all’esterno. Aggiunge, poi, che il suo camminare rivelava il “tic” del suo animo.

Il suo sparire alla fine del brano è indice di un amore “difficile”: Aelread è alla ricerca di sé, non sa ancora chi realmente sia, se omo o etero, si lascia andare con Bruno ad un sesso sfrenato, ma ad avere e a desiderare il suo corpo è Bruno, che non riuscirà a sopportare l’assenza o il tradimento. Obnubilato dall’amore è disposto a perdonargli tutto, ad accettare tutto di lui e lui questo lo sa e ne approfitta. Vi è in Bruno un amore assoluto, quasi metafisico, e quando non riesce ad ottenerlo, si lascia andare, si annulla attraverso l’alcool, perde se stesso e con se stesso la sua capacità di scrivere.

Non è un caso che nell’abbandono e nella ripresa della scrittura vi è la figura di Anselme, un monaco. Il cattolico Tondelli non può scindere l’amore dallo spirito e di questo spirito egli si sente invaso dopo che decide di confessarsi. Sente il bisogno di rivedere Alread, sente il bisogno di chiarire cosa sia lui per lui: e solo quando percepisce che il rapporto è finito, può cominciare a scrivere.

EACH MAN KILLS THE THING HE LOVES

Verso le tre, quella stessa notte, Bruno uscì silenziosamente di casa. Camminò speditamente fino al mare, la testa china, come seguisse una direzione prestabilita. Sul lungomare incontrò una fila di auto incolonnate e ferme in mezzo alla strada. Un paio di vetture della stradale erano messe per traverso e bloccavano il traffico. Bruno si mantenne sul marciapiede. Vide i poliziotti che cercavano di sedare una rissa causata da un tamponamento. Un ragazzo dai capelli lunghi era disteso a terra e vomitava. I suoi compagni ubriachi imprecavano contro un uomo che non osava scendere dalla macchina. Arrivò una autoambulanza a sirene spiegate, Bruno proseguì fin verso la rotonda del Grand Hotel. Fu allora che attraversò la strada con l’intenzione di raggiungere i giardinetti.
Fra gli alberi il buio era fitto e odorava di hashich. Le chiazze di luce che filtravano attraverso il fogliame illuminavano alcune siringhe. Alcuni piccoli fagotti respiravano addossati ai tronchi o distesi sul prato rivelando la presenza di qualcuno nei sacchi a pelo. Bruno si mosse per i vialetti con sicurezza, li conosceva ormai bene. Alla luce di un lampione un ragazzo fumava una sigaretta sdraiato su una panchina. Quando lo sentì arrivare, si alzò a sedere e scrutò nell’ombra. Bruno passò via velocemente. Incontrò, più avanti, una coppia di vecchi che conducevano a mano le biciclette procedendo prudentemente nel lato dei giardini illuminato. Sbirciarono nel buio, incontrarono i suoi occhi. Nessuno si fermò.
Improvvisamente la ghiaia scricchiolò alle sue spalle. Bruno si arrestò. Sentì un rumore di passi che lo stavano raggiungendo. Cautamente si voltò. Scorse un’ombra. Una figura alta gli andava incontro, superò il vialetto e calpestò l’erba a una decina di metri da lui. Bruno non si mosse. Cercò di individuare quella persona. Sentì gli arbusti scrocchiare e poi il fischio di una canzoncina, dapprima tenue, poi sempre più nitido man mano che l’ombra gli si avvicinava. Bruno si inchiodò a terra. Conosceva molto bene quella canzone. La ripescò dalla memoria. Faceva:

Did I really walk all this way
Just to hear you say
“Oh, I don’t want to go out tonight”…

I ricordi si scatenarono l’uno nell’altro, lo stordirono. L’ombra lo aveva ormai raggiunto e continuava a canticchiare:

I don’t owe you anything
But you owe me something
Repay me now…

Bruno vide un ciuffo di capelli biondi. Alzò la mano come per accarezzarli. «Aelread» soffiò. «Come hai fatto a trovarmi ancora?»

(…)

L’ombra uscita dai giardinetti di fronte al Grand Hotel gli era di fronte. Smise di fischiettare quel motivo.
«Aelred», disse Bruno avvicinando la mano fino ad accarezzarlo. Un colpo violento lo prese alla bocca dello stomaco. Cadde in terra. Sentì altri colpi alle costole e sul cranio e una voce che lo offendeva. Perse i sensi. Quando si svegliò, si trovò spogliato della giacca e pieno di sangue sul volto e sulle mani. Si rialzò a fatica. Cominciava ad albeggiare. Gli ubriachi tornavano in albergo dopo una notte di follie. Tutti erano nelle stesse condizioni, più o meno. Certo, Bruno era sporco di sangue, ma chi dava importanza a quel particolare? Ognuno voleva solo ficcarsi a letto nel più breve tempo possibile. Ognuno voleva dimenticare qualcosa. Barcollò fino a raggiungere la casa. Entrò nella sua stanza. Chiuse gli occhi. Quello che seguì non fu altro che un dolore ridicolo e fulmineo. Per un istante tutti i colori del mondo, tutti gli abbracci del mondo scoppiarono nel suo cervello finché non ci fu più nessun Aelred nella sua vita, né scrittura, né Dio, né alcool, né ferite, né amori né passioni. Soltanto un respiro lento che faticava a venire. Non disse un’ultima parola, né lasciò scritto niente. Fu il suo mattino terminale.

Brad Davis from the film Querelle : r/LadyBoners

Immagine dal film Querelle

Each man kills the thing he loves, così Jeanne Moreau cantava nel film Querelle di Rainer Werner Fassbinder. Siamo certi che Tondelli l’abbia visto, ma non siamo certi che la storia d’amore e morte tra Bruno e Aelred sia stato ispirato da questo brano.

Qui Tondelli sembra usare la tecnica dell’entrelacement, la storia dell’arrivo di Alread alle spalle di Bruno ubriaco, nel giorno della presentazione del suo romanzo, viene ripreso, dopo un bel po’, nello stesso istante.

La scena è costruita in modo preciso: notte, rimore dio passi, gli Smiths, così precisi nel testo Ho davvero camminato fino in fondo / solo per sentirti dire / “Oh non voglio uscire stasera // Non ti devo niente, ma mi devi qualcosa. Ripagami ora. e Alread che sembra che lo canticchi per ricordare che Bruno lo deve ripagare (per cosa, poi?): perché gli ha rubato il tempo e l’amore?, perchè lo ha soffocato con la sua protezione?, perchè non gli ha dato il modo di tovare se stesso? Non lo sappiamo. Ma lo uccide; forse lo ama e non vuole sentirselo dire: “Ogni uomo uccide ciò che ama”.

La storia di Robby e Tony vira tra il comico e surreale: due giovani che cercano un finanziamento per un film e che, non trovando nessuno, si “adattano” ad una sottoscrizione popolare, chiedendo ai bagnanti della spiaggia:

Tondelli proiettò su Rimini come fosse uno schermo gli eccessi dell'Italia anni '80 - Il Piccolo

IL SOGNO DI CINEMA 

Il giorno seguente decisero di separarsi. Avrebbero battuto lo stesso bagno, ma andando uno a destra e l’altro a sinistra del corridoio in quadri di granito, adagiato sulla spiaggia come una passerella, che in certe ore del giorno scottava come una piastra di ardesia rovente. In questo modo si sarebbero spalleggiati a vicenda, ma avrebbero raggiunto il doppio di persone. Tony ebbe grane con il bagnino del numero sessantacinque. Era un ragazzone con un paio di mani larghe come pagaie e gambe che sembravano sequoie. Ci fu ben poco da discutere. Quello agitava un ombrellone chiuso come fosse uno stuzzicadenti. Dovettero battere in ritirata. Mangiavano di solito nei bar sulla spiaggia dove era molto più facile combinare qualcosa. Si stava all’ombra e le persone arrivavano al banco con il portamonete. La maggior parte era poi rilassata dall’aver appena fatto il bagno e parlava volentieri. Era più facile che qualche sottoscrizione abbandonasse il pacco che loro reggevano e trovasse la giusta direzione. Ma il ritmo con cui questo passaggio di mano avveniva non fu mai quello che una notte Tony sognò: vide i tre grandi cartoni abbandonati sulla spiaggia aprirsi improvvisamente come investiti da un turbine e tutti i fogli uscire uno dopo l’altro con un suono di battito d’ali e formare un vortice che subito si innalzò altissimo nel cielo come una tromba d’aria e ricadere poi a pioggia su tutta la spiaggia. La gente usciva dall’acqua e correva, abbandonava le sedie a sdraio, veniva a riva con i mosconi, correva dalle strade, dai bar, dai ristoranti, dalle pensioni e si precipitava sulla spiaggia tendendo le mani e guardando in aria e cercando per terra, perché tutta la spiaggia era ormai ricoperta dai fogli come se un grande autunno avesse lì ammassato tute le foglie della terra. I bambini giocavano con quelle pagine, facevano aeroplanini, aquiloni, barche, cappelli, freccette a cono, facevano maschere, facevano vestiti, torri, festoni, coriandoli, stelle filanti. Gli adulti li prendevano e si abbracciavano e si baciavano per la gioia e non li portavano via, né li ammassavano, ma una volta raccoltili in grandi bracciate li rigettavano in aria per la gioia di poterli riprendere. Dai tre cartoni il turbinio di carta bianca non aveva fine. I ragazzini più agili salivano sui pennoni accanto alle bandierine che segnalavano lo stato del mare, e da lì, chiamavano la gente dagli altri tratti di spiaggia, che poi accorreva e gridava di gioia finché tutta la costa non fu un solo grande momento di festa, di trionfo, di gioia. La realtà invece era che fino a quel momento avevano raccolto insieme cinquantamila lire.
Robby camminò per qualche decina di metri sul bagnasciuga con la testa china, attento a saltare la risacca delle onde e non inciampare in un qualche corpo disteso. Indossava la solita maglietta azzurra che la sera, arrivato in pensione, lavava sotto un getto di acqua corrente e lasciava ad asciugare alla finestra. Aveva un paio di slip bianchi. Camminava scalzo, tenendo in una mano un paio di espadrillas sfasciate e nell’altra la cartella con le sottoscrizioni. Nella ressa del bagnasciuga, fra gente che giocava a bocce e altri che inseguivano aeroplani gracchianti, tra i fili ingarbugliati degli aquiloni, i palloni, i freesby, avvistò un gruppo consistente di persone. Si diresse verso di loro. Attaccò discorso con le frange più esterne. Chiese se a loro interessava il cinema e quale film avessero visto l’ultima volta che si erano recati in una sala; chiese se preferivano la televisione, se i film della passata stagione erano piaciuti, se li divertivano più quelli americani o quelli italiani; se amavano la commedia, il dramma, il comico, il musical, il tragico, il film storico, la fantascienza o i cartoni animati. Ben presto la discussione diventò incontrollabile. Robby si sentì tagliato fuori come un moderatore televisivo estromesso dal suo dibattito. Ognuno parlava per i fatti suoi, urlando e sbrecciandosi. Robby attendeva il momento buono per piazzare le sottoscrizioni, ma il baccano era ormai infernale. Fu allora che lo vide.
Stava inginocchiato a terra davanti a un tappeto in cui dominavano i colori rossi e bruni e su cui erano disposti in ordine collane, statuette, bracciali, anelli, orologi, zanne di elefante in finto avorio e statuette in legno finto ebano. Incontrò il suo sguardo. Indossava un caffettano marrone lungo fino ai piedi e in testa portava un fez bordeau. Senza ormai più clienti, il marocchino si alzò di scatto e sputò una sequela di ingiurie in arabo. Robby era paralizzato. La gente attorno si accorse che stava succedendo qualcosa di poco piacevole. A poco a poco tacque formando loro attorno una specie di arena. Robby farfugliò qualcosa. Il marocchino parlò in francese, gli diede del bastardo e del figlio di puttana. Robby fece per andarsene, ma qualcuno in quel momento lo trattenne. Si girò di scatto e incontrò un altro paio di carboni accesi. I due marocchini cominciarono a gridare, la gente si scansò. Robby aveva una unica speranza, che arrivasse Tony. Lanciò lo sguardo verso la fila degli ombrelloni, ma fu inutile. Cercò di spiegare che non voleva affatto rubare il mestiere a nessuno, che non stava vendendo niente, che passava di lì per puro, accidentalissimo, caso. I marocchini non vollero sentir scuse. Un ceffone beccò Robby al collo. Incassò il colpo. Tentò di restituirlo, ma il secondo marocchino lo teneva stretto. Gli presero la cartella e la vuotarono sulla sabbia. La gente non diceva niente. Solo uno, dai bordi di quella maledetta arena, osò lanciare un “finitela!”. Robby si guardò intorno cercando l’alleato. Fu terribile. Vide solamente pance gonfie e grasse e bianche e cicatrici di ernie e appendiciti, mastectomie, ulcere, calcoli renali, calcoli alla cistifellea, alla vescica, vide tette flosce e cosce adipose, rotoli di grasso, ascelle fradicie di sudore, natiche cascanti, scroti lunghissimi, enormi, disgustosi, unghie incarnate, crani calvi, vide moncherini di braccia, gambe poliomelitiche, dentiere d’oro, parrucche, mani finte. Si sentì perduto. L’attenzione dei due marocchini era accentrata sulla sua cartella. Si parlavano fitto, uno dei due si chiamava Kacem. Approfittando della loro disattenzione, riuscì a sfilare dallo slip dell’elastico ventimila lire. Li alzò in alto. Quello che lo teneva da dietro, inginocchiato, prese i soldi. Tony arrivò in quel preciso momento. Trascinò da parte Robby, cercò di sapere quello che era accaduto. I due marocchini gli parlarono velocemente. Tony rispose duro: «Non mi frega una sega se dovete comprarvi venti cammelli per sposarvi, rivoglio quei soldi!»

«Lasciali stare!» gridò Robby. La sua voce era acuta e stridente come fosse sull’orlo di una crisi isterica.
«Ti hanno fregato o no quei soldi!» sbraitò Tony.

«Non me ne importa dei soldi! Sono dei poveracci!»
La gente aveva preso a squagliarsi. Qualcuno andò ad bagnino. Tony si azzuffò con il marocchino. Aveva voglia di menare le mani, sentiva l’odore della rissa, dei nervi scoperti, un odore che lo faceva impazzire. Accorsero i bagnini e li separarono. Quando si fu calmato si accorse che i due se l’erano filata. Restò in silenzio. Raccolse uno a uno i fogli sparsi sulla sabbia. Robby, in piedi, lo guardava senza espressione. Vedeva il suo amico chino a terra che prendeva con cura quei fogli stropicciati, ne levava via i granelli di sabbia soffiandoci sopra, li riponeva nella cartellina; vedeva il suo amico, ma tutto gli appariva completamente estraneo. Non si parlarono per tutto il pomeriggio. Robby riprese a girare fra gli ombrelloni abbordando la gente con poche e secche parole: «Vuole comprare un’azione per produrre un film?» Tutto qui. Non si sprecava, non gliene importava nulla. Era aggressivo, se qualcuno lo mandava al diavolo rispondeva sbraitando e menando in aria le mani. Se riceveva una bacchettata rispondeva con un pugno. Trovò una donna, non più giovane. Aveva labbra dipinte di viola, pesanti anelli alle orecchie e una capigliatura di un biondo stopposo. Agli angoli degli occhi due sottolineature di rimmel parevano cicatrici. Il suo corpo, sotto il costume, era una camera d’aria. Lo ascoltò e gli disse di seguirla verso la cabina poiché teneva i soldi nel vestito. Robby la seguì. Girò la chiavetta nella toppa. Entrarono insieme. Dentro, l’aria era soffocante e c’era puzzo di piscio. La luce era scarsa ed entrava a strisce dalle fessure della porta. La donna lo guardò e scoprì i seni. «Voglio i soldi», fece Robby. Lei prese dal borsellino un rotolo di banconote. Fece per darglieli. Si arrestò. «Voglio vederti nudo. Per favore… Fammi vedere come sei fatto, ti prego». Robby sentì una profonda, angosciosa quiete salirgli allo stomaco. Si tolse la maglia. Si abbassò lo slip fino alle cosce. La donna si inginocchiò. In silenzio, si mise a piangere, senza avere il coraggio di toccarlo.
«Dimmi come ti chiami», fece Robby, prendendole i soldi. Li contò. Erano trentamila lire. «Avanti, dimmi come ti chiami».
La donna prese a singhiozzare coprendosi il volto con le mani. Balbettò il proprio nome fissando il sesso di Robby. Scrollava la testa. Non si capiva se piangesse di dolore o di felicità. O di umiliazione. Robby trascrisse i dati della donna su tre fogli. La prese sotto le ascelle e la rialzò. Le ricompose i seni nelle coppette. Poi prese la mano ingioiellata della donna e guardandola fisso negli occhi la portò dolcemente sul proprio sesso. Era un saluto. Uscì dalla cabina. La donna si sedette in terra piangendo, sfogandosi. Poi, prima di uscire, asciugò le sue lacrime sature di trucco in quei pezzi di carta che il ragazzo le aveva lasciato.

Una delle espressioni che Robby fa, appena arrivato nella stazione di Rimini, è:

Faceva caldo, probabilmente attorno ai trentacinque-trentasette all’ombra. E questo caldo appiccicoso e denso, un caldo sporco, praticamente nient’altro che la traspirazione evaporata nell’atmosfera di quelle decine e decine di migliaia di bagnanti che in quello stesso momento prendevano il sole sulla striscia di sabbia della riviera, ecco, un caldo umano, non un caldo puro, e per questo già istintivamente insopportabile – benché tutto ciò costituisse una sensazione grave e a suo modo importante, non era minimamente paragonabile a quell’altra immagine-sensazione che gli aveva folgorato il cervello pochi istanti prima, mentre scendeva dalla carrozza del convoglio: “Ma questo è già un set.” C’era dunque qualcosa di intimamente “artificiale” in ciò che aveva intorno, “totalmente” predisposto quasi come quel caldo opprimente e animalesco che fiutava nell’aria immobile della stazione. Era tutto non naturale. Tutto troppo dannatamente perfetto.

Rimini è di cartapesta ed è già, dunque, un set cinematografico e l’idea che spinge i due protagonisti nella ricerca affannosa di denaro, fa sì che Tondelli possa disegnare l’irrealtà di un sogno e degli stessi bagnanti della spiaggia, utilizzando, anche in questo brano, attraverso un’antitesi narrativa, sia l’immagine onirica che, come una festa carnevalesca, fa scendere fogli (probabilmente con la sceneggiatura) sulla spiaggia, visione di una irrealizzabile espressione cinematografica (linguaggio che ebbe sempre un certo fascino per Tondelli) sia, attraverso una delle forme tipiche del suo linguaggio, l’elencazione quasi surrealistica delle persone in riva al mare, descritte nella loro più trita volgarità.

In arrivo il DADISC, il DASPO delle discoteche | Deer Waves

Certo si è che il sogno così festoso e addirittura ludico si scontri infine con quello sovraesposto di un mondo violento, fatto di ultimi che cercano di sopravvivere o, sottolineandolo con maggior forza, fatto di solitudini come quella melanconica della vecchia imbellettata di pirandelliana memoria che chiede a se stessa di poter rivivere, colpevolmente, il voglia di una impossibile sessualità, ci fa sentire non proprio approriato il finale che l’autore riserva alla fine di questa storia, che forse risulta troppo “consolatorio” o, in qualche modo, obbligato per un lettore a cui bisogna dare tutte le risposte. Avremmo immaginato altro nelle figure di due poveri e disgraziati picari, oppure, forse, Tondelli ci vuole rimarcare che in un mondo di cartapesta anche le soluzioni possono essere tali, e se finzione ci dev’essere è maggiormente quella della “maschera” di questi “improbabili” cinematografari e, come fosse un vero e proprio primo piano, gli occhi del marocchino che osservano lucidi, cattivi, chi gli sta portando via il guadagno, capovolgendo il pregiudizio beota secondo cui “vengono in Italia per rubarci il lavoro” e facendolo rubare a noi poveri italioti il lavoro d’accatonaggio di quei disgraziati venditori di perline:       

Arrivammo davanti al cinema. C'era una gran folla di gente ai lati dell'ingresso principale. Aspettavano che gli invitati entrassero per occupare i posti rimasti. 
«E' già stato giudicato il miglior film dell'anno», disse Susy, prendendo posto. «A ottobre uscirà nelle sale normali.»
«Siamo cavie», dissi, guardandomi attorno.
«In un certo senso sì, siamo cavie privilegiate». 
Ci fu un applauso. Gli spettatori si alzarono in piedi e si voltarono verso la galleria della sala. Entrarono un gruppo di persone, un branco ordinato ed elegante di giovanotti. 
«Ecco gli attori!» fece eccitata Susy. «Quello in mezzo è il regista. Ha raccolto una parte del danaro qui a Rimini. Dicono sia andato ombrellone per ombrellone a chiedere i finanziamenti». 
«E quello là in fondo?»
«Chi?»
Indicai a Susy un uomo di mezza età.
«E' Fermignani, il produttore. Viene sempre a Riccione, ogni anno, per le vacanze. L'altr'anno ha incontrato il regista in spiaggia e hanno combinato il film».
In quel momento le luci si spensero e la proiezione partì. Al termine, a giudicare dall'accoglienza del pubblico, il successo fu straordinario.

Ancora la storia di due sorelle, Beatrix e Claudia

Galleria fotografica Christiane F. - Noi i ragazzi dello zoo di Berlino |  MYmovies

Un’immagine dal film Christiane F.

CLAUDIA

Presi la Rover e seguii il lungomare in direzione di Riccione. La strada era illuminata e piena di gente. Si trattava in maggioranza di stranieri, poiché i turisti italiani sarebbero arrivati in massa solo nei mesi seguenti. L’impressione fu che quelli avessero assunto, in tutto e per tutto, il contagio delle nostre cattive maniere: attraversavano la strada come pollastre ubriache senza rispettare né le precedenze né i pochi semafori accesi. Gironzolavano sui risciò e sui tandem eseguendo miracolose serpentine fra gli autobus e le automobili con il risultato di intasare il traffico. Gridavano, schiamazzavano, stiracchiavano “ciao” a tutti con quelle mani sporche di gelato sciolto o di pizza o di spaghetti al sugo. Una ragazzina bionda, esile, dal viso arrossato dal sole, mi venne incontro e chiese un passaggio parlando un italiano stravolto. Aveva una minigonna bianca a pois minuti color pervinca, una maglietta nera e un foulard giallo allacciato attorno ai fianchi. Dissi che non era il caso. Tirò fuori la lingua e si piazzò seduta sul cofano. Il semaforo scattò sul verde. Alle mie spalle la colonna di vetture prese a eccitarsi suonando il clacson. Suonai anch’io, ma lei niente, restava lì seduta sul cofano della Rover come fosse il suo salotto e salutava e alzava le braccia fischiando “tschuss” a tutti. Continuai con il clacson. La ragazza si distese con la schiena e alzò le gambe in alto battendole come dovesse nuotare. I passanti si erano fermati e formavano una piccola folla curiosa. Mi sporsi dal finestrino: «Togliti, perdio!»
«Mi porti allora? Mi porti?»
Da dietro tuonarono: «E portala!»
Scesi dalla macchina. La afferrai per il polso e le diedi uno strattone. «Sali, avanti!»
La ragazza gorgheggiò qualcosa, fece un paio di inchini al suo pubblico e salì come su di una Limousine. E naturalmente l’autista ero io.
«Dove vuoi andare?» chiesi.
«Non lo so. Voglio fare un giro in macchina».
«E quando ti viene la voglia ti piazzi in mezzo alla strada e assali le persone come stasera?»
«Poi torno indietro», disse come fosse la risposta più naturale di questo mondo. Abbassò il finestrino e sporse completamente la testa. I suoi capelli biondi entravano nell’auto come tante fiamme d’oro liquido. Urlò qualcosa, cantò, agitò le braccia. Allontanai la mano dalla cloche e la tirai dentro.
«Come ti chiami?»
«Claudia… Ti importa qualcosa?»
«Sei tedesca?… Austriaca?»
Non rispose. «Sei sola qui?»
Chiese una sigaretta e si grattò il naso. Fu un brutto gesto. Un gesto che parlava da solo. Ci sono molti modi per togliersi un prurito dal naso, ma ce n’è uno solo, inequivocabile, eseguito con il palmo della mano, che dimostra che quel prurito non é un fastidio momentaneo; ma il semplice segno di un anestetico assunto in dosi massicce. Come quando si esce da una camera operatoria. Come quando ci si era trattati come si era trattata lei.
«Mi fermerò a Riccione», dissi.
«E’ lo stesso…»
«Non abiti in albergo?»
«No».
«Sei ospite di qualcuno?»
Cacciò un urlo: «Voglio scendere! Fammi scendere!»

«Non posso ora! Aspetta!»
Gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Si attaccò al mio braccio e prese a tirarlo con tutte e due le mani. L’auto sbandò, ma non mi fermai. Ero incolonnato e mi sarei fatto tamponare. Rallentai. «Sto fermandomi!» dissi.
Claudia cacciò un altro urlo e mi azzannò il braccio. Sentii un dolore acuto. La macchina scartò sulla destra nella zona di sosta dell’autobus. Claudia schizzò fuori. Si mise a correre nella direzione opposta cercando di fermare un’altra macchina. La chiamai più volte. Fu inutile. Finì inghiottita dai fari accesi e dalle luci della strada.

Claudia è una tedesca, fuggita da casa, tossicodipendente. Vi è in lei una prepotenza bambinesca, forse anche una paura. Non si sa se vuole divertirsi o vuole fuggire. Sa solo che quando si vuole sapere qualcosa di lei, è pronta ad urlare, fuggire.

A sentire il bisogno di cercarla sarà Beatrix, sorella maggiore:

BEATRIX

Beatrix era una donna né bella né brutta, alta, dai lunghi capelli neri e lisci che lasciava cadere sulle spalle strette e ossute. Aveva grandi occhi azzurri, labbra appena pronunciate e grandi denti che rendevano il suo sorriso simpatico, infantile, confidenziale. In quanto all’età appariva come una donna fra i trenta e i quarant’anni con la spigliatezza dei primi e la maturità dei secondi. Dieci anni prima era stata sposata con un americano, militare di carriera. Un matrimonio tiepido che era durato per lei anche troppo, cinque anni. Ora Roddy se ne stava in una base militare in Italia nei pressi di Udine. Aveva sempre amato vivere in Europa e una volta lasciata Berlino, avendo la possibilità di scegliere un altro paese dell’Alleanza Atlantica per svolgere il suo servizio, aveva optato per l’Italia. L’ultima volta che si erano sentiti, Beatrix aveva appreso che presto se ne sarebbe partito per gli USA poiché, come molti militari statunitensi, situazione a Beirut permettendo, avrebbe terminato la carriera in America. Roddy si era poi fatto vivo con una lettera natalizia. Aveva scritto, tra le altre cose, di essere diventato padre per la seconda volta. Beatrix sapeva perché Roddy le aveva scritto questo, per non risparmiarle una stoccata. Voleva figli e lei assolutamente no, non ne avrebbe mai voluti, non gliene avrebbe dati.
Beatrix abitava ora, di nuovo, in Leibnizstrasse, all’incrocio con Mommsenstrasse, a due passi dal negozio, in una zona costituita da abitazioni ordinate con la facciata dipinta in tinte pastello molto simili e quelle di Amsterdam. Erano palazzine ricostruite dopo la guerra, presuntuose e appariscenti. Avevano un’ampia scala davanti alla porta d’ingresso e una siepe che le separava dal marciapiede. Beatrix era nata in quella casa e anche Claudia, pur se venuta al mondo in modo drammatico in una clinica di Schöneberg, aveva sempre vissuto lì. Sempre. Non volendo considerare i sette mesi e più da quando era partita. O per meglio dire: sparita.

Certamente Beatrix, persa dopo il fallimento matrimoniale con Roddy, rappresenta il contraltare di Claudia, ma ambedue rappresentano simbioticamente una sola femminilità. E Beatrix a tirare le fila della storia, ad inseguire, non la sorella, ma per un bisogno di ritrovarla per ritrovare se stessa. Ma questa ricerca sarà contrassegnata da cadute (la violenza subita)  e rinascite, l’amore di Mario, e quindi attraverso queste prove in cui Beatrix si rafforzerà, potrà cercare quel qualcosa che le permetterà di sentire se stessa integralmente. E questo qualcosa lo troverà in un non luogo, nel luna park riminese, dove Claudia, la notte, con l’aiuto di un vecchio (forse l’amore di un nonno mancato o di un vecchio delle favole), andrà a rifugiarsi in un finto vascello nella nebbia, quasi a cullarsi di nuovo in un ventre materno protettivo.

Hanno ambedue trovato l’amore, Beatrix quello di un uomo, Claudia, quello di un vecchio saggio: possono ritrovarsi e completarsi e ricominciare a vivere.

E’ questa, come quella di Robby e Tony, l’altra storia dall’esito felice, del reincontro tra Beatrix e Claudia, forse anche questa nata per soddisfare il lettore. Ma anche qui Tondelli va più a fondo, a disegnarci l’arcano di un mondo femminile che si ritrova ricongiungendosi e solo allora, quindi, sentire la possibilità di rientrare nel reale, lontano dal finto mondo riminese, dove lo strumento linguistico (Mario, pur italiano, parla bene il tedesco) non sia “storpiato” in quella babele di lingue che creano un vocio indistinto in cui parlare, per non dirsi, è lo stesso di non ascoltare/tacere. 

“Da notare è che i narratori non sono mai femminili, mentre per quanto riguarda i protagonisti dei filoni l’unica donna è Beatrix, allegoria dell’ansia di scoperta e viaggio tanto cara a Tondelli e perciò figura fondamentale all’interno di tutto il corpus della narrativa tondelliana. Beatrix compie un quadruplo viaggio: alla ricerca della sorella Claudia – la sé dispersa, infantile, sovversiva che Beatrix vorrebbe addomesticare –, alla scoperta del viaggio in sé, alla scoperta – se pure non per esperienza diretta – delle droghe, alla ricerca di sé e della propria vita, dell’Amore. E’, questo, il Viaggio così come l’ha sempre inteso Tondelli: un viaggio a un tempo mentale, fisico, umano, stupefacente. Di conseguenza, Beatrix non è solo una figura femminile, ma una delle figure femminili per eccellenza, un personaggio muliebre che più che un altro-da-Tondelli è Tondelli stesso in un’altra veste, un’altra identità di genere”. (Antonella Lattanzi: Le figure femminili nella narrativa di Pier Vittorio Tondelli).

L’ultima storia, pur breve rispetto alle altre, ma forse la più bella, è quella del sassofonista Alberto e Milvia:

ALBERTO E MILVIA

Alle prime luci dell’alba Alberto salì lentamente le scale della sua pensione facendo tintinnare le chiavi. Non appena ebbe raggiunto il pianerottolo vide la luce accendersi nella stanza di fronte alla sua. Ormai era una consuetudine. Una delle ultime volte aveva intravisto l’ombra di una donna, sapeva che lo stava aspettando. Fece scattare la serratura. Aprì la porta, finse di fare qualche passo, attese un attimo e la richiuse davanti a sé. Si gettò immediatamente nella parte più buia del corridoio. Attese. Pochi istanti dopo, dalla camera di fronte uscì una donna. Era giovane, aveva i capelli in disordine, una vestaglia trasparente che le arrivava a metà delle cosce. Era scalza. La donna si guardò intorno e raggiunse la porta della stanza di Alberto. Alberto trattenne il fiato. Ebbe paura che i suoi occhi chiari, emergendo dall’oscurità come quelli di un gatto, lo tradissero.
La donna era davanti alla porta. Vi si appoggiò. Sfiorò la maniglia con il palmo della mano come temesse di infrangere qualcosa. Avvicinò la guancia. La appoggiò all’uscio. Fece per rannicchiarsi. In quel momento Alberto allungò il braccio, la trasse a sé e con l’altra mano le tappò la bocca. Cercò i suoi occhi. Si guardarono a lungo. Da una prima espressione di terrore, la donna addolcì il suo sguardo fino a stringerlo attorno alle pupille indagatrici di Alberto come un abbraccio di desiderio. La sua reazione si allentò. Si abbandonò a quell’abbraccio. Alberto continuò a fissarla. Tolse la mano dalla bocca di lei. Restarono così in piedi uno davanti all’altra, illuminati soltanto dal taglio di luce proveniente dalla stanza di fronte. Non si dissero una parola. La donna si incollò al corpo di Alberto. Lui la strinse. Trovarono le labbra. Alberto aprì la porta della sua stanza. Fece per entrare. La donna si staccò dal suo abbraccio. Lo guardò. Raggiunse la propria camera. Entrò. Alberto rimase immobile nel corridoio. Si avvicinò alla camera di fronte fino a sporgersi dentro. Vide due bambini che stavano dormendo e lei di spalle, china su uno dei due. La donna spense la luce. Alberto tornò velocemente nella sua stanza. Lasciò la porta aperta. Andò in bagno e stappò la birra. Gettò la testa sotto il rubinetto dell’acqua fredda. Sentì l’uscio richiudersi.
«Come ti chiami?» domandò raggiungendola.

«Milvia… Tu?»
Glielo disse. «Vuoi bere?»
Milvia fece un cenno negativo. «Tutte le notti ti sento tornane in albergo… Mi sono affezionata ai tuoi passi… Non pensare che io sia matta». Lo guardava con sicurezza e nello stesso tempo timore. Come se avesse già raggiunto qualcosa e avesse paura di prenderlo. Alberto la abbracciò, la baciò. Si stesero sul letto. Nell’amplesso che seguì, arruffato e scomposto, cigolante e soffocato, Alberto disse: «Piano… I tuoi bambini potrebbero svegliarsi.»
Le notti seguenti Alberto prese a tornare di corsa dal Top In per gettarsi in quell’amore clandestino e notturno che gli era entrato ormai nel sangue. Milvia lo attendeva insonne. Non appena sentiva emergere dall’oscurità silenziosa i passi di Alberto, usciva dalla stanza. Già sul pianerottolo iniziavano a baciarsi e i loro abbracci divennero sempre più placidi e distesi. Non ci fu bisogno di parole. Avanzavano il loro amore nel crescere dell’intimità e della consuetudine dei loro corpi. Certe notti Alberto guardava Milvia, pacata dopo l’amplesso, e le percorreva con la mano i seni, il ventre, le cosce, quasi si trattasse di una creatura di sogno che ancora faticava a credere reale. E, d’altra parte, la loro unione pareva effettivamente costruita della sostanza stessa dei sogni: l’intorpidimento di quelle ore a cavallo fra la notte e il nuovo giorno, la stanchezza, il fiato affannoso che Alberto aveva spremuto nel suo sax fin quasi a rimanerne soffocato; e che poi, miracolosamente, ritrovava nell’abbracciare Milvia. E lei, che a quella creatura della notte aveva affidato tutto il peso della sua insoddisfazione matrimoniale e della ricerca di una felicità, si vedeva – quando ricordava nella luce incandescente della spiaggia i momenti di amore con Alberto – attorniata dalla notte, dal silenzio, dalla sua voce emessa a gemiti e sussurri; e quell’uomo di cui non sapeva assolutamente nulla le appariva avvolto dal mistero, un mistero in cui era lentamente riuscita a penetrare fino a elevarsi, essa stessa, a fantastica creatura della notte. In questo modo i due amanti procedevano nei loro abbracci costruendosi reciprocamente una sorta di loro personalissima leggenda. E così facendo entravano nel mito: Alberto non era solo un uomo, ma tutti gli uomini di questa terra; e lei, Milvia, tutta la dolcezza recettiva e femminea di questo mondo.

Ialsaxophone Ensemble al Cotton Club | 20 ottobre 2022L’amore di Alberto e Milvia è un amore di luce/assenza di luce, cioé è uno scambio di percezioni: lui suona il suo sax la notte, il buio è il suo vissuto, la cancellazione nera di ogni forma artistica, annegato nel vuoto chiacchiericcio della gente del piano-bar. Suona perché deve, ma dentro il suono sentiamo che Alberto mette in gioco la sua anima, indifferente da chi sia in grado di ascoltarla.

E’ durante il buio che torna, dopo la notte, sempre un po’ alticcio, per nascondersi dalla luce e annegarsi in un sonno “innaturale”.

Milvia è la luce, è lei che l’aspetta e che apre un varco d’illuminazione nell’oscurità; una luce che lo riempe, una luce che porta chiarezza dove l’indifferenza musicale diventa attenzione nell’amore e dove, in tale amore, si scoprono due entità, due vissuti solitari, che, ogni notte, come se possano rappresentare una eclissi e fare sì che luce ed oscurità per quelle notti s’incontrino.

ANNEGARE NEL MATTINO

Raggiunse il palco e iniziò a suonare, benché lo spartito non prevedesse in quel momento la sua entrata. Suono così per tutta la notte, senza staccare mai. Si sarebbe detto che volesse lui stesso scoppiare nel suono del suo sax. I compagni non tentarono di calmarlo. Quello era anche il suono di vendetta di tutti i musicisti condannati a suonare per accompagnare il chiacchiericcio della gente, per servire come sottofondo agli intrighi delle troie da balera. Lo lasciarono andare per i fatti suoi finché, esausto, non cadde a terra.
Verso mattino Alberto raggiunse la pensione. I suoi passi erano faticosi. Impiegò molti minuti per salire le rampe di scale. Quando fu sul pianerottolo, gettò lo sguardo verso la porta da cui tante volte era provenuta quella luce calda e femminile. Quella mattina, per la prima volta, era spenta. La porta chiusa. Milvia era partita il giorno prima con i suoi figli. Era arrivato il marito e se li era portati via con sé. Fu la prima volta che sentì una profonda, dolorosa nostalgia per quella luce che non c’era più. Barcollò fino alle tende, in fondo al corridoio che trattenevano la luce del giorno. Si aggrappò e tirò con tutta la sua forza. Il chiarore entrò nel corridoio come un lampo. Strinse gli occhi. Pensò che annegare forse doveva essere la stessa cosa: dissolversi rabbiosamente nella luce troppo forte di un nuovo mattino.

Ed è per questo che, portata via dal marito e sparita Milvia, la luce, non quella di Milvia ma del giorno, rischia di cancellarlo, di dissolverlo in un bagliore acceccante che cancella l’amore e la poesia musicale che lo vivificava.

L'Estate dei divertimentificatori: Tondelli, Rimini e quel 5 luglio di 30 anni fa al Grand Hotel - Riminiduepuntozero

Rimini, pubblicato nel 1985, è, come si è tentato di descrivere, un vero e proprio caleidoscopio di vite, portate, dall’eccesso dell’industria del divertimento, a giocare con se stesse, ognuna secondo le proprie peculiarità. L’ambizione tondelliana è quelle di farle partecipare, pur nella loro esclusività, in modo contemporaneo, perchè contemporaneamente avvengono, ma perchè solo così potesse ricreare quell’immenso bailamme che era negli anni ’80 la riviera romagnola: disco music, il famoso “edonismo reganiano”, la Milano da bere, la corruzione dilagante: ed è naturale che questo frastuono fatto di voci, urla di ragazzini, canzoni che escono da macchine rombanti, pulsioni erotiche mal represse, gigolò a iosa, l’autore tenda ad unificarlo attraverso una vera e propria colonna sonora che, a fine romanzo pubblica, con i gruppi e i musicisti più importanti o più rappresentativi di quegli anni, fra i quali ci piace ricordare, fra i molti che cita,  The Smiths, Joe Jackson, Prince, The Style Council, Bronski Beat e U2.

Immagine 1 - Camere separate - Pier Vittorio Tondelli - Bompiani - 5414

E’ dell’89 il quarto ed ultimo romanzo tondelliano: Camere separate. Il testo è diviso in tre “movimenti”, come fosse una partitura musicale, il primo “Verso il silenzio“, il secondo “Il mondo di Leo” e l’ultimo “Camere separate“.

I tre movimenti disegnano un vero e proprio percorso: si inizia con l’incontro e l’innamoramento tra Leo e Thomas e la morte di quest’ultimo. Il capitolo è costruito attraverso un flash back, all’interno di un aereo, dove sin da subito viene sottolineata l’assenza, la mancanza, verrebbe quasi voglia di affermare il taglio traumatico che la scomparsa di Thomas (per colpa dell’AIDS, – sebbene non ci venga detto, risulta abbastanza chiaro) ha creato nel protagonista.

IL PRESENTE STATO DI QUESTO SOGNO

Solo qualche mese fa ha compiuto trentadue anni. E’ ben consapevole di non avere una età comunemente definita matura o addirittura anziana. Ma sa di non essere più giovane. I suoi compagni di università si sono per la maggior parte sposati, hanno figli, una casa, una professione più o meno ben retribuita. Quando li incontra, le rare volte in cui torna nella casa dei suoi genitori, nella casa in cui è nato e da cui è fuggito con il pretesto degli studi universitari, li vede sempre più distanti da sé. Immersi in problemi che non sono i suoi. Sia i vecchi amici, sia lui, pagano le tasse, fanno le vacanze estive, devono pensare all’assicurazione dell’automobile. Ma quando si trovano occasionalmente a parlarne lui capisce che si tratta di incombenze del tutto differenti e che, nelle rispettive esistenze, rivestono ruoli assolutamente distanti. Così, privato ogni giorno del contatto con l’ambiente in cui è cresciuto, distaccato dal rassicurante divenire di una piccola comunità, lui si sente sempre più solo, o meglio, sempre più diverso. Ha una disponibilità di tempo che gli altri non hanno. E già questo è diversità. Svolge una professione artistica che anche i suoi cosiddetti colleghi svolgono ognuno in un modo differente. Anche questo accresce la sua diversità. Non è radicato in nessuna città. Non ha una famiglia, non ha figli, non ha una propria casa riconoscibile come “il focolare domestico”.
Una diversità ancora. Ma soprattutto non ha un compagno, è scapolo, è solo. L’aereo perde bruscamente quota iniziando la discesa verso Monaco. Lui distoglie lo sguardo dal finestrino e si concentra sui suoi oggetti. Ripone il libro che stava sfogliando, infila gli occhiali nella custodia, spegne la sigaretta. Reclina la testa all’indietro. Tra una ventina di minuti toccherà terra. Immagina Thomas camminare nervosamente nell’atrio degli arrivi internazionali, su e giù, controllando il proprio orologio e gli orari previsti di atterraggio. Vede la sua figura dinoccolata che si dirige impaziente verso alcune vetrine in cui sono esposte scatole di tabacco per pipa e sgargianti confezioni di sigari Avana. Immagina il suo maglione slabbrato, la giacca di lana pesante, i pantaloni di velluto, le scarpe grandi, robuste, di cuoio bordeaux. Vede i suoi liquidi occhi neri, il sorriso largo e disteso, le braccia ossute e calde che come al solito lo abbracceranno, guidandolo deciso verso una qualche Citroën o Renault di quarta mano, parcheggiata lontano. Ma non riesce a sentirne la voce. Vede distintamente l’abbraccio, avverte il profumo della sua pelle, la ruvidezza della sua guancia con la barba di un paio di giorni, vede le sue labbra che soffiano un “Come ti è andato il viaggio?” ma non riesce ad ascoltare il suono, l’inflessione di quella voce. Vede l’abbraccio, ma non lo può sentire.
Emette un profondo sospiro con gli occhi chiusi, la nuca ancora appoggiata sullo schienale abbassato. La hostess gli si accosta rivolgendogli alcune parole. Lui esce lentamente da quel suo abbandono e riporta lo schienale nella posizione prevista dalle manovre di atterraggio. Ha riaperto gli occhi ormai. Una volta di più si rende completamente conto, con una inorridita vibrazione interiore, di quella che banalmente si definisce realtà e che lui preferisce invece chiamare “il presente stato di questo sogno”. Non ci sarà Thomas ad aspettarlo all’aeroporto con la sua Citroën scassata. E non ci sarà nessun amico al posto suo. Poiché Thomas, o almeno tutto ciò che sulla terra aveva questo nome e a questo nome, per lui e per chi lo amava, era riconducibile, non c’è più. Thomas è morto. Da due anni ormai. E lui è sempre più solo. Più solo e ancora più diverso.

E’ evidente che, pur essendo scritto in terza persona, l’autore si identifichi con Leo; l’autobiografismo appare sia nell’età che nell’attività di Leo. Tuttavia la pagina tondelliana cerca, attraverso un registro, pur paratattico, di uscire da una forma quasi espressionistica del dire che aveva caratterizzato le opere precedenti, per assumere viceversa un “movimento lento”, quasi oserei dire impressionistico: il mondo è disegnato a sua misura e si rapporta continuamente al suo pensiero. Leo è così solipsistico già da questa parte iniziale, che capiamo come la sua solitudine riflette la sua incapacità di darsi, e come questo diventi il filo rosso dell’intera narrazione.

Pier Vittorio Tondelli, 25 anni dopo

THOMAS

La luce del primo mattino entra nella stanza. Thomas sta dormendo un sonno leggero fatto di piccoli e impercettibili assestamenti. I suoi occhi si aprono e vedono Leo in piedi accanto al letto, in silenzio, impacciato.
«Buongiorno Thomas» soffia Leo con la voce che trema.
Thomas non risponde al saluto. Gira la testa lentamente verso il braccio in cui ha infilato l’ago ipodermico. Controlla, con quella che sembra una fatica estrema, il livello del flacone di glucosio che lo sta nutrendo. Leo gli si accosta. Lo tocca sulla mano.
«Come stai?»
Thomas lo inquadra nella luce dei suoi occhi neri. Scopre il lenzuolo e fa un cenno con la testa indicandogli il ventre. Una striscia di garza bianca e di cerotti lo attraversa dall’inguine al
centro del petto. Dal fianco sinistro escono alcune cannule scure che scendono verso la parte nascosta del letto. Il padre di Thomas, ritto in un angolo, lo ricopre con un istintivo gesto di pudore. E’ lui che ha telefonato a Leo per dirgli, fra i singhiozzi, di venire a Monaco. «Mio figlio la vuole vedere. Faccia presto perché non abbiamo molto tempo».

Leo si trovava nella sua abitazione di Milano. Ha preso la macchina, ha viaggiato tutta la notte ed è arrivato alla clinica. Sono trascorsi cinque giorni dall’intervento chirurgico e dieci da quando Thomas ha avvertito per la prima volta degli insopportabili dolori al ventre. Fitte che gli scorticavano la carne, bruciori, come di veleni, che gli dissolvevano l’intestino. E l’addome così stranamente, innaturalmente, dilatato.
Leo non si sarebbe mai aspettato di trovarlo così sfiancato. Dimagrito in modo osceno, quasi mummificato. Il volto scavato, tirato sugli zigomi. Le labbra quasi scomparse, ridotte a un esile filo di pelle che non riesce a ricoprire i denti. I capelli rasati a zero. Le braccia e le gambe simili a quelle di un bambino denutrito. E quel ventre enorme, rivoltato e squartato. Del Thomas che ha conosciuto restano solo gli occhi, se possibile ancora più grandi, più larghi, più neri. Sono occhi che si muovono a fatica, che restano praticamente immobili e in cui le pupille sono quasi scomparse. Sono due buchi neri spalancati sul vuoto e che sembrano ossessivamente ripetere una sola cosa: “Non posso, non posso credere che stia succedendo a me.”
«Papà, lasciaci soli, ti prego» dice Thomas. Anche la sua voce, un soffio appena percettibile, è completamente cambiata. Esile, infantile, femminea.
Il padre scuote la testa come per chiedere spiegazioni.
«Ho dei segreti» dice Thomas sforzandosi di sollevare con un sorriso l’imbarazzo del padre. Fa ricorso a un codice familiare, probabilmente a quando era un bambino e si ritirava con gli amici “per i segreti” fuori dalla portata dei genitori.
Il padre guarda Thomas facendogli capire che uscirà. «Solo cinque minuti» aggiunge.
Aspettano in silenzio che l’uomo esca. Rimasti soli Leo si siede sul letto e gli prende la mano portandosela al viso.
«Stringimi la mano, ti prego» dice Leo. «Stringimela forte».
«Ho avuto tanta paura di morire» sussurra Thomas guardando fisso davanti a sé.
Leo deglutisce. Avverte il calore della pelle di Thomas, ma anche la sua assenza. E’ come se l’enormità di quello che ha dovuto sopportare lo avesse già ucciso. Come se il terrore – che lo sta invadendo ora dopo ora, inesorabilmente – lo avesse già completamente annullato. Leo ha visto altre volte quello sguardo. Lo sguardo di un bambino palestinese che sta per essere ucciso. Di un piccolo negro agonizzante accanto al corpo della madre squarciato dalle bombe. Lo sguardo implorante di un piccolo indio dell’Amazzonia davanti allo sterminio della sua razza. Lo sguardo di chi sta morendo e implora senza fiducia un aiuto che non gli verrà dato. Bambini, bambini. E Thomas, bambino, che si rivolge al padre come tanti anni prima.

Leo vede l’ultima volta Thomas nell’istante in cui il suo corpo va inesorabilmente verso la fine. E l’immagine che lo invade è quella di un “bambino”. Leo, così indicibilmente attratto ed innamorato, non sa costruire un amore “adulto”, se non un amore “protettivo”. La rabbia/gelosia che proverà quando, uscito dalla camera di Thomas, si renderà conto che l’esclusività “familiare” che lega il padre al ragazzo morente, lui non è riuscito a ricrearla.

Non è certo la situazione sociale ad impedirlo; é che lui vuole il “riconoscimento sociale” dell’unità Leo e Thomas.

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NON SIAMO SOLI

Un giorno un amico gli aveva detto: «Non vado mai solo quando mi invitano. E’ naturale che se si invita un cinquantenne come me a un pranzo, a una manifestazione o a un convegno costui vada con la moglie. Ora, io ho un compagno da venticinque anni. E da venticinque anni lui mi accompagna ai ricevimenti e ai convegni. Così come io accompagno lui quando viene invitato. E’ il minimo che dobbiamo fare: non permettere che ci invitino soli.»
Da quando aveva sentito per la prima volta queste parole Leo si era adeguato come seguendo una rivelazione. Certo, esisteva il rischio del fraintendimento. Per non dire dell’imbarazzo. Quando spiegava che non sarebbe stato solo e dall’altra parte del cavo telefonico gli rispondevano con sussiego «Ma certo, porti pure sua moglie» e lui invece pregava di prendere nota del fatto che sarebbe stato accompagnato dal signor tal dei tali e che la camera d’albergo avrebbe dovuto essere intestata anche a quest’ultimo, un silenzio, uno schiarimento di voce, un colpo di tosse veniva a introdursi nella conversazione come un tangibile gesto di imbarazzo. Allora lui, dolcemente, spiegava che avrebbe provveduto al viaggio dell’amico, ma non alla sua ospitalità alberghiera. E dall’altra parte il funzionario di turno chiudeva sbrigativamente la conversazione con un remissivo «Come vuole lei».

Ma è solo nel momento del lutto per Thomas che Leo cerca se stesso. La lunga elaborazione dell’assenza fa sì che egli ripercorra l’esperienza di condivisione e possesso, ma anche di paura e ripulsa che il rapporto con Thomas aveva prodotto. E per far questo Leo si rivolge al passato, al sé bambino con un rapporto colla madre contadina, forte e volitiva e con il padre “difficile”, il suo vivere intensamente la religione e la ricerca, ora, come questa religione debba “riconoscere” e quindi “approvare” la sua relazione omosessuale, e soprattutto la ricerca di una “filiazione” che si esplicita nella letteratura, ma che risulta “difficile”, ora che il “figlio amato” non c’è più:

AFFIDARSI ALLE PAROLE

Lui che aveva affidato alle parole, non ancora alla letteratura, non ancora ai libri, ma proprio alle lettere e ai racconti tutta l’ansia e il desiderio di un cambiamento della sua vita, si trova ora annullato dalla mancanza di desiderio per le parole. E, conseguentemente, per le cose. E se guarda fuori di sé, se vede come si comportano gli altri e soprattutto chi siano gli altri che svolgono la sua stessa occupazione si sente precipitato di nuovo in quella classe ginnasiale da cui ha cercato per anni di fuggire. Gli altri parlano ancora di sport, c’è chi, dicono, riesce bene in geografia, chi in scienze naturali, chi in chimica, chi in educazione civica o in storia o in religione. Vede, anche nei suoi coetanei-colleghi, chi è avviato all’Accademia o al Potere nello stesso modo in cui vedeva già il figlio quindicenne del commercialista ereditare con successo lo studio del padre, la presidenza del Rotary o del Lions provinciale, la segreteria cittadina del partito di governo. Vede le carriere e così si sente in trappola ancora una volta. Vuole uscire dalla classe, lasciare i suoi compagni per seguire il proprio destino diverso. Ma ora tutto è più difficile, quasi senza via di uscita, perché Leo è oppresso proprio dai risultati della sua scelta di libertà. Ora non può più scappare. Può solo tacere e defilarsi.
Prende corpo in lui il progetto di scrivere libri per dieci, venti persone. Dei libri espressamente destinati a chi può comprenderlo, agli amici di cui si fida. Che lo rispettano, che gli prestano attenzione, che non giudicano se ha fatto una cosa buona o cattiva, ma che interpretano la disponibilità di partenza, la sua necessità di raccontare qualcosa a qualcuno. Diventa ossessivamente geloso di quello che scrive. Un giorno gli capita di scorgere, in metropolitana, uno sconosciuto che legge un suo libro. Deve scendere, rosso di vergogna. Avrebbe voluto strapparglielo dalle mani, picchiarlo con violenza e insultarlo. E per un attimo gli si è avvicinato obbedendo a queste precise parole: “Ora vado lì e gli spacco la faccia.” Poi è sceso, quasi scappato, sconvolto.
Quando pensa a questo episodio lo colpisce l’idea di essere stato sorpreso, nudo, da uno sconosciuto. Sente insomma quel libro, o altri che ha scritto, come il suo corpo spogliato. Non una emanazione di sé, una proiezione, un transfert, ma proprio, realmente il suo corpo. Leggere quelle pagine è addentrarsi sulla sua pelle e nei suoi nervi, far l’amore con lui, odiarlo, ricordarlo, sognarlo. E questo gli pare intollerabile. Forse, nell’uscire da quella classe ginnasiale, lui ha voluto proprio che così accadesse, ha desiderato darsi in pasto agli altri offrendo il corpo delle sue parole. Ora si sente come una pin-up invecchiata che scopre un ragazzino brufoloso masturbarsi sulle sue foto giovanili, spiare con libidine gli accoppiamenti carnali della sua gioventù. E di tutto questo non prova un piacere narcisistico, al limite della civetteria, ma solo un’idea di vergogna e di morte. Forse allora se lui non scrive, se non vuole più scrivere non è tanto perché gli manca l’ispirazione, non è tanto perché ha perduto Thomas, ma perché sta invecchiando. Perché il suo corpo incomincia a scricchiolare sotto il peso di quanto si è scritto addosso; in sostanza lui si vergogna di quel suo corpo troppo incurvato dalle parole. E allora desiste e ricade nell’inattività.
Ogni giorno che passa si rende maggiormente conto che la perdita di Thomas sta lavorandogli dentro con una dirompenza devastante e catastrofica. Ora, se riesce a circoscrivere razionalmente la scomparsa di Thomas dicendosi “E’ andata così, non posso farci niente” non può assolutamente ripetere la stessa cosa per quello che gli sta succedendo interiormente. Perché non ha la più vaga idea di quello che gli sta succedendo. Per tutto questo ancora non ha parole, né spiegazioni plausibili. L’unica cosa che può fare è porsi in un atteggiamento di attesa. E, riflettendo su questo, si accorge che da mesi e mesi, inconsapevolmente, nelle sale-gioco di Soho o nel suo girovagare fra i night club di Milano, tutta la sua vita altro non è stata che una preghiera di ininterrotta sincerità. Per mesi e mesi tutto quello che ha fatto o ha detto, sia che abbia mangiato, sia che abbia bevuto, dormito o viaggiato, tutto ha fatto in nome e in lode di Thomas. Ha trasformato la sua ossessione in uno sguardo aperto su se stesso. Da quando Thomas è morto la sua sensibilità si è come purificata; e ora cerca di andare verso l’essenziale. In questo senso Thomas non è solo un cadavere che si sente incollato addosso, ma un seme di vita sepolto nella propria mortalità. Lui culla, nel profondo, questo seme, lo scalda, assiste alla sua crescita cercando di crescere con lui. Poiché Thomas nelle sue complicate introiezioni e rimozioni è ormai l’illuminato, il trapassato. Quando lo avevavisto sul letto di morte, avvolto nel sudario, aveva pensato proprio a questo, a Thomas che stava trasformandosi nel Thomas-bambino; che avanzava, in quel breve tempo che la vita ancora gli concedeva, verso l’origine; che si trasformava, attraverso l’enormità della sofferenza, non in qualcosa di diverso, ma in quello che intimamente gli assomigliava di più: una materia infantile precocemente formata e nostalgica della quiete del nulla.
Così quella che lui chiama preghiera, altro non è che un atteggiamento di ascolto delle cose e degli uomini, un osservare e contemplare, che ha a che fare con il suo stesso modo di essere. Non ha altari davanti ai quali inginocchiarsi, non ha templi né simulacri a cui sacrificare; allora celebra come liturgia la vita stessa. Avverte la presenza del sacro come qualcosa di tangibile nella realtà, qualcosa su cui il suo sguardo si posa con devozione. Quando pensa alla preghiera lui si dice: “Io non so pregare, soprattutto non so chi pregare.” Poi ricorda la sua giovinezza, le ore di
meditazione, le discussioni con i sacerdoti, la recita della parola. E la sua mano cerca nella libreria, automaticamente, la Bibbia.

Biglietti da camere separate – Teatri di Vita

Rappresentazione teatrale tratta dal romanzo Camere separate

La parola, non ancora la letteratura, dice Leo. Ma Tondelli fa letteratura e il Leo/Pier Vittorio è proprio colui che, uscito dalla fase della giovinezza, entra in quella in cui un uomo, fatto d’esperienza e capacità di leggersi, può affidare alla pagina le sue paure.

Quello che ci viene detto in questo secondo movimento “Il mondo di Leo” è proprio la costruzione del sè attraverso il ricordo: sembra proprio che l’intero capitolo venga scritto come fosse una novella recherche, un attraversamento in cui Leo possa ricostruirsi nella sua pur difficile identità. E’ che ora tale identità dev’essere costruita in assenza, quasi percepisse la consapevolezza che non si può dare una nuova storia, un nuovo amore, una nuova vita che non sia un ripiegamento verso una consapevolezza di un inaridimento, che lo porti a considerare che per lui, più che condivisione, non ci possono essere che “camere seperate”.

Ed è proprio nel terzo movimento che si arriva ad una chiarificazione, a partire dalla prima: la storia con Thomas, era una vera storia o qualcosa di altro?:

MEGLIO RIMANERE SOLI

Ma il mattino successivo, insieme allo stordimento e al mal di testa, Leo seppe, con una brutalità dolorosa, che non avrebbe mai potuto vivere con Thomas nella stessa casa. Per i due anni in cui erano stati insieme la precarietà geografica del rapporto, il fatto di vivere distanti, era stato uno stimolo a continuare. Ora doveva affrontare seriamente una convivenza con un altro uomo. Ma per fare questo non aveva né modelli di comportamento da seguire, né esperienze da riciclare e alle quali far ricorso nei tentennamenti del rapporto. Sapeva che l’amore che lui continuava a nutrire per Thomas non sarebbe stato sufficiente. Si sarebbero sbranati e lui questo non lo voleva. Si sarebbero feriti, si sarebbero abbandonati. Vivere insieme significava credere in un valore che nessuno era in grado di riconoscere. Che fine avrebbe fatto il loro amore? Dovevano per forza normalizzare un rapporto che la società non poteva appunto recepire come norma? Non sarebbero divenuti lo specchio di quelle convivenze grottesche di omosessuali in cui qualcuno sempre cucina e qualcun altro va sempre al mercato a fare la spesa? In cui i due amanti si assomigliano, negli atteggiamenti, nei modi di fare, addirittura nelle espressioni del viso, al punto da diventare due  patetici replicanti di un medesimo, insostenibile, immaginario maschile, svirilizzato e infemminato? Non sarebbero diventati, nel corso del tempo, due androidi isterici, sempre sul punto di beccarsi nella conversazione, con quella pelle del viso un po’ troppo lucida e tirata e abbronzata e i capelli sempre un po’ troppo perfetti nel nascondere, al millimetro, una calvizie? Sarebbero riusciti ad accettare, dignitosamente, virilmente, l’invecchiamento non solo del proprio corpo, ma del proprio sogno e quindi del proprio amore? Leo non aveva una risposta a tutto questo. Ma era sicuro di una cosa. Che non voleva vivere nella stessa casa, nella stessa città in cui Thomas viveva. Voleva continuare a essere un amante separato, voleva continuare a sognare il suo amore e a non permettergli di infangarsi nella quotidianità. Vivendo insieme sarebbero diventati uno la caricatura dell’altro, come due osceni e imbellettati dioscuri sulla scena di un cabaret berlinese. Lui era certo del suo amore per Thomas, lo voleva per tutta la sua vita, fino alla fine. Ma non nella sua camera. Come avrebbe potuto far capire tutto questo a Thomas senza addolorarlo, senza offenderlo, senza fargli male?
La frattura fu brusca, improvvisa, anche se preparata da giorni di svogliatezze, di contatti trasandati, di contrasti. Ogni giorno si ripeteva la stessa scena. Litigavano e si rappacificavano. Ma ogni volta ognuno aggiungeva nell’altro qualcosa, finché improvvisamente accadde, inevitabile, un traboccamento di odio e di violenza. Thomas lasciò Milano. Questa volta Leo non lo accompagnò, come al solito, al treno. Si alzò solamente per chiudere la porta dell’appartamento con un doppio giro di chiave. Thomas, che aspettava l’ascensore, sul pianerottolo, dovette accorgersi di quegli scatti della serratura e Leo immaginò che ne fosse mortalmente offeso. Si sentì meschino e ridicolo. Ma in fondo era soddisfatto di rimanere solo. Accese lo stereo, staccò il telefono e si sdraiò sul divano con la bottiglia di Calvados in terra. Ne bevve un lungo sorso. Avvertiva il profumo autunnale delle mele, pensava alla Francia e ai suoi viaggi con Thomas che forse non avrebbe fatto più.

E’ che Leo sa “proteggere” non amare, e non saper amare vuol dire non saper condividere. Glielo rinfaccerà Thomas: il “bimbo” Thomas vuole vivere con chi ama; l’ “uomo” Leo vuole fuggire da chi ama, glielo scrive in uno scambio epistolare che dopo la fine della convivenza i due si scmbiano: in queste lettere Leo trova l’espressione “camere separate”, e cerca di spiegare a Thomas che lui “avrebbe voluto, con lui, un rapporto di contiguità, di appartenza, ma non di possesso“.

Tondelli e la conquista della solitudine - Tessere

Ma Thomas è alla ricerca di amore più maturo e lo trova, in una donna, e Leo ne rimane ferito. Perché poi? Sarà proprio Thomas a dirglielo:

TU MI VUOI LONTANO PER POTERMI SCRIVERE

Girarono per oltre un’ora. Thomas si era dapprima appoggiato al grembo di Leo e poi si era addormentato. Leo ne sentiva il respiro regolare e prese a cullarlo. Abbassando gli occhi poteva vedere il suo volto, come concentrato in quell’atto, le narici che si dilatavano, i capelli arruffati e lunghi sul collo. Aveva bisogno di pensare e di muoversi come se, guidando attraverso la città deserta, fosse più facile ossigenare i suoi pensieri, renderli più lucidi.
Durante la notte, solo poche ore prima in realtà, Thomas gli aveva detto: «Tu mi vuoi tenere lontano per potermi scrivere. Se io vivessi con te, non scriveresti le tue lettere. E non mi potresti pensare come un personaggio della tua messinscena. Deve esserci qualcosa di sbagliato anche in me se accetto di amarti a questo prezzo… A volte ti penso come un avvoltoio. E mi fai paura. E’ come se tu avessi bisogno ogni giorno di carne fresca con cui cibarti. Per fare questo  tu laceri, squarci, strappi via. Non ti chiedi chi sia la tua vittima, né se ti sia amica o ti ami o ti sia, al più, indifferente. C’è una voracità, che hai con le persone che ti vivono intorno, che mi spaventa. E questo tanto più perché io so quanto, dentro di te, ci sia solamente un fondo di sincera bontà».

Ed è qui forse il nodo di Leo, quello di osservare vivere e non vivere, secondo l’adagio pirandelliano, per cui: Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina, perché ogni forma è una morte.

E’ la vita di Leo, in tutto il romanzo è una lunga ed estenuante riflessione sulla morte. Eros e Thanatos, perdersi come finire: per questo non vuole più amori, per questo si era conquistato la solitudine:

SOPRAVVIVERE IN PROPRIA COMPAGNIA

E’ vero, negli ultimi anni si è conquistato, faticosamente, la propria solitudine. Ha scoperto di poter sopravvivere in propria compagnia. Ha, come direbbe un guru, ruotato gli occhi verso l’interno per andare lontano, in quello che avrebbe potuto chiamare “il mondo di Leo”. Ma facendo questo lui si è chiuso agli altri. Ritenendo di poter sopravvivere solo in se stesso altro non ha fatto che scambiare delle risposte di morte in risposte di vita. Niente amore, niente passioni, niente amicizie, niente contatti con l’esterno se non per le piccole incombenze della vita quotidiana. Gli era sembrata una soluzione saggia in cui si era, anno dopo anno, adagiato. La sua svogliatezza nei confronti delle amicizie, anche  verso quelle che più delle altre aveva a cuore, era dettata dal fatto che stava concentrandosi su di sé e che per nessun motivo poteva esserne distolto. E ora si accorge che, mentre lui ha dimenticato gli altri, gli altri hanno continuato a ricordarlo, a parlare di lui, a chiedersi della sua vita. E questo fatto lo blocca. E’ come se ora non avesse con Rodolfo alcun codice di comportamento. Gli stanno proponendo un party, qualche ragazzo, un po’ di mondanità. Niente di eccezionale. Offerte comuni. E lui non trova niente di meglio che reagire offendendosi. Perché il fatto reale è che la proposta di Rodolfo lo ha offeso. E lui lo sta disprezzando.

Il critico Severini definisce Camere separate “descrizione impietosa della perdita della prima giovinezza” d’altra parte Leo sembra vivere in un vero e proprio limbo: il suo è quello stare tra un’età fanciullesca e il non essere entrato ancora nel mondo adulto e questa duplicità la si riscontra anche nel suo essere outsider: uscire dal mondo giovanilistico ma non riuscire, o meglio non potere e non volere essere “integrato”.

D’altra parte anche lo stesso Tondelli si era sentito descrivere come autore generazionale ed ora, passati i trent’anni vuole essere percepito uno scrittore che ha trovato la sua maturità letteraria.

Tondelli cerca di costruirla attraverso un racconto metaforico: il limbatico Leo non può che ritrovarsi nello scoprirsi attraverso il ricordo; per questo i rapporti del suo protagonista vengono vissuti su due piani:

1) quello della filiazione;
2) quello religioso;

Il primo è lo strumento attraverso cui Leo  vive i rapporti: le sue storie principali le vive non solo con chi è più piccolo, ma con persone che ancora non sono integrate, studiano, suonano, ma non sono né professori, né ancora completamente musicisti.

Il secondo lo avvicina non solo alla sua infanzia, ma soprattutto al concetto di amore “assoluto” che egli prova per il Thomas morto, ede il volto di Cristo, in processione, il suo essersi sacrificato per gli uomini, la volontà di baciarne il volto il Venerdì Santo, e di scoprire che in quel momento vive la sua prima esperienza sentimentale, fa in modo che Leo viva le sue storie attraverso il dolore e, per non soffrirne, le evita.

Ma abbiamo anche letto nel romanzo l’importanza della letteratuta «Il ruolo dello scrittore – nel quale Leo si riconosce e si accetta – concilia insieme presenza e assenza dalla scena. Camere separate è un romanzo di formazione, certamente non canonico, ma senza dubbio l’unico possibile nel momento storico in cui Tondelli sta scrivendo: è l’individuo che prende coscienza della sua voce in una società postmoderna in cui le istituzioni, la politica, il sistema educativo, la famiglia o il mondo del lavoro non entrano più in rapporto diretto col problema dell’identità» (Campofreda).

Forse Tondelli questa nuova identità l’avrebbe trovata se, nel 1991, la morte per AIDS non l’avrebbe messo a tacere, ma grazie anche alla nuova forma d’intellettuale che seppe imprimere, così inserito in ogni orma d’arte “popolare e non” (il rock, il jazz e il cinema) di cui seppe darne una forma ibrida in due libri Weekend post moderno (sugli anni Ottanta) e  L’abbandono (sugli anni Novanta), in cui raccolse, come un moderno Zibaldone, tutti gli articoli e gli scritti che produsse su L’Espresso, Rockstar, Linus ed altre ed anche abbozzi di scritture altre; oppure facendosi talent scout di una nuova generazione di scrittori di cui raccolse i racconti in ben tre volumi; o ancora la via teatrale con cui partecipò con la piéce Dinner party.

 

GRAZIA DELEDDA

Grazia Deledda nasce nel 1871, quarta di sette figli, a Nuoro da Giovanni Antonio e Francesca Cambosu. Il padre, che ricoprì anche, per un brevissino periodo, il ruolo di sindaco, era un possidente terriero che tentò, senza grandi risultati, anche l’avventura commerciale; ciò rendeva la famiglia Deledda piuttosto agiata, in una realtà così povera e periferica qual era quella della città sarda.

Secondo il costume di allora poté frequentare la scuola sino alla quarta elementare (allora costituiva l’obbligo scolastico), ma la voglia d’istruzione della futura scrittrice fece sì che la ripetesse per un secondo anno. Inoltre un precettore privato l’avvicinò allo studio del latino e del francese.

Da qui ad allora la giovane Grazia si dedicò a letture eterogenee, non distinguendo forse anche per la penuria della biblioteca paterna nonché del luogo, dai tipici feuilleton francesi (Pierre Ponson du Terrail, Eugéne Sue, Alexander Dumas), a scrittici femminili come Carolina Invernizio, ai russi come Dostoevskij e Tostoj, sino alla Bibbia, letta non per il suo valore teologico quanto per le varie storie che in essa era contenute.

Casa di Grazia Deledda a Nuoro

Fu il sardo Enrico Costa (autore de Il muto di Gallura) ad incitarla quando, ancora diciassettenne inviò alla rivista romana L’ultima moda i primi scritti di cui ricordiamo il romanzo Storia di Fernanda e la raccolta di racconti Novelle sarde, ricevendone di contro l’ostracismo della comunità del paese che “si sentì offesa d’ospitare nella sua comunità una fanciulla che bisognava mettere al bando per l’audacia nel raccontare storie non adatte alle giovinette e per le scelte libere dalla rigida sottomissione alle regole di un mondo patriarcale” (Maria Elvira Ciusa).

Enrico Costa

Con il secondo romanzo Anime oneste (1894) l’autrice sarda cominciò ad affacciarsi nel mondo culturale nazionale, ma è con La via del male (1896) che ricevette la patente di scrittrice, datole dall’importante critico letterario Luigi Capuana che scrisse “[…] Qualcuno dirà: Ebbene, che ha voluto provare l’autrice con questa sua Via del male? Niente, rispondo io; ha tentato di metter fuori delle creature vive, e c’è riuscita. Non si è smarrita dietro un lavorodi analisi psicologica, artificiale; ma ha fatto sentire, pensare, agire, tutte quelle creature nel loro ambiente, proprio come fa la natura con le sue.”

Caparbia ed ambiziosa, la Deledda comprende sin da subito che se vuole diventare una scrittrice affermata deve spostarsi dal capoluogo barbaricino e trasferirsi a Cagliari.

Ed  lì che supera la paura di rimanere zitella (aveva, infatti, già ventisette anni e per la mentalità di allora era ormai destinata al nubilato) quando incontrò il mantovano Palmiro Madesani, inviato in Sardegna in qualità di funzionario delle Finanze.

Grazia Deledda e Palmiro Madesani

Dopo il matrimonio Grazia ed il marito, nel 1900, lasciano l’isola. Aveva già dato alle stampe Il vecchio della montagna, mentre stava pubblicando a puntate sulla Nuova Antologia uno dei suoi capolavori Elias Portolu che uscirà in volume nel 1903.

Il protagonista Elias, un pastore barbaricino che a seguito di una condanna sconterà la pena detentiva in un carcere della penisola, dopo la scacercazione ritorna in Sardegna spinto dal desiderio di iniziare una vita nuova. Mentre lavora nell’ovile della famiglia, Elias si innamora di Maddalena, la sposa di suo fratello Pietro, e con lei commette adulterio, mettendola incinta. Lui decide di farsi prete. Prima che nasca il bambino, Pietro muore per un’infiammazione ai reni, e Berteddu viene riconosciuto come suo figlio. Ma a questo punto Elias è sul punto di ricevere gli ordini. Tre giorni prima della cerimonia, Maddalena prega Elias di sposarla e di dichiararsi padre del bambino. Ma Elias è determinato a prendere l’ordinazione sacerdotale e la sua decisione è irrevocabile. Pochi anni più tardi, il figlioletto di Elias e Maddalena, affetto da una grave malattia, morirà.

UOMINI COME CANNE

Elias si sentiva triste; non sapeva come cominciare, e si guardava ostinatamente le mani; zio Martinu capì in quale stato d’animo si trovava il suo giovane amico, e cercò di trarlo d’imbarazzo.
«Elias Portolu,» disse gravemente, «io so quello che vuoi dirmi. Maddalena è innamorata di te.» «Zitto!» disse l’altro con spavento, mettendogli la mano sul braccio. «Ogni piccola macchia porta piccole orecchie!» aggiunse tosto, per scusare il suo turbamento.
«Sì,» rispose con voce grave il “padre della selva”, «ogni piccola macchia, ogni albero, ogni pietra porta orecchie. E che perciò? Ciò che io ho detto e che dirò lo può ascoltare chiunque, cominciando da Dio che è lassù, e terminando nel più misero servo. Maria Maddalena ti ama, tu l’ami; unitevi in Dio, perchè egli vi ha creato l’uno per l’altra.»
Elias lo guardava trasognato; ricordava il colloquio avuto con prete Porcheddu, i consigli, gli avvertimenti avuti in quella indimenticabile notte di San Francesco. A chi dare ascolto?
«Ma è la sposa di mio fratello, zio Martinu!»
«E se è la sposa di tuo fratello? Lo ama forse! No. Dunque non e sua e non sarà mai sua secondo le leggi del Signore. Il matrimonio d’amore è il matrimonio di Dio, quello di convenienza è il matrimonio del diavolo. Salvati, Elias Portolu, e salva la colomba, come la chiama tuo padre. Maria Maddalena accettò Pietro perchè glielo imposero, perchè egli aveva grano, perchè aveva orzo, fave, casa, buoi, terre. Il diavolo operava. Ma Dio aveva destinato altrimenti. Egli ti fece tornare, ti fece incontrare con la ragazza: vi siete visti, vi siete amati, pur sapendo che secondo i pregiudizi degli uomini non potevate neppure guardarvi. Non senti tu in questo una forza superiore all’uomo, che gli addita la sua via? Non è la mano di Dio? Pensaci bene. Elias Portolu; ci pensi, pensato ci hai?»
«È vero. Ma Pietro è mio fratello.»
«Siamo tutti fratelli, Elias Portolu. Pietro non è uno stupido, egli capisce la ragione. Va, digli: “Fratello mio, io amo la tua sposa e lei mi ama; che pensi di fare? Vuoi rendere infelice fratello tuo e quell’altra creatura innocente?»
Elias sentì freddo al solo pensiero di parlar così a suo fratello, e scosse la testa con dolore e con terrore.
«Mai! Mai! Pietro mi ammazzerebbe, zio Martinu!»
«A mio avviso, tu hai paura.»
«Sì, perchè nascondervelo? Ho paura, ma non della morte. È che anche Maddalena sarebbe perduta, e anche Pietro e tutta la mia famiglia. Ma non è solo questa spina che io ho nel cuore, zio Martinu. È che io amo mio fratello e non voglio, anche ammesso che egli si rassegni, che sia infelice.»
«Pietro potrebbe rassegnarsi più facilmente di te; è un carattere diverso dal tuo. Io capisco i tuoi buoni sentimenti, Elias Portolu, ma non li approvo. Pensa alle conseguenze; ci hai pensato mai? Maddalena ti ama perdutamente, io gliel’ho letto negli occhi. Se tu taci, ella sposerà Pietro, verrà a stare a casa tua, e finirete col perdervi, poichè la natura umana è fragile. Lo senti, Elias Portolu? Pensato ci hai? La tentazione si vince oggi, si vince domani, ma posdomani finisce col vincere lei, perchè noi non siamo di pietra. Ci hai pensato, Elias Portolu?»
«È vero, è vero!» disse Elias, con gli occhi pieni di terrore.
Tacquero un momento; intorno a loro il silenzio era intenso, infinito; l’ombra calava sui boschi, il cielo di peonia impallidiva in tenere sfumature di viola. E d’un tratto Elias sentì quella gran pace arcana penetrargli fino al cuore.
«Ma io,» disse con voce mutata, «me n’andrò di casa mia.»
«Prenderai moglie? Bada che ciò sarà forse peggio.»
«No, io non prenderò mai moglie.»
«Cosa farai dunque!»
«Mi farò prete. Voi non vi meravigliate, zio Martinu?»
«Io non mi meraviglio di nulla.»
«Che cosa dunque mi consigliate? Nel sogno che vi raccontai, fatto la prima sera del mio ritorno, voi mi consigliavate di farmi prete.»
«Una cosa è il sogno, un’altra è la realtà, Elias Portolu. Io non ti sconsiglio se tu hai la vocazione, ma ti dico che neppure ciò ti salverà. Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne; pensaci bene.»  

Deledda e la disperazione di Elias

Il brano ci porta dentro il mondo deleddiano in cui si mescolano passioni ancestrali, sensi di colpa, una religiosità “punitiva” che rende i protagonisti della scrittrice sarda quasi schiavi di un destino già segnato. Elias è un uomo che si è trovato di fronte ad una passione che lo ha travolto, andando contro i divieti sociali. Ciò lo condurrà ad una lacerazione interiore che dovrà pagare con il senso della rinuncia, rinuncia a cui non dovrà mai venir meno, perchè solo attraverso essa potrà superare il senso di colpa e diventare così un buon prete.

Sembra qui proporsi il tema nuovo in cui l’ancestrale si scontri con il razionale, il primo rappresentato da Elias e il secondo da zio Martino, ma tutto ciò non viene riprodotto con tecniche innovative: rimane il narratore onniscente che ci guida alla comprensione dei personaggi.

Nel giro di poco tempo si può tranquillamente affermare che la Deledda riesce ad inserirsi a pieno titolo nell’ambiente culturale romano, riuscendo, nel giro di tre anni, a pubblicare altri due romanzi, Dopo il divorzio e Cenere (quest’ultimo ritenuto uno dei suoi migliori e da cui sarà tratto un celebre film muto interpretato da Eleonora Duse), e a conoscere scrittori di una certa risonanza nazionale, come Edmondo De Amicis e Antonio Fogazzaro.

Rosalia “Olì” Derios, appena quindicenne, fa la conoscenza del giovane Anania, mezzadro di un ricco proprietario dei cui campi situati nelle vicinane si prende saltuariamente cura, risiedendo a Nuoro. I due si innamorano. Il padre di Olì scopre che Anania era un uomo sposato e quando il padre si accorge “che sua figlia aveva peccato” con lui, la caccia di casa. Olì si trasferisce a Fonni, a casa di una vedova, e lì partorisce il figlio di Anania, battezzato col nome paterno. In seguito si reca col figlio, ormai di sette anni, a Nuoro, e lo introduce a casa del padre, facendo poi perdere le proprie tracce. Tatàna, la moglie di Anania padre, si affeziona al bimbo e lo terrà con sé. Anania padre, a Nuoro, gestisce un frantoio di proprietà di Daniele Carboni, sindaco della città. Quest’ultimo, avendo appurato l’intenzione del giovane Anania di intraprendere una professione, si assume l’onere di accompagnarlo negli studi. Passano gli anni, e, quando Anania è studente ginnasiale, fra lui e la figlia di Carboni, Margherita si instaura un rapporto amoroso. Le differenze di classe sociale si fanno sentire, e Anania soffre della condizione di figlio illegittimo, e teme che questo fatto possa inficiare fra loro due. Anania si trasferisce prima a Cagliari, dove frequenta il liceo e i primi anni universitari, poi a Roma, per completare gli studi. Il rapporto con Margherita prosegue, sebbene Anania perseverasse nel voler  rintracciare la madre e starle vicino. Cercata in lungo e in largo, e alla fine l’aveva ritrovata non lontana da Fonni, terribilmente invecchiata. Anania vuole provvedere a lei, anche se ciò avrebbe potuto significare la fine del suo rapporto con Margherita, essendo Olì disonorata e degradata. Quando Anania torna a Nuoro il rapporto con Margherita ha tristemente termine. Anania viene richiamato a Fonni, e lì vi trova la madre morta, suicida.

E’ evidente come in questo romanzo emergano più di un riferimento letterario. Partiamo dall’Assommoir di Zola:

NEL MOLINO

La sera, poi, si riunivano intorno al fuoco della caldaia le persone più freddolose del vicinato: per lo più la compagnia veniva composta, oltre che dal mugnaio e dai clienti, che aiutavano a spingere la sbarra del torchio, da cinque o sei individui sempre alticci. Uno di questi, Efes Cau, già ricco possidente, ridotto in estrema miseria dal vizio del vino, dormiva quasi ogni notte nel molino, infestando di insetti l’angolo dove si coricava. Una sera, appunto, sorse questione fra il mugnaio ed un ricco contadino che aveva trovato un brutto insetto in un suo sacco di olive. 
«Dovresti vergognarti, per Dio!» gridava il contadino. «Perchè lasci entrare qui tutti i vagabondi di Nuoro?» 
«Dopo tutto egli era ricco, più ricco di te!» gridò il mugnaio, difendendo il Cau. 
 «Questo non impedisce che ora egli viva di elemosine e sia pieno di insetti,» rispose l’altro con disprezzo. 
Allora zio Pera l’ortolano, che stava seduto accanto al fuoco col suo randello fra le ginocchia, recitò una canzonetta: 

Onzi pessone bia
nde juchet de munnia.
E tue chi tu sers nende
nde juches unu andende
issu collette!

Il contadino si toccò istintivamente il colletto e tutti risero. Anche il contadino rise, si calmò ed anzi fece portare da casa sua un bottiglione di vino.
Anania e Bustianeddu, seduti in un angolo, sulle sanse calde, si divertivano nell’udire i discorsi dei grandi: e quando arrivò Efes, come sempre ubriaco, barcollante, vestito d’un vecchio abito da caccia del signor Carboni, Bustianeddu gli andò incontro e gli cantò la canzonetta di zio Pera.

Onzi pessone bia…

Efes lo guardò coi suoi occhi vitrei, rotondi e sporgenti, e mentre sulle sue guancie gialle e cascanti passava come un brivido di disgusto, la sua mano palpava il lurido collo della giacca abbottonata. 
La gente ricominciò a ridere, e l’infelice si guardò attorno e barcollò; poi si mise a piangere accorgendosi che lo deridevano. 
«Efes!» gridò zio Pera, mostrandogli un bicchiere colmo che al riflesso del fuoco pareva di rubino. 
L’ubriaco si avanzò, sorridendo fra le lagrime con un sorriso ebete. 
«No,» disse Franziscu Carchide, il giovane calzolaio, nonchè ricamatore di cinture, bel giovine galante, dal viso roseo, «se tu non balli non bevi.» 
E preso il bicchiere dalle mani del vecchio lo sollevò in alto, mentre Efes guardava e tendeva le braccia animato dal brutale desiderio del vino. 
«Dammi, dammi...» 
«No, se non balli, no.» Egli fece un giro intorno a sè, reggendosi in equilibrio. 
«Bisogna anche cantare, Efes!» 
Ed egli apri la bocca puzzolente ed emise una nota rauca:

Quando Amelia sì pura e candida

Egli tentava sempre questo motivo; ma arrivato all’ultima parola contorceva la bocca come spasimando per la vana ricerca dell’altro verso che non ricordava. Anania e Bustianeddu ridevano sgangheratamente, accoccolati sulle sanse, simili a due pulcini. «Senti,» propose Bustianeddu, «mettiamogli delle spille, nel posto dove si corica.» «Perchè vuoi mettergli delle spille?» «Perchè si punga, ecco: allora ballerà davvero. Io ho le spille.» «Mettiamole,» rispose l’altro, sebbene a malincuore. L’ubriaco ballava ancora, barcollante, cascante, tendendo le mani verso il bicchiere; e la gente rideva. Ma l’allegria giunse al colmo quando entrò nel molino Nanna, l’ubriacona. Quella sera, però, ella era sana, aveva le vesti pulite e la faccia meno ripugnante del solito; i suoi occhietti brillavano d’una certa intelligenza. Era stata durante il giorno a cogliere erbe mangerecce selvatiche, e veniva a domandare un po’ d’olio per condirle. Vedendo Efes in quello stato, fatto ludibrio della gente, ella ebbe un lampo negli occhi; si avanzò, prese l’infelice per un braccio e nonostante le comiche proteste del ricco contadino, lo costrinse a sedersi su un sacco di olive.

Eleonora Duse interprete di Cenere dal romanzo della Deledda

al Manzoni dell’Addio ai monti:

ADDIO ALL’ORTHOBENE

Addio, addio, orti guardanti la valle; addio scroscio lontano del torrente che annunzia il tornar dell’inverno; addio canto del cuculo che annunzia il tornar della primavera; addio grigio e selvaggio Orthobene dagli elci disegnati sulle nuvole come capelli ribelli d’un gigante dormente; addio rosee e cerule montagne lontane; addio focolare tranquillo e ospitale, cameretta odorosa di miele, di frutta e di sogni!
Addio umili creature inconscie della propria sventura, vecchio zio Pera vizioso, Efes e Nanna disgraziati, Rebecca infelice, Maestro Pane stravagante, pazzi, mendicanti, delinquenti, fanciulle belle e inconsapevoli, bambini votati al dolore, gente tutta infelice o spregevole che Anania non ama ma sente attaccata alla sua esistenza come il musco alla pietra, gente tutta che egli abbandona con gioia e con dolore!
E addio dolcezza e luce sopra tanti oscuri dolori, arcobaleno incurvato come cornice di perle sul quadro screpolato di una miseria antica ed eterna, – Margherita, addio!

Il monte Ortobene

a momenti idillici ricchi di eco dannunziani:

PRIMA DELLA PARTENZA

Un’agitazione febbrile invase Anania; senza esitare oltre uscì e camminò come un sonnambulo per le straducole buie e deserte. Dietro i muri dei cortili, nelle rozze tettoie delle case paesane, i galli continuavano i loro canti dispettosi; l’aria umida odorava di stoppia; una povera infornatrice di pane d’orzo, che tornava dal compiere il suo faticoso mestiere, attraversò una viuzza; il passo di due alti carabinieri risuonò sinistramente sul lastrico del Corso: poi più nessuno, più nulla.
Anania rasentava i muri, pauroso d’esser riconosciuto nonostante il buio, e appena impostata la lettera si mise a correre. Ma non potè rientrare a casa; gli pareva di soffocare, aveva bisogno d’aria, di immensità. Scese verso lo stradale di Orosei, risalì il ciglione, e solo quando si trovò ai piedi dell’Orthobene respirò, aprendo le narici come un puledro sfuggito al laccio. Avrebbe voluto gridare di gioia e di spasimo. Albeggiava; tenui veli azzurrognoli coprivano le grandi valli umide, le ultime stelle svanivano. Non sapeva perchè Anania ripeteva i versi:

Care stelle dell’Orsa io non credea….

e cercava di ricacciare da sè il pensiero di ciò che aveva fatto, mentre se ne sentiva felice fino allo spasimo.
egli sarebbe al di là delle montagne, e Margherita penserebbe invano all’ignoto ranuncolo che l’amava e che era lui.
Ed ecco, una cinzia cantò nel suo nido selvaggio, nel cuore d’un elce, e nella sua nota tremolò tutta la poesia del luogo solitario; Anania ricordò allora il canto di un altro uccellino entro l’umido fogliame d’un castagno, in una lontana mattina d’autunno, lassù, lassù, in una di quelle montagne dell’orizzonte, e rivide un bimbo che scendeva lieto la china, ignaro del proprio triste destino.
“Anche adesso,” pensò rattristandosi, “anche adesso sono lieto di partire, e chissà invece che cosa mi aspetta!”

Il richiamo ad autori e “mode” culturali, ancora imperanti nell’Italia dei primi anni del Novecento, rendono questo romanzo non perfettamente riuscito, in quanto la scrittrice non riuscire a volte a trovare una propria cifra stilistica, ma ad inseguire le attese e le abitudini letterarie di lettori piccolo borghesi. D’altra parte la Deledda, anche in questo caso, mettendo in luce la storia di “un figlio del peccato” e dall’impossibilità, per lui, di non pagarne il fio, se non con il sacrificio della madre, rafforza le aspettative di tale pubblico, anche se lo problematizza facendo di Anania uno sconfitto incolpevole.

A Roma la scrittrice trova proprio un personale modus operandi: a farle da press agent sarà il marito, dando così il modo a Pirandello di ironizzare sulla coppia allora in auge con il romanzo Giustino Roncella nato Bocciolo, mentre lei si dedicherà alla lettura e alla scrittura due ore al giorno nel pomeriggio.

Grazia Deledda con Palmiro Madesani e i figli Sardus e Franz

Sarà in questo modo che continueranno ad uscire romanzi e racconti, tra cui  il più importante e quello che gli darà fama internazionale sarà Canne al vento del 1913.

Nella casa delle dame Pintor, Ruth, Noemi, Ester, discendenti di una famiglia sarda nobile andata in rovina, il servo Efix riesce a tenere in vita l’antica dignità a prezzo di grandi fatiche e di una devozione senza fine alle padrone. Egli coltiva l’ultimo podere rimasto, con i proventi del quale si mantengono le sorelle: due Ruth ed Ester, ormai rassegnate in un malinconico limbo di memorie e di antiche tradizioni, Noemi invece ancora ricca di sangue giovane, ribelle e chiusa in sdegnosa solitudine. In passato, una quarta sorella, Lia, che si era rifiutata all’egoismo del padre, era fuggita nel continente. Alla sua fuga aveva assistito, testimone silenzioso e forse innamorato, Efix, forse colpevole involontario della morte del padre che aveva tentato di fermare la figlia fuggiasca: nessuno, tuttavia, è al corrente del segreto, la morte del padre essendo stata attribuita a disgrazia. Ora, morta Lia, torna nella terra materna Giacinto, il figlio di lei, e nella vecchia casa irrompono ricordi, risentimenti, speranze, passioni dimenticate. Giacinto conduce una vita dissipata e finisce per ridurre alla rovina le zie: quando egli si allontana in cerca di lavoro, le dame Pintor sono costrette a vendere il podere a don Predu, cui Noemi, soggiogata da un rapporto di amore odio per il nipote, ha rifiutato la mano. Solo più tardi, dopo l’allontanamento di Efix dalla casa che egli crede maledetta per il delitto di cui si accusa, il suo successivo ritorno e il matrimonio di Giacinto con Grixenda la figlia della vecchia serva Pottoi, Noemi accetta le nozze ed Efix trova finalmente pace. Egli muore il giorno stesso delle nozze di Noemi: a Ester aveva detto: «Siamo canne, e la sorte è il vento!», e alla richiesta del perché del destino, Efix aveva risposto: «E il vento perché? Dio lo sa!»

Canne al vento: sceneggiato RAI

L’USURAIA POTTOI, IL SERVO EFIX E IL GIOVANE GIACINTO

Nei tempi di carestia, cioè nelle settimane che precedono la raccolta dell’orzo, e la gente, terminata la provvista del grano, ricorre all’usura, la vecchia Pottoi andava a pescare sanguisughe. Il suo posto favorito era una insenatura del fiume sotto la Collina dei Colombi presso il poderetto delle dame Pintor.
Stava là ore ed ore immobile, seduta all’ombra di un ontano, con le gambe nude nell’acqua trasparente verdognola venata d’oro; e mentre con una mano teneva ferma sulla sabbia una bottiglia, con l’altra si toccava la collana.
Di tanto in tanto si curvava un poco, vedeva i suoi piedi ondulare grandi e giallastri entro l’acqua, ne traeva uno, staccava dalla gamba bagnata un acino nero lucente che vi si era attaccato, e lo introduceva nella bottiglia spingendovelo giù con un giunco. L’acino s’allungava, si restringeva, prendeva la forma di un anello nero: era la sanguisuga.
Un giorno, verso la metà di giugno, ella salì fino alla capanna di Efix. Faceva un gran caldo e la valle era giù tutta gialla sotto il cielo d’un azzurro velato.
Il servo intrecciava una stuoia, all’ombra delle canne, con le dita che tremavano per la febbre di malaria; vedendo la vecchia che gli si sedeva ai piedi con la bottiglia in grembo, sollevò appena gli occhi velati e attese rassegnato, quasi sapesse già quello che ella voleva da lui.
«Efix, sei un uomo di Dio e puoi parlarmi con la coscienza in mano. Che intenzioni ha il tuo padroncino? Egli viene a casa mia, si mette a sedere, dice al ragazzo: suona la fisarmonica (gliel’ha regalata lui), poi dice a me: manderò zia Ester, a chiedervi la mano di Grixenda; ma donna Ester non si vede, e un giorno che io sono andata là, donna Noemi mi ha preso viva, e morta m’ha lasciata, tanti improperi mi ha detto. Tornata poi a casa, Grixenda m’ha anche lei mancato di rispetto, perchè non vuole che vada dalle tue padrone. Io non so da qual parte rivolgermi, Efix; non siamo noi che abbiamo chiamato il ragazzo dalla strada: è venuto lui. Kallina mi dice: cacciatelo fuori. Ma lei lo caccia fuori, quando ci va?»
Efix sorrise.
«Là non va certo per far all’amore!…»
Allora la vecchia sollevò irritata il viso e il suo collo parve allungarsi più del solito, tutto corde.
«E in casa mia viene forse a far all’amore? No; egli è un ragazzo onesto. Neppure tocca la mano a Grixenda. Essi si amano come buoni cristiani, in attesa di sposarsi. Dimmi in tua coscienza, Efix, che intenzioni ha? Fammi questa carità, per l’anima del tuo padrone.»
Efix diventò pensieroso.
«Sì, una sera, alla festa, egli mi disse: la sposerò…. In mia coscienza credo però che egli non possa.»
«Perchè? Egli non è nobile.»
«Non può, ripeto, donna!» disse Efix con più forza.
«Per denari ne ha, questo si vede. Spende senza contare. E il tuo padrone morto diceva, mi ricordo, quando anche lui veniva a sedersi a casa mia ed era giovine e viveva mia nonna: l’amore è quello che lega l’uomo alla donna, e il denaro quello che lega la donna all’uomo.»
«Lui? Diceva così? A chi?»
«A me, sei sordo? Sì a me. Ma io avevo quindici anni ed ero senza malizia. Mia nonna cacciò via di casa don Zame e mi fece sposare Priamu Piras. E Priamu mio era un valent’uomo: aveva un pungolo con una lesina in cima e mi diceva, avvicinandomelo agli occhi: vedi? ti porto via la pupilla viva se guardi don Zame quando ti guarda. Così passò il tempo. Ma i morti ritornano: eccoli, quando don Giacintino sta seduto sullo sgabello e Grixenda sulla soglia della porta, mi par di essere io e il beato morto…»
Quando ella incominciava a divagare così non la finiva mai, ed Efix che lo sapeva la mandò via infastidito.
«Andate in pace! Cercate anche voi un uomo con un buon pungolo, per nipote vostra!»
E la vecchia contenta di sapere che il ragazzo una sera alla festa aveva detto: “la sposerò” andò via senz’altro. Efix rimase solo in faccia alla luna rossa che saliva tra i vapori cinerei della sera, ma si sentiva inquieto: nel sopore in cui tutta la valle era immersa, il mormorio dell’acqua gli pareva il ronzio della febbre, e che i grilli stessi col loro canto si lamentassero senza tregua.
No, la vita che Giacinto conduceva non era quella di un giovane onesto e timorato di Dio: giorno per giorno le grandi speranze fondate su lui cadevano lasciando posto a vere inquietudini. Egli spendeva e non guadagnava; ed anche il pozzo più profondo, pensava Efix, ad attingervi troppo si secca.

Anchise Picchi: Canne al vento (1968)

A guardare con attenzione questo brano ci dimostra come la prosa deleddiana sia il frutto di varie influenze: da quella verista come appare nel suo incipit, con annesso, alla fine, l’uso dei proverbi: anche il pozzo più profondo ad attingervi troppo si secca; a quella lirica come nella descrizione di alcuni particolari: il servo intrecciava una stuoia, all’ombra delle canne, con le dita che tremavano per la febbre di malaria; allo stesso modo sono presenti i richiami anche ad una cultura ancestrale: ti porto via la pupilla viva se guardi don Zame quando ti guarda.

LA PARTENZA DI EFIX

Anche il viso di donna Noemi, curva cucire nel cortile, era velato d’ombra.
Efix colse una viola del pensiero dall’orlo del pozzo e andò a offrirgliela. Ella sollevò gli occhi meravigliati e non prese il fiore.
«Indovina chi glielo manda? Lo prenda».
«Tu l’hai colto e tu tienilo»
« No, davvero, lo prenda, donna Noemi».
Sedette davanti a lei, per terra, a gambe in croce come uno schiavo, prendendosi i piedi con le mani: non sapeva come cominciare, ma sapeva già che la padrona indovinava. Infatti Noemi aveva lasciato cadere la viola in una valletta bianca della tela; le batteva il cuore; sì, indovinava.
« Donna Ester, dov’è?» disse Efix curvandosi sui suoi piedi. « Come sarà contenta, quando saprà! Don Predu mi aveva fatto tornare in paese per questo…»
«Ma cosa dici, disgraziato?»
«No, non mi chiami disgraziato! Sono contento come se morissi in grazia di Dio in questo momento e vedessi il cielo aperto. Sono stato in chiesa, prima di tornar qui, e ringraziare il Signore. In coscienza mia, è così…»
«Ma perché, Efix?» ella disse con voce vaga, pungendo con l’ago la viola. «Io non ti capisco».
Egli sollevò gli occhi: la vide pallida, con le labbra tremanti, con le palpebre livide come quelle di una morta. È la gioia, certo, che la fase sbiancare così; e degli prova un tremito, un desiderio di inginocchiarsi davanti a lei e dirle: sì, sì, è una grande gioia, donna Noemi, piangiamo assieme.
«Lei accetta, donna Noemi, padrona mia? È contenta, vero? Devo dirgli che venga?»
Ella fece violenza a se stessa; si morsicò le labbra, riaprì gli occhi e il sangue torno a colorile il viso, ma lievemente, appena intorno alle palpebre e sulle labbra. Guardò Efix ed egli rivide gli occhi di lei come nei giorni terribili, pieni di rancore e di superbia. L’ombra ridiscese su di lui.
«Non si offenda se gliene parlo io per il primo, donna Noemi! Sono un povero servo, sì, ma sono chiuso come una lettera. Se lei accetta, don Predu manderà il prete a fare la domanda, o chi vuol lei…»
Noemi butto giù la viola ferita e se rimise a cucire. Pareva tranquilla.
«Se Predu ha voglia di ridere, rida pure; non m’importa nulla».
«Donna Noemi!»
«Ebbene, che hai adesso? Levati, non star lì inginocchiato, con le mani giunte! Sei stupido!»
«Ma donna Noemi, che ha? Rifiuta?»
«Rifiuto»
«Rifiuta? Ma perché, donna Noemi mia?»
«Perché? Ma te lo sei dimenticato? Sono vecchia, Efix, e le vecchie non scherzano volentieri. Non parlarmene più».
«Questo solo mi dice?»
«Questo solo ti dico».
Tacquero. Ella cuciva: egli aveva sollevato le ginocchia e si stringeva in mezzo le mani giunte. Gli pareva di sognare, non capiva. Finalmente alzò gli occhi e si guardò attorno. No, non sognava, tutto era vero; il cortile era pieno di sole e d’ombra: qualche filo di legno cadeva dal balcone come cadono le foglie dei pini in autunno; e al di là del muro si vedeva il monte bianco come di zucchero, e tutto era soave tenero come al mattino quando egli era uscito dalla casa di don Predu. Gli pareva di sentire ancora le donne a sbattere i mobili; ma erano colpi sulla sua persona; sì, qualche cosa lo percoteva, sulla schiena, sulle spalle, sulle scapole e sui gomiti e sui ginocchi e sulle nocche delle dita. E donna Noemi era lì, pallida, che cuciva, cuciva, che gli pungeva l’anima col suo ago: e le rondini passavano incessantemente in giro, sopra le loro teste, come una ghirlanda mobile di fiori neri, di piccole croci nere. Le loro ombre correvano sul terreno come foglie spinte dal vento: ed egli ricordò la pena provata nell’alzarsi di sotto al pulpito e l’ombra sul viso della Maddalena. Sospirò profondamente. Capiva. Era il castigo di Dio che gravava su di lui.
Allora, piano piano, cominciò a parlare, afferrando il lembo della gonna di Noemi, e non capiva bene ciò che diceva, ma doveva essere un discorso poco convincente perché la donna continuava a cucire e non rispondeva, di nuovo calma e con un sorriso ambiguo sulle labbra.
Solo dopo ch’egli parve aver detto tutto, tutte le miserie passate, tutti gli splendori da venire, ella parlò, ma piano, sollevando appena gli occhi quasi parlasse con gli occhi soltanto.
«Ma non prenderti tanto pensiero, Efix, non immischiarti oltre nei fatti nostri. E poi lo sai: abbiamo vissuto finora; non siamo state bene, finora? Che ci è mancato? E ti diremo avanti, con l’aiuto di Dio: il pane non mancherà. In casa di Predu c’è troppa roba e non saprei neppure custodirla».
Efix meditava, disperato. Che fare, se non ricorrere a qualche menzogna?
«Eppoi devo dirle cose gravi, donna Noemi mia. Non volevo, ma lei, con la sua ostinazione, mi costringe. Don Predu è tanto preso che se lei non lo vuole morrà. Sì, è come stregato, non dorme più. Lei non sa cosa sia l’amore, donna Noemi mia; fa morire. È Poca coscienza far morire un uomo…»
Allora Noemi rise e i suoi denti intatti luccicare sino in fondo come quelli di una fanciulla follemente allegra. Quel riso fece tanto male a Efix, lo irritò, lo rese maligno e bugiardo.
«Eppoi Un’altra cosa più grave ancora, donna Noemi! Sì, mi costringe a dirgliela. Don Giacinto minaccia di tornarsene qui… Intende?»
Ella smise di cucire, si drizzò sulla vita, si piegò indietro col viso per respirare meglio: le sue mani abbrancare la tela.
Ed Efix balzò su spaventato, credendo che ella stesse per svenire.
Ma fu un attimo. E la torno a guardarlo coi suoi occhi cattivi e disse calma: «Anche se torna non c’e piu nulla da perdere. E non abbiamo bisogno di nessuno per difenderci».
Egli raccolse di terra la viola e andò a sedersi sulla scala, come la notte dopo la morte di donna Ruth. Non si domandava più perché Noemi rifiutava la vita: gli sembrava di capire. Era il castigo di Dio su di lui: il castigo che gravava su tutta la casa. Ed egli era il verme dentro il frutto, era il tarlo che rodeva il destino della famiglia. Appunto come il tarlo egli aveva fatto tutte le sue cose di nascosto: aveva roso, roso, roso, adesso si meravigliava se tutto sera sgretolato intorno a lui? Bisognava andarsene: questo solo capiva. Ma un filo di speranza lo sosteneva ancora, come lo stelo ancor fresco sosteneva la viola livida che egli teneva fra le dita. Dio non abbandonerebbe le disgraziate donne. Andato via lui, donna Noemi, forse offesa dalla stessa maniera dell’ambasciata, si piegherebbe. Dopo tutto, due donne sole non possono vivere.
Bisognava andare. Come aveva fatto, a non capirlo ancora? Gli sembrò che una voce lo chiamasse: e una voce lo chiamò davvero, al di là del muro, dal silenzio della strada.
S’alzò e s’avviò: poi tornò indietro per riprendere la Bisaccia attaccata al piuolo sotto la loggia. Il piuolo, fisso lì da secoli, si staccò e balzò fra i ciottoli del cortile come un grosso dito nero. Egli trasalì. Sì, bisognava andarsene: anche il piuolo si staccava per non sostener più la bisaccia.
E con sorpresa di Noemi, che aveva seguito con la coda dell’occhio tutti i movimenti di lui, egli non riattaccò il piuolo, e s’avviò.

Edizione originale di Canne al vento

E’ questa una pagina in cui l’arte della Deledda emerge con evidenza. Sebbene non manchi un eccessivo intervento dell’autrice, vediamo qui come il tema della colpa d’espiare (la morte del padre delle sorelle, in questo caso di Noemi, di cui Efix s’incolpa) l’eros tabuizzato di Noemi emergano attraverso i gesti: l’accovaciarsi a gambe incrociate, la viola donata e punta, come felicità rifiutata, il volo delle rondini analogicamente accostate ad un destino funesto; elementi che hanno fatto accostare l’autrice ad una sensibilità decadente; tuttavia in questoi caso l’influenza di letture suggestionanti (gli uccelli con il simbolo della croce rimandano alle Myricae pascoliane, di solo due anni antecedenti) non inficiano la scrittura deleddiana vche comincia ad acquisire una propria asciuttezza stilistica.

La Deledda non poteva non incontrare all’interno delle sue storie, una delle figure più carismatiche della cultura sarda, quella del bandito. D’altra parte essa aveva già avuto, nella cultura verista, un antecedente illustre nella novella di Verga L’amante di Gramigna. E’ evidente che la Deledda lo inserisca all’interno di una storia fatta di divieti tra l’impulso dell’eros e quello della convenzione sociale; ma non è nemmeno un caso che non sarà lui ad essere il portatore del mondo ideologico della Deledda, ma la donna, il cui nome dà il titolo al romanzo  Marianna Sirca del 1915.

Amore rosso (tratto da Marianna Sirca) film del 1952

Marianna Sirca è una ricca proprietaria terriera che si innamora di uno dei più famosi banditi della zona, Simone Sole. L’amore è ricambiato da Simone, tanto che questi è disposto a sposare Marianna nonostante tutte le difficoltà che si interpongono fra loro e le tradizioni familiari. Alla fine, fra mille bugie e sotterfugi, Simone decide di lasciare Marianna per non rinunciare alla sua libertà e per evitarle gravi problemi con i componenti della famiglia, soprattutto con Sebastiano Sirca, cugino di Marianna, innamorato di lei e nemico di Simone. Il loro rapporto terminerà definitivamente in maniera tragica con la morte di Simone per mano di Sebastiano.

 

LA LIBERTA’ DI MARIANNA

Era sola e tranquilla; nulla le mancava; aveva intorno a sé il suo vasto patrimonio custodito da un servo fidato e d’animo semplice qual era suo padre; e laggiù a Nuoro la sua casa era anch’essa custodita dalla serva fedele che alla notte non dormiva per vegliare contro i ladri.
Nulla le mancava: eppure ripiegata su se stessa, si guardava dentro, con piena coscienza di sé, e vedeva un crepuscolo, sereno, sì, ma crepuscolo: rosso e grigio, grigio e rosso e solitario come il crepuscolo della tanca.
Le sembrava di esser vecchia; si rivedeva bambina in quel luogo medesimo, la prima volta che l’avevano condotta lassù e qualcuno le aveva sussurrato all’orecchio: “se sarai brava tutto questo sarà tuo.” E lei s’era guardata attorno, coi suoi occhi placidi, senza meraviglia e senza desiderio, pure rispondendo di sì. E gira di qua, gira di là, non troppo lontano per non smarrirsi, aveva trovato un nascondiglio, una pietra scavata come una culla, e vi si era messa dentro, tutta contenta di essere sola, padrona di tutto, ma nascosta a tutto: e le pareva di essere come il nocciolo dentro il frutto, come l’uccellino dentro l’uovo. Così, rannicchiata, contenta che i pastori non la prendessero per la sottanina, al suo passare, e le dicessero ammiccando: “mi presti il tuo posto, Marianna?” s’era anche addormentata. Ed ecco si svegliava, dopo tanti anni. Ne aveva trenta, adesso, e ancora neppure conosceva l’amore. L’avevano allevata apparentemente come una ragazza di famiglia nobile, destinata ad un ricco matrimonio; in realtà la sua vita era stata quella di una serva sottomessa non solo ai padroni ma ai servi di maggior grado di lei.  

LA LIBERTA’ DI SIMONE

«Lo vedi? Ti ha ingannato. E chi sa se tu, conoscendo tutta la verità, avresti pronunziato quella parola! Chi sa mai nulla? Tu credi che Simone ti lasci per amore, per debolezza, e invece ti lascia per vanità o per coraggio, forse… Chi sa mai nulla? Intanto io non ti ho detto tutto, disgraziata. Non ti ho detto che quei tre di un anno fa sono venuti ancora a cercare Simone, e lo hanno lusingato, adulato, e il più giovane, Bantine Fera, ha riso sapendo Simone innamorato, ed ha sputato in segno di disprezzo sapendo che Simone voleva sposarsi in segreto e presentarsi al giudice. Ecco perché Simone ti lascia: perché ha vergogna di amare. Io avevo un bel predicare: un bel dirgli: “Simone, bada alla tua coscienza, Simone, non rendere infelice una donna che ti ama”. Finché è stato davanti a me, soli, ha riso di me e delle mie prediche; lui è il più forte, o si crede il più forte, e si capisce che ascoltava solo il suo desiderio. Ma venuto l’altro, Bantine Fera, che è più forte di lui, si è piegato; ma per fingere anche a se stesso che è forte, ha tirato fuori la solita scusa: che non sapeva cosa si faceva, ch’era ammaliato, che tu lo avevi ammaliato, ma che ora vuol essere forte, libero, generoso. Perché Bantine Fera ha abbandonato una donna (che non valeva neppure l’unghia tagliata del dito mignolo del tuo piede, Marianna!) anche lui ti abbandona. E ti ama, Marianna! Chi non deve amarti? Scendessero i giganti dal monte si piegherebbero davanti a te. Ma egli vuole imitare Bantine Fera: ed egli esagera; per imitarlo, gli corre davanti come il cane corre davanti al cavallo!»

Banditismo sardo primi Novecento

Questi due brani metteno bene in luce l’impossibilità di realizzazione dell’amore tra Marianna e Simone, quasi fosse ciascuno “geloso” della propria libertà. Ma, a leggere il romanzo, non è così. Il bandito Simone Sole non è un personaggio negativo: vive in lui (e nel suo nome) un codice accettato dalla comunità in quanto egli si è fatto bandito perchè non vi era altro modo per uscire dallo stato di servaggio cui era destinato. Costretto dalla situazione a doversi occupare della famiglia e delle sorelle, si era dato alla latitanza, ma non aveva mai ucciso nessuno. D’altra parte gli altri banditi (il più feroce Bantine Fera, anche qui nomen omen) vengono visti dal giovane Simone come sostitutivi di un padre che lui non ha conosciuto.

Permangono in questo caso nella narrativa della Deledda, elementi che ci riportano alla visione di un bandito di maniera, d’ascendenza romantica, cui la scrittrice ci dà gesti che ci rimandano ad una adolescenza non pienamente vissuta, come se Marianna potesse rappresentare anche una figura protrettrice materna, come quando lui le pioggia il capo nel grembo.

Tutto il romanzo è pervaso da elementi naturalistici  che simboleggiano lo stato d’animo, raffigurando le montagne d’Oliena e la loro solitudine come specchio della solitudine dei personaggi.

Un’altra delle prove più riuscite della Deledda è senz’altro La madre (1919), più che un romanzo una novella lunga in cui riappaiono i suoi classici temi: la colpa e la lotta per sconfiggerla attraverso un sacrificio. In questo caso la colpa è rappresentata dall’amore “impossibile” tra il prete Paulo e la bella Agnese ed il sacrificio di Maria Maddalena:

La protagonista è Maria Maddalena, madre di Paulo, il parroco di Aar (nome immaginario), un paesino sui monti sardi. Paulo si è innamorato della giovane Agnese, che vive sola, e ben presto fra i due nasce una relazione amorosa. Paulo è diviso fra l’amore per Dio e quello per la bella parrocchiana. Maria Maddalena, che tanti sacrifici ha fatto nella sua vita per allevare il figlio, scopre la relazione e inizia a tormentarsi. A un certo punto Paulo, spinto da sensi di colpa, decide di lasciare Agnese, la quale in un primo momento vorrebbe vendicarsi rendendo nota la vicenda all’intera comunità. Ma la donna infine rinuncia al suo proposito: ciò nonostante la madre di Paulo, profondamente provata dal dolore e dall’angoscia, muore all’improvviso in chiesa, lasciando nel prete un grande rimorso.

Immagine di copertina del romanzo deleddiano

PAULO E LA MADRE

Attraversò le stanzette seguendo quel sentieruolo di luce, inciampò sullo scalino dell’uscio di cucina e arrivò fino al focolare con le mani tese in avanti come per salvarsi dalla caduta.
«E perché siete ancora alzata?», domandò con tono brusco.
La madre si volse, pallidissima nel viso, ancora improntato dalla maschera del sogno; era ferma, però, quieta, quasi dura: i suoi occhi cercavano gli occhi del figlio, mentre lui sfuggiva quello sguardo.
«Ti aspettavo, Paulo. Dove sei stato?»
Egli sentiva che qualunque parola che non fosse la verità, sarebbe stata fra loro due una commedia inutile: eppure bisognava mentire.
«Da una malata», rispose subito.
La sua voce forte parve per un attimo dissipare il cattivo sogno. Un attimo. La madre s’illuminò di gioia: poi l’ombra le ricadde sul viso, sul cuore.
«Paulo», disse piano, abbassando gli occhi con un senso di vergogna, ma senza esitare oltre, «avvicinati, devo parlarti.»
E sebbene egli non s’avvicinasse, continuò sottovoce, come parlandogli all’orecchio: «Lo so, dove sei stato. È da parecchie notti che ti sento uscire; e questa sera ti son venuta appresso, e ho veduto dove entravi. Paulo, pensa a quel che fai».
Egli taceva: pareva non avesse sentito. La madre tornò a sollevare gli occhi; lo vide alto sopra di lei, d’un pallore di morte, immobile sulla sua ombra sul muro come Cristo sulla croce. E avrebbe voluto che egli gridasse, protestando la sua innocenza. Egli invece ripensava al grido dell’anima sua davanti alla porta della chiesa: ed ecco che Dio l’aveva inteso e gli mandava incontro la madre stessa per salvarlo. Desiderò piegarsi, caderle sul grembo, pregarla di condurlo subito via così un’altra volta dal paesetto; e nello stesso tempo sentiva il mento tremargli per l’umiliazione e la rabbia: umiliazione di vedere la sua debolezza scoperta; rabbia di essere stato sorvegliato e spiato. Eppure soffriva anche per il dolore che dava a lei.
Pensò subito che non solo bisognava salvarsi, ma salvare anche le apparenze.
«Mamma», disse avvicinandosi e posandole una mano sulla testa; «vi dico che sono stato da una malata.»
«Non vi sono malati in quella casa.»
«Non tutti i malati stanno a letto.»
«E allora tu sei malato più della donna che vai ad assistere, e bisogna che ti curi. Paulo, io sono una donna ignorante, ma sono tua madre: e ti dico che il peccato è una malattia peggiore di ogni altra perché intacca l’anima. Eppoi», aggiunse prendendogli la mano e tirandolo giù perché egli si piegasse e ascoltasse meglio, «non sei tu solo che devi salvarti, figlio di Dio… Pensa che non devi perdere l’anima di lei… e neppure portarle danno in questa vita.»
Egli si era piegato alquanto, ma tosto si raddrizzò come una verga d’acciaio: la madre lo aveva colpito al cuore. Sì, era vero, in tutta quell’ora d’inquietudine, dopo lasciata la donna, non aveva pensato che a sé solo.
Tentò di ritirare la mano, da quella dura e fredda di lei, ma la sentì stretta in modo insostenibile; ed ebbe l’impressione di essere legato, arrestato, condotto in carcere.
Di nuovo pensò a Dio. Era Dio che lo legava; bisognava lasciarsi condurre; ma provava anche l’irritazione e la disperazione dell’arrestato colpevole, che non vede via di scampo.
«Lasciatemi», disse aspro, ritirando a forza la mano, «non sono più un ragazzo, e vedo da me il mio bene e il mio male.»
Allora la madre si sentì gelare tutta: le parve ch’egli le avesse confessato il suo errore.
«No, Paulo, tu non vedi il tuo male. Se tu lo vedessi non parleresti così.»
«E come dovrei parlare?»
«Dovresti non gridare, e dirmi che non c’è nulla di male, fra te e la donna. Invece, questo tu non dici, perché in tua coscienza non puoi dirlo: e allora è meglio che tu non parli. Non parlare: non te lo domando; ma pensa bene a quello che fai, Paulo…»
Paulo infatti taceva, scostandosi lentamente: arrivato in mezzo alla cucina si fermò, aspettando ch’ella proseguisse.
«Paulo, io non ho altro da dirti, e non voglio dirti più nulla. Ma parlerò di te con Dio.»
Allora egli le balzò di nuovo accanto, parve volesse percuoterla; i suoi occhi luccicavano.
«Basta!» gridò. «Fareste bene davvero a non parlare più di questo; né con me né con nessuno. Tenetevi per voi le vostre immaginazioni.»
Ella si alzò, dura, ferma: lo afferrò per le braccia e lo costrinse a guardarla negli occhi; poi lo lasciò e tornò a sedersi, con le mani intrecciate sul grembo e i pollici che si premevano e si facevano forza l’uno con l’altro.

Mario Monicelli: Proibito (1954) tratto da La madre della Deledda

E’ questo un brano dove l’incontro/scontro vive quasi il momento del rovesciamento sacramentale: è il parroco che deve confessarsi alla figura che meglio conosce la sua anima, la madre. Ma è proprio perché lei è capace di leggergli l’anima, che mette a nudo il suo senso di colpa, che rende palese il suo venir meno al dovere, che viene a svelare le contraddizioni che l’uomo Paulo vive.

Forse non siamo ancora nella critica del celibato, come in qualche modo lo era stato per la monacazione forzata (a partire dal Manzoni fino ad arrivare a Verga), ma siamo invece nella descrizione virtuosa di un personaggio tolstojano: Maria Maddalena rappresenta infatti la coscienza pura posta di fronte al male (rappresentato in tutta la storia dal vento, simbolo che acquista valenza demoniaca)

L’EPILOGO IN CHIESA

Egli sentiva quel soffio di morte.
Come nelle mattine rigide di gennaio, aveva la punta delle dita ghiacciate; il tremito alla nuca lo scuoteva più forte. Quando si volse per la benedizione, vide Agnese che lo guardava. I loro occhi s’incontrarono, in un baleno di luce, ed egli, come gli annegati che vanno a fondo, ricordò in quell’attimo tutta la gioia della sua vita, unica gioia tutta venuta dall’amore di lei, dal primo sguardo, dal primo bacio di lei.
La vide alzarsi col suo libro in mano.
«Dio mio, sia  fatta  la tua  volontà», gemette  inginocchiandosi; e gli  parve di essere davvero nell’Orto degli Ulivi, sotto l’imminenza del destino inevitabile.
Pregava ad alta voce, ed aspettava; e tra il mormorìo delle preghiere gli sembrava di sentire il passo di Agnese che si avanzava verso l’altare.
«Eccola… s’è alzata dalla panca, è nello spazio fra la panca e l’altare. Eccola… è lì che cammina: tutti la guardano. È lì alle mie spalle.»
L’ossessione   lo   riprese   così   forte   che   la   voce   gli   si   fermò   in   gola.  Vide   Antioco,   che   già cominciava a spegnere i ceri, volgersi d’improvviso e guardare; e non ebbe più dubbio. Ella era lì, alle sue spalle, sui gradini dell’altare.
Si alzò; gli parve di toccare la volta con la testa e di sentirsi schiacciare; le ginocchia gli si piegavano di nuovo, ma con uno sforzo riuscì a risalire il gradino e ad andare verso l’altare per riprendere la pisside.
E volgendosi per rientrare in sagrestia vide Agnese che dalla sua panca s’era avanzata fino alla balaustrata e s’apprestava a salire i gradini.
«Dio, Signore, perché non mi hai permesso di morire?»
Egli piegò la testa sulla pisside; e parve esporre la nuca pallida al colpo di scure che doveva ferirlo.
Avanzandosi verso l’uscio della sagrestia vide però Agnese che si piegava anche lei, inginocchiandosi sul gradino sotto la balaustrata.
Ella aveva urtato col piede il primo gradino sotto la balaustrata e come se una muraglia le si fosse d’improvviso alzata davanti, si era piegata sulle ginocchia. Non poteva andare più oltre. Un fitto velo le offuscava gli occhi.
Solo dopo qualche momento rivide i gradini, il tappeto giallastro ai piedi dell’altare, l’altare fiorito e la lampada accesa.
Ma il prete era scomparso: al suo posto un raggio obliquo di sole attraversava l’aria e metteva una macchia d’oro sul tappeto.
Ella si fece il segno della croce, s’alzò e andò verso la porta. La serva la seguiva: i vecchi, le donne, i fanciulli si volgevano a guardarla e le sorridevano e la benedicevano con gli occhi, come la loro padrona, il loro simbolo di bellezza e di fede: tanto lontana da loro eppure in mezzo a loro e alla loro miseria come la rosa canina in mezzo al rovo.
Prima di uscire, la serva le porse con la punta delle dita l’acqua santa, e sulla porta si chinò per sbatterle con la mano la polvere del gradino dell’altare che le era rimasta sulla veste.
Nel sollevarsi vide il viso pallidissimo di Agnese rivolto verso l’angolo della chiesa ov’era la medre del prete: e questa che stava immobile, seduta contro la parete, con la testa piegata sul petto, e pareva facesse forza a raggere appunto la parete come avesse tomore che crollasse.
Una donna, accorgendosi dell’attenzione di Agnese e della serva, si volse anche lei a guardare; poi d’un balzo s’accostò alla madre del prete, la chiamò sottovoce, le sollevò il viso con la mano.
Gli occhi della madre erano socchiusi, ma vitrei, e la pupilla era salita in su, scomparsa; il rosario le cadde di mano, la testa si piegò sul fianco della donna che la reggeva.
«È morta», gridò la donna.
In un attimo tutti furono in piedi, tutti in fondo alla chiesa.
Paulo intanto era già rientrato nella sagrestia, con Antioco che riportava il libro degli Evangeli.
Tremava: tremava di freddo e di gioia; aveva veramente l’impressione di uno scampato da un naufragio, e sentiva il bisogno di muoversi, per scaldarsi, per convincersi che tutto era stato un sogno.
Un rumore confuso di voci, dapprima lieve, poi sempre più forte, saliva dalla chiesetta, Antioco sporse la testa dall’uscio e vide tutta la gente laggiù ferma in fondo, come se la porta fosse ostruita; ma già un vecchio saliva gli scalini dell’altare facendo dei cenni misteriosi.
«La madre si sente male.»
Paulo fu giù di volo, ancora rivestito del càmice, e s’inginocchiò, stretto dalla folla, per guardare meglio la madre distesa sul pavimento con la testa sul grembo di una donna.
«Madre, madre?»
Il viso era fermo e duro, gli occhi socchiusi, i denti ancora stretti nello sforzo di non gridare.
Egli intese subito ch’ella era morta della stessa pena, dello stesso terrore che egli aveva potuto superare.
E anche lui strinse i denti per non gridare, quando sollevò gli occhi e nella nuvola confusa della folla che gli si accumulava attorno incontrò gli occhi di Agnese.

“Nella serie dei colloqui tra madre e figlio la tensione narrativa acquista sempre più luce: ma non si risolve. Né l’angoscia dei cuori smarriti trova sbocco quando finalmente vediamo il prete Paulo di fronte alla donna di cui è innamorato e che ora è deciso a lasciare. Il dramma dell’esistenza non può aver compimento verbale. Solo affermandosi nell’azione l’individuo determina il suo destino: è la forma suprema di agire e quella che rinnega l’agire stesso, rovesciandosi nella rinuncia, nel sacrificio, infine nella morte. Tale è il paradosso mistico che sorregge la solennità tormentosa dell’ultimo episodio, la messa celebrata da Paulo in presenza dell’amante Agnese e della madre Maria. Nessuno scambio di parole: nel silenzio, il prete vittorioso sulla sua carne si ritrova in comunione d’amore spirituale con la donna abbandonata; smettendo i propositi di vendetta, costei recupera il senso del dovere morale e sociale; la madre infine, che salvando il figlio ha dato più intera testimonianza di sé, silenziosamente muore, addossata al muro della chiesa.” (Vittorio Spinazzola).

In questo breve romanzo emerge una scaltrezza compositiva che lo rende meno enfatico e quindi più asciutto rispetto ad altre prove: gli elementi simbolici non vengono palesati dalla narratrice, ma appaiono rivissuti tra i protagonisti; si pensi al vento che sferza nel paese, come afflato diabolico che spinge al peccato, si pensi alla redenzione di Paulo, vissuta con quell’apparizione del sole durante la messa, pennellate descrittive che tuttavia rendono il racconto carico di un atmosfera non definita, evanescente.

L’attività letteraria di Grazia Deledda è ricca, ancora capace di offrire sia romanzi, la cui ambientazione esuli da quella sarda come Annalisa Bilsini (1927) od opere dall’ambiente vago, ma capaci d’interpretare le più importanti innovazioni letterarie di allora come Il paese del vento (1931) o affrontando la malattia che già la minava La chiesa della solitudine (1936) ultimo romanzo pubblicato in vita – morirà lo stesso anno.

Grande è stata, inoltre, la sua produzione novellistica, iniziata già nel 1894 con Racconti sardi e proseguita con Il nonno (1906), Il fanciullo nascosto (1915) e Il flauto nel bosco (1923), giusto per citare alcune tra le più famose raccolte.

Nel 1926 l’Accademia di Svezia gli assegna il premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione “Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale, e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”.

La data in cui le venne conferito il premio non può esimerci da una piccola riflessione sui rapporti tra la Deledda ed il fascismo. Ci racconta Maria Elvira Ciusa nella bella biografia a lei dedicata:

Dopo qualche giorno fu invitata a Palazzo Venezia. Nella Sala del Mappamondo la Deledda donava Mussolini una sua immagine e riceveva in cambio un ritratto fotografico del Duce con dedica autografa. Quando le fu chiesto cosa il regime potesse fare per lei, rispose: «Niente. Si poteva far ritornare dal confino un uomo buono e giusto.» Elia Sanna, che aveva acquistato la casa Natale della Deledda, ritornò a Nuoro senza sapere che avesse interceduto per lui. Ad un alto funzionario che l’accompagnava insieme al marito all’uscita da Palazzo Venezia e chiedeva alla scrittrice: «Ora lei scriverà per il regime», rispondeva in modo lapidario: «L’arte non ha politica». Dopo questo fatto i librai ricevettero l’ordine di non pubblicizzare le sue opere e i proventi sulle percentuali delle vendite dei suoi romanzi diminuirono, come rilevò in seguito l’editore Treves alla stessa Deledda.

Qualcuno reputa il suo libro più intenso, quello pubblicato postumo, nel 1937 con dapprima il titolo Cosima quasi Grazia, e poi solo Cosima

COSIMA

La casa era semplice, ma comoda: due camere per piano, grandi, un po’ basse, coi pianciti e i soffitti di legno; imbiancate con la calce; l’ingresso diviso in mezzo da una parete: a destra la scala, la prima rampata di scalini di granito, il resto di ardesia; a sinistra alcuni gradini che scendevano nella cantina. Il portoncino solido, fermato con un grosso gancio di ferro, aveva un battente che picchiava come un martello, e un catenaccio e una serratura con la chiave grande come quella di un castello. La stanza a sinistra dell’ingresso era adibita a molti usi, con un letto alto e duro, uno scrittoio, un armadio ampio, di noce, sedie quasi rustiche, impagliate, verniciate allegramente di azzurro: quella a destra era la sala da pranzo, con un tavolo di castagno, sedie come le altre, un camino col pavimento battuto. Null’altro. Un uscio solido pur esso e fermato da ganci e catenacci, metteva nella cucina. E la cucina era, come in tutte le case ancora patriarcali, l’ambiente più abitato, più tiepido di vita e d’intimità.
C’era il camino, ma anche un focolare centrale, segnato da quattro liste di pietra: e sopra, ad altezza d’uomo, attaccato con quattro corde di pelo, alle grosse travi del soffitto di canne annerite dal fumo, un graticcio di un metro quadrato circa, sul quale stavano quasi sempre, esposte al fumo che le induriva, piccole forme di cacio pecorino delle quali l’odore si spandeva tutto intorno. E attaccata a sua volta a uno spigolo del graticcio, pendeva una lucerna primitiva, di ferro nero, a quattro becchi; una specie di padellina quadrata, nel cui olio allo scoperto nuotava il lucignolo che si affacciava a uno dei becchi. Del resto tutto era semplice e antico nella cucina abbastanza grande, alta, bene illuminata da una finestra che dava sull’orto e da uno sportello mobile dell’uscio sul cortile. Nell’angolo vicino alla finestra sorgeva il forno monumentale, col tubo in muratura e tre fornelli sull’orlo: in un braciere accanto a questi si conservava, giorno e notte accesa e coperta di cenere, un po’ di brage, e sotto l’acquaio di pietra, presso la finestra, non mancava mai, in una piccola conca di sughero, un po’ di carbone; ma per lo più le vivande si cucinavano con la fiamma del camino o del focolare, su grossi treppiedi di ferro che potevano servire da sedili. Tutto era grande e solido, nelle masserizie della cucina; la padella di rame accuratamente stagnate, le sedie basse intorno al camino, le panche, la scansia per le stoviglie, il mortaio di marmo per pestare il sale, la tavola e la mensola sulla quale, oltre alle pentole, stava un recipiente di legno sempre pieno di formaggio grattato, e un canestro di asfodelo col pane d’orzo e il companatico per i servi.

Disegno per Cosima

Gli oggetti più caratteristici stavano sulla scansia; ecco una fila di lumi di ottone, e accanto l’oliera per riempirli, col lungo becco e simile a un arnese di alchimista: e il piccolo orcio di terra con l’olio buono, e un armamento di caffettiere, e le antiche tazze rosse e gialle, e i piatti di stagno che parevano anch’essi venuti da qualche scavo delle età preistoriche: e infine il tagliere pastorale, cioè un vassoio di legno, con l’incavo, in un angolo, per il sale.
Altri oggetti paesani davano all’ambiente un colore inconfondibile: ecco una sella attaccata alla parete accanto alla porta, e accanto un lungo sacco di tessuto grezzo di lana, che serviva da mantello e da coperta al servo: e la bisaccia anch’essa di lana, sulla quale alla notte dormiva, quando era in paese, lo stesso servo, pastore o contadino che fosse.
(…)
A questo portone, una mattina di maggio, si affaccia una bambina bruna, seria, con gli occhi castanei, limpidi e grandi, le mani e i piedi minuscoli, vestita di un grembiale grigiastro con le tasche, con le calze di grosso cotone grezzo e le scarpe rustiche a lacci, più paesana che borghese, e aspetta, dondolandosi, che passi qualcuno o qualcuno si affacci a una finestra di fronte, per comunicare una notizia importante. Ma la strada, stretta e sterrata, in quell’ora fresca del mattino è ancora deserta come un sentiero di campagna, e nella vecchia casa di contro, anch’essa con l’alto muro di un cortile a fianco e un portone rossastro, non si vede nessuno.
(…)
Odori di campagna vengono dal fondo della strada; il silenzio è profondo, e solo il rintocco delle ore e dei quarti suonati dall’orologio della cattedrale, lo interrompono. Passano le rondini a volo, sul cielo azzurro denso, un po’ basso come nei paesaggi dei pittori spagnoli, ma anche le rondini sono silenziose. Finalmente una finestra si apre nella casa di fronte, e un viso bruno, coi grandi occhi velati dei miopi, si sporge a guardare qua e là negli sfondi della strada. È la signorina Peppina, la nipote del canonico. La bambina si solleva tutta, afferrandosi allo spigolo del portone per allungarsi meglio, e grida la notizia per lei importantissima: «Signora Peppina, abbiamo un bambino nuovo: un Sebastianino». Risultò poi che era una femmina: ma la bambina desiderava un fratellino; e se lo era inventato, col nome e tutto.

I ricordi di bambina che riafforano nella sua casa romana, forse quando lei era già consapevole della malattia, si caricano di valenze che vanno al di là di una pura e semplice descrizione d’oggetti: la classica cucina sarda, il suo mobilio, le presenze evocate umane, il silenzio di una città piccola, provincia fra le più lontane d’Italia, riescono in lei ad assumere quel carattere atemporale che sembra trascolorare in forma mitica.

Non c’è qui alcun sentimentalismo, ma una incredibile capacità di rendere e renderci uno spaccato che va al di là del puro verismo.

Pietro Novellini: Riratto di Grazia Deledda

La critica si è spesso divisa sulla figura e sul valore  letterario dell’opera di Grazia Deledda, nonostante il successo internazionale ed il premio Nobel. Posta tra la fine dell’esperienza verista, la sua posizione periferica sembra averla relegata come una tarda descrittrice di una realtà così lontana e quasi esotica come quella sarda; ma le sue storie, così cariche di impulsi repressi, credenze ancestrali e quindi atemporali, elementi simbolici tra paesaggi fortemente evocativi e stati d’animo problematici sembrano avvicinarla a nuove esperienze decadenti.

Certo non si può dire che la scrittrice sarda sia aliena da influenze culturali, ma a caratterizzare la sua scrittura sta sia la sua auto formazione, fatte di letture le più disparate, sia l’impulso “quasi naturale” del narrare. Infatti la sua vocazione appare sin da subito più parte integrante della sua personalità e tale vocazione trova forma soprattutto nella lettura biblica, che le offre sia la semplicità del dettato e la sua esemplarità su ciò che è colpa e peccato. Vi è in lei quasi l’intuizione di come questa colpa, in una realtà così chiusa ed ancestrale come quella nuorese, vada a riferirsi sempre in un impulso represso dell’eros, coercizzandolo come se fosse l’unico modo attraverso cui l’uomo possa essere “salvato” dal peccato originale. Ed è qui che sta la sua peculiarità, non per niente apprezzata da David Herbert Lawrence autore del celeberrimo L’amante di Lady Chatterley.

 

 

 

 

 

GAIO LUCILIO

 Busto di Lucilio

Con questo autore ci muoviamo su un  genere, la satira appunto, che i Romani rivendicano come proprio. Infatti non esiste nessun genere simile nella letteratura greca e il grande oratore Quintiliano, vissuto nel I secolo dopo Cristo, poteva affermare orgogliosamente che la Satura quidem tota nostra est (la satira certamente è tutta nostra) è dà la palma di tale “invenzione” a Gaio Lucilio.

Se sarà proprio Lucilio a definire la satira come genere, discussa è viceversa la sua origine, e quindi la parola che la definisce (da cui deriva il nostro termine di “satira” e “satirico”, che può derivare da:

  • da Satyris, perché in questo genere di poesia sono contenute parole buffe e scurrili quali potevano essere pronunciate dai Satiri. Ma questi ultimi appartengono alla mitologia greca, pertanto come ipotesi ci sembra lontana dalla verità;
  • dalla lanx satura, piatto in cui venivano mescolate insieme varie primizie, offerto agli dei durante una cerimonia religiosa;
  • dalla satura specie di “polpettone” formato da vari ingredienti;
  • lex per saturam (legge per satura) proposta di legge che comprendeva diversi argomenti.

Il primo a utilizzare questo genere fu Ennio, che ne compose 4 libri di vario argomento, di cui ci rimangono pochi frammenti, ma come già detto, Quintiliano, vissuto nell’età dei Flavi, la fa derivare da Lucilio, cui seguiranno in età augustea Orazio, quindi Persio e Giovenale.

Tale genere, in ultimo si potrebbe come un’opera poetica, di natura composita, che, col tempo, verrà composta in esametri, il cui scopo è colpire e criticare i vizi altrui; tale genere potrebbe definirsi, quindi, come un genere morale.

Notizie biografiche

Poco sappiamo della sua vita. Alcuni riferiscono che Gaio Lucilio sia nato a Suessa Aurunca (posta nel confine tra Lazio e Campania) nel 148 a.C. Altri preferirebbero anticipare tale data per almeno una ventina d’anni, quindi datare la sua nascita tra il 180 e 167 a. C.  Sappiamo invece con certezza che morì nel 102.  Se dovessimo accettare tale datazione potremo indicarlo come contemporaneo di Terenzio, ed infatti fu, come il commediografo latino, intimo della casa degli Scipioni, ma con un’enorme differenza: nei pochi anni intercorsi tra la sua frequentazione e quella del commediografo con gli Scipioni, l’importanza della famiflia degli Scipioni era enormemente accresciuta. Inoltre non bisogna dimenticare che Lucilio frequentava la loro casa da pari a pari, a dimostrazione che la sua estrazione era certamente aristocratica, se possedeva secondo le fonti, latifondi in Sicilia, Sardegna, Lazio e Campania. 

 

Moneta risalente al 280, 260 a.C ritrovata a Sessa Aurunca

Satura

Lucilio fu un uomo di vastissima cultura che non solo conosceva la cultura che lo precedeva (Ennio, come visto, aveva di certo scritto satire, ma di cui possediamo pochissimi versi) ma la contemporanea e, soprattutto quella greca. Questa conoscenza le permise di essere un reale innovatore in quanto:

  • Per la prima volta un poeta poté esprimere in maniera diretta il suo mondo e il modo con cui si rapporta con la realtà;
  • La schiettezza e la volontà parodica o “violenta” con cui attaccava i nemici e li derideva;
  • Ad essere protagonista vi era un “io”, i cui versi – come scrive lui stesso – nascono ex praecordis, cioé nell’intimo del suo animo, che sceglie di essere poëta, rinunciando ai negotia politici ed economici;

La sua opera era composta da 30 libri e certamente l’ordine con cui l’opera ci è stata trasmessa non corrisponde alla scrittura: i primi libri sono presumibilmente gli ultimi scritti. Ciò lo possiamo affermare dalla metrica: certamente infatti le ultime satire vennero scritte in esametro, che è il verso che andava sempre più affermandosi nella letteratura latina, mentre i primi, che i grammatici posero per ultimi, presentano versi vari, alcuni ripresi dalla commedia. I temi che egli affronta sono molto vari: ad esempio dobbiamo citare il tema del viaggio, d’amore, del banchetto, temi che saranno tutti ripresi, poi, dai poeti posteriori. Ma, come detto precedentemente, forte è il tema moralistico, anch’esso ripreso da Orazio che farà di questo genere un vero e proprio “classico”.

Pochi sono i frammenti che possediamo di quest’opera. Ci piace ricordare questi versi: 

IL VALORE DELL’UOMO

Virtus, Albine, est pretium persolvere verum
quis in versamur, quis vivimus rebus, potesse,
virtus est homini scire id quod quaeque habeat res,
virtus scire homini rectum, utile quid sit, honestum,
quae bona, quae mala item quid inutile, turpe, inhonestum,
virtus quaerendae finem re scire modumque,
virtus divitiis pretium persolvere posse,
virtus id dare quod re ipsa debetur honori,
hostem esse atque inimicum hominum morumque malorum
contra defensorem hominum morumque bonorum,
hos magni facere, his bene velle, his vivere amicum,
commoda praeterea patriai prima putare,
deinde parentum, tertia iam postremaque nostra

Virtù, Albino, è poter assegnare il giusto prezzo alle cose fra cui ci troviamo e fra cui viviamo, virtù è sapere che cosa per l’uomo è retto, utile, onesto, e poi quali cose sono buone, quali cattive, che cos’è inutile, turpe, disonesto; virtù è saper mettere un termine, un limite al guadagno, virtù poter assegnare il suo vero valore alla ricchezza, virtù dare agli onori quel che veramente gli si deve: esser nemico e avversario degli uomini e dei costumi buoni, questi stimare, a questi voler bene, a questi vivere amico; mettere inoltre al primo posto il bene della patria, poi quello dei genitori, il terzo e ultimo il nostro.

E’ questo il frammento più lungo e più celebre di Lucilio, figlio della filosofia stoica che si seguiva nel circolo degli Scipioni. Ma ci dà inoltre un vivido esempio di come dovesse essere il comportamento e quale invece esso era, sottolineando un forte moralismo e una rigidezza di costumi che, ben diversa da quella di Catone, cercava di stigmatizzare il vizio delle classi al potere.

 

GIACOMO LEOPARDI

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Biografia

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Monaldo Leopardi e Adelaide Antici

Giacomo Leopardi, nasce a Recanati, piccolo centro all’interno dello Stato Pontificio, il 29 giugno del 1798, dal conte Monaldo e da Adelaide Antici. L’ambiente sociale e il periodo storico nel quale Giacomo si forma è quello della Restaurazione reso ancora più pesante dal vivere in un luogo considerato periferia di uno Stato che si faceva forza nel combattere qualsiasi forma di modernità e nel contrastare ferocemente le idee della Rivoluzione Francese.

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Casa Leopardi a Recanati nella seconda dell’800

La famiglia Leopardi, nel piccolo borgo, per nome e nobiltà è abbastanza prestigiosa, ma non altrettanto ricca. Gran parte del denaro era stato infatti speso dal conte Monaldo nell’arricchimento di una cospicua biblioteca, che non solo raccoglieva classici greci e latini, ma anche opere più antiche come quelle in ebraico e più moderne, in lingua francese, appartenenti, addirittura al pensiero illuminato. Il giovane Giacomo trascorre la sua infanzia insieme ai fratelli a lui più vicini, Carlo e Paolina, con cui condivide momenti e giochi. Comincia, tuttavia, a mostrare i segni della sindrome di Pott, che ne influenza la crescita: tutto ciò verrà accentuato dagli anni in cui, con determinazione, deciderà di acquisire quanta più conoscenza possibile, passando dagli 11 ai 18 anni, che lui stesso definirà  “sette anni di studio matto e disperatissimo”, nella biblioteca paterna di oltre ventimila volumi, ed uscendone con una perfetta conoscenza del greco e del latino, nonché dell’ebraico, ma fortemente minato nel fisico.

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La biblioteca a casa Leopardi (oggi con il busto del poeta)

Ma perché lo fece?

Spiegarlo come meccanismo psicologico in risposta alla solitudine che lo attanagliava, può sembrare semplicistico. Ma dobbiamo tener presente l’aridità di affetti da cui si sentiva circondato. Il grido d’amore che egli espresse gli fece infatti rappresentare in casa, in età ancora infantile, due tragedie e scrivere a quindici anni opere d’estrema erudizione, come Storia dell’astronomia e a diciassette il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Infatti, come ci dice nello Zibaldone (una sorta di diario di riflessioni che tenne tra il 1817 e il 1832) il padre, che pur lo amava immensamente, s’aspettava da lui onore e successo, la madre, bigotta oltre ogni limite, per cui era meglio un figlio morto piccolo affinché non cadesse nel peccato, gli diede una fame d’amore che poteva ottenere solo mostrandosi genialmente eccezionale. Tutto ciò, per la sua estrema sensibilità e capacità, poteva accadere solo con la cultura.

Le traduzioni di allora, soprattutto quella del II libro dell’Eneide, della Batracomiomachia pseudomerica e degli Idilli di Mosco (poeta greco di cui ci sono pervenute liriche, ma di cui non si sa nulla) e la non comune preparazione filologica lo misero in contatto epistolare con l’intellettuale Pietro Giordani (di idee liberali) che lo posero contro il reazionario Monaldo, ma soprattutto gli diedero la misura dell’arretratezza culturale e dell’isolamento del luogo in cui viveva. E’ di questi anni il passaggio “dall’erudizione al bello” come lui stesso, nello Zibaldone lo definirà e in un passo più tardi della “conversione letteraria” che maturò a partire dal 1816. Dopo il possesso degli strumenti tecnici, Leopardi, infatti, approfondisce i temi o, per meglio dire, la bellezza della poesia omerica, virgiliana e oraziana, e comincia anch’egli a comporre canzoni come All’Italia e Sopra il monumento di Dante, che testimoniano l’allontanamento dal conservatorismo e bigottismo della sua famiglia.

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Pietro Giordani

L’amicizia con Giordani, conosciuto personalmente a Recanati nel 1818, non solo aiutarono la sua maturazione, ma lo misero in contatto con gli intellettuali più in vista della penisola italiana. Ed è proprio l’affacciarsi al dibattito culturale che avveniva allora in Italia, alimentato dall’articolo della De Staël, che gli permise di porsi in modo attivo nella discussione di allora, per rispondere in modo del tutto originale rispetto alle teorie allora correnti, con la Lettera ai compilatori italiani della Biblioteca italiana (1816), rimasta inedita, confluita poi nel più argomentato Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, anch’essa non pubblicata. La mancanta diffusione accentuano in qualche modo l’isolamento non solo geografico, ma anche intellettuale del giovane recanatese.

Siamo nel 1819 quanto tenta “la fuga” da Recanati, purtroppo fallita: la frustrazione per l’atto mancato, una forma di esaurimento psicofisico, che si materializzò soprattutto nell’organo della vista, non permette a lui di leggere; l’isolamento del pensiero lo conduce a quello che potremo definire “dal bello al vero” o, modellandolo a quello precedente, alla “conversione filosofica”, portandolo ad un assoluto ateismo. Ciò non provoca in lui l’abbandono della poesia, ma darà vita a sei idilli scritti tra il 1819 e il 1821 e nel ’20 alla terza canzone civile: Ad Angelo Mai a cui ne seguiranno altre sei in cui esplicherà tutto il suo pessimismo.

Ottenuto, finalmente, il permesso di lasciare Recanati, nel 1822 si recò a Roma, dove rimase fino al 1823: grandi furono le aspettative, altrettanto grande la delusione: il vuoto culturale accompagnato dallo sfarzo gli procurano più fastidi che piacere. Si vide quasi costretto quindi a tornare “nel natio borgo selvaggio” e nel 1824 fece pubblicare a Bologna le Canzoni fino ad allora elaborate. L’acquisizione della verità filosofica ebbe influenza anche sulla successiva produzione letteraria: in pochi anni scrive venti prose di carattere filosofico, sulla stregua dei Dialoghi di Luciano di Samosata (intellettuale siriaco, di lingua greca, vissuto nel periodo degli Antonini) che prendono il titolo di Operette morali.

Riesce, intanto, ad allontanarsi da Recanati per recarsi a Milano su invito dell’editore Stella come commentatore di scrittori classici: il clima della città lombarda, tuttavia, non si confaceva alla salute del nostro; si trasferisce quindi prima a Firenze e quindi a Pisa. Sia la bellezza della città, sia il rinascere della sua ispirazione poetica lo riportano a comporre versi. Dopo un breve soggiorno fiorentino, Leopardi deve, per ristrettezze economiche, tornare a Recanati, ma in questa prigione scriverà forse alcune tra le poesie più belle. Si trovò a chiedere a Viesseux (intellettuale ed editore) un impiego qualsiasi, pur di rifuggire dallo Stato di Chiesa. Otterrà un assegno vitalizio da generosi amici fiorentini, dove trovò inizio una certa vita sociale, grazie anche all’amicizia con il giovane napoletano Antonio Ranieri.

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Ritratto di Antonio Ranieri in età matura  

La vita esuberante di quest’ultimo, sempre a caccia di qualche gonnella, mise Leopardi a maggior contatto con realtà, specie di quella amorosa, fino ad allora solo idealizzata, e se s’innamora, forse realmente per la prima volta, di Fanny Targioni Tozzetti, è altrettanto forte la delusione da fargli cambiare registro poetico nel cosiddetto Ciclo d’Aspasia. Per un consiglio del medico, grazie anche ad un piccolo appannaggio che riesce ad ottenere dalla famiglia, riesce a non rientrare a Recanati ma a trasferirsi a Napoli, città dell’amico Ranieri, ma anche località consigliata da un medico per, parafrasando Parini, la “salubrità dell’aria”. Va a vivere in una villa, presso la sorella dell’amico Antonio, posta alle pendici del Vesuvio, che gli darà l’ispirazione per le sue ultime due liriche, una delle quali fra le più belle della maturità La ginestra. Muore in questa città il 14 giugno del 1837 a soli 39 anni.

Zibaldone

Prima di qualsiasi approccio verso la produzione letteraria/filosofica di Leopardi è necessario soffermarci su questa raccolta di pensieri, appunti, riflessioni che il nostro elabora dal 1817 al 1832, e che sistema, intorno al ’27, scrivendo un indice analitico degli stessi, quasi a voler codificare un percorso di autobiografia intellettuale a cui lui stesso dà il nome Zibaldone. Ma cosa vuol dire Zibaldone? La parola era già attestata come titolo di alcune raccolte disordinate di pensieri e testi e sembra fare riferimento allo zabaione, dunque a un amalgama montato con ingredienti diversi tra loro. Nello Zibaldone leopardiano, il titolo ha una valenza sia formale che contenutistica: allude alla varietà disordinata dei temi e al carattere provvisorio e frammentario della scrittura.

Possiamo dividirlo, per comodità didattica, a grandi linee, in:

  • teoria del piacere e pessimismo;
  • poetica del vago e indefinito.

tenendo ben presente che le tematiche su esposte si intersecano necessariamente tra loro.

TEORIA DEL PIACERE

Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perchè nessun piacere è eterno, 2. nè la sua estensione, perchè nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perchè, come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch’è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente l’infinità, perchè ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perchè non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell’anima, perchè quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perchè la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno. (…)  Quindi potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre, del che ci facciamo tanta maraviglia, come se ciò venisse da una sua natura particolare, quando il dolore la noia ec. non hanno questa qualità. Il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perchè non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perchè l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato. Veniamo alla inclinazione dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2. che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte non potendo spogliar l’uomo e nessun essere vivente, dell’amor del piacere che è una conseguenza immediata e quasi tutt’uno coll’amor proprio e della propria conservazione necessario alla sussistenza delle cose, dall’altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha voluto supplire 1. colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima, e bisogna considerarle come cose arbitrarie in natura, la quale poteva ben farcene senza, 2. coll’immensa varietà acciocchè l’uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all’altro, o anche disingannato di tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran varietà delle cose, ed anche non potesse così facilmente stancarsi di un piacere, non avendo troppo tempo di fermarcisi, e di lasciarlo logorare, e dall’altro canto non avesse troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti i piaceri a soddisfarlo. Quindi deducete le solite conseguenze della superiorità degli antichi sopra i moderni in ordine alla felicità. 1. L’immaginazione come ho detto è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli. Ma questa non può regnare senza l’ignoranza, almeno una certa ignoranza come quella degli antichi. La cognizione del vero cioè dei limiti e definizioni delle cose, circoscrive l’immaginazione. E osservate che la facoltà immaginativa essendo spesse volte più grande negl’istruiti che negl’ignoranti, non lo è in atto come in potenza, e perciò operando molto più negl’ignoranti, li fa più felici di quelli che da natura avrebbero sortito una fonte più copiosa di piaceri. (…) Del resto il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione (non solamente nell’uomo ma in ogni vivente), la pena dell’uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l’uomo non molto profondo gli scorge solamente da presso. Quindi è manifesto 1. perchè tutti i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e l’ignoto sia più bello del noto; effetto della immaginazione determinato dalla inclinazione della natura al piacere, effetto delle illusioni voluto dalla natura. 2. perchè l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. Stante la considerazione qui sopra detta, l’anima deve naturalmente preferire agli altri quel piacere ch’ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico cioè Omero, abbondano i fanciulli veramente Omerici in questo,  gl’ignoranti ec. in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne. La malinconia, il sentimentale moderno ec. perciò appunto sono così dolci, perchè immergono l’anima in un abbisso di pensieri indeterminati de’ quali non sa vedere il fondo nè i contorni. (…) Del rimanente alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perchè allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perchè il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia, come chiamano. Al contrario la vastità e moltiplicità delle sensazioni diletta moltissimo l’anima. Ne deducono ch’ella è nata per il grande ec. Non è questa la ragione. Ma proviene da ciò, che la moltiplicità delle sensazioni, confonde l’anima, gl’impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie l’esaurimento subitaneo del piacere, la fa errare d’un piacere in un altro senza poterne approfondare nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo a un piacere infinito.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è giacomo-leopardi-zibaldone-di-pensieri-1961-mondadori-2.jpgEdizione dello Zibaldone del 1961

Queste rilessioni “sul piacere” di Leopardi, scritte nel tra il 12 e il 23 luglio del 1820, rappresentano uno dei nuclei fondamentali della sua speculazione filosofica. In primo luogo bisogna sottolineare come l’autore recanatese parti da considerazioni “sensistiche”, figlie dell’illuminismo: il piacere, come sensazione, è innato nell’uomo, senza di esso non esisterebbe la vita umana. Essendo questo parte integrante dell’uomo diventa “naturale aspirazione”, a cui, tuttavia la realtà non può corrispondere in modo completo e ciò perché la vita dell’uomo, rispetto al tempo e allo spazio, è limitata (e quindi può dare a lui piaceri limitati) mentre lo stesso essere umano tende a qualcosa di illimitato e quindi irraggiungibile. Per questo l’ottenimento di un piacere “reale” porta con sé, inevitabilmente, la consapevolezza della sua limitatezza, dando luogo al dolore. Ora l’uomo un tempo, secondo Leopardi, era più felice proprio perché aveva la possibilità di raggiungere l’illimitatezza del piacere attraverso la facoltà immaginativa: quest’ultima è certamente illimitata in quanto non può essere circoscritta ed era maggiore un tempo perché non ancora limitata dal progresso che, svelando la realtà, uccide l’immaginazione. Rimane oggi tale facoltà solo quando vi è un qualcosa che, privando o frapponendosi tra la vista o l’udito, ci offre la possibilità d’immaginare cosa vi è “oltre esso”. E’ tale concetto che sta alla base del “pessimismo storico”, intendendo con esso quella felicità che la natura ci offre (quindi natura a noi benigna) di contro al progresso della storia che la cancella.

Tale riflessione trova la sua esplicitazione nelle canzoni elaborate intorno al ’20, nate a seguito delle sollecitazioni culturali del Giordani e che vedono il nostro Leopardi, oltre a prendere posizione riguardo la situazione politica dell’Italia, staccarsi, in modo definitivo, dall’ideologia bigotta e retriva a cui la famiglia lo aveva indirizzato, tra queste ricordiamo : All’Italia (1918): in cui il giovane poeta mostra di aver assimilato la lezione di Petrarca e lo spirito libertario di Alfieri e Foscolo; Ad Angelo Mai (1920): dedicata al cardinale che ritrovò il De Republica di Cicerone; Bruto minore (1821): l’dea del suicidio come risposta al tramonto di ogni di ogni magnanima illusione; Ultimo canto di Saffo (1922): la canzone nasce con l’intenzione di “rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane” (Annotazioni alle 10 canzoni stampate a Bologna nel 1824), e nei cosiddetti “Piccoli idilli“.

Paolina Leopardi

La radicalizzazione del “pessimismo” leopardiano, avviene durante il lungo silenzio, dal 1824 al 1828, e che sfocerà  nella pubblicazione delle Operette morali: generalmente in esse troviamo la risoluzione del conflitto uomo natura attraverso qualsiasi negazione della sua benevolenza verso l’uomo, in ogni attimo della storia dell’uomo e della sua singolare vita. Non c’è mai alcuna felicità se, come è nella realtà, egli nasce per morire e diventa parte di un meccanismo che trascende ogni sua volontà.

LA REA NATURA

La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente a’ loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio piú alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi ec. ec.

La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente, regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti. Ciò, essendo necessaria conseguenza dell’ordine attuale delle cose, non dà una grande idea dell’intelletto di chi è o fu autore di tale ordine.

Sono questi “pensieri”, ambedue vergati nel 1829, a darci l’evoluzione del pesiero leopardiano dal pessimismo storico al pessimismo cosmico. Infatti “Leopardi tiene a precisare che la sua filosofia è apparentemente misantropica, in quanto si prefigge lo scopo di convertire l’odio che l’uomo prova verso i suoi simili nella consapevolezza che la vera causa dell’infelicità umana è appunto la natura. Il suo invito a reagire alla malignità della natura nasce, prima che da un atteggiamento filosofico, dalla sofferenza e dall’esperienza personale della propria e dell’altrui infelicità”.

Ale ’98: Leopardi e la Natura

LA POETICA 

Il passato, a ricordarsene, è più bello del presente, come il futuro a immaginarlo. Perché? Perché il solo presente ha la sua vera forma nella concezione umana; è la sola immagine del vero, e tutto il vero è brutto.

Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli oggetti veduti per metà o con certi impedimenti ec. ci destino idee indefinite, si spiega perché piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogo, oggetto ec. dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov’ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori e in una loggia parimente ec.; quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell’ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il riflesso che produce, per esempio, un vetro colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro; tutti quegli oggetti insomma che per diversi materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell’ordinario ec. Per lo contrario la vista del sole o della luna in una campagna vasta ed aprica e in un cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della sensazione. Ed è pur piacevole, per la ragione assegnata di sopra, la vista di un cielo diversamente sparso di nuvoletti, dove la luce del sole o della luna produca effetti variati e indistinti e non ordinari ec. È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada a poco a poco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso ec. ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non veder tutto e il potersi perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo a ciò che non si vede. Similmente dico dei simili effetti, che producono gli alberi, i filari, i colli, i pergolati, i casolarii pagliai, le ineguaglianze del suolo ec. nelle campagne. Per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura, dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima, per l’idea indefinita in estensione, che deriva da tal veduta. Cosí un cielo senza nuvolo. Nel qual proposito osservo che il piacere della varietà e dell’incertezza prevale a quello dell’apparente infinità e dell’immensa uniformità. E quindi un cielo variamente sparso di nuvoletti è forse piú piacevole di un cielo affatto puro; e la vista del cielo è forse meno piacevole di quella della terra e delle campagne ec., perché meno varia (ed anche meno simile a noi, meno propria di noi, meno appartenente alle cose nostre ec.). Infatti ponetevi supino in modo che voi non vediate se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete una sensazione molto meno piacevole che considerando una campagna o considerando il cielo nella sua corrispondenza e relazione colla terra ed unitamente ad essa in un medesimo punto di vista. È piacevolissima ancora, per le sopraddette cagioni, la vista di una moltitudine innumerabile, come delle stelle o di persone ec., un moto moltiplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago ec., che l’animo non possa determinare né concepire definitamente e distintamente ec., come quello di una folla o di un gran numero di formiche o del mare agitato ec. Similmente una moltitudine di suoni irregolarmente mescolati e non distinguibili l’uno dall’altro ec. ec. ec.

Le parole lontanoantico e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste e indefinite e non determinabili e confuse.

Le parole notte notturno ec., le descrizioni della notte ec., sono poeticissime, perché, la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sí di essa che [di] quanto ella contiene. Cosí oscurità, profondo ec. ec.

Le rimembranze che cagionano la bellezza di moltissime immagini ec. nella poesia ec. non solo spettano agli oggetti reali, ma derivano bene spesso anche da altre poesie, vale a dire che molte volte un’immagine ec. riesce piacevole in una poesia, per la copia delle ricordanze della stessa o simile immagine veduta in altre poesie.

Quello che altrove ho detto sugli effetti della luce o degli oggetti visibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il piú spregevole) udito da lungi o che paia lontano senza esserlo o che si vada a poco a poco allontanando e divenendo insensibile o anche viceversa (ma meno) o che sia cosí lontano, in apparenza o in verità, che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità degli spazi; un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec., dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s’ode suonare per le valli, senza però vederli, e cosí il muggito degli armenti ec. Stando in casa, e udendo tali canti o suoni per la strada, massime di notte, si è piú disposti a questi effetti, perché né l’udito né gli altri sensi non arrivano a determinare né circoscrivere la sensazione e le sue concomitanze. È piacevole qualunque suono, anche vilissimo, che largamente e vastamente si diffonda, come in taluno dei detti casi, massime se non si vede l’oggetto da cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e dà, quando non sia vinto dalla paura, il fragore del tuono, massime quand’é piú sordo, quando è udito in aperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme confusamente in una foresta o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è udito da lungi, o dentro una città trovandosi per le strade ec. Perocché oltre la vastità e l’incertezza e confusione del suono non si vede l’oggetto che lo produce, giacché il tuono e il vento non si vedono. È piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il calpestio de’ piedi o la voce ec. Perocché l’eco non si vede ec. E tanto piú quanto il luogo e l’eco è piú vasto, quanto piú l’eco vien da lontano, quanto piú si diffonde; e molto piú ancora se vi si aggiunge l’oscurità del luogo che non lasci determinare la vastità del suono né i punti da cui esso parte ec. ec. E tutte queste immagini in poesia ec. sono sempre bellissime, e tanto piú quanto piú negligentemente son messe e toccando il soggetto, senza mostrar l’intenzione per cui ciò si fa, anzi mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son per produrre e di non toccarli se non per ispontanea e necessaria congiuntura e indole dell’argomento ec. Vedi in questo proposito Virg. Eneide, VII, v.8, seqq.* La notte o l’immagine della notte è la piú propria ad aiutare, o anche a cagionare, i detti effetti del suono. Virgilio da maestro l’ha adoperata .

*aspirant aurae in noctem nec candida cursus // luna negat, splendet tremulo sub lumine pontus
Spirano le brezze sulla notte né la candida luna nega // il percorso, il mare splende sotto tremula luce

 

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è manoscritto_carducci.pngPagina autografa dello Zibaldone

Una voce o un suono lontano, o decrescente e allontanantesi a poco a poco, o echeggiante con un’apparenza di vastità ec. ec., è piacevole per il vago dell’idea ec. Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito in piena campagna, in una gran valle ec., il canto degli agricoltori, degli uccelli, il muggito de’ buoi ec. nelle medesime circostanze.

All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. 

Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. 

I primi passi sono del 1821, corrispondenti al periodo dei primi idilli; gli ultimi tre del 1827/1828, quando a Pisa sente rinascere in sé la volontà di scrivere poesia (periodo dei “grandi idilli”), a dimostrazione di come il pensiero leopardiano, come appunto troviamo all’interno dello Zibaldone, si accompagni al fare poetico.

Per la prima parte infatti notiamo come la sua poetica si collega in modo indissolubile alla teoria del piacere: all’impossibilità di recuperare l’immaginazione, si risponde con la poesia sentimentale, e questa non può che essere intessuta di parole vaghe, indefinite, capaci di porci al di là delle limitazioni spazio/temporali. Gli ultimi tre pensieri fondono alla poetica “del vago e indefinito” quella delle “rimembranze” e della “doppia visione”: anche questi aspetti, rimandano a qualcosa che si perde nel tempo o si costituiscono come indefinite e amplificano la capacità del poeta di allargare lo spazio a sensazioni personali che si perdono nel tempo o riescono a contrapporre al “presente” la facoltà del pensiero immaginativo.

Opere in prosa giovanili

L’impegno nello studio definito nello Zibaldone “matto e disperatissimo” dal 1809 al 1816 si può dire si concretizzi in due opere che potremmo definire divulgative: la Storia dell’astronomia (1813) e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815). Non possono certo dirsi opere originali e non ci sentiamo, come alcuni critici poi hanno detto, di dire che l’interesse per l’astronomia o per il sapere primitivo siano prodromi di uno svolgersi poetico successivo. Più corretto ci sembra il fatto è che egli voglia “divulgare” nel sonnacchioso paese le acquisizioni scientifiche galileiane, un po’ come fece l’Algarotti nel ‘700 nel Newtonismo per le dame. Se qualche interesse tale opere suscitano è per l’evoluzione tra uno scritto e l’altro della prosa leopardiana.

Più interessante è la Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana del 1816, che sarà poi ripresa nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, di due anni più tarda, in cui il nostro prende posizione sul dibattito culturale suscitato dall’articolo della De Staël Sull’utilità delle traduzioni, apparso appunto sulla Biblioteca Italiana, anche se, è importante dirlo, nessuna influenza avrà su tale dibattito, non essendo stata pubblicata.

L’IMITAZIONE DEGLI ANTICHI

Ora da tutto questo e dalle altre cose che si son dette, agevolmente si comprende che la poesia dovette essere agli antichi oltremisura più facile e spontanea che non può essere presentemente a nessuno, e che a’ tempi nostri per imitare poetando la natura vergine e primitiva, e parlare il linguaggio della natura (lo dirò con dolore della condizione nostra, con disprezzo delle risa dei romantici) è pressoché necessario lo studio lungo e profondo de’ poeti antichi. Imperocché non basta ora al poeta che sappia imitar la natura; bisogna che la sappia trovare, non solamente aguzzando gli occhi per iscorgere quello che mentre abbiamo tuttora presente, non sogliamo vedere, impediti dall’uso, la quale è stata sempre necessarissima opera del poeta, ma rimovendo gli oggetti che la occultano, e scoprendola, e diseppellendo e spastando e nettando dalla mota dell’incivilimento e della corruzione umana quei celesti esemplari che si assume di ritrarre. A noi l’immaginazione è liberata dalla tirannia dell’intelletto, sgombrata dalle idee nemiche alle naturali, rimessa nello stato primitivo o in tale che non sia molto discosto dal primitivo, rifatta capace dei diletti soprumani della natura, dal poeta; al poeta da chi sarà? o da che cosa? Dalla natura? Certamente, in grosso, ma non a parte a parte, né da principio; vale a dire appena mi si lascia credere che in questi tempi altri possa cogliere il linguaggio della natura, e diventare vero poeta senza il sussidio di coloro che vedendo tutto il dì la natura scopertamente e udendola parlare, non ebbero per esser poeti, bisogno di sussidio. Ma noi cogli orecchi così pieni d’altre favelle, adombrate inviluppate nascoste oppresse soffocate tante parti della natura, spettatori e partecipi di costumi lontanissimi o contrari ai naturali, in mezzo a tanta snaturatezza e così radicata non solamente in altri ma in noi medesimi, vedendo sentendo parlando operando tutto giorno cose non naturali, come, se non mediante l’uso e la familiarità degli antichi, ripiglieremo per rispetto alla poesia la maniera naturale di favellare, rivedremo quelle parti della natura che a noi sono nascoste, agli antichi non furono, ci svezzeremo di tante consuetudini, ci scorderemo di tante cose, ne impareremo o ci ricorderemo o ci riavvezzeremo a tante altre, e in somma nel mondo incivilito vedremo e abiteremo e conosceremo intimamente il mondo primitivo, e nel mondo snaturato la natura? E in tanta offuscazione delle cose naturali, quale sarà se non saranno gli antichi, specialmente alle parti minute della poesia, la pietra paragone che approvi quello ch’è secondo la natura, e accusi quello che non è? La stessa natura? Ma come? quando dubiteremo appunto di questo, se avremo saputo vederla e intenderla bene? L’indole e l’ingegno? Non nego che ci possano essere un’indole e un ingegno tanto espressamente fatti per le arti belle, tanto felici tanto singolari tanto divini, che volgendosi spontaneamente alla natura come l’ago alla stella, non sieno impediti di scoprirla dove e come ch’ella si trovi, e di vederla e sentirla e goderla e seguitarla e considerarla e conoscerla, né da incivilimento né da corruttela né da forza né da ostacolo di nessuna sorta; e sappiano per se medesimi distinguere e sceverare accuratamente le qualità e gli effetti veri della natura da tante altre qualità ed effetti che al presente o sono collegati e misti con quelli in guisa che a mala pena se ne discernono, o per altre cagioni paiono quasi e senza quasi naturali; e in somma arrivino senza l’aiuto degli antichi a imitar la natura come gli antichi facevano. Non nego che questo sia possibile, nego che sia provabile, dico che l’aiuto degli antichi è tanto grande tanto utile tanto quasi necessario, che appena ci sarà chi ne possa far senza, nessuno dovrà presumere di potere. Non mancherà mai l’amore degli uomini alla natura, non il desiderio delle cose primitive, non cuori e fantasie pronte a secondare gl’impulsi del vero poeta, ma la facoltà d’imitar la natura, e scuotere e concitare negli uomini questo amore, e pascere questo desiderio, e muovere ne’ cuori e nelle fantasie diletti sostanziosi e celesti, languirà ne’ poeti, come già langue da molto tempo. E qui non voglio compiangere l’età nostra, né dire come sia vantaggioso, quello che tuttavia, così per la ragione che ho mentovata, come per altre molte, è, almeno generalmente parlando, necessarissimo, né pronosticare dei tempi che verranno quello che l’esperienza dei passati e del presente dimostra pur troppo chiaro, che qualunque sarà poeta eccellente somiglierà Virgilio e il Tasso, non dico in ispecie ma in genere; un Omero un Anacreonte un Pindaro un Dante un Petrarca un Ariosto appena è credibile che rinasca.

24541118623_0e85e0c876_b.jpgDiscorso di un italiano sopra la poesia romantica (autografo)

Il ragionamento critico leopardiano si muove su due direttive precise:

  • se il diletto della poesia sta nell’imitazione della natura, risulta naturale che laddove tale imitazione sia risultata preponderante in quanto la stessa natura era osservata “naturalmente” (diremo senza sovrastrutture culturali) la poesia ha raggiunto i suoi vertici, e questa è l’età antica;
  • oggi proprio a causa della capacità razionale, che si è tradotta in un aumento culturale, tale approccio con la natura è impossibile e quindi sarebbe quasi impossibile la poesia; sbagliano pertanto i Romantici quando criticano l’atteggiamento che vede nell’imitazione degli antichi un freno per la poesia, perché a far da freno alla poesia è la “modernità”;
  • ma, andando al di là del passo su riportato, non è “emulando” il loro stile che s’otterrà la poesia (e qui si mostra contrario ad un erudito neoclassicismo), ma cercando d’imitare l’atteggiamento degli antichi, togliendo le scorie dall’oggetto poetico e porsi “naturalmente”, diremo quasi istintivamente di fronte alla natura (ottenendo, se così si può dire, un esito romantico, lontano tuttavia dal Romanticismo preponderante di stampo manzoniano).

Il Discorso può riflettere il primo momento della meditazione filosofico-letteraria di Leopardi. Esso si muove sotto l’influsso delle teorie di Rousseau, secondo cui la civiltà aveva prodotto, nonostante un miglioramento della condizione di vita, uno stato di infelicità. Ciò era dovuto ad un allontanamento progressivo dell’uomo dalla natura, privandolo appunto dallo stato di felicità “naturale”. Tale atteggiamento culturale è detto, scolasticamente, “pessimismo storico”. Con questo termine s’intende, appunto, il rapporto tra felicità e uomo che si può illustrare con l’antinomia natura/civiltà o natura/ragione, dove il primo è positivo ed il secondo negativo.

Pertanto risulta evidente che, se la felicità è figlia di un rapporto esclusivo con la natura, tale rapporto è oggi negato e pertanto è negata la possibilità di far poesia, soprattutto se, per i Romantici, si tratta di imitare i contemporanei d’oltralpe. Tuttavia Leopardi è consapevole che se la capacità poetica “descrittiva” dell’evento naturale è conclusa, lo stesso non si può dire per la poesia sentimentale, cioè per una poesia che non sia più rappresentativa, ma che sia capace di far esprimere l’io lirico sulla natura.

Produzione letteraria e concezioni filosofiche dal 1817 al 1822

Il Discorso nasce a seguito dell’amicizia con Pietro Giordani, anch’egli posizionato contro le teorie dei cosiddetti romantici italiani, il cui esponente principale è Giovanni Berchet. Il classicismo di Giordani, infatti, parte da un punto di vista differente, oserei dire, politico (il classico rappresenta una lunga tradizione della nostra cultura: abdicare da esso vuol dire venir meno a ciò che potrebbe stare alla base di una cultura patriottica). E’ da questa posizione che il Leopardi all’inizio si cimenterà con la canzone All’Italia e Sopra il monumento di Dante, ambedue dedicate a Vincenzo Monti, la cui forma e il cui stile rispecchiano ancora un’estetica tradizionale.

ALL’ITALIA

O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l’erme
torri degli avi nostri,
ma la gloria non vedo,
non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
i nostri padri antichi. Or fatta inerme,
nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè! quante ferite,
che lividor, che sangue! oh, qual ti veggio,
formosissima donna! Io chiedo al cielo
e al mondo: «Dite, dite;
chi la ridusse a tale?» E questo è peggio,
che di catene ha carche ambe le braccia;
sí che sparte le chiome e senza velo
siede in terra negletta e sconsolata,
nascondendo la faccia
tra le ginocchia, e piange.
Piangi, ché ben hai donde, Italia mia,
le genti a vincer nata
e nella fausta sorte e nella ria

  Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
mai non potrebbe il pianto
adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
ché fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
che, rimembrando il tuo passato vanto,
non dica: «Giá fu grande, or non è quella?»
Perché, perché? Dov’è la forza antica?
dove l’armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
chi ti tradí? Qual arte o qual fatica
o qual tanta possanza
valse a spogliarti il manto e l’auree bende?
Come cadesti o quando
da tanta altezza in cosí basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
agl’italici petti il sangue mio.

Dove sono i tuoi figli? Odo suon d’armi
e di carri e di voci e di timballi:
in estranie contrade
pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi. Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
un fluttuar di fanti e di cavalli,
e fumo e polve, e luccicar di spade
come tra nebbia lampi.
Né ti conforti? e i tremebondi lumi
piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
l’itala gioventude? O numi, o numi!
pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
non per li patrii lidi e per la pia
consorte e i figli cari,
ma da nemici altrui,

per altra gente, e non può dir morendo:
«Alma terra natia,
la vita che mi desti ecco ti rendo.» 

Oh venturose e care e benedette
l’antiche etá, che a morte
per la patria correan le genti a squadre,
e voi sempre onorate e gloriose,
o tessaliche strette,
dove la Persia e il fato assai men forte
fu di poch’alme franche e generose!
Io credo che le piante e i sassi e l’onda
e le montagne vostre al passeggere
con indistinta voce
narrin siccome tutta quella sponda
coprîr le invitte schiere
de’ corpi ch’alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l’Ellesponto si fuggia,
fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
e sul colle d’Antela, ove morendo
si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salía,
guardando l’etra e la marina e il suolo.

E di lacrime sparso ambe le guance,
e il petto ansante, e vacillante il piede,
toglieasi in man la lira:
«Beatissimi voi,
ch’offriste il petto alle nemiche lance
per amor di costei ch’al sol vi diede;
voi, che la Grecia cole e il mondo ammira.
Nell’armi e ne’ perigli
qual tanto amor le giovanette menti,
90qual nell’acerbo fato amor vi trasse?
Come sí lieta, o figli,

l’ora estrema vi parve, onde ridenti
correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch’a danza e non a morte andasse
ciascun de’ vostri, o a splendido convito:
ma v’attendea lo scuro
Tartaro, e l’onda morta;
né le spose vi fôro o i figli accanto,
quando su l’aspro lito
senza baci moriste e senza pianto.

Ma non senza de’ Persi orrida pena
ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
or salta a quello in tergo e sí gli scava
con le zanne la schiena,
or questo fianco addenta or quella coscia;
tal fra le perse torme infuriava
l’ira de’ greci petti e la virtute.
Ve’ cavalli supini e cavalieri;
vedi intralciare ai vinti
la fuga i carri e le tende cadute,
e correr fra’ primieri
pallido e scapigliato esso tiranno;
ve’ come infusi e tinti
del barbarico sangue i greci eroi,
cagione ai Persi d’infinito affanno,
a poco a poco vinti dalle piaghe,
l’un sopra l’altro cade. Oh viva! oh viva!
beatissimi voi
mentre nel mondo si favelli o scriva.

Prima divelte, in mar precipitando,
spente nell’imo strideran le stelle,
che la memoria e il vostro
amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un’ara; e qua mostrando
verran le madri ai parvoli le belle
orme del vostro sangue. Ecco, io mi prostro,
o benedetti, al suolo,
e bacio questi sassi e queste zolle,
che fien lodate e chiare eternamente
dall’uno all’altro polo.
Deh! foss’io pur con voi qui sotto, e molle
fosse del sangue mio quest’alma terra.
Ché, se il fato è diverso, e non consente
ch’io per la Grecia i moribondi lumi
chiuda prostrato in guerra,
cosí la vereconda
fama del vostro vate appo i futuri
possa, volendo i numi,
tanto durar quanto la vostra duri.


Alessandro Puttinati: Italia turrita (1850)

Italia mia, vedo le mura di Roma, gli archi di trionfo, le colonne, le statue e le solitarie torri dei nostri avi, ma non vedo la gloria, la grandezza militare ottenuti con le armi, dei quali erano carichi i nistri antenati. Ora indifesa, mostri la fronte ed il petto nudo. Ora quante ferite, quanti lividi, quanto sangue! In che stato ti vedo, bellissima donna! Chiedo al cielo e al mondo: raccontate, dite; chi l’ha ridotta in tale stato? E quel che è peggio è che ha le braccia cariche di catene, in questo stato con i capelli sciolti e senza velo, siede per terra trascurata e afflitta, nascondendo la faccia tra le ginocchia, e piange. Piangi, ché ne hai tutte le ragioni, Italia mia, che eri nata per essere superiore agli altri popoli nella buona così come nella cattiva sorte. // Anche se i tuoi occhi fossero due fonti perenni, il tuo pianto non sarebbe adeguato alla tua rovina e alla vergogna che ne segue; poiché fosti regina, e ora sei un’umile serva. Chi parla o scrive di te senza dire, ricordando la tua gloria passata, non dica: «un tempo fu grande, adesso non è più quella che fu? Perché? Perché Dov’è l’antica forza militare, dove sono le armi, dove il valore, dove la costanza? Chi ti ha tolto la spada? Chi ti ha tradito? Quale inganno  quale fatica o quale potenza fu capace di strapparti il manto e le bende d’oro? In che modo o quando sei precipitata da una così grande altezza in basso loco? Nessuno combatte per te? Nessuno dei tuoi figli ti difende? Le armi, datemi le armi: io solo combatterò, morirò io solo. Concedimi o cielo che il mio sangue diventi fuoco nel cuore degli italiani. // Dove sono i tuoi figli? Sento suoni di armi, di carri, di voci e di tamburi in paesi stranieri, combattono i tuoi figli. Ascolta, Italia, fa’ attenzione. Io vedo, mi sembra, un ondeggiare di fanti e di cavalli, fumo e polvere, un luccicare di armi, come lampi nella nebbia. E ciò non ti conforta? e non sopporti di rivolgere gli occhi spaventati a quel fatto dall’esito incerto? Per quale scopo la gioventù italiana combatte? O numi, o numi: combattono per un’altra terra le armi italiane. Oh disgraziato colui che è ucciso in guerra, non per la terra dei suoi padri e l’onesta moglie e i cari figli, ma da nemici di altri e combattendo per un altro popolo, e non può dire morendo: mia terra nutrice (mia patria), ecco, ti restituisco la vita che mi hai dato. // Oh fortunate e amate e benedette le epoche antiche, quando i popoli, uniti in eserciti, correvano per la patria incontro alla morte, e tu, sempre onorato e glorioso, passo della Tessaglia, dove la Persia e il fato furono sconfitti da pochi soldati arditi e magnanimi! Io credo che la vegetazione, le rocce e il mare, le montagne, in coro raccontino a chi visita quei luoghi come le schiere non vinte ricoprirono tutta quella costa coi loro corpi di guerrieri consacrati alla patria greca. Allora il re persiano Serse, tanto vigliacco quanto feroce, fuggiva per l’Ellesponto, divenuto oggetto di scherno per tutti i discendenti; e sulla collina d’Antela, dove, morendo, il sacro esercito spartano divenne immortale, saliva Simonide, guardando il cielo e la spiaggia e la terra. // E con le guance bagnate di lacrime, il petto affannato e il piede incerto, prendeva in mano la sua cetra: «Beatissimi voi, che offriste i vostri petti alle lance dei nemici (sacrificaste la vostra vita) per amore di costei che vi diede alla luce (la patria); voi che la Grecia venera, e il mondo ammira. Quale amore così grande spinse i vostri giovani animi alle armi e ai pericoli, quale amore vi condusse al crudele destino della morte? O figli, come è possibile che la vostra ultima ora (di vita) vi sia sembrata così gloriosa, per cui correste felici al passo doloroso e terribile? Sembrava che ciascuno di voi andasse a un ballo o a un ricco banchetto, e non a morire: ma vi attendeva il Tartaro oscuro e l’onda della morte; e non vi furono vicini le spose o i figli quando moriste sul terreno scosceso, senza baci e senza lacrime. // Ma (la vostra morte) non avvenne senza il dolore tremendo e la sofferenza immensa dei Persiani. Come il leone in mezzo a una mandria di tori ora si slancia sulla groppa di uno e gli lacera la schiena con i denti, ora gli azzanna un fianco o una coscia, allo stesso modo la rabbia e la virtù dei cuori greci si scatenavano in mezzo alla massa dei Persiani. Vedi cavalli e cavalieri abbattuti; vedi i carri e le tende a terra impedire la fuga ai vinti, e il tiranno stesso (Serse) correre tra i primi, pallido e con i capelli scarmigliati; vedi come, intrisi e macchiati del sangue dei barbari, gli eroi greci, loro che inflissero immenso dolore ai Persiani, cadono l’uno sull’altro, uccisi a poco a poco dalle ferite. Viva, viva: beatissimi voi, finché al mondo si parli o si scriva (perché si parlerà e si scriverà delle vostre gesta eroiche). // Strideranno le stelle strappate via dal cielo in mare, precipitando, spente nei suoi fondali, prima che passino o si riducano il ricordo di voi e l’amore per voi. La vostra tomba è un altare; e qua verranno le madri per mostrare ai figli le tracce gloriose del sangue da voi versato. Ecco, io mi prostro al suolo, o benedetti, e bacio questi sassi e questa terra, che saranno lodate e conosciute in eterno da un capo all’altro del mondo. Oh, se fossi anch’io con voi qui sotto e se questa terra materna fosse bagnata del mio sangue. Ma se il mio destino è un altro, e non permette che io chiuda gli occhi moribondi ucciso in guerra, almeno la fama modesta del vostro cantore possa durare presso i posteri finché duri la vostra.

Questa canzone, scritta nel 1818, è figlia delle conversazioni che il poeta ha avuto con Giordani e segna un distacco netto sia dal conservatorismo paterno, sia dal dibattito culturale nato dall’invito di Madame De Stael e al quale il nostro aveva già risposto con la lettera alla Biblioteca italiana. Egli infatti, partendo dalla poesia petrarchesca (ma si sentono anche echi foscoliani), vuole sottolineare la superiorità della poesia antica su quella moderna, evidenziando nel testo il valore del passato contro la mediocrità del presente. Certo il tema può sembrare abusato, così come il linguaggio, che sembra voler richiamare, più che un’estetica neoclassica i cui riferimenti sono solo di valore estetico, un significato patriottico e quindi politico, proprio come l’amico Giordani gli aveva insegnato. Eppure, come dice il critico letterario Luperini “si delinea, accanto al tema civile, una tematica esistenziale: il poeta fa corrispondere alla crisi storica dell’Italia una propria crisi personale, proponendosi gesti eroico riscatto indivinduale”.

Il giovane favoloso di Mario Martone - Un Leopardi contraddittorio e affamato di vita

Leopardi e Giordani nel film di Martone

Contemporanea a quella delle Canzoni civili è quella degli idilli, definiti dalla critica letteraria come “piccoli idilli” per differenziarli dalla produzione successiva, che conterrà testi composti tra il 1827 ed il 1828. Tra i più importanti di essi ricordiamo La sera del dì di festa (1820), L’infinito (1819), Alla luna (1819).

LA SERA DEL DI’ DI FESTA

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, che t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai nè pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno. A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate! Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dì festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov’è il suono
di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
de’ nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.

maxresdefault.jpgElio Giordano nei panni di Leopardi illuminato dalla luna nel film Il giovane favoloso

Dolce e luminosa è la notte senza vento e placida sopra i tetti riposa  e in mezzo agli orti riposa la luna e rivela da lontano nitida ogni montagna. O, donna mia, ormai tace ogni sentiero e attraverso i balconi trapela fioca la luce delle lampade accese: tu dormi, che un facile sonno ti prese nelle stanze silenziose e non ti angustia alcun affanno e di certo non sai né pensi quale grande ferita d’amore mi hai inferto nel cuore. Tu dormi: ed io mi affaccio a salutare questo cielo, che sembra così benevolo alla vista e l’antica natura onnipotente che mi ha generato per la sofferenza. Mi disse: a te nego anche la speranza e tuoi occhi non luccichino se non per le lacrime. Questo è stato un giorno festivo: ora tu (riferito alla donna) riposati dopo gli svaghi; e forse ti torna alla memoria durante il sonno a quanti sei piaciuta, e quanti ti piacquero: non io ti ritorno al pensiero e nemmeno lo spero. Nel frattempo io chiedo quanto mi resti da vivere e mi getto a terra, e piango e sono percorso da fremiti. Ah orrendi giorni in una così giovane età! Ahimè, per la via sento non lontano il canto dell’artigiano, che torna a notte tarda, dopo i divertimenti, alla sua povera casa; e mi si stringe dolorosamente il cuore nel pensare a come tutto nel mondo passa, e quasi non lascia traccia. Ecco è terminato il giorno festivo, e al giorno di festa segue quello volgare ed il tempo porta via con sé ogni cosa umana. Ora dov’è il rumore di quei popoli antichi? ora dov’è la fama dei nostri antenati famosi ed il grande impero di Roma, tanto celebre e il clamore dei suoi eserciti che da lei si sparse per terra e per mare? Tutto è tranquillo e silenzioso, tutto il mondo riposa e  di loro non si parla più. nella mia fanciullezza, quando si aspetta con desiderio il giorno di festa, dopo quando era finito, io con dolore, giacevo nel letto sveglio e nella notte fonda un canto che si udiva allontanarsi e morire piano piano, già in modo simile mi stringeva il cuore.

Il testo lirico, tutto in endecasillabi senza interruzioni strofiche, presenta una varietà stilistico tematica che pur intrecciandosi in modo non sempre armonico all’interno dei versi, ne dà tuttavia un’immagine unitaria. Inizia con la descrizione notturna, placando il verso con il polisintedo, che ci prepara all’epifania lunare. Quindi la presenza femminile, posta in rilievo oppositivo: la seconda persona con cui la indica sottolinea da una parte lo struggimento, dall’altra l’esclusione di contro alla di lei indifferrenza fatta di nessun affanno, inconsapevole del dolore provocatogli. Si affianca a lei la natura, «l’antica natura onnipossente che mi fece all’affanno». L’ultima parte è introdotta dalla sensazione uditiva del canto dell’artigiano e che lo porta al pensiero dell’età antica e  alla considerazione topica dell’omnia fert aetas che investe l’intera storia, immagine del canto dell’artigiano che si allontana ripetuta nell’ultimo verso: la sensazione che tutto trascorri e passi senza lasciare traccia permane come acquisizione conoscitiva per il giovane poeta. 

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Pagina autografa

L’INFINITO

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Sempre caro mi è stato questo colle solitario e questa siepe che sottrae allo sguardo tanta parte dell’estremo orizzonte. Stando fermo e guardando fisso io immagino nel pensiero spazi infiniti al di là di quella siepe e silenzi che un uomo non può percepire e quiete profonde, per cui per poco il cuore non si smarrisce. E quando sento stormire le foglie a causa del vento io paragono quell’infinito silenzio a questa voce e mi viene in mente l’eternità, le stagioni passate, la presente e viva ed il suo suono. Tra questa immensità si smarrisce il mio pensiero ed il lasciarsi andare in questo mare mi è gradito.

L’idillio, in quindici endecasillabi sciolti, ci vuole presentare un’esperienza reale/psichica nella quale il nostro trova, nell’indeterminatezza della natura la voce della poesia, che la civiltà ha in parte distrutto. Esso si situa in una duplice direzione:

  • Definisce quello che nella Lettera di un italiano intorno alla romantica ritiene essere l’imitatio verso gli antichi: riprodurre il sentimento verso la natura, la sola che dà diletto. Ma se la natura, oggi, si svuota della capacità immaginativa in quanto “incrostata” di sapienza razionale, essa può ridare gioia in ciò che tale “incrostazione” non vi è;
  • Chiarisce ciò che nello Zibaldone aveva definito come lessico poetico: e tale lessico richiede parole assolutamende vaghe e indefinite.

L’idillio è costruito sapientemente attraverso un’opposizione che pone elementi reali contro elementi immaginativi. Dapprima il poeta è limitato dalla siepe che non gli permette di vedere lo spazio. Tale spazio, razionalmente, è finito, perché per Leopardi, la terra e l’universo sono realtà finite, ma in quanto inconcepibili nella loro interminatezza dalla ragione umana, esse danno vita ad una funzione immaginativa e quindi poetica. In questa prima parte inserisce anche l’infinito silenzio che richiama alla seconda parte dell’idillio, dove tale sensazione è prodotta dallo stormire delle foglie. A dire il vero la seconda sensazione è più vasta, maggiormente richiamata: l’infinito silenzio, il tempo remoto, il presente e quello limitato in cui il poeta è (sedendo e mirando, come fosse posto in terra, in un angolo un po’ sopraelevato del suo giardino). Tale capacità è resa mirabilmente dall’uso sapientissimo degli enjambement, che dal quarto verso mettono in rilievo parole indefinite o aggettivi dimostrativi a denotare la distanza dell’io poeta da ciò che immagina (questo, quello).

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Se nell’intenzione del poeta vi era quasi la volontà di realizzare una poesia classicamente atteggiata, non è un caso che essa risulti fortemente romantica: è infatti un testo metafisico, che si basa sull’immaginazione e quindi sul “non definito”. Ma tale indeterminatezza non nasce come un allontanamento totale dalla realtà, come un puro sogno. Egli parte da un dato reale per immaginare, non cede al fascino della teoria dell’onirico, dell’impalpabile, dell’etereo: è infatti una siepe o il fruscio a determinare l’immaginazione. E che tale immaginazione crei diletto lo sottolinea nello splendido ultimo verso, dove al centro di esso pone il lemma “dolce”, con la o tonica a fermare la voce del lettore.

Un altro importante aspetto della meditazione leopardiana di questo periodo riguarda la teoria del piacere. Il Leopardi deriva tale teoria dalla filosofia sensistica settecentesca, ma la determina e l’approfondisce con meditazioni culturali e personali. Il piacere è una condizione indefinita dell’uomo, in quanto irrealizzabile nella sua totalità: ciò che l’uomo prova è una serie di piaceri caratterizzati da limitatezza temporale, che interrompono una naturale condizione di insoddisfazione che cessa solo con la morte. Il compito della natura, in questa fase, è tuttavia quello di dispensarci di tali momenti di felicità, fornendoci le “illusioni” e attimi di “godimento”. Essa infatti attenua e lenisce il senso di finitezza e precarietà della vita umana. Allora come mai anche gli antichi, nella loro produzione poetica, spesso parlano dell’infelicità dell’uomo? In questa fase Leopardi non incolpa la ragione, ma il destino o gli dei (definizioni che rimandano ad unico concetto). Ma vedremo che tale spiegazione, che presumibilmente apparirà anche a lui insufficiente, sarà presto superata.

Tale posizione è illustrata mirabilmente in una delle più famose canzoni leopardiane, ancora appartenenti al primo periodo:

L’ULTIMO CANTO DI SAFFO

Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna; e tu che spunti
fra la tacita selva in su la rupe,
nunzio del giorno; oh dilettose e care
mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
sembianze agli occhi miei; già non arride
spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva
quando per l’etra liquido si volve
e per li campi trepidanti il flutto
polveroso de’ Noti, e quando il carro,
grave carro di Giove a noi sul capo,
tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
fiume alla dubbia sponda
il suono e la vittrice ira dell’onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
vile, o natura, e grave ospite addetta,
e dispregiata amante, alle vezzose
tue forme il core e le pupille invano
supplichevole intendo. A me non ride
l’aprico margo, e dall’eterea porta
il mattutino albor; me non il canto
de’ colorati augelli, e non de’ faggi
il murmure saluta: e dove all’ombra
degl’inchinati salici dispiega
candido rivo il puro seno, al mio
lubrico piè le flessuose linfe
disdegnando sottragge,
e preme in fuga l’odorate spiagge.

 Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
di misfatto è la vita, onde poi scemo
di giovanezza, e disfiorato, al fuso
dell’indomita Parca si volvesse
il ferrigno mio stame? Incaute voci
spande il tuo labbro: i destinati eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta prole
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
de’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,
alle amene sembianze eterno regno
diè nelle genti; e per virili imprese,
per dotta lira o canto,
virtù non luce in disadorno ammanto.

 Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
e il crudo fallo emenderà del cieco
dispensator de’ casi. E tu cui lungo
amore indarno, e lunga fede, e vano
d’implacato desio furor mi strinse,
vivi felice, se felice in terra
visse nato mortal. Me non asperse
del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perìr gl’inganni e il sogno
della mia fanciullezza. Ogni più lieto
giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
della gelida morte. Ecco di tante
sperate palme e dilettosi errori,
il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
han la tenaria Diva,
e l’atra notte, e la silente riva.

Placida notte e pudico raggio della luna tramontante luna e tu stella che spunti tra il silente bosco della scoscesa rupe annunciando il mattino; piacevoli e gradite immagini al mio sguardo, quando ancora sconosciute erano la passione e il destino d’amore; oramai un dolce spettacolo non giova a chi è disperato. A noi vivifica un’inconsueta felicità quando il soffio del vento turbina per la piovigginosa aria e per i campi agitati, quando l’imponente carro di Giove scaglia fulmini sul nostro capo, squarciando il cielo. A noi giova annegare per i dirupi e le profonde valli, per noi la disordinata fuga delle greggi o il suono e la vincitrice forza dell’onda di un profondo fiume sulla non sicura sponda. // Bella la tua copertura, o cielo divino, e bella sei tu, terra ricoperta di rugiada: ah di questa infinita bellezza niente hanno fatto gli dei ed il triste destino alla povera Saffo. Ai tuoi superbi regni, o natura, data come misera e non gradita ospite e disprezzata amante, invano supplichevole sollevo il cuore e lo sguardo. A me non giova un campo soleggiato, o l’alba che spunta dalla porta del cielo; non giovano il canto di variopinti uccelli e non il mormorio delle foglie dei faggi: e dove all’ombra dei salici pendenti un limpido ruscello dispiega le sue acque trasparenti, quello stesso ruscello disprezzandomi sottrae al mio incerto piede le sue acque sinuose e fuggendomi urta contro le sue rive profumate. // Quale colpa, quale così vergognosa enormità mi ha macchiato prima di nascere, per cui così ostile il cielo e la fortuna mi fossero? In cosa peccai bambina, quando la vita ignorava il male, quando ormai privata del fiore della giovinezza, il filo della mia spenta vita si riavvolgeva nel fuso della irremovibile Parca? (Rivolgendosi a se stessa) La tua bocca pronuncia incauti parole: i futuri avvenimenti sono voluti da una misteriosa volontà. Tutto è mistero, al di fuori del nostro dolore. Figli non desiderati nascemmo per piangere, e il motivo sta nel grembo degli dei. Oh preoccupazioni o vane aspirazioni della mia gioventù. Giove ha dato alla gente dominio eterno alla beltà; non risplende in un corpo brutto la virtù per imprese gloriose, suono sapiente o capacità letteraria. // Moriremo. Con il brutto corpo sparso sulla terra, l’animo nudo fuggirà verso la morte e correggerà il crudele errore del destino. E tu (Faone) a cui mi strinse un inutile lungo amore ed una lunga fedeltà ed una illusoria implacabile passione, vivi felice, se felicemente possa vivere sulla terra un mortale. Giove non asperse su di me il soave liquore della felicità dal vaso cui raccoglieva raramente. Ogni giorno più felice della nostra vita vola via. Subentrano le malattie, la vecchiaia, e la minaccia della fredda morte: ecco, di tante sperate glorie e piacevoli svaghi, la morte mi avanza, il mio tenace ingegno lo possiede la regina dell’Infero (Proserpina), l’oscura notte e il silenzioso rivo.

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Antoine-Jean Gros Sappho a Leucode (1801)

Questo testo, tra le canzoni di Leopardi, nella pubblicazione dei Canti da lui voluti, precede gli idilli, che invece verranno scritti prima. E’ un testo infatti del 1822, in cui si può misurare il classicismo leopardiano, ma come questo, al contrario di Foscolo, sia intessuto di elementi soggettivi e non più civili. Questa canzone è composta da quattro strofe di 18 versi sciolti, solo gli ultimi due che hanno rima baciata; i versi sono prevalentemente endecasillabi ad eccezione del penultimo che è settenario. Tale struttura risponde, secondo la retorica classica, ad un tema “gravissimo”, sia per la superiorità degli endecasillabi che per la quasi mancanza di rime.

Il tema, come ci dice egli stesso, è quello di “rappresentare l’infelicità di un animo delicato, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane”. Ciò ci conduce, direi quasi semplicisticamente, ad identificare la situazione del poeta recanatese con quella di Saffo. Ma se si accettasse una totale identificazione si perderebbe il senso ultimo di questo scritto. Troviamo infatti la concezione secondo la quale è il destino a serbarci un triste svolgersi della nostra esistenza, ma troviamo altresì un inizio di un ripensamento/approfondimento del ruolo della natura nella vita dell’uomo, come verrà poi sviluppato nelle Operette morali.

Operette morali: la morte della voce poetica: 1823 – 1826

Il giovane Leopardi, a seguito della corrispondenza col Giordani, aveva fortemente sentito la necessità di un allontanamento da Recanati e nel ’19 ci tentò, provando a fuggire. Scoperto dal padre, che temeva per la salute del giovane nonché, e forse ancor di più, delle meditazioni filosofiche politiche che nel figlio andavano maturando, lo fece desistere dal tentativo. Frustrato, senza poter più leggere, il nostro si lascerà andare a una più radicale meditazione che lo porta a riflettere sul senso della vita. Alla fine, col consenso del padre, ma siamo già nel ’22, riuscirà a partire e a raggiungere la grande città, Roma, ospite di uno zio, fratello della madre. Non sarà affatto entusiasta: laddove cercava un confronto vitale per l’affermazione della sua cultura, trova soltanto conformismo e grettezza; laddove cerca nelle vie la storia, non sa trovarla, perché si sente solo, non la conosce e non vuole sempre chiedere d’essere accompagnato. Vive in casa dello zio, circondato dall’affetto, ma non lo stesso che gli davano i fratelli a Recanati. Vi torna nel ’23 e sente che la poesia per lui non ha più voce. Accentua il sarcasmo sulla sua condizione ed inevitabilmente sulla condizione dell’uomo e medita di scrivere una serie di prose sul modello di Luciano di Samosata, scrittore irreverente del II secolo dopo Cristo. Nel 1824 scrive il corpus maggiore di esse (20) a cui se ne aggiungeranno 3 nel ’27 e due nel ’32. Nell’edizione definitiva, dettata da Leopardi a Ranieri ed uscita postuma, Leopardi ne eliminerà una, Dialogo di un lettore di umanità e Sallustio.

DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO

FOLLETTO: Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio*? Dove si va?
GNOMO: Mio padre m’ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno. Dubita che non gli apparecchino qualche gran cosa contro, se però non fosse tornato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro e argento; o se i popoli civili non si contentassero di polizzine per moneta come hanno fatto più volte, o di paternostri di vetro, come fanno i barbari; o se pure non fossero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare il meno credibile.
FOLLETTO: “Voi gli aspettate invan: son tutti morti”, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.
GNOMO: Che vuoi tu inferire?
FOLLETTO: Voglio inferire che gli uomini son tutti morti, e la razza è perduta.
GNOMO: Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s’è veduto che ne ragionino.
FOLLETTO: Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?

GNOMO: Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?
FOLLETTO: Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo.
GNOMO: Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari.
FOLLETTO: Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.
GNOMO: E i giorni della settimana non avranno più nome.
FOLLETTO: Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano? o forse ti pensi, poiché sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?
GNOMO: E non si potrà tenere il conto degli anni.
FOLLETTO: Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo; e non misurando l’età passata, ce ne daremo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo aspettando la morte di giorno in giorno.
GNOMO: Ma come sono andati a mancare quei monelli?
FOLLETTO: Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.
GNOMO: A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di pianta, come tu dici.
FOLLETTO: Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.
GNOMO: Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli.
FOLLETTO: E non volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per li folletti.
GNOMO: Tu folleggi veramente, se parli sul sodo.
FOLLETTO: Perché? io parlo bene sul sodo.
GNOMO: Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo è fatto per gli gnomi?
FOLLETTO: Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra? Oh questa è la più bella che si possa udire. Che fanno agli gnomi il sole, la luna, l’aria, il mare, le campagne?
GNOMO: Che fanno ai folletti le cave d’oro e d’argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle?
FOLLETTO: Ben bene, o che facciano o che non facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie. E però ciascuno si rimanga col suo parere, che niuno glielo caverebbe di capo: e per parte mia ti dico solamente questo, che se non fossi nato folletto, io mi dispererei.
GNOMO: Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato gnomo. Ora io saprei volentieri quel che direbbero gli uomini della loro presunzione, per la quale, tra l’altre cose che facevano a questo e a quello, s’inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genere umano, e che la natura gliel’aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori.
FOLLETTO: Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagatella. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo e le storie delle loro genti, storie del mondo: benché si potevano numerare, anche dentro ai termini nella terra, forse tante altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d’uomini vivi: i quali animali, che erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però mai che il mondo si rivoltasse.
GNOMO: Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?
FOLLETTO: Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come essi dicevano.
GNOMO: In verità che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci.
FOLLETTO: Ma i porci, secondo Crisippo erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale.
GNOMO: Io credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece dell’anima, non avrebbe immaginato uno sproposito simile.
FOLLETTO: E anche quest’altra è piacevole; che infinite specie di animali non sono state mai viste né conosciute dagli uomini loro padroni; o perché elle vivono in luoghi dove coloro non misero mai piede, o per essere tanto minute che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire. E di moltissime altre specie non se ne accorsero prima degli ultimi tempi. Il simile si può dire circa al genere delle piante, e a mille altri. Parimenti di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d’anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende.
GNOMO: Sicché, in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giù per l’aria, avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio degli uomini.
FOLLETTO: Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.
GNOMO: E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.
FOLLETTO: E il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo.

* gli gnomi erano spiriti che vivevano sottoterra, figli di Sabazio, divinità dei Traci corrispondente al Dioniso dei Greci. I folletti, al contrario erano natura dell’aria.

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Illustrazione per l’operetta leopardiana

L’operetta, come la maggior parte di quelle della prima edizione, è del 1824 e viene considerata fra le più riuscite per il ritmo serrato del dialogo, che fa sì che in essa si riveli una “levità musicale” come dice il critico Fubini, e per la forte ironia che riesce a togliere il senso tragico al tema che fa da sottofondo alla riflessione leopardiana. E’ evidente che qui venga criticata l’arroganza di chi crede che la terra sia a servizio dell’uomo e ci viene mostrato, attraverso un efficace paradosso che alla scomparsa dell’uomo, non corrisponderebbe affatto un’altrettanta scomparsa della terra. Ma l’importanza dell’operetta è che essa sembra situarsi ancora in un momento d’incertezza leopardiana, la stessa che si era già mostrata nell’ultimo canto di Saffo: non è un caso che in un passo citi le colpe dell’uomo per la loro autodistruzione e non dia colpa alcuna colpa alla natura che prende solamente “atto” della loro assenza.

Bisognerà attendere il capolavoro delle Operette in cui tale “empasse” verrà finalmente risolto:

DIALOGO DI UN ISLANDESE E DELLA NATURA

Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l’interiore dell’Affrica, e passando sotto la linea equinoziale in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque. Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse: 
NATURA: Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?
ISLANDESE: Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa. 
NATURA: Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
ISLANDESE: La Natura?
NATURA: Non altri.
ISLANDESE: Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere.
NATURA: Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi?
ISLANDESE: Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza è dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell’isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’immagine di piacere, io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l’intensità del freddo, e l’ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degl’incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, che d’esser quieta; riescono di non poco momento, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell’animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine d’impedire che l’esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le altre cose non m’inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te di nessun’ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori dell’aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l’abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m’inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all’uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando che tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l’uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l’uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l’animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l’ordinario); tu non hai dato all’uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne’ paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole e dall’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l’uomo non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto all’una o all’altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi che ne seguono.
NATURA: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
ISLANDESE: Ponghiamo caso che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de’ tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.
NATURA: Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
ISLANDESE: Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?
Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa. 

Tale “operetta” ci conduce ad un punto di svolta in cui la meditazione leopardiana sul rapporto natura/uomo era giunta.

Convergono in essa alcuni punti interessanti:

  • identificazione islandese/ Leopardi: ambedue viventi ai confini del mondo. Il primo in un’isola poco frequentata nel nord Europa; il secondo in un piccolo centro dello Stato della Chiesa, chiuso ad ogni contatto culturale “moderno”;
  • La trasformazione del “viaggio” di settecentesca memoria, rivolto alla conoscenza e acquisizione di usi e costumi di realtà diverse; qui, invece, la conoscenza è di origine filosofica e si ammanta di sapere classico (epicureo e quindi lucreziano, nonché dell’apporto stoico di Seneca).

Proprio a partire dal primo punto notiamo che l’Islandese/Leopardi è un protagonista lontano dalla civiltà e quindi “naturalmente” portato a vivere in contatto con la natura. Il fatto che egli la fugga, lo pone in antitesi proprio al viaggio settecentesco: si pensi, per la letteratura italiana, ai passi di Alfieri sul mar Baltico e come l’imponenza dei ghiacci portava l’uomo a quella sublimità che potremo certamente definire “preromatica”.

Qui vi è non il viaggio, ma la fuga, illusoria: la natura non si può fuggire in quanto sta dentro di noi; per Leopardi noi stessi siamo natura e pertanto è illusorio cercare di fuggirla. L’uomo vi ha tentato anche con razionalità, vincendo lo stupido antropocentrismo e cercando un luogo in cui l’uomo potesse stare senza adattamento, come gli orsi nel gelo o i leoni nella savana. Ma tale luogo la natura non lo ha predisposto. Allora, attraverso un incalzante interrogativo Leopardi le chiede perché la Natura stessa ha creato l’uomo per poi disinteressarsi completamente di lui. Riprende la teoria illuminista, già vista in Foscolo, secondo cui, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, quindi quella teoria che vede la natura come un processo meccanico. Tale è la risposta della stessa Natura, che non può generare, a sua volta, che l’interrogativo sul motivo del vivere se poi tale vita è inutile per l’uomo, ma utile solo alla stessa natura. Non c’è risposta e la chiusura è grottesca, amara. I due leoni, rappresentanti essi stessi la natura, sbranandolo, campano un giorno in più, o ancora, diventato mummia, si riduce ad essere oggetto di sguardi curiosi (di chi?).

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Attilio Del Giudice: Dialogo della natura e di un islandese

Concludendo potremo solo dire che, quello già intuito ne L’ultimo canto di Saffo, approfondito nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo, negato quello che precedentemente aveva rappresentato l’idillio L’infinito, ci troviamo di fronte al passaggio per cui l’antinomia natura/ragione viene a cadere, determinando l’ineluttabile infelicità umana. Tale fase del pensiero leopardiano prende il nome di “pessimismo cosmico”.

Produzione letteraria nel periodo pisano-recanatese 1828 -1830

Questo è lo stesso atteggiamento che Leopardi avrà nella stagione dei cosiddetti “Grandi Idilli”, scritti nel periodo pisano-recanatese, in cui, dopo l’esperienza prosastica delle Operette, sente rinascere la voglia della poesia, come dice, in una lettera, alla sorella Paolina: Dopo due anni ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta.

Nascono infatti Il risorgimento e la celeberrima A Silvia, composta a Pisa nel ’28:

A SILVIA

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi? 

 Sonavan le quiete stanze,
e le vie d’intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.

 Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi? 

 Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.

Anche perìa fra poco

la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? Questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.

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Silvia, ricordi ancora quel tempo della tua vita, quando la bellezza risplendeva nei tiuoi occhi felici e pudichi e tu, lieta e pensosa, ti preparavi ad affrontare l’età che immette alla giovinezza? // La casa e le vie intorno risuonavano del tuo interrotto canto, quando occupata in lavori femminili sedevi abbastanza contenta di quell’incerto futuro che sognavi. Era il mese del profumato Maggio e tu trascorrevi così le tue giornate. // Io, a volte interrompendo i graditi studi e le fatiche letterarie tra le quali trascorrevo la mia giovinezza e la parte migliore di me, dai balconi della casa paterna ascoltavo il suono della tua voce ed il telaio che velocemente facevi scorrere con la mano. Contemplavo il cielo sereno, le strade illuminate dal sole, i giardini e da una parte il mare in lontananza e dall’altra i monti. Nessuno può dire ciò che provavo dentro di me. // Che dolci pensieri, che speranze, o Silvia mia! Come ci sembrava allora la vita umana e il destino! Quado mi viene in mente quanto grandi fossero le nostre speranze mi sento opprimere da un senso di angoscia crudele e inconsolabile e ricomincio a sentire tutto il dolore per la mia vita sventurata. O natura, natura, perché non mantieni le promesse che fai in gioventù? Perché così tanto inganni i tuoi figli? // Tu prima che l’inverno facesse seccare l’erba, morivi, dopo essere stata combattuta e vinta da un male incurabile, o tenera ragazza. E non vedevi la giovinezza, non ti rallegrava il cuore ascoltare le dolci lodi rivolte ora alla tua bellezza dei tuoi neri capelli, ora ai tuoi occhi innamorati e sfuggenti, né con te le compagne, nei giorni di festa, parlavano d’amore. // Poco dopo venivano meno anche i miei dolci sogni; il destino ha negato anche a me la giovinezza. Ahi come sei irrevocabilmente svanita, cara compagna della mia giovinezza, mia compianta speranza. Questo è quel mondo tanto desiderato? Questi i piaceri, l’amore, il lavoro gli accadimenti di cui parlammo tanto insieme? Questa è la sorte degli uomini? Appena la vita è apparsa per quello che è veramente tu infelice cadesti: e con la mano mostravi di lontano la fredda morte e la tomba disadorna.

Questa canzone è considerata, al pari dell’Infinito, come uno dei punti più alti della poesia leopardiana. Essa è composta da sei strofe di lunghezza ineguale in versi endecasillabi e settenari liberamente rimati.

Non vi è in essa un racconto, ma le immagini di un ricordo (non è un caso che, nello stesso periodo egli componga Le Ricordanze) e, come ricordo, appare al poeta degno di essere cantato perché essendo esso indefinito e di contorni sfumati, non può che nascere dall’immaginazione della mente (che richiama in sé episodi), e pertanto risulta essere fortemente poetico.

Tale discorso ci è confermato proprio dalla figura di Silvia, appena tratteggiata (occhi scuri e fuggitivi, mani veloci che tessono). Ella è altrettanto vaga da essere richiamata dal senso uditivo più che visivo, ricreando quell’opposizione siepe/infinito, fruscio/silenzio e qui limite della finestra, sguardi fuggenti, lavoro e canto.

Il loro, come ci viene suggerito, è un non rapporto, è un non incontro tra una giovane popolana ed giovane intellettuale, ambedue fermi sul limitare della giovinezza. Ed è proprio in questo limitare che si ferma il pensiero leopardiano: Oh natura, natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? Domanda retorica, certamente, la cui risposta non può che essere quella già formulata nel Dialogo di un islandese e della natura: essa è indifferente al destino dell’uomo. Ma qui, come nel venditore d’almanacchi (non per niente più o meno della stessa fase) vi è in più condivisione di un identico destino, quella che latinamente potremo definire compassione, che non ha nulla di religioso, ma come soffro con te, quindi soffriamo insieme (cum patior) per un identico destino.

Tale compassione deriva dalla constatazione di una duplice morte; la prima fisica: l’orrenda tisi porta via una giovane donna, uccidendo in lei ogni illusione di vita futura, ma di pienezza di vita, dell’esplodere della giovinezza e della sessualità; la seconda è una morte intellettuale: accortosi dell’“aridità del vero” la vita perde senso, coincidendo, quindi, con la non vita.

Anche qui, sapientemente disseminati operano richiami filosofici e letterari: Virgilio e il canto di Circe Solis filia lucos / adsiduo resonat cantu … arguto tenues percurrens pectine telas (dove la figlia del Sole fa risuonare gli inaccessibili boschi del suo continuo canto …, percorrendo le tele sottili col pettine sonoro); concetto di morte come nulla, di matrice stoica.

La gioia ritrovata nel mite ambiente pisano non può durare a lungo. Le gravi difficoltà economiche, determinate dall’interrompersi del rapporto con l’editore Stella che gli aveva proposto un commento dei classici, il peggiorare delle sue condizioni fisiche, che non gli consentono né di leggere, né di scrivere (ha bisogno di qualcuno che lo faccia per lui) lo riportano nel natìo borgo selvaggio.

Ma questo non gli uccide la vena poetica, anzi sembra prosegua grazie al ricordo e all’affetto ritrovato (soprattutto per la sorella Paolina).

Tuttavia le sue condizioni peggiorano; ad esse si aggiunge la notizia della morte del fratello Luigi, morto per tisi a soli 24 anni. Prostrato da una parte dal dolore, dall’altra da difficoltà fisiche ed economiche, si sposta per l’estate a Firenze, ma le sue condizioni peggiorano. Quindi ad autunno inoltrato torna a Recanati, in compagnia di Vincenzo Gioberti, giovane prete conosciuto a Firenze. In casa le condizioni non sono delle migliori: gli viene anche a mancare il diletto fratello Carlo, che è scappato per sposarsi contro la volontà dei genitori. Cade in una incredibile malinconia, che lo estraniano ancora di più, anche dalle figure familiari. Ma, nonostante tale “infelicità”, non si attenua la vena poetica, che gli permette di riprendere a scrivere delle pagine poetiche di altissima intensità. La prima di esse è Le ricordanze, composta in Recanati nel ’29:

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Recanati al tramonto

LE RICORDANZE

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo,
e delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
creommi nel pensier l’aspetto vostro
e delle luci a voi compagne! Allora
che, tacito, seduto in verde zolla,
delle sere io solea passar gran parte
mirando il cielo, ed ascoltando il canto
della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
e in su l’aiuole, susurrando al vento
i viali odorati, ed i cipressi
là nella selva; e sotto al patrio tetto
sonavan voci alterne, e le tranquille
opre de’ servi. E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
questa mia vita dolorosa e nuda
volentier con la morte avrei cangiato.

Nè mi diceva il cor che l’età verde
sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una gente
zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo,
son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
per invidia non già, che non mi tiene
maggior di se, ma perchè tale estima
ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
a persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
tra lo stuol de’ malevoli divengo:
qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
e sprezzator degli uomini mi rendo,
per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola
il caro tempo giovanil; più caro
che la fama e l’allor, più che la pura
luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
senza un diletto, inutilmente, in questo
soggiorno disumano, intra gli affanni,
o dell’arida vita unico fiore.

Viene il vento recando il suon dell’ora
dalla torre del borgo. Era conforto
questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
quando fanciullo, nella buia stanza,
per assidui terrori io vigilava,
sospirando il mattin. Qui non è cosa
ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per se; ma con dolor sottentra
il pensier del presente, un van desio
del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
raggi del dì; queste dipinte mura,
quei figurati armenti, e il Sol che nasce
su romita campagna, agli ozi miei
porser mille diletti allor che al fianco
m’era, parlando, il mio possente errore
sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,
al chiaror delle nevi, intorno a queste
ampie finestre sibilando il vento,
rimbombaro i sollazzi e le festose
mie voci al tempo che l’acerbo, indegno
mistero delle cose a noi si mostra
pien di dolcezza; indelibata, intera
il garzoncel, come inesperto amante,
la sua vita ingannevole vagheggia,
e celeste beltà fingendo ammira.

O speranze, speranze; ameni inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; che per andar di tempo,
per variar d’affetti e di pensieri,
obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
son la gloria e l’onor; diletti e beni
mero desio; non ha la vita un frutto,
inutile miseria. E sebben vóti
son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
il mio stato mortal, poco mi toglie
la fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo il viver mio sì vile
e sì dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m’avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
sarammi allato, e sarà giunto il fine
della sventura mia; quando la terra
mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
fuggirà l’avvenir; di voi per certo
risovverrammi; e quell’imago ancora
sospirar mi farà, farammi acerbo
l’esser vissuto indarno, e la dolcezza
del dì fatal tempererà d’affanno.

E già nel primo giovanil tumulto
di contenti, d’angosce e di desio,
morte chiamai più volte, e lungamente
mi sedetti colà su la fontana
pensoso di cessar dentro quell’acque
la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
malor, condotto della vita in forse,
piansi la bella giovanezza, e il fiore
de’ miei poveri dì, che sì per tempo
cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso
sul conscio letto, dolorosamente
alla fioca lucerna poetando,
lamentai co’ silenzi e con la notte
il fuggitivo spirto, ed a me stesso
in sul languir cantai funereo canto.

Chi rimembrar vi può senza sospiri,
o primo entrar di giovinezza, o giorni
vezzosi, inenarrabili, allor quando
al rapito mortal primieramente
sorridon le donzelle; a gara intorno
ogni cosa sorride; invidia tace,
non desta ancora ovver benigna; e quasi
(inusitata maraviglia!) il mondo
la destra soccorrevole gli porge,
scusa gli errori suoi, festeggia il novo
suo venir nella vita, ed inchinando
mostra che per signor l’accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo
son dileguati. E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
questa Terra natal: quella finestra,
ond’eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. Ove sei, che più non odo
la tua voce sonar, siccome un giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
il passar per la terra oggi è sortito,
e l’abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
la gioia ti splendea, splendea negli occhi
quel confidente immaginar, quel lume
di gioventù, quando spegneali il fato,
e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
l’antico amor. Se a feste anco talvolta,
se a radunanze io movo, infra me stesso
dico: o Nerina, a radunanze, a feste
tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
van gli amanti recando alle fanciulle,
dico: Nerina mia, per te non torna
primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
dico: Nerina or più non gode; i campi,
l’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
sospiro mio: passasti: e fia compagna
d’ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cor, la rimembranza acerba.

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Le Ricordanze: pagina autografa

Belle stelle dell’Orsa, non avrei mai creduto di tornare a contemplarvi ancora dopo così tanto tempo come facevo una volta mentre brillate nel giardino della casa di mio padre e parlare con voi dalle finestre della casa che fu mia quando ero un adolescente e dove conobbi la fine delle gioie della mia vita. Quante immagini e quante fantasie un tempo mi creavo nei pensieri vedendo voi e le altre stelle vicine nel cielo! Quando seduto sul prato, silenzioso, trascorrevo le mie serata scrutando il cielo e ascoltando il canto della rana lontana nei campi. E la lucciola volava sulle siepi e sulle aiuole mentre i viali profumati e i cipressi lontani nella selva sussurravano al vento; e nella casa paterna risuonavano le voci e il lavoro dei servi. E quali pensieri immensi e dolci sogni mi ispirò guardare il mare lontano, e i monti azzurri che scopro dalla casa e che un giorno sognavo di varcare, credendo di trovare al di là dei mondi misteriosi e immaginando per la mia vita una felicità sconosciuta. Ignaro del mio destino e di quante volte in seguito avrei scambiato questa vita con la morte senza alcun rimpianto dolorosa e priva di gioie. // Nemmeno il cuore mi ha fatto cenno del fatto che sarei stato condannato a consumare la mia giovinezza in questo verde borgo selvaggio in cui sono nato, fra gente ignobile e incivile; per questa gente, la cui voglia di conoscere e di cultura sono parole strane e spesso oggetto di scherno; questa gente che mi odia e mi sfugge non per invidia, poiché non mi ritiene migliore di sé, ma perché pensa che migliore mi ritenga io rispetto a loro, sebbene io non abbia mai dato segno di ciò. Qui passo i miei anni, nascosto e abbandonato, senza vita e senza amore, e tra le persone malevoli divento come non sono mai stato, aspro e scortese: qui mi spoglio di pietà e virtù e disprezzo le persone meschine tra cui vivo; e intanto se ne va il tempo caro della gioventù, più caro della gloria e della fama, più caro della luce pura del giorno e dello stesso vivere: ti perdo senza aver avuto un attimo di gioia, inutilmente, in questo inumano soggiorno, con solo gli affanni come unico fiore nella vita arida. // Viene il vento facendo suonare le campane della torre del borgo. E ricordo che questo suono era per me un conforto quando ero un ragazzino e durante le notti passate nella camera buia vegliavo a causa di incubi e inquietudini incessanti, sospirando perché arrivassero presto il mattino e la luce del giorno. Non c’è nulla qui che, vedendolo o sentendolo,  non faccia riaffiorare alla mia memoria un’immagine dalla quale prende vita un ricordare dolce. Dolce di per sé; però poi con dolore arriva il pensiero del presente e un desiderio vano del passato che mi porta a dire: ho esaurito la mia esistenza. Quella loggia volta ad ovest queste pareti affrescate e i dipinti che raffigurano greggi, e il sole che sorge sulla campagna solitaria mi procurano mille diletti nei momenti di riposo dagli studi quando, dovunque mi trovassi, si trovava vicino a me quella mia capacità di credere nei sogni. In quelle antiche sale, al riflesso della neve, mentre il vento sibilava forte tutt’attorno a queste ampie finestre, risuonarono i giochi e le mie grida felici nel tempo in cui si mostra il duro pieno di dolcezza, l’indegno mistero della vita e della realtà non ancora sperimentata e intatta; e chi è il ragazzo che ancora sogna, come un innamorato inesperto una vita che sarà piena di inganni e che ammira una bellezza celeste vista con gli occhi dell’immaginazione. //  O speranze, speranze, dolci inganni della mia adolescenza! Sempre, parlando, io torno a voi; poiché non so dimenticarvi per quanto trascorra il tempo, per quanto anche gli affetti e i pensieri cambino. Fantasmi, io lo so, sono gloria e onore, il bene e i diletti solo un puro desiderio. E sebbene i miei anni siano vuoti, sebbene oscura e solitaria sia la mia vita mortale, so bene che la fortuna ha ben poco da prendersi da me. Ma, ahimè, ogni volta che vi ripenso, o mie speranze antiche, e che penso al mio fantasticare sul futuro e lo confronto con questa mia vita così inutile e priva di scopo e così dolorosa, che solo la morte mi resta dopo aver sognato grandi speranze sento stringermi il cuore e sento che non mi riesco a rassegnare del tutto al mio destino. E anche quando questa morte che invoco mi raggiungerà e sarà arrivata la fine delle mie sventure; quando per me la terra sarà una valle straniera e dal mio sguardo il futuro fuggirà; mi ricorderò sicuramente di voi, mie speranze, quell’immagine mi farà ancora sospirare, e renderà amaro il mio aver vissuto invano; e l’amarezza del ricordo andrà a guastare perfino il giorno in cui avrò la gioia di cessare di vivere. // E già in adolescenza, in quel primo tumulto di felicità di angosce di desideri, più volte ho invocato la morte e a lungo stetti seduto là, su quella fontana pensando di fermare dentro di me l’acqua di quelle speranze, il dolore di questa mia vita. Poi, ridotto in pericolo di vita da una malattia, rimpiansi la mia bella giovinezza il fiore dei miei giorni così poveri di gioie che così precocemente appassiva; e spesso, la sera tardi, seduto sul letto che, testimone delle mie sofferenze, scrivendo dolorosamente poesie alla luce fioca, piansi col silenzio e la notte come unici compagni, l’energia della vita che mi abbandonava. E proprio nel momento in cui la vita mancava, cantai un canto funebre. //  Chi può mai ricordarvi senza sospiri, o primi momenti della mia giovinezza, giorni pieni di lusinghe indescrivibili, e allorquando al giovane estasiato sorridono le fanciulle; tutto intorno ogni cosa sorride a gara, l’invidia tace e non eccita ancora oppure è innocua; e quasi il mondo porge la mano destra in aiuto, come volesse scusarsi dei suoi errori, festeggiando il nuovo entrare della vita e facendogli omaggio mostra di accettarlo come suo signore e lo chiami? Ma quei giorni sono fugaci e si sono dileguati come un lampo. E quale uomo può dire di non aver conosciuto sventura se ormai è trascorsa la bellezza di quell’età se il suo bel tempo, la sua giovinezza, ahi la giovinezza è oramai finita e spenta? //  O, Nerina! E non sento forse questi luoghi che parlano di te? Sei forse caduta dal mio pensiero? Dove sei fuggita, che qui di te trovo solo le ricordanze, o dolcezza mia? Questa terra mia natale oramai non ti vede più: quella finestra, dalla quale avevi l’abitudine di parlarmi, e dove si riflette mesta la luce delle stelle, è ora deserta. Dove sei, ora che non sento la tua voce che risuona, quando ogni parola che mi arrivava dalle tue labbra da lontano mi faceva impallidire? Altro tempo. Furono i tuoi giorni, amore mio dolce. Passasti. Il passaggio su questo mondo ad altri ora è dato in sorte, l’abitare questi odorati colli. Ma troppo rapida sei passata e la tua vita è stata breve quasi come un sogno. Danzavi, tu, nel cammino della vita. La gioia risplendeva intorno a te, e quel fiducioso immaginare intorno all’avvenire e la luce della giovinezza splendevano nei tuoi occhi, quando il destino li ha poi spenti facendoti morire. Ahi Nerina. Nel mio cuore ancora regno l’amore antico. Quando, a volte, vado a feste o a raduni dico tra me e me: o Nerina, a feste e raduni tu non vai più, e più non ti prepari. Se maggio torna, e gli amanti vanno donando canti e ramoscelli alle fanciulle, dico: per te, Nerina mia, la primavera non tornerà mai più, né tornerà l’amore. Ogni bella giornata, ogni valle in fiore che io guardo, ogni piacere che io sento, mi dico: Nerina ora non ne gode più; i campi e l’aria lei non guarda più. Ahi, tu sei passata, eterno sospiro mio: passasti e il tuo ricordo acerbo sarà mio compagno in ogni dolce immaginare, di tutti i miei teneri sentimenti, di tutti i miei cari e tristi moti del cuore.

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Parco letterario a Recanati

La poesia che sboccia a Pisa, continua a modulare la sua voce nel “natio borgo selvaggio”, come definisce Recanati nel terzo verso della seconda strofa. E’ tra le mura di una casa e di un paese ostile, più forte si fa sentire il sentimento del ricordo, di come quei luoghi li ha vissuti e come ora gli si presentano. E lo fa in un testo che viene definito “della rimembranza”, concetto già definito da lui intrinsecamente poetico.

Il testo è composto da sette strofe di endecasillabi e settenari variamente rimati.

  1. L’incipit con l’evocazione alle stelle rimanda alla poesia del “vago” e dell'”indefinito”, già presente nei piccoli idilli e in A Silvia. A questi viene aggiunto il concetto della “rimembranza” di quegli stessi luoghi vissuti nella fanciullezza, dove il poeta ora è tornato “a contemplarvi  sul paterno giardino”. In questa strofa l’uso verbale tra imperfetto e passato remoto sottolinea questo rapporto tra passato vissuto ed immaginato e il presente, ma viene anche ripetuta l’opposizione tra dentro e fuori, interno esterno, realtà immaginazione già vista sin dall’Infinito: il poeta all’interno della casa osserva il cielo dalle finestre per ragionar con le stelle dell’Orsa. A tutto questo si contrappone la consapevolezza filosofica del vero: da una felicità solo pensata e fantasticata emerge la realtà che era solamente finzione per questa vita dolorosa e nuda che avrebbe cambiato volentieri con la morte;
  2. Contrasto fra poeta e il paese reale, pieno di gente “zotica, vil”. Ora, qui (avverbio posto ad inizio verso, a rimarcare il luogo in cui si sente incarcerato), in questo luogo “abbandonato e occulto” (segregato in casa e isolato) il poeta non può che esacerbare il suo astio, diventando “sprezzator degli uomini”. Ed è proprio qui che ha perduto la sua giovinezza, unico fiore di una vita arida.
  3. Torna il ricordo, dal suonare dell’orologio della torre agli armenti dipinti sulle pareti. L’acerbità del presente e dei luoghi in cui vive, può solo essere attenuata dai ricordi che questi stessi luoghi possono suscitare; ed ecco riaffiorare nella mente del poeta la neve che appare dalle chiuse finestre o il sibilare del vento tra le mura, visioni e rumori accompagnati dalle grida festose di loro bambini (è evidente il riferimento ai giochi infantili tra Giacomo, Carlo e Paolina). La dolcezza infinità di un mondo in cui è possibile fingere una vita “pien di dolcezza” per il “mistero delle cose”.
  4. Almeno la giovinezza si alimenta di speranze, che soltanto la maturità può definirle “ameni (dolci) inganni”. Il rapporto tra il passato e presente qui si fa più intenso e la felicità del ricordo di ciò che è stato non placa il desiderio di una morte che annulli ogni dolore. Anche in quel momento in cui viene spento ogni futuro, nell’attimo stesso dell’abbandono della vita, il poeta sarà travolto dal pensiero della disillusione per l’uomo, dall’infelicità della condizione umana.
  5. La strofa si più cupa, ma sempre letterariamente controllata (si noti il richiamo petrarchesco dal sonetto proemiale – in sul mio primo giovanil errore: nel primo giovanil tumulto). In essa  il poeta ricorda che già allora riemergeva l’idea del suicidio.
  6. Qui, in questa stanza, le immagini si fanno più chiare, leggere: l’idea di una giovinezza accompagnata dal sorriso di fanciulle, da una vita solare che perdona gli errori giovanili, dal nascere. Ma queste immagini non possono che portare alla consapevolezza dell’infelicità della vita, in quanto, diventati adulti,  tali illusioni non sono che vaghi sogni.
  7. Nell’ultima strofa appare Nerina, compagna ideale di Silvia, per alcuni critici, la stessa persona. Qui tuttavia, al contrario della poesia scritta a Pisa, Nerina è cantata in assenza. Il paese vive la sua assenza, non la vede alla finestra, non la sente cantare: lei è la vita che si spegne di cui è rimasto solo il ricordo. 

IL SABATO DEL VILLAGGIO

La donzelletta vien dalla campagna
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e viole,
onde, siccome suole, ornare ella si appresta
dimani, al dí di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dí della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch’ebbe compagni nell’età piú bella.
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giú da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore;
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo riposo. 

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi al chiarir dell’alba.

 Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.

 Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave. 

La fanciulla ritorna dalla campagna al tramonto del giorno, portando un fascio d’erba (per gli animali) e tiene in mano un mazzolino di rose e di viole, delle quali, come è solita,. Si prepara ad ornare l’indomani, giorno di festa, il petto ed i capelli. Intanto sulle scale siede a filare con le vicine una vecchietta, rivolta là dove tramonta il sole, e racconta la sua giovinezza, quando anch’ella si prepara la domenica e ancora giovane e bella era solita andare a ballare con coloro che erano giovani come lei. Ormai inizia a scurire, il cielo torna azzurro e al biancheggiare della luna appena sorta ritornano le ombre giù dai colli e dalle case. Ora la campana dà il segno della festa che sta arrivando; e a quel suono si direbbe che il cuore si consola. I ragazzini, cantando in gruppo sulla piazzola, e saltando di qua e di là fanno un rumore allegro, e intanto il contadino torna alla sua povera casa, fischiettando e tra sé e sé pensa al giorno del riposo. // Poi quando intorno tutti i lumi sono spenti e tutto è silenzio, senti il martello picchiare, senti la sega del falegname che, sveglio nella sua bottega chiusa, alla luce di una lucerna si affretta a finire un lavoro prima della luce dell’alba. // Questo è il giorno più gradito della settimana, pieno di speranza e di gioia: domani le ore porteranno tristezza e noia, e ognuno tornerà al pensiero delle fatiche di tutti i giorni. // Ragazzino scanzonato, questa giovinezza è come un giorno luminoso sereno, che precede la maturità. Godi, ragazzo, della giovinezza; questa è una condizione beata, un’età gioiosa. Non ti pesi che la maturità tardi ancora a venire.

La canzone, composta da 4 strofe di endecasillabi e settenari, variamente rimati, fu composta nel ’29. Il tema centrale in essa è il piacere, riprendendolo da ciò che aveva elaborato in gioventù. Infatti nel ’21 Leopardi, nello Zibaldone, scriveva: Il piacere umano (…) sui può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere. Tale concetto viene qui vivificato in un quadretto recanatese, il giorno di sabato, in cui, appunto, nell’attesa della domenica, si vive nell’aspettativa del riposo; ma la domenica si riempie a sua volta dalla preoccupazione del lavoro del lunedì. Tale concetto si riaffaccia con plasticità nella figura della donzelletta e della vecchierella: esse diventano a loro volta simbolo dell’attesa del futuro e del ricordo, due attimi che negano il presente, per cui la felicità non si dà. L’immagine finale vuole infatti sottolineare il concetto di giovinezza come momento d’aspettativa di maturità, dell’illusione di felicità: ma non può nascondere, verso i giovani vocianti nella piazza quel sentimenti di compassione che umanizza la tragicità della condizione umana.

La condizione tragica della vita di un uomo riappare in uno dei canti più alti di Leopardi: anche qui, come l’Islandese, un isolato dal mondo:

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Antonio Berté: Quadro ispirato dalla canzone leopardiana

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colá dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir della terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
A che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Cosí meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre lá donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrá fors’altri; a me la vita è male.

 O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente; ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so giá dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

 Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.

Che fai nel cielo, luna? Dimmi che fai silenziosa luna? Sorgi di sera e vai sopra i deserti, poi tramonti. Non sei ancora stanca di far lo stesso tragitto in eterno? Ancora non sei stufa, ancora sei desiderosa di contemplare queste valli? La tua vita somiglia a quella di un pastore: si sveglia all’alba, porta il gregge sempre avanti nei campi e vede pecore, sorgenti e prati; poi, stanco, si riposa la sera e non spera nient’altro. Dimmi, luna, quale vantaggio trae il pastore da questa vita e a voi, corpi celesti, la vostra vita? Dimmi, qual è il fine di questa mia breve vita e della tua, invece, eterna? // Un vecchio dai capelli bianchi, infermo, mal vestito e scalzo, porta sulle spalle un carico pesantissimo lungo un percorso di sassi aguzzi, sabie dove si sprofonda, macchie piene di spine, al vento, nella tempesta, nel caldo afoso, nel gelo e corre desideroso, supera torrenti e stagni, cade, si rialza e si affretta sempre più, senza quiete né ristoro, lacero e insanguinato, finché non arriva là dove questo faticoso tragitto lo conduce: un abisso orrendo, immenso, dove egli, precipitando, dimentica tutto. Vergine luna, questa e la tua vita mortale. // L’uomo nasce nel dolore del parto, e la nascita è un momento in cui rischiamo la vita. Dolore e tormento sono per il nato le prime sensazioni e nel momento stesso in cui nasce, il padre e la madre cominciano a consolarlo per il fatto di essere nato; poi, man mano che cresce, padre e madre gli danno aiuto e in continuazione con gesti e parole si preoccupano di fargli coraggio e di consolarlo della situazione che vive da essere umano: non c’è nessun altro compito più prezioso che svolgano i genitori per il proprio figlio. Ma per quale motivo si dà vita, perché si continua a sostenere qualcuno se poi bisogna consolarlo di questa stessa vita? Se la vita è una sventura, perché mai dovremmo continuare a sopportarla e a vivere? Intatta luna, questo è lo stato dell’essere umano. Ma tu non sei mortale, e forse non t’importa nulla di quello che ti dico. // Eppure, tu che te ne stai sola e viaggi in eterno, e sei così pensierosa, tu forse capisci che cosa sono questo nostro vivere terreno, le nostre sofferenze, i nostri sospiri; questo morire, questo pallore del viso nel momento in cui moriamo e spariamo dalla terra, mancando alla consueta, compagnia di uomini che ci hanno voluto bene. E tu forse comprendi il senso profondo di queste cose, del ciclo del tempo e delle leggi dell’universo. Tu sai certamente per amore di che cosa giunga la primavera, sorridente, a chi sia di vantaggio l’estate e a chi l’inverno con il suo gelo. Conosci mille cose e mille ne scopri, mentre queste sono nascoste al semplice pastore. Spesso quando ti contemplo, mentre tu sei muta su questa pianura deserta, che è tanto estesa che all’orizzonte confina con il cielo; o quando ti vedo che mi segui mentre conduco il gregge; e quando vedo in cielo brillare le stelle, dico pensando fra me e me: qual è il senso di tutte queste luci? Che scopo ha l’aria infinita, e quel profondo infinito sereno? E che cosa significa questa immensa solitudine? E io chi sono? Così penso fra me e me: e così allo stesso modo non so indovinare quale utilità e valore vi sia della immensa stanza [dell’universo] e dello sterminato numero di esseri viventi; e poi nemmeno di questo darsi da fare, di questi movimenti di ogni cosa celeste e terrestre, che girano senza posa per tornare sempre là da dove sono partite. Ma tu, giovane immortale, sicuramente conosci il tutto. Io conosco e sento questo, che dei giri eterni [dei corpi celesti], che della mia fragilità, qualche bene o soddisfazione l’avrà forse qualche altro; per me la vita è sofferenza. // O gregge mio che ti riposi, oh te beata, che forse non conosci la tua miseria! Quanto ti invidio! Non solo perché vivi quasi libero da ogni sofferenza; perché ogni fatica, ogni dolore, ogni paura anche mortale dimentichi subito; ma soprattutto perché non conosci la noia. Quando tu giaci all’ombra [degli alberi], sull’erba, tu sei sereno e contento; e la maggior parte dell’anno conduci senza noia in quello stato. Anch’io siedo sopra l’erba, all’ombra [degli alberi] eppure una pena mi occupa la mente, e quasi mi dà fastidio come fosse un assillo, a tal punto che pur seduto sono più lontano che mai dal trovar pace o dal trovar un luogo tranquillo. Eppure non desidero nulla, e non ho finora nessuna ragione di dolore. Non so dire la qualità e la quantità del tuo godimento; ma sei fortunata. E anch’io come te godo poco, o mio gregge, ma non mi lamento solo di questo. Se tu sapessi parlare ti chiederei: dimmi, perché ogni animale è appagato quando giace in piena comodità e nell’ozio; mentre se io mi riposo il tedio mi assale? // Forse se avessi le ali e potessi volare tra le nuvole come un uccello, e potessi contare le stelle ad una ad una, o se fossi come il tuono che può passare da cima a cima, sarei più felice, mio dolce gregge, sarei più felice, mia candida luna. O forse il mio pensiero, osservando il destino degli altri esseri viventi, si allontana dalla verità: forse il giorno della nascita è dannoso a chi viene alla vita in qualsiasi forma e in qualsiasi stato esso sia, dentro una tana o dentro una culla.

E’ questa l’ultima canzone del periodo pisano-recanatese, terminata nel ’30. La suggestione per il tema gliel’aveva data un articolo sul Journal des savants (Giornale dei sapienti) del ’26 in cui si recensiva un libro di viaggi. L’autore descriveva la vita dei pastori kirghisi e riportava il fatto che essi, durante il lavoro della pastorizia, seduti soli in terra, cantassero canzoni tristi e malinconiche. Leopardi prende le mosse da tale suggestione e immagina un dialogo con la luna (ormai divenuto topico del suo linguaggio poetico), in cui ripropone il suo interrogativo sul destino della vita dell’uomo.

Tale canto è stato, strofe per strofe, ben riassunto dal critico letterario Contini:

  1. Domande alla luna (…) circa il significato della sua vita, ciclica come la vita vana del pastore;
  2. Metafora negativa, esalata senza pause, sulla vita dell’uomo;
  3. Tristezza della nascita per l’uomo;
  4. Domande alla luna circa il senso della vita, che per il pastore è male;
  5. Invidia il gregge, sprovvisto del taedium vitae;
  6. Sospetto che il volo darebbe la felicità al pastore; ma il sospetto che il male di vivere sia universale.

In questo canto il poeta sembra riprenda elementi tipici della sua produzione precedente: si pensi a come il pastore/Leopardi si trovi qui avvolto in un infinito spaziale estremamente indefinito e vago. Se questo, tuttavia, può creare ancora una volta la parola poetica, non può più illuderlo sulla possibile felicità. A testimoniarlo è un altro richiamo identificativo natura/luna, che nel suo silenzio può forse solo sottolineare l’indifferenza per la vita del pastore.

La dolcezza del dettato, ottenuta soprattutto attraverso la cantabilità del testo (si pensi alla terminazione in –ale di ogni strofa) non nasconde l’allargamento di riflessione leopardiana che descrive il corso della vita umana dalla nascita alla morte, corso nel quale, come già detto altrove, non vi è felicità. Ma qui sembra maggiormente sottolinearlo perché nega a se stesso e quindi anche all’uomo la ricordanza e quindi la compassione verso i suoi simili ed inoltre abbraccia la totalità del creato, in un senza senso senza Dio, che apre a nuove prospettive poetiche che prenderanno forma in un diverso e strabiliante poetare.

Periodo fiorentino 1830 – 1833

Grazie all’interessamento di Pietro Colletta (intellettuale napoletano, in quel periodo, per motivi politici a Firenze, dove collabora all’Antologia) Leopardi lascia definitivamente Recanati e si sposta nella città toscana dove, per la prima volta, si può dire, conducesse un intenso e felice rapporto con la vita. A tale cambiamento corrisposero due fattori fondamentali: l’amicizia con Antonio Ranieri (giovane ed esuberante intellettuale napoletano che seppe donargli un affetto fraterno e un appoggio pratico nei momenti di difficoltà) e l’amore per Fanny Fargioni Tozzetti, signora fiorentina usa a frequentare salotti letterari.

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Fanny Targioni Tozzetti

In questo clima Leopardi s’inserisce in un dibattito culturale più ampio: pensa di pubblicare, insieme all’amico napoletano con l’intervento del finanziatore Freppa una rivista Lo spettatore fiorentino (che non vedrà mai la luce, per l’intervento della censura), pubblica l’edizione dei Canti, contenenti le liriche scritte fine al ’31. Aggiunge con Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e con il Dialogo di Tristano ed un amico altre due prose alle Operette morali.

DIALOGO DI UN VENDITORE D’ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE

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Almanacco del 1832

VENDITORE: Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
PASSEGGERE: Almanacchi per l’anno nuovo?
VENDITORE:Si signore.
PASSEGGERE: Credete che sarà felice quest’anno nuovo? 
VENDITORE: Oh illustrissimo si, certo.
PASSEGGERE: Come quest’anno passato?
VENDITORE: Più più assai.
PASSEGGERE: Come quello di là?
VENDITORE: Più più, illustrissimo.
PASSEGGERE: Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
VENDITORE: Signor no, non mi piacerebbe.
PASSEGGERE: Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?
VENDITORE: Saranno vent’anni, illustrissimo.
PASSEGGERE: A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?
VENDITORE: Io? non saprei.
PASSEGGERE: Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
VENDITORE: No in verità, illustrissimo.
PASSEGGERE: E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
VENDITORE: Cotesto si sa.
PASSEGGERE: Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste? 
VENDITORE: Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
PASSEGGERE: Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
VENDITORE: Cotesto non vorrei.
PASSEGGERE: Oh che altra vita vorreste rifare? La vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
VENDITORE: Lo credo cotesto.
PASSEGGERE: Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
VENDITORE: Signor no davvero, non tornerei.
PASSEGGERE: Oh che vita vorreste voi dunque?
VENDITORE: Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
PASSEGGERE: Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
VENDITORE: Appunto.
PASSEGGERE: Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
VENDITORE: Speriamo.
PASSEGGERE: Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.
VENDITORE: Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
PASSEGGERE: Ecco trenta soldi.
VENDITORE: Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

Questa breve operetta ha un andamento circolare, per meglio dire inizia nello stesso modo con cui finisce, quasi a sottolineare la circolarità e non il “progresso” di cui si vanta il liberalismo cattolico. Di fronte alla materia, che, pur non prendendo di petto la natura in modo diretto, non ne rifiuta la sostanza (la vita è dolore) è tuttavia mostrata in un rapporto in cui i due interlocutori, in cui si potrebbe leggere da una parte Leopardi stesso, (il passeggere), dall’altra un persona umile, non sono differenti l’uni all’altro ma si corrispondono nella “verità” del loro destino.

DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO

AMICO: Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
TRISTANO: Sì, al mio solito.
AMICO: Malinconico, sconsolato, disperato: si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.
TRISTANO: Che v’ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
AMICO: Infelice sì forse. Ma pure alla fine…
TRISTANO: No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n’era tanto persuaso, che tutt’altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch’io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d’ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell’utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero è tutt’altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l’una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d’animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l’arme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d’ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo. Io per me, come l’Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino. Parlo sempre degl’inganni non dell’immaginazione, ma dell’intelletto. Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano. Io diceva queste cose fra me, quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d’invenzione mia; vedendola così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare. E anche mi ricordai che da quei tempi insino a ieri o all’altr’ieri, tutti i poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi e piccoli, in un modo o in un altro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine. Sicché tornai di nuovo a maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo sdegno e il riso passai molto tempo: finché studiando più profondamente questa materia, conobbi che l’infelicità dell’uomo era uno degli errori inveterati dell’intelletto, e che la falsità di questa opinione, e la felicità della vita, era una delle grandi scoperte del secolo decimonono. Allora m’acquetai, e confesso ch’io aveva il torto a credere quello ch’io credeva.
AMICO: E avete cambiata opinione?
TRISTANO: Sicuro. Volete voi ch’io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono?
AMICO: E credete voi tutto quello che crede il secolo?
TRISTANO: Certamente. Oh che maraviglia?
AMICO: Credete dunque alla perfettibilità indefinita dell’uomo?
TRISTANO: Senza dubbio.
AMICO: Credete che in fatti la specie umana vada ogni giorno migliorando?
TRISTANO: Sì certo. È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l’uomo; perché (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui. E però anticamente la debolezza del corpo fu ignominiosa, anche nei secoli più civili. Ma tra noi già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito. E dato che si potesse rimediare in ciò all’educazione, non si potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L’effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini, e che gli antichi a confronto nostro si può dire più che mai che furono uomini. Parlo così degl’individui paragonati agl’individui, come delle masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna) paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono incomparabilmente più virili di noi anche ne’ sistemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo costantemente che la specie umana vada sempre acquistando.
AMICO: Credete ancora, già s’intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente.
TRISTANO: Certissimo. Sebbene vedo che quanto cresce la volontà d’imparare, tanto scema quella di studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri dotti, che vivevano contemporaneamente cencinquant’anni addietro, e anche più tardi, e vedere quanto fosse smisuratamente maggiore di quello dell’età presente. Né mi dicano che i dotti sono pochi perché in generale le cognizioni non sono più accumulate in alcuni individui, ma divise fra molti; e che la copia di questi compensa la rarità di quelli. Le cognizioni non sono come le ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti sanno poco, e’ si sa poco; perché la scienza va dietro alla scienza, e non si sparpaglia. L’istruzione superficiale può essere, non propriamente divisa fra molti, ma comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se non a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e fornito esso individualmente di un immenso capitale di cognizioni, è atto ad accrescere solidamente e condurre innanzi il sapere umano. Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi uomini dottissimi divenga ogni giorno meno possibile? Io fo queste riflessioni così per discorrere, e per filosofare un poco, o forse sofisticare; non ch’io non sia persuaso di ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi il mondo tutto pieno d’ignoranti impostori da un lato, e d’ignoranti presuntuosi dall’altro, nondimeno crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano di continuo.
AMICO: In conseguenza, credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati.
TRISTANO: Sicuro. Così hanno creduto di sé tutti i secoli, anche i più barbari; e così crede il mio secolo, ed io con lui. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò che appartiene al corpo o in ciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose dette dianzi.
AMICO: In somma, per ridurre il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di politica) quello che ne pensano i giornali?
TRISTANO: Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de’ giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell’età presente. Non è vero?
AMICO: Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete diventato de’ nostri.
TRISTANO: Sì certamente, de’ vostri.
AMICO: Oh dunque, che farete del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei sentimenti così contrari alle opinioni che ora avete?
TRISTANO: Ai posteri? Io rido, perché voi scherzate; e se fosse possibile che non ischerzaste, più riderei. Non dirò a riguardo mio, ma a riguardo d’individui o di cose individuali del secolo decimonono, intendete bene che non v’è timore di posteri, i quali ne sapranno tanto, quanto ne seppero gli antenati. Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d’individui, desidero e spero che me lo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. Ma per tornare al proposito del libro e de’ posteri, i libri specialmente, che ora per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli, vedete bene che, siccome costano quel che vagliono, così durano a proporzione di quel che costano. Io per me credo che il secolo venturo farà un bellissimo frego sopra l’immensa bibliografia del secolo decimonono; ovvero dirà: io ho biblioteche intere di libri che sono costati quali venti, quali trenta anni di fatiche, e quali meno, ma tutti grandissimo lavoro. Leggiamo questi prima, perché la verisimiglianza è che da loro si cavi maggior costrutto; e quando di questa sorta non avrò più che leggere, allora metterò mano ai libri improvvisati. Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto senza altre fatiche preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l’indole del tempo presente e futuro, assolvano essi e loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo di maneggi e di faccende, che anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che consista in parte la differenza ch’è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in questo la nullità. Onde è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali, nell’immensa moltitudine de’ concorrenti, non è più possibile di aprirsi una via. E così, mentre tutti gl’infimi si credono illustri, l’oscurità e la nullità dell’esito diviene il fato comune e degl’infimi e de’ sommi. Ma viva la statistica! vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri sessantasei anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni.
AMICO: Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all’ultimo ricordarvi che questo è un secolo di transizione.
TRISTANO: Oh che conchiudete voi da cotesto? Tutti i secoli, più o meno, sono stati e saranno di transizione, perché la società umana non istà mai ferma, né mai verrà secolo nel quale ella abbia stato che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o non iscusa punto il secolo decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare, andando la società per la via che oggi si tiene, a che si debba riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al peggio. Forse volete dirmi che la presente è transizione per eccellenza, cioè un passaggio rapido da uno stato della civiltà ad un altro diversissimo dal precedente. In tal caso chiedo licenza di ridere di cotesto passaggio rapido, e rispondo che tutte le transizioni conviene che sieno fatte adagio; perché se si fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo si torna indietro, per poi rifarle a grado a grado. Così è accaduto sempre. La ragione è, che la natura non va a salti, e che forzando la natura, non si fanno effetti che durino, Ovvero, per dir meglio, quelle tali transizioni precipitose sono transizioni apparenti, ma non reali.
AMICO: Vi prego, non fate di cotesti discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete molti nemici.
TRISTANO: Poco importa. Oramai né nimici né amici mi faranno gran male.
AMICO: O più probabilmente sarete disprezzato, come poco intendente della filosofia moderna, e poco curante del progresso della civiltà e dei lumi. Tristano: Mi dispiace molto, ma che s’ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.
TRISTANO: Mi dispiace molto, ma che s’ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.
AMICO: Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che s’ha egli a fare di questo libro?
TRISTANO: Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario.
AMICO: Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare.
TRISTANO: Verissimo. E di più vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismentirà le mie parole; perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l’ora ch’io dico non sia lontana. Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere, così morto come sono spiritualmente, così conchiusa in me da ogni parte la favola della vita, durare ancora quaranta o cinquant’anni, quanti mi sono minacciati dalla natura. Al solo pensiero di questa cosa io rabbrividisco. Ma come ci avviene di tutti quei mali che vincono, per così dire, la forza immaginativa, così questo mi pare un sogno e un’illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se qualcuno mi parla di un avvenire lontano come di cosa che mi appartenga, non posso tenermi dal sorridere fra me stesso: tanta confidenza ho che la via che mi resta a compiere non sia lunga. E questo, posso dire, è il solo pensiero che mi sostiene. Libri e studi, che spesso mi maraviglio d’aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di gloria e d’immortalità, sono cose delle quali è anche passato il tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di questo secolo non rido: desidero loro con tutta l’anima ogni miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente il buon volere: ma non invidio però i posteri, né quelli che hanno ancora a vivere lungamente. In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d’esser vissuto invano, mi turbano più, come solevano. Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo. Questo è il solo benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall’altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.

L’operetta, scritta nel ’32 e che appare anche l’ultima nell’edizione definitiva dell’opera, è una risposta all’accoglienza che le Operette morali del ’27 avevano ricevuto e che reputavano la meditazione filosofica leopardiana come frutto della sua deformità fisica. Ciò determina una reazione il Leopardi che si risolve in sarcasmo e riso e quindi in un atteggiamento maggiormente distaccato. Si veda l’esempio con cui descrive il rifiuto della società contemporanea alla sua speculazione: mariti cornuti che fingono di non esserlo per non sentirsi tali (esempio irridente e popolaresco).

Egli rovescia il discorso: vile è colui che crede che il progresso o la religione possano risolvere il problema dell’infelicità umana, coraggioso è colui che, senza finzioni consolatorie riesce a guardare in faccia la realtà. Non è un problema di dolore personale, quindi, ma dell’intera umanità. Egli non scrive pertanto spinto da un sentimento individuale e prova ne è la cultura stessa: anche la Bibbia descrive l’infelicità dell’uomo, così come la cultura classica greca o latina.

Possiamo sintetizzare il testo attraverso  5 questioni questioni/domande:

  1. La vita umana è infelice?
  2. L’umanità è sempre più perfetta
  3. Il sapere e la cultura progrediscono
  4. Quest’epoca è superiore a quelle passate
  5. Che cosa si fa delle “operette morali”, opera negatrice il progresso dell’umanità

a cui Tristano/Leopardi, fingendo di ritrattare risponde:

  1. Il sapere contemporaneo non accetta l’infelicità dell’uomo che tuttavia non è espressa da Leopardi ma da moltissima letteratura classica e teologica. Lo strano si è che se si riporta l’ideologia di Teognide o di Lucrezio, o addirittura passi biblici non si ha nulla da dire; se lo si pubblica in un libro contemporaneo lo si reputa “non vero” e controproducente il progresso storico “inevitabile”;
  2. L’umanità si dice che oggi sia più perfetta, ma si è abbandonata la cultura che faceva tutt’uno tra cultura del corpo e cultura della mente. Molto probabilmente l’educazione classica, rafforzando il corpo, perché è da un corpo sano che nascono le sensazioni, era certamente migliore rispetto alla moderna, in cui si predilige lo “spirito”;
  3. Alla diffusione culturale non corrisponde una elevatezza culturale. Al contrario affinché più gente conosca più la cultura si abbassa, deprimendo così e riducendo il grado d’intellettualità dei pochi, che si ottiene selezionando il processo conoscitivo;
  4. Tutte le epoche si sono credute superiori a quelle che le avevano precedute; non esiste epoca superiore all’altra; ma se proprio dovessimo riferirci a quella del secolo decimonono, essa non lo è affatto in quanto delega il sapere nei giornali, creando una falsa cultura di massa, nuova parola con cui s’intende un’unione di individui quindi, per Leopardi contraddizione (massa/ individuo)
  5. Riguardo le “Operette morali” possono essere anche bruciate, ma ciò non permetterà all’autore di cambiare opinione

La posizione con cui l’amico tenta di “giustificare” il suo secolo viene smontata in modo reciso da Leopardi: immaginare la felicità futura e non possederla perché la si sta costruendo, quindi il secolo attuale sarebbe quasi un ponte, è ridicola. Tutti i tempi sono stati aspettative di tempi futuri, non esiste età definitiva. Anzi questo secolo è forse il peggiore, perché creando illusioni nega la verità della naturale infelicità.

Ai tempi del pessimismo storico, Leopardi aveva creduto che l’infelicità fosse conseguenza della consapevolezza razionale del vero; ma ora sa che è una condizione ontologica dell’intero universo. Dunque, neppure gli sciocchi possono sottrarvisi. Per questo motivo, nei confronti dei propri simili prova un sentimento di profonda e dolente pietà.

Ciclo d’Aspasia (1833 – 1835)

L’amore per la nobildonna Fanny Targioni Tozzetti è fortemente sentito dall’inesperto Leopardi; è talmente vivo in lui da dettargli altre parole per la sua poesia. Consalvo, la prima, con il nome del protagonista di un poema epico cavalleresco del ‘600, in cui dichiara che sarebbe andato fino all’inferno, pur di ricevere un suo bacio; Il pensiero dominante, in cui si sente pienamente investito da questo nuovo dio; Amore e morte, in cui riprendendo il mito greco di Eros e Thanatos, il poeta agognerebbe la morte, pur di non soffrire. Ma il capolavoro di questo ciclo avviene quando si rende conto che il sentimento provato per Fanny è pura illusione: la rabbia provata per questa estrema delusione si traduce in un piccolo canto in cui versifica con nuovissimi accenti:

A SE STESSO

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, nè di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.

Ora, o mio cuore stanco, riposerai per sempre. E’ finita l’ultima illusione che avevo creduto eterna. E’ svanita. Sento profondamente che in noi non solo la speranza ma anche il desiderio delle gradite illusioni è spento. Riposa per sempre. Troppo hai sofferto. Non c’è nessuna cosa che valga i tuoi palpiti, né il mondo è degno dei (tuoi) sospiri. La vita non è altro che amarezza e noia; e spregevole è il mondo. Calmati ormai. Rinuncia definitivamente ad ogni speranza. Agli uomini il destino donò solo la morte. Ormai (o mio cuore) disprezza te stesso, la natura, il potere perverso che domina occultamente a danno di tutto e l’infinita vanità dell’universo.

Leopardi c’aveva creduto: l’amore poteva superare il nichilismo con cui aveva definito l’esistenza: null’altro, solo lui. La caduta dell’illusione non può che provocare un verso rabbioso, franto, “antidillico”, dove la cruda parola viene spezzata in continui enjambement, ma dove, pur sapientemente occultandola, continua ad esercitare un incredibile controllo tecnico: tre strofe uguali, un settenario, due endecasillabi, un settenario ed un endecasillabo, a cui si aggiunge il verso finale (endecasillabo).

Chiude la raccolta la lirica Aspasia, con il nome della concubina di Pericle, in cui il poeta, rifugiandosi nel ricordo di Fanny, cerca di sbollire “la rabbia” ed ammette la sua sconfitta.

A Napoli (1833-1837)

Nel 1833 Leopardi, insieme all’amico Antonio Ranieri, si trasferisce a Napoli. Qui, sempre più ammalato, elabora alcune opere, quali I Paralipòmeni della Batracomiomachia (riprendendo un testo omerico già tradotto in gioventù) in cui satireggia la situazione politica italiana (disegna gli italiani come topi, gli austriaci come granchi i Borboni come rane) e la Palinodia a Gino Capponi con il quale polemizza sul liberalismo. Contiene, inoltre, due lunghi canti, Il tramonto della luna, ma soprattutto l’ultimo, che costituisce la summa del pensiero leopardiano e, se così possiamo dire, il suo testamento letterario:

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Pierre Henri de Valenciennes, Eruzione del Vesuvio sotto i tempi di Tito (1813)

LA GINESTRA

Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον
τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre
che la luce.
Giovanni, III, 19.

Qui su l’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante
e d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell’impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s’annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fûr liete ville e cólti,
e biondeggiâr di spiche, e risonâro
di muggito d’armenti;
fûr giardini e palagi,
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fûr cittá famose,
che coi torrenti suoi l’altèro monte
dall’ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
ove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrá dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
«Le magnifiche sorti e progressive».

Qui mira e qui ti specchia,

secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e vòlti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch’a ludibrio talora
t’abbian fra sé. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto;
bench’io sappia che obblio
preme chi troppo all’etá propria increbbe.
Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertá vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltá, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Cosí ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci die’. Per queste il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe’ palese; e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell’alma generoso ed alto,
non chiama sé né stima
ricco d’òr né gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma sé di forza e di tesor mendíco
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
non credo io giá, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice: “A goder son fatto,”
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nòve
felicitá, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest’orbe, promettendo in terra
a popoli che un’onda
di mar commosso, un fiato
d’aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sí, ch’avanza
a gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
ch’a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor piú gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dá la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccom’è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell’uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede cosí, qual fôra in campo
cinto d’oste contraria, in sul piú vivo
incalzar degli assalti,
gl’inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
Cosí fatti pensieri
quando fien, come fûr, palesi al volgo;
e quell’orror che primo
contra l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper; l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probitá del volgo
cosí star suole in piede
quale star può quel c’ha in error la sede.

 Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa,
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch’a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo, ove l’uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor piú senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o cosí paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiú, di cui fa segno
il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto; e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente; e che, i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente etá, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietá prevale.

 Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
cui lá nel tardo autunno
maturitá senz’altra forza atterra,
d’un popol di formiche i dolci alberghi
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l’opre,
e le ricchezze ch’adunate a prova
con lungo affaticar l’assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; cosí d’alto piombando,
dall’utero tonante
scagliata al ciel profondo,
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli,
o pel montano fianco
furiosa tra l’erba
di liquefatti massi
e di metalli e d’infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar lá su l’estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e cittá nove
sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
dell’uom piú stima o cura
ch’alla formica: e se piú rara in quello
che nell’altra è la strage,
non avvien ciò d’altronde
fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

 Ben mille ed ottocento
anni varcâr poi che sparîro, oppressi
dall’ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta piú mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
dell’ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando piú volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall’inesausto grembo
sull’arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l’acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontan l’usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente,
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
dopo l’antica obblivion, l’estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietá rende all’aperto;
e dal deserto fòro
diritto infra le file
de’ mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per vòti palagi atra s’aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l’ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Cosí, dell’uomo ignara e dell’etadi
ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sí lungo cammino
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l’uom d’eternitá s’arroga il vanto.

 E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
giá noto, stenderá l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver’ le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma piú saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.

JPG.jpegUn acquerello del XIX secolo con Villa Ferrigni presso Torre del Greco, dove Giacomo Leopardi compose La Ginestra.

Qui sulle aride pendici del terribile vulcano distruttore, il Vesuvio, che non sono rallegrate da nessun albero né fiore, tu spargi i tuoi rami solitari, o profumata ginestra, felice di trovarti nei deserti. Ti ho già vista abbellire con i tuoi steli le campagne disabitate che circondano la città (Roma) che un tempo fu dominatrice degli esseri umani, e sembra che questi luoghi col loro aspetto cupo e silenzioso testimonino e ricordino a chi passa il grande impero perduto. Ti rivedo ora su questo suolo, tu che sei amante di luoghi tristi e abbandonati dal mondo, e sempre compagna di grandezze decadute. Questi terreni, cosparsi di ceneri sterili, e ricoperti dalla lava solidificata, che risuona sotto i passi del viandante; dove si annida e si contorce sotto al sole il serpente, e dove il coniglio torna all’abituale tana tra le caverne; furono città ricche e campi coltivati, biondeggiarono di campi di grano, e risuonarono di muggiti delle mandrie; furono giardini e ville sontuose, un gradito rifugio per l’ozio dei potenti; e furono città famose che il vulcano indomabile, eruttando dalla bocca di fuoco torrenti di lava distrusse insieme con i loro abitanti. Ora qui intorno la rovina avvolge tutto, là dove tu hai radici, o fiore gentile e, quasi compiangendo le miserie altrui, verso il cielo emani un profumo assai dolce, che allieta il paesaggio desertico. A questi luoghi deserti si rechi chi è solito esaltare ed elogiare la nostra umana condizione, e veda quanto la natura benigna si preoccupa dell’uomo. E in maniera opportuna potrà anche valutare la potenza del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se l’aspetta, con una scossa impercettibile distrugge in parte in un solo momento, è può con moti poco meno lievi all’improvviso annientare del tutto. // Qui guardati e ammira la tua immagine riflessa, secolo superbo e stolto, che hai abbandonato la strada segnata sin qui dal pensiero rinascimentale, e tornato sui tuoi passi, ti vanti del tuo procedere all’indietro, e lo chiami addirittura progresso. Tutti gli ingegni, di cui una sorte malvagia ti ha reso padre, sono intenti ad adulare il tuo atteggiamento infantile, benché a volte, tra di loro, si facciano beffe di te. Io non verrò sotterrato macchiandomi di una simile vergogna; ma piuttosto avrò mostrato chiaramente il disprezzo nei tuoi confronti che è rinchiuso nel mio cuore: benché io sappia che all’oblio è destinato chi troppo ha biasimato il proprio tempo. Di questo male, che sarà in comune tra me e te, finora ne rido molto. Vai sognando la libertà, e nel frattempo vuoi che il pensiero sia di nuovo servo, (quel pensiero) in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie, e per cui solo si può crescere in civilizzazione, che da sola guida i destini dei popoli verso il meglio. Perciò ti ha infastidito la verità sulla sorte amara e sul mondo infelice che la natura ci ha assegnato. Per questo motivo, vigliaccamente hai voltato le spalle al pensiero che ci ha mostrato queste cose: e, mentre fuggi, chiami vile chi segue quella via, e definisci magnanimo solo chi, astuto o stolto, illudendo se stesso o gli altri, esalta fin sopra le stelle la condizione umana. // Un uomo di umile condizione e salute cagionevole, che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti, non definisce né reputa se stesso ricco di beni o di vigore fisico, e non ostenta ridicolmente tra la gente la sua vita lussuosa o il suo bell’aspetto; ma senza vergogna si mostra privo di forza fisica e di beni materiali, e chiama apertamente le cose col loro nome, e stima le sue cose in modo aderente alla verità. Non penso che sia un essere magnanimo, ma sciocco chi, nato per morire, nutrito di sofferenze, afferma: “Sono stato creato per essere felice”, e di nauseante orgoglio riempie i suoi scritti, promettendo in terra a quei popoli che un’onda di un mare in tempesta, una pestilenza, un terremoto possono distruggere in modo che ne sopravviva a stento il ricordo, un destino esaltante e straordinarie felicità, che il cielo stesso ignora. Nobile spirito è quello che ha il coraggio di sollevare i propri occhi mortali contro il destino comune, e che con parole oneste, senza nulla togliere alla verità, confessa il male che ci è stato assegnato, e la nostra insignificante e fragile condizione; quello che si mostra coraggioso e forte nella sofferenza, e che non aggiunge alle sue sciagure né gli odi né le ire fraterne, più gravi ancora di ogni altro danno, dando la responsabilità all’uomo del suo dolore, ma dà la colpa a colei che è davvero responsabile (la natura), che per gli uomini è madre perché li ha generati e matrigna per come li tratta. Chiama nemica costei (la natura); e pensando di essere, com’è vero, unita e schierata contro di lei, la società umana ritiene che tutti gli uomini siano alleati tra loro e tutti li stringe in un abbraccio con vera partecipazione, offrendo ed aspettando un valido e rapido aiuto nelle alterne difficoltà e nelle sofferenze della comune lotta. E crede che sia cosa stolta armarsi e porre insidie per contrastare un proprio simile, così come sarebbe stupido, in un campo di battaglia circondato dai nemici, nel momento più feroce dell’assalto, dimenticando i nemici, aprire aspre ostilità contro i propri compagni e disseminare la fuga o tirare colpi di spada tra i propri guerrieri. Quando considerazioni di questo tipo saranno, come lo sono state in passato, evidenti al popolo; e quel terrore che per primo unì gli uomini contro la natura malvagia in una catena di solidarietà, sarà ricondotto in parte a una vera sapienza, allora l’onestà e la rettitudine degli esseri umani e la giustizia e la pietà, avranno un’altra radice che non l’ottusa fiducia, sulle cui fondamenta la mentalità del popolo è solita star in equilibrio come può stare chi ha il proprio fondamento nell’errore. // Spesso siedo nottetempo su questi luoghi, che, deserti, la lava solidificata, e sembra muoversi ancora, ricopre di un colore marrone scuro; e sul triste paesaggio, sotto un cielo terso e pulitissimo vedo risplendere le stelle nel cielo, alle quali il mare, da lontano, fa da specchio, e tutto il mondo brilla di scintille per l’universo sereno. E fissando con gli occhi quelle luci, che a loro paiono solo dei puntini, e invece sono talmente grandi, che in realtà terra e mare sono solo un punto al loro cospetto; alle quali non solo l’uomo, ma questa stessa Terra dove l’uomo vale nulla, è del tutto sconosciuto; e quando ammiro quelle lontane e infinite costellazioni di stelle, che ci sembrano come una nebbia, alle quali non l’uomo, non la terra soltanto, ma tutte insieme le nostre stelle, infinite per numero e per mole, insieme col sole dorato o sono sconosciute o appaiono come loro sembrano alla Terra, e cioè un punto di luce fioca; allora come appari al mio pensiero, o stirpe umana? E ricordando il tuo stato sulla terra, di cui è testimonianza il suolo vulcanico che io calpesto; e d’altra parte (ricordando) che ti reputi padrona e fine ultimo dell’universo; e (ricordando) quante volte ti è piaciuto fantasticare su come i creatori (gli dei) del mondo siano scesi su questo oscuro granello di sabbia, che ha nome Terra, per causa tua, e su come spesso abbiano conversato piacevolmente con i tuoi simili; e (ricordando) che perfino la presente età, che per conoscenza e costume civile sembra essere così superiore alle età precedenti, insulta i saggi, raccontando di nuovo sogni già derisi in passato; che sentimento o che pensiero, o umanità infelice, assale alla fine il mio cuore nei tuoi confronti? Non so se prevale il riso o la pietà. // Come un piccolo frutto cadendo dall’albero, che nell’autunno inoltrato la maturazione fa precipitare a terra senza altra forza, schiaccia, annienta e sommerge in un attimo gli accoglienti nidi di un popolo di formiche, scavati nel terreno molle con gran lavoro, e le gallerie e le riserve di cibo che con lunga fatica le infaticabili formiche in gara tra loro hanno raccolto con previdenza nella stagione estiva; così, piombando dall’alto, dalle viscere rumorose del vulcano scagliate in alto verso il cielo, le tenebre fatte di cenere, pomice e sasso, mescolate ai bollenti ruscelli, oppure un’immensa piena di massi liquefatti di metalli e di sabbia infuocata, che scende furiosa tra l’erba, lungo il fianco del monte sconvolse, distrusse e ricoprì in pochi attimi le città che il mare bagnava sulla costa: così ora su quelle città pascola la capra, e nuove città sorgono all’esterno della colata, a cui fanno da sgabello le città sepolte, e l’alto monte quasi calpesta col suo piede le mura crollate. La natura non nutre per il genere umano maggiore stima o cura che per la formica: e se la strage avviene più raramente tra quelli (gli uomini) che tra queste (le formiche), ciò avviene d’altra solo perché la stirpe degli uomini è meno feconda. // Sono passati ben mille e ottocento anni da quando scomparirono, sepolti dalla forza della lava infuocata, le affollate città e il contadino intento a lavorare nei vigneti, che la terra arida e bruciata, nutre a fatica in questi campi, alza tuttora lo sguardo sospettoso verso la cima del vulcano portatore di morte, che per nulla resa più mite, ancora lo sovrasta tremenda, ancora minaccia una strage a lui (il contadino), ai suoi figli e ai loro miseri averi. E spesso il poverello sul tetto della sua rustica casa, trascorrendo insonne tutta la notte all’aperto, e sobbalzando più volte (per la paura), osserva ansioso il procedere del temuto ribollire, che cola dalle inesauribili viscere sul pendio sabbioso, al cui bagliore risplende la marina di Capri e il porto di Napoli e il quartiere Mergellina. E se lo vede avvicinarsi, o se sente per caso gorgogliare in fermento nel profondo del pozzo di casa, sveglia i figli, sveglia la moglie in fretta, e subito va via, con quanto delle loro cose possono prendere e, fuggendo, vede da lontano la quotidiana abitazione, e il modesto campo, che costituì per lui l’unica difesa alla fame, preda della colata incandescente che avanza con mille crepitii, e inesorabile si stende per sempre sopra quelli (campo e casa). Alla luce del sole torna, dopo un oblio secolare, l’estinta Pompei, come uno scheletro sepolto, che dalla terra viene all’aperto per desiderio di ricchezza o pietà; e dal foro deserto dritto in mezzo alle fila dei colonnati diroccati il pellegrino contempla da lontano la doppia cima (il Vesuvio e il monte Somma) e il pennacchio di fumo, che ancora minaccia le rovine sparse (di Pompei). E nell’orrore della notte oscura per i teatri abbandonati, per i templi crollati e le case devastate, dove il pipistrello nasconde i propri figli, come una fiaccola misteriosa che si aggiri lugubre tra i palazzi vuoti, corre il bagliore della lava assassina, che da lontano in mezzo all’ombra rosseggia e colora i luoghi tutt’intorno. Così, del tutto indifferente all’uomo e alle ere che egli chiama antiche, e del susseguirsi delle generazioni umane, la natura rimane sempre giovane e vigorosa, ed anzi procede per un cammino così lungo che ella pare immobile. Nel frattempo, crollano i governi, passano le genti e le culture: ella non se ne accorge: e l’uomo pretende il diritto all’eternità. // E tu, flessibile ginestra, che con i tuoi cespugli odorosi adorni queste campagne desertificate, anche tu presto soccomberai alla potenza crudele della lava in eruzione, che ritornando ai luoghi già colpiti, stenderà sui tuoi molli rami il suo mantello avido di morte. E piegherai sotto la colata mortale senza opporre resistenza il tuo capo innocente: ma senza averlo piegato fino a quel momento, con suppliche inutili e codarde al futuro oppressore; e senza averlo alzato con forsennato orgoglio contro le stelle, né sul deserto, dove tu sei nata e hai dimora non per scelta ma per gioco del caso; ma più saggia, e tanto meno debole ed insensata dell’uomo, poiché non hai mai creduto che la tua specie fosse stata resa immortale o dal destino o da te stessa.

La Ginestra, come già detto, rappresenta la summa del pensiero leopardiano, ma forse è meglio dire, l’approdo ultimo del suo tragitto speculativo, che ci permette di definire il poeta recanatese, come dice il Timpanaro “un progressivo”.

Già tale definizione sembra contraddire la visione “politica” di Leopardi, e questa poesia sembra ne sia la dimostrazione: l’attacco contro il liberismo cattolico allora rivolto alla lotta per la liberazione della patria è teso, reso forte dal sarcasmo con cui il poeta sembra invitare, sulla falde del Vesuvio, colui che disegna per l’uomo Le magnifiche sorti e progressive. Ma egli va oltre, stringendo in un forte crescendo logico la loro inattualità.

Potremo partire dall’opposizione che vi è, sin da principio, tra il luogo, definito con l’avverbio qui, a disegnare l’intera desolazione de l’arida schiena e l’odorosa ginestra: l’antinomia è presente sin nei primi quattro versi: il primo a simboleggiare la natura, la seconda l’io poetico. E ancora nella stessa strofa il richiamo al glorioso passato che, nella sua distruzione ci indica l’inesorabilità della natura. Di fronte a tale “inesorabilità” l’illusione di un futuro migliore è pura illusione.

Nella seconda strofa l’accusa si fa diretta: il secolo romantico, richiamandosi al sentimento religioso, ha voltato le spalle a quella cultura che dal Rinascimento fino all’Illuminismo aveva tentato di liberare l’uomo dalla schiavitù del pensiero. Il dire a questa intellettualità che la loro modernità è frutto di un recupero “vergognoso” dell’ideologia liberale, non può che procuragli quella damnatio memoriae di cui sa già d’essere condannato.

Nella terza strofe l’io poeta s’identifica con l’uomo di povero stato e l’identificazione va oltre il dato metaforico per raggiungere quello reale (effettivamente Leopardi era povero e malato). Egli non cesserà di incolpare la natura per la condizione disperata dell’uomo: ma facendo in modo che questa verità (basata sulla ragione) venga diffusa ai più e togliendo loro l’illusione di un premio ultraterreno che svilirebbe il loro impegno, riuscirà a creare quella solidarietà che va oltre la compassione per abbracciare una forte volontà di lotta contro colei che madre è di parto e di voler matrigna (si noti il significativo chiasmo)

La quarta strofe sembra richiamare L’infinito: il poeta che si siede e osserva il cielo ed il mare. Ed anche qui la presenza del luogo sembra rimandarlo, per assenza, all’universo intero. Ma l’atto si capovolge e il poeta immagina che da quel vuoto si possa osservare il nostro mondo; l’equazione è semplice: se a noi le stelle del cielo immenso sembrano delle piccole luci sarà altrettanto vero che da loro questo mondo apparirà come un piccolo mondo; zoomando ancora all’interno di questo piccolo mondo, agli occhi delle stelle l’uomo sarà nulla. E’ evidente che il pensiero, per cui un ipotetico Dio possa aver fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, appaia ridicolo e pietoso (Non so se il riso o la pietà prevale).

La quinta strofe sembra esemplificare, con la descrizione del destino delle formiche la condizione dell’uomo ed il fatto che a metaforizzarla scelga proprio l’insetto non è senza significato. Conclude, quasi irridendo gli avversari, che se a questi piccoli animali capitano più stragi rispetto all’umanità è per la loro numerosità.

La sesta strofe sottolinea la caducità dell’uomo rifacendosi alle recenti scoperte archeologiche di Ercolano e di Pompei: la loro grandezza inconsapevole un tempo, la loro cancellazione improvvisa, sono la dimostrazione di come la natura possa, in un solo attimo, distruggere senza alcuna pietà. Ne consegue, logicamente, che la natura sta, l’uomo trascorre: il dramma è che l’uomo arroga lo stare a se stesso.

L’ultima chiude la canzone in modo circolare. La ginestra, fiore forse povero e non bello, che riesce a “vivere” nonostante l’aridità del terreno, è la dimostrazione della capacità che l’uomo avrebbe se ardisse a riconoscere la sua fragilità: anche la ginestra, forse un giorno verrà seppellita dalla lava espulsa dal Vesuvio; anche il poeta un giorno verrà cancellato dalla malattia che lo perseguita, ma sia l’una che l’altro, non cercheranno favole consolatorie, ma sceglieranno con dignità il loro destino.

Opere private

Lettere

L’epistolario leopardiano è molto nutrito: in esso compaiono circa mille lettere, scritte tra il 1815 ed il 1837. Molte di esse sono rivolte ad intellettuali, ma molte sono anche quelle scritte ai familiari, soprattutto ai fratelli Carlo e Paolina. Esse costituiscono una preziosa testimonianza non solo sulla biografia, ma anche sul suo percorso concettuale, poetico, psicologico, politico e culturale. Leopardi non ha mai pensato ad una sua pubblicazione, ma esse conservano una vivacità espressiva dettata dalla sincerità di quanto viene espresso.

Zibaldone

Con questo termine Leopardi intese una raccolta, su appositi quaderni, di appunti e pensieri di più svariata natura, che egli riportò dal 1817 al 1832. In quindici anni si accumulò, in quei quaderni un’incredibile quantità di materiale che vanno a costituire la bellezza di 4526 pagine. Decidendo di farne un indice Leopardi lo divise per argomenti e questo permette di seguire il suo lavoro “passo passo”, quasi fosse un libro “parallelo” alle grandi opere che andava componendo.

 

SERGIO ATZENI

Accadde oggi. 6 settembre 1995: muore Sergio Atzeni | Cagliari - Vistanet

Sergio Atzeni

Sergio Atzeni nasce a Capoterra nel 1952 e vive la sua infanzia nella città di Cagliari. Si trasferisce a Orgosolo, dove frequenta le scuole medie per far ritorno a Cagliari dove studia nel liceo Siotto e dove s’iscrive nella facoltà di filosofia, senza mai riuscire a laurearsi.

Le lotte politiche dei primi anni Settanta lo vedono protagonista sia da un punto di vista di partecipazione agli eventi che anche nell’isola hanno caratterizzato quegli anni, sia come base su cui iniziare un discorso intellettuale che si concretizza con Violenza e canto per il Cile (mix di recitazione e canto) e Quel maggio 1906. Ballata per una rivolta cagliaritana messo in scena nel 1976 e quindi pubblicato in volume.

Quel maggio 1906 - Libri Sardi

Sono questi ancora testi ingenui, in cui l’intento dimostrativo prevale su quello propriamente letterario, ma sono altresì testi in cui comincia la maturazione anche stilistica di Atzeni, quel suo frantumare la frase, l’articolare il discorso in quadri scenici che saranno ancora caratteristici nell’Atzeni maggiore.

Sempre nel 1976 comincia a collaborare a L’Unità nella sua redazione di Cagliari, a Rinascita sarda e a La Nuova Sardegna. Quel lavoro giornalistico gli serve per immergersi nei problemi della città, per coglierne gli aspetti evoluzionistici e per mettere in risalto le classi più disagiate della città.

Tuttavia l’instabilità del lavoro giornalistico, l’esigenza di dare uno sbocco professionale alla sua vita lo fanno piegare verso forme professionali che, se pur non gradite sono “sicure”. Vince un concorso all’ENEL e lì lavorerà per dieci anni, fino al 1986.Palazzo Enel, Gigi Gho, Cagliari, Sardinia, designed 1947, completed 1961.

Palazzo dell’Enel a Cagliari, costruito nel 1948

La scrittura dunque sarà per lui uno sfogo necessario, ma nel contempo inseguita con metodo, con rigore, sapendo che essa non è risposta immediata dell’io, ma ricerca anche della parola, capace di rendere lo spirito di un’intera storia e dell’insieme del popolo che la fa e la vive.

Nel 1978, in collaborazione con la moglie Rossana Copez, dà vita alla raccolta Fiabe sarde, e nel 1981 manda, quasi per gioco, un racconto giallo al “Mystfest” Gli amori, le avventure e la morte di un elefante bianco, pubblicato poi tra i gialli della Mondadori.

E’ del 1984 Araj dimoniu (ripubblicato da Sellerio nel 1996 nel volume Bellas mariposas col titolo Il demonio è cane bianco) prova nella quale, per la prima volta, Atzeni usa la “sua lingua” disadorna, mescolata tra tradizione letteraria, sardo, spagnolo, in un “pastiche” tipico della sua capacità di mescolare registri stilistici diversi.

La scoperta di Atzeni autore avviene, tuttavia, nel 1986, col balzo dalle piccole case editrici sarde ad una nazionale, la Sellerio di Palermo. Il grosso della critica e del pubblico sembrano per un momento non accorgersi del romanzo Apologo del giudice bandito, ma egli intanto si costruisce la sua vocazione di scrittore di “nicchia”, di cui lo stesso Atzeni è consapevole, in quanto autore “difficile” che si segnala per la struttura compositiva e per l’ardimento stilistico della sua prosa.

La motivazione del suo primo romanzo importante ce la offre egli stesso:

Raccontare Cagliari è stato uno dei motivi che mi ha spinto a cercare di scrivere racconti. Avevo notato che nei giornali, in televisione, quando si prendevano descrizioni di Cagliari, o di alcune zone di provincia, si finiva sempre per citare autori non sardi, come se non ci fosse una descrizione di Cagliari o del Campidano nella nostra letteratura. C’è molto di più sulla Barbagia, mentre nel Sud c’è pochissimo. Ad un certo punto mi è sembrato che non ci fossero descrizioni di Cagliari fatte da scrittori locali. Mi ha fatto pensare a scrivere un racconto dove ci fosse qualche riga che descrivesse la città non dal punto di vista esterno, di chi viene in visita, ma dal punto di vista interno, di chi ci abita.

Nel contempo Atzeni ha voluto in qualche modo sottolineare il dato fantastico che egli dà alla sua storia: l’Apologo del giudice bandito infatti, pur partendo da un dato storico (il processo alle cavallette tenuto a Cagliari nel 1492) mescola poi questo dato con la fantasia, dando vita quindi ad un racconto in cui si spezzano, si riallacciano, si scompongono dati fino a dar vita a un nuovo possibile intreccio.Amazon.it: Apologo del giudice bandito - Atzeni, Sergio - Libri

Il romanzo è ambientato nella Sardegna del 1492 devastata dall’ennesima invasione delle cavallette e dall’oppressione spagnola, mentre i sardi sono ridotti a schiavi o nascosti nelle montagne. E’ il potere, costituito in questo caso dal vicerè Don Ximene e l’arcivescovo Gabriel Cardano,  che istituisce un delirante processo contro le cavallette al fine di placare l’ira e la paura popolare. Durante il processo e l’assurda condanna si intrecciano le vicende di vari personaggi, grassi e stupidi baroni spagnoli, la schiava Juanita indomita ed in fuga per difendere la sua virtù e quel poco di libertà, bambini irriverenti che fanno dispetti a gesuiti avidi e condannati a condannare delle bestie, sardi saggi e conoscitori del futuro ed il giudice, catturato, gettato nel pozzo ma anche da là in grado di fare qualcosa. I personaggi più che il processo o meglio, l’auto da fé, sono i veri protagonisti e motori delle vicenda: la maggior parte di essi sono sempre in moto, un moto continuo, accelerato che si fa via via sempre più frenetico e che li porta a non andare da nessuna parte. Ma se la follia si muove vorticosamente nel tentativo di risolvere l’irrisolvibile, Itzoccor, il giudice bandito del titolo, prigioniero sul fondo del pozzo del palazzo, è immobile, nutrendosi di topi e giocando a shah (i moderni scacchi): è lui a porre un punto alla vicenda a condurla verso la sua inevitabile conclusione.
 

L’AUTO DA FE’ 

Un fascio di luce cala dal lucernaio su uno scrittoio nero. Padre Gabriel Cordano leva il bicchiere ai raggi del sole, che suscitano bagliori «Ave color vini clari…» sussurra e beve lento, sorso a sorso, gli occhi marrone vanno dal vino dorato nel vetro verde scuro ai codici custoditi nelle teche di argille perché l’umidità della città non li faccia ammuffire.
Sullo scrittoio uno scrigno giallo e azul e del maestro Manuele di Antiochia. Sulla ribalta e dipinta una natività, la chioma della vergine è una cometa. Padre Gabriel estrae un foglio bianco. Una delle copie di lettere del viceré perdute da chissà chi davanti alla porta della cella. La prima lettera, erano passati 30 giorni dall’arrivo a Caglié quando l’ha trovata. Trenta giorni. Il tempo di capire che “Gabrielito carissimo” non avrebbe usato il tribunale come arma vicereale, com’era stato in precedenza. Gabriel legge con gli occhi “beffardo e incostante, contrario per indole qualunque tema sia in questione, portato per natura alla loquela di false opinioni, dedito a consorterie clandestine, licenzioso”.
Il Monaco conserva il foglio nello scrigno. “Manca soltanto regicida” pensa “i malvagi usano le parole per confondere il vero, ma le parole bene usate stringeranno i colpevoli in gabbie più ferree delle vergini chiodate…”
Davanti a una croce alla sardesca, nera e rozza, senza corpo del Cristo né chiodi né spine, nient’altro che legno nero, Gabriel prega: «Fac me cruce custodiri, morte Cristi premuniri, confoveri gratia, quando corpo morietur fac un animae donetur paradisi gloria».
Con la mano si segna. Esce dalla cella. Il corridoio è buio.
Scende, poi sale, per gradini per gradini alti e stretti, scivolosi.
Svolta una, due e tre volte.
Cammina veloce come conoscesse il tragitto a memoria e l’avesse già percorso molte volte come oggi, senza torcia, come vedesse al buio.
Entra nell’aula da una porticina nera.
Ai lumi delle candele la sua ombra si allunga sulle pareti. Le gambe paiono quelle di un gigante. Spariscono poi riappaiono più lunghe, mostruose.
Avanza fino allo scranno del giudice. Guarda le croci rosse dei sambenitos fra le fiamme. China il capo. Allunga le mani sui fianchi.
«In piedi!» intima la voce profonda di un consultor. Sotto le arcate che già il comando, seguito dallo strascichio di piedi degli uomini che si sollevano dagli scranni. Le fiamme delle candele vacillano anche se la porta e le finestre sono tutte chiuse.
Don Ximene guarda il crocifisso castigliano che sovrasta il giudice: Cristo e d’argento, grande come un uomo vero, gli occhi sono zaffiri, dalle ferite colano scie di rubini, la croce è di pece nere come la notte, scintillante alle fiamme, affissa al muro su un letto di seta rossa. Le candele vacillando animano l’ombra, l’uomo d’argento si muove come tentasse di strapparsi alla croce. Nell’anima di Don Ximenes si insinua un brivido di paura. Ha la bocca secca.

«Noi, Santissimo Tribunale, giudichiamo la locusta che ha portato fame e pestilenza regno, miseria e penuria ai rifugi dell’uomo e alle casse dell’ordine, malvagità insensatezza al cuore degli umili e dei potenti». La voce di padre Gabriel è neutra né rabbiosa né festante, severa, voce di giudice. Eppure Don Ximene pensa: “Ne hai architettato una delle tue, Cordanino…”.

«Sia introdotto l’accusato!» Tuona la voce profonda di un consultor. Don Ximene sobbalza sul seggiolone. «La locusta qui? Come? Qui? Sei pazzo, Cardano!»

I cursores spalancano la porta, il sole irrompe nell’aula del giudizio, cancella ombre e candele. Il bianco della porta acceca.  Al centro appaiono quattro figure scure che avanzano, entrano nell’aula, portano sulle spalle due pertiche parallele che sorreggono una cesta di giunchiglia in forma di cassa da morto. I portatori sono avvolti in quattro sambenitos. Si fermano e depongono la cesta a un metro dalle narici viceregie. Don Ximene guarda. Migliaia di locuste, nere, marce, in una poltiglia agitata da piccole onde provocate dal trasporto sulle spalle dei portatori.
Emana tanfo di morte.
Auditores, vara, cursores, qualificatores, dimentichi della disciplina virtuale, stingono il naso con dita robuste.
«Allora sarà chiamato soltanto Salomone» recita senza voce l’arcivescovo «allorché avrà consegnato il Regno a Dio Padre gli avrà spogliato ogni principato e potestà. Bisogna ch’egli regni finché ponga nemici sotto i suoi piedi e distrugga l’ultimo nemico la morte» ma la puzza raggiunge anche don Antogno. Si interrompe, perde il filo, tace. Le mani corrono al naso, lo chiudono e tentano di nascondere la danza selvaggia della guancia, l’occhio immobile da assassino.
Padre Gabriel ha le mani ferme lungo i fianchi, non si è mosso. Piccoli cilindri di farina impastata con acqua di rose son volate da una piega del sambenito e ci sono infilati nelle radici per difenderle a dovere, mentre tutti guardavano la porta aprirsi.
Don Ximene non ha visto il trucco né lo immagina. Ma per non essere da meno di Cordano tiene le mani ferme sul ventre debordante. Resiste alla tentazione crescente di sollevarle verso il naso.
Il viso viceregio da roseo si fa gessoso. Gli occhi sbiancano denunciando un imminente maldiventre.
Un gesto del giudice allontana il il mefitico imputato, capace di superare farina e acqua di rose ed evita per un pelo i conati dell’eccellentissimo viceré.
I cursores spalancano le finestre. L’aria esterna disperde il tanfo annidato nell’aula del giudizio, ma non del tutto.
Il colorito di Don Ximene da bianco terreo si fa rose e subito rosso fuoco d’ira. “E’ tuo, il nodo che annodi, Cordanino” pensa “ti scuoierò vivo, prima di bruciarti”.
I portatori della cessa di locusta putrefatta escono nel chiostro.
I baroni sventolano fazzoletti profumati.
Donna Antonietta Zepita annusa un sacchetto di lino pieno di foglioline di menta fresca e fiori secchi di lavanda: schiacciando con le dita i profumi si mescolano.
Al primo passaggio nel chiostro “di tutta quella innominabile schifezza”, così l’ha battezzata, la nobildonna è svenuta a causa del fetore.
Per fortuna Donna Sibilla Cruz porta con sé decine di sacchetti di foglie fiori profumati perché detesta gli odori della città in cui vive. Ha soccorso Donna Antonietta con comprensione affettuosa.
Don Rodrigo Curraz chiede a voce alta: «Hanno raccolto le colonie di tutto il Campidano? E perché?»
Don Jaume Zitrelles gli affibbia un calcio nel deretano, fintamente scherzoso, in realtà sono robusto e dato per far male  e commenta: «Non cercate Rodrigo Curraz, per buona educazione, pure se figlio di vicerè…»
Rodrigo accena sì s’ con la testa, sorride, come fosse contento dei fatti e delle parole.
A Don Flaviano Medina , sottointendente fiscale, il gioco è piaciuto e decide di dare anche lui un calcio nel didietro all’erede di una gloriosa famiglia di conquistadores, i grandi Curraz, i potenti Curraz. Colpisce.
L’erede di tanta gloria si volta, vede chi è stato, ride nuovamente ma si direbbe meno contento.
Donna Antonietta si chiede se non sia il caso di svenire di fronte a tanta volgarità maschile e decide di non farlo perché sono passati pochi istanti dallo svenimento precedente.
Donna Sibilla Cruz guarda Jaume con una sforza con una smorfia di disprezzo: “Un tempo mi faceva pena” pensa “ora fa schifo, soltanto schifo… Cosa significa figlio? Sibilla Cruz non ha figli, uno che ebbe si è trasformato in bestia crescendo di statura…”.
IS ARRIORESUS: LE ISTITUZIONI SPAGNOLE IN SARDEGNA: L'INQUISIZIONE E GLI STAMENTI

Is arrioresus (tribunale spagnolo dell’Inquisizione)

Si può parlare a proposito di questo brano di un quadro, il centrale, quello intorno al quale si snoda la vicenda.  Infatti il primo importante romanzo di Atzeni porta già in luce la caratteristica della sua tecnica narrativa che qualcuno ha definito con il termine di frammentarietà. Si potrebbe forse dire, più giustamente, che tale spezzettatura sia dovuta alla presentazione “contemporanea” di tutti i livelli sociali della Cagliari (Caglié) del tempo, tempo in cui navi spagnole conquistavano le Americhe, lasciando in stati vassalli personaggi che Atzeni presenta in modo caricaturale, anche se tale caricatura sembra essere più vera di una descrizione naturalista. Infatti, accanto a questo episodio, ne troviamo altri, quale quello di bambini irriverenti che riescono a mettere una corda sul membro di un religioso o di un giovane che, per i bei seni di una ragazza, ingurgita non so quanta zucca fritta, o di un povero leccapotenti smerdato in testa da un cavallo.

Ma il romanzo apre le vie per uno sperimentalismo letterario che avrà grandi frutti nella narrativa sarda e non solo:

ITZOCCOR E DON XIMENE

«Itzoccor Gunale. Benvenuto a Caglié» saluta Don Ximene in tono un po’ isterico mentre muove nell’aria le dita ossute, rami di mandorlo invernali, stridenti coll’enorme corpo viceregio, disegnando piccole forche e nodi scorsoi per intimorire il prigioniero.
«La volpe…» dice Don Ximene intorno irridente. «Pure sei caduto nella rete…»
Il viceré è gioioso, ha catturato il bandito più temuto del viceregno. L’osserva e pensa: “L’hanno chiamato giudice e volpe… I baroni di Caglié lo temono come fosse Satana in persona… gran cagoni… El rey mi premierà… Oro…».
Itzoccor Gunale odia gli l’istrangiu, lo straniero, con lo stesso odio intenso e freddo di suo padre di tutti i Gunale prima di loro; odio e balentia dei Gunale molte volte raccontati, sui monti.
Il prigioniero è piccolo di statura, scuro di pelle, ha barba nera e riccia, occhi chiari come tuorlo d’uovo, duri come pietre.
Don Ximene sorride. «Dimmi, merdoso, perché ti facevi chiamare giudice? Non appari come monaco, hai piuttosto fama da assassino… Perché giudice? In memoria dei vecchi tempi? Tu saresti il Giudice? Il grande capo: guarda un po’: uno dei tuoi ti ha venduto. Uno dei tuoi. Ti hanno venduto per tre vacche e dodici starelli di grano… Se sei giudice, giudica: è il giusto? Non li condanni?»
«Giudice altri l’hanno detto, non io. Tu, invece, sei detto cane, e sei creatore di giuda, biscia velenosa…»
Lo staffile apre sulla guancia del prigioniero una ferita larga un dito dal lobo destro al mento, di carne viva, il sangue cola dai ricci neri al pavimento di chiaro legno libanese della gran sala vicereale delle udienze dove il viceré ha voluto incontrare per la prima volta il prigioniero appena catturato, per impressionarlo con la visione della propria potenza e ricchezza.
Il prigioniero si piega. E’ più basso di Don Ximene di una testa intera, come possanza è secco un quarto di viceré. Ha le braccia inchiodate dietro la schiena da una gabbia di ferro. Gabbia uguale gli inchioda le caviglie. Guarda gli occhi grigi, sfuggenti dell’istrangiu. Disprezza.
«Colpisci» ordina Don Ximene.
Terencio, fermo, preso nei ricordi di Luis, il miglior amico, e di Azù, forse più di Luis… colpisce con la mazza ferrata sulla schiena del prigioniero che cade faccia a terra.
Il viceré si avvicina finché l’unico oggetto nella visuale del caduto sono gli stivali lucidi di grasso.
«Omine, bàa» sussurra il prigioniero e sputa. Una chiazza gialla vola sulla scarpa. La frusta di Don Ximene sferza come pioggia di marzo la schiena e le braccia, e cattura la caviglia di Itzoccor con un laccio, la solleva, scaraventa il prigioniero addosso uno scranno di legno massiccio che cadendo al suolo rintrona in tutto il palazzo vicereale.
Don Ximene si abbatte su una sedia, affanna, sbianca in viso, cerchi neri appaiono attorno agli occhi.
“I colori della morte” pensa Terencio, accorre.
Il padrone lo ferma con un cenno della mano: «Raccogli il merdoso» mormora rauco «gettala nel pozzo non voglio più vederlo».
Terencio trascina fuori il prigioniero.
Il vicerè, solo, prima sorride, la testa si annebbia, poi chiude gli occhi, rantola.

Leonardo Alagon: nobile spagnolo in Sardegna

Afferma il critico letterario, Giuseppe Marci: “Atzeni in un italiano scabro e disseccato introduce elementi lessicali tratti dalla lingua spagnola che banalmente potremmo dire coerenti rispetto alla situazione storica cui fa riferimento L’apologo del giudice bandito, o, forse meglio, possiamo vedere come appartenenti all’universo linguistico sardo, retaggio di una dominazione certo dolente sotto il profilo politico, e tuttavia feconda (…) sotto quello della cultura. E introduce la lingua sarda. Un sardo che farebbe inorridire i puristi, come comanda il loro destino condannati a cercare in eterno una improbabile patente di nobiltà del linguaggio. E’ la scrittura che rende nobile una lingua, la più pura spuria e plebea, lingua dei bassifondi e delle strade del porto, lingua dell’abiezione della rissa, delle supreme passioni, dei traffici leciti e dei commerci di contrabbando, di una città levantina che a nessuno ha mai chiesto la genealogia della casata ma tutti ha accolto, navigatori e mercanti, santi e avanzi di galera”.

La pubblicazione dell’Apologo ha dei profondi risvolti sul piano biografico: abbandona il lavoro stabile e comincia a viaggiare in Germania, Lussemburgo e Italia. Trova quindi ospitalità in una comunità religiosa dove affluiscono giovani con svariati problemi. Nessuno gli chiede perché è lì e cosa ha intenzione di fare. Offre le sue braccia per lavorare ed intanto ascolta con trasporto le gesta dei missionari. Quell’esperienza lo farà cristiano: “Una cosa è certa: dovunque vada, sarò cristiano”.

Nel 1988 si avvicina al mondo editoriale. A Torino diventa dapprima correttore di bozze, poi mano mano traduttore dal francese per le più importanti case editrici

Nel 1991 pubblica, sempre per la Sellerio, Il figlio di Bakunìn, romanzo breve che si svolge seguendo il ritmo dell’inchiesta giornalistica o dell’indagine tendente a ricostruire la vita e le gesta di un inafferrabile personaggio anarchico e comunista, eroe o truffatore, animo sensibile e raffinato o volgare profittatore.

Il figlio di Bakunìn - Atzeni, Sergio - Ebook - EPUB con DRM | IBS

Il libro è composto da una serie di interviste che propongono, nell’alternanza dei punti di vista, la supposta verità sul personaggio di cui si parla.

Da qui una prosa frazionata, fatta sia di  brevi proposizioni che stilisticamente ricalcano il livello culturale degli intervistati, che di “racconti” più articolati, costruiti sia per costruire un mito, sia per affossare un delinquente.

UNA TESTA CALDA

Negli anni del fascismo ero impiegato a Montevecchio. Ricordo bene quell’uomo. Era un parolaio, un arruffapopoli, uno dei peggiori. Una testa calda. A chi diceva che lui e quel Serra, altro bell’elemento, fossero gli armatori migliori, rispondevo allora, e oggi posso ripeterlo tale e quale, che se avessero avuto figli da mantenere non sarebbero stati così lenti. E resto dell’idea che certe rifiniture ad armatura sono più vizi che pregi, non servono a nulla. La disgrazia, se è destino, capita ugualmente. Nel ’44 ho cambiato lavoro e paese.

LA MEDAGLIA D’ARGENTO

Ho visto coi miei occhi la medaglia d’argento e la pergamena arrotolata. L’ha aperta davanti a me, era scritta in inglese. La firma era di un generale che a quel tempo era famoso… Ora mi sfugge il nome… Ce l’ho sulla punta della lingua… Alexander. Forse sbaglio. Con gli anni la memoria è peggiorata. Direi Alexander, ma non ci giurerei. Ho un amico che a casa ha una storia della seconda guerra mondiale, posso controllare.
Il nome della pergamena era proprio Tullio Saba. Io degli Americani penso questo, che a volte regalano sigarette o dollari, ma una medaglia non la regalano a nessuno, neppure a un Americano, figuriamoci a un Italiano. Te la devi conquistare. A quel tempo più di oggi. Peccato che quando ho letto la pergamena non conoscessi l’inglese.

L’autore così spiega: “Ho pensato prima ad una coralità di voci, poi a che cosa dovessero raccontare. Allora mi sono rivolto ad un’area della memoria collettiva. Mi interessava creare, per esempio, una donna che parlasse in modo tale da essere definibile: anche se un lettore non sa chi è, dopo che lei ha parlato per mezza pagina, sa già che è una donna sarda di una certa età, non tanto per ciò che dice quanto per come lo dice”.

Ricordando Sergio Atzeni. Due giorni tra cinema e letteratura, a Cagliari - Bookciakmagazine

Una scena da “Il figlio di Bakunin

Quel che è certo è che dietro le parole (dietro un uomo che racconta) c’è una storia. E qui la storia che racconta un suo compagno minatore, Ulisse Ardau, è la storia, per la Sardegna, di miniere, di soprusi e di illusioni.

VIVA STALIN

I primi giorni a Montevecchio era tutto un “signorino” di qua, “signorino” di là, per sfottere, per scherzo, un po’ tutti glielo dicevamo, “hai finito di sfoggiare scarpe nuove!”, o “un vero gagà scende in miniera, quando mai!”, battute senza malevolenza, nessuno di noi minatori avrebbe augurato a nessun uomo di finire in miniera, se non al peggior nemico. Era una novità, Tullio Saba con gli scarponi marci come i nostri, che saliva per la stessa strada verso i pozzi assieme a tutti noi.
A quel tempo, la mattina presto si andava a lavorare con qualcosa sulla testa, per proteggersi dall’umido, chi aveva cicia, chi bonette. Lui, dal primo giorno, basco alla francese. Sembrava lo facesse apposta per continuare a distinguersi dal gregge. Poi si è visto che ai sorveglianti e agli impiegati di Montevecchio quel basco dava fastidio, chissà perchè, gli sembrava un’arroganza? Lo guardavano male. Ma cosa potevano dire? Il duce mica aveva proibito ai minatori di portare basco alla francese. In capo a quindici giorni tutti quelli che non ci accontentavamo, che avremmo voluto un mondo o almeno un lavoro diverso, avevamo copricapo uguale al suo.

Lui abitava in centro, io in periferia. La mattina aspettavo al caldo, in cucina, vicino al camino, guardando la strada dalla finestra. Lo vedevo sbucare dall’angolo di Angelino Marrocu, laggiù, vedi? Un tempo lì non c’era quella palazzina, ma una casa bassa, di fango. Angelino Marrocu era fabbro. Così quando Tullio appariva sembrava uscisse dalle scintille della bottega di Angelino. Camminava a passetti svelti per riscaldarsi col movimento. Allora uscivo anch’io, qui davanti ci incontravamo e cominciavamo a salire assieme. «Ciao, Tullio». «Ciao, Ulisse». E poi fianco a fianco, silenziosi, ognuno nei pensieri suoi. I minatori pensano molto, tutti quelli che hanno un brutto destino sul gobbo pensano molto. Sognano a occhi aperti di cambiare vita. Pensano a come liberare i propri figli.
Ogni tanto, dopo che già da un po’ di mesi facevamo la strada assieme, abbiamo cominciato a scambiarci frasi a bassa voce. A Carbonia Tullio aveva conosciuto minatori ch’erano stati in Belgio e in Francia. E sapeva molte cose che non erano scritte sui giornali, e che la radio non diceva, sulla guerra di Spagna, sul comunismo russo. Sapeva, e parlava, raccontava.
In capo a quattro, cinque mesi, si è aggiunto anche Giacomo Serra. Era più vecchio di noi di almeno dieci anni, cioè ne aveva una trentina, ma sembrava molto più vecchio di quel che era, dopo quindici anni di miniera. Magro come canna, la schiena piegata, la testa avanti sul petto come quella di un gobbo, come se la spina dorsale fosse così debole da non poter tenere la testa eretta come quelle degli altri. Forse era diventato così a furia di stare piegato in galleria a costruire armature. Conosceva le viscere di Montevecchio meglio di qualunque ingegnere o direttore. Se nel tuo cammino in galleria trovavi un tratto di armatura costruita a regola d’arte, quella era opera di Giacomo Serra. Aveva leggi sue. A quel tempo c’era il sistema dei cottimi, non contava la qualità del lavoro ma la quantità. Lui ci perdeva denaro e settimane, e si faceva nemici i sorveglianti, ma nessuna armatura sua ha mai sepolto nessun minatore. A volte l’armatura ben fatta non basta, la miniera vuole uccidere e spacca anche il ferro. Ma con Giacomo Serra era come se una mano santa proteggesse il suo lavoro. L’unico armatore la cui opera durava negli anni senza una crepa. Era diventato una leggenda. I minatori lo amavano. E’ bello sapere che c’è qualcuno che pensa a non farti crollare pietra, acqua e morte sulla testa. Pochi armatori lo imitavano, pur ammirandolo. Avevano famiglia, molte bocche da sfamare, poco tempo da perdere.
Giacomo tossiva tutto l’anno, compresi luglio e agosto, tosse da fumatore incallito e da silicosi. Aveva l’indice e il medio della destra neri di nicotina.
E’ riuscito a prenderci in squadra con lui. Un giorno ci mandano alla settima, la galleria più in fondo, nelle viscere della terra, a trecentocinquanta metri. In altri pozzi si arriva a cinquecento metri, c’è la decima. L’ultima ha sempre un nome di donna, Margherita, Cristina, Elena, forse perché le gallerie così in fondo sono pericolose, infedeli, ambigue e figlie di puttana proprio come le donne. C’era stato un guasto al pompaggio, un tratto di galleria era crollato. Di notte, per fortuna. Un punto di forti infiltrazioni d’acqua. L’armatura, mal fatta, aveva resistito poco. Era un tratto breve, forse dieci metri. A ricostruirlo abbiamo impiegato sette giornate. Alla fine del lavoro il minatore che passava in galleria e guardava in alto leggeva una scritta in lettere grandi quanto un uomo: VIVA STALIN. 

Chi era Stalin per noi allora? Parlo degli anni ultimi che portano alla guerra. Chi era? Era il capo del paese dove non c’erano padroni, dove i minatori guadagnavano più degli ingegneri, perché facevano un lavoro più faticoso e pericoloso, dove le armature di Giacomo Serra sarebbero state citate ad esempio e imitate, dove c’era il libero amore, dove i minatori andavano ai concerti e a teatro, in abito da sera. Tullio raccontava queste cose, perché non crederci? Faceva piacere immaginare che in un luogo del grande mondo la prima preoccupazione del governo era che i minatori non lasciassero la pelle nei pozzi. E che non dovessero lavorare con le cosce nell’acqua e con le scarpe squagliate. Tutte queste notizie erano date per certe. Dopo la guerra la canzone è cambiata. Abbiamo cominciato a sentire dei processi del ’37, dei compagni uccisi… Al principio pensavamo che i processati fossero traditori, poi lentamente abbiamo capito la verità. Ma negli anni del fascismo Stalin era il padre buono, Benito il patrigno cattivo. Ora tutto è cambiato, la nostra fede di allora sembra ridicola, anche il partito dice che Stalin era un criminale.
Sai cosa ti dico? Darei tutto quello che ho per tornare a provare l’emozione di quel giorno, quando abbiamo visto l’armatura finita e quella scritta lucente là in alto, VIVA STALIN.

Nei mesi successivi pensavamo spesso a quella scritta che avevamo tracciato con tanta pazienza nelle viscere della terra. Il direttore e l’ingegnere non scendevano mai alla settima, si sentivano oppressi, laggiù. Pensavamo che però un giorno o l’altro gli sarebbe arrivata la voce che sulla volta della settima c’era la scritta, e sarebbero dovuti scendere per vedere coi loro occhi, e noi avremmo passato i nostri guai. Invece nessuno gliel’ha detto, mai.

Giacomo Serra ricordava i tempi prima del fascismo. Anche suo padre era stato minatore, e diceva che anche ai vecchi tempi la vita del minatore era una schifezza, ma allora almeno qualcuno parlava a nome dei minatori, e si poteva scioperare, e c’era un sindacato che difendeva i lavoratori, e lo spaccio vendeva scarpe e spaghetti migliori.
Parlavamo del passato, di gente lontana e sconosciuta. Sognavamo.
Un giorno nasce una discussione: se facciamo come in Russia e prendiamo il potere, chi mettiamo al muro? Tullio dice che lui l’ingegnere e il direttore non li avrebbe fucilati, avrebbe goduto molto di più a vederli spingere il carrello o preparare le mine.
Giacomo ogni tanto diceva che un giorno o l’altro Lussu sarebbe sbarcato a Bosa, chissà poi perché a Bosa e non a Porto Torres, e avrebbe dato il segnale della rivoluzione. Per quanto mi riguardava, un segnale sarebbe bastato, se fossi stato certo che la rivoluzione era cominciata. Avrei preso le armi e avrei sparato.
Chiacchiere, sogni, ci aiutavano a sopravvivere.
Un giorno Tullio porta un mazzo di foglietti di carta rossa. Ognuno conteneva un lungo discorso stampato con inchiostro nero che sbavava dalle dita. Diceva che stava per cominciare una grande guerra internazionale e che noi lavoratori avremmo dovuto trasformarla in rivoluzione generale. Che noi minatori fornivamo la materia prima dell’industria della guerra, e dovevamo sabotare la produzione in nome del comunismo. L’abbiamo distribuito a tutti quelli che per certo non ci avrebbero tradito e denunciato.
Nonostante il manifestino, ancora nel ’39 la guerra mondiale mi sembrava impossibile, mio padre era stato sul Carso, ne era tornato zoppo. Mi aveva parlato della Grande Guerra, mi sembrava impossibile che gli uomini potessero essere così stupidi da voler rifare una scemenza simile. Poi ho visto con i miei occhi ch’era possibile.
Nel ’40, per guadagnare quel che guadagnavi nel ’39, dovevi lavorare il doppio. Solo la nostra squadra per un po’ ha mantenuto la lentezza di prima della guerra.

Perdo il filo, mi devi scusare, sono passati tanti anni… Dicevo del manifestino che abbiamo distribuito, ecco, e un giorno il direttore ha fatto chiamare Giacomo. Gli dice che se non si dà una regolata nel rispetto del cottimo, lui e tutta la squadra, licenziamento. Accenna a certi manifestini sovversivi, come se avesse saputo qualcosa, avesse sospetti, ma non certezze. La sera scendendo in paese dico «Facciamo le armature come vuole lui, che crollino. Anche i crolli ritardano la produzione. E’ sabotaggio. Per Stalin». E Giacomo Serra risponde «Far crollare una galleria in testa a un padre di famiglia che si guadagna il pane in fondo a un pozzo? Manco se Stalin viene qui a chiedermelo di persona. Non può essere così coglione». Non ne voleva sentire. E per tutta la guerra ci siamo tirati il collo per fare le armature solide come prima ma più in fretta.

Il figlio di Bakunìn a teatro

Il figlio di Bakunìn propone, come gioco, quello di inseguire le interpretazioni e le modalità espressive di molteplici narratori chiamati a riferire su un unico tema: la definizione di una personalità umana. Cioè un gioco della verità che si conclude con la negazione della verità, oppure l’unica verità possibile, quella di ognuno di noi, in questo brano quella dei narratori, creando non credo inconsapevolmente, un testo “pirandelliano”: la differenza è che nell’autore siciliano sono il narratore o gli stessi protagonisti ad essere costrette o a svelare le varie forme che assumono negli occhi degli altri; qui Atzeni crea il personaggio attraverso le forme che gli altri gli danno, ma lo fanno attraverso la memoria; allora la forma cessa di essere “reale” per diventare mito.

Qui finisce quel che resta di Tullio Saba nella memoria di chi lo ha conosciuto. Tutto quel che hanno detto ho registrato col mio Aiwa, tutto quel che ho registrato ho trascritto, senza aggiungere né togliere parola. Non so quale sia la verità, se c’è verità. Forse qualcuno dei narratori ha mentito sapendo di mentire. O forse tutti hanno detto ciò che credono vero. Oppure magari hanno inventato particolari, qui e là, per un gusto nativo di abbellire le storie. O, ipotesi più probabile, sui fatti si deposita il velo della memoria, che lentamente distorce, trasforma, infavola, il narrare dei protagonisti non meno che i resoconti degli storici. 

Nel gennaio del 1995, pubblica per i tipi della Mondadori Il quinto passo è l’addio. Anche questo è un romanzo di memoria, svolto su un non-luogo, la nave dove un certo Ruggero Gunale (alter ego dell’autore) ripercorre in lunghi flash back la sua esperienza fino a lì vissuta.

Amazon.it: Il quinto passo è l'addio - Atzeni, Sergio - Libri

Anche questo romanzo presenta un andamento non lineare, frantumato: i ricordi non hanno scansione temporale ma affiorano dalle sollecitazioni che la nave stessa gli procura: l’allontanamento dal porto, le persone che incontra, i suoi stati d’animo o l’effetto di una “canna”.

Ma tra i ricordi anche una Cagliari presumibilmente fine anni ’70, quella dei suoi anni giovanili, figlia di un rampinismo “politico” che, come in questa parte del romanzo, raccontata e vissuta certamente dall’autore stesso, ci dice come la forza di dar vita ad un’ideale o ad una prospettiva, foss’anche attraverso la costruzione non “realistica” di un mito come quello di Tullio Saba, s’infranga in una disillusione, presentandoci una Cagliari che è stata (e forse lo è ancora) città dove i potenti di ieri, sono i potenti di oggi, una città, cioè incapace di trasformarsi:

CREDO CHE IL TUO MESTIERE NON SIA IL GIORNALISTA

Ruggero Gunale e Antonio Curraz si incontrano. Si fermano. Abbozzano un sorriso.
«Buongiorno» dice Ruggero.
«Ciao» risponde Antonio, e aggiunge «Tempi duri per il Cagliari…».
«Ogni morte prepara una rinascita…» risponde Ruggero. «Ha qualche notizia sul concorso?»
«Hai fatto lo scritto migliore».
«Davvero?»
«E io ti ho dato il voto più basso, anche se sufficiente. Non era un articolo, ma il sunto di un futuro saggio sociologico. Ben scritto, non discuto, tutti i congiuntivi giusti, ma nulla che vedere col mestiere. Agli altri è piaciuto, ora sei primo in graduatoria».
«Ho qualche speranza di vincere?»
Il volto paffuto e gli occhi grigi di Antonio Curraz sono espressivi quanto quelli del fratello Augusto a poker: zero.
«Voglio dirti in tutta onestà la mia posizione. Agli orali ti darò insufficiente anche se citerai Orazio in latino a memoria “Persico odi puer apparatus…”. Saresti in grado di farlo?»
«No».
«Meglio così, mi togli un peso dallo stomaco».
«Perché?»
«Non ho nulla contro di te. Credo sinceramente che alla Rai proveresti danni, sei una testa calda… Credo che il tuo mestiere non sia il giornalista… Però non me la sentirei di bocciarti, se la tua cultura classica… Il fatto è, caro Gunale, che partecipa il figlio di un amico degli amici, e a me non piace accettare pressioni, ma stavolta c’è in ballo qualcosa come un debito di riconoscenza, il ragazzo è disoccupato e padre di famiglia, tu hai un lavoro ben pagato e sei solo, altri pesi in meno sullo stomaco».
Antonio Curraz è più grasso che magro, più basso che alto, in grisaglia di buon taglio. “Abituato da generazioni” pensa Ruggero “a spiegare ai contadini del feudo perché non debbano mai presentarsi alla Casa di città se non previo appuntamento col soprastante”. E dice: «Ti ringrazio della franchezza. Non mi farò illusioni».
Otto e cinque. “Ci sta un caffè” pensa Ruggero. “E a questo punto ha senso che mi presenta agli orali? A meno che… non sia l’obiettivo primo di tanta franchezza di Curraz… scoraggiarmi, spingermi a desistere per lasciare campo libero al suo protetto…”.
Corridoio buio del liceo Mamiani, nella capitale oltremare. Ruggero ha paura di perdersi.
“Non si vede una sega” pensa “Mi hanno fatto quattro domandine facili facili e via… Potevo rispondere meglio? Che l’ho studiata a fare la Costituzione a memoria?”
Una mano gli artigli al braccio. Riccardo si volta con un sobbalzo, riconoscere nella penombra il volto di uno dei commissari, capelli crespi, barba. «Ti voglio parlare, un attimino», e dice sono Giorgio Piluria. Conosco Pippo Ibba, mi ha parlato di te, dice che sei dei nostri… Debbo spiegarti perché non vincerai, è sgradevole ma dovuto e voglio anche rassicurarti, non tutto è perduto la situazione è complicata».
Ruggero guarda perplesso la mano ancorata al bicipite. Il commissario fa un sorriso di scuse e la stacca.
«Abbiamo fatto un accordo» dice «abbiamo dovuto farlo. Loro tenevano molto a quel posto tu gli hai rotto le scatole costringendoli a scoprirsi, il vincitore è figlio d’arte e noi teniamo un a un veneziano coraggioso disoccupato da cinque anni. Un uomo che ha dato tanto. Cederemo, ma avremo qualcosa in cambio. E non ti abbandoneremo. Arriverai secondo. In caso di assunzioni nei prossimi due anni, pescheremo da qui, garantito, impegno formale del sindacato giornalisti. Sei il primo della lista. Ci andresti a Pescara?»
«Pescara ? Come hai detto che ti chiami?»
«Ora devo andare. Interroghiamo. A presto. Saluta Pippo Ibba…»

(…)

«Tempi grami per il Cagliari…»
«Sì»
«Non ti vedo più in tribuna stampa…»
«Non lavoro più per nessuno, ho seguito il tuo consiglio, studio, cerco un altro mestiere. Allo stadio vado in curva, mi diverto come un matto… Una squadra come il Cagliari deve avere i tifosi di particolari, capaci di scompisciarsi nelle fasi calanti, ci vuole il gusto pazzo di irridere il Niccolai della situazione e lanciargli battute di settimana in settimana più cattive…»
«Ergo sei disinteressato al concorso…»
«Qualcosa di nuovo?»
«Per farci perdonare siamo disposti a deliberare sulla nuova assunzione dalla lista del concorso. Saresti tu.»
«Bene. Ma perché il condizionale?»
«Abbiamo anche provato a far passare la delibera. Non c’è stato verso. La fermano».
«Chi?»
«I tuoi. Il senatore Tonino Portas»
«Perché?»
«Dice che avete un altro candidato».
«Chi sarebbe?»
«Giulio Ibba, il fratello del tuo capo».
«Da anni non è più il mio capo…»
«Dice che presto tornerai all’ovile, visto che stare al freddo non ti giova».

Ruggero aspetta da un’ora nell’ufficio Stampa e Cultura, una saletta due metri per quaranta con dentro un armadio zeppo di materiale elettorale e due sedie con schienali LArossi. Saletta chiamata dalle segretarie Purgatorio (“Lucio vuol sapere dove hai mandato quel barabba… in Purgatorio? E’ chiusa la porta?”), perché là ci mandano anime mediocri e poco importanti per lunghe attese.
La porta infine si apre del tanto che basta a far entrare la testa a pera, la bocca stretta, il naso a punta e gli occhiali neronotte di Lucio Frais detto Sogliola per motivi politici. Addetto al settore Stampe e Cultura. Protetto del senatore Portas.
«Tu non hai idea, caro Gunali,» dice Sogliola tenendo in Purgatorio soltanto la testa e guardando Ruggero con un sorriso di plastica – non hai idea di cosa conta veramente nel mondo: il prezzo della barbabietola negli Stati Uniti può provocare un cataclisma altro che l’olocausto… scusami… era una riunione importante indetta all’ultimo minuto, tu non hai telefono non sapevo come fare per avvisarti… Questa storia del telefono in verità andrebbe approfondita, un atteggiamento snob, ammetterai, ti isoli dal mondo? A un quarto dal Duemila? Nella torre d’Avorio? Scendi dalle stelle, Gunali. Mi piacerebbe parlare un po’ con te, fatti vedere. In autunno, però, prima fra elezioni e congressi non ho un attimo, ora devo fuggire, l’aereo mi aspetta, ho una riunione a Roma domani mattina alle sette, parto stasera, dormo là, evito il rischio di un ritardo del volo delle sei e cinquanta di domani mattina. Avessi saputo che si metteva così non ti avrei dato appuntamento per oggi, ma non importa, sono al corrente della questione, mi spiace dover correre via, mi piacerebbe raccontarti la discussione punto per punto ma c’eravamo noi del settore Cultura più Ibba e Tonino Portas, ho appena letto il suo ultimo romanzo Altopiani di Cenere, bellissimo, se non l’hai letto leggilo, devo proprio fuggire. In tuo favore è intervenuto Peppino Zuddas, il birraio di Sant’Elia, ottimo militante, ha speso una buona parola, era con noi per caso, naturalmente, ma è autorevole della sua dignità di militante onesto. La decisione finale è stata: se vi saranno assunzioni, sarà assunto Gonali».
«Gonale».
«Eh? Ciao a presto, fatti vedere, entra maggiormente nella vita del partito, abbandona gli atteggiamenti snob da primo della classe, ciao, devo proprio partire».
Ruggero guarda dal finestrino oblungo del Purgatorio il terreno incolto intorno alla palazzina del partito. “Ci potrebbero mettere qualcosa” pensa “un fiore o almeno qualche ciuffo d’erba, di basilico. se vi saranno assunzioni… Mi hanno dato un calcio in culo…” 

“Coloro che, nel precedente romanzo, formavano la comunità, gli aderenti allo stesso partito, il partito della speranza, del rinnovamento totale della fede nell’uomo. La situazione è evidentemente cambiata, dell’uomo non importa a nessuno e la comunità/partito non esiste più. O meglio, si è frantumata e persegue altre logiche, estranea alle originarie ragioni, legate ora a interessi non del tutto confessabili, a convenienze individuali. Si è conclusa l’esperienza che, per comodità, abbiamo definito del comunismo guspinese e un’altra si è affermata e si esprime nel colloquio Gunale e l’addetto al settore di Stampe e Cultura, vero esponente della burocrazia partitica che potrebbe trovar posto nell’opprimente società della DDR descritta da Cristof Hein. (Giuseppe Marci)Il quinto passo è l'addio" di Sergio Atzeni: un futuro lontano dalla Sardegna -

 

Ma sarà la stessa burocrazia “partitica” che, non interessandosi  dei bisogni degli ultimi, li relega in quartieri ghetto, dove vivono di tossico dipendenza o di giochi illeciti, come la lotta fra cani:

LA LOTTA TRA CANI

L’alano, e pasciuto, lavato. E’ forte. Molto forte. Nell’ultimo mese ha vinto tutti i duelli, si chiama Signor Nobile per motivi sconosciuti, è stato rubato da Tore Laconi. Colpo preparato con astuzia. Alano individuato da mesi. Fatto incontrare con lupa in calore. Sottratta lupa con alano arrapato. Giorni di sfregamento camicia di Tore su lupa in calore. Passaggio indifferente la sera, nell’unico tratto dove lasciavano il cane libero di correre, la salita dell’anfiteatro. L’alano ha seguito l’uomo che sapeva di lupa, l’ha seguito guardandolo torvo. L’uomo che sapeva di lupa ha corso più e meglio dell’alano. Lupa pronta a centro metri. Dopo il coito lupa sottratta. Non gliel’hanno più fatta vedere. Rubato da tre mesi, per due mesi addestrato, al sessantaquattresimo giorno mandato a combattere, è infogato di suo, non ha bisogno di lezioni. Sul dorso a destra un tratto di pelo rasato alla pelle, al centro la cicatrice di un morso.

Tore Laconi ha occhialini alla Lennon, tondi e d’oro, giacca di lino grigio, camicia nera abbottonata al collo, pantaloni di lino grigio appena più chiaro della giacca, scarpe rosse a punta. E’ ladro di cani, organizzatore di equivoche feste danzanti domenicali in club privati da nomi esotici, Bengala e Kabul, proprietario di una vecchia Lancia Fulvia secondo leggenda dotata di motore Porche, comunque veloce come un razzo e con balestre nuovissime. A cento nei vicoli di Quartu, con dietro pantera e sirena, l’abitacolo della Fulvia resta un magnifico gioiello da borghesia e operai d’Ottocento, un salotto silenzioso e ordinato, fatto con rispetto e amore per chi viaggia. Siccome volendo Tore potrebbe anche fare meccanico, carrozziere e gommista di professione, la Fulvia su qualunque tracciato vince, ha una tenuta di strada miracolosa e la leggenda dice che può fare i trecento. Ormai vive nascosta in un garage luogo di culto, essere ammessi a ammirare il mostro è privilegio di pochi. Esce ogni tanto di notte per farsi inseguire. Non è sbagliato dire che per il commissario Iannaccone, capo dei pulotti del palazzotto grigio a tre piani dalle serrande abbassate estate inverno, notte e giorno, proprio al centro del quartiere, chiamato dalla voce pubblica e dai giornali Forte Apache, per Iannaccone la preda più ambita non è Tore Laconi ma la Fulvia, darebbe dieci anni di vita per riuscire a sequestrarla e guidarla.

Tore è il miglior amico di Ruggero. Ruggero non condivide a nessuna delle passioni illegali di Tore.

Il mastino è orbo da un occhio. Testone che ciondola, mascella immobile. Il dorso è coperto di ferite. Si chiama Giustino e il nome ha una ragione. E’ imbattuto da tre mesi, due duelli a settimana. Un record assoluto al capolinea del 46. E’ nato nel quartiere, da due mastini rubati. Lui non è rubato, è nato libero, è libero, se vuole può andarsene, non lo farà, il padrone è padre e fratello, lo fa combattere perché fin da cucciolo Giustino ha mostrato il carattere del combattente. Crescendo ha acquistato tutta l’astuzia del padrone, Angelo, che lo vede come vede se stesso, lui e Giustino sono una cosa sola, il Signore li ha creati uno per l’altro, Angelo è convinto che Giustino sia invincibile, soltanto il cielo può rubarlo, una zingara ha predetto che la morte prenderà Giustino in un luogo d’erba sotto la pioggia, quando piove Giustino è tenuto in un sotterraneo enorme di cemento: un intero garage, trecento automobili, Giustino è custode e guardiano, riconosce tutti i padroni; i ladri sanno chi è, non si presentano, preferiscono andare in centro, fra le vetrine scintillanti, dove il denaro è nelle tasche come rugiada sull’erba al mattino: tanto e indifeso. Giustino è addestrato a fuggire la pioggia, sa che in caso di pioggia bisogna trovare subito riparo altrimenti Angelo sbava di rabbia, è l’unico motivo nella vita per cui sbava di rabbia, Giustino odia la pioggia, la sente nell’aria con giorni di anticipo e avvisa con ugiolii.

Angelo non ha gambe. Prima dell’incidente era alto uno e settanta. L’incidente non è stata colpa sua, attraversava in via Roma alle quattro del mattino uno e un ubriaco in Giulietta a centottanta l’ha falciato. Senza gambe, che potrebbe fare? Alleva cani da battaglia, ottimi antifurti per i cortili del quartiere. Quando ha un campione sotto mano ci scommette sopra. Prima dell’incidente aveva il sogno di fare il giustino in Calabria (e Giustino è il nome del campione). Ha cicatrici su tutto il torace, non lo copre neppure d’inverno, un po’ perché in città il freddo non sappiamo cos’è, un po’ per vanagloria. I pantaloni, lunghi e bianchi, in parte imbottiti di stracci, nascondono il vero punto del taglio. Angelo siede su una sedia a rotelle e ha un servo depravato che gli tiene la minca per pisciare, gliela scrolla e gli fa le folaghe mentre lui parla coi cani. Parla coi cani dall’alba al tramonto e di notte, eccetto le poche ore che dorme. Si sveglia parlando coi cani. Sogna di parlare coi cani. Con parole tedesche (imparate in un’altra vita da emigrato) e con le mani. Se entri nel suo cortile e sei indesiderato, lui fa un cenno, ti trovi spalle a terra inchiodato da sei molossi. Un altro cenno e ti squarciano la gola. Mai ha avuto bisogno di fare il primo cenno, tranne in addestramento. Chi vuoi che vada a disturbarlo? Iannaccone preceduto da quattro Rambo armati da sbarco in Vietnam. Per Angelo il carcere è più duro che per gli altri, c’è stato finora sette volte per un totale di dodici anni su quaranta di vita.

Tolgono i guinzaglio ai cani. Sale al cielo l’urlo di duecento uomini e donne discinti, tutti hanno bevuto molto, è il terzo incontro della serata, il pubblico si è scaldato, ora vuole il sangue vero, l’uccisione, il sacrificio. Tutti hanno scommesso, come al solito. Esistono due partiti: quello di chi pensa “questa è la volta buona Giustino muore” e quello di tutti gli altri “Giustino è invincibile”.

L' alano e il massino si guardano. 
Signor Nobile muove una zampa, Giustino non si muove. Lo guarda. Digrigna. 
Una donna di fronte a Tore e Ruggero ha una vestaglia nera lunga allacciata alta in vita con una sciarpa azzurra, una vestaglia leggera, estiva, senza bottoni, c’è scirocco che soffia caldo aprendo la vestaglia sotto la sciarpa, a mostrare il pelo del ventre, una foresta nera, lei di continuo si ricopre, la vestaglia di continuo si apre, il marito a fianco in canottiera e mutande se ne fotte. Lei è Gina, 50 anni, la cagna capace a letto di far cantare i morti. Lui è Muzio, padrone di quattro cagne, Gina è la migliore, per questo l’ha sposata e ha dato il nome ai sette figli. L’ultimo, Massimo, è diverso da tutti gli altri. Piccolo, minuto, non gioca a pallone, non scende ai duelli dei cani, non va in giro ogni notte in città a rubare o attaccar briga, studia come un demonio, ha undici anni e ne sa più di Giuliotto, il commercialista di via Is Maglias che partendo da una famiglia di ladri e diventato miliardario onestamente. 
Sull’onestamente c'è dibattito, nel quartiere. Massimo vuol diventare avvocato. 

Le fauci. 
La bava. 

L’alano si avventa, Giustino ruota su se stesso gli strappa le intragnas con un morso.

L’ululato del morente sale al cielo in un boato di trionfo. Muzio, padrone di cagne, ha puntato quattrocentomila su Giustino. Angelo due milioni e il grande Sandro Manca di Assemini ha puntato 10 milioni sull’alano. Tore ha vinto un milione. Sa che un giorno l’altro ruberà e porterà al capolinea del 46 l’uccisore di Giustino, ma a quel punto a furia di raddoppiare ogni giorno puntata il grande Sandro Manca di Assemini si sarà rovinato. Tore punta sempre sul vecchio campione. “Perdo una volta sola” pensa “tutte le altre vinco”.

 Il business (illegale) della lotta tra cani

Lotte tra cani

E’ la Cagliari dei quartieri popolari, quella violenta e senz’anima. Non c’è salvezza. Non è il proletariato pasoliniano, pieno di un vitalismo antiborghese, ancora non omologato, quello degli anni Cinquanta: qui vi è solo un bruciare la vita, gettare soldi, vedere l’essenza della violenza per provare l’emozione della morte, l’impudicizia non come natura, ma come perdita. C’è speranza? Massimo, lui figlio “strano” perché non si rotola nel fango, come quello  Giuliotto. Chissà se vero. La prosa è nervosa, ipotattica, nominale: quasi a rappresentare il respiro affannato sia dei cani che degli astanti, l’ululato del morente, il boato del pubblico.

E’, in conclusione, Cagliari la vera protagonista di questo romanzo, quella di Castello e di Is Mirrionis, del Lido e di Buoncammino, una Cagliari da Atzeni amata visceralmente, ma che lo ha respinto; e i suoi ricordi ci portano verso una città fatta di persone, da lui descritta magistralmente: il sottoproletariato che nottetempo si appassiona alla lotta dei cani, il mondo giovanile con le sue inquietudini e le confuse aspirazioni artistiche, la scuola che consente la frequentazione di compagni provenienti da ceti più elevati, l’ambiente giornalistico e quello politico, ipocriti e cinici, l’universo quasi sommerso dei piccoli locali di ritrovo dove si accendono e si spengono sogni e speranze.

Una città viva da cui il protagonista esce sconfitto, schiacciato, come tanti giovani cresciuti nella speranza di un mondo migliore che ha visto seppellire i suoi sogni di speranza e di rigenerazione e ne esce col gusto amaro della sconfitta.

La Cagliari che non c’è più: anni Settanta, bambini giocano in strada a Is Mirrionis

Bambini a Is Mirrionis negli anni ’70

Proprio perché quasi “espulso” dalla sua terra, quindi, sul ponte della nave, dopo aver visto allontanarsi le umbertine case di via Roma col cubo di cemento e vetro, fino a dissolversi, lasciando spazio alla memoria; solo dopo quando tra Sergio e la sua patria si pone il mare, la lontananza, solo allora può vederla con occhi diversi, di chi vuole ricostruirla, riscrivendone la storia sotto il segno del mito. E lo fa attraverso il romanzo, uscito postumo nel 1996, con Passavamo sulla terra leggeri:

AVEVO OTTO ANNI 

Avevo otto anni, non sapevo nulla della vita, avevo ascoltato la storia, non l’avevo capita, anche ora che la dico non so che senso abbia. Non conoscevo il significato delle parole eterno e increato (forse lo intuivo con vaghezza) rubate a conversazioni famigliari, mi gloriavo di essere ateo. Nell’isola era sinonimo di bandito, a otto anni ero abituato a essere guardato con sospetto, con diffidenza, con paura – molto tempo dopo, scoprendo di essere di stirpe ebrea marrana, oltre che sarda e genovese con sfumature arabe e catalane, ho immaginato che il sangue degli antichi erranti perseguitati vivesse in me facendomi apparire la diversità dagli altri come abituale e perciò non spaventandomi della solitudine che ne veniva, di rado mitigata da amici sempre esclusi dalla comunità perché diversi: scemi, figli di donne non sposate e di bagassa, istrangios e eversori.

Quasi volesse isolarsi da quel “sardismo” incontaminato che così tanto aveva sottolineato la purezza dell’etnia, Atzeni, rivendica il suo essere figlio di tante etnie, scoprendo che essere sardo non vuol dire esclusione ma inclusione di tutte le culture che hanno contaminato e arricchito l’isola. Tuttavia questa contaminazione, ha crato una nuova etnia, capace ora di sapersi raccontare,. Infatti, secondo Atzeni, manca un cantore che sappia “tramettere” attraverso la parola la storia del popolo, è costui è il personaggio di Antonio Setzu. Attraverso il suo racconto si evince che l’essere oggi è cercare di capire il passato, ma il passato è memoria non realtà: Antonio Setzu diventa il bardo mitico che racconta una Sardegna precoloniale, e la racconta come una necessità di una nuova identità.Passavamo sulla terra leggeri - Sergio Atzeni - Narrativa Italiana - Narrativa - Libreria - dimanoinmano.it

PASSAVAMO SULLA TERRA LEGGERI

Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.

A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti.

E’ la suggestione ricevuta del grande romanzo sudamericano: infatti Manuel Scorza, Vargas Llosa, Garcia Marquez erano riusciti a raccontare quasi “magicamente” la realtà coloniale dei loro popoli. Anche Atzeni prova a tessere un racconto in cui ancora una volta è protagonista la memoria, una memoria però storica, non individuale, dove la voce fuori del tempo racconta la storia mitica di una terra da prima dell’uomo fino alla civiltà. La storia perde i suoi connotati e diventa racconto mitico della Sardegna visto attraverso la dialettica di montagna e mare, di popoli diversi e di scontri di culture.Bellas Mariposas - Film (2012) - MYmovies.it

Ancora un racconto, anch’esso uscito postumo nel 1996, a testimoniare la capacità di Sergio Atzeni di innovarsi, come mostrano queste poche righe di Bellas mariposas:

IL GIORNO DELL’AMMAZZAMENTO DI GIGI

Era molto tempo che Tonio lo minacciava ma credevo che scherzava

che lo odia lo so si vede da come lo guarda quando lo incontra e perché cerca sempre occasione di arropparlo di mala manera

ma credevo che scherzava dicendo Un giorno quello lo uccido

e invece il 3 di agosto è stato il giorno dell’ammazzamento di Gigi del quinto piano l’innamorato mio

non si è mai permesso di allungare le mani se provava gliele tagliavo

se ti fai toccare l’albicocca da bambina finisci come mia sorella Mandarina pringia a tredici anni adesso ne ha venti e ha tre figli batte in casa privata non è lo schifo della strada ma sempre ti devi ciucciare minca purescia di qualche pezzemmerda

non mi interessa voglio diventare rockstar dopo che sarò rockstar sceglierò l’uomo

per ora meglio vergine e ogni tanto mi pensavo che l’uomo per dopo che sarò rockstar magari sarà proprio Gigi del quinto piano perché sono sicura che mai mi mette le mani addosso quando dico no se non vuole che lo getto dalla finestra del quinto piano magari sposata e rockstar abiteremo al ventesimo voglio un uomo che se rompe lo butto giù dal balcone e non torna a chiedermi conti

nessuno deve chiedermi conti cosa vuole questa gente?

Mio padre pezzemmerda che conti chiede? Dice Hai dodici anni Caterina devi guadagnarti il pane

Io ti ho chiesto di farmi nascere in questa casa proprio sotto signora Sias in questo cazzo di palazzo in questo cazzo di quartiere? Io ti ho chiesto di farmi nascere?

Tu mi hai chiamato e neppure sapevi che mi stavi chiamando e per dodici anni mi hai fatto stare in questa casa con te tua moglie e tutti i miei fratelli e sorelle sotto signora Sias che caga ogni giorno alle tre del mattino

uno pensa vabbé la rottura quando tira l’acqua però meglio che con le finestre in piazza e i motorini che impennano sui marciapiedi da mezzanotte alle sei e se ti affacci a protestare ti sparano in fronte con le Colt Magnum

se mi affaccio io nessuno spara ma lanciano petali di rose

a me i motorini piacciono e anzi la prima cosa da fare appena compio quattordici anni è cuccarmi un Fantic 313 e andare da mezzanotte alle sei a impennare sui marciapiedi tutto attorno alla piazza rombando tenendovi svegli che tanto per voi è come stare addormentati non vi accorgete della differenza

chi dice che signora Sias è soltanto la rottura quando tira l’acqua non ha mai vissuto a casa mia

la cagata di signora Sias è il cominciamento del giorno e ieri 3 di agosto

dell’ammazzamento di Gigi del quinto piano l’innamorato mio

Il racconto è di Caterina, giovanissima ragazza che illustra ad un anonimo ascoltatore le sue avventure con l’amica coetanea Luna nel giorno 3 agosto in cui avviene l’omicidio di Gigi. Pertanto il linguaggio con cui descrive le sue avventure cagliaritane è quello di una ragazzina dei quartieri popolari (in questo caso una immaginaria Santa Lamanera, che potrebbe nascondere o i palazzoni di Sant’Elia o il quartiere degradato di San Michele), frantumato in rapide espressioni (come spesso in Atzeni narratore) fatto di slang giovanile e di un cagliaritano volgare e plebeo. La breve narrazione proprio in quanto auto diegetica ci lascia intendere lo sguardo di chi vive il mezzo alla violenza ma proprio perché vivendola l’appiattisce in un quotidiano vissuto, dove anche i desideri “femminili” appaiono desiderati, ma visti ancora con una certa forma di paura.

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Le due protagoniste del film di Mereu tratto dal racconto di Atzeni

Non c’è azione e non c’è finale: il risveglio, gli uomini nullafacenti, donne impudiche irretite da giovani vogliosi, pedofili e padri violenti: tutto descritto come fosse normale, così come normale viene descritto il momento lirico del mare o il momento magico dell’arrivo della “coga” e dei “suoi gatti” (la strega sarda): negli occhi fanciulleschi di una ragazzina di tredici anni tutto è visto attraverso una cultura popolare rimasticata e rivista a proprio uso e consumo nei quartieri popolari dove il melting-pop linguistico e culturale diventa l’assoluto ed unico mezzo di comunicazione e sapere.

Il tutto viene raccontato ad uno che sa ascoltare (Sergio Atzeni stesso)

e tu ora mi guardi allo stesso modo lo so cosa vuoi e cosa pensi ma non io mi sei simpatico questa storia la racconto a te che hai buona memoria e dicono che sei buono a raccontare e scrivere manka sias unu barabba de Santu Mikeli ma altro da me non prendi non guardarmi più con quegli occhi hai capito? Non io cercati qualcun’altra io prima divento rockstar poi cerco marito non mi interessano i giochi porchi

forse lo stesso che con un Aiwa, l’orecchio forato, andava tra le case di Guspini a raccogliere testimonianze di Tullio Saba.

Vogliamo concludere con quanto dice di lui Marci (docente di letteratura italiana contemporanea dell’Università di Cagliari): “Lo rimpiangiamo profondamente, perché era riuscito a capire il suo mondo e cercava di descriverlo in una lingua intellegibile al pubblico ampio dei lettori”.

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA

Caratteri generali

Caratteri generali

La prima guerra mondiale costituisce una vera e propria frattura nella storia che si può così sintetizzare:

  • Fine dell’eurocentrismo economico e politico e l’affacciarsi nella storia di due superpotenze, ideologicamente contrapposte: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica;
  • L’affacciarsi delle masse come soggetti politici;
  • I totalitarismi (fascismo in Italia e nazismo in Germania).

Tutta l’Europa, all’indomani della guerra, si leccava le ferite causate da un ingente sforzo economico per farvi fronte, dai milioni di morti, mutilati e reduci, da un impossibile ritorno alla “normalità”, se per normalità s’intende la situazione prebellica che aveva caratterizzato la “belle epoque”.

A pagare le maggiori conseguenze dell’esito della guerra fu la Germania, alla quale, soprattutto per volontà francese, venne attribuita l’intera responsabilità del conflitto. Così i trattati di pace, più che avviarsi verso un equilibrato sistema di rapporti tra i paesi europei, determinarono sentimenti di rivincita. Se la situazione parve lentamente migliorare tra il ’24 e il ’28, per una buona congiuntura economica, foriera di un rasserenamento politico fra le nazioni, il crack delle banche americane del ’29, fece di nuovo precipitare la situazione, creando così le premesse, intorno agli anni Trenta, alla nascita del nazismo che condurrà l’Europa alle seconda guerra mondiale.

Altro fattore destabilizzante fu la Rivoluzione bolscevica. L’incapacità del governo zarista di offrire un sia pur minimo miglioramento alla masse contadine che vivevano ancora in un’economia semifeudale, diede forza agli esponenti più radicali che si posero alla testa di una rivoluzione che costrinse la Russia ad uscire dal conflitto con enormi conseguenze sul piano territoriale ed economico. L’esempio russo ebbe un impatto emotivo e politico che incise fortemente all’interno degli stati nazionali europei. Pur consapevoli della difficile esportazione della dittatura del proletariato, quest’ultima agì profondamente: da un lato (anche per l’indeterminatezza con cui filtravano le notizie) come modello, se non come mito, a cui masse di operai, nonché di intellettuali, guardavano con fiducia; dall’altro, per reazione, il “pericolo rosso” coagulò intorno a sé un fronte, seppur non omogeneo, che andava dal piccolo-borghese, minacciato dal basso, alle gerarchie ecclesiastiche, fino ai grandi proprietari terrieri e agli industriali.

Se gli Stati Uniti avevano promosso con la loro entrata in guerra l’idea di una Europa che si articolasse al suo interno in una prospettiva liberal-democratica, promuovendo, sin dal ’18 la nascita della Società delle Nazioni, la miopia parlamentare americana, diede luogo ad una nuova forma di isolazionismo.

Situazione in Italia

L’Italia uscì dalla prima guerra mondiale profondamente cambiata. L’assetto sociale, ormai, aveva assunto caratteri massificati che convogliavano in una compatta sindacalizzazione, in una forte affermazione del Partito Socialista (che d’altra parte visse, nel ’21 una drammatica scissione tra riformisti e massimalisti guidati rispettivamente da Turati e da Gramsci) e nella nascita del Partito Popolare da parte di Sturzo, approvato ed appoggiato dalle gerarchie ecclesiastiche.

Ma il ceto che più di ogni altro cambierà le sorti dell’Italia e che la condurrà, con cieca fiducia, alla dittatura, sarà la piccola borghesia. Quest’ultima visse, negli ultimi anni, una drammatica ambiguità, un senso di smarrimento, determinato dall’accettazione passiva del sistema capitalistico degenerato in un affarismo senza scrupoli e da un’invidia e paura profonda verso il proletariato organizzato. Per meglio dire, il piccolo borghese si sentiva schiacciato da una parte dai “pescecani” arricchitisi con loschi affari durante la guerra, dall’altra dalla massa dei lavoratori che, avanzando delle richieste di miglioramento salariale o, addirittura, prospettando, sul modello dell’URSS, la “dittatura del proletariato”, gli rubava quello che per l’“eroismo di guerra”, gli spettava di diritto. Portavoce del suo malcontento divenne Benito Mussolini, già socialista, che nel 1919 fondò a Milano i “Fasci Italiani di Combattimento”.

Il Patto di Londra aveva assegnato la costa dalmata all’Italia e la città di Fiume alla Croazia. Al termine della guerra la città istriana votava per l’annessione all’Italia, mentre la costituenda Jugoslavia reclamava per sé la costa dalmata. Sul tavolo di pace a Parigi la delegazione italiana rivendicava ambedue i territori: uno per il principio di autodeterminazione dei popoli (rati-ficato alla fine del conflitto), l’altro per il rispetto del Patto di Londra. Il presidente americano, non avendo sottoscritto l’accordo italo-inglese, invitava il popolo italiano a rinunciare alla Dalmazia. Il presidente del consiglio italiano, irritato da ciò, andò a Roma e chiese la fiducia del governo, ottenuta a grandissima maggioranza. L’allontanamento dal tavolo delle trattative risultò, tuttavia, esiziale per l’Italia: dalla spartizione degli ex possedimenti tedeschi in terra d’Africa venne totalmente esclusa. Ciò determinò una recrudescenza di sentimenti sciovinistici, animati dal mito della “vittoria mutilata” che portò a grandi dimostrazioni di piazza sotto il segno del “nazionalismo”. A tali dimostrazioni si aggiunsero e, spesso, confluirono, quelle operaie e contadine, determinate dalle difficilissime condizioni economiche in cui l’Italia si trovò all’indomani della guerra.

Queste ultime assunsero, in alcune regioni, vere e proprie forme miranti a preparare una rivoluzione ed ebbero particolare vigore nel biennio 1919-1920 (“biennio rosso”) in cui si procedette all’esproprio di terre, occupazioni di fabbriche e saccheggi di negozi e forni.

La difficile situazione italiana veniva anche alimentata dalle azioni di D’Annunzio che, con un gesto clamoroso, occupò Fiume (precedentemente eletta a città libera) nel 1919, da cui venne ricacciato l’anno successivo dal governo italiano per non incrinare i rapporti internazionali precedentemente raggiunti.

E’ evidente come tutto ciò determinasse il tramonto del liberalismo politico di tipo ottocentesco e l’affacciarsi di un conflitto sociale completamente nuovo i cui protagonisti saranno i partiti di massa socialisti e popolari e il nascente, ma non ancora forte, movimento fascista, guidato da Benito Mussolini.

Il vecchio Giolitti venne richiamato per la quinta volta per salvare le sorti del liberalismo: ma al di là dei risultati positivi da lui raggiunti sul terreno diplomatico, non riuscì a realizzare il suo disegno.

L’opera di mediazione da lui condotta nei precedenti governi fra le diverse classi sociali, questa volta fallì: il padronato industriale e la FIOM (Federazione Italiana Operai Metallurgici), infatti, non riuscirono a portare a termine un accordo per il rinnovo del contratto. Gli operai, allora, passarono decisamente all’attacco, occupando le fabbriche: lasciati soli dal Partito Socialista, non poterono che dichiarare il loro fallimento. E fu allora il padronato a mettere in atto la sua controffensiva: gli industriali e i capitalisti agrari armarono la mano allo squadrismo fascista che, con estrema violenza, cercò di liquidare le organizzazioni operaie e contadine. I socialisti, abbandonati dalle istituzioni, si mostrarono incapaci a offrire una forte risposta e consumarono la loro scissione nel Congresso di Livorno in Partito Socialista (riformisti) e Partito Comunista (massimalisti) nel 1921.

Giolitti, stanco e amareggiato, si ritirò e i governi a lui succedutisi (Bonomi e Facta) si mostrarono incapaci di affrontare la situazione.

Al tentativo di “sciopero legalitario” proposto dai partiti della sinistra per accusare i metodi illegali dei rappresentanti del partito di Mussolini, il PFN (Partito Nazionale Fascista, fondato nel 1921) rispose con un’offensiva a tutto campo, con violenza inaudita, sia nelle piazze che su un piano istituzionale.

I capi del partito, infatti, riunitisi a Napoli, marciavano verso Roma per conquistare il potere; Facta ottenne dal re la promulgazione dello stato d’assedio che Vittorio Emanuele III, il giorno seguente, non ratifica. Di fronte a tale gesto al residente del Consiglio non rimase che dimettersi. Il nostro monarca accettò le dimissioni e quindi offrì l’incarico di formare un nuovo governo a Benito Mussolini.

Una volta al potere, Mussolini dichiarò di voler reprimere l’illegalità, sotto qualsiasi forma essa si fosse presentata. La “normalizzazione” che egli tuttavia perseguiva, non toccava lo squadrismo che continuava indisturbato la sua azione violenta contro le associazioni di sinistra, ma soprattutto riguardava il sovvertimento delle istituzioni liberali e l’erezione progressiva del fascismo in un regime che, per poter essere accettato, doveva pagare lo scotto a quelle classi che fino ad allora lo avevano sostenuto. Le prime scelte politiche, infatti, riguardavano una serie di provvedimenti favorevoli ai capitalisti e la continua pressione verso i sindacati che dovevano, per amore o per forza, accettare l’abbassamento dei salari.

Certo tale politica, aumentando la produttività a scapito delle classi più deboli, riuscì a determinare un incremento industriale notevole che, nell’immediato, serviva a rafforzare il fascismo stesso.

D’altra pare Mussolini, per consolidare ulteriormente il suo potere, aveva bisogno di conquistare il consenso dei cattolici che ancora si riconoscevano nel Partito Popolare. Bastava rompere il patto di solidarietà fra la Chiesa ed il partito, cosa che Mussolini fece, alleandosi con la destra cattolica che spinse lo stesso fondatore del Partito Popolare, don Luigi Sturzo, ad abbandonare l’agone politico.

Allargatasi quindi la base su cui poggiava il suo potere, Mussolini indisse nuove elezioni, che si svolsero in un clima d’intimidazione e violenza. Otte-nuta la maggioranza nel paese, il capo del fascismo vide tuttavia vacillare il suo potere quando il deputato socialista, Matteotti, che aveva denunciato alla Camera i metodi illegali con i quali si erano svolte le consultazioni elettorali, venne ucciso dagli squadristi. L’emozione nel paese fu grande ed i partiti d’opposizione fecero quadrato abbandonando l’aula parlamentare, sperando che in questo modo il re intervenisse per revocare il potere a Mussolini.

Ciò non avvenne, anzi il fascismo passò ad una violenta controffensiva di piazza: Mussolini, spinto dagli eventi e assenti gli aventiniani, dichiarò alla Camera la cessazione di ogni garanzia liberale.

Il fascismo si trasforma quindi in un regime dittatoriale (1925).

Gli atti di tale regime furono:

  • soppressione della libertà di stampa;
  • sostituzione dei sindaci e dei consigli comunali con podestà e consulte di nomina governativa;
  • proibizione del diritto di sciopero;
  • istituzione delle “corporazioni” che, rappresentando le categorie econo-miche nella loro totalità, privavano i lavoratori dei sindacati;
  • istituzione del confino di polizia e del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato;
  • reintroduzione della pena di morte.

L’opposizione fu costretta a vivere nella clandestinità o a emigrare: il nucleo più consistente di essa, che si riconosceva nei partiti socialisti, comunisti e liberali, dirigeva la sua lotta da Parigi.

Un punto a favore del regime Mussolini lo conseguì con i Patti Lateranensi (1929), con i quali riuscì a legare a sé l’intera gerarchia cattolica.

Una serie di problemi il duce dovette affrontarli con la svalutazione della lira verificatasi intorno al 1925. Se la politica economica aveva registrato, dal ’22 al ’25, buoni risultati, permettendo un incremento delle esportazioni, il deprezzamento della lira fece sì che, tuttavia, le materie importate costassero di più. Bisognava, quindi, “salvare la lira” e per fare ciò la cosa più semplice che il duce attuò fu la riduzione dei salari (dal 12% al 15%) e la creazione di grandi trust monopolistici che, se aiutarono il grande capitale, grazie anche all’autarchia, risultò lesiva per le piccole e medie imprese.

Fondamentale risultò anche la “battaglia del grano” che, se da una parte riuscì ad evitare l’importazione di questo fondamentale alimento, ne aumen-tò considerevolmente il prezzo. Nel 1928 iniziò il progetto di bonifica delle zone paludose, non sempre portato a buon fine, in quanto lasciato in mano ai privati che, una volta ottenuti i sovvenzionamenti statali, procedettero con scarsa produttività. Diverso fu il caso dell’agro pontino che, fra l’altro, riuscì ad alleviare la disoccupazione allora imperante per la crisi sopra descritta.

L’altra arma usata dal regime per affrontare il problema della disoccupazione fu lo sviluppo delle opere pubbliche, con lavori di tipo strutturale che sarebbero in seguito serviti a sviluppare l’economia del paese, ma soprattutto a porre le premesse per il futuro riarmo dell’Italia. Infatti l’autarchia economica non poteva che spingere il governo verso una politica estera di tipo imperialistico. Essa venne infatti inaugurata con l’impresa africana, per poi proseguire con la conquista dell’Albania ed il tentativo d’occupazione della Grecia.

Risulta evidente che tale politica mal si accordava con le difficoltà economiche che lo stato fascista cercava di nascondere.

Per quanto riguarda l’aspetto culturale è evidente che, nel momento in cui il fascismo si ergeva a vero e proprio regime, non poteva mancare un attento controllo che si focalizzava su quelle forme che maggiormente potevano avere influenza sulle masse, in primo luogo la stampa, in seguito radio e cinema, nonché la formazione del consenso attraverso il GUF (Gruppi Universitari Fascisti).

Intanto nel ’25 sul Popolo d’Italia, il filosofo Giovanni Gentile elaborava un manifesto nel quale cercava di indirizzare e motivare gli intellettuali a farsi “propagatori” del verbo fascista (tra i firmatari alcuni nomi eccellenti come Luigi Pirandello e Giuseppe Ungaretti).

MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI FASCISTI

Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di significato e interesse per tutte le altre.

Le Origini

Le sue origini prossime risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e risoluti a combattere energicamente la politica demosocialista allora imperante. La quale della grande guerra, da cui il popolo italiano era uscito vittorioso ma spossato, vedeva soltanto le immediate conseguenze materiali e lasciava disperdere se non lo negava apertamente il valore morale rappresentandola agli italiani da un punto di vista grettamente individualistico e utilitaristico come somma di sacrifici, di cui ognuno per parte sua doveva essere compensato in proporzione del danno sofferto, donde una presuntuosa e minacciosa contrapposizione dei privati allo Stato, un disconoscimento della sua autorità, un abbassamento del prestigio del Re e dell’Esercito, simboli della Nazione soprastanti agli individui e alle categorie particolari dei cittadini e un disfrenarsi delle passioni e degl’istinti inferiori, fomento di disgregazione sociale, di degenerazione morale, di egoistico e incosciente spirito di rivolta a ogni legge e disciplina. L’individuo contro lo Stato; espressione tipica dell’aspetto politico della corruttela degli anni insofferenti di ogni superiore norma di vita umana che vigorosamente regga e contenga i sentimenti e i pensieri dei singoli. Il Fascismo pertanto alle sue origini fu un movimento politico e morale. La politica sentì e propugnò come palestra di abnegazione e sacrificio dell’individuo a un’idea in cui l’individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà e ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tradizione perciò e missione.

Il Fascismo e lo Stato

Di qui il carattere religioso del Fascismo. Questo carattere religioso e perciò intransigente, spiega il metodo di lotta seguito dal Fascismo nei quattro anni dal ’19 al ’22. I fascisti erano minoranza, nel Paese e in Parlamento, dove entrarono, piccolo nucleo, con le elezioni del 1921. Lo Stato costituzionale era perciò, e doveva essere, antifascista, poiché era lo Stato della maggioranza, e il fascismo aveva contro di sé appunto questo Stato che si diceva liberale; ed era liberale, ma del liberalismo agnostico e abdicatorio, che non conosce se non la libertà esteriore. Lo Stato che è liberale perché si ritiene estraneo alla coscienza del libero cittadino, quasi meccanico sistema di fronte all’attività dei singoli. Non era perciò, evidentemente, lo Stato vagheggiato dai socialisti, quantunque i rappresentanti dell’ibrido socialismo democratizzante e parlamentaristico, si fossero, anche in Italia, venuti adattando a codesta concezione individualistica della concezione politica. Ma non era neanche lo Stato, la cui idea aveva potentemente operato nel periodo eroico italiano del nostro Risorgimento, quando lo Stato era sorto dall’opera di ristrette minoranze, forti della forza di una idea alla quale gl’individui si erano in diversi modi piegati e si era fondato col grande programma di fare gli italiani, dopo aver dato loro l’indipendenza e l’unità.

Gioventù e squadrismo

Contro tale Stato il Fascismo si accampò anch’esso con la forza della sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un numero rapidamente crescente di giovani e fu il partito dei giovani (come dopo i moti del ’31 da analogo bisogno politico e morale era sorta la “Giovane Italia” di Giuseppe Mazzini). Questo partito ebbe anche il suo inno della giovinezza che venne cantato dai fascisti con gioia di cuore esultante! E cominciò a essere, come la “Giovane Italia” mazziniana, la fede di tutti gli Italiani sdegnosi del passato e bramosi del rinnovamento. Fede, come ogni fede che urti contro una realtà costituita da infrangere e fondere nel crogiolo delle nuove energie e riplasmare in conformità del nuovo ideale ardente e intransigente. Era la fede stessa maturatasi nelle trincee e nel ripensamento intenso del sacrificio consumatosi nei campi di battaglia pel solo fine che potesse giustificarlo: la vita e la grandezza della Patria. Fede energica, violenta, non disposta a nulla rispettare che opponesse alla vita, alla grandezza della Patria. Sorse così lo squadrismo. Giovani risoluti, armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente, si misero contro la legge per instaurare una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare il nuovo Stato. Lo squadrismo agì contro le forze disgregatrici antinazionali, la cui attività culminò nello sciopero generale del luglio 1922 e finalmente osò l’insurrezione del 28 ottobre 1922, quando colonne armate di fascisti, dopo avere occupato gli edifici pubblici delle province, marciarono su Roma. La Marcia su Roma, nei giorni in cui fu compiuta e prima, ebbe i suoi morti, soprattutto nella Valle Padana. Essa, come in tutti i fatti audaci di alto contenuto morale, si compì dapprima fra la meraviglia e poi l’ammirazione e infine il plauso universale. Onde parve che a un tratto il popolo italiano avesse ritrovato la sua unanimità entusiastica della vigilia della guerra, ma più vibrante per la coscienza della vittoria già riportata e della nuova onda di fede ristoratrice venuta a rianimare la Nazione vittoriosa sulla nuova via faticosa della urgente restaurazione delle sue forze finanziarie e morali.

Il governo fascista

Lo squadrismo e l’illegalismo cessavano e si delineavano gli elementi del regime voluto dal Fascismo. Tra il 29 e il 30 ottobre ripartirono da Roma nel massimo ordine le cinquantamila camicie nere che dalle provincie avevano marciato sulla Capitale, partirono, dopo aver sfilato innanzi a S. M. il Re, partirono ad un cenno del loro Duce, divenuto Capo del Governo e anima della nuova Italia auspicata dal Fascismo.

(…)

Ma gli stranieri, che sono venuti in Italia, sorpassando quella cerchia di fuoco creata intorno all’Italia fascista dai tiri di interdizione con cui una feroce propaganda cartacea e verbale, interna ed esterna, di italiani e non italiani, ha cercato di isolare l’Italia fascista, calunniandola come un paese caduto in mano all’arbitrio più violento e più cinico, negatore di ogni civile libertà legale e garanzia di giustizia; gli stranieri che hanno potuto vedere coi propri occhi questa Italia, e udire coi propri orecchi i nuovi italiani e vivere la loro vita materiale e morale, hanno cominciato dall’invidiare l’ordine pubblico oggi regnante in Italia, poi si sono interessati allo spirito che si sforza ogni giorno più d’impossessarsi di questa macchina così bene ordinata e han cominciato a sentire che qui batte un cuore pieno di umanità, quantunque scosso da un’esasperante passione patriottica; giacché la Patria del Fascista è pure la Patria che vive e vibra nel petto di ogni uomo civile, quella Patria cui il sentimento dappertutto si è riscosso nella tragedia della guerra e vigila, in ogni paese, e deve vigilare a guardia di interessi sacri, anche dopo la guerra; anzi per effetto della guerra, che nessuno più crede l’ultima. Codesta Patria è pure riconsacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà, nel flusso e nella perennità delle tradizioni. Ed è scuola di subordinazione di ciò che è particolare ed inferiore a ciò che è universale ed immortale, è rispetto della legge e disciplina, è libertà ma libertà da conquistare attraverso la legge, che si instaura con la rinuncia a tutto ciò che è piccolo arbitrio e velleità irragionevole e dissipatrice. È concezione austera della vita, è serietà religiosa, che non distingue la teoria dalla pratica, il dire dal fare, e non dipinge ideali magnifici per relegarli fuori di questo mondo, dove intanto si possa continuare a vivere vilmente e miseramente, ma è duro sforzo di idealizzare la vita ed esprimere i propri convincimenti nella stessa azione o con parole che siano esse stesse azioni, impegnando chi le pronuncia e impegnando con lui il mondo stesso di cui egli è parte viva e responsabile in ogni istante del tempo, in ogni segreto respiro della coscienza. (…)

Il Manifesto di Gentile assegna una missione che potremo definire “religiosa” al fascismo; egli infatti, mutuando il concetto di Stato dal pensiero hegeliano, e dando ad esso il significato di stato etico, subordina l’interesse e la libertà individuale a quella dello stato. Dirà Gentile: «Il fascismo non vede altro individuo soggetto di libertà che quello che sente pulsare nel proprio cuore l’interesse superiore della comunità e la volontà sovrana dello Stato». Interessante inoltre, ci sembra il richiamo che il filosofo vuole sottolineare tra il Risorgimento ed il fascismo, mettendo in relazione il movimento mazziniano della “Giovane Italia” con le Avanguardie fasciste in camicia nera, insistendo sulla loro poca numerosità, ma capaci di portare il “Verbo” alle masse.

La risposta a tale manifesto fu quella di Croce, importantissimo filosofo napoletano, che, usando come strumento anche l’ironia, rintuzza con efficacia alle affermazioni un po’ “verbose” come lui stesso afferma, del suo collega Giolitti. Il suo manifesto venne pubblicato lo stesso anno sulle riviste “Il Mondo” e “Il Popolo” (tra i firmatari Luigi Einaudi, Aldo Palazzeschi e Eugenio Montale) 

MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI ANTIFASCISTI

Gl’intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto agl’intellettuali di tutte le nazioni per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista. Nell’accingersi a tanta impresa quei volenterosi signori non debbono essersi rammentati di un consimile famoso manifesto, che, agli inizî della guerra europea, fu bandito al mondo dagli intellettuali tedeschi: un manifesto che raccolse, allora, la riprovazione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore. E, veramente, gl’intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell’arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l’ascriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l’opera dell’indagine e della critica, e con le creazioni dell’arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale, affinché, con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie. Varcare questi limiti dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza, è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi neppure un errore generoso. E non è nemmeno, quello degl’intellettuali fascisti, un atto che risplenda di molto delicato sentire verso la Patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni. Nella sostanza, quella scrittura, è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocinî: come dove si prende in iscambio l’atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo democratico del secolo decimonono, cioè l’antistorico e astratto e matematico democraticismo, con la concezione sommamente storica della libera gara e dell’avvicendarsi dei partiti al potere, onde, mercé l’opposizione, si attua, quasi graduandolo, il progresso; o come dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degl’individui al Tutto, quasi che sia in questione ciò, e non invece la capacità delle forme autoritarie a garantire il più efficace elevamento morale […]. Ma il maltrattamento della dottrina e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell’abuso che vi si fa della parola «religione»; perché, a senso dei signori intellettuali fascistici, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte, la quale le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; e ne recano a prova l’odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani. Chiamare contrasto di religione l’odio e il rancore che si accendono contro un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere d’italiani e li ingiuria stranieri e in quest’atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono proprî di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l’animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto perfino ai giovani dell’Università l’antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro gli altri in sembianti ostili: è cosa che suona, a dir vero, come un’assai lugubre facezia. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto;  e d’altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all’autorità e di demagogismo, di professata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamento alla Chiesa cattolica, di aborrimento della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo. E, se anche taluni plausibili provvedimenti sono stati attuati o avviati dal governo presente, non è in essi nulla che possa vantare un’originale impronta, tale da dare inizio di un nuovo sistema politico, che si denomini dal fascismo. Per questa caotica e inafferrabile «religione» non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, dell’Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l’educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l’Italia operarono, patirono e morirono; e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri italiani avversarî, e gravi e ammonitori a noi perché teniamo salda in pugno la loro bandiera. La nostra fede non è un’escogitazione artificiosa e astratta o un invasamento di cervello, cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale e morale. Ripetono gl’intellettuali fascisti, nel loro manifesto, la trista frase che il Risorgimento d’Italia fu l’opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale; e anzi par quasi che si compiacciano della odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d’Italia di fronte ai contrasti tra il fascismo e i suoi oppositori. I liberali di tal cosa non si compiacquero mai, e si studiarono a tutto potere di venire chiamando sempre maggior numero d’italiani alla vita pubblica; e in questo fu la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atti, come la largizione del suffragio universale. Perfino il favore, col quale venne accolto da molti liberali, nei primi tempi, il movimento fascista, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercè di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica, forze di  rinnovamento e (perché no) anche forze conservatrici. Ma non fu mai nei loro pensieri di mantenere nell’inerzia e nell’indifferenza il grosso della nazione, appagandone taluni bisogni materiali, perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito le ragioni del Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei governatori assolutistici e quietistici. Anche oggi, né quell’asserita indifferenza e inerzia, né gli impedimenti che si frappongono alla libertà, c’inducono a disperare o a rassegnarci. Quel che importa, è che si sappia ciò che si vuole e che si voglia cosa d’intrinseca bontà. La presente lotta politica in Italia varrà, per ragione di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amara con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l’Italia doveva percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile.

Se in un primo momento Benedetto Croce aveva ritenuto il fascismo un argine contro la minaccia comunista, si riteneva certo che poi lo stesso sarebbe rientrato nell’alveo del liberalismo e quindi, in parte, neutralizzato. Capito il fallimento di tale prospettiva, si era ritirato e dedicato agli studi. D’altra parte si racconta che il cavaliere Mussolini, chiese ai suoi: “Quante copie tira ‘La Critica’?. “Millecinquecento”  gli risposero. “Allora lasciatelo perdere!”. Noi sappiamo e ci piace immaginare che la sua statura internazionale sconsigliasse a Mussolini stesso di perseguitarlo.

Per quanto riguarda il Manifesto degli intellettuali antifascisti, da lui redatto, egli affermava il diritto della cultura a indagare e criticare le opere di creazione artistica, affinché tutti potessero elevarsi alla più alta sfera spirituale. Allo stesso modo comparare l’ideologia fascista a una religione e legittimare lo squadrismo, cioè l’arbitrio e la violenza politica, riteneva fossero di per sé intollerabili perché privavano la dialettica politica, la sola in grado di comporre una migliore società civile; d’altra parte piegare anche la creazione artistica è come privare l’artista della necessaria libertà: per Croce arte e politica sono necessariamente separate, perché laddove venisse meno la libertà di pensiero ne consegue l’impossibilità di fare arte. In lui si sente il concetto di “arte pura” di cui la rivista “La Ronda” si fece portatrice.

Per quanto riguarda la letteratura, il fascismo trova un po’ di difficoltà a trovare un indirizzo che meglio lo possa rappresentare, e se mai uno ce n’è si tratta certamente di paraletteratura:

Liala, scrittrice di enorme successo commerciale (fino agli anni Settanta), che descrive, nei primi romanzi storie d’amore appassionate con bei ufficiali, rappresentanti l’uomo volitivo e forte, dell’aeronautica e della marina e Pitigrilli, autore del famoso romanzo Cocaina, con cui rendeva popolare la tipologia dei protagonisti dei romanzi dannunziani.

Se invece si parla di letteratura alta, il fascismo dovette convivere con esperienze diverse e in qualche modo opposte, ma tutte “internazionalmente” importanti, perlopiù con autori che avevano aderito al manifesto gentiliano: da il ricercato D’Annunzio, al futurista Marinetti, sino al premio Nobel Pirandello.

Esperienze importanti tuttavia furono:

Strapaese

L’idea di definire Strapaese un progetto culturale fu di Mino Maccari e lo concretizzò intorno alla rivista Il Selvaggio. Scopo era quello di raccontare un’Italia provinciale, con tipi umani spontanei e genuini, un po’ maneschi e plebei, bestemmiatori toscani: in una parola i protagonisti di coloro che “menavano le mani” contro i comunisti o i giornalisti antifascisti. Portavoce letterario di tale rivista fu Curzio Malaparte, che vi pubblicò vari testi in versi (canzoni), che vennero in seguito pubblicati nel libro l’Arcitaliano del 1928.

CANTATA DELL’ARCIMUSSOLINI

O italiani ammazzacattivi
il bel tempo torna già:
tutti i giorni son festivi
se vendetta si farà.
Son finiti i tempi cattivi
Chi ha tradito pagherà.
Pace ai morti e botte ai vivi:
cosa fatta capo ha.
Spunta il sole e canta il gallo
Mussolini monta a cavallo.

Dacci pane pei nostri denti
fantasie e cazzottature
ogni sorta d’ardimenti
di mattane e d’avventure.
Sono acerbi gli argomenti
ma le sorbe son mature:
siam tutti pronti e attenti
pugni sodi e teste dure.
Spunta il sole e canta il gallo
o Mussolini monta a cavallo.

(…)

O Mussolini facciadura
quando smetti di far buriana?
Aspetti vento d’avventura
Greco libeccio o tramontana?
La stagione è già matura
il brutto tempo s’allontana:
per montagna e per paura
combatteremo all’italiana.
Spunta il sole e canta il gallo
o Mussolini monta a cavallo.

Combatteremo alla vecchia maniera
guai a voi se prendiamo l’aire:
vi bucheremo la panciera
a lama fredda vogliam ferire.
La morte è buona cavaliera
piglia in sella chi vuol fuggire:
o traditori addio bandiera
Mussolini è duro a morire.
Spunta il sole e canta il gallo
o Mussolini monta a cavallo.

E’ chiaramente una canzone il cui senso apparente è quello di elogiare Mussolini (e d’altra parte lo fa). Tuttavia l’operazione di Malaparte è più sottile: la semplicità dei versi dal ritmo cantilenante non nascondono la mescolanza di parole auliche con quelle vernacolari (tipiche del dialetto senese), l’influenza letteraria di Berni, e, come un tappetto sottostante, la profonda ironia del testo. Ma fare un testo ironico sul duce poteva dar vita ad interpretazioni non proprio univoche.

D’altra parte al di là delle poesie di Malaparte e delle vignette satiriche di Maccari, ne Il Selvaggio poco di rimane di racconti in cui venga esaltato il vigore dell’italiano contadino; ci sembra infatti un’operazione totalmente intellettuale, che non abbia saputo realizzare il progetto cui ambiva.

Stracittà

A polemizzare con il progetto culturale di Maccari fu Massimo Bontempelli la cui aspirazione fu uscire dall’autarchismo letterario de Il Selvaggio e dare vita ad un vero e proprio inserimento della letteratura italiana nel contesto europeo. A tale scopo fondò la rivista 900 e, in opposizione allo Strapaese, definì il suo progetto Stracittà.

A fondamento della sua ricerca letteraria di questo periodo, che s’invera nei romanzi La scacchiera di fronte allo specchio (1922), Il figlio di due madri (1929), Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1930) Gente nel tempo (1937) è la ricerca di un’arte “che rifiuta così la realtà per la realtà, come la fantasia per la fantasia e vive nel senso magico scoperto nella vita quotidiana  degli uomini e delle cose”. Tale arte dovrà avere “precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la nostra vita si proietta” Questi sono i canoni  con cui Bontempelli definisce il suo “realismo magico”.

Ad esempio della sua prosa prendiamo un brano da “La scacchiera di fronte lo specchio

LA VITA RIFLESSA NEGLI SCACCHI

Capitolo secondo
Spiegazione del titolo

Avvenne dunque un giorno, prima della guerra europea – e precisamente quando avevo otto anni – avvenne che per punizione fu chiuso, solo, virgola in una stanza.
E’ inutile raccontare perché mi avessero chiuso in quella stanza, tanto più che non lo ricordo. Sono incidenti che possono accadere a tutti quelli che hanno otto anni. Qualche volta accadono anche in età molto maggiore, e allora il fatto è più grave. Quella volta il fatto non era grave, tant’è vero che non ricordo perché mi avessero condannato a quella reclusione; la quale, diciamolo súbito, non durò che un’ora o due. Chiudendo me in quella stanza mi dissero:
«E non uscirai di qui finché non veniamo ad aprirti.» (Io pensai: «E’ naturale: se non vengono ad aprirmi come faccio a uscire da qui?»
Mi dissero ancora: «Sta attento a quello specchio, che non è da rompere. Nella stanza c’era un grande specchio, appeso a una parete appoggiato con la cornice inferiore sopra il piano di un caminetto. (Anche questa seconda raccomandazione mi parve superflua, perché tutti, anche a otto anni, sanno che gli specchi non sono fatti per romperli.)
Ci fu una terza e ultima ingiunzione, e fu la seguente. «E non toccare quella scacchiera.» Infatti sul piano dei già ricordato caminetto c’era una scacchiera con su tutti i suoi pezzi, bianchi e neri, disposti nelle relative caselle: trentadue pezzi, perché, chi non lo sapesse, i pezzi degli scacchi sono trentadue, come i denti dell’uomo.
Essendo posata sul piano del caminetto, la detta scacchiera veniva a trovarsi davanti allo specchio. Ed ecco spiegata già fin dal secondo capitolo, la ragione del titolo di questo racconto.

(…)

Capitolo quarto
Prima stramberia

Eccoci dunque in tre, come ho detto:
io,
lo specchio, la scacchiera.
Io guardavo lo specchio, lo specchio rifletteva la scacchiera.
Ho già detto che lo specchio era vecchio leggermente verdognolo. Io osservai súbito che i pezzi della scacchiera riflessi nello specchio erano, tanto i bianchi quanto i neri, più pallidi di quelli veri, e con i contorni meno nitidi, quasi sfumati: anzi, fissandoli un po’ a lungo, là dentro, mi pareva che avessero una leggera vibrazione come le erbe e i sassi che si vedono dentro l’acqua di un laghetto.
Non ho ancora avvertito una cosa importante: cioè che lo specchio, appoggiato sul marmo del caminetto, era leggermente inclinato in avanti, perciò la scacchiera e i trentadue pezzi che vi si vedevano stavano sullo stesso piano dei trentadue pezzi veri, ma sembrava che si arrampicassero sopra un leggero declivio.
Di là, i pezzi specchiati guardavano i pezzi veri; ognuno il suo compagno: il Re Bianco guardava al Re Bianco, la Regina Nera alla Regina Nera, e così via; e quelli di là, stando così in alto un po’ di sbieco, pareva che guardassero questi di qua con sprezzatura. Questi di qua si lasciavano guardare impassibili, e pareva che con questa indifferenza si vantassero forse da essere più coloriti, più nitidi, e ben posati sopra un piano perfettamente orizzontale.
Mi alzai una volta ancora in punta di piedi, per vedere se riuscivo a scorgere almeno un poco della mia persona nello specchio. Ma era inutile. Ho detto che non ricordavo se vi fosse nella stanza una sedia: penso ora che certamente non v’era, altrimenti sarei salito in piedi su quella.
Ma così stirandomi in su, feci la seguente riflessione:
«In quello specchio c’è tutto quello che c’è in questa stanza, la parete azzurra, la scacchiera, i pezzi: dunque se non mi vedo, ci devo essere anch’io.»
Allora accadde una cosa buffissima.
Accadde che il Re Bianco – non quello vero, che era di qua; quello riflesso e un po’ più pallido, che era di là – il Re Bianco cessò di fissare, traverso la superficie dello specchio, il suo compagno, e guardò invece verso di me, si scosse un poco e parlò.
Parlò proprio a me, e come se avesse letto nel mio pensiero, mi disse:
«Certo che ci sei. Sei qui sotto. Vieni anche tu di qua, e ti vedrai.»
Tutte le volte che ho ripensato a quel momento, e anche ora, il fatto mi è parso, e mi pare strambissimo e quasi incredibile.
Invece allora non ci troverei nulla di strano. Risposi tranquillamente:
«Verrei volentieri, ma prima di tutto non so come fare; in secondo luogo Ella deve sapere che mi hanno ordinato di non muovermi di qui fin che non vengono ad aprirmi.» Il Re Bianco di là dello specchio mi fece un obiezione:
«Quando dico che sei qui, intendo che qui c’è un altro come te: la tua immagine, via; siete due, come io e quel Re Bianco che sta costì dalla tua parte. Dunque se tu vieni di qua può anche darsi che la tua immagine passi di là, e così ci sarà sempre qualcuno per qualunque evenienza.
«Allora» obiettai «non è vero che incontrerò me stesso di là.
«Hai ragione. Ma sarà sempre una gita interessante.
«Lo credo» gli risposi. «Ma rimane sempre la prima difficoltà: non so come fare a venirci. Se Ella volesse insegnarmi…»
Il Re Bianco mi ammonì severamente:
«Con la volontà si riesce a tutto.»

E’ un libro pubblicato nella collana “Biblioteca dei ragazzi” della Bemporad. Racconta un episodio minimale: un bambino di otto anni viene messo in castigo in una stanza dove vi è uno specchio che riflette una scacchiera. La realtà riflessa appare al bambino più vera della realtà e ne nasce un vero e proprio dialogo tra ciò che lo specchio rimanda (in questo caso il Re Bianco) e il protagonista. Il fatto che il racconto sia omodiegetico, fa assumere allo stile il carattere veritiero che un bambino può vedere, mescolando appunto realtà e fantasia. D’altra parte il suo mondo è così scevro da ogni elemento dei doveri dell’adultità, facendogli reclamare la sua non confinabile libertà. Il modo di scrivere, come fosse quello di un bambino, fa sì che la tonalità infantile ed il fantastico si armonizzino tra loro, dando vita, così, al suo “realismo magico”.

La Ronda

La rivista La Ronda (1919 – 1923), anche in ottemperanza del suo nome che si richiama alla  vigilanza e al controllo, affinché si riacquistasse il senso dell’ordine, si pone in netta antitesi contro le esperienze sia dannunziane che pascoliane, quanto dall’intemperanze futuriste. Per i redattori di tale rivista vi è la necessità di un ritorno alla classicità del dettato, ad una prosa “elegante” e alla purezza dello stile. Innamoratosi della prosa leopardiana (dedicarono ben tre numeri allo Zibaldone) non furono nemmeno contrari al frammentarismo. Tenendo ben distanti la politica con l’arte, essi promossero sia la poesia con Vincenzo Cardarelli che la prosa con Emilio Cecchi, ambedue fondatori della rivista.

Vincenzo Cardarelli (1887 – 1959), partecipò attivamente alla vita culturale romana, prendendo parte alla redazione e fondazione di alcune tra le riviste più importanti del primo Novecento. La sua poesia parla dello scorrere del tempo, della dolorosa memoria e adotta forme metriche libere di ascendenza leopardiana, che servono ad alleggerire la tensione emotiva.

Tra la sua produzione scegliamo un testo del ’31:   

AUTUNNO

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.

Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

E’ un testo dove a prevalere è il tema del trascorrere del tempo, percepito da un “noi” indefinito. I primi sette versi sottolineano il passaggio cadenzato dapprima dal vento d’agosto, poi le piogge di settembre, per concludersi con il sole smarrito, che ha perduto la sua forza e il suo calore estivo. Questi diventano metafora del passare degli anni nella vita di un uomo che “incedono” cioè passano lentamente, portandolo alla maturità che cancella “il miglior tempo” (citazione leopardiana).

ADOLESCENTE

Su te, vergine adolescente,
sta come un’ombra sacra.
Nulla è più misterioso
e adorabile e proprio
della tua carne spogliata.
Ma ti recludi nell’attenta veste
e abiti lontano
con la tua grazia
dove non sai chi ti raggiungerà.
Certo non io. Se ti veggo passare
a tanta regale distanza,
con la chioma sciolta
e tutta la persona astata,
la vertigine mi si porta via.
Sei l’imporosa e liscia creatura
cui preme nel suo respiro
l’oscuro gaudio della carne che appena
sopporta la sua pienezza.
Nel sangue, che ha diffusioni
di fiamma sulla tua faccia,
il cosmo fa le sue risa
come nell’occhio nero della rondine.
La tua pupilla è bruciata
dal sole che dentro vi sta.
La tua bocca è serrata.
Non sanno le mani tue bianche
il sudore umiliante dei contatti.
E penso come il tuo corpo
difficoltoso e vago
fa disperare l’amore
nel cuor dell’uomo!

Pure qualcuno ti disfiorerà,

bocca di sorgiva.
Qualcuno che non lo saprà,
un pescatore di spugne,
avrà questa perla rara.
Gli sarà grazia e fortuna
il non averti cercata
e non sapere chi sei
e non poterti godere
con la sottile coscienza
che offende il geloso Iddio.
Oh sì, l’animale sarà
abbastanza ignaro
per non morire prima di toccarti.
E tutto è così.
Tu anche non sai chi sei.
E prendere ti lascerai,
ma per vedere come il gioco è fatto,

per ridere un poco insieme.

Come fiamma si perde nella luce,
al tocco della realtà
i misteri che tu prometti
si disciolgono in nulla.
Inconsumata passerà
tanta gioia!
Tu ti darai, tu ti perderai,
per il capriccio che non indovina
mai, col primo che ti piacerà.
Ama il tempo lo scherzo
che lo seconda,
non il cauto volere che indugia.
Così la fanciullezza
fa ruzzolare il mondo
e il saggio non è che un fanciullo
che si duole di essere cresciuto.

E’ un testo che, come il precedente, parla del tempo, qui mettendolo al centro già dal titolo “Adolescenza”, il passare della giovinezza. La donna adolescente vive con leggerezza forse consapevole di quando sboccerà per diventare donna. Per ora ella non sa, non conosce, ma arriverà il momento in cui qualcuno si interesserà a lei e sarà la stessa che si perderà ed il tempo, che ama l’attimo in cui la gioia è ancora intorno a lei, e non il tempo che aspetta.

Il testo ci ricorda la canzone A Silvia, anche lì il poeta consapevole vede la giovinezza della dolce fanciulla dal di fuori, “d’in su i veroni del paterno ostello”; anche Cardarelli la guarda da lontano, ma se alla prima la Natura le ha negato di diventar donna, l’adolescente cardarelliana lo sarà, perdendo forse l’innocenza. Leopardiana è la scelta metrica endecasillabi e settenari, ma anche dannunziana con l’utilizzo di versi diversi. Il linguaggio è piano, ma sostenuto “recludi”, “veggo” “astata”, “gaudio” ed altre ancora, che tuttavia non inficia la scorrevolezza del testo che riesce ad essere armonicamente disposto.

Emilio Cecchi (1884 – 1966), fu un intellettuale e un finissimo critico letterario che interpretò con capacità più di mezzo secolo di letteratura italiana. S’interessò anche della letteratura inglese (Scrittori inglesi e americani, del 1935). Per lui l’arte è quello strumento che permette di restituire, elementi anche minimi di realtà, le ragioni affettive e morali dell’autore: l’ansia di una ricerca che tenta di aderire alle pieghe nascoste della vita e della psicologia dello scrittore studiato, attraverso una controllatissima immedesimazione. Tali qualità si apprezzano anche nel prosatore, che vuole programmaticamente delimitare la sua opera nell’ambito delle impressioni di viaggio, della nota, del bozzetto e dell’immagine. Come si può vedere in questo breve frammento:

IL CANGURO ZOPPICANTE

Il canguro zoppicava come un artritico. S’arrestò; e dondolandosi sulla vita, si dette la mossa e si trovò ritto sulle zampe posteriori. Aveva puntato in terra il poderoso bastone della coda e pareva un cavalletto a tre gambe.
Per un poco si tenne in tasca i suoi moncherini, fissandomi, con la bocca leprina accomodata all’atto di fischiettare. Ma poi cominciò ad accompagnarsi e sfoderati gli unghioni neri della orribile mano tra d’uomo e d’avvoltoio, si grattava la pancia, come se invece d’una pancia fosse una chitarra. In realtà era una pancia, sordida e intimpanita; e io non avrei saputo dire che cosa m’imbarazzasse più, se l’ostinazione di quei grossi occhi vitrei d’uccello col loro sguardo antidiluviano, o l’oscenità della ventraia che pareva insaccata di stoppa e spelata sulle ricuciture, come la pelle di una mummia tignosa.
Lo vedevo contro il sole, contro il sole più civico, più domestico: apparizione ributtante nella cui forma era un segno diabolicamente sovvertito della mia forma, confuso agli avanzi e alle rovine d’epoche condannate. E non capivo la necessità di rievocare, nel cerchio delle case e degli orti, cotesti spettacoli tenebrosi e irrimediabili, e non potevo capacitarmi per quale avvelenata curiosità e libidine di distruzione mi fossi fermato e fossi entrato.
Allora tra i ferri da un’altra gabbia scivolo qualcosa di flessuoso e formidabile, come un floscio serpe azzurrastro. Si mise a tastare nell’erba e nel fango avendo trovato quel che cercava si risollevò in spirali verso una lurida fessura triangolare che sormontava un gozzo appuntito, con pochi peli di barba.
Era un mostro calvo, a forma di montagna, che schizzava rosso dall’occhio suino e sventolava le orecchie smerlate come larghe foglie acquatiche, scrollandosi sulle colonne delle zampe avvinte di catene e schiacciate sotto il peso della mole rugosa che si sarebbe potuta credere coperta di minutissimi segni egiziani. Mi dissero che si dondolava così da almeno duecent’anni. Era nato al secolo che gli uomini andavano in parrucca e la moda prescriveva alle nostre avole i pennuti turbanti all’uso di Persia. Gli erano rotolati sul dorso i terremoti e gli sfaceli, le rivoluzioni, gl’interregni e i galoppi delle cavallerie di Napoleone. E aspettava tuttavia, dicendo di no dalla punta della proboscide al codino arroncigliato.
Io ho conosciuto gli elefanti storici. Quelli di Ramsete e quelli di Psammetico, quelli di Kipling, di Pirro, e il pulcino di piazza della Minerva. Ma cotesta massa senza tempo pareva lì a negare il Tempo, col suo scrollo inutile e colossale; e addirittura a stritolare e sperdere anche il piccolo, lo straziante, piccolo tempo che m’è toccato, che rodono e consumano dentro di me tanti altri avversari. La cupola della sua groppa montava violenta come una nuvola nera. Una nuvola di pietra che volesse otturare il cielo.

In questa breve rassegna di autori rondisti non può mancare Riccardo Bacchelli (1891 – 1985), autore poliedrico toccò varie tipologie sia artistiche che critiche. Per le prime dà vita ad una serie di romanzi che vanno dal registro ironico a quello psicologico (Una passione coniugale) o a quello storico (Il diavolo al Pontelungo), ma la sua penna si esercitò anche nella critica letteraria, con saggi su Fogazzaro,  Leopardi e Manzoni. Si occupò anche di critica musicale. Il suo capolavoro è un poderoso romanzo storico, in tre volumi, Il mulino del Po.

IL SALVATAGGIO DI CECILIA

Era dunque la piena lunga del ’39, e a bordo del San Michele appiardato provvisoriamente a ridosso della punta, i quattro uomini si alternavano alla guardia della corrente. Tre sfaccendavano sotto la loggia e attorno ai palmenti, o dormicchiavano pigri e svogliati, perché il vento, continuo già da due mesi da ostro e da scirocco, or più greve e fastidioso or più spiegato e rabbioso, sempre afoso, gravava il cervello e ammolliva le gambe, e, rendeva stanchi e sudaticci per la minima fatica. Quello che stava alla guardia sull’andialetto, addossato alla parete, con un arpione di lungo manico a portata di mano, ravvolto nel ferraiuolo, prendeva la pioggia e guardava annoiato ciò che veniva giù per il fiume, ma specialmente se la secca il pennello della Guarda teneva duro contro il rodio del fiume paziente furioso. Codesta secca e quel pannello di gabbioni, infatti formavano la punta di cui era protetto il mulino.
Dalla lanca, dove l’acqua a momenti ridondava e girava a ritroso in tondo su se stessa, di modo che l’ulà si fermava, quasi stanca; dal mulino, si scorgeva la corrente, l’immane flusso della piena, fremere ribollire infuriando sulla punta, scrosciare e rimbalzare, fuggire con una fila di gorghi e di risucchi avidi e astiosi, che segnavano il margine fra le acque vive grosse del filone, e le semimorte della lanca.
Affioravano e affondavano, veloci, i più diversi oggetti; e qualcuno veniva spinto dalla corrente dell’acqua pigra, aggirato a lungo, respinto e ripreso. Potevan diventare pericolosi, se un mutamento del letto venisse a buttare contro il mulino tutta o parte della corrente; erano tronchi d’albero, barche perdute, e masserizie e carri colonici anche, o caduti dagli argini su cui la gente spaurita s’accalcava con le sue robe, o rapinati dal fiume nelle golene o nei campi invasi; eran carogne di animali domestici e di stalla, sordide e sconce, ben tristi, coinvolte e travolte.
A Lazzaro, quella furia paziente degli elementi ricordava, guardando il fiume, una cosa lontana nella memoria, e che non sapeva ritrovare. La ritrovò, quando le giornate marcie di quel novembre sciroccale si fecero così brevi e buie sotto la cupa nuvolaglia, che il giorno pareva sorgesse soltanto per annotare. Tali giornate gli rammentarono le Russie. Il torbido scirocco, che gonfiava e ostacolava il fluire della disperata vena del fiume, che assiepava le acque adriatiche contro le foci del Po, lavorando così alla perdita del paese, era nemico degli uomini, come i geli spietati di quell’atroce inverno della ritirata da Mosca. Il Po insidioso riportava lui al Vop micidiale, e a quel giorno disastroso della sua giovinezza avventurosa.
Ed ecco un grosso natante, ben più grosso dei soliti, veniva giù giù col fiume. Era un mulino. Scansò, come volle fortuna, la punta, contro la quale ci sarebbe sfasciato, e tra il ribollio della ribattuta e l’onda della corrente libera, per un istante rullò col sandoncello e beccheggiò col sandon grande, fra due acque, simile a un cavallo riottoso e bramoso, tenuto a freno, che si tramuta fremendo d’una zampa sull’altra, e su tutte scalpita e balza. Così lo videro, trabalzato e conteso dalle due acque sulla punta che dirompeva il fiume; e subito che fu ripreso dalla corrente e rientrò nel filo, strapoggiò, si mise in traverso, diede di banda, sicché sembrò dovesse ribaltarsi, camminando per fianco travagliosamente. Poco andò, che ridrizzato dal fiume, mise le prore sulla via d’andare a investire la proda opposta alla svolta, il che sarebbe avvenuto senza scampo, se l’abbrivo impressogli dalla corrente non l’avesse sviato d’improvviso nelle acque torbide della lanca.
Schiavetto era saltato sul sandalo con un’ ancorotto, e raggiungeva il relitto, e l’ancorava. Poi tutti e quattro, a forza di remi, colla barca lo rimorchiarono al sicuro. Ma sbandava dalla parte del sandon grande, mezzo pieno d’acqua e aggravato dalle macine; del resto, pur essendo di antica costruzione, appariva robusto e ben conservato. Perché non andasse a fondo, era urgente arenarlo; la qual cosa fu fatta. Vi salirono poi Giuseppe e Schiavetto. Scacerni, con Malvasone, aspettava sul sandalo. Sentì un’esclamazione di meraviglia, e vide comparire Schiavetto con una giovinetta fra le braccia, fuori dai sensi.
Ecco quattro uomini impacciati. Era tutta bagnata indosso, e doveva essere sfinita dal freddo e dallo stento. Il viso emaciato ed esangue faceva gran pietà.
«Che sia morta?» disse Schiavetto nel calarla fra le braccia di Scacerni.
«Chi può mai dirlo?» fece Malvasoni «Le donne sono come i gatti.»
«Qui,» disse Scacerni «ci vuole aiuto di donne: la porto da Venusta Chiccoli. Schiavetto, sellami il cavallo.»
Sbarcarono, e Schiavetto corse a sellare il cavallo del padrone legato a un alberello sulla riva. Poco dopo, Scacerni trottava, colla svenuta in braccio, verso la Guarda.
Messa a letto fra panni di lana e bottiglie d’acqua calde, Venusta la soccorse, la ravvivò, la rianimò con l’aceto dei sette ladri. Si riscosse finalmente la poverina con un profondo sospiro, e tornò a svenire due volte, ma, riaprendo gli occhi per la seconda, già cercava e distingueva a quelli affettuosi e seri della Venusta, che le porgeva un cordiale. Sorrise un poco, e colla poca voce che poté avere trasognata:
«Dove sono?» domandò.
«Fra amici, non vi affannate,» le diceva Venusta.
Era visibile in quegli occhi uno stupore così grande e strano, che Venusta ebbe un’inquietudine e disse a  Scacerni:
«Vive, ma che sia diventata matta, poverina? Ohi, ohi, che cosa succede adesso?»
Lo stupore della ragazza s’era cangiato in spavento, ed ella voleva levarsi, chiamava disperatamente, benché fievole e fiocca, il babbo. Poi sbarrò gli occhi, e rimase come tramortita.
Colla vita e la coscienza, tornava dolore che lei non aveva ancor la forza di dire né di concepire intiero, ma le si vedeva negli occhi pauroso.
«Ve l’andiamo a cercare,» le diceva Venusta «ve lo mandiamo a chiamare il babbo: diteci di dove venite, dov’era la piarda del vostro mulino. Poverina, le sta venendo un febbrone, e non vorrei che il cervello non reggesse,» soggiunse rivolta a Scacerni, che assisteva impietosito. «Non mi piacciono questi occhi invetrati: sarebbe meglio che piangesse si disperasse. Diteci dunque, poverina: chi era, come si chiamava vostro padre?»
Quasi che ridestandola al dolore la richiamasse alla ragione, ruppe in un pianto disperato.
«Meglio questo,» diceva la Venusta lasciandola sfogare, «è molto meglio così. Poverina, poverina … Dunque» soggiunse quando i singhiozzi cominciarono a placare un poco, «che cosa possiamo fare?» Fece di no con la testa e disse sconsolata:
«Nulla. Vi ringrazio. L’ho visto morire.»
«Dove? Quando?»
«Nel fiume.»
Più tardi raccontò. Si chiamava Cecilia, unica nata di un Rei, mugnaio, che viveva solo, con lei sola, vedovo della madre morta nel partorirla, sul vecchio mulino appiardato in un tratto solitario di un fiume, contro una proda di golena larga, imperdia e selvosa. Codesto misantropo Rei scendeva a terra soltanto per necessità e rarissime volte, e la figlia non l’aveva lasciata sbarcare nemmeno una volta, fosse gelosia dell’indole, o stravaganza del cervello, o altra ragione che nessuno avrebbe mai più saputo. Certo le aveva voluto un gran bene dell’anima, e giudicando col senso comune, un bene pazzo. Da bambina e da ragazzina, Cecilia era cresciuta senza conoscere altro di umano fuor che codesta passione paterna, che s’adombrava di qualunque parola le fosse rivolta dai contadini che venivano a far macinare, o dalla gente che passando in barca la scorgeva di lontano e la salutava. E tanto bastava per rannuvolare il Rei, che le raccomandava di non rispondere, di non guardare, di non farsi vedere, di rientrar subito nella casa del sandoncello. La passione aveva infatti dato anche più nello strano col crescere della figliuola, e col crescer bella d’adusta e vigorosa bellezza bruna; tanto più quanto lei mostrò di saperlo, perché non conoscesse l’uso degli specchi. A che serviva, le diceva il padre, esser bella? Brutta, le avrebbe voluto anche più bene, e sarebbero stati più tranquilli. “Perché, chiedeva lei perché di sì, rispondeva lui.

Il brano ci offre la possibilità di analizzare l’opera di Bacchelli da due punti di vista:

  1. Tematico: la scelta del romanzo storico il cui vero protagonista dell’intero romanzo è il Po. Grazie ad esso si svolge la vita di ben tre generazioni e qui, in questo breve estratto, ne abbiamo chiarissima dimostrazione: s’inizia con il salvataggio di un mulino, grazie ad esso si trova semiassiderato il corpo di una giovane donna, la quale, perso il padre, travolto dal fiume, troverà nuova vita accolta dai due vecchi;
  2. Stilistico: Bacchelli mescola sapientemente terminologia tecnica con parole auliche, prese dalla forma classica. Anche il periodare è ampio, denotando il gusto per un argomentazione ariosa. Non mancano inoltre varie figure retoriche come la dittologia, l’allitterazione e metafore.

Solaria

Esaurita l’esperienza rondesca, le sue istanze furono proseguite da Solaria (1926 – 1936): se La Ronda aveva puntato il suo interesse sulla ripresa classica della tradizione (basti l’esempio di Bacchelli), questa rivista intendeva allargare lo sguardo verso le grandi forme letterarie europee nate tra l’Ottocento e il Novecento. Essi infatti guardarono con interesse alla narrativa russa di Dostoevskij, alla francese di Proust, alla tedesca di Mann e, d’estremo interesse per il nostro discorso (si ricordi che siamo all’interno del fascismo) quella ebraica di Kafka. Se la rivista poté – pur guardata con sospetto dalle gerarchie del regime – passare indenne dieci anni, fu il suo chiudersi all’interno della letteratura, censurando ogni forma d’interesse verso l’esterno.

Come esempio osserveremo l’opera di Giovanni Comisso (1895 – 1969). Affascinato dalle esperienze più diverse (fu commerciante, mercante d’arte, libraio, avvocato) e soprattutto dalla libera vita di mare, espresse le sue qualità poetiche in racconti, libri di ricordi e nelle corrispondenze giornalistiche. La sua produzione narrativa va da Il porto dell’amore ristampato nel 1928 col titolo Al vento dell’Adriatico, Gente di mare del ’28 e vari racconti. Scrisse anche saggi, tra cui il più famoso è Il mio sodalizio con De Pisis. Fu scrittore d’istinto che consegnò alla pagina l’esperienza di una vita trascorsa come meravigliosa, felice avventura.

Il maggiore esempio della sua capacità di rappresentare reale con acuta sensibilità visiva è Giorni di guerra pubblicato nel 1930, dove egli trascrive con efficacia le impressioni più elementari dell’esistenza che scorre nelle ore di sole di vento, nella fatica e nel riposo.

LA RITIRATA DOPO CAPORETTO

Il paesetto dove avevamo pernottato si chiamava Fagagna. L’alba era umida, la strada fangosa, ma non pioveva. Il nostro passo si risvegliò sulla strada con un’ energia che non ci doveva mancare. Si andava verso Bonzicco per passare il Tagliamento. La strada era deserta, da prima dava piacere perché si poteva camminare spediti, poi finì per impressionare. Nessun soldato, nessun carro per la strada diritta fiancheggiata da acacie, tutta arata dalle ruote dei carriaggi. Nella notte mentre noi si dormiva, tutti se ne erano andati. Si pensava di avere troppo ritardato, così da essere proprio gli ultimi di tutto l’esercito in ritirata. Non avevamo armi, eravamo in pochi e all’apparire dietro di noi dalle prime pattuglie nemiche non potevamo che arrenderci. Ognuno doveva essere dominato da questo stesso pensiero, ma nessuno osava comunicarlo, il passo dei miei soldati sul fango lamentoso si era fatto agitato, per dare la calma scesi dal mulo e merciai con loro. Indispettito contro quel fango più non sentivo l’acqua entrarmi per le suole consumate. Se volgevo lo sguardo verso i miei soldati, era anche per guardare in fondo alla strada deserta se apparisse qualcuno e al mio insistere, anche qualche altro si voltava a guardare. La luce bieca e la terra disfatta dall’autunno non potevano essere più favorevoli a un episodio di arresa o di sterminio, ma al prossimo paese le donne che portavano il latte dalle stalle a una fabbrica di burro, ci tolsero ogni ansia.
Si seppe che il ponte di Bonzicco era crollato nella notte trascinato dalla piena: per questo nessuno percorreva quella strada. Ci rimaneva allora solo da puntare verso Codroipo per passare il Tagliamento sul Ponte della Delizia. Presa una piccola strada, si camminò a lungo nel livido della giornata senza sole, lasciandoci abbandonare a un passo dolce. La distanza non era grande, ma assecondati dalla buona strada si percorse di certo una deviazione immensa, perché solo verso sera si arrivò in vista del Tagliamento e ancora distanti una decina di chilometri dal ponte.
Trovammo da poterci riposare in una casa assieme a un gruppo di allievi ufficiali, giovanissimi e distinti. Se ne andavano beati all’avventura. I contadini ci fecero la polenta, avevo il burro comperato al paese attraversato nella mattina e i miei soldati si arrangiarono con i polli rubati. Dormimmo nella stalla e alla mattina, dal mio giaciglio, scorsi gli allievi ufficiali reclinate le teste leggiere nel respiro dell’ultimo sonno. L’alba illuminava, tra la camicia aperta, il loro petto bianchissimo. Le voci allarmate dei miei soldati, dal cortile, li destarono. Si diceva che gli austriaci fossero arrivati con gli auto cannoni a Bonzicco. Verso le montagne il cannone sparava lento, pesante e tetro. Il Ponte della Delizia non distava molto e ci mettemmo in cammino sicuri che al di là del Tagliamento si sarebbe finalmente terminato il marciare.
Un rumore continuo di motori, di carri, di voci  e di passi si sentiva avvicinandoci al ponte. La strada era ingombra. Un cannone, sfasciata una ruota, ostruiva il passaggio. Molti, stanchi di attendere, abbandonavano gli autocarri e proseguivano a piedi: signore con poca roba assieme ai soldati, una fila di soldati ammanettati, con paia di scarpe nuove da borghese appesa al collo, qualche ufficiale superiore solo con una valigetta, prigionieri austriaci che se ne andavano liberi. Tutti venivano svelti per passare il ponte. Si temeva di non riuscire e il terreno sul ponte era così consumato che già apparivano le travi. Il ponte vibrava il passaggio. Sotto l’acqua tumultuava nella piena. Un aeroplano cadde tra sfracellandosi su di un ghiaione. Una carretta davanti a noi con una ruota sterzata e immobilizzata proseguiva ancora scavando il fango. Il ponte vacillava. Non si credeva resistesse. Un cavallo, stramazzato a terra, più non si rialzava e venne buttato nel torrente. La ruota sterzata resisteva. Ancora pochi metri e si sarebbe arrivati all’altra riva dove si riteneva di trovarci del tutto al sicuro. Il terreno più non vibrava sotto i nostri piedi. Il ponte era finito.
Come un’altra aria era di là. Qualcuno fermo ci guardava arrivare e sorrideva. I campi vicini erano invasi da soldati che accendevano fuochi. Uno si era messo a radere barbe all’aperto. Altri tiravano su da un fosso un cavallo morto e già preparavano le baionette per dividerselo. Ritrovammo il nostro carrozzino e subito ci rifornimmo. Gli altri soldati, vedendo la nostra abbondanza, venivano a domandarmi di aggregarsi alla mia compagnia.
Si cercò una casa dove passare la notte e, poco lontano dal fiume, trovammo in fondo a una stradetta una grande casa di contadini. Il cortile era pieno di soldati, altri apparivano nella cucina, alle finestre, nella stalla, al di là della siepe nei campi. Alcune donne molto calme pensavano a procurarci qualunque cosa si chiedesse. Per nulla si preoccupavano alle innumerevoli richieste. Parevano abituate a servire molta gente. Volevamo una grande pentola per cucinarvi galline, conigli, carne delle scatolette e anche un piccolo maiale. Alcuni già si erano disposti a spennacchiare, a spelare, a scuoiare e a tagliare a pezzi. Altri presero un grande carro piatto per usare come tavola e vi portarono le stoviglie e il vino. Il fuoco fu acceso sotto la pentola. Molti venivano a guardare più che curiosi e allora parve necessario farci tutti vicini alla pentola pronti a difenderla. Specialmente alcuni soldati napoletani insistevano ad annusare l’odore dell’intingolo, ma dai napoletani del mio plotone e specialmente da un sergente che aveva una voce dolcemente modulata vennero consigliati di girare al largo. Al cominciare della sera si attaccò a cenare, qualcuno disse che non si vedeva, allora si chiese alle donne un paio di candele si ebbe anche queste.
Dai campi vicini veniva il grande brusio degli accampati, sovente si accendevano risse e scoppiavano bombe lanciate per spaventare i contadini e potere rubare galline, se ancora ve ne erano.
Dopo cena andammo a dormire in un grande fienile vicino alla casa quasi con il pensiero che non ci si sarebbe mossi per un bel pezzo. Altri soldati dormivano affondati nel fieno e bisognava stare attenti a non pestarli, qualcuno accendeva un cerino e subito si gridava di non dare fuoco. Altri continuavano ad arrivare, molti a coppia, di armi diverse, neanche compaesani, compagni di viaggio di ventura incontratisi sulla stessa strada, decisi di arrangiarsi assieme, presi da inattesa simpatia. Il sergente napoletano era venuto a dormire vicino a me quasi nella stessa buca e mi sarebbe piaciuto andare con lui, così come quelli che sopraggiungevano, preso dall’incanto della sua voce sommersa come in un vago rancore e parlante di più nell’eco che suscitava attorno ai suoi occhi.
All’alba, mentre gli altri si rialzavano per partire, dal cortile gridarono di sloggiare presto, perché si stava per far saltare il ponte. Si diceva che gli austriaci fossero arrivati sulla riva opposta e avessero iniziato scariche di mitragliatrice. Tutti si precipitarono sulla strada, una colonna di artiglieria stava ferma senza poter proseguire. Pareva tutti avessero riposato molto bene, gli ufficiali a cavallo andavano su e giù presi dal piacere del sole che li avvolgeva sull’alto delle loro selle. Uno gridò a un soldato: «Torna all’ albergo che vi ò dimenticato il fustino della mia camera».
A stento si riuscì a passare ed eravamo già avanti sulla strada quando dietro a noi s’intese il fragore delle mine che rompevano il ponte. Si arrivò a Pordenone, qualche bandiera smorta pendeva dalle finestre chiuse delle prime case del paese. Come fosse mercato le strade erano affollate di donne che avevano ritrovato tra i soldati i loro mariti o parenti e di soldati che insistevano nei caffè e nelle botteghe a ricercare qualcosa da mangiare. Davanti a un negozio di pizzicagnolo, dove non vi era più niente, un soldato, rotto con il calcio del fucile un vetro che copriva un breve strato di pasta messo per mostra, raspava con le mani nere e mangiava quella roba cruda e insecchita dal sole. Altri cercavano in grandi vasi di peperoni, ma nulla riuscivano a pescare nella brodaglia, che poi qualcuno osò bere. Un gruppo di carabinieri armati e furibondi, si fece largo tra la folla, trainando un carretto pieno di sacchi di pane. Avevano prelevato questo pane per loro dai magazzini della stazione. Si tenevano pronti alla difesa e mai erano apparsi minacciosi a tale punto. Minacciavano come uomini e come carabinieri. E se la folla li lasciava passare, poi però li inseguiva con urla: «Voi sì, camorristi, avete avuto il pane». «Venduti, sempre ingrassati». Anche le donne gridavano e mostravano i pugni, fiere di avere trovato i loro uomini, che presto si portavano a casa per vestirli subito da borghesi. Un soldato della mia compagnia che ci aveva preceduti ed era di quel paese, lo ritrovai vestito così. Era padrone di un caffè e nella retrobottega ci offerse, a bicchieri da vino, un dolcissimo liquore ricostituente. Tutti ne riempimmo le borracce. Mi assicurava che appena messa a posto la famiglia, ripresa la divisa, ci avrebbe subito raggiunti e mi regalò una bella bottiglia di liquore che infilai nella tasca del cappotto. Per le strade era l’inferno, e si continuò a marciare.

“Il ritmo narrativo, serrato e senza indugiare ad un facile descrittivismo, scandisce il racconto in brevi e concentrate unità sintattiche. La paratassi è lo strumento della rappresentazione comissiana, che allinea sapientemente le immagini l’una dietro l’altra, e le accumula senza gremire e opprimere la pagina, lasciando ad ognuna una funzione autonoma. La semplicità della tecnica narrativa contribuisce ad incidere un quadro di drammatica forza, in cui gli eventi si succedono angosciosamente, per una sorta di logica conseguenza e tuttavia non appaiono mai scontati o prevedibili, ma si rivelano con l’evidenza di una naturalezza assoluta”. (Scrivano)

Ermetismo

Con il termine “Ermetismo” s’intende un movimento poetico, nato a Firenze ed operante intorno agli anni ’30, che, riunitosi intorno alla rivista “Campo di Marte” dà vita ad un tipo di poesia che, sulla scia del simbolismo di Valery, ne accentua il valore, arrivando ad un dettato che a volte, grazie all’analogia, può apparire oscuro.

Il termine venne dato dal critico Francesco Flora che in un saggio del ’36, inserì in tale movimento gran parte dei giovani poeti, da Ungaretti a Montale. Egli utilizzò tale definizione in modo negativo, ma fu Carlo Bo, in quello che potremo definire come il manifesto di tale poetica, “Letteratura come vita”, ad appropriarsene: d’altra parte fu proprio il leggendario Ermete Trismegisto a scrivere “testi ermetici”, con un fondo di religiosità ed orfismo, di derivazione neoplatonica.

Essi furono alla ricerca di una “poesia pura”, fornita di un linguaggio essenziale, spoglia di qualsiasi abbellimento estetico. Il suo fine è quello di superare i limiti della finitezza mondana e trascendere verso l’assoluto: da qui il senso mitico/religioso dell’esperienza poetica.

Di qui l’importanza data alla “parola”: solo essa è in grado di evocare affinché possa giungere all’essenzialità di un significato, (grazie al suo portato polisemico) da condividere con il lettore.

Non importa cioè cogliere il significato, ma la condivisione dell’esperienza tra il poeta e colui che usufruisce del testo poetico: tendere insieme verso l’assoluto.

Per riassumere potremo definire i principali aspetti della poesia ermetica:

  1. L’azzardo del nulla, la tensione verso ciò che non si può dire, il silenzio e l’assenza;
  2. Ricerca di purezza e assolutezza del linguaggio;
  3. Valore salvifico ed evocativo della poesia, fino ad esiti religiosi
  4. “Rendere nuda” la parola, togliendo l’articolo e scegliendo termini vaghi e indeterminati;
  5. L’uso insistito dell’analogia e della sinestesia;
  6. Lessico raro e colto;
  7. L’utilizzo di metri tradizionali e forme chiuse come il sonetto.

Qualcuno ha definito l’Ermetismo come una forma attraverso cui alcuni intellettuali si opponevano al regime. Certo la mancanza di magniloquenza e di retoricità, la ricerca di un’arte che valesse per se stessa e non avesse valore civile, può certamente apparire come forma antifascista. Ma è pur vero che l’essenzialità ungarettiana (accademico d’Italia, iscritto al Partito fascista) ed i versi montaliani (così espressamente antifascisti, per non parlare della sua firma nel Manifesto crociano) non esularono loro dal prendere posizione; il loro Aventino, come in parte i rondisti, non esaltò ma neanche disturbò la politica del duce.

Tra i maggiori ermetici ci piace ricordare Salvatore Quasimodo (1901 – 1968), poeta siciliano. Fra le sue più importanti raccolte poetiche ricordiamo Acque e terre (1930) e Oboe sommerso (1932). Nel 1942 la terza raccolta poetica, Ed è subito sera. Dopo la guerra la sua poesia si apre a temi maggiormente civili, come nella raccolta Giorno dopo giorno. Alcuni ritengono che il suo capolavoro sia la traduzione dei Lirici greci, del ’40. Nel 1956 viene insignito del premio Nobel per la letteratura.

VENTO A TINDARI

Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima

A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.

Vento a Tindari è una poesia sull’assenza, sulla lontananza determinata dall’esilio del poeta, guardiamo le stanze, una per una:

  1. il ricordo di Tindari e del suo clima mite invade il cuore del poeta;
  2. mentre sta con amici sull’alto di un monte, il richiamo del paese natio lo invade, con i suoi suoni ed amore, mentre ora c’è ombra e morte nel cuore;
  3. Tindari non sa dov’è che il poeta scriva i suoi versi;
  4. L’esilio è aspro, di contro all’armonia che il suo paese gli offriva;
  5. Un amico gli indica il precipizio, il poeta finge di aver timore per nascondere l’emozione del ricordo.

Il testo ha come parola chiave, già dal titolo il “vento” (v. 7 “vento dei pini”; “vento che m’ha cercato”). Già dal primo caso questo vento esula da un aspetto puramente atmosferico, per acquistare un valore analogico, (vento che attraversa gli alberi, ma che inoltre lo conduce lontano, verso il recupero di un mondo lontano, dove ha lasciato i suoi affetti). La ricerca delle parole e della loro disposizione nel testo è ricercatissima, l’analogia presente nel testo si ottiene attraverso spostamenti lessicali (iperbato) accostamenti di percezioni lontane (sinestesie), metafore. Inoltre la scelta delle stesse rimandano ad un senso di profonda vaghezza sentimentale.

I richiami alla classicità sono presenti: la mitizzazione dell’isola, ad esempio. Ma più ancora è il riferimento dantesco nella terza strofe.

OBOE SOMMERSO

Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.

Un oboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;

In me si fa sera:
l’acqua tramonta
sulle mie mani erbose.

Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,

e i giorni una maceria.

Forse uno dei tentativi più estremi dell’analogia, tanto che il critico De Robertis parlò di un vero e proprio non-sense.  Eppure a leggere bene potremo intuire un momento d’attesa, il suono di un oboe sommerso, parole poetiche lontane, di felicità, dette da un altro. Per lui tale gioia non c’è; il cuore vola lontano dal luogo in cui era felice, è la realtà odierna è solo “maceria”.

ED E’ SUBITO SERA

Ognuno sta solo nel cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

Julian Peters: Poeti italiani

“Il componimento si basa su una fulminea immagine di solitudine esistenziale dell’uomo, siglata dal fatale e rapido sopraggiungere della morte. Quasimodo riesce a condensare in tre versi tutta la tragedia della condizione umana:

  1. la vita è breve
  2. ma la luce è accecante ed intensa
  3. e subito arriva la sera, cioè la morte

Soprattutto il poeta insiste sulla solitudine (“Ognuno sta solo”), sconsolata e senza scampo, che non è soltanto dell’uomo ma di ogni creatura. L’uomo viene così escluso da un mondo di sentimenti e di valori cui è vanamente proteso nell’illusione di ritrovare frammenti di se stesso (“sul cuor della terra”). Nel secondo verso si assiste a un capovolgimento del termine sole che perde l’accezione positiva e vivificatrice e si trasforma in strumento di dolore e di inesorabilità (“trafitto”). Attraverso l’uso della congiunzione copulativa (“ed è”) la luce del sole del secondo verso denuncia la sua inconsistenza: si genera un rapporto di continuità con il termine sera, assunto a metafora della morte. In tal modo sia il sole sia la sera diventano allegorie della perdita e della sconfitta esistenziale”. (Corrado Bologna)

Mario Luzi

L’altro grande poeta la cui produzione iniziale si può iscrivere all’ermetismo è Mario Luzi (1914 – 2005). Sin da giovane egli è mosso da una profonda spiritualità cattolica che lo fa avvicinare ai grandi poeti trecenteschi Dante e Petrarca. Luzi traduce da queste matrici culturali la tensione della ricerca di tensione verso la pienezza di uomo e spirito. Tale tensione, tuttavia, non sempre viene esaurita: ed ecco allora che la sua poesia diventa registrazione di tale lotta: storia contro assoluto, tempo contro eternità, decisione contro indecisione.

La raccolta poetica con la quale esordisce è La barca, pubblicata nel 1935:

ALLA VITA

 Amici ci aspetta una barca e dondola
nella luce ove il cielo s’inarca
e tocca il mare, volano creature pazze ad amare
il viso d’Iddio caldo di speranza
in alto in basso cercando
affetto in ogni occulta distanza
e piangono: noi siamo in terra
ma ci potremo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
come rose dai muri nelle strade odorose
sul bimbo che le chiede senza voce.

Amici dalla barca si vede il mondo
e in lui una verità che precede
intrepida, un sospiro profondo
dalle foci alle sorgenti;
la Madonna dagli occhi trasparenti
scende adagio incontro ai morenti,
raccoglie il cumulo della vita, i dolori
le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita.
Le ragazze alla finestra annerita
con lo sguardo verso i monti
non sanno finire d’aspettare l’avvenire.

Nelle stanze la voce materna
senza origine, senza profondità s’alterna
col silenzio della terra, è bella
e tutto par nato da quella.

La poesia inizia con un invito dantesco, quel famoso “Guido, i’vorrei che tu Lapo ed io”, diventa un “Amici, ci aspetta una barca”, quindi il richiamo verso loro di cercare con affetto Dio, ma tale affetto è insufficiente. Nella seconda strofa l’invito è nel guardare il mondo ed il tempo del mondo che fluisce. Ma scende la Madonna a raccogliere i desideri e i dolori degli uomini: la styanza si chiude con ragazze alla finestra che aspettano l’avvenire. Infine una voce senza origine, materna che ci parla alternandosi con quella della terra: sono loro ad averci donato la vita.

 

 

TRA DONNE E BAMBINI: LA LETTERATURA “MINORE” NELL’ITALIA POST-UNITARIA

MIlano.jpgMilano a fine ‘800

La letteratura in Italia nella seconda metà dell’Ottocento oltre a vedere il disagio circoscritto, nello spazio e nel tempo, della Scapigliatura, la poesia ore rotundo di Giosue Carducci e la grande stagione verista dei siciliani Capuana, Verga e De Roberto, vede anche una forma di letteratura che rispondeva alle varie esigenze dello stato appena nato:

  • Rispondere ad una nascente industria culturale che vedeva via via allargato il pubblico dei lettori (grazie anche alla legge Casati e poi Coppino che istituiva l’obbligo d’istruzione elementare – due e poi tre anni)
  • Rispondere al bisogno d’evasione soprattutto femminile, cui era principalmente destinato, ma non esente da inserimenti fortemente “moralistici”, ad imitazione di quanto era successo in Francia con il feuilleton e che da noi prese il nome di “romanzo d’appendice”. Non mancano in questo ambito opere che per la loro fattura vanno ben oltre la pura evasione, presentando temi attenti alla condizione della donna, con le scrittrici Neera o la Marchesa Colombi.
  • Rispondere all’appello giobertiano di “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, attraverso una letteratura pedagogica, rivolta ai ragazzi che come abbiamo visto avevano ormai l’obbligo (sebbene spesso disatteso) dell’istruzione elementare. A tale scopo risposero gli scrittori Edmondo De Amicis con Cuore e Carlo Collodi con Pinocchio.

Giuseppe_Pomba_1895L’editore Pomba

Per quanto riguarda il primo punto, è necessario notare da una parte il rafforzamento dall’altra la nascita di case editrici che si occupavano sia della pubblicazione di riviste propriamente dette che di libri, ognuna con delle proprie specificità. Basti qui ricordare Zanichelli, ex libraio, cui si deve la prima pubblicazione in lingua italiana del saggio di Darwin Sull’origine della specie, Pomba, tipografo che sapeva bene che “le classi facoltose non pensano ai libri, mentre le altre non hanno né il tempo né il gusto per dilettarsi coi libri” e quindi virò la sua attività sugli scolastici, opere di giurisprudenza o opere relative all’agricoltura. Dall’estero vennero il francese Le Monnier, lo svizzero Hoepli o il tedesco Olschki che portarono la loro esperienza in Italia. Il più importante fu certamente il milanese Treves, che pubblicò le opere dei più grandi scrittori italiani (e a cui aspiravano coloro che volevano annoverarsi fra i “grandi”). Sempre a Milano ebbe successo la Sonzogno che forte del possesso della rivista “Il Secolo”, il più letto allora nell’Italia del Nord, poté annoverare tra le maggiori vendite i cosiddetti libri romantici per signorine e la Ricordi, che si specializzò nella pubblicazione di spartiti musicali. Ai ragazzi si dedicò Bemporad, al cui successo contribuirono i romanzi di Emilio Salgari.

13a_g4-1.jpgL’editore Treves

La letteratura femminile presenta caratteri interessanti sia dal punto di vista sociologico che culturale: per il primo si deve sottolineare come la donna, nella seconda metà dell’Ottocento, trovò una via “lavoratrice” che la rendeva famosa e protagonista nella società di allora, quindi la nascita di una letteratura che avesse come punto di vista proprio quello femminile, toccando a volte corde che potremo definire proto-femministe.

neera_ritratto.jpgNeera

Tra le più importanti ricordiamo Neera, pseudonimo di Anna Zuccari (1846 – 1918), nata a Milano, città che più di ogni altra le poteva offrire stimoli culturali; in contatto con Capuana e Verga, aderì ella stessa alla corrente del verismo attraverso la quale  affrontò il tema dominante della condizione femminile – senza mettere in discussione il ruolo socialmente subordinato – limitandosi a rivendicare le ragioni del cuore e della sensibilità femminile a fronte della mediocrità della realtà quotidiana nella quale le protagoniste dei suoi romanzi finiscono per ripiegare.

Né è un esempio un brano tratto da un suo romanzo, tra i suoi numerosi, dal titolo Teresa del 1886, che fa parte di una trilogia che ha protagoniste giovani donne Teresa appunto, Lydia e L’indomani.

Teresa, tra l’adolescenza e l’età adulta, vive la sua passione per Egidio, ostacolata dalla grettezza del padre che, per meschine valutazioni economiche, le impedisce di sposarlo. Il peso delle convenzioni sociali e l’obbedienza familiare condizionano anche il comportamento di Teresa, obbligandola a rinunciare alla felicità e soltanto, nel tempo, ella maturerà la consapevolezza e la forza di reagire alle imposizioni. Una malinconica vicenda che però offre una visione completa sul vero senso dell’esistenza.

TERESA

Quell’anno si chiuse con due avvenimenti importanti. Luminelli minore chiese la mano di una delle gemelle, accontentandosi di prenderla senza dote; e Carlino, laureato in legge, partì per una cittaduzza della bassa Italia. Lo avevano consigliato a percorrere la carriera giudiziaria, la più pronta, la più sicura, quella che gli avrebbe permesso di aiutare subito la famiglia. Il signor Caccia si appoggiava molto sul figlio, per il quale egli e tutti di casa avevano fatto grandissimi sacrifici. Carlino non era riuscito quell’uomo eminente che il padre aveva vagheggiato nelle ore raccolte del suo studiolo, quando il piccolo ginnasiale era alle prese con Cornelio Nipote; tuttavia, avendo superato l’esame e addottoratosi come tutti gli altri, gli faceva un certo qual onore, di cui andava tronfio sollevando le sopracciglia ad altezze insolite. «Bada» gli aveva detto al momento della partenza «di non dimenticare mai i buoni esempi avuti in famiglia. E poiché la signora Soave lagrimava in silenzio, seduta sul divano, coi piedi sullo sgabelletto — fatta così debole oramai da non potersi più reggere — il signor Caccia le diede un’occhiata dall’alto in basso, crollando le spalle poderose. “È una miseria l’essere donna” pensava tra sé — e tornò a salutare il figlio, rigido, impassibile, dando prova di una grande superiorità. Teresina si meravigliò, e quasi ne fece a se stessa un rimprovero, di non commuoversi abbastanza a questa partenza. Amava meno suo fratello? No, certo: ma era così assorta nell’amore di Orlandi che ogni altra affezione sembrava pallida al confronto. E poi aveva già molto sofferto. Il suo cuore non provava più lo slancio subitaneo della prima giovinezza; incominciava ad essere stanco, e a misurare il dolore. Aveva riflettuto qualche volta — non senza esitazione, temendo di essere una cattiva sorella — se, non essendovi Carlino da mantenere agli studi, il ricevitore le avrebbe assegnata una piccola dote. Come tutto in questo caso sarebbe semplificato! Capiva le ragioni del padre: aveva troppo vissuto in quell’ambiente e in quello solo, per non essere persuasa che la sua condizione di donna le imponeva anzitutto la rassegnazione al suo destino — un destino ch’ella non era libera di dirigere — che doveva accettare così come le giungeva, mozzato dalle esigenze della famiglia, sottoposto ai bisogni e ai desideri degli altri. Sì, di tutto ciò era convinta; ma anche un cieco è convinto che non può pretendere di vedere, e tuttavia chiede al mondo dei veggenti, perché egli solo debba essere la vittima. Quando Carlino partì, accompagnato dai voti e dalle speranze d’ognuno, Teresina mormorò tristemente:  «Ecco, egli va a formarsi il suo avvenire come vuole, dove vuole!» E una quantità di riflessioni dolorose vennero ad assalirla, così che trovossi paralizzata nel momento dell’addio. Parve fredda, indifferente. Appena scomparso, fu presa dai rimorsi; si rimproverava sempre, da se stessa, ad ogni movimento di ribellione. Sotto il velo delle lagrime, le si disegnò sul volto uno sgomento di persona colpevole, e insieme un terrore timido, uno sconforto, qualche cosa di indefinibile. Somigliava tanto alla sua mamma, allora, con quell’aria di rassegnazione stanca, che il signor Caccia le ravvolse entrambe nel medesimo sguardo olimpico, sdegnoso, riportandolo poi, con una lieve dilatazione di compiacenza, sull’Ida bella e robusta: festevole, anche nella dimostrazione del suo rammarico. Ida, in famiglia, produceva l’effetto di un raggio di sole, era l’idolo, il beniamino di tutti, aveva avuto, nascendo, il dono di piacere; ognuno era indulgente con lei. Studiava per fare la maestra e la consideravano già come un prodigio. Dopo l’Ida, il posto più in vista, lo occupavano le gemelle; era impossibile non accorgersi di loro, grosse, grasse, rubiconde, indivisibili, somiglianti al padre nella truculenza sgarbata, nelle larghe spalle e nel vivo colorito. Si atteggiavano a padronanza, forti della loro duplicità e di una volontà sola, alla quale ubbidivano due voci, quattro occhi, quattro mani. Insediate nella gran camera di Carlino, erano esse che alla mattina si ponevano alla finestra per guardare i passanti, fresche e ardite nei loro vent’anni. Teresina pativa ora il freddo, e alla mattina, appena levata, era troppo pallida per farsi vedere alla finestra. Le gemelle avevano stretta relazione coi nuovi inquilini della casa della Calliope — i Ridolfi — , che avevano due belle ragazze; e da una casa all’altra si telegrafava continuamente con occhiatine, con piccoli segni, con sorrisi e cenni di convenzione. Teresina restava esclusa da questi maneggi, e li comprendeva poco, perché, avendo trascorsa la giovinezza nel fare da mamma alle sorelle, non le era rimasto il tempo di cercarsi un’amica della sua età.
(…)
Ella pensava che anche lontano Egidio dovesse conservare l’ardore del desiderio, come lo conservava lei, e che nessuna donna potesse interessarlo, come a lei non interessava uomo. Eppure questa fede ingenua veniva scossa qualche volta. Vedeva, guardandosi attorno, riflettendo, confrontando e capiva che tutto nella vita di un giovane si svolge in modo opposto a quello di una ragazza; per conseguenza l’amore dell’uno non può essere uguale all’amore dell’altra. S’accorgeva anche di una crescente compassione per lei, nelle persone buone; compassione che i maligni rivestivano di una ironia piccante. Frequenti allusioni alle fanciulle che invecchiano in casa, prive d’amore, la ferivano acutamente. Forse ch’ella non amava? Forse che non era amata? Ma che cos’era dunque quel mistero che le sfuggiva continuamente, sul quale sembrava concentrarsi l’attenzione di tutti? Quale catena, quale segreto accordo legava insieme uomini e donne, per cui si intendevano con un monosillabo, con un’occhiata? L’amore? Ma ella amava. Si poteva amar di più? Arrestandosi a questa riflessione, un rossore tardivo le saliva alle guancie. Non era più il rossore invadente dei quindici anni; era un riflesso che dava appena un po’ di tepore alla pelle, per cui tornava subito pallida come prima. E pensava: “No, non è possibile. Qualunque cosa ci possa essere, non potrebbe farmi più felice di quanto lo fui, stretta nelle sue braccia, in quel mattino… Egli era allora tutto mio”. Tentava qualche volta di prendere una rivincita su quelle arie di protezione sprezzante; e rispondeva con alterigia, o non rispondeva affatto. Una volta la pretora le disse: «Non fare così; diranno che inacidisci come una zitellona». A tali parole Teresina, colpita, andò a chiudersi in camera, e pianse come non aveva mai pianto da che era al mondo. Pianse le lagrime disperate della giovinezza che muore. Pianse su se stessa, per il suo volto emaciato, per i suoi begli occhi che si spegnevano nell’atonia; per il suo povero corpo che, dopo aver vissuto come una pianta, stava per fossilizzarsi come un sasso. Ebbe un accesso di vera disperazione, durante il quale sentì agitarsi nel fondo delle viscere un torrente d’odio, di passioni malvagie, di invidie non mai provate. Si torceva sul letto, mordendo le coperte con una voglia pazza di fare del male a qualcuno, col desiderio mostruoso di veder scorrere del sangue insieme alle sue lagrime. La trovarono sfinita, livida in volto, coi denti serrati. Il dottor Tavecchia, chiamato per tranquillizzare lo spavento della madre, accennò a un isterismo nervoso e prescrisse dei calmanti.

page1-369px-Neera_-_Teresa.djvu.jpgVecchia  edizione del romanzo di Neera

Nel passo su riportato Neera sottolinea con forza le convenzioni sociali che costituivano l’essenza di una famiglia borghese, come la preminenza della figura maschile (padre che prende le decisioni, fratello cui va tutto l’interesse familiare), la sottomissione della madre, prona alle volontà di un marito burbero. Ma la capacità della scrittrice sta nell’analisi con cui osserva la psicologia femminile: alla fragilità malinconica di Teresa, si contrappone la forza di Ida e la vitalità un po’ grezza delle sorelle gemelle. Quello che rende questo romanzo “minore” rispetto alla grande prosa verghiana è la continua aggettivazione che fa sì che il narratore onnisciente guidi con mano sicura il lettore verso l’identificazione di chi ha torto e di chi ha ragione (si prenda a paragone come la Mena dei Malavoglia rinunci all’amore di compare Alfio per misurare la distanza tra la pur brava scrittrice milanese e Verga).

Maria_Antonietta_Torriani_-1600x900.jpgMaria Antonietta Torriani

La Marchesa Colombi, pseudonimo della piemontese Maria Antonietta Torriani (1840 – 1920). Maestra elementare, sin da giovane pubblicò racconti Nel giornale delle donne. Spostatasi a Milano, entrò in contatto con Anna Maria Mozzoni, protofemminista lombarda, si sposò con Eugenio Torelli Vieller, redattore della Rivista illustrata, in seguito primo direttore del Corriere della sera, dal quale si separò. E’ in questo periodo che la Torriani prese il soprannome di Marchesa Colombi, tratto dalla commedia La satira e Parini di Paolo Ferrari, in cui i marchesi Colombi sono personaggi futili e frivoli.

Prendiamo un passo da uno dei suoi romanzi brevi, Un matrimonio di provincia del 1885:

La quindicenne Denza (Gaudenzia) Dellera vive con il padre Pietro, vedovo, la sorella maggiore Caterina, detta Titina, e la zia. La famiglia è povera, e le ragazze non possono concedersi svaghi. Il padre, appassionato di letteratura, le educa in casa raccontando le vicende dei più celebri poemi greci, latini e italiani. Dopo qualche tempo Pietro si risposa con Marianna che impone una severa disciplina, abituando le figliastre ai lavori di casa e a una vita di stenti e rinunce. La famiglia ha rapporti con i cugini Bonelli: una sera i Dellera vengono invitati da loro a teatro; dopo la rappresentazione Maria comunica a Denza che ha suscitato l’attenzione di un uomo, Onorato Mazzucchetti, rampollo di una famiglia agiata. Denza, che sentiva già prepotente il bisogno di essere amata, ne è entusiasta e commossa, e comincia a fantasticare in ogni momento sul suo innamorato, attendendo con pazienza gli sviluppi della vicenda. Un giorno Denza e Onorato si incrocianoe lui le palesa a voce i suoi sentimenti. Denza è felice, ma il tempo passa e non arriva alcuna domanda di matrimonio. Anzi, Mazzucchetti va a trascorrere un periodo di formazione in Francia. La giovane è sicura, nel suo cuore, che sia solo questione di tempo, ma negli anni si sposano la sorella e le due cugine, e lei è ancora sola. Un giorno, Denza apprende delle imminenti nozze tra Mazzucchetti e un’altra donna. Si spezza così il suo sogno e, avendo superato i 25 anni, è inoltre conscia dell’età avanzata, in ottica matrimoniale. Quando si fa avanti Scalchi, un benestante notaio quarantenne, Denza, pur non rimanendone particolarmente affascinata, accetta la sua mano, per sfuggire a un futuro da zitella e arrivare al tanto agognato matrimonio, ormai però sprovvisto dell’aura poetica di cui lo aveva rivestito.

              UN MATRIMONIO IN PROVINCIA

Da quel momento non ebbi più tempo di pensare alle mie aspirazioni passate, e quasi neppure al mio sposo. Il matrimonio, colle sue formalità preventive, m’assorbiva tutta, ed assorbiva anche il resto della famiglia. Mia sorella aveva affidato il figliolo alla suocera, ed era venuta a Novara per aiutarci. Tutto il giorno eravamo in giro a far compere, o visite di partecipazione. E la sera, io e mia sorella, facevamo delle copie, colla nostra scrittura più accurata, d’un epitalamio che il babbo aveva preparato per le mie nozze. A misura che una copia era finita, lui la correggeva, — c’era sempre da correggere nelle nostre copie, — poi la rotolava, la legava con un nastrino rosso, e ci scriveva sopra il nome dei destinatari, con una precisione notarile: «Signor Bonelli ingegnere Agapito, e genero e figlia, coniugi Crespi». «Signor Martino Bellotti, dottore in medicina, chirurgia ed ostetricia, e consorte». Intanto la matrigna combinava la colazione e gli inviti, e tratto tratto interrompeva il nostro lavoro, per consultarci e fare delle lunghe discussioni. A mia ricordanza non s’era mai fatto un invito a pranzo in casa nostra. Avevamo l’abitudine di desinare in cucina, al tocco, e quando capitava lo zio Remigio, o qualcuno degli Ambrosoli, o qualche altro parente di fuori, gli si offriva il nostro desinare di famiglia, senza nessuna aggiunta, su quella tavola di cucina, tra i fornelli ed il paravento della zia. Ora il paravento non c’era piú; ma ad ogni modo non era possibile servire una colazione nuziale in cucina. Bisognava apparecchiare in salotto. Quella novità ci mise in grande orgasmo. Si dovettero portar via i sacchi di granturco, le patate, le castagne e tutto; si dovettero scoprire i mobili, ed appendere le cortine, e togliere le tavole rotonde per sostituirvi quella grande della cucina. Poi non era lunga a sufficienza, e ci si aggiunsero 44 ancora ai due capi le tavole rotonde un po’ piú bassine, che facevano un effetto curioso e poco bello. Nessuna delle nostre tovaglie aveva le dimensioni di quella mensa cosí allungata. E le due tavole rotonde ebbero anche una tovaglia a parte, di modo che facevano come casa da sé, un gradino piú in giú della tavola centrale. Il babbo suggerí di nascondere il gradino sotto uno strato di fiori; ma rinunciò a mettersi, come s’era combinato prima, a capo tavola, perché, dovendo sedere piú basso, non avrebbe dominato tutta la mensa leggendo l’epitalamio. Scelse il posto nel centro, e la matrigna l’altro in faccia a lui, sebbene quella nuova moda francese non fosse di loro gusto. Anche la mia abbigliatura da sposa era stata argomento di molte discussioni. La solennità che si voleva dare alla cerimonia, non arrivava però al lusso dell’abito bianco. Un abito di seta colorata a strascico, sul quale avevo fatto assegnamento e di cui andavo superba, la Maria lo trovò disadatto alla circostanza e provinciale. Allora la matrigna fece la pensata di vestirmi da viaggio, e per quanto le si facesse osservare che non facevamo nessun viaggio, non si lasciò rimovere, ed il vestito da viaggio fu accettato. Finalmente venne quella mattina aspettata e temuta. Quando fui tutta vestita come una touriste che si disponesse a fare il giro del mondo, cominciai a piangere abbracciando tutti prima d’andare in chiesa, come se non dovessimo mai piú rivederci in questo mondo. Poi, durante la cerimonia piansi tanto che fu un miracolo se udirono il sí, che tentai di pronunziare fra due singhiozzi. Poi tornai a piangere zitta zitta durante tutta la colazione, rispondendo con un piccolo singhiozzo ogni volta che mi facevano un complimento, tanto che smessero di farne, e mangiarono tutti quieti, parlando di cose serie, dei raccolti, che quell’anno erano buoni, dei nostri vini dell’alto Novarese che non hanno nulla da invidiare a quelli del Piemonte, e del secondo vino, «il cosí detto vinello che è eccellente, e tanto conveniente per uso di famiglia». Poi, alle frutta, quando il babbo spiegò uno dei tanti fogli che avevo scritto io stessa, e cominciò a leggere ad alta voce: In questo dí, sacro ad Imene, io prego La Vergine ed i Santi a voi propizi, quei versi, che sapevo a mente, mi commossero al punto che scoppiai in un pianto dirottissimo, e dovettero condurmi via. Cosí, dopo tutti quegli anni d’amore, di poesia, di sogni sentimentali, fu concluso il mio matrimonio. Ora ho tre figlioli. Il babbo, che quel giorno dell’incontro con Scalchi aveva accesa lui la lampada che mi consigliava, dice che la Madonna mi diede una buona inspirazione. E la matrigna pretende che io abbia ripresa la mia aria beata e minchiona dei primi anni. Il fatto è che ingrasso.

IPA_ALMJ4GHH1-728x1024Ritratto di Maria Antonietta Torriani

“E non mi sarebbe venuta l’idea di leggere Un matrimonio in provincia se non me ne avesse parlato con singolare entusiasmo Natalia Ginzburg. Mentre spesso nelle ricognizioni tra i minori dell’Ottocento italiano, le soddisfazioni di lettura devo pagarle con uno sforzo, una resistenza da vincere, qui dalle prime pagine si riconosce la voce di una scrittrice che sa farsi ascoltare qualsiasi cosa racconti, perché è il suo modo di raccontare che prende, il suo piglio dimesso ma sempre concreto e corposo, con un sottile filo d’ironia: di quell’ironia su stessi che è l’essenza dello humour. A contestare il mito della donna romantica con l’evidenza prosaica della fatalità piccolo-borghese, la narrativa tardo ottocentesca italiana – dalla Serao a Neera – non mette avanti eroine alla Madame Bovary (anche il «bovarismo», in Italia, sembra privilegio maschile): più che alla provincia di Flaubert che la nostra sia vicina a quella di Čechov: drammi silenziosi nelle esistenze senza avvenimenti di donne di casa frustrate nell’autonomia dei sentimenti. La Marchesa Colombi appartiene a questo filone ma è anche qualcosa di molto diverso: perché quando rappresenta la ristrettezza la noia lo squallore lo fa con una spietatezza di sguardo, una nettezza di segno, una deformazione grottesca da dare l’effetto del massimo di tristezza col massimo d’allegria poetica” (Italo Calvino)

Carolina Invernizio, dissepolta e vivaCarolina Invernizio

Tuttavia la scrittrice di maggior successo fu  Carolina Invernizio. Nasce a Voghera nel 1858, da una famiglia borghese, il padre, infatti, era funzionario di Governo. A quattordici anni si trasferisce a Firenze, dove frequenta le scuole Magistrali. Comincia a scrivere a ventisei anni e nell’arco di una vita produce circa centotrenta romanzi, nonostante sia diventata moglie del tenente Quinterno e madre di una bambina. È una donna borghese che riceve e tiene salotto, frequenta teatri, sartorie, esce spesso e volentieri. L’ambiente fiorentino nel periodo in cui la scrittrice muove i suoi primi passi ben conosce la letteratura cosiddetta d’appendice: Lorenzini (il futuro Collodi di Pinocchio), ad imitazione dei Misteri di Parigi di Eugene Sue, dà alle stampe i Misteri di Firenze, nella città esistono editori di tali romanzi, scrittori a cottimo (non bisogna dimenticare che nel porto di Livorno, oltre a visitatori inglesi, salpavano anche i romanzi gotici). Con il ritorno del marito nel 1896 dalla guerra d’Abissinia , la scrittrice si trasferì prima a Torino e poi, nel 1914 , a Cuneo, dove Carolina aprì il suo salotto di via Barbaroux a intellettuali e a personaggi della cultura, come recita la targa commemorativa posta sulla sua casa e dove muore nel 1916.

Non amata dai critici, ma profondamente apprezzata dal pubblico, Antonio Gramsci la definì “onesta gallina della letteratura popolare”. Venne anche indicata come “La Carolina di servizio” e secondo Enrico Deaglio si deve a lei l’epiteto ancor oggi in voga de “La casalinga di Voghera”.

Ne Il bacio di una morta, il romanzo più importante dell’Invernizio, scritto nel 1886, appaiono tutti questi temi: cominciamo con l’ultimo, quello del fratello disperso, che giunge  a casa temendo la morte della sorella:

 IL BACIO DI UNA MORTA

La luna era salita a poco a poco sull’orizzonte, ma i suoi raggi erano ancora troppo deboli per rischiarare la cupa ombra dei cipressi e mandava soltanto una luce pallida, velata, misteriosa sulle tombe di pietra e di marmo, alcune abbandonate, altre coperte di ghirlande e di fiori…
Se qualcuna delle mie lettrici ha visitato un cimitero di notte, sa quale triste e funebre impressione se ne riceve. Il solenne silenzio che regna in quel luogo, sacro al riposo dei morti, i grandi cipressi, le croci mortuarie… tutto è propizio alle più folli e deliranti visioni…
Là…è la morte: davanti, di dietro, al nostro fianco, sotto i nostri passi, sotto l’erba che calpestiamo; è impossibile sottrarsi al suo pensiero. Anche l’uomo il più forte, il più scettico trema, si sente il cuore stretto da una gelida pressione. I monumenti assumono ai nostri occhi un aspetto strano, fantastico, bizzarro; ombre vaghe, sfumate, impalpabili, sembrano librarsi dinanzi a noi, fra le tombe, nell’aria; un sudor freddo scorre per tutto il corpo, le labbra diventano mute…
Tale impressione non mancò di provare Ines, mentre stretta al braccio del compagno, seguiva il custode sotto i loggiati del cimitero. Ella soffriva molto la giovane donna, ma i suoi occhi erano privi di lacrime, il suo volto si manteneva calmo…
Alfonso si rivolgeva intorno sguardi inquieti, smarriti; sulle sue guance erano due macchie di un rosso ardente, le labbra aveva livide.
Ines sentiva di quando in quando scuotersi convulsemente il braccio del suo compagno, come se alcuni brividi l’avessero investito. Ella lo guardava atterrita, ed egli, come se avesse compreso quello sguardo supplichevole, pietoso, tentava un sorriso; ma quel sorriso era così straziante, così amaro, che strappava le lacrime.
Il custode solo si mostrava indifferente. Egli camminava senza riguardo in mezzo alle tombe, agitando un mazzo di chiavi che aveva appese sulla cintola. Fatto il giro del loggiato, volse a destra e dopo pochi passi si fermò dinanzi a una porta di legno scuro, che aveva nel mezzo dipinta una gran croce bianca.
Era la porta della cappellina, dove era stata posta provvisoriamente in deposito la cassa, che conteneva le spoglie della contessa Rambaldi.
Ines si sentiva il cuore serrato come in una morsa. Alfonso trasse un fazzoletto per asciugarsi il viso, irrigato da grosse gocce di sudore.
Il custode aveva aperta la porta…ed era entrato per il primo. I due giovani lo seguirono.
La cappella era debolmente illuminata da una lampada ad olio appesa al muro; ed a quel chiarore vacillante potevasi appena discernere una specie di tavola quadrata, su cui era posata una cassa di legno nero con maniglie e borchie dorate.
«E’ quella»  disse a bassa voce il custode.
Alfonso fece un balzo come se avesse subìta una scossa elettrica e strinse la mano di Ines con una tal forza, che ci volle tutto il coraggio della giovine donna per non mandare un grido di dolore.
Il custode era ritornato sulla porta.
Ines guardò Alfonso temendo che egli soccombesse alle commozioni che l’agitavano…ma il giovane teneva gli occhi fissi, spalancati sulla cassa.
«Ella… è là…là…vicino a me» balbettò «ma quel coperchio mi toglie la vista del suo viso…Clara…io io voglio vederti…»
Ines si era avvicinata al custode e traendo dalla valigetta, che aveva portato con sé, una borsa piena d’oro.
«Questo per voi» disse a bassa voce «se acconsentite al desiderio di mio marito; fategli vedere sua sorella»
«Ma io non posso…non posso».
«Oh! non siate così crudele…voi siete padre…se la morte…vi rapisse un figlio…diletto…non desiderereste vederlo più e più volte, prima che la terra ricoprisse per sempre le sue spoglie?»
Il custode s’inteneriva.
Ines se ne accorse e facendogli scorrere destramente la borsa in mano
«Suvvia, siate buono» esclamò «Dio vi ricompenserà più di quello che io posso fare»
Due grosse lacrime caddero sulle rozze gote del custode.
Egli si avvicinò, senza far parola, alla cassa…e cercando dolcemente di allontanarne Alfonso:
«Aspetti» disse «che io l’apra, così potrà rivedere la sua povera sorella».
Oh! quanta passione, quanta ineffabile tenerezza apparve sul viso pocanzi impietrito del giovane, a quelle parole del custode! Sulle guance livide gli ritornò il sangue…gli occhi ardenti, asciutti gli s’inondarono di pianto.
«La rivedrò…la rivedrò…» disse a voce sommessa, ardente, quasi credesse di sognare. Il custode aveva con lentezza fatte girare le viti e senza alcun sforzo, ne sollevò il coperchio.
Un gran velo bianco copriva il cadavere. Il custode l’alzò con una delicatezza ed un rispetto, strani in un uomo del suo mestiere, e tosto scoperse la pallida e bella figura della contessa.
Alfonso ed Ines giunsero le mani, e per qualche minuto il loro dolore parve tacere, avanti la serenità di quella figura, che dormiva del sonno tranquillo, solenne della morte.
La contessa era vestita tutta di bianco: i suoi capelli sparivano sotto una cuffietta di trina, che le scendeva fino sulla fronte: al collo aveva una croce di brillanti attaccata ad un nastro celeste.
Ella era bella di una celeste purezza, e sotto quelle trine candide, con quel vestito bianco, pareva una vergine assopita nei pensieri del cielo.
Il viso era pallido, smagrito, ma non aveva quella lividezza spaventosa, propria dei cadaveri. Nessuna vedendola avrebbe creduto alle sofferenze che servirono di preludio alla di lei morte. Uno sguardo sembrava scivolar fuori dalle semichiuse pupille; dalle labbra aperte ad un principio di sorriso, sembrava uscire ancora una parola di amore…di addio, per i suoi cari.
«Com’era bella!» mormorò Ines portandosi il fazzoletto agli occhi.
«Bella e buona» disse Alfonso con un brivido.
E scuotendosi dall’estasi che l’aveva per un istante dominato, si gettò piangendo su quell’adorato cadavere.
«Clara…mia Clara…» diceva singhiozzando «eccomi a te di ritorno… ma tu non mi vedi… non odi il tuo povero fratello… che ti è vicino; tu sei morta… pensando ch’io t’avessi dimenticato… morta scrivendo… e pronunciando il mio nome… Clara… o mia Clara…»
Grosse lacrime gli scendevano in copia sulle guance…
«Sei pur bella!…» continuò «ma Dio solo vede ora i tuoi dolci sorrisi… oh! mia Clara… dimmi chi ti ha resa infelice sulla terra… chi ti ha fatto morire… così giovane? Parlami… parlami… sono tuo fratello, che amavi tanto…»
S’interruppe con un palpito angoscioso, e le braccia indebolite gli cascarono pendenti lungo il corpo.
Ines cercò di sorreggerlo, di trascinarlo lontano.
Ma egli si svincolò da lei… Pareva non potersi saziare di guardare quel cadavere, egli s’ostinava a credere che colei che aveva tanto amato non poteva essere morta… e che forse stava per risvegliarsi…
Era sì bella ancora quella morta!… Eravi ancora tanto fascino in quelle purissime forme… nella delicata posa! Possibile che l’anima di lei, fosse svanita intieramente nello spazio… non rimanesse ancora in quel corpo immobile un po’ di divina essenza… un soffio…
Le pupille di Clara non avevano il color vitreo, appannato, oscuro, che sogliono prendere gli occhi degli estinti…
Alfonso la guardava e gli pareva che esse ricambiassero i suoi sguardi. Eppure quelle pupille erano immobili… come la fronte di Clara era ghiacciata.
«Ah! se Dio volesse… se Dio volesse» mormorava come in un delirio «Clara… Clara… guardami ancora… dammi un bacio… un bacio solo… per mostrarmi che mi hai perdonato…»
Ed appoggiò le labbra ardenti sulle labbra della povera morta…
Ma allora gettò un grido, che risuonò lungamente in tutta la cappella e si alzò barcollando come un ubriaco, coi capelli scomposti, gli occhi sbarrati.
«Le sue labbra si sono mosse» esclamò. «Ella mi ha baciato… ella vive… vive!»
Ines e il custode credettero che Alfonso divenisse pazzo… e si avvicinarono.
Ma appena ebbero gettato uno sguardo sul cadavere, essi pure divennero pallidi.
Le labbra della morte si erano aperte ed avevano acquistato un leggerissimo color di rosa; la luce che scivolava dalle ciglie socchiuse di lei, si era fatta più brillante.
«Che sia viva davvero?» pensò il custode sbalordito in strana guisa «oh! sarei in un bell’imbroglio»
«Sì… ella vive… ella vive» rispose Alfonso.
E con atto subitaneo aprì l’abito della morta e le pose una mano sul cuore. Il cuore non batteva. Egli appoggiò allora la testa sul petto di lei… e li parve di sentire come una impercettibile pulsazione.
Appoggiò di nuovo le sue labbra alla bocca di Clara e quelle labbra ebbero un leggero brivido.
«Bisogna levarla subito da qui» esclamò Alfonso cercando dominare la sua estrema agitazione «ella non è morta… vi ripeto, mi ha baciato ancora!»
Un brivido di ghiaccio percorse le vene del custode.
«Ma se v’ingannaste!?» balbettò «se qualcuno venisse a scoprire…»
«Nessuno saprà nulla…»
«Ma io non posso trasportare la morta in casa mia» disse il custode esitante «ho moglie e figli, ed una sola camera».
Alfonso aveva ripreso il suo sangue freddo.
«Ascoltatemi» esclamò brevemente «non ha detto vostro nipote che abita qui vicino, in una casetta isolata?»
«Sissignore… abita una casetta da solo con la madre – ma non tanto vicino; è di là dal ponte di Ema».
«Bene, questo non importerebbe; la sua carrozza ci trasporterà».
«Ma questa cassa, che domani debbo mettere nella fossa…»
«E vorreste seppellire una donna viva?!»
Il custode chinò confuso il viso.
«Verrà qui il conte Rambaldi?» chiese Alfonso vivacemente.
«Nossignore, ha dato a me l’incarico di tutto, pagandomi anticipatamente».
Alfonso mandò un’esclamazione di gioia, mentre ricambiava un rapido sguardo con Ines.
«Tutto va per il meglio adunque… nessuno saprà quanto qui succede… voi terrete il segreto con tutti – ve lo pagherò a prezzo d’oro; metterete nella tomba la cassa vuota».
«Ma non vedete che la signora contessa non si muove… che è propria morta… che siete stato vittima di un’allucinazione?!»
Le parole del custode erano state ferme, ma la voce tremava.
«No… non è morta… non è morta, vi ripeto» esclamò Alfonso prendendo una gelida mano di Clara e inondandola di lacrime.
«E vorreste seppellirla con questo dubbio?» disse a sua volta Ines con un singhiozzo che straziava il cuore…
Il custode commosso dalla terribile insistenza di quel dolore… e forse, in fondo temendo… della verità di quelle supposizioni.
«Ebbene, ammettiamo che non sia morta?… dove vorreste condurla?»
«A casa di vostro nipote, ve l’ho detto… egli è un bravo giovine… manterrà il segreto con tutti.»
Il custode era in una terribile alternativa.
«Oh! non mi dite di no» aggiunse il giovane supplichevole «voi non correte alcun pericolo, ve lo giuro, e poi se avete timore, io vi darò tant’oro da assicurare il vostro avvenire, e quello della vostra famiglia…»
«Basta… basta, signore… non è già l’interesse che mi spinge a giovarvi: ma si è perché mi assale il dubbio che la povera signora non sia infatti morta… Farò quanto vorrete… ma segretezza.»
«Sul mio onore, nessuno saprà quanto è successo» disse Alfonso portandosi una mano sul cuore…
«Ma se fosse morta davvero?»
«Sul mio onore vi giuro che vi riporterei… collo stesso mistero, il cadavere.»
Il custode era vinto.
«Aspettatemi qui un momento» disse «vado ad avvisare mio nipote.»
Ed uscì in fretta dalla cappella.
«E’ Dio che mi ha ispirato… Dio» esclamò Alfonso sollevando il corpo di Clara fra le sue braccia… stringendolo come un forsennato al seno.
Ines, abbrividiva.
«Io temo, povero Alfonso, che tu d’illuda: le sue mani sono di ghiaccio.»
«Ma ella non è morta!»
«La sua fronte è di marmo.»
«Ma ella vive, ti ripeto… lo sento… lo sento… e mi pare che ella m’intenda, mi pare che il cuore suo palpiti sul mio.»
Mentre così parlava, il custode ritornò in compagnia del fiaccheraio.
Questi era pallido in volto come un lenzuolo ed aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Mio zio mi ha detto tutto… è vero… signore… è vero: la povera morta vive?»
«Sì…  lo spero… lo spero, perché Dio è buono… ma affrettiamoci… ella potrebbe rinvenire e sarebbe orribile che si trovasse qui»
Con molta cura, la povera contessa che continuava a rimanere immobile, rigida come un cadavere, fu trasportata nella vettura.
A quell’ora la strada era affatto deserta, e certo nessuno avrebbe immaginato la scena compiuta nel cimitero.
Quando la carrozza fu partita, portando seco la giovane coppia e la povera morta, il custode riprese la via della cappella col capo chino… e le mani incrociate sulle reni. Egli chiedeva a se stesso se non aveva sognato.
«Che la morta sia viva davvero…» mormorava «oh! la sarebbe strana… ma sarebbe anche più orribile il pensare che senza quel signore, quel suo fratello, la povera contessa domani sarebbe stata sepolta viva. Brr… mi vengono i sudori freddi nel pensarci. Del resto nessuno saprà mai questo segreto… Al conte poco importa di sua moglie, tanto è vero che ha lasciato a me la cura di tutto… quel conte mi sembra un poco di buono e mi ha fatto una brutta impressione la prima volta che lo vidi… Gridò, perché la tomba non era stata ancora preparata: che volesse proprio seppellir viva la moglie?… uhm! uhm! non sarebbe difficile… ed io sarei stato il complice di un assassinio? Ah! il fratello della signora contessa, quello mi ha un viso di galantuomo… si può fidarsi…  di lui… Ma cosa sono tutte quelle ombre che vedo questa notte?… Non so perché mi tremano le gambe ed ho degli scrupoli. Che qualche volta senza volerlo, io abbia seppellite delle persone vive?»
Egli diceva tuttociò fra sé, mentre si guardava attorno rabbrividendo. Tonino era sempre stato un uomo forte e positivo, non aveva mai creduto agli spettri né punto, né poco, ma in quella notte si sentiva agitato da brividi strani. Gli pareva di veder proiettarsi delle ombre sulle bianche pietre, gli pareva veder aprirsi delle tombe ed uscirne dei fantasmi avvolti nel funebre lenzuolo e che tendevano verso di lui le braccia, dicendo con una voce che non aveva nulla di umano:
«Anche noi ci seppellisti vivi.

71IwaCyQIbL._SL1081_.jpgLocandina del film tratto dal romanzo dell’Invernizio

I romanzi dell’Invernizio, non nascono dal nulla: a lei, e agli scrittori “popolari” che pullulavano a Firenze in quel periodo, erano ben conosciuti l’intrigo delle avventure, l’oscenità delle situazioni, il grottesco dei personaggi, il nero dei bassifondi del feuilleton europeo. L’Invernizio deve il suo successo nel saper amalgamare tutti questi ingredienti e i luoghi comuni di mezzo secolo di letteratura popolare, per adattarli alle signorine della buona società dell’Italia di fine ‘800, cui spesso si rivolge direttamente. Infatti il pubblico della scrittrice è femminile, come femminile è il mondo tematico che l’autrice sceglie: le sue protagoniste sono fidanzate, mogli, figlie e madri, e le antagoniste di esse sono altrettanto donne, maliarde, seduttrici, sataniche. E gli uomini? Deboli, incapaci, inaffidabili, pronti a correre dietro alla prima gonnella; oppure, lacerati da antichi e non scordati tradimenti, si rinchiudono come orsi, meditando tremende vendette; o ancora, dispersi nel mondo, e fanno appena in tempo a sopraggiungere quando la morte di una parente si fa prossima.

Più interessante certamente la letteratura per ragazzi, i cui massimi rappresentanti furono Edmondo De Amicis, Carlo Collodi.

Edmondo_De_Amicis_2Edmondo De Amicis

Edmondo De Amicis nasce a Oneglia nel 1846. Intraprende ancora giovanissimo la carriera militare, partecipando alla campagna del 1866, e l’abbandona per l’attività giornalistica. Nel 1991 aderisce al socialismo, facendosi portavoce del filantropismo laico di fine Ottocento. Scrive La vita militare nel 1868 e resoconti di viaggi (Spagna del 1873 e Ricordi di Parigi del 1879). Ottiene un incredibile successo con il romanzo Cuore (1886). Esso rappresentò per più generazioni una sorta di “codice della morale laica” post-risorgimentale. Intervenne anche sulla questione della lingua con L’idioma gentile, seguendo l’esempio manzoniano. Muore a Bordighera nel 1908.

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Il romanzo, tradotto in moltissime lingue, che gli ha dato celebrità è certamente Cuore.

Il romanzo è il diario immaginario di un alunno di terza elementare, Enrico Bottini, che narra gli episodi, lieti e tristi, e le curiosità di un intero anno scolastico, annotando via via su un quaderno, che poi insieme al padre correggerà e risistemerà qualche anno dopo per la stampa. La vicenda è periodizzata in dieci mesi, da ottobre a luglio, nove racconti mensili, dettati dal maestro; in essi l’autore pone al centro dell’azione dei ragazzi-eroi, figure esemplari e simboliche di una realtà volutamente alterata perché drammatizzata e stilizzata. Una galleria di personaggi popola il diario di scuola, figure simboliche, nelle quali è tuttavia possibile cogliere momenti di notevole efficacia rappresentativa, soprattutto nelle rapide e incisive descrizioni degli ambienti in cui vivono e agiscono.

LA MADRE DI FRANTI

28, sabato

Ma Votini è incorreggibile. Ieri, alla lezione di religione, in presenza del Direttore, il maestro domandò a Derossi se sapeva a mente quelle due strofette del libro di lettura: dovunque il guardo io giro, Immenso Iddio ti vedo. – Derossi rispose di no, e Votini subito: «Io le so!» con un sorriso come per fare una picca a Derossi. Ma fu piccato lui, invece, che non poté recitare la poesia, perché entrò tutt’a un tratto nella scuola la madre di Franti, affannata, coi capelli grigi arruffati, tutta fradicia di neve, spingendo avanti il figliuolo che è stato sospeso dalla scuola per otto giorni. Che triste scena ci toccò di vedere! La povera donna si gettò quasi in ginocchio davanti al Direttore giungendo le mani, e supplicando: «Oh signor Direttore, mi faccia la grazia, riammetta il ragazzo alla scuola! Son tre giorni che è a casa, l’ho tenuto nascosto, ma Dio ne guardi se suo padre scopre la cosa, lo ammazza; abbia pietà, che non so più come fare! mi raccomando con tutta l’anima mia!» Il Direttore cercò di condurla fuori; ma essa resistette, sempre pregando e piangendo. «Oh! se sapesse le pene che m’ha dato questo figliuolo avrebbe compassione! Mi faccia la grazia! Io spero che cambierà. Io già non vivrò più un pezzo, signor Direttore, ho la morte qui, ma vorrei vederlo cambiato prima di morire perché…» e diede in uno scoppio di pianto, «è il mio figliuolo, gli voglio bene, morirei disperata; me lo riprenda ancora una volta, signor Direttore, perché non segua una disgrazia in famiglia, lo faccia per pietà d’una povera donna!». E si coperse il viso con le mani singhiozzando. Franti teneva il viso basso, impassibile. Il Direttore lo guardò, stette un po’ pensando, poi disse: «Franti, va al tuo posto.» Allora la donna levò le mani dal viso, tutta racconsolata, e cominciò a dir grazie, grazie, senza lasciar parlare il Direttore, e s’avviò verso l’uscio, asciugandosi gli occhi, e dicendo affollatamente: «Figliuol mio, mi raccomando. Abbiano pazienza tutti. Grazie, signor Direttore, che ha fatto un’opera di carità. Buono, sai, figliuolo. Buon giorno, ragazzi. Grazie, a rivederlo, signor maestro. E scusino tanto, una povera mamma. E data ancora di sull’uscio un’occhiata supplichevole a suo figlio, se n’andò, raccogliendo lo scialle che strascicava, pallida, incurvata, con la testa tremante, e la sentimmo ancor tossire giù per le scale. Il Direttore guardò fisso Franti, in mezzo al silenzio della classe, e gli disse con un accento da far tremare: «Franti, tu uccidi tua madre!» Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise.

 

LA MADRE DI GARRONE

29, sabato 

Tornato alla scuola, subito una triste notizia. Da vari giorni Garrone non veniva più perché sua madre era malata grave. Sabato sera è morta. Ieri mattina, appena entrato nella scuola, il maestro ci disse: «Al povero Garrone è toccata la più grande disgrazia che possa colpire un fanciullo. Gli è morta la madre. Domani egli ritornerà in classe. Vi prego fin d’ora, ragazzi: rispettate il terribile dolore che gli strazia l’anima. Quando entrerà, salutatelo con affetto, e seri: nessuno scherzi, nessuno rida con lui, mi raccomando.» E questa mattina, un po’ più tardi degli altri, entrò il povero Garrone. Mi sentii un colpo al cuore a vederlo. Era smorto in viso, aveva gli occhi rossi, e si reggeva male sulle gambe: pareva che fosse stato un mese malato: quasi non si riconosceva più: era vestito tutto di nero: faceva compassione. Nessuno fiatò; tutti lo guardarono. Appena entrato, al primo riveder quella scuola, dove sua madre era venuta a prenderlo quasi ogni giorno, quel banco sul quale s’era tante volte chinata i giorni d’esame a fargli l’ultima raccomandazione, e dove egli aveva tante volte pensato a lei, impaziente d’uscire per correrle incontro, diede in uno scoppio di pianto disperato. Il maestro lo tirò vicino a sé, se lo strinse al petto e gli disse: «Piangi, piangi pure, povero ragazzo; ma fatti coraggio. Tua madre non è più qua, ma ti vede, t’ama ancora, vive ancora accanto a te, e un giorno tu la rivedrai, perché sei un’anima buona e onesta come lei. Fatti coraggio». Detto questo, l’accompagnò al banco, vicino a me. Io non osavo di guardarlo. Egli tirò fuori i suoi quaderni e i suoi libri che non aveva aperti da molti giorni; e aprendo il libro di lettura dove c’è una vignetta che rappresenta una madre col figliuolo per mano, scoppiò in pianto un’altra volta, e chinò la testa sul banco. Il maestro ci fece segno di lasciarlo stare così, e cominciò la lezione. Io avrei voluto dirgli qualche cosa, ma non sapevo. Gli misi una mano sul braccio e gli dissi all’orecchio: «Non piangere, Garrone.» Egli non rispose, e senz’alzar la testa dal banco, mise la sua mano nella mia e ve la tenne un pezzo. All’uscita nessuno gli parlò tutti gli girarono intorno, con rispetto, e in silenzio. Io vidi mia madre che m’aspettava e corsi ad abbracciarla, ma essa mi respinse, e guardava Garrone. Subito non capii perché, ma poi m’accorsi che Garrone, solo in disparte, guardava me; e mi guardava con uno sguardo d’inesprimibile tristezza, che voleva dire: «Tu abbracci tua madre, e io non l’abbraccerò più! Tu hai ancora tua madre, e la mia è morta!» E allora capii perché mia madre m’aveva respinto e uscii senza darle la mano. 

Abbiamo volutamente messo a confronto i due passi per sottolineare come il De Amicis usi sottolineare l’aspetto patetico che permette al lettore, sin dalle prime parole, di esprimere un giudizio morale nel primo caso negativo, nel secondo positivo.

Cuore-TV-carlo-calenda.jpgEnrico Bottini nel Cuore di Comencini (1982)

Nel primo racconto si esprime quasi con un  coup de théâtre: interrompendo la lezione la madre di Franti irrompe sulla “scena” (parola che lo stesso autore in questo caso usa), con atteggiamenti teatrali, scompigliata, piangente, genuflessa davanti al Direttore, le mani al petto ad indicare la malattia. E si conclude con la condanna senza appello del giovane Franti, sottolineato dall’aggettivo infame e dal sorride, ad indicare l’irrecuperabilità di colui che calpesta anche il più celebrato rispetto che si deve alla figura materna (quindi alle istituzioni come la scuole e più su sino alla patria).

Cuore5.jpgCuore film del 1948

Nel secondo ci viene presentato invece il “buono” Garrone: anche qui l’autore presenta una scena, gli occhi rossi, l’abito nero, il pianto, l’abbraccio del maestro. De Amicis spinge la sua scrittura in un tono volutamente patetico, spingendo il lettore ad una “forzata commozione”. Quello che più ci colpisce è indubbiamente l’insistere su quel verbo, presente nei due brani e così carico di significato: l’irridere di Franti è presentato come atteggiamento antisociale; per questo per Garrone la raccomandazione del maestro è quella di “non ridere”.

Presentiamo ora un racconto mensile:

IL PICCOLO SCRIVANO FIORENTINO

Faceva la quarta elementare. Era un grazioso fiorentino di dodici anni, nero di capelli e bianco di viso, figliuolo maggiore d’un impiegato delle strade ferrate, il quale, avendo molta famiglia e poco stipendio, viveva nelle strettezze. Suo padre lo amava ed era assai buono e indulgente con lui: indulgente in tutto fuorché in quello che toccava la scuola: in questo pretendeva molto e si mostrava severo perché il figliuolo doveva mettersi in grado di ottener presto un impiego per aiutar la famiglia; e per valer presto qualche cosa gli bisognava faticar molto in poco tempo. E benché il ragazzo studiasse, il padre lo esortava sempre a studiare. Era già avanzato negli anni, il padre, e il troppo lavoro l’aveva anche invecchiato prima del tempo. Non di meno, per provvedere ai bisogni della famiglia, oltre al molto lavoro che gl’imponeva il suo impiego, pigliava ancora qua e là dei lavori straordinari di copista, e passava una buona parte della notte a tavolino. Da ultimo aveva preso da una Casa editrice, che pubblicava giornali e libri a dispense, l’incarico di scriver sulle fasce il nome e l’indirizzo degli abbonati e guadagnava tre lire per ogni cinquecento di quelle strisciole di carta, scritte in caratteri grandi e regolari. Ma questo lavoro lo stancava, ed egli se ne lagnava spesso con la famiglia, a desinare. «I miei occhi se ne vanno,» diceva, «questo lavoro di notte mi finisce.» Il figliuolo gli disse un giorno: «Babbo, fammi lavorare in vece tua; tu sai che scrivo come te, tale e quale.» Ma il padre gli rispose: «No figliuolo; tu devi studiare; la tua scuola è una cosa molto più importante delle mie fasce; avrei rimorsi di rubarti un’ora; ti ringrazio, ma non voglio, e non parlarmene più.»  
Il figliuolo sapeva che con suo padre, in quelle cose, era inutile insistere, e non insistette. Ma ecco che cosa fece. Egli sapeva che a mezzanotte in punto suo padre smetteva di scrivere, e usciva dal suo stanzino da lavoro per andare nella camera da letto. Qualche volta l’aveva sentito: scoccati i dodici colpi al pendolo, aveva sentito immediatamente il rumore della seggiola smossa e il passo lento di suo padre. Una notte aspettò ch’egli fosse a letto, si vestì piano piano, andò a tentoni nello stanzino, riaccese il lume a petrolio, sedette alla scrivania, dov’era un mucchio di fasce bianche e l’elenco degli indirizzi, e cominciò a scrivere, rifacendo appuntino la scrittura di suo padre. E scriveva di buona voglia, contento, con un po’ di paura, e le fasce s’ammontavano, e tratto tratto egli smetteva la penna per fregarsi le mani, e poi ricominciava con più alacrità, tendendo l’orecchio, e sorrideva. Centosessanta ne scrisse: una lira! Allora si fermò, rimise la penna dove l’aveva presa, spense il lume, e tornò a letto, in punta di piedi. 
Quel giorno, a mezzodì, il padre sedette a tavola di buon umore. Non s’era accorto di nulla. Faceva quel lavoro meccanicamente, misurandolo a ore e pensando ad altro, e non contava le fasce scritte che il giorno dopo. Sedette a tavola di buonumore, e battendo una mano sulla spalla al figliuolo: «Eh, Giulio,» disse, «è ancora un buon lavoratore tuo padre, che tu credessi! In due ore ho fatto un buon terzo di lavoro più del solito, ieri sera. La mano è ancora lesta, e gli occhi fanno ancora il loro dovere.» E Giulio, contento, muto, diceva tra sé: “Povero babbo, oltre al guadagno, io gli dò ancora questa soddisfazione, di credersi ringiovanito. Ebbene, coraggio”.
Incoraggiato dalla buona riuscita, la notte appresso, battute le dodici, su un’altra volta, e al lavoro. E così fece per varie notti. E suo padre non s’accorgeva di nulla. Solo una volta, a cena, uscì in quest’esclamazione: «È strano, quanto petrolio va in questa casa da un po’ di tempo! Giulio ebbe una scossa; ma il discorso si fermò lì. E il lavoro notturno andò innanzi.»  

Senonché, a rompersi così il sonno ogni notte, Giulio non riposava abbastanza, la mattina si levava stanco, e la sera, facendo il lavoro di scuola, stentava a tener gli occhi aperti. Una sera, – per la prima volta in vita sua, – s’addormentò sul quaderno. «Animo! animo!» gli gridò suo padre, battendo le mani, «al lavoro!» Egli si riscosse e si rimise al lavoro. Ma la sera dopo, e i giorni seguenti, fu la cosa medesima, e peggio: sonnecchiava sui libri, si levava più tardi del solito, studiava la lezione alla stracca, pareva svogliato dello studio. Suo padre cominciò a osservarlo, poi a impensierirsi, e in fine a fargli dei rimproveri. Non glie ne aveva mai dovuto fare! «Giulio,» gli disse una mattina, «tu mi ciurli nel manico, tu non sei più quel d’una volta. Non mi va questo. Bada, tutte le speranze della famiglia riposano su di te. Io son malcontento, capisci!» A questo rimprovero, il primo veramente severo ch’ei ricevesse, il ragazzo si turbò. “E sì,” disse tra sé, “è vero; così non si può continuare; bisogna che l’inganno finisca”. Ma la sera di quello stesso giorno, a desinare, suo padre uscì a dire con molta allegrezza: «Sapete che in questo mese ho guadagnato trentadue lire di più che nel mese scorso, a far fasce!» e dicendo questo, tirò di sotto alla tavola un cartoccio di dolci, che aveva comprati per festeggiare coi suoi figliuoli il guadagno straordinario, e che tutti accolsero battendo le mani. E allora Giulio riprese animo, e disse in cuor suo: “No, povero babbo, io non cesserò d’ingannarti; io farò degli sforzi più grandi per studiar lungo il giorno; ma continuerò a lavorare di notte per te e per tutti gli altri”. E il padre soggiunse: «Trentadue lire di più! Son contento… Ma è quello là,» e indicò Giulio, «che mi dà dei dispiaceri.» E Giulio ricevé il rimprovero in silenzio, ricacciando dentro due lagrime che volevano uscire; ma sentendo ad un tempo nel cuore una grande dolcezza. 
E seguitò a lavorare di forza. Ma la fatica accumulandosi alla fatica, gli riusciva sempre più difficile di resistervi. La cosa durava da due mesi. Il padre continuava a rimbrottare il figliuolo e a guardarlo con occhio sempre più corrucciato. Un giorno andò a chiedere informazioni al maestro, e il maestro gli chiese: «Sì, fa, fa, perché ha intelligenza. Ma non ha più la voglia di prima. Sonnecchia, sbadiglia, è distratto. Fa delle composizioni corte, buttate giù in fretta, in cattivo carattere. Oh! potrebbe far molto, ma molto di più.» Quella sera il padre prese il ragazzo in disparte e gli disse parole più gravi di quante ei ne avesse mai intese. «Giulio, tu vedi ch’io lavoro, ch’io mi logoro la vita per la famiglia. Tu non mi assecondi. Tu non hai cuore per me, né per i tuoi fratelli, né per tua madre!» «Ah no! non lo dire, babbo!» gridò il figliuolo scoppiando in pianto, e aprì la bocca per confessare ogni cosa. Ma suo padre l’interruppe, dicendo: «Tu conosci le condizioni della famiglia; sai se c’è bisogno di buon volere e di sacrifici da parte di tutti. Io stesso, vedi, dovrei raddoppiare il mio lavoro. Io contavo questo mese sopra una gratificazione di cento lire alle strade ferrate, e ho saputo stamani che non avrò nulla!» A quella notizia, Giulio ricacciò dentro subito la confessione che gli stava per fuggire dall’anima, e ripeté risolutamente a sé stesso: “No, babbo, io non ti dirò nulla; io custodirò il segreto per poter lavorare per te; del dolore di cui ti son cagione, ti compenso altrimenti; per la scuola studierò sempre abbastanza da esser promosso; quello che importa è di aiutarti a guadagnar la vita, e di alleggerirti la fatica che t’uccide”. E tirò avanti, e furono altri due mesi di lavoro di notte e di spossatezza di giorno, di sforzi disperati del figliuolo e di rimproveri amari del padre. Ma il peggio era che questi s’andava via via raffreddando col ragazzo, non gli parlava più che di rado, come se fosse un figliuolo intristito, da cui non restasse più nulla a sperare, e sfuggiva quasi d’incontrare il suo sguardo. E Giulio se n’avvedeva, e ne soffriva, e quando suo padre voltava le spalle, gli mandava un bacio furtivamente, sporgendo il viso, con un sentimento di tenerezza pietosa e triste; e tra per il dolore e per la fatica, dimagrava e scoloriva, e sempre più era costretto a trasandare i suoi studi. E capiva bene che avrebbe dovuto finirla un giorno, e ogni sera si diceva:  “Questa notte non mi leverò più;” ma allo scoccare delle dodici, nel momento in cui avrebbe dovuto riaffermare vigorosamente il suo proposito, provava un rimorso, gli pareva, rimanendo a letto, di mancare a un dovere, di rubare una lira a suo padre e alla sua famiglia. E si levava, pensando che una qualche notte suo padre si sarebbe svegliato e l’avrebbe sorpreso, o che pure si sarebbe accorto dell’inganno per caso, contando le fasce due volte; e allora tutto sarebbe finito naturalmente, senza un atto della sua volontà, ch’egli non si sentiva il coraggio di compiere. E così continuava. 
Ma una sera, a desinare, il padre pronunciò una parola che fu decisiva per lui. Sua madre lo guardò, e parendole di vederlo più malandato e più smorto del solito, gli disse: «Giulio, tu sei malato.» E poi, voltandosi al padre, ansiosamente: «Giulio è malato. Guarda com’è pallido! Giulio mio, cosa ti senti?» Il padre gli diede uno sguardo di sfuggita, e disse: «È la cattiva coscienza che fa la cattiva salute. Egli non era così quando era uno scolaro studioso e un figliuolo di cuore.» «Ma egli sta male!» esclamò la mamma. «Non me ne importa più!» rispose il padre. 
Quella parola fu una coltellata al cuore per il povero ragazzo. Ah! non glie ne importava più. Suo padre che tremava, una volta, solamente a sentirlo tossire! Non l’amava più dunque, non c’era più dubbio ora, egli era morto nel cuore di suo padre… “Ah! no, padre mio,” disse tra sé il ragazzo, col cuore stretto dall’angoscia, “ora è finita davvero, io senza il tuo affetto non posso vivere, lo rivoglio intero, ti dirò tutto, non t’ingannerò più, studierò come prima; nasca quel che nasca, purché tu torni a volermi bene, povero padre mio! Oh questa volta son ben sicuro della mia risoluzione!”
Ciò non di meno, quella notte si levò ancora, per forza d’abitudine, più che per altro; e quando fu levato, volle andare a salutare, a riveder per qualche minuto, nella quiete della notte, per l’ultima volta, quello stanzino dove aveva tanto lavorato segretamente, col cuore pieno di soddisfazione e di tenerezza. E quando si ritrovò al tavolino, col lume acceso, e vide quelle fasce bianche, su cui non avrebbe scritto mai più quei nomi di città e di persone che oramai sapeva a memoria, fu preso da una grande tristezza, e con un atto impetuoso ripigliò la penna, per ricominciare il lavoro consueto. Ma nello stender la mano urtò un libro, e il libro cadde. Il sangue gli diede un tuffo. Se suo padre si svegliava! Certo non l’avrebbe sorpreso a commettere una cattiva azione, egli stesso aveva ben deciso di dirgli tutto; eppure… il sentir quel passo avvicinarsi, nell’oscurità; – l’esser sorpreso a quell’ora, in quel silenzio; – sua madre che si sarebbe svegliata e spaventata, – e il pensar per la prima volta che suo padre avrebbe forse provato un’umiliazione in faccia sua, scoprendo ogni cosa… tutto questo lo atterriva, quasi. – Egli tese l’orecchio, col respiro sospeso… Non sentì rumore. Origliò alla serratura dell’uscio che aveva alle spalle: nulla. Tutta la casa dormiva. Suo padre non aveva inteso. Si tranquillò. E ricominciò a scrivere. E le fasce s’ammontavano sulle fasce. Egli sentì il passo cadenzato delle guardie civiche giù nella strada deserta; poi un rumore di carrozza che cessò tutt’a un tratto; poi, dopo un pezzo, lo strepito d’una fila di carri che passavano lentamente; poi un silenzio profondo, rotto a quando a quando dal latrato lontano d’un cane. E scriveva, scriveva. E intanto suo padre era dietro di lui: egli s’era levato udendo cadere il libro, ed era rimasto aspettando il buon punto; lo strepito dei carri aveva coperto il fruscio dei suoi passi e il cigolio leggiero delle imposte dell’uscio; ed era là, – con la sua testa bianca sopra la testina nera di Giulio, – e aveva visto correr la penna sulle fasce, – e in un momento aveva tutto indovinato, tutto ricordato, tutto compreso, e un pentimento disperato, una tenerezza immensa, gli aveva invaso l’anima, e lo teneva inchiodato, soffocato là, dietro al suo bimbo. All’improvviso, Giulio diè un grido acuto, – due braccia convulse gli avevan serrata la testa. «O babbo! babbo, perdonami! Perdonami!»- gridò, riconoscendo suo padre al pianto. «Tu, perdonami!» rispose il padre, singhiozzando e coprendogli la fronte di baci, «ho capito tutto, so tutto, son io, son io che ti domando perdono, santa creatura mia, vieni, vieni con me!» E lo sospinse, o piuttosto se lo portò al letto di sua madre, svegliata, e glielo gettò tra le braccia e le disse: «Bacia quest’angiolo di figliuolo che da tre mesi non dorme e lavora per me, e io gli contristo il cuore, a lui che ci guadagna il pane!» La madre se lo strinse e se lo tenne sul petto, senza poter raccoglier la voce; poi disse: «A dormire, subito, bambino mio, va’ a dormire, a riposare! Portalo a letto!» Il padre lo pigliò fra le braccia, lo portò nella sua camera, lo mise a letto, sempre ansando e carezzandolo, e gli accomodò i cuscini e le coperte. «Grazie, babbo,» andava ripetendo il figliuolo, «grazie; ma va’ a letto tu ora; io sono contento; va’ a letto, babbo.» – Ma suo padre voleva vederlo addormentato, sedette accanto al letto, gli prese la mano e gli disse:  «Dormi, dormi figliuol mio!» E Giulio, spossato, s’addormentò finalmente, e dormì molte ore, godendo per la prima volta, dopo vari mesi, d’un sonno tranquillo, rallegrato da sogni ridenti; e quando aprì gli occhi, che splendeva già il sole da un pezzo, sentì prima, e poi si vide accosto al petto, appoggiata sulla sponda del letticciolo, la testa bianca del padre, che aveva passata la notte così, e dormiva ancora, con la fronte contro il suo cuore.

2016-07-12-19-39-34Illustrazione per Il piccolo scrivano fiorentino

E’ evidente in questo racconto come il nostro spinga la tonalità verso il versante sentimentale e lo fa attraverso una struttura ripetitiva che accentua la suspense da parte del lettore che, pur sapendo come il racconto va a finire, vuole sapere il modo attraverso cui questa chiusura avverrà. Per far questo, all’interno di una struttura composta da solo tre personaggi, di cui solo due fortemente caratterizzati, padre e figlio, (la madre è una narratologicamente parlando, comparsa), l’autore “onnisciente” fa sì che il lettore sappia lo sforzo del giovane per aiutare il padre, sforzo che, che colpendo la capacità di concentrazione va a ledere la sua capacità scolastica, suscita l’ira paterna. Tale struttura si ripete per tutto il racconto, spezzata dai pensieri del giovane che per vari motivi si trova  nell’impossibilità di confessare il suo lavoro notturno, pur pagandolo con il disinteresse paterno per i suoi insuccessi da scolaro. La soluzione, un po’ meccanica, non può essere che fortuita, un rumore prodotto, il padre che si accorge del lavoro del figlio, ed il perdono che si chiude con un’immagine decisamente “emotiva”: la fronte contro il suo cuore; ecco che De Amicis in poche pagine riassume l’intento pedagogico: abnegazione del lavoro fino al sacrificio per salvaguardare l’unità e l’amore familiare; tale capacità “pedagogica” altre volte verrà piegata a sottolineare l’amor di patria e l’amore per il re, l’interclassismo e il rispetto verso i più poveri, il filantropismo.

Più interessante è certamente Pinocchio, di Carlo Collodi:

Carlo_Collodi_1.jpgCarlo Collodi

Collodi (Carlo Lorenzini) nasce a Firenze nel 1826 da genitori di modesta condizione economica, primogenito di ben 19 figli. La mamma Angiolina era la figlia del fattore dei marchesi Ginori che possedevano un podere a Collodi, paese toscano che ispirò lo scrittore per il suo pseudonimo. Giovane studiò, entrando in seminario: non diventò prete, ma ricevette una buona istruzione. Interruppe gli studi superiori nel 1844, ma aveva già cominciato a lavorare come commesso nella libreria Piatti di Firenze probabilmente fin dal 1843. Nel 1847 collaborò all’Italia Musicale, giornale milanese di cui divenne ben presto una delle firme di maggior richiamo. Arruolatosi volontario partecipò sia alla prima che alla seconda guerra d’indipendenza. Dopo l’unità, contemporaneamente alla partecipazione di giornali comici e satirici, cominciò ad interessarsi alla letteratura per l’infanzia che culmineranno nel 1875 con I racconti delle fate, cui seguiranno Giannettino e Minuzzolo. Nel 1881 uscì su Il giornale dei bambini la prima puntata de Le avventure di Pinocchio con il titolo Storia di un burattino, che vide la luce in volume nel 1883. All’apice del successo, nel 1890, colpito da un aneurisma muore a 64 anni. Viene sepolto nel Cimitero delle Porte Sante a Firenze.

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Il falegname Geppetto con un pezzo di legno «che piangeva e rideva come un bambino» costruisce il burattino Pinocchio, il quale parla, cammina e si muove come un vero bambino e si rivela subito un autentico discolo. Dopo aver schiacciato il Grillo parlante, di cui non gradiva i saggi consigli, vende l’abbecedario, che Geppetto gli ha comprato sacrificando la sua casacca, per andare al teatro dei burattini; ivi il burattinaio Mangiafuoco, prima lo minaccia poi gli regala cinque monete d’oro. Ma Pinocchio, invece di portarle a Geppetto, si lascia abbindolare e derubare da il Gatto e la Volpe, che lo impiccano; lo salva la Fata dai capelli turchini. Dopo essersi fatto di nuovo derubare dal Gatto e dalla Volpe e aver subito altre disavventure (fra l’altro viene imprigionato e rimane preso nella tagliola di un contadino che lo obbliga a far da cane da guardia) ritrova la Fata e sembra voler mettere giudizio. Ma le complicazioni non sono finite: Pinocchio prima corre il rischio di finire nuovamente in prigione e poi di venir fritto in padella da un pescatore; parte in seguito col suo amico Lucignolo per il Paese dei Balocchi; qui, passati cinque mesi di continua baldoria, si trasforma in asino. Viene allora comprato dal direttore di una compagnia di pagliacci; azzoppatosi durante uno spettacolo, è venduto ad un uomo che vorrebbe fare della sua pelle un tamburo; tenta perciò di annegarlo, ma i pesci divorano l’involucro asinino e Pinocchio, tornato burattino, fugge a nuoto. In mare viene inghiottito dal pescecane, nel cui ventre incontra Geppetto, il quale, messosi in viaggio per cercarlo, aveva fatto naufragio ed era stato a sua volta inghiottito. I due fuggono dalla bocca spaventata del pescecane e si mettono in salvo. Ammaestrato dalle sue esperienze, Pinocchio mette giudizio, comincia a lavorare per mantenere Geppetto e si mette anche a studiare: ormai è diventato buono, e la conclusione è che una bella mattina si sveglia trasformato in un ragazzo.

C’ERA UNA VOLTA

I.
Come andò che maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino.

C’era una volta…
«Un re!» diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce: «Questo legno è capitato a tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino». Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo, ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentì una vocina sottile, che disse raccomandandosi: «Non mi picchiar tanto forte!»
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!
Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco, e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; apri l’uscio di bottega per dare un’occhiata anche sulla strada, e nessuno! O dunque?…
«Ho capito;» disse allora ridendo e grattandosi la parrucca, «si vede che quella vocina me la sono figurata io. Rimettiamoci a lavorare». E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solennissimo colpo sul pezzo di legno.
«Ohi! tu m’hai fatto male!» gridò rammaricandosi la solita vocina.
Questa volta maestro Ciliegia restò di stucco, cogli occhi fuori del capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua giù ciondoloni fino al mento, come un mascherone da fontana.
Appena riebbe l’uso della parola, cominciò a dire tremando e balbettando dallo spavento: «Ma di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?… Eppure qui non c’è anima viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Io non lo posso credere. Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto, come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di fagioli… O dunque? Che ci sia nascosto dentro qualcuno? Se c’è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l’accomodo io! E così dicendo, agguantò con tutt’e due le mani quel povero pezzo di legno e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della stanza. Poi si messe in ascolto, per sentire se c’era qualche vocina che si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla!
«Ho capito,» disse allora sforzandosi di ridere e arruffandosi la parrucca, «si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la sono figurata io! Rimettiamoci a lavorare».
E perché gli era entrata addosso una gran paura, si provò a canterellare per farsi un po’ di coraggio.
Intanto, posata da una parte l’ascia, prese in mano la pialla, per piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava in su e in giù, senti la solita vocina che gli disse ridendo: «Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo! Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato. Quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra. Il suo viso pareva trasfigurato, e perfino la punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.»

L’incipit delle favole è rovesciato, al c’era una volta un re… si sostituisce il c’era una volta un pezzo di legno. Per il resto da questo rovesciamento deriva la capacità di Collodi di tenersi in un perfetto equilibrio tra il “realismo” dell’ambientazione (la piccola bottega di un falegname) la “maschera” del teatro dell’arte (maestro Ciligia, caratterizzato dal naso paonazzo e la parrucca) e il fantastico con il legno parlante.

maxresdefault.jpgMastro Ciliegia e Geppetto nel Pinocchio di Comencini

Stilisticamente l’opera si basa sulla paratassi, nel registro di un fiorentino parlato, con l’intenzione assolutamente mimetica, affinché vi fosse, sin dall’inizio, capacità di adesione totale tra la “favola” raccontata ed i suoi piccoli (non solo) lettori.

III
Geppetto, tornato a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino e gli mette il nome di Pinocchio. Prime monellerie del burattino.

La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero. Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino. «Che nome gli metterò?» disse fra sé e sé. «Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.» Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a lavorare a buono, e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi. Fatti gli occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accorse che gli occhi si muovevano e che lo guardavano fisso fisso. Geppetto, vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n’ebbe quasi per male, e disse con accento risentito: «Occhiacci di legno, perché mi guardate?» Nessuno rispose. Allora, dopo gli occhi, gli fece il naso; ma il naso, appena fatto, cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai. Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo. Dopo il naso, gli fece la bocca. La bocca non era ancora finita di fare, che cominciò subito a ridere e a canzonarlo. «Smetti di ridere!» disse Geppetto impermalito; ma fu come dire al muro. «Smetti di ridere, ti ripeto!» urlò con voce minacciosa. Allora la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori tutta la lingua. Geppetto, per non guastare i fatti suoi, finse di non avvedersene, e continuò a lavorare. Dopo la bocca, gli fece il mento, poi il collo, le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani. Appena finite le mani, Geppetto senti portarsi via la parrucca dal capo. Si voltò in su, e che cosa vide? Vide la sua parrucca gialla in mano del burattino.  «Pinocchio!… rendimi subito la mia parrucca!» E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la messe in capo per sé, rimanendovi sotto mezzo affogato. A quel garbo insolente e derisorio, Geppetto si fece triste e melanconico, come non era stato mai in vita sua, e voltandosi verso Pinocchio, gli disse: «Birba d’un figliuolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male! E si rasciugò una lacrima.» Restavano sempre da fare le gambe e i piedi. Quando Geppetto ebbe finito di fargli i piedi, sentì arrivarsi un calcio sulla punta del naso. «Me lo merito!» disse allora fra sé. «Dovevo pensarci prima! Ormai è tardi!» Poi prese il burattino sotto le braccia e lo posò in terra, sul pavimento della stanza, per farlo camminare. Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un passo dietro l’altro. Quando le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare. E il povero Geppetto a corrergli dietro senza poterlo raggiungere, perché quel birichino di Pinocchio andava a salti come una lepre, e battendo i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un fracasso, come venti paia di zoccoli da contadini. «Piglialo! piglialo!» urlava Geppetto; ma la gente che era per la via, vedendo questo burattino di legno, che correva come un barbero, si fermava incantata a guardarlo, e rideva, rideva e rideva, da non poterselo figurare. Alla fine, e per buona fortuna, capitò un carabiniere, il quale, sentendo tutto quello schiamazzo e credendo si trattasse di un puledro che avesse levata la mano al padrone, si piantò coraggiosamente a gambe larghe in mezzo alla strada, coll’animo risoluto di fermarlo e di impedire il caso di maggiori disgrazie. Ma Pinocchio, quando si avvide da lontano del carabiniere che barricava tutta la strada, s’ingegnò di passargli, per sorpresa, frammezzo alle gambe, e invece fece fiasco. Il carabiniere, senza punto smoversi, lo acciuffò pulitamente per il naso (era un nasone spropositato, che pareva fatto apposta per essere acchiappato dai carabinieri), e lo riconsegnò nelle proprie mani di Geppetto; il quale, a titolo di correzione, voleva dargli subito una buona tiratina d’orecchi. Ma figuratevi come rimase quando, nel cercargli gli orecchi, non gli riuscì di poterli trovare: e sapete perché? Perché, nella furia di scolpirlo, si era dimenticato di farglieli. Allora lo prese per la collottola, e, mentre lo riconduceva indietro, gli disse tentennando minacciosamente il capo:  «Andiamo a casa. Quando saremo a casa, non dubitare che faremo i nostri conti!» Pinocchio, a questa antifona, si buttò per terra, e non volle più camminare. Intanto i curiosi e i bighelloni principiavano a fermarsi lì dintorno e a far capannello. Chi ne diceva una, chi un’altra. «Povero burattino!» dicevano alcuni, «ha ragione a non voler tornare a casa! Chi lo sa come lo picchierebbe quell’omaccio di Geppetto!…» E gli altri soggiungevano malignamente: «Quel Geppetto pare un galantuomo! ma è un vero tiranno coi ragazzi! Se gli lasciano quel povero burattino fra le mani, è capacissimo di farlo a pezzi!… Insomma, tanto dissero e tanto fecero, che il carabiniere rimise in libertà Pinocchio e condusse in prigione quel pover’uomo di Geppetto. Il quale, non avendo parole lì per lì per difendersi, piangeva come un vitellino, e nell’avviarsi verso il carcere, balbettava singhiozzando: «Sciagurato figliuolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!…» Quello che accadde dopo, è una storia da non potersi credere, e ve la racconterò in quest’altri capitoli.

Untitled-5-2Pinocchio nel film di Garrone

Anche con questo breve capitoletto Collodi ci induce ad individuare sin dalle prime descrizioni, con un dialogo fortemente caratterizzato a rendere più efficace la struttura teatrale, il carattere dei personaggi: il rassegnato Geppetto, la cui bonarietà lo porterà a pagare una colpa non sua, ed il discolo burattino Pinocchio. Il fatto che sia discolo, permetterà all’autore di farlo imbattere in diverse disavventure che, in una struttura quale quella del romanzo d’appendice, potranno ampliarsi durante la pubblicazione a puntate sul giornale; ma anche di prospettare una “rieducazione” che permetterà al romanzo di perseguire l’intento pedagogico, fondamentale nella letteratura per ragazzi.

XXXV
Pinocchio ritrova in corpo al Pesce-cane… Chi ritrova? Leggete questo capitolo e lo saprete.

Pinocchio, appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel buio, e cominciò a camminare a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, avviandosi un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano.
E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto che gli pareva di essere a mezza quaresima. E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato… che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.
A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:
«Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!»
«Dunque gli occhi mi dicono il vero?» replicò il vecchietto stropicciandosi gli occhi,  «Dunque tu sé proprio il mi’ caro Pinocchio?»
«Sì, sì, sono io, proprio io! E voi mi avete digià perdonato, non è vero? Oh! babbino mio, come siete buono!… e pensare che io, invece… Oh! ma se sapeste quante disgrazie mi son piovute sul capo e quante cose mi son andate per traverso! Figuratevi che il giorno che voi, povero babbino, col vendere la vostra casacca mi compraste l’Abbecedario per andare a scuola, io scappai a vedere i burattini, e il burattinaio mi voleva mettere sul fuoco perché gli cocessi il montone arrosto, che fu quello poi che mi dette cinque monete d’oro, perché le portassi a voi, ma io trovai la Volpe e il Gatto, che mi condussero all’osteria del Gambero Rosso dove mangiarono come lupi, e partito solo di notte incontrai gli assassini che si messero a corrermi dietro, e io via, e loro dietro, e io via e loro sempre dietro, e io via, finché m’impiccarono a un ramo della Quercia grande, dovecché la bella Bambina dai capelli turchini mi mandò a prendere con una carrozzina, e i medici, quando m’ebbero visitato, dissero subito: “Se non è morto, è segno che è sempre vivo”, e allora mi scappò detto una bugia, e il naso cominciò a crescermi e non mi passava più dalla porta di camera, motivo per cui andai con la Volpe e col Gatto a sotterrare le quattro monete d’oro, che una l’avevo spesa all’osteria, e il pappagallo si messe a ridere, e viceversa di duemila monete non trovai più nulla, la quale il giudice quando seppe che ero stato derubato, mi fece subito mettere in prigione, per dare una soddisfazione ai ladri, di dove, col venir via, vidi un bel grappolo d’uva in un campo, che rimasi preso alla tagliola e il contadino di santa ragione mi messe il collare da cane perché facessi la guardia al pollaio, che riconobbe la mia innocenza e mi lasciò andare, e il Serpente, colla coda che gli fumava, cominciò a ridere e gli si strappò una vena sul petto e così ritornai alla Casa della bella Bambina, che era morta, e il Colombo vedendo che piangevo mi disse: “Ho visto il tu’ babbo che si fabbricava una barchettina per venirti a cercare”, e io gli dissi: “Oh! se avessi l’ali anch’io”, e lui mi disse: “Vuoi venire dal tuo babbo?”, e io gli dissi: “Magari! ma chi mi ci porta”, e lui mi disse: “Ti ci porto io”, e io gli dissi: “Come?”, e lui mi disse: “Montami sulla groppa”, e così abbiamo volato tutta la notte, e poi la mattina tutti i pescatori che guardavano verso il mare mi dissero: “C’è un pover’uomo in una barchetta che sta per affogare”, e io da lontano vi riconobbi subito, perché me lo diceva il core, e vi feci cenno di tornare alla spiaggia…
«Ti riconobbi anch’io,» disse Geppetto, «e sarei volentieri tornato alla spiaggia: ma come fare? Il mare era grosso e un cavallone m’arrovesciò la barchetta. Allora un orribile Pesce-cane che era lì vicino, appena m’ebbe visto nell’acqua corse subito verso di me, e tirata fuori la lingua, mi prese pari pari, e m’inghiottì come un tortellino di Bologna.»
«E quant’è che siete chiuso qui dentro?» domandò Pinocchio.
«Da quel giorno in poi, saranno oramai due anni: due anni, Pinocchio mio, che mi son parsi due secoli!»
«E come avete fatto a campare? E dove avete trovata la candela? E i fiammiferi per accenderla, chi ve li ha dati?»
«Ora ti racconterò tutto. Devi dunque sapere che quella medesima burrasca, che rovesciò la mia barchetta, fece anche affondare un bastimento mercantile. I marinai si salvarono tutti, ma il bastimento colò a fondo e il solito Pesce-cane, che quel giorno aveva un appetito eccellente, dopo aver inghiottito me, inghiottì anche il bastimento…» «Come? Lo inghiottì tutto in un boccone?…» domandò Pinocchio maravigliato.
«Tutto in un boccone: e risputò solamente l’albero maestro, perché gli era rimasto fra i denti come una lisca. Per mia gran fortuna, quel bastimento era carico di carne conservata in cassette di stagno, di biscotto, ossia di pane abbrostolito, di bottiglie di vino, d’uva secca, di cacio, di caffè, di zucchero, di candele steariche e di scatole di fiammiferi di cera. Con tutta questa grazia di Dio ho potuto campare due anni: ma oggi sono agli ultimi sgoccioli: oggi nella dispensa non c’è più nulla, e questa candela, che vedi accesa, è l’ultima candela che mi sia rimasta…»
«E dopo?…»
«E dopo, caro mio, rimarremo tutt’e due al buio.»
«Allora, babbino mio», disse Pinocchio, «non c’è tempo da perdere. Bisogna pensar subito a fuggire…»
«A fuggire?… e come?»
«Scappando dalla bocca del Pesce-cane e gettandosi a nuoto in mare.»
«Tu parli bene: ma io, caro Pinocchio, non so nuotare.»
«E che importa?… Voi mi monterete a cavalluccio sulle spalle e io, che sono un buon nuotatore, vi porterò sano e salvo fino alla spiaggia.»
«Illusioni, ragazzo mio!» replicò Geppetto, scotendo il capo e sorridendo malinconicamente.
«Ti par egli possibile che un burattino, alto appena un metro, come sei tu, possa aver tanta forza da portarmi a nuoto sulle spalle?»
«Provatevi e vedrete! A ogni modo, se sarà scritto in cielo che dobbiamo morire, avremo almeno la gran consolazione di morire abbracciati insieme.»
E senza dir altro, Pinocchio prese in mano la candela, e andando avanti per far lume, disse al suo babbo: «Venite dietro a me, e non abbiate paura. E così camminarono un bel pezzo, e traversarono tutto il corpo e tutto lo stomaco del Pesce-cane. Ma giunti che furono al punto dove cominciava la gran gola del mostro, pensarono bene di fermarsi per dare un’occhiata e cogliere il momento opportuno alla fuga.
Ora bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo molto vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormir a bocca aperta: per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.
«Questo è il vero momento di scappare,» bisbigliò allora voltandosi al suo babbo. «Il Pescecane dorme come un ghiro: il mare è tranquillo e ci si vede come di giorno. Venite dunque, babbino, dietro a me e fra poco saremo salvi. Detto fatto, salirono su per la gola del mostro marino, e arrivati in quell’immensa bocca cominciarono a camminare in punta di piedi sulla lingua; una lingua così larga e così lunga, che pareva il viottolone d’un giardino. E già stavano lì lì per fare il gran salto e per gettarsi a nuoto nel mare, quando, sul più bello, il Pesce-cane starnutì, e nello starnutire, dette uno scossone così violento, che Pinocchio e Geppetto si trovarono rimbalzati all’indietro e scaraventati novamente in fondo allo stomaco del mostro. Nel grand’urto della caduta la candela si spense, e padre e figliuolo rimasero al buio.
«E ora?…» domandò Pinocchio facendosi serio.
«Ora ragazzo mio, siamo bell’e perduti.»
«Perché perduti? Datemi la mano, babbino, e badate di non sdrucciolare!..».
«Dove mi conduci?»
«Dobbiamo ritentare la fuga. Venite con me e non abbiate paura.»
Ciò detto, Pinocchio prese il suo babbo per la mano: e camminando sempre in punta di piedi, risalirono insieme su per la gola del mostro: poi traversarono tutta la lingua e scavalcarono i tre filari di denti.
Prima però di fare il gran salto, il burattino disse al suo babbo: «Montatemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io. Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle del figliuolo, Pinocchio, sicurissimo del fatto suo, si gettò nell’acqua e cominciò a nuotare. Il mare era tranquillo come un olio: la luna splendeva in tutto il suo chiarore e il Pesce-cane seguitava a dormire di un sonno così profondo, che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata.

unnamed (2).jpgErnesto Favaretti: Pinocchio nella pancia della balena

“La descrizione dell’esperienza di Pinocchio nel ventre del pescecane è modellata sull’archetipo biblico di Giona nel ventre della balena, tante volte imitato in letteratura. Nella Bibbia, però, l’episodio è sapienziale: nella solitudine e nell’isolamento Giona medita sul significato dell’esistenza. Collodi trasforma, invece, il modello in chiave avventurosa: se è pur vero che si tratta del momento finale del cammino di ravvedimento del burattino, sono del tutto assenti l’indagine psicologica e la meditazione morale e filosofica, mentre si affacciano ingredienti che richiamano piuttosto i romanzi d’avventura. Ad esempio, la nave inghiottita dalla tempesta e fortunosamente a disposizione di Geppetto con le sue provviste proviene chiaramente dal Robinson Crusoe di Defoe. E avventuroso è il racconto della fuga dalla bocca del pescecane” (Barbéri Squarotti).

Non mancano in questo episodio inoltre elementi ironici e fiabeschi: il pescecane che soffre d’asma e la tavola apparecchiata di Geppetto. Quello che cambia rispetto al resto del romanzo è il ripercorrere le avventure di Pinocchio (tipico di chi pubblica a puntate a richiamare nella memoria del lettore quanto già letto precedentemente) e l’atteggiamento di “ravvedimento” di Pinocchio che sta per diventare un bero e proprio bambino.

1200px-Pinochio2_1940Il Pinocchio di Disney

Quello che rende questo racconto un vero e proprio capolavoro della letteratura italiana, apprezzato e diffuso in tutto il mondo è, per quanto ci riguarda, l’aver colmato una mancanza nelle nostre lettere che è quella del romanzo picaresco, cioè la storia di un ragazzo povero che attraverso disavventure prende consapevolezza di sé, maturando e diventando uomo (il più famoso è lo spagnolo Lazarillo de Tormes di autore ignoto del 1554). Ma Pinocchio è anche un romanzo di formazione, che rappresenta la presa di coscienza di un ragazzo che da discolo diventa rispettoso verso il padre e quindi le istituzioni (non diversamente da Cuore), ma ancora è un romanzo sociale: la pèovertà degli ambienti – quelli chiaramente realistici e non fantastici – ci offrono il quadro di una società rurale con tutte le loro difficoltà. Ma, obbedendo alla struttura della favola, ed non avendoci né tempo né spazio parla ai bambini di tutto il mondo come ha dimostrato Walt Disney ed il suo film di grande successo.