DIVINA COMMEDIA: PARADISO


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Il Paradiso Dante lo scrive negli ultimi sei anni della sua vita, dal 1315 al 1321, anni in cui il poeta fiorentino si era trovato dapprima a Verona, sotto il magnanimo Cangrande della Scala e in seguito, più precisamente gli ultimi tre anni, da Guido da Polenta, a Ravenna dove spirò a causa di febbri malariche.

Il Paradiso rappresenta un cantico la cui scrittura prevedeva una serie di difficoltà maggiori rispetto alle due che l’avevano preceduta, la prima delle quali è certamente quella di non essere “fisicamente tangibile”: se l’inferno presenta un vero e proprio luogo, con fiumi da attraversare, pareti da ascendere (si pensi alla necessità di un vero e proprio “ascensore” quale quello di Gerione che trasporta Dante nel fondo del baratro, o ancora alla ricerca di un varco per salire i balzi purgatoriali, immaginati proprio come se si trovassero in una erta montagna), il Paradiso è un luogo che non esiste nella realtà immaginativa perché tutto comprende.

Un altro aspetto è certamente quello dell’incontro del poeta con le anime, anime che, essendo tutte beate, risiedono nell’unico luogo (seppur più lontane o vicine a Dio secondo il grado di felicità) loro destinato che è l’Empireo. Ciò dovrebbe far venir meno la gradualità dell’incontro, ma Dante lo risolve attraverso l’escamotage per cui sono le anime che scendono, spinte dalla carità, incontro a Dante, nel cielo che meglio le caratterizza e parlano con lui in un dialogo un po’ surreale, in quanto esse conoscono perfettamente che ciò che Dante chiede perché lo leggono precedentemente nella mente di Dio che tutto sa.

Il lettore, che segue le vicende del Dante agens, si rende conto del suo ascendere attraverso un processo luminoso: egli osserva l’intensificarsi dell’intensità della luce negli occhi di Beatrice: tale facoltà, che prescinde quella umana, fa sì che Dante viva un’esperienza oltre l’umano. Ma questo essere oltre l’umano non permette nel contempo a Dante di riportare con parole umane ciò che ha vissuto, perché ciò che ha visto è inesprimibile e perché lo deve riportare ad esperienza vissuta, quindi nel ricordo che è esso stesso facoltà umana, di contro all’esperienza divina.

Per ciò lo stile del Paradiso, oltre che naturaliter  “elevato” è fortemente lirico: non vi è alcuna azione descrittiva, ma solo l’impressione che l’io riporta nel suo animo.

A livello strutturale il Paradiso si configura in 7 cieli, rispettivamente quelli della Luna (spiriti che mancarono i voti), di Mercurio (spiriti attivi per desiderio di gloria), di Venere (spiriti amanti), del Sole (spiriti dei sapienti), di Marte (spiriti militanti), di Giove (spiriti dei giusti), di Saturno (spiriti contemplativi).

A questi si aggiunge l’VIII cielo che non contiene spiriti e che gira più lentamente degli altri e riceve l’impulso del movimento dal IX cielo dal cielo primo mobile. L’ultimo “luogo”, il X, ma che invero costituisce l’intero Paradiso è l’Empireo, sede di Dio.

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CANTO I
(Paradiso terrestre – Sfera del fuoco)

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.
Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.
O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra’ mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.
Sì rade volte, padre, se ne coglie
per trïunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l’umane voglie,
che parturir letizia in su la lieta
delfica deïtà dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta.
Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda.
Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.
Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l’altra parte nera,
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aguglia sì non li s’affisse unquanco.
E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,
così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.
Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l’umana spece.
Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
com’ ferro che bogliente esce del foco;
e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno.
Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.

S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e ’l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.
Ond’ella, che vedea me sì com’io,
a quïetarmi l’animo commosso,
pria ch’io a dimandar, la bocca aprio
e cominciò: “Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l’avessi scosso.
Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch’ad esso riedi”.
S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu’ inretito
e dissi: “Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com’io trascenda questi corpi levi”.
Ond’ella, appresso d’un pïo sospiro,
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro,
e cominciò: “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.
Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;
né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’arco saetta,
ma quelle c’ hanno intelletto e amore.
La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto
nel qual si volge quel c’ ha maggior fretta;
e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.
Vero è che, come forma non s’accorda
molte fïate a l’intenzion de l’arte,
perch’a risponder la materia è sorda,
così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;
e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
l’atterra torto da falso piacere.
Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo.
Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’a terra quïete in foco vivo”.
Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.

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La gloria di Dio, che tutto muove, si diffonde in tutto l’universo, risplendendo in alcuni luoghi di più ed in altri di meno. Nel cielo che riceve più della sua luce, l’Empireo,  arrivai, e vidi là cose che raccontare non sa né può chi da lassù scende sulla terra; perché avvicinandosi tanto all’oggetto del suo desiderio, la nostra mente si addentra tanto nel mistero di Dio, che la memoria non riesce a tenergli dietro. Ciononostante, quanto del regno di Dio riuscii a raccogliere allora nella mia memoria, sarà ora argomento di questa nuova cantica. Oh buon Apollo, per questa ultima fatica, fammi ricettacolo del tuo valore, quanto ne richiedi per offrire la tanto desiderata corona d’alloro. Fino a questo punto l’aiuto delle Muse, che abitano una cima del monte Parnaso, mi è stato più che sufficiente; ma ora è bene che affronti con entrambe le cime (Nisa e Cirra) la prova ancora da superare. Entra nel mio petto, nel mio cuore, ed ispirami con quella potenza con cui Marsia, da te sconfitto nel canto, scorticasti poi delle sua stessa pelle. Oh virtù divina, se mi sostieni tanto che io possa descrivere l’immagine del regno dei beati, rimasta impressa nella mia memoria, mi vedrai arrivare ai piedi del tuo sacro alloro, ed incoronarmi con le foglie delle quali mi renderanno degno l’argomento trattato e tu stesso. Sono così rare le volte, Apollo, in cui si colgono dei rami dalla tua pianta per celebrare il trionfo di un imperatore o di un poeta, per colpa dei vergognosi desideri umani, tanto che dovrebbe dare felicità al sereno dio di Delfi, il fatto che il ramo peneio (di alloro, in quanto Dafne, trasformata in alloro, era la figlia del fiume Peneo) sia tanto desiderato da qualcuno. Talvolta una piccola scintilla genera un grande incendio: forse dopo di me, con un canto migliore, invocheranno Apollo, che abita l’altra cima, Cirra, affinché risponda. Sorge sulla gente mortale da diversi punti, a seconda della stagione, il Sole, luce del mondo;  ma quando sorge da quel punto, ad oriente, in cui si congiungono i quattro cerchi dell’equatore, durante gli equinozi, formando tre croci, da una migliore stagione e da costellazioni più favorevoli è allora accompagnato, e la Terra, come fosse cera, plasma e segna nella maniera più efficace. Là, in quella parte, sul Purgatorio, nel punto in cui si trovavano Dante e Beatrice, (emisfero australe) era sorto il mattino mentre qua, sulla Terra (emisfero boreale), in cui sono io, era calata la sera; quasi completamente illuminato era quell’emisfero mentre l’altro era ormai buio, quando mi accorsi che Beatrice era rivolta alla sua sinistra e guardava il sole: nessuna aquila lo fissò mai tanto intensamente. E come un raggio riflesso deriva necessariamente da quello originario e risale verso l’alto, allo stesso modo di un falco pellegrino che vuole tornare in quota dopo la picchiata, così, dal gesto di Beatrice, penetrato nella mia fantasia attraverso gli occhi, derivò un mio eguale gesto, e fissai quindi anche io lo sguardo al sole, oltre ogni possibilità umana. Molte cose sono là consentite che qui invece non sono permesse alle nostre facoltà, in grazia di quel luogo creato da Dio come dimora propria dell’umanità. Io non resistetti molto alla luce, ma non così poco da non vedere il sole mandare intorno scintille infuocate, come il ferro quando viene tolto ancora incandescente dal fuoco; ed subito mi sembrò che l’intensità della luce del giorno raddoppiasse, come se Dio, che tutto può, avesse fatto dono al cielo di un altro sole. Beatrice teneva fissi ai cieli i propri occhi; ed io fissai i miei nei suoi, dopo aver dopo averlo allontanato dal sole. Guardandola provai dentro di me una sensazione simile a quella che provò Glauco mentre assaporava l’erba che lo rese un Dio, compagno delle altre divinità marine. L’atto di elevarsi sopra i limiti umani non può essere descritto con le parole; basti perciò l’esempio di Glauco a coloro ai quali la grazia divina concederà di provare tale esperienza. Se in quel momento ero solamente ciò che avevi creato di me per ultimo (cioè l’anima), oh Dio che regni nei cieli, lo sai tu, dal momento che sei stato tu ad innalzarmi al cielo con la tua luce. Quando il moto circolare dei cieli, che rendi perpetuo con il desiderio di te, ebbe richiamato su di sé la mia attenzione con quella sua musica che tu regoli e moduli, mi sembrò che la luce del sole accendesse una parte del cielo ben più grande di quella occupata da qualsiasi lago, formato dalla pioggia o da un fiume. La novità del suono e l’intensa luce suscitarono in me un forte desiderio di conoscerne la ragione, più forte di quanto avessi mai provato. Per cui Beatrice, che capiva i miei pensieri così come me stesso, per calmare il mio animo turbato, prima ancora che io potessi domandare, aprì la bocca ed iniziò a spiegare: «Tu stesso ottundi la tua mente con false supposizioni, così da non riuscire poi a vedere ciò che vedresti senza quel pensiero sbagliato. Non ti trovi in questo momento sulla Terra, così come credi; ma un fulmine, allontanandosi dal suo punto di origine, non si mosse mai tanto velocemente quanto tu ti stai movendo adesso verso il Paradiso.» Se fui allora liberato dal primo dubbio, grazie a quelle poche parole pronunciate da una sorridente Beatrice, fui però successivamente colto da un nuovo dubbio e dissi quindi: «Sono ormai soddisfatto rispetto alla mia più grande perplessità; ma mi stupisco ora di come possa, con ancora il peso del corpo, levarmi attraverso questi corpi leggeri.»Per cui lei, dopo un lungo sospiro di pietà, alzò i propri occhi verso di me con uno sguardo simile a quello con cui una madre si rivolge al proprio figlio colto dalla febbre, cominciò quindi a dire: «Tutte le cose esistenti sono sottoposte ad un ordine, che è il principio che rende l’universo somigliante a Dio. In quell’ordine le creature superiori vedono l’impronta, il segno, della potenza di Dio, che è anche il fine ultimo a cui aspira l’ordine stesso a cui accenno. In questo universo ordinato del quale parlo, ricevono una certa predisposizione tutte le creature, a seconda delle loro diverse condizioni, più o meno vicine al loro creatore, a Dio; perciò esse si dirigono verso destinazioni differenti, attraverso il grande mare della vita, ciascuna creatura guidata dall’istinto a lei assegnato. Quest’ordine spinge il fuoco a salire verso il cielo della luna; questo regola le funzioni vitali negli esseri privi di ragione; che tiene unita e compatta la terra; ma non soltanto le creature prive di ragione sono spinte da quest’ordine verso il loro fine, ma anche le creature dotate di intelligenza e di volontà. La provvidenza divina, che è ha capo di questo ordine, con la propria luce rende appagato il cielo dell’Empireo, nel quale ruota la più veloce delle sfere celesti; ed ora lì, nell’Empireo, luogo ordinato come nostro fine, che ci porta la potenza di quella predisposizione, di quell’ordine provvidenziale, che indirizza ogni creatura verso il proprio fine, che sarà per essa fonte di gioia. È comunque vero che il risultato non corrisponde molte volte a quella che era l’intenzione dell’artefice, perché la materia non è disposta a comprenderla, e così a volte si allontana da questo ordine naturale l’uomo, avendo il potere di rivolgersi altrove, pur essendo stato indirizzato verso il bene; e così come è possibile vedere cadere il fuoco in forma di saetta da una nube, allo stesso modo l’inclinazione naturale rivolge verso terra l’uomo, naturalmente spinto verso il cielo, quando è traviato una falsa immagine del bene. Non devi quindi meravigliarti, come credo tu faccio, del fatto che stai salendo al cielo, più di quanto tu possa farlo per il fatto che un fiume scenda dall’alto di un monte fino a valle. Ti saresti dovuto piuttosto meravigliare se, libero da ogni impedimento, tu fossi rimasto inchiodato giù, come un fuoco vivo che rimane quieta a terra.» Detto questo, rivolse quindi al cielo il proprio viso.
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Già dalle prime parole del testo ci accorgiamo della diversa costruzione del canto, determinata dall’elevatezza del contenuto e del tono con cui si esprime. Basti per tutto a confrontarli con gli altri due incipit: se per l’Inferno bastavano le sole Muse, nel Purgatorio vi era la necessità che fosse Calliope, musa della poesia epica, ma qui occorre il dio della poesia stessa che con ambedue le ispirazioni, la terrena e la divina, rappresentate metaforicamente dalle due cime del monte Parnaso, lo sovvenga a tale difficile compito.

Se ciò è fondamentale per capire il concetto dello sforzo sovrumano cui si accinge Dante, lo stesso ce lo annuncia con una diversa proporzione nell’introdurre la cantica: ben 12 versi per la propositio, 24 per l’invocatio. (Nell’Inferno rispettivamente 6 e 3 nel 2° canto;  nel Purgatorio 6 e 6, nel 1° canto). Simile invece tra la seconda cantica e questa è la punizione per l’arroganza di chi ha voluto sfidare nel canto la facoltà divina: lo hanno saputo bene le Pieridi trasformate in gazze, prese ad esempio, nella montagna purgatoriale e qui il satiro Marsia, che viene addirittura scuoiato dal dio stesso. Ma tale professione d’umiltà non tocca la sfera dell’umano: consapevole della grandezza ed eccezionalità del compito cui si accinge egli sa di poter meritare l’alloro poetico, sebbene attenui tale posizione con l’affermazione che forse qualcuno, migliore di lui, potrà meglio rappresentare il mondo divino, non senza una nota polemica sullo stato della poesia, volto più a trarre benefici terreni che divini.

Ma, con una capacità limitata, in quanto dettata dalla potenza umana, egli riesce a darci l’ “idea” della luce, attraverso il concetto di luce riflessa, e quindi attraverso l’intensificarsi di essa, il suo ascendere e il suo trasformarsi “trasumanare”, neologismo con cui indica l’andare oltre se stesso e, pur nel ricordo, riesce a ricordare la “lezione” teologica di Beatrice che lo disgrossa riguardo il tendere verso Dio. Tutte le creature originate da Dio naturalmente sono tese a tornare da Lui, tra di esse anche quella umana. Non sempre, tuttavia quest’ultima segue la sua natura, ma spinta da falsi piaceri, da Lui si diparte, cadendo nel peccato, in questo modo Dante ribadisce il concetto di “libero arbitrio” come fondamentale del suo pensiero, pensiero reso vivido dalla metafora dell’arco e del fulmine. 

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CANTO II
(Cielo I – Luna)

Il canto si apre con un nuovo prologo rivolto al lettore:

O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.
L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse.
Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.
Que’ glorïosi che passaro al Colco
non s’ammiraron come voi farete,
quando Iasón vider fatto bifolco.

O voi che avete seguito con la vostra piccola barca il mio vascello che cantando si fa strada nei mari, tornate indietro, a rivedere la spiaggia da dove siete salpati; non vi avventurate in mare aperto, perché, forse, perdendo me di vista, vi trovereste smarriti. L’acqua che ora io prendo a solcare non è stata mai percorsa da nessuno; Minerva spira nelle vele della nave, Apollo è il mio nocchiero e le nove muse mi indicano le stelle dell’Orsa per orientarmi. Voi altri pochi, che per tempo vi volgeste al pane degli angeli, del quale qui si può vivere sì, ma senza saziarsene mai, voi potete ben avventurare per l’alto mare il vostro naviglio, seguendo la mia scia prima che l’acqua ritorni liscia com’era., cancellando la traccia del mio passaggio. Quei gloriosi Argonauti che per mare raggiunsero la Colchide non si stupirono come voi farete, quando videro Giasone trasformarsi in contadino.

Come nel primo canto, anche qui Dante sottolinea l’eccezionalità dell’argomento e dell’ispirazione che chiede un pubblico capace di seguirlo. Non è arroganza del poeta, ma consapevolezza dell’arduo “cammino” e quindi compito che il poeta s’accinge a percorrere. E’ evidente che pertanto solo si può avvicinare al canto chi si è già nutrito “del pan degli angeli”, di quella conoscenza dottrinale e teologica che è qui è necessaria per la piena comprensione: sicuramente una posizione diversa rispetto al più “democratico” Convivio, dove Dante offriva, a chi non aveva le possibilità “briciole” di sapienza.

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Il canto quindi prosegue affrontando due nodi dottrinali:

  • l’impenetrabilità dei corpi;
  • le macchie lunari.

Mentre salgono velocissimamente, Dante si trova immerso nel cielo della luna, chiedendosi come mai al suo penetrare in esso non sia corrisposto uno spostamento di materia lunare. E’ evidente che per Dante mondo terreno e mondo astronomico sono nettamente separati, pertanto anche la loro composizione è diversa. Il suo penetrare è frutto di quell’unione di umano e divino che ha permesso a Cristo di possedere le due nature e che di cui Dio gli ha fatto dono allora per “conoscere” il luogo sede di Dio.

Per le macchie lunari, Beatrice dà luogo ad una dimostrazione sillogistica: dapprima confuta quando già detto da Dante nel Convivio che individua la ragione nella minore o maggiore densità dei corpi, in quanto se così fosse quelle meno dense dovrebbero o attraversare il cielo della luna stessa o lasciar passare la luce nel caso d’eclissi. Quindi dimostra come la diversità dipende dalla virtù di Dio che piove dal Primo mobile fino al cerchio lunare, attraversando tutti i cieli e imprimendo loro la stessa virtù che muta al mutare della sostanza su cui si poggia e dal grado di beatitudine che essi stessi esprimono.

CANTO III
(Cielo I – Luna – Spiriti mancanti ai voti)

Quel sol che pria d’amor mi scaldò ‘l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva’ il capo a proferer più erto;
ma visione apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;
tali vid’io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e ‘l fonte.
Sùbito sì com’io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
«Non ti maravigliar perch’io sorrida»,
mi disse, «appresso il tuo pueril coto,
poi sopra ‘l vero ancor lo piè non fida,
ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto.
Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che li appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi». 

E io a l’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza’mi, e cominciai,
quasi com’uom cui troppa voglia smaga:
«O ben creato spirito, che a’ rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s’intende mai,
grazioso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte».
Ond’ella, pronta e con occhi ridenti:
«La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.
I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,
ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.
Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.
E questa sorte che par giù cotanto,
però n’è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto».
Ond’io a lei: «Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti:
però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino.
Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?».
Con quelle altr’ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco:
«Frate, la nostra volontà quieta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.
Se disiassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;
che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.
Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse;
sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com’a lo re che ‘n suo voler ne ‘nvoglia.
E ‘n la sua volontade è nostra pace:
ell’è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella cria o che natura face».
Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove.
Ma sì com’elli avvien, s’un cibo sazia
e d’un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia,
così fec’io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola.
«Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù», mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.
Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
E quest’altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest’è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò ‘l terzo e l’ultima possanza».
Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,
Maria’ cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,
e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mio sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
e ciò mi fece a dimandar più tardo. 

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Beatrice, sole che sin dall’inizio mi aveva colpito il cuore, mi aveva rivelato il dolce aspetto della verità, dimostrando la verità (sulle macchie lunari) e confutando l’errore; ed io per dimostrare d’aver corretto (la falsa opinione) e di esser sicuro, sollevai più in alto il capo, quanto più convenientemente per parlare, ma mi apparve una visione che mi catturò così tanto l’attenzione da non ricordare più la mia confessione. Come attraverso vetri trasparenti e puliti oppure attraverso acque così chiare e tranquille, non tanto profonde da rendere invisibili i fondali, si riflettono le immagini dei nostri visi  così deboli che una perla bianca sulla fronte non giunge meno evidente al nostro sguardo, allo stesso modo vidi io volti pronte a parlare; per cui mi imbattei nello stesso errore di quello di Narciso che fece innamorare l’uomo della fonte. Immediatamente, quando mi accorsi di loro, immaginandole immagini riflesse , mi volsi indietro per vedere chi fossero e, non vedendo nulla, rivolsi lo sguardo a Beatrice, che, sorridendo,  risplendeva nei santi occhi. Mi disse: «Non meravigliarti del mio sorridere a seguito del tuo puerile pensiero, dal momento che ancora non si basa sopra la verità, ma ti fa girare a vuoto, come al solito: quelle che tu vedi sono veri spiriti, qui confinati, per esser mancati ai voti. Perciò parla loro, ascoltale, e credi ciò che dicono, perché la vera luce che le soddisfa non permette loro di allontanarsi da se se stessa». Ed io mi rivolsi all’ombra che sembrava più desiderosa di parlare e cominciai come una persona a cui la troppa voglia toglie lucidità: «O spirito, eletto alla salvezza eterna, che senti la dolcezza dei raggi della vita eterna che, se non gustata, non la si può provare, mi sarebbe graditi se mi contentassi di rivelare il tuo nome e la vostra condizione». E lei, pronta e con occhi ridenti: «La carità di noi elette nella grazia, non chiude le porte ad un giusto desiderio, non diversamente come la carità di Dio che rende tutto il suo regno simile a Lui. Io fu nel mondo una monaca, e se la tua mente guarda con attenzione, non ti celerà che io, pur più bella, son Piccarda Donati, che, messa qui, fra gli altri beati, sono nel cerchio più lento, quello della luna.  I nostri sentimenti che ardono solo in ciò che piace allo Spirito Santo, godono in quanto corrispondono all’ordine da lui stabilito. E la sorte che ci ha confinato qui perciò ci è stata assegnata, perché non furono rispettati i nostri voti e mancanti in alcune parti». Ed io a lei: «Nei vostri meravigliosi aspetti risplende un non che di divino che vi trasfigura rispetto alle immagini che di voi abbiamo in terra; per questo non fui pronto a riconoscerti: ma ora mi aiuta ciò che dici, tanto che a ricordar la tua figura mi è più semplice. Ma dimmi, voi che avete in questo cielo il vostro grado di felicità, desiderate un luogo più alto (vicino) per farvi vedere e farvi riconoscere da Dio?». Con le altre anime dapprima sorrise un po’, quindi mi risposa con così tanta gioia da sembrare infiammata da amore divino: «Fratello, la nostra volontà appaga la nostra virtù di carità, che fa s^ che noi desideriamo solo quello che possediamo, senza bisogno d’altro. Se desiderassimo cose superiori, i nostri desideri sarebbero discordi dal volere di colui che qui ci ha destinato; cosa che tu vedrai non essere in questi giri , se essere in carità è qui necessario e se osservi bene la natura di questa carità. E’ anzi essenziale a questo essere in beatitudine attenersi alla volontà di Dio, per cui le nostre voglie diventano una sola con lei; cosicché piace a tutto il Paradiso che noi appariamo di cielo in cielo, allo stesso modo di un re che fa piacere ciò che lui vuole. Nella sua volontà è la nostra pace: essa è quel mare verso cui ogni cosa che è creata si muove o che fa  la natura. Allora mi fu chiaro come il Paradiso è dovunque, sebbene la Grazia non piova ugualmente. Ma così come succede che un cibo sazia e di un altro rimane ancora il desiderio, del secondo si chiede e del primo si ringrazia, così feci io negli atteggiamenti e nel chiedere, per sapere quale fu la trama che non riuscì a portare a termine». «Santità di vita e nobili meriti pone in alto una donna», mi disse «alla cui norma nel mondo si veste e mette il velo monacale, affinché, fino alla morte vegli e dorma con Gesù  che accetta tutti i voti conformi alla carità. Scappai dal mondo, giovinetta, per seguire la sua regola divenni monaca e promisi di seguire la via del suo ordine. Ma poi degli uomini, usi a far del male più che il bene, mi portarono fuori dal dolce chiostro: lo sa Dio quale vita in seguito condussi. E quest’altra anima illuminata, che ti si mostra alla mia destra e che si illumina della luce di questo cielo, ebbe la mia stessa sorte; fu suora, allo stesso modo le fu strappato dal capo il velo che le ombreggiava il viso: Ma dopo che fu riportata al mondo contro il suo volere e contro ogni norma morale, non sciolse mai il velo che custodiva in cuore. Questa è la luce della buona Costanza d’Altavilla che da Enrico VI (secondo potenza di Svezia, in quanto il primo è Federico Barbarossa), generò la terza potenza e l’ultima potenza (cioè Federico II, che fu il terzo, ma anche l’ultimo regnante della famiglia degli Svevi)». Così parlò e poi cantando svanì come un oggetto pesante nell’acqua scura. Il mio sguardo la seguì finché poté, poi si rivolse all’oggetto del mio desiderio e si protese completamente verso Beatrice; ma lei abbagliò il mio sguarda tanto che in principio non lo soffrii e ciò mi fece essere più tardivo nel porre domande.

Gustave_Doré_-_Paradiso,_Canto_III.jpgSe i primi due canti ci avevano introdotti nell’atmosfera paradisiaca, il primo in cui Dante si era “trasumanato” (neologismo dal forte valore semantico) ed il secondo, pur così teologico, ci aveva illustrato il problema delle macchie lunari,  è qui nel terzo che Dante incontra i primi personaggi che sono così diversi dalle immagini sia infernali che purgatoriali, da non rendersi conto nemmeno della loro “spiritualità”. Il loro essere è tanto diafano da essere scambiato per immagine riflessa e sarà solo Beatrice a chiarire la loro vera essenza. A parlare con lui sarà Piccarda Donati, sorella e figlia di quella famiglia che tanto dolore procurerà a Dante. Avevamo incontrato, non da molto, il di lei fratello, Forese, in un bel dialogo amicale nel XXIII canto del Purgatorio. Ed era stato proprio lui ad informare Dante dell’abisso infernale in cui era caduto Corso e della beatitudine della sorella (quasi a rappresentare una scala in cui il fratello maggiore era punito per la sua prepotenza, il mediano, Forsese scontava, pentendosi, il peccato di gola e la piccolina, Piccarda, si era salvata). Tuttavia nelle sue parole notiamo una incredibile violenza di cui i maschi si macchiavano nei confronti delle donne. Scelta la via delle Clarisse, quasi a sfuggire il clima di violenza che la circondava, Piccarda si trova strappata alla sua volontà di essere monaca per giacere al fianco di un uomo che non desiderava per problemi politici; stessa sorte sembra subire Costanza – la cui luminosità maggiore è forse determinata dall’importanza del personaggio – a cui venne strappato il velo. Il fatto è che per quest’ultima Dante sembra seguire una “diceria” piuttosto che la verità, in quanto è accertato che Costanza non si sia mai monaca. Ma non importa se Dante abbia qui dato retta ad una voce mandata in giro dai Guelfi per screditare il partito imperiale. Quello che importa è che egli disegni, con i tratti tenui che vogliono caratterizzare la femminilità, una forma non detta di stupro verso il mondo femminile.

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Un’ultima notazione riguarda le figura di Piccarda il cui modo di raccontare la sua storia l’apparenta a Pia dei Tolomei: è nel loro non detto che nasce la fascinazione per questi due personaggi femminili.

CANTO IV
(Cielo I – Luna – Spiriti mancanti ai voti)

Dante è assalito da due dubbi, derivati entrambi dal dialogo avuto con Piccarda: il primo riguarda il luogo in cui sono posti i beati:

D’i Serafin colui che più s’india, 
Moisè, Samuel, e quel Giovanni 
che prender vuoli, io dico, non Maria, 
non hanno in altro cielo i loro scanni
che questi spirti che mo t’appariro, 
né hanno a l’esser lor più o meno anni; 
ma tutti fanno bello il primo giro,
e differentemente han dolce vita 
per sentir più e men l’etterno spiro. 
Qui si mostraro, non perché sortita 
sia questa spera lor, ma per far segno 
de la celestial c’ha men salita.

Quel Serafino che è più vicino a Dio, Mosè, Samuele, Giovanni Battista o Evangelista, addirittura Maria, hanno la loro sede nello stesso Cielo (Empireo) di questi spiriti che ti sono appena apparsi, né la loro permanenza lì ha una durata più lunga o più breve; ma tutti loro adornano il Cielo più alto, e hanno un grado di felicità diverso a seconda che sentano più o meno lo Spirito Santo. Ti sono apparsi qui nel I Cielo non perché esso sia assegnato loro come sede, ma per manifestare visibilmente il loro minor grado di beatitudine.

il secondo il perché di una “minore santità” se a non compiere pienamente il bene si è portati da una forza esterna violenta:

Se violenza è quando quel che pate 
niente conferisce a quel che sforza, 
non fuor quest’alme per essa scusate; 
ché volontà, se non vuol, non s’ammorza,
ma fa come natura face in foco, 
se mille volte violenza il torza. 
Per che, s’ella si piega assai o poco, 
segue la forza; e così queste fero 
possendo rifuggir nel santo loco.
Se fosse stato lor volere intero,
come tenne Lorenzo in su la grada,
e fece Muzio a la sua man severo,
così l’avria ripinte per la strada
ond’eran tratte, come fuoro sciolte;
ma così salda voglia è troppo rada.

Se la violenza sussiste quando colui che la subisce non asseconda in nulla colui che la compie, allora queste anime non furono scusate per essa; infatti la volontà, se non vuole, non viene meno, ma fa come il fuoco che tende per natura a salire, anche se mille volte la violenza (del vento) lo spinge in basso. Infatti, se la volontà si piega poco o molto, asseconda la violenza; e così fecero queste anime, dal momento che potevano tornare nel loro convento. Se la loro volontà fosse stata integra, come quella che tenne san Lorenzo sulla graticola e quella che indusse Mucio Scevola ad essere severo con la sua mano, essa le avrebbe riportate sulla strada da cui erano state portate via, non appena libere dall’impedimento fisico; ma una volontà suprema di tal genere è troppo rara.

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Quello che emerge in questo canto è che l’immagine che Dante ci descrive in realtà non esiste: le anime si presentano per la grazia che il Signore gli ha concesso e per continuare quell’ufficio “didattico” che il suo viaggio deve gli fornisce; interessante è inoltre l’aspetto sulla “colpa” che tali anime potrebbero avere. Il poeta divide tra volontà assoluta e volontà relativa: ma ponendo tale ambiguità tra le due non fa che illuminarci sui nostri limiti morali.

CANTO V
(Cielo I – Luna – Spiriti mancanti ai voti)
(Cielo II – Mercurio – Spiriti attivi per gloria terrena)

Il canto prosegue senza soluzione di continuità nel discorso dottrinale sul rispetto del voto, che, come detto, presenta il problema morale del suo compimento sulla base della volontà. Dante chiede se vi è possibilità, a fronte di una irrealizzabilità dello stesso, del mutamento dell’oggetto del voto. Beatrice precisa che il voto non è che una abdicazione volontaria della propria libertà. Quando esso si esprime vi è un rapporto, in questo caso, tra il fedele e Dio, che non può venir meno; in casi eccezionali potrebbe accadere, ma solo attraverso l’intermediazione della Chiesa.

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Dopo queste ulteriori spiegazioni dottrinali i due ascendono velocemente nel cielo di Mercurio. Appena giunti vengono circondati dalle anime che, seppur luminose, continuano ad avere un aspetto riconoscibile. Subito uno di essi si mostra ansioso di voler condividere con Dante uno scambio di cordialità, che fa sì che, nel parlare, la stessa luminosità prende il sopravvento, cancellando la labile ombra che denotava ancora il personaggio.

CANTO VI
(Cielo II – Mercurio – Spiriti attivi per gloria terrena)

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«Poscia che Costantin l’aquila volse
contr’al corso del ciel, ch’ella seguio
dietro a l’antico che Lavina tolse, 

cento e cent’anni e più l’uccel di Dio
ne lo stremo d’Europa si ritenne,
vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;

e sotto l’ombra de le sacre penne
governò ‘l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

Cesare fui e son Iustiniano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.

E prima ch’io a l’ovra fossi attento,
una natura in Cristo esser, non piùe,
credea, e di tal fede era contento;

ma ‘l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue.

Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,
vegg’io or chiaro sì, come tu vedi
ogni contradizione e falsa e vera.

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi;

e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

Or qui a la question prima s’appunta
la mia risposta; ma sua condizione
mi stringe a seguitare alcuna giunta,

perché tu veggi con quanta ragione
si move contr’al sacrosanto segno
e chi ‘l s’appropria e chi a lui s’oppone.

Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
di reverenza; e cominciò da l’ora
che Pallante morì per darli regno.

Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora
per trecento anni e oltre, infino al fine
che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.

E sai ch’el fé dal mal de le Sabine
al dolor di Lucrezia in sette regi,
vincendo intorno le genti vicine.

Sai quel ch’el fé portato da li egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro, 
incontro a li altri principi e collegi;
onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i Deci e ‘ Fabi 
ebber la fama che volontier mirro.
Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
che di retro ad Annibale passaro 
l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.
Sott’esso giovanetti triunfaro
Scipione e Pompeo; e a quel colle 
sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.
Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
redur lo mondo a suo modo sereno, 
Cesare per voler di Roma il tolle.
E quel che fé da Varo infino a Reno,
Isara vide ed Era e vide Senna 
e ogne valle onde Rodano è pieno.
Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
e saltò Rubicon, fu di tal volo, 
che nol seguiteria lingua né penna.
Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,
poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse 
sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.
Antandro e Simeonta, onde si mosse,
rivide e là dov’Ettore si cuba; 
e mal per Tolomeo poscia si scosse.
Da indi scese folgorando a Iuba; 
onde si volse nel vostro occidente, 
ove sentia la pompeana tuba.
Di quel che fé col baiulo seguente, 
Bruto con Cassio ne l’inferno latra, 
e Modena e Perugia fu dolente.
Piangene ancor la trista Cleopatra, 
che, fuggendoli innanzi, dal colubro 
la morte prese subitana e atra.
Con costui corse infino al lito rubro; 
con costui puose il mondo in tanta pace, 
che fu serrato a Giano il suo delubro.
Ma ciò che ‘l segno che parlar mi face 
fatto avea prima e poi era fatturo 
per lo regno mortal ch’a lui soggiace,
diventa in apparenza poco e scuro, 
se in mano al terzo Cesare si mira 
con occhio chiaro e con affetto puro;
ché la viva giustizia che mi spira, 
li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, 
gloria di far vendetta a la sua ira. 
Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:
poscia con Tito a far vendetta corse 
de la vendetta del peccato antico.
E quando il dente longobardo morse 
la Santa Chiesa, sotto le sue ali 
Carlo Magno, vincendo, la soccorse.
Omai puoi giudicar di quei cotali 
ch’io accusai di sopra e di lor falli, 
che son cagion di tutti vostri mali.
L’uno al pubblico segno i gigli gialli 
oppone, e l’altro appropria quello a parte, 
sì ch’è forte a veder chi più si falli.
Faccian li Ghibellin, faccian lor arte 
sott’altro segno; ché mal segue quello 
sempre chi la giustizia e lui diparte;
e non l’abbatta esto Carlo novello 
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli 
ch’a più alto leon trasser lo vello.
Molte fiate già pianser li figli 
per la colpa del padre, e non si creda 
che Dio trasmuti l’arme per suoi gigli!
Questa picciola stella si correda 
di buoni spirti che son stati attivi 
perché onore e fama li succeda:
e quando li disiri poggian quivi, 
sì disviando, pur convien che i raggi 
del vero amore in sù poggin men vivi. 
Ma nel commensurar d’i nostri gaggi 
col merto è parte di nostra letizia, 
perché non li vedem minor né maggi. 
Quindi addolcisce la viva giustizia 
in noi l’affetto sì, che non si puote 
torcer già mai ad alcuna nequizia.
Diverse voci fanno dolci note; 
così diversi scanni in nostra vita 
rendon dolce armonia tra queste rote.
E dentro a la presente margarita 
luce la luce di Romeo, di cui 
fu l’ovra grande e bella mal gradita. 
Ma i Provenzai che fecer contra lui 
non hanno riso; e però mal cammina 
qual si fa danno del ben fare altrui. 
Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, 
Ramondo Beringhiere, e ciò li fece 
Romeo, persona umìle e peregrina. 
E poi il mosser le parole biece 
a dimandar ragione a questo giusto, 
che li assegnò sette e cinque per diece,
indi partissi povero e vetusto; 
e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe 
mendicando sua vita a frusto a frusto, 
assai lo loda, e più lo loderebbe».

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«Dopo che Costantino portò l’aquila imperiale contro il corso del cielo (da Occidente a Oriente), che essa seguì dietro a Enea che prese in sposa Lavinia, l’uccello divino rimase più di duecento anni nell’estremità dell’Europa, vicino ai monti della Troade dai quali iniziò il suo volo; e lì governò il mondo all’ombra delle penne sacre, passando di mano in mano, fino a giungere nelle mie. Fui imperatore romano e mi chiamo Giustiniano: sono colui che, ispirato dallo Spirito Santo, eliminai dalle leggi ciò che era superfluo e ciò che era inutile. E prima che mi dedicassi a quest’opera, credevo che in Cristo ci fosse la sola natura divina, ed ero contento di questa fede; ma il benedetto Agapito, che fu sommo pontefice, mi indirizzò alla vera fede con le sue parole. Io gli credetti; e ora vedo ciò che era nella sua fede così chiaramente, come tu vedi che in un giudizio contraddittorio c’è una frase vera e una falsa. Non appena rientrai in seno alla Chiesa, Dio volle per sua grazia ispirarmi l’alta opera (il Corpus iuris civilis) e io mi dedicai anima e corpo ad esso; e affidai le armi al mio generale Belisario, che fu assistito dal cielo a tal punto che ciò fu segno che io dovessi fermarmi. Ora qui termina la mia prima risposta; ma ciò che ho detto mi induce a far seguire una aggiunta, affinché tu veda quanto ingiustamente agiscano contro il sacrosanto simbolo dell’aquila sia coloro che se ne appropriano (i Ghibellini), sia coloro che gli si oppongono (i Guelfi). Vedi quanta virtù ha reso il segno degno di riverenza; e ciò iniziò dal giorno in cui Pallante morì per assicurargli un regno. Tu sai che esso dimorò più di trecento anni ad Alba Longa, fino al momento in cui Orazi e Curiazi lottarono ancora per lui. E sai cosa fece dal ratto delle Sabine fino all’oltraggio a Lucrezia, all’epoca dei sette re di Roma, vincendo i popoli circonvicini. Sai che cosa fece, portato dai nobili Romani contro Brenno e Pirro, e contro altre repubbliche e monarchi dell’Italia; per cui Torquato e Quinzio Cincinnato, che fu detto così per la chioma trascurata, nonché Deci e Fabi ebbero la fama che io volentieri onoro. Esso abbatté l’orgoglio dei Cartaginesi che al seguito di Annibale passarono le Alpi, dalle quali tu, o fiume Po, discendi. Sotto di esso trionfarono, da giovani, Scipione e Pompeo; e parve amaro a quel colle (Fiesole) sotto il quale tu sei nato. Poi, quando fu vicino il tempo in cui il Cielo volle far diventare tutto il mondo sereno a sua immagine (per la nascita di Cristo), Cesare assunse il segno dell’aquila per volere di Roma. E ciò che esso (con Cesare) fece in dal fiume Varo fino al Reno, lo videro l’Isère, la Loira, la Senna e ogni valle di cui è pieno il Rodano. Quello che fece dopo essere uscito da Ravenna ed aver passato il Rubicone, fu un volo così veloce che né la lingua né la penna potrebbero descriverlo. Rivolse le truppe contro la Spagna e poi verso Durazzo, e colpì Farsàlo a tal punto che il dolore arrivò sino al caldo Nilo. L’aquila rivide il porto di Antandro e il fiume Simoenta da cui si mosse, e il sepolcro di Ettore; e poi ripartì per l’Egitto, con nefaste conseguenze per Tolomeo. Da lì scese come una folgore contro Giuba, re di Mauritania, e poi si portò nell’Occidente del vostro mondo, dove sentiva la tromba dei Pompeiani. Di quello che esso fece col successore di Cesare (Ottaviano), Bruto e Cassio ancora latrano nell’Inferno e Modena e Perugia ne furono dolenti. Ne piange ancora la triste Cleopatra, che, fuggendogli davanti, si diede la morte improvvisa e atroce col serpente. Con Ottaviano l’aquila corse fino al Mar Rosso; con lui ridusse il mondo in pace, al punto che fu chiuso il tempio di Giano. Ma ciò che il segno di cui parlo aveva fatto in precedenza e avrebbe fatto dopo per il regno mortale che gli è sottomesso, diventa poca cosa in apparenza se lo si paragona a ciò che fece col terzo imperatore (Tiberio), se si guarda con chiarezza e sincerità; infatti la giustizia divina che mi ispira gli concesse, in mano a Tiberio, la gloria di punire il peccato originale (con la crocifissione di Cristo). Ora prendi ammirazione per ciò che aggiungo: in seguito con Tito corse a vendicare la vendetta dell’antico peccato (con la distruzione di Gerusalemme). E quando la violenza dei Longobardi si rivolse contro la Santa Chiesa, Carlo Magno la soccorse sotto le ali dell’aquila, sconfiggendo quel popolo. Ormai puoi giudicare la condotta di quelli che ho accusato prima e le loro colpe, che sono causa di tutti i vostri mali. Gli uni (i Guelfi) oppongono al simbolo imperiale i gigli gialli della casa di Francia, e gli altri (i Ghibellini) se ne appropriano per la loro parte politica, così che è arduo stabilire chi sbagli di più.  Ghibellini facciano la loro politica sotto un altro simbolo, giacché chi lo separa sempre dalla giustizia ne fa un cattivo uso; e non creda di abbatterlo coi suoi Guelfi Carlo II d’Angiò, ma abbia timore dei suoi artigli che scuoiarono leoni più feroci di lui. Molte volte i figli hanno già pagato per le colpe dei padri, e quindi non creda Carlo che Dio cambi il proprio simbolo con i suoi gigli! Questo piccolo pianeta (Mercurio) accoglie i buoni spiriti che sono stati attivi nella ricerca dell’onore e della fama: e quando i desideri sono rivolti a questo, così deviando dal loro fine, è inevitabile che l’amore sia meno rivolto verso Dio. Tuttavia, se paragoniamo i nostri premi col nostro merito, ciò ci induce letizia, poiché non li vediamo né minori né maggiori. In tal modo la giustizia divina addolcisce il nostro sentimento, così che esso non può mai essere rivolto a un pensiero malvagio. Diverse voci producono dolci melodie; così i diversi gradi della nostra beatitudine rendono una dolce armonia in questi Cieli. E dentro questa stella risplende la luce di Romeo di Villanova, la cui opera bella e grande fu poco apprezzata. Ma i Provenzali, che agirono contro di lui, non hanno riso (furono puniti) e dunque percorre una cattiva strada chi è invidioso e considera un proprio danno le buone azioni degli altri. Raimondo Berengario ebbe quattro figlie, ognuna sposa di re, e ciò fu il risultato dell’opera di Romeo, persona umile e straniera. E poi le parole invidiose dei cortigiani lo indussero a chiedere conto dell’operato di quel giusto, che aveva accresciuto le rendite statali, per cui Romeo se ne andò povero e vecchio; e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a mendicare il pane, lo loderebbe ancor più di quanto già non faccia»
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E’ questo l’unico canto dell’intera Commedia in cui un personaggio prende la parola per gli interi 142 versi di cui è composto. Infatti nel V canto, quest’anima aveva sollecitato Dante a chiedere chi fosse e chi fossero i compagni in questo cielo di Mercurio ed ora risponde alle sue domande. Quello che tuttavia colpisce è che quest’anima non si presenta da subito, ma pone un altro protagonista, l’aquila imperiale, che diventa il centro ed il fulcro dell’intero canto. Ci troviamo infatti nel VI canto, quindi il canto politico che, come già visto, si distribuisce strutturalmente nelle tre cantiche:
  1. Inferno, Ciacco che parla della città dipartita, cioè Firenze;
  2. Purgatorio, in cui l’incontro con Sordello da Goito sollecita una riflessione sull’Italia;
  3. Paradiso, Giustiniano che ci parla dell’Impero e del suo “declino”, foriero di un futuro nebuloso ed oscuro;

La scelta di affidare la riflessione a Giustiniano non è casuale, non solo egli ha dato il “Corpus iuris civilis”, ma questo stesso era stato già richiamato nel Purgatorio come causa delle lotte interne nella lotta politica; inoltre Giustiniano è stato quell’imperatore che, con la guerra contro i Goti ha riportato all’unità l’Impero che Costantino alla sua morte aveva diviso.

Ed è proprio da Costantino che parte, “colpevole” – sebbene Dante non lo dica esplicitamente – d’aver “politicizzato” la Chiesa (Dante credeva nel documento, poi rivelatosi falso della donazione di Costantino ) e di aver diviso l’impero.

Dante quindi fa una lunga carrellata della storia di Roma partendo da:

  1. Pallante, figlio di Evandro, ucciso da Turno, come ci racconta nei versi finali l’Eneide di Virgilio;
  2. La battaglia tra Orazi e Curiazi per il predominio tra Albalonga e Roma;
  3. Il periodo regio con il ratto delle Sabine ed il sacrificio di Lucrezia, violata dal figlio di Tarquinio il Superbo
  4. Il sacco di Roma con Brenno e l’impresa fallimentare di Pirro;
  5. Le guerre contro i Latini vinti da Tito Manlio Torquato e gli Equi, sconfitti da Lucio Quinzio Cincinnato, e il sacrificio dei tre fratelli della famiglia dei Deci ed i trecento Fabi.
  6. La guerra contro Cartagine, il cui comandante Annibale venne battuto da Scipione l’Africano e da Pompeo Magno
  7. L’insegna imperiale in mano Cesare che conquisto la Gallia (qui indicata col nome dei principali fiumi)
  8. Il passaggio del Rubicone: l’uccisione dei pompeiani in Spagna, l’inseguimento di Pompeo a Durazzo la sconfitta a Farsalo, quindi il passaggio nella vecchia Troade e poi di nuovo in Egitto. 
  9. La guerra contro Giuba, il re della Mauritania;
  10. L’uccisione di Cesare ed il potere ad Augusto che uccide a Modena Marco Antonio e a Perugia la sorella col marito.
  11. Potere augusteo chiusura della porta di Giano;
  12. Passaggio a Tiberio 
  13. Tito, diaspora ebraica.

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Quello che tuttavia interessa è che tale carrellata non si esaurisce nella raffigurazione di alcune “cartoline” con i più grandi personaggi della storia di Roma, ma che loro non sono che strumenti del potere di Dio rappresentato dall’aquila imperiale che non solo ideologicamente ma anche sintatticamente fa da soggetto (tu sai ch’el fece; E sai ch’el fé; Sai quel ch’el fé;). E l’aquila lo stemma della Chiesa ed è per questo che inizia questa carrellata deprecando sia i Ghibellini, che se ne appropriano e lo strumentalizzano, sia chi lo combatte.

CANTO VII
(Cielo II – Mercurio – Spiriti attivi per gloria terrena) 

E’ questo uno dei canti che Benedetto Croce, critico idealistica, avrebbe definito di non poesia, che in altri termini, vuol dire dottrinale: dopo un’incipit in cui riprende il canto VI, non avendo potuto il poeta chiosare le sue parole, in quanto il discorso di Giustiniano lo occupa per intero, lo riprende qui, con un movimento di danza del grande imperatore che, raddoppiando in lui la luminosità lo allontana, nonostante il poeta invitasse Beatrice a parlarle ancora e a risolvere un dubbio che le sue stesse parole gli aveva instillato. Tale dubbio ce lo spiega il Landino (lettore del ‘400 della poesia dantesca): “se giusta fu la morte del Cristo pel peccato dei primi parenti, ingiusta fu la vendetta presa da’ Giudei. E se la vendetta presa contro i Giudei fu giusta, adunque fu ingiusta la morte di Cristo”.

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Beatrice teologa per Dante

Tutto il canto consiste nella risposta di Beatrice che si muove su alcuni concetti derivati dalla patristica:

Adamo “uomo non nato” ha, con il suo peccato, fatto perdere all’intera umanità il Paradiso Terrestre, gettandola in una condizione d’infermità morale intrinseca ad ognuno. Cristo si è fatto uomo, pertanto anch’egli è entrato nell’intera umanità, ma la sua carne è pura in quanto è Dio fatto carne: per cui la sua morte è giusta da un punto di vista puramente umano è ingiusta da un punto di vista divino. Ma era proprio necessario il sacrificio di Cristo? Sì perché è un atto d’amore di Dio verso l’uomo, sacrificando per una nuova libertà umana il proprio figlio. D’altra parte il suo sacrificio e la sua resurrezione dimostrano all’uomo che alla fine dei tempi diverrà immortale, non nell’anima, com’egli stesso dimostra, ma con il corpo.

CANTO VIII
(Cielo III – Venere – Spiriti amanti)

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Il canto prende l’avvio dall’ascesa verso il cielo di Venere di Dante e Beatrice, ascesa testimoniata dal maggiore splendore dell’accompagnatrice. Qui vedono anime luminose girare intorno a maggiore o minore velocità, cantando “Osanna”. Una di esse, vedendo Dante, spinto da carità si mosse, chiedendogli di esprimere ogni sua voglia a voler comunicare, trovandosi egli con colui che aveva scritto: Voi ch’entendo il terzo ciel movete.

Poscia che li occhi miei si fuoro offerti
a la mia donna reverenti, ed essa
fatti li avea di sé contenti e certi,
rivolsersi a la luce che promessa
tanto s’avea, e «Deh, chi siete?» fue
la voce mia di grande affetto impressa
E quanta e quale vid’ io lei far piùe
per allegrezza nova che s’accrebbe,
quando parlai, a l’allegrezze sue!
Così fatta, mi disse: «Il mondo m’ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato,
molto sarà di mal, che non sarebbe.
La mia letizia mi ti tien celato
che mi raggia dintorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato.
Assai m’amasti, e avesti ben onde;
che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde.
Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m’aspettava,
e quel corno d’Ausonia che s’imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare sgorga.
Fulgeami già in fronte la corona
di quella terra che ’l Danubio riga
poi che le ripe tedesche abbandona.
E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo,
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”.

E se mio frate questo antivedesse,
l’avara povertà di Catalogna
già fuggeria, perché non li offendesse;
ché veramente proveder bisogna
per lui, o per altrui, sì ch’a sua barca
carcata più d’incarco non si pogna.
La sua natura, che di larga parca
discese, avria mestier di tal milizia
che non curasse di mettere in arca».
«Però ch’i’ credo che l’alta letizia
che ’l tuo parlar m’infonde, segnor mio,
là ’ve ogne ben si termina e s’inizia,
per te si veggia come la vegg’ io,
grata m’è più; e anco quest’ ho caro
perché ’l discerni rimirando in Dio.
Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro,
poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso
com’ esser può, di dolce seme, amaro».
Questo io a lui; ed elli a me: «S’io posso
mostrarti un vero, a quel che tu dimandi
terrai lo viso come tien lo dosso.
Lo ben che tutto il regno che tu scandi
volge e contenta, fa esser virtute
sua provedenza in questi corpi grandi.
E non pur le nature provedute
sono in la mente ch’è da sé perfetta,
ma esse insieme con la lor salute:
per che quantunque quest’ arco saetta
disposto cade a proveduto fine,
sì come cosa in suo segno diretta.
Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine
producerebbe sì li suoi effetti,
che non sarebbero arti, ma ruine;
e ciò esser non può, se li ’ntelletti
che muovon queste stelle non son manchi,
e manco il primo, che non li ha perfetti.
Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?».
E io: «Non già; ché impossibil veggio
che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi».
Ond’ elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggio
per l’omo in terra, se non fosse cive?».
«Sì», rispuos’ io; «e qui ragion non cheggio».
«E puot’ elli esser, se giù non si vive
diversamente per diversi offici?
Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive».
Sì venne deducendo infino a quici;
poscia conchiuse: «Dunque esser diverse
convien di vostri effetti le radici:
per ch’un nasce Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
che, volando per l’aere, il figlio perse.
La circular natura, ch’è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
ma non distingue l’un da l’altro ostello.
Quinci addivien ch’Esaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte.
Natura generata il suo cammino
simil farebbe sempre a’ generanti,
se non vincesse il proveder divino.
Or quel che t’era dietro t’è davanti:
ma perché sappi che di te mi giova,
un corollario voglio che t’ammanti.
Sempre natura, se fortuna trova
discorde a sé, com’ ogne altra semente
fuor di sua regïon, fa mala prova.
E se ’l mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avria buona la gente.
Ma voi torcete a la religïone
tal che fia nato a cignersi la spada,
e fate re di tal ch’è da sermone;
onde la traccia vostra è fuor di strada»

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Dopo aver rivolto con rispetto gli occhi verso Beatrice e dopo che lei li ebbe rassicurati e confermati del suo assenso, li voltai verso l’anima splendente che si era offerta tanto generosamente e «Dimmi, ti prego, chi siete?», furono le mie parole segnate da ardente desiderio. E quanto più grande e più splendente io vidi quell’anima diventare, per la nuova gioia che s’aggiunse, per le mie parole, alla sua letizia! Così diventata, mi rispose: «Vissi poco tempo sulla terra, e se fossi vissuto più a lungo, non ci sarebbero molti mali che invece avverranno. Mi tiene nascosta a te la mia beatitudine, che emana luce tutto intorno a me e mi vela come quell’animale che si fascia della sua seta. Mi hai amato profondamente, e ne hai avuto buon motivo; poiché se io fossi rimasto in terra, ti avrei dimostrato ben più delle foglie del mio affetto. La regione posta su quella sponda sinistra che si bagna nel Rodano dopo che vi è affluito il Sorga (la Provenza), mi attendeva come suo re al tempo dovuto, e pure quella parte dell’Italia che ha per città Bari, Gaeta e Catona, da dove il Tronto e il Verde sfociano nel mare. Mi risplendeva già nel capo la corona d’Ungheria, il paese che il Danubio bagna dopo aver lasciato le rive della Germania. E la bella Sicilia che si copre di caligine tra capo Pachino e capo Teloro, su quel golfo che subisce il colpo più forte dallo Scirocco, non a causa del gigante Tifeo, ma per le emanazioni di zolfo, ancora oggi attenderebbe come suoi re i discendenti, attraverso me, di Corrado e di Rodolfo, se il malgoverno, che opprime continuamente i popoli sottomessi, non avesse spinto i palermitani all’urlo di rivolta “Muoia, muoia!”. E se mio fratello sapesse prevedere ciò, rifuggirebbe sin d’ora dalla gretta avarizia dei catalani, perché non gli recasse danno, poiché davvero lui, o qualcun altro dovrebbe prendere provvedimenti affinché nel suo regno, già troppo carico (di oneri, problemi, debito), non si pongano altri pesi. la sua indole che discende avara da una stirpe liberale, avrebbe bisogno di collaboratori che non mirassero ad accumulare tesori negli scrigni. «Poiché, o mio signore, io so per fede che la profonda gioia che le tue parole mi infondono tu le vedi in Dio, dove ogni cosa ha inizio e fine, così come io la sente in me, essa mi è ancora più gradita; e anche quest’altra cosa mi è di gran piacere, il fatto che la vedi contemplando in Dio. mi hai già reso felice, e così chiarisci, dato che il tuo discorso mi ha fatto nascere un dubbio, come può essere che da un seme buono nasca una pianta cattiva.» Questo domandai; ed egli mi rispose: «Se io riuscirò a mostrarti una verità, tu avrai di fronte la risposta al dubbio, così come adesso gli volti le spalle. Dio, il sommo bene che muove e allieta i cieli che tu stai ascendendo, predispone che la sua Provvidenza si faccia virtù informante in queste vaste sfere celesti. E nella mente di Dio, che è perfetta di per se stessa, si provvede non solo alla creazione delle nature, ma al loro essere e al loro benessere: per cui qualunque cosa quest’arco scocca, giunge predisposto per uno scopo determinato, come una freccia indirizzata al suo bersaglio. Se non avvenisse così, il cielo che stai percorrendo produrrebbe i suoi effetti in maniera tale che non sarebbero benefici ma dannosi; e questo non può avvenire, a meno che le sfere celesti non siano imperfette e imperfetto il primo mobile che non le ha ben compiute. Vuoi che ti chiarisca di più questa verità?». Risposi: «No davvero, perché so che è impossibile che la natura venga meno in ciò che è necessario». Quindi replicò: «Adesso dimmi: per l’uomo sulla terra, sarebbe peggio se non vivesse in società». Risposi: «Certo, e di questo non chiedo spiegazioni». «E ciò può avvenire, se sulla terra ognuno non vivesse in modo diverso con compiti differenziati? No, se scrive bene il vostro maestro Aristotele». Così giunse ragionando fino a questo punto; quindi concluse: «Pertanto è necessario che le vostre azioni siano varie: per questo uno nasce Solone (legislatore) un altro Serse (guerriero), un altro Melchisedech (sacerdote), e un altro come Dedalo che, volando per il cieli, perse il figlio. Le influenze celesti che si imprimono nella materia terrena, compiono bene la loro funzione, ma non fanno distinzioni tra una casa e l’altra. Così accade che Esaù sia diverso per virtù ingenita da Giacobbe, e Romolo nasce da un genitore di così bassa condizione che viene attribuito (come figlio) a Marte. La natura dei discendenti seguirebbe sempre la stessa strada dei genitori, se la provvidenza divina non fosse più forte. Ora quello che ti era oscuro, è davanti ai tuoi occhi; ma affinché tu sappia che ti ho molto a cuore, desidero che un’ulteriore verità ti ricopra. L’inclinazione naturale dà sempre cattiva prova di sé se si scontra con un destino a lei contrario, proprio come qualsiasi seme che cada fuori dal terreno adatto. E se gli uomini sulla terra considerassero attentamente l’inclinazione che la virtù dei cieli infonde e l’assecondassero, ne otterrebbero persone migliori. Invece voi uomini costringete a diventare ecclesiastico chi è nato con la vocazione del guerriero e innalzate al trono chi ha la natura del predicatore, per cui il cammino umano è fuori dalla retta via».

E’ un canto importante per due motivi:

  1. intimo: probabilmente vi era stata una conoscenza diretta tra Dante e Carlo Martello, nel 1294, ed il giovane principe angioino aveva mostrato un certo interesse per l’attività letteraria del giovane Dante, se lo apostrofa citando una sua poesia; è in questo modo che dobbiamo intendere la presenza del figlio di Carlo II d’Angiò nel cielo degli spiriti amanti, cioè quello di un affetto fraterno tra due giovani ragazzi.
  2. L’aspetto più specificatamente teologico, in cui il nostro dà parola a Carlo Martello che spiegherà aspetti teologici che tuttavia avranno esiti terreni e quindi politici.

Il principe Carlo Martello, su cui è centrato l’intero canto, muore giovanissimo: nasce infatti nel 1271 e muore nel 1295 ad appena 24 anni. Dante percepisce in lui colui che avrebbe potuto portare la pace in Italia: si sperava infatti in un matrimonio tra lui, erede angioino con la figlia Clemenza di Rodolfo d’Asburgo, cioè mettere d’accordo i guelfi alleati storici degli Angioini francesi con i ghibellini dalla parte degli Asburgo. La morte precoce di Carlo fa fallire il piano di pace ed egli, che dall’alto dei cieli può osservare il prosieguo della storia, non può che vederla piena di errori per colpa del padre che ha così mal governato in Sicilia da dar vita alla ribellione popolare (i Vespri siciliani del 1282) e del fratello, che non reso edotto dello sbaglio paterno, continua a circondarsi di collaboratori avidi ed incapaci. Da qui sorge il dubbio dantesco: come può nascere da un ramo sano (quello degli avi angioini, così liberali e cortesi) una mala pianta come il fratello Roberto? Vi è un ordine cosmico voluto da Dio, amministrato grazie alla mediazione delle sfere celesti. Quest’ultime influiscono sul mondo terreno cercando di imprimergli armoniosità. Essendo l’uomo un essere sociale (riprende la filosofia aristotelica) tale armonia si ottiene attraverso la varietà che ogni cives rappresenta all’interno di essa, facendo ognuno di essi un’attività diversa ma che utile agli altri rende unita l’intera civitas. Se ne deduce che ogni uomo, attraverso la propria indole, dovrebbe scegliere il compito che la divina provvidenza ha fatto piovere dal cielo, non “ereditarlo”, poiché tale indole non si trasmette di padre in figlio. Da qui l’amara constatazione finale della “ruina” dell’Italia dantesca: quella di un re che fa le veci di un ecclestiatico e di quest’ultimo che riceve la corona regale.

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CANTO IX
(Cielo III – Venere – Spiriti amanti)

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Il canto non interrompe quello precedente: stesso cielo e stessi beati. Colui che aveva terminato di parlare, continua anche ora con una piccola chiosa che profetizza un futuro infausto per i suoi degeneri discendenti. Ed è proprio questo il motivo che innerva l’intero canto che viene scandito da tre personaggi, appunto Carlo Martello come si è detto, Cunizza da Romano e Folchetto da Marsiglia e dalle rispettive invettive.
Cunizza, dopo il topos delle descrizioni storiche geografiche, sottolinea la tirannide luciferina di suo fratello Ezzelino e, dopo aver narrato come abbia trasceso dall’amore terreno a quello spirituale, profetizzando (chiaramente post eventu), la sonora sconfitta che, nel 1314, i Padovani subiranno dai Vicentini e Veronesi.
Subentra quindi il terzo personaggio, il trovatore Folchetto da Marsiglia, il cui splendore riflette il gaudio della raggiunta beatitudine. Anche lui ha sublimato l’amore terreno in amore celeste, quindi presenta a Dante l’anima più alta e luminosa in quel cielo, quella della prostituta Raab, la prima a raggiungere il Paradiso dopo la discesa di Cristo, lei che per prima conquistò la città di Gerico allo stato d’Israele. Il compito del trovatore è infatti quello di sottolineare come i pontefici ed i cardinali siano disinteressati a quella terra, presi solo dalla cupidigia di potere e di denaro. Folchetto nel parlare del personaggio biblico sottolinea come nel cielo nel quale essi sono, come naturalmente quelli sui quali già hanno hanno attraversato la luminosità di Dio, finisce il cono d’ombra proiettato dalla terra, che in un certo qual modo “oscura” la luminosità divina.
 
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Renato Guttuso: Cunizza da Romano

CANTO X
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti)

Con una lunga precisazione astronomica di ben 27 versi, Dante ci comunica che abbandonati il cielo di Venere lui e Beatrice ascendono verso il cielo del Sole, per dirla con le ultime parole di Folchetto, abbandonano i cieli nei quali la terra ha ancora influenza (Luna, mancanti ai voti; Mercurio, Spiriti attivi per gloria terrena; Venere, Spiriti amanti) per innalzarli verso la sapienza che “illuminando” loro, glorificano Dio. Dodici di essi, come gli apostoli, brillanti più del sole, si presentano a Dante e a Beatrice ponendosi in cerchio intorno a loro, danzando e cantando.
 
 
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Da una delle luci esce una voce, quella di Tommaso d’Aquino, che con estrema semplicità, non prima di aver nominato lo spirito a lui accanto di Alberto Magno, si presenta come uno de la santa greggia che Domenico mena per cammino u’ ben s’impingua se non si vaneggia (dell’ordine che San Domenico guida con la sua regola, dove ci si arricchisce se non si va dietro le case vane). Quindi invita Dante a seguire con lo sguardo le anime che lui nomina: Francesco Graziano (maestro allo Studio di Bologna, che pose le basi del diritto canonico); Pietro Lombardo (teologo, autore dei Libri quattuor Sententiarum, testo ufficiale della dogmatica cristiana); Salomone, autore del Cantico dei Cantici; Dionigi L’Areopagita, il cui libro De coelesti hierarchia venne utilizzato da Dante per la questione delle Intelligenze motrici; Paolo Orosio, difensore nei suoi scritti dei christiana tempora; Severino Boezio, il suo De consolatione philosophiae fu uno dei testi più importanti del medioevo; Isidoro di Siviglia; Beda, il Venerabile, monaco benedettino sassone; Riccardo di San Vittore, agostiniano scozzese e Sigieri di Bramante, il più grande rappresentante dell’averroismo latino. Su quest’ultimo s’accanisce la critica dantesca: infatti Sigieri di Bramante venne combattuto proprio da Tommaso che lo fece processare dall’Inquisizione (vi era in lui la pericolosa teoria della separazione tra filosofia e teologia, pur lasciando a quest’ultima l’ultimo approdo per una verità sicura). Ci piace poter dire che “in questo cielo intellettualmente così aperto, così libero, così potentemente invaso dalla luce della ragione, Dante abbia voluto fare posto anche a chi quella ragione in buona fede si era sentito di seguire fino in fondo, anche attirandosi disapprovazione, odio, avversione. Piacerebbe poter dire che la carità di Dio sia più grande, più divinamente indulgente, delle scuole di pensiero filosofiche.” (Riccardo Bruscagli)
 
 
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CANTO XI
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti)
 

O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
Chi dietro a iura e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio,
quando, da tutte queste cose sciolto,
con Bëatrice m’era suso in cielo
cotanto glorïosamente accolto.

Poi che ciascuno fu tornato ne lo
punto del cerchio in che avanti s’era,
fermossi, come a candellier candelo.
E io senti’ dentro a quella lumera
che pria m’avea parlato, sorridendo
incominciar, faccendosi più mera:
«Così com’ io del suo raggio resplendo,
sì, riguardando ne la luce etterna,
li tuoi pensieri onde cagioni apprendo.
Tu dubbi, e hai voler che si ricerna
in sì aperta e ’n sì distesa lingua
lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna,
ove dinanzi dissi: “U’ ben s’impingua”,
e là u’ dissi: “Non nacque il secondo”;
e qui è uopo che ben si distingua.

thomas.jpgSan Tommaso

La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio nel quale ogne aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo,
però che andasse ver’ lo suo diletto
la sposa di colui ch’ad alte grida
disposò lei col sangue benedetto,
in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.
L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapïenza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.

De l’un dirò, però che d’amendue
si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
perch’ ad un fine fur l’opere sue.
Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.
Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.

Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;
ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;
e dinanzi a la sua spirital corte
et coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte.
Questa, privata del primo marito,
millecent’ anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;
né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;
né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.
Ma perch’ io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.
La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi;
tanto che ’l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo.
Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
dietro a lo sposo, sì la sposa piace.

Indi sen va quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
che già legava l’umile capestro.
Né li gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi’ di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia;
ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religïone.
Poi che la gente poverella crebbe
dietro a costui, la cui mirabil vita
meglio in gloria del ciel si canterebbe,
di seconda corona redimita
fu per Onorio da l’Etterno Spiro
la santa voglia d’esto archimandrita.
E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che ’l seguiro,
e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de l’italica erba,
nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.
Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede
ch’el meritò nel suo farsi pusillo,
a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l’amassero a fede;
e del suo grembo l’anima preclara
mover si volle, tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara.
Pensa oramai qual fu colui che degno
collega fu a mantener la barca
di Pietro in alto mar per dritto segno;
e questo fu il nostro patrïarca;
per che qual segue lui, com’ el comanda,
discerner puoi che buone merce carca.
Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda
è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote
che per diversi salti non si spanda;
e quanto le sue pecore remote
e vagabunde più da esso vanno,
più tornano a l’ovil di latte vòte.
Ben son di quelle che temono ’l danno
e stringonsi al pastor; ma son sì poche,
che le cappe fornisce poco panno.
Or, se le mie parole non son fioche,
se la tua audïenza è stata attenta,
se ciò ch’è detto a la mente revoche,
in parte fia la tua voglia contenta,
perché vedrai la pianta onde si scheggia,
e vedra’ il corrègger che argomenta
“U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”».

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Giotto: L’approvazione dell’ordine di San Francesco

Oh uomini, quanto sono insensate le vostre preoccupazioni, quanto sono imperfetti i vostri ragionamenti, che vi fanno rivolgere agli interessi terreni! Chi si occupa della scienza del diritto e chi della medicina, chi insegue qualche carica religiosa senza averne vocazione e chi il dominio politico ottenuto con la violenza o con l’inganno, chi si occupa di rubare e chi segue gli affari civili, chi si affanna intento a soddisfare il piacere della carne e chi si dedica all’ozio, mentre io, libero da tutti questi vani interessi terreni, lassù in cielo, in compagnia di Beatrice, venivo tanto gloriosamente accolto in Paradiso. Dopo che tutte le anime beate furono tornate nel punto del cerchio in cui si trovavano inizialmente, si fermarono, fissandosi come una candele in un candeliere. Ed io sentii dentro quella luce, che mi aveva prima parlato, sorridendo e diventando ancora più pura, più luminosa, ricominciare a parlare: «Dal momento che la mia luminosità deriva dalla luce di Dio, così, guardando in essa, posso conoscere l’origine di tutti i tuoi pensieri. Tu hai dei dubbi e vorresti che vengano meglio spiegate, nel linguaggio più chiaro e più semplice possibile, così da agevolare la tua comprensione, le mie parole, quando prima ti ho detto: “Dove si ingrassa bene”, e anche dove dissi: “Non nacque il secondo”; ed ora è necessario che ti spieghi meglio le due affermazioni. La provvidenza divina, che regola il mondo con quella sapienza che la facoltà intellettiva di ogni creatura non può arrivare a comprendere a fondo, affinché potesse andare incontro al suo tenero amante la sposa, la Chiesa, di colui, Cristo, che con alte grida la prese in sposa versando il proprio sangue sulla croce, più sicura di sé ed anche più fedele a lui, istituì due uomini eccellenti che la servissero e che dall’una (nella sapienza) e dall’altra parte (nella carità) le facessero da guida. L’uno, San Francesco, fu simile ad un angelo Serafino nel suo ardore di carità; l’altro, San Domenico, fu in Terra uno splendore di sapienza come un Cherubino. Parlerò solo del primo, dal momento che di entrambi si parla comunque se si loda uno qualunque dei due, poiché le loro opere furono indirizzate verso un medesimo fine. Tra il fiume Tupino e il corso d’acqua, il fiume Chiascio, che scende dal colle prescelto da Ubaldo per la sua vita da eremita, si trova il fertile versante dell’alto monte Subasio, dal quale Perugia riceve, a seconda delle stagioni, freddo e caldo da Porta a Sole; mentre dall’altro lato sono oppresse da quell’alto monte le città di Nocera e Gualdo Tadino. Su questo versante, dalla parte in cui la montagna diviene meno ripida, nacque un uomo destinato ad illuminare il mondo, tanto luminoso e fertile quanto il sole durante l’equinozio di primavera. Perciò, chi parla di quel luogo non dica Assisi, perché direbbe troppo poco di esso, ma dica Oriente, origine del sole, se vuole essere preciso. Non era ancora molto in là con gli anni (lontano dalla nascita), che cominciò a fare sentire alla sua patria i benefici della sua grande virtù; poiché, ancora in giovane età, per amore di una donna, la Povertà, si oppose al proprio padre, una donna che, come si fa con la morte, nessuno ha il piacere ad accogliere; e così, di fronte alla curia episcopale di Assisi ed in presenza del padre, si unì con lei in matrimonio; e l’amo poi sempre di più giorno dopo giorno. Questa donna, rimasta vedova del suo primo marito, Gesù, per più di mille anni era stato trascurata e disprezzata, e fino all’arrivo di questo uomo era rimasta senza pretendenti; non valse a niente l’aver appreso della sicurezza che poté godere con lei, in compagnia anche di Amiclate, Cesare, colui che da tutto il mondo era temuto; non le valse a niente neanche l’essere stata tanto fedele e coraggiosa, laddove Maria era dovuta rimanere giù, da salire e piangere con Cristo dall’alto della croce. Ma affinché non continui in questo discorso troppo oscuro, San Francesco e la Povertà sono i due amanti ai quali faccio riferimento nel mio discorso. La loro concordia e i loro volti lieti, l’amore, l’ammirazione e i loro dolci sguardi davano origini e pensieri santi, puri; tanto che il venerabile Bernardo fu il primo che si tolse i sandali e dietro ad una tale pace corse e, per correndo, gli sembrava di essere in ritardo. Oh ricchezza sconosciuta! Oh grande abbondanza di virtù! Si tolse i sandali Egidio e se li tolse anche Silvestro per seguire lo sposo, Francesco, tanto piacque la sposa, la Povertà. Francesco, padre e maestro, andò quindi a Roma dal papa con la sua donna, Povertà, e con quel gruppo di fratelli che già si legavano alla vita l’umile cordone. Non abbassò lo sguardo per la vergogna di essere figlio di un semplice mercante, Pietro Bernardone, né per il proprio abito tanto spregevole da suscitare meraviglia; ma, al contrario, dichiarò con parole dignitose la propria dura regola religiosa a papa Innocenzo III, e da lui ricevette la prima approvazione per il nuovo ordine. Dopo che crebbe in numero il gruppo di seguaci senza beni materiali, sul suo esempio, la cui incredibile vita sarebbe degna di essere cantata dagli angeli del Paradiso, un seconda corona, una seconda approvazione, fu data dallo Spirito Santo, tramite papa Onorio III, al santo volere di questo pastore, all’ordine di San Francesco. E dopo che, per l’intenso desiderio di testimoniare, anche con il proprio sacrificio, la fedeltà a Gesù, in presenza del superbo Sultano d’Egitto predicò la dottrina di Cristo e dei suoi apostoli, trovando non ancora matura per la conversione quella gente, per non rimanere senza fare nulla, ritornò in Italia, dove la sua azione prometteva maggiori frutti, sulla cima rocciosa del monte Verna, tra la sorgente del Tevere e quella dell’Arno, e prese da Cristo le stigmate, l’ultimo sigillo al suo operato, che portò sul proprio corpo per due anni, fino alla morte. Quando a Dio, che lo aveva prescelto per compiere tanto bene, piacque di condurlo a sé per dargli la ricompensa che si era meritato vivendo, per vocazione, nella povertà, ai frati suoi seguaci, come legittimi eredi, raccomandò la sua più cara donna, la Povertà, e comandò loro di amarla fedelmente; e dal grembo di lei l’anima gloriosa di Francesco volle separarsi, per tornare al suo creatore, a Dio, e per il suo corpo non volle altro come sepoltura, se non il grembo di lei, posto nudo a terra. Pensa dunque ora a chi fu colui che fu prescelto come degno collega di San Francesco per mantenere la barca di Pietro, la Chiesa, sulla giusta rotta anche in alto mare, nelle grosse difficoltà; questo uomo fu il nostro patriarca, San Domenico, il fondatore del nostro ordine; perciò chi segue i suoi insegnamenti puoi ben capire quale ricco tesoro spirituale acquisisca. Ma il suo gregge è ormai diventato avido di un nuovo nutrimento, tanto che non può che disperdersi per diversi pascoli selvatici; e quanto più le sue pecorelle si allontanano per vagabondare lontano da lui, dai suoi insegnamenti, tanto più ritornano poi all’ovile prive di latte, di ricchezza di spirito. Ci sono anche frati che temono le conseguenze dell’allontanamento e si stringono quindi al pastore; ma sono così pochi che occorre poco panno per cucire i loro mantelli. Ora, se le mie parole non sono di difficile comprensione, se le hai ascoltate attentamente, se richiami alla mente ciò che ti ho detto, sarà stato in parte soddisfatto il tuo desiderio di sapere, perché vedrai come si stia guastando la pianta dell’ordine domenicano e capirai il significato della frase oscura “in cui si riceve un ricco nutrimento spirituale, se non ci si perde in cose futili”».

E’ il canto di San Francesco, qui nel cielo del Sole, dettato dalle parole di un altissimo rappresentante di un ordine diverso, a sottolineare ancora una volta come in questa cantica sia centrale il tema della carità. 

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Beato Angelico: San Domenico e San Francesco

Il canto inizia con una riflessione dantesca che se da una parte si richiama fortemente al verso di Persio O cura hominum! o quantum est in rebus inane non dimentica tuttavia il concetto ecclesiastico della vanitas vanitatum delle cose terrene, messa in relazione alla gioia delle danze e dei canti espressi dagli spiriti sapienti. Una volta tornate al punto del cerchio in cui erano, san Tommaso riprende il discorso dalla frase cui si era interrotto u’ ben s’impingua se non si vaneggia (dove ci si arricchisce se non si va dietro le case vane), per giungere al panegirico si San Francesco.

Per Dante non era semplice parlare del Santo d’Assisi: circolavano già leggende sulla sua vita (il suo parlare agli animali, il bacio al lebbroso) e Giotto aveva già affrescato la Basilica Superiore della sua città descrivendo gli aspetti più noti e favolistici della sua vita. Si trattava dunque di scegliere quale immagine e come inserirla all’interno di un discorso più ampio sul ruolo della Chiesa in quel preciso momento storico. 

Per questo Dante sceglie, foss’anche in modo polemico con la Chiesa (da Bonifacio VIII a Celestino V) il tema della povertà e lo fa scegliendo la via della metafora: egli infatti come un cavaliere cortese, contro la volontà paterna, innamoratosi di madonna povertà, si unisce a lei, rinunciando a tutto e si mette al suo servizio. Quindi, mostrando ad ognuno la loro saldezza, riescono ad unire intorno a sé un gran numero di seguaci. E’ curioso il termine con cui Dante si riferisce parlando della richiesta ad Innocenzo III per l’approvazione del suo ordine: regalmente contrariamente alle fonti che parlano di umiltà humiliter. Non dimentichiamoci che egli viene descritto come cavaliere e pertanto l’avverbio tende a sottolineare la sua magnificenza e generosità. Quindi ci riferisce del suo viaggio in Medio Oriente (le fonti storiche contraddicono qui il poeta, affermando che Francesco venne accolto con onore e non con superbia), da dove ritornò non riuscendo a convertire quelle popolazioni; la creazione dell’ordine, le stigmate e la morte sulla nuda terra.

1280px-Nicodemo_ferrucci,_morte_di_san_francesco,_1620-24_ca._03.jpgNicodemo Ferrucci: La morte di Francesco

A ripercorrere il canto non troviamo il Francesco delle Laudes creaturarum, nessun verso che lo richiami, se non appunto il voler rientrare in contatto con la terra, quasi a significare quel contatto con la natura che ha sempre caratterizzato la vita e l’opera del santo.

CANTO XII
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti)

canto-xii

Gustave Doré: XII canto

Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola;
e nel suo giro tutta non si volse
prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse;
canto che tanto vince nostre muse,
nostre serene in quelle dolci tube,
quanto primo splendor quel ch’e’ refuse.
Come si volgon per tenera nube
due archi paralelli e concolori,
quando Iunone a sua ancella iube,
nascendo di quel d’entro quel di fori,
a guisa del parlar di quella vaga
ch’amor consunse come sol vapori,
e fanno qui la gente esser presaga,
per lo patto che Dio con Noè puose,
del mondo che già mai più non s’allaga:
così di quelle sempiterne rose
volgiensi circa noi le due ghirlande,
e sì l’estrema a l’intima rispuose.
Poi che ’l tripudio e l’altra festa grande,
sì del cantare e sì del fiammeggiarsi
luce con luce gaudïose e blande,
insieme a punto e a voler quetarsi,
pur come li occhi ch’al piacer che i move
conviene insieme chiudere e levarsi;
del cor de l’una de le luci nove
si mosse voce, che l’ago a la stella
parer mi fece in volgermi al suo dove;
e cominciò: «L’amor che mi fa bella
mi tragge a ragionar de l’altro duca
per cui del mio sì ben ci si favella.
Degno è che, dov’ è l’un, l’altro s’induca:
sì che, com’ elli ad una militaro,
così la gloria loro insieme luca.
L’essercito di Cristo, che sì caro
costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna
si movea tardo, sospeccioso e raro,
quando lo ’mperador che sempre regna
provide a la milizia, ch’era in forse,
per sola grazia, non per esser degna;
e, come è detto, a sua sposa soccorse
con due campioni, al cui fare, al cui dire
lo popol disvïato si raccorse.
In quella parte ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
di che si vede Europa rivestire,
non molto lungi al percuoter de l’onde
dietro a le quali, per la lunga foga,
lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde,
siede la fortunata Calaroga
sotto la protezion del grande scudo
in che soggiace il leone e soggioga:
dentro vi nacque l’amoroso drudo
de la fede cristiana, il santo atleta
benigno a’ suoi e a’ nemici crudo;
e come fu creata, fu repleta
sì la sua mente di viva vertute,
che, ne la madre, lei fece profeta.
Poi che le sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
u’ si dotar di mutüa salute,
la donna che per lui l’assenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
ch’uscir dovea di lui e de le rede;
e perché fosse qual era in costrutto,
quinci si mosse spirito a nomarlo
del possessivo di cui era tutto.
Domenico fu detto; e io ne parlo
sì come de l’agricola che Cristo
elesse a l’orto suo per aiutarlo.
Ben parve messo e famigliar di Cristo:
ché ’l primo amor che ’n lui fu manifesto,
fu al primo consiglio che diè Cristo.
Spesse fïate fu tacito e desto
trovato in terra da la sua nutrice,
come dicesse: ’Io son venuto a questo’.
Oh padre suo veramente Felice!
oh madre sua veramente Giovanna,
se, interpretata, val come si dice!
Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
di retro ad Ostïense e a Taddeo,
ma per amor de la verace manna
in picciol tempo gran dottor si feo;
tal che si mise a circüir la vigna
che tosto imbianca, se ’l vignaio è reo.
E a la sedia che fu già benigna
più a’ poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna,
non dispensare o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
non decimas, quae sunt pauperum Dei,
addimandò, ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante.
Poi, con dottrina e con volere insieme,
con l’officio appostolico si mosse
quasi torrente ch’alta vena preme;
e ne li sterpi eretici percosse
l’impeto suo, più vivamente quivi
dove le resistenze eran più grosse.
Di lui si fecer poi diversi rivi
onde l’orto catolico si riga,
sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.
Se tal fu l’una rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse in campo la sua civil briga,
ben ti dovrebbe assai esser palese
l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
dinanzi al mio venir fu sì cortese.
Ma l’orbita che fé la parte somma
di sua circunferenza, è derelitta,
sì ch’è la muffa dov’ era la gromma.
La sua famiglia, che si mosse dritta
coi piedi a le sue orme, è tanto volta,
che quel dinanzi a quel di retro gitta;
e tosto si vedrà de la ricolta
de la mala coltura, quando il loglio
si lagnerà che l’arca li sia tolta.
Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio
nostro volume, ancor troveria carta
u’ leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”;
ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
là onde vegnon tali a la scrittura,
ch’uno la fugge e altro la coarta.
Io son la vita di Bonaventura
da Bagnoregio
, che ne’ grandi offici

sempre pospuosi la sinistra cura.
Illuminato e Augustin son quici,
che fuor de’ primi scalzi poverelli
che nel capestro a Dio si fero amici.
Ugo da San Vittore è qui con elli,
e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
lo qual giù luce in dodici libelli;
Natàn profeta e ’l metropolitano
Crisostomo e Anselmo e quel Donato
ch’a la prim’ arte degnò porre mano.
Rabano è qui, e lucemi dallato
il calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato.
Ad inveggiar cotanto paladino
mi mosse l’infiammata cortesia
di fra Tommaso e ’l discreto latino;
e mosse meco questa compagnia».

unnamedSan Domenico

Non appena la fiamma benedetta di San Tommaso ebbe pronunciato l’ultima parola, il cerchio delle anime sante ricominciò a ruotare; nella sua danza non finì il primo giro che fu subito circondato da un altro cerchio di anime, e le si accordò sia nel movimento che nel canto; canto così superiore alla nostra poesia e alle sirene in quei dolci strumenti,  quanto la luce diretta rispetto a quella riflessa. Come si incurvano nel cielo attraverso una nuvola trasparente due arcobaleni concentrici e dello stesso colore, quando Giunone ordina alla sua messaggera Iride, e l’arco esterno nasce da quello interno, come la voce dell’errabonda ninfa Eco che per amore si consumò come fa il sole con la nebbia, e rendono la gente della Terra certa che la terra non verrà mai più allagata, grazie al patto che Dio fece con Noè; e così quei eterni cerchi giravano intorno a noi, e così quella più esterna si adeguò a quella interna. Dopo che la danza ed il grande ardore del canto, svolti all’unisono e con un rispondersi a vicenda nello splendore tra quelli luci beate e caritatevoli, si arrestarono nello stesso momento e con volontà unanime, come solo gli occhi, reagendo allo stimolo che li stimola, riescono a chiudersi e ad aprirsi insieme; dall’interno di una delle luci appena arrivate uscì una voce, che mi fece somigliare all’ago della bussola, nel mio voltarmi verso di lei; e cominciò: «La carità, che mi fa risplendere di bellezza, mi induce a parlarti del fondatore dell’altro ordine (S. Domenico), che ha spinto altri a tessere le lodi del fondatore del mio di ordine (San Francesco). E’ giusto che dove si parli di uno si ricordi anche l’altro: in modo che, così come essi combatterono per lo stesso fine, così risplenda insieme la loro gloria. L’esercito dei cristiani, che fu rifondata ad un così caro prezzo, seguiva lenta, dubbiosa e scarsa l’insegna della Santa Chiesa quando Dio, imperatore eterno, venne in soccorso ai suoi soldati, che erano incerti del futuro, non perché degni, ma spinto solo dalla sua carità; e, come è già stato detto, venne in soccorso alla Chiesa con due grandi combattenti, intorno alle cui opere e parole si raccolse la cristianità smarrita. In quella parte del terra, dove il dolce vento di Zefiro si leva a far germogliare le verdi foglie con cui si riveste l’Europa, non molto lontano dalle coste del mare, dietro le quali, dopo il suo lungo corso estivo, il sole tramonta per tutti gli uomini, si trova la fortunata città di Calaruega, protetta dalla gloriosa insegna nella quale appaiono due leoni uno in alto e uno in basso: in quella città vi nacque l’appassionato amante della fede cristiana, il santo atleta benevolo verso i suoi simili e spietato verso i nemici della fede; e non appena creata, la sua anima fu riempita di virtù tale da rendere, quando ancora era nel suo ventre, sua madre profeta. Dopo che furono celebrate le nozze con la Fede alla fonte battesimale, dove si scambiarono reciproca salvezza, la sua madrina, che diede il consenso per lui al battesimo, vide in sogno il mirabile risultato che avrebbe dovuto compiersi attraverso lui ed i suoi eredi; e poiché diventasse ciò che era stato concepito da Dio per lui, si mosse lo Spirito a chiamarlo con l’aggettivo  il suo nome potesse esprimere la sua natura, dal cielo discese l’ispirazione di chiamarlo con l’aggettivo possessivo a cui egli apparteneva nella sua interezza (anima e corpo). Fu chiamato Domenico; ed io ne parlo come dell’agricoltore che Cristo scelse per aiutarlo a coltivare il suo orto. Giustamente apparve inviato e servo di Cristo, tanto che il suo primo desiderio che egli manifestò fu il primo consiglio che gli diede Cristo (umiltà e povertà).  Spesse volte fu trovato giacere silenzioso e sveglio a terra dalla sua balia, come se dicesse: “Io sono venuto al mondo per questo.” Davvero fu Felice suo padre (nel possedere tale nome)! Oh veramente una Giovanna sua madre, se davvero si interpreta il significato del suo nome come “Grazia di Dio”! Non per onori terreni , per cui oggi ci si affanna a studiare diritto ecclesiastico di Enrico di Susa, detto l’Ostiense, e Taddeo d’Alderotto, famoso medico, ma solo per amore del cibo spirituale Domenico diventò in poco tempo un gran teologo; tanto che iniziò subito a vegliare, girandogli intorno, sulla vigna di Dio (la Chiesa), che presto si secca se il vignaiolo è cattivo. Ed alla Santa Sede, che in passato fu più generosa verso i poveri onesti, non per colpa sua ma per colpa di colui che la occupa e che tradisce il suo compito, domandò non le rendite della prima curia libera, non le decime, che sono dei poveri di Dio, ma chiese invece soltanto il permesso di combattere per quella fede da cui nacquero le ventiquattro anime che ora ti circondano. Poi, con sapienza religiosa ed insieme con zelo, con il mandato del Papa iniziò la sua opera come un torrente sospinto da una corrente di cascata; e contro l’erbaccia dell’eresia scagliò il proprio impeto, più violentemente laddove trovava una maggiore resistenza. Da lui si staccarono poi diversi fiumi, che arano il campo della Chiesa, in modo che le sue tenere piante siano più resistenti. Se dunque tale fu una delle due ruote della biga (san Domenico) con cui la Santa Chiesa si difese e vinse in battaglia la sua guerra civile contro gli eretici, dovresti ben comprendere l’eccellenza dell’altra ruota (San Francesco), di cui S. Tommaso ti ha parlato con tanta cortesia. Ma la strada tracciata dalla parte esterna sua ruota è abbandonata, cosicché c’è ora la muffa là dove prima c’era il tartaro. I suoi seguaci di S. Francesco, hanno talmente cambiato direzione, da camminare in senso contrario, e presto ci si accorgerà della cattiva coltivazione del raccolto, quando l’erbaccia si lamenterà  di non poter entrare nel granaio (quando lo sviamento dei Frati non permetterà loro di entrare in Paradiso). Credo che chi cercasse tra i francescani, foglio per foglio, come in un libro, potrebbe ancora trovare qualche pagina su cui poter leggere “Io sono umile come ero solito essere”; ma non saranno certamente i francescani seguaci di Ubertino da Casale né di Matteo d’Acquasparta, da dove proviene chi la Regola la elude e chi la irrigidisce. Io sono l’anima di Bonaventura da Bagnoregio, e rispetto alle grandi cariche ecclesiastiche che rivestii, misi sempre in secondo piano la cura dei beni terreni. Ci sono qui anche Illuminato e Agostino, che furono i primi poverelli scalzi, ad essere benvoluti da Dio per il rispetto della Regola. Qui con loro ci sono anche Ugo di San Vittore, Pietro Mangiatore e Pietro Ispano, la cui fama risplende ancora nei dodici libri delle Summulae logicales; il profeta Natan ed il vescovo di Costantinopoli Giovanni Crisostomo, Anselmo d’Aosta e quel Donato che si occupò della prima delle arti liberali, la grammatica. C’è qui Rabano Mauro, e risplende al mio fianco l’abate calabrese Gioacchino da Fiore, dotato di spirito profetico. Ad elogiare un così grande paladino della fede mi spinse l’ardente cortesia di San Tommaso ed il suo sapiente discorso; che seppe accendere di gioia anche queste anime che sono in mia compagnia».

maxresdefaultFrancesco e Domenico

Questo canto, insieme all’XI, dà vita ad una vero e proprio dittico, in quanto risulta evidente come Dante li abbia concepiti specularmente a partire dalla definizione di entrambi, come due pilastri voluti da Dio, per difendere la Chiesa.

La complementarietà dei due canti si può così riassumere:

  1. Panegirico rispettivamente di Francesco nell’XI e San Domenico nel XII: parallelamente, ma incrociata, la polemica degli ordini di cui loro sono i fondatori;
  2. Sono costruiti a chiasmo: San Tommaso, domenicano, tesse le lodi di Francesco, San Bonaventura, francescano, tesse le lodi di Domenico
  3. Le biografie e la polemica sono parallele: premessa nella prima parte del canto, biografie e loro azioni nella parte centrale, invettiva per la degenerazione per l’ordine di chi parla ultima parte;
  4. Il compito dei due santi parallelo: combattere la corruzione e l’eresia;
  5. I due matrimoni: Francesco con la povertà, Domenico con la Fede.

Beato Angelico San Domenico adora il crocefissoSan Domenico

Certo la biografia di Domenico presenta meno curiosità di quelle di Francesco, per cui una maggiore insistenza sul significato della nascita; anche il linguaggio usa un repertorio lessicale diverso, nel primo prevale il concetto di cortesia, d’amore, dove la Povertà assume le caratteristiche di una donna fedele; nel secondo il registro è maggiormente militaresco, a sottolineare la battaglia che Domenico deve compiere per liberare la Chiesa dal peccato.

CANTO XIII
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti)

San-Tommaso-dAquino-1San Tommaso

Il canto XIII è una dei maggiormente dottrinali del Paradiso dantesco, che ha diviso la critica definendolo da parte di alcuni “come il più povero” (Momigliano) altri come “dei più appassionati e appassionanti” (Toffanin). Questo alla luce di una lunghissima introduzione astronomica (tutta infarcita di sapienza medievale), in cui si parte dalle ventiquattro stelle, scisse in due nuove costellazioni, quindi esse si trasformano a formare due figure geometriche in movimento, come cerchi rotanti in senso contrario, che evocano  la trinità e l’incarnazione. Il loro armonioso canto cessa con sincronia insieme alla danza che lo accompagnava. La parte centrale è occupata da san Tommaso, che spiega a Dante la frase, apparsa nel X canto in cui parlando della stella in cui rifulge l’anima di Salomone, afferma che entro v’è l’alta mente u’ si profondo / saver fu messo, che, se ‘l vero è vero, / a veder tanto non surse il secondo. Infatti come può l’anima di Salomone essere la più sapiente del mondo? Tale qualità non spetta infatti al primo uomo, prima di essere cacciato dal Paradiso Terrestre? o meglio ancora a Gesù in qualità di uomo? La risposta riguarda una “sapienza relativa”: certamente Salomone non è il più sapiente di tutti gli uomini, lo è di tutti i re. Ciò porta Tommaso ad ammonire l’uomo riguardo la comprensione delle cose divine, che dovrebbero mostrare maggiore prudenza e a non incorrere negli errori della filosofia antica o degli eretici moderni le cui conclusioni sembrano non avere alcuna differenza con i chiacchiericci popolari.

CANTO XIV
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti

Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)

E’ un canto di passaggio in cui Dante attraversa il cielo del Sole dove ha parlato con gli spiriti sapienti di Domenico e Tommaso e il cielo di Marte dove gli appariranno gli spiriti combattenti per la fede in cui incontrerà Cacciaguida, figura centrale dell’intero percorso paradisiaco dantesco. Prima di questa parte importantissima, ultimo tra i sapienti, Dante vedrà l’anima di Salomone, evocato alla fine del canto precedente, re biblico di leggendaria sapienza, che risolverà un dubbio dantesco, rivoltogli con voce soave da Beatrice: dopo la resurrezione dei corpi le anime beate conserveranno la luminosità paradisiaca eternamente? Se ciò avvenisse come potranno i corpi sostenere una tale intensità di luce e come potrà la vista sostenere un così forte bagliore? 

E’ evidente che qui Dante sposi la teoria classica della resurrezione in cui i corpi, il giorno del giudizio universale, materialmente si riuniranno alle anime conservando intatte le caratteristiche fisiche, sebbene perfezionate al massimo grado. Saranno pertanto corpi veri, riconoscibili, ma irradianti luce divina. La gioia delle anime a questo annuncio, denota una carica di umanità che trascende il dato puramente teologico: la certezza di ridiventare “individui riconoscibili”, offre un nuovo modo con cui i credenti possono pensare ai loro cari nell’aldilà, dando maggiore forza e maggiore letizia immaginandoli nel loro essere a fianco a Dio.

Si giunge quindi alla seconda parte del canto, l’ascesa al cielo di Marte: essa inizia nel cielo del Sole, quando le anime dei sapienti si dispongono in cerchio emanando un così forte splendore che Dante deve chinare il viso; riacquistata la forza di risollevare lo sguardo, attraverso lo sguardo di Beatrice, si rende conto di ascendere al cielo rosseggiante di Marte, in cui vede le anime luminose muoversi lungo i bracci di una croce, sulla quale lampeggia per un attimo la passione di Cristo, che provoca un canto di lode da parte di tutti i beati. 

CANTO XV
(Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)

All’improvviso il santo coro si tace, per permettere a Dante di poter dialogare con le anime beate. Un’anima si stacca, percorrendo un braccio della croce, pronunciando:

O sanguis meus, o superinfusa
gratïa Dei, sibï tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa

attirando l’attenzione del poeta. Dapprima parla in modo per cui lo stesso Dante non riesce a comprenderlo, cioè in un linguaggio che trascende la capacità umana, quindi, torna ad un eloquio comprensibile:

(…)
la prima cosa che per me s’intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno, 
che nel mio seme se’ tanto cortese!».
E seguì: «Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume 
du’ non si muta mai bianco né bruno,
solvuto hai, figlio, dentro a questo lume 
in ch’io ti parlo, mercè di colei 
ch’a l’alto volo ti vestì le piume.
Tu credi che a me tuo pensier mei 
da quel ch’è primo, così come raia 
da l’un, se si conosce, il cinque e ‘l sei;
e però ch’io mi sia e perch’io paia
più gaudioso a te, non mi domandi, 
che alcun altro in questa turba gaia.
Tu credi ‘l vero; ché i minori e ‘ grandi 
di questa vita miran ne lo speglio 
in che, prima che pensi, il pensier pandi;
ma perché ‘l sacro amore in che io veglio
con perpetua vista e che m’asseta 
di dolce disiar, s’adempia meglio,
la voce tua sicura, balda e lieta 
suoni la volontà, suoni ‘l disio, 
a che la mia risposta è già decreta!».
Io mi volsi a Beatrice, e quella udio 
pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno 
che fece crescer l’ali al voler mio.
Poi cominciai così: «L’affetto e ‘l senno,
come la prima equalità v’apparse, 
d’un peso per ciascun di voi si fenno,
però che ‘l sol che v’allumò e arse, 
col caldo e con la luce è sì iguali, 
che tutte simiglianze sono scarse.
Ma voglia e argomento ne’ mortali, 
per la cagion ch’a voi è manifesta, 
diversamente son pennuti in ali;
ond’io, che son mortal, mi sento in questa 
disagguaglianza, e però non ringrazio 
se non col core a la paterna festa.
Ben supplico io a te, vivo topazio
che questa gioia preziosa ingemmi, 
perché mi facci del tuo nome sazio».
«O fronda mia in che io compiacemmi 
pur aspettando, io fui la tua radice»: 
cotal principio, rispondendo, femmi.
Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent’anni e piùe 
girato ha ‘l monte in la prima cornice,
mio figlio fu e tuo bisavol fue: 
ben si convien che la lunga fatica 
tu li raccorci con l’opere tue.

Quindi l’anima racconta la bellezza e l’alta moralità della Firenze ai tempi del bisnonno di Dante, quando non si conosceva ancora l’arroganza del potere mostrata attraverso il lusso ed i costumi erano morigerati. Ne furono testimonianza i nobili del tempo e le loro donne con abiti semplici e con gesti legati all’amore familiare.

A così riposato, a così bello 
viver di cittadini, a così fida 
cittadinanza, a così dolce ostello,
Maria mi diè, chiamata in alte grida;
e ne l’antico vostro Batisteo 
insieme fui cristiano e Cacciaguida.
Moronto fu mio frate ed Eliseo; 
mia donna venne a me di val di Pado, 
e quindi il sopranome tuo si feo.
Poi seguitai lo ‘mperador Currado; 
ed el mi cinse de la sua milizia, 
tanto per bene ovrar li venni in grado.
Dietro li andai incontro a la nequizia 
di quella legge il cui popolo usurpa, 
per colpa d’i pastor, vostra giustizia.
Quivi fu’ io da quella gente turpa 
disviluppato dal mondo fallace, 
lo cui amor molt’anime deturpa;
e venni dal martiro a questa pace».

O sangue mio, o sovrabbondante grazia di Dio, a chi mai come a te la porta de cielo è stata dischiusa due volte?

(…) la prima cosa che compresi fu quando disse: «Benedetto sia tu, o Dio uno e trino, che sei tanto cortese verso il mio discendente!» Poi continuò: «Tu, o figlio, hai finalmente esaudito in questa luce in cui io ti parlo il gradito e lontano desiderio che avevo tratto leggendo dal gran volume (la mente divina) dove ogni cosa è immutabile, grazie a colei (Beatrice) che ti ha dato le ali per questo alto volo. Tu credi che il tuo pensiero venga a me da quello divino, così come dall’uno, se lo si conosce, derivano il cinque e il sei; e dunque non mi chiedi chi sono e perché sembri più felice per la tua presenza, rispetto a chiunque altro in questa beata schiera. Tu pensi il vero; infatti le anime più e meno beate del Paradiso osservano nella mente divina, come in uno specchio, nella quale, prima ancora che tu pensi, si riflette il tuo pensiero; tuttavia, affinché l’ardore di carità che io provo sempre grazie alla continua contemplazione di Dio e che mi accende di dolce desiderio si adempia perfettamente, la tua voce sicura, senza incertezze e lieta esprima la tua volontà, faccia risuonare il desiderio al quale la mia risposta è stata già decretata!» Io mi rivolsi a Beatrice e lei capì prima che parlassi, e mi sorrise con un cenno che fece crescere le ali al mio desiderio. Poi cominciai a dire: «Il sentimento e l’intelletto, non appena Dio vi apparse, si fecero per voi dello stesso peso, poiché il sole (Dio) che vi illuminò e scaldò è uguale nel suo sapere e nel suo amore, al punto che ogni altra uguaglianza è imperfetta. Ma sentimento e intelletto nei mortali hanno mezzi ben diversi, per la ragione che vi è nota; perciò io, che sono mortale, mi sento in questa insufficienza, dunque ringrazio solo col cuore per la festosa accoglienza. Ora ti supplico, splendente topazio che sei incastonato questo prezioso gioiello (la croce), di rivelarmi il tuo nome». Egli iniziò così a rispondermi: «O mio discendente, in cui mi sono compiaciuto anche solo aspettando, io fui il capostipite della tua famiglia». Poi proseguì: «Colui dal quale deriva il tuo cognome e che gira da più di cent’anni nella I Cornice del Purgatorio, fu mio figlio e il tuo bisnonno: è opportuno che tu abbrevi la sua lunga fatica con le tue preghiere. (…)  In una convivenza così pacifica e bella, in una comunità così unita di cittadini, in una così bella dimora mi fece nascere mia madre, invocando Maria nelle grida del parto; e nel vostro antico Battistero di S. Giovanni fui battezzato col nome di Cacciaguida. Miei fratelli furono Moronto ed Eliseo; mia moglie venne dalla Valpadana, e da lei ebbe origine il tuo cognome, Alighieri. Poi seguii l’imperatore Corrado III; ed egli mi fece cavaliere, a tal punto gli piacqui con il mio retto operare. Lo seguii in Terrasanta, contro la malvagità di quella religione (l’Islam) il cui popolo usurpa quei luoghi, a causa della trascuratezza dei pontefici. Lì quella gente maledetta mi strappò dal mondo fallace (mi uccise), il cui amore svia molte anime; e venni da quel martirio direttamente a questa pace».
 
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Giovanni Di Paolo: Canto XV

E’ questo il primo di una triade di canti dedicati all’antenato di Dante Cacciaguida. L’importanza di questa figura all’interno del percorso itinerale dantesco è dapprima strutturale, in quanto tale triade è posta al centro del Paradiso, quindi in essa convergono e si completano alcuni interrogativi del poeta sul compito e sul futuro che l’attende. Non è un caso che Dante abbia voluto riferirsi ad un antenato che era morto per la fede e non al padre oscuro mercante. Il compito di Cacciaguida di combattere e vincere, pur vinto, contro l’infedele diventa quindi exemplum del compito del poeta che deve combattere per riportare Firenze e i suoi concittadini alla moralità di un tempo, vero specchio di un retto modus vivendi che porta alla beatitudine. 

Tutto questo avviene nella narrazione attraverso tre fasi:

  • l’apostrofe latina che sottolinea l’estrema letizia con cui Cacciaguida accoglie un suo discendente cui Dio ha concesso la somma grazia di percorrere da vivo i suoi regni;
  • la descrizione della Fiorenza dentro la cerchia antica che fa da contrasto alla boria dei costumi attuali, resa ancora più incisiva dalla nostalgia della sua patria perduta per via dell’esilio;
  • lo svelamento del nome e in poche parole il suo martirio, martirio che acquista per l’eternità la pace dei beati.

CANTO XVI
(Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)

E’ questo il secondo momento dedicato a Cacciaguida, che lo ha lasciato ricordando, quasi gloriandosi, il suo martirio. Ciò permette a Dante di riflettere  sulla nobiltà di sangue, di cui non ci deve vergognare in terra se è motivo di orgoglio in cielo, ma nel contempo non dev’essere fondata sull’eredità del nome, se non si fortifica con opere degne, come quella di Cacciaguida morto per la fede.

Quindi il nostro domanda come era Firenze ai tempi della sua gioventù: 

dissemi: «Da quel dì che fu detto ’Ave’
al parto in che mia madre, ch’è or santa,
s’allevïò di me ond’ era grave,
al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.
Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annüal gioco.
Basti d’i miei maggiori udirne questo:
chi ei si fosser e onde venner quivi,
più è tacer che ragionare onesto.
Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
da poter arme tra Marte e ’l Batista,
eran il quinto di quei ch’or son vivi.
Ma la cittadinanza, ch’è or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
pura vediesi ne l’ultimo artista.
Oh quanto fora meglio esser vicine
quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
e a Trespiano aver vostro confine,
che averle dentro e sostener lo puzzo
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
che già per barattare ha l’occhio aguzzo!
Se la gente ch’al mondo più traligna
non fosse stata a Cesare noverca,
ma come madre a suo figlio benigna,
tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a Simifonti,
là dove andava l’avolo a la cerca;
sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;
sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,
e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.
Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade
,

come del vostro il cibo che s’appone;
e cieco toro più avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia
più e meglio una che le cinque spade.
Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,
udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
poscia che le cittadi termine hanno.
Le vostre cose tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.
E come ‘l volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna:
per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.

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Dante e Beatrice con l’anima di Cacciaguida

mi disse: “Dal giorno dell’Annunciazione, in cui l’arcangelo Gabriele disse “Ave”, al giorno in cui mia madre, ora tra i beati in Paradiso, mi partorì, sotto il segno del Leone per ben cinquecentottanta volte ritornò il pianeta Marte a risplendere (passarono 1091 anni). I miei antenati ed io stesso nascemmo nel luogo di Firenze in cui si trova l’ultimo sestiere di quelli che corrono il vostro palio annuale di San Giovanni. Dei miei antenati ti basti sapere questo: chi essi fossero e da dove giunsero poi a Firenze, è più opportuno tacerlo. A quel tempo, tutti quelli che a Firenze, tra la statua di Marte sul Ponte Vecchio ed il Battistero, era buoni per le armi, erano complessivamente solo un quinto di quelli di adesso. Ma la cittadinanza, che ora è mischiata con genti di Campi Bisenzio, di Certaldo e di Figline Valdarno, allora l’avresti potuta vedere pura fino al più umile artigiano. Oh quanto sarebbe meglio poter avere solo come vicini quelle genti che ho appena nominato, ed avere i confini della città in corrispondenza delle borgate Trespiano e Galluzzo, piuttosto che averle dentro le mura e dover sopportare la puzza di quel campagnolo di Aguglione, o di quella di Signa, che ha l’occhio pronto quando c’è da ingannare! Se la gente, i papi ed i vescovi, che più si allontanano dalla via assegnata loro, non si fossero comportati come una matrigna nei confronti dell’imperatore, ma piuttosto come una madre amorevole nei confronti del proprio figlio, non sarebbero diventati fiorentini, esercitando il cambio ed il commercio, ed avrebbero continuato a vivere nel contado di Semifonte, dove i loro antenati erano mercanti itineranti; Montemurlo sarebbe ancora in mano ai Conti; i Cerchi vivrebbero ancora nel gruppo di parrocchie di Acone in val di Sieve, e forse i Buondelmonti in val di Greve. La mescolanza di stirpi diverse è sempre stata l’origine del male della città, che il cibo che va a sovrapporsi nello stomaco a quello non ancora digerito; ed un toro cieco cade prima di un agnello cieco; e molte volte taglia di più e meglio una spada sola che cinque spade. Se consideri come le città di Luni e Urbisaglia sono poi andate a finire, e come le stanno seguendo nella sorte Chiusi e Senigallia, il sentire come le stirpi si estinguano tanto facilmente non ti sembrerà cosa né strana né difficile, dal momento che anche le città hanno una loro fine. Tutte le cose umane sono destinate a morire, così come voi uomini; solo che in alcune la morte non si vede, perché durano molto, mentre le vostre vite sono brevi. E come il corso della luna determina il flusso delle maree, abbassando e diminuendo continuamente il livello sulle coste, così fa la Fortuna con Firenze: non ti deve perciò sembrare incredibile ciò che ti dirò riguardo agli illustri fiorentini, la cui fama è stata cancellata dal tempo.

Potremmo quasi commentare come questo discorso faccia da pendant a quello già iniziato nel quindicesimo, in cui si raccontava la bellezza e l’onesta della Firenze antica. Qui egli precisa: lui è nato nel 1091 al tempo in cui Firenze si limitava tra la statua di Marte sul ponte Vecchio e il Battistero, corrispondente al cuore della città vecchia. Quindi, a confortare il suo discorso, parla  del declino derivato dall’inurbamento di “genti del contado”. Ad una lettura superficiale potrebbe sembrare che qui Cacciaguida, e Dante con lui, ricerchi quasi una purezza etnica del popolo fiorentino, ma a leggere bene, attentamente il testo “possiamo dire che Dante non cade nella generalizzazione che invece è caratteristica di ogni politica d’esclusione; senza voler sottovalutare il suo senso di disgusto per l’imbastardimento del popolo fiorentino, è sintomatico però che, come sempre, egli additi responsabilità individuali precise, delitti e crimini civili dei singoli. Semmai, il fenomeno più generale che il discorso di Cacciaguida deplora (e questo sì, di grande peso ideologico e storico) è l’inurbamento come conseguenza del disfarsi dell’antica rete di castelli signorili in Toscana, specie dopo la disfatta imperiale di Benevento. E’ un fenomeno già presente nell’invettiva-compianto all’Italia del canto VI del Purgatorio e qui torma distintamente riconoscibile. Ancora una volta la responsabilità è attribuita alla Chiesa, noverca, cioè matrigna invece che madre amorosa, nei confronti del potere imperiale, da lei caparbiamente osteggiato” (Bruscagli-Giudizi)

CANTO XVII
(Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)

Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;
tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito.
Per che mia donna «Manda fuor la vampa
del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca
segnata bene de la interna stampa:
non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché t’ausi
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca».
«O cara piota mia che sì t’insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,
così vedi
 le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti;
mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura
e discendendo nel mondo defunto,
dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura;
per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta».
Così diss’ io a quella luce stessa
che pria m’avea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa.
Né per ambage, in che la gente folle
già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle,
ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso:
«La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;
necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia.
Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.
Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca.
La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa.
Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.

E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’ a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.
Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.
Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello;
ch’in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo.
Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue.
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;
ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.
A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;
e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai»; e disse cose
incredibili a quei che fier presente.
Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
che dietro a pochi giri son nascose.
Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ’l punir di lor perfidie».
Poi che, tacendo, si mostrò spedita
l’anima santa di metter la trama
in quella tela ch’io le porsi ordita,
io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama:
«Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;
per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
sì che, se loco m’è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.
Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,
e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;
e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico».
La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro;
indi rispuose: «Coscïenza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’ è la rogna.
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia».

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Con la stessa ansia con cui si rivolse a Cimene, per accertarsi di ciò che aveva sentito dire su di sè, (Fetonte), sul cui esempio ancora oggi i padri sono prudenti nell’acconsentire troppo facilmente ai desideri dei figli; allo stesso modo ero ansioso io, e si accorse del mio stato sia Beatrice che quell’anima santa di Cacciaguida che per parlare con me aveva lasciato il suo posto presso la croce luminosa. Disse pertanto la mia donna: «Manifesta il tuo ardente desiderio, così da esprimere l’intima richiesta: non perché per comprenderlo meglio abbiamo bisogno delle tue parole, ma perché così ti abitui ad esporre le tue richieste, in modo che vengano soddisfatte.» «O mia cara radice che ti elevi tanto in alto che, come gli uomini riescono a comprendere che due angoli ottusi non possono essere contenuti in un triangolo, con la stessa chiarezza tu puoi conoscere gli eventi prima che accadano guardando in Dio, il luogo in cui tutto il tempo è presente; durante la mia salita insieme a Virgilio sulla montagna del Purgatorio, dove le anime si purificano e scendendo quindi nel regno dei morti nel peccato, mi furono rivolte parole preoccupanti riguardo il mio futuro, per quanto io mi senta preparato alle disgrazie della fortuna;  per questo il mio desiderio sarebbe appagato se potessi conoscere quale è la sorte che mi attende: perché una freccia prevista colpisce più lentamente.» Dissi queste parole a quella anima luminosa che poco prima mi aveva parlato; e come volle Beatrice, confessai quindi apertamente il mio desiderio. Non con il linguaggio ambiguo degli oracoli, nel quale le menti pagane si invischiavano già prima che ci fosse il sacrificio dell’Agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo, ma con parole chiare ed con un discorso diretto mi rispose quel padre amorevole, avvolto e visibile nella propria gioia: «Tutte le cose contingenti, che sono proprie soltanto del vostro mondo materiale, sono presenti nella mente di Dio; ma non per questo assumono carattere di necessità,  così come non dipende dallo sguardo di chi la osserva, il movimento di una nave che scende lungo un torrente. Dalla mente di Dio, così come giunge ad un orecchio la dolce melodia emessa da un organo, allo stesso modo giungono alla mia vista gli avvenimenti che ti attendono. Come Ippolito fu costretto a fuggire da Atene a causa della spietata e malefica matrigna, allo stesso modo dovrai allontanarti da Firenze. Questo si vuole e questo si cerca già di attuare, e presto verrà fatto da chi trama dove si fa mercato della religione cristiana. L’offesa, come è solito, sarà addossata a gran voce ai vinti; ma la vendetta di Dio sarà testimonianza della verità che la dispensa. Tu dovrai abbandonare tutte le cose che ami di più; e questo è il primo dolore che l’esilio provoca. Proverai così quanto è amaro il pane altrui, e quanto è faticoso salire e scendere per scale che non sono tue. Quello che ti renderà però l’esilio più duro, sarà la compagnia malvagia e divisa dei Bianchi, con la quale tu condividerai questa miseria; poiché si mostrerà tutta ingrata, irragionevole e crudele nei tuoi confronti; ma, subito dopo, sarà quella compagnia, e non tu, a doversene vergognare. La loro follia sarà dimostrata dal loro comportamento; così che sarà onorevole per te esserti isolato da loro. Il tuo primo rifugio e la tua prima dimora sarà presso il generoso signore di Verona (Bartolomeo della Scala), che nello stemma porta raffigurata l’aquila imperiale; avrà verso di te un atteggiamento tanto benevolo, che tra il chiedere ed il fare, tra i voi due, avverrà per primo il suo fare. Quando sarai presso la sua corte incontrerai colui (Cangrande) che, nascendo, ricevette l’influsso di questo pianeta in maniera così decisa da rendere memorabili le sue imprese. Il popolo non si è ancora accorto di questa sua eccezionalità a causa della sua giovane età, poiché per solo nove anni hanno girato questi cieli intorno a lui (ha solo nove anni); ma prima che il papa Clemente V possa ingannare Arrigo VII, i primi segnali del suo valore si manifesteranno nel suo disprezzo verso il denaro e verso ogni fatica. Le sue eccellenti virtù saranno allora manifeste, così che neanche i suoi nemici potranno fare a meno di parlarne. Riponi la tua fiducia in lui e nei suoi suoi benefici; la condizione di molte persone cambierà grazie a lui, scambiando di posto i ricchi con i mendicanti; conserva nella tua mente ciò che ti dico di lui, ma non lo dirlo a nessuno»; e disse poi cose che appariranno incredibili anche a chi le vivrà in prima persona. Aggiunse poi: «Figliolo, questa è la spiegazione di quello che ti è stato detto da altri; queste sono le insidie che ti aspettano in agguato nel giro di pochi anni. Non voglio però che tu nutra rancore nei confronti dei tuoi concittadini, dal momento che la tua vita durerà abbastanza per vedere la punizione che li attende per le loro malvagità.» Dopo che quell’anima santa, ormai in silenzio, si mostrò libera dal compito di dare una spiegazione a quei miei dubbi che le avevo esposto, cominciai io a parlare come chi, nel dubbio, desidera un consiglio da una persona che conosce le cose e vuole il bene e ama: «Capisco, padre mio, come incalzi il tempo contro me, per darmi un tale colpo che è ancora più grave a chi si lascia abbattere dalla sua forza; per cui è bene che io mi armi di previdenza affinché, se perdo il luogo a me tanto caro, non perda anche gli altri per colpa della mia poesia. Giù per l’amara voragine infernale e il monte dalla cui cima mi sollevarono gli occhi della mia donna e quindi in Paradiso di pianeta in pianeta io ho conosciuto cose che se dovessi ridirle, a molti riusciranno di sapore molto aspro, se dovessi essere restio a dirle, ho paura di non sopravvivere tra coloro che chiameranno questo tempo antico». La luce in cui gioiva l’amato antenato che io trovai in quel cielo, si fece prima più luminosa, come un raggio di sole su una lamina dorata, quindi rispose: «Una coscienza offuscata da una vergognosa colpa propria o di congiunti, sentirà certamente la durezza della tua parola. Nonostante questa, eliminata ogni menzogna, rendi manifesta ciò hai visto, e lascia che si gratti chi ha la rogna. Perché ciò che tu dirai, se in un primo momento sarà molesto, in seguito diventerà cibo nutriente una volta digerito. Questo tuo grido accusatore sarà come il vento, che colpisce le cime più alte, e questo non è piccolo motivo d’onore. Per questo ti sono state mostrate in questi cieli, nel monte purgatoriale e nella valle infernale soltanto anime di persone famose, perché le persone che le ascoltano, non si sofferma né crede chi non sia conosciuto e viva nascosto, o di altro argomento che non appaia evidente.» 

E’ questo il canto dell’exsul immeritus e non è a caso che, terzo del lungo episodio dedicato a Cacciaguida, venga messo al centro dell’itinerario paradisiaco. Qui infatti convergono tutte le profezie che sin dall’inferno Ciacco, Farinata e Brunetto Latini; nel viaggio purgatoriale Corrado Malaspini e Oderisi da Gubbio le avevano annunciato. Le riunisce in un diretto ed accorato discorso l’antenato che in modo chiaro non solo designerà l’immeritata cacciata della città, ma gli predirà altresì l’accoglienza nella famiglia veronese dei Della Scala. Si può dire che il canto dell’auctor riveda la vita del Dante agens quasi a chiarirne e a rafforzarne le scelte politiche, come quella di isolarsi dal partito dei Bianchi, il cui tentativo di rientrare a Firenze dapprima condiviso e poi rifiutato, vuole sottolinearlo alla luce di un rigorismo morale cui i suoi presunti compagni sarebbero venuti meno mostrando la loro malvagità e divisione. Ma tale canto è diventato famoso per la celeberrima terzina Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. Si guardi infatti all’uso verbale sia dell’episodio precedente che di questa terzina: a dominare è il futuro, un futuro che l’auctor ha già vissuto e sta vivendo ma che nella struttura paradisiaca dovrà ancora avvenire, dotando il canto di un continuo colloquio tra Dante che scrive (presente), ricorda gli episodi salienti della sua vita (passato), proiettandoli nella predizione di Cacciaguida (futuro).

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Il canto è inoltre importante per il discorso che Dante fa sulla poesia: essa è tale se veritiera, se non nasconde e palesa la realtà, se mostra rigidità di giudizio quando si ha convinzione del  giusto: solo questo permette quella  gloria che nel I canto egli avoca a sé grazie al suo poema. Ma ancora più importante è l’idea che la sua poesia possa durare oltre la sua vita, dando vita, nella letteratura italiana, a quel concetto secondo cui la grande arte non muore con l’autore, ma continua a diffondere la sua voce nei lettori di domani, e a tale scopo il nostro utilizza una splendida parola infutura che ci dà il segno di come, grazie anche alle definitive parole di Cacciaguida egli costituisca l’exemplum per una rigenerazione politica e sociale dell’umanità.

CANTO XVIII
(Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)
(Cielo VI – Giove – Spiriti giusti)

Il canto inizia proseguendo il precedente: si tratta infatti del congedo di Cacciaguida che, prima di tornare alla croce luminosa, svela a Dante chi sono i personaggi che condividono con lui la beatitudine, da Giosué a Carlo Magno, da Goffredo di Buglione a Roberto il Guiscardo, chi, come il primo, legato al popolo d’Israele, chi difensore della fede e del Santo Sepolcro.

Quindi Dante ascende, senza che se accorga, al cielo di Giove e qui viene accolto da uno spettacolo stupefacente:

Io vidi in quella giovïal facella
lo sfavillar de l’amor che lì era
segnare a li occhi miei nostra favella.
E come augelli surti di rivera,
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera,
sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.
Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l’un di questi segni,
un poco s’arrestavano e taciensi.
O diva Pegasëa che li ’ngegni
fai glorïosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e ’ regni,
illustrami di te, sì ch’io rilevi
le lor figure com’ io l’ho concette:
paia tua possa in questi versi brevi!
Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.
‘DILIGITE IUSTITIAM’, primai
fur verbo e nome di tutto ’l dipinto;
‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai.
Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
pareva argento lì d’oro distinto.
E vidi scendere altre luci dove
era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
cantando, credo, il ben ch’a sé le move.
Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi,
resurger parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come ’l sol che l’accende sortille;
e quïetata ciascuna in suo loco,
la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco.
Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù ch’è forma per li nidi.

Io vidi in quella luminosa sfera la luce sfavillante dell’amore lì presente comporre davanti ai miei occhi, segni del nostro parlare umano. E come gli uccelli s’innalzano dall’acqua come a festeggiare il loro pasto, mettendosi in cerchio o in altra forma, allo stesso le anime beate, fasciate della loro luce, cantavano volteggiando, formando con le loro figure ora una D, ora una I o una L. Prima si muovevano seguendo il loro canto, poi diventando uno di questi segni, si fermavano un poco e tacevano. O musa, che ti abbeveri alla fonte del fiume Pegaso, sul Parnaso, che gli ingegni dei poeti fai gloriosi e li rendi immortali e questi, grazie a te, rendono immortali le città e i regni, illuminami con la tua virtù tanto che io riesca a descrivere le loro forme così come le ho impresse nella mente: si dimostri la tua forza in questi piccoli versi! Mi mostrarono dunque trentacinque forme di vocali e consonanti; ed io annotai nella mente le singole lettere nell’ordine in cui apparivano. DILIGITE IUSTITIAM, furono il primo verbo ed il primo nome della raffigurazione; seguirono QUI IUDICATIS TERRAM. Quindi le anime si fermarono alla lettera M, tanto che il cielo di Giove si mostrava d’argento trapuntato d’oro. Vidi scendere altre anime là nel punto più alto della M e qui fermarsi inneggiando il bene, mi pare, che li attira a sé. Poi, allo stesso modo nel colpire tizzoni ardenti emergono numerose scintille, da cui gli ignoranti traggono auspici, mi parve risalissero più di mille anime luminose, chi più chi meno, si come ha destinato Dio, e fermata ciascuna nel luogo scelto, vidi la testa ed il collo di un’aquila raffigurati da quegli splendori. Colui che disegna tali figure in Paradiso, non ha maestro, ma è lui stesso maestro e modello e da lui si riconosce quella potenza che imprime la forma, in potenza, fin dal suo “annidarsi”.

“Particolarmente interessanti sono gli ultimi tre versi. L’idea di Dio creatore-artista, demiurgo, è affiorata altre volte (…). Ma qui vi è un’aggiunta: l’aquila che si vede nel cielo di Giove è più bella di quelle che si possono vedere in terra perché essa stessa è l’idea dell’aquila, che le cose terrene semplicemente e debolmente ricordano. Non da Platone, ma da una tradizione neoplatonica e agostiniana molto ampia Dante riceve questa nozione, che è divenuta quasi un luogo comune ma è anche riferimento stabile della sua cultura” (Riccardo Scrivano).

Il canto prosegue con un invettiva verso la corruzione della Chiesa; d’altra parte le espressioni formate dal movimento delle anime a formare il simbolo della giustizia, “amate la giustizia, voi che giudicate la terra,” rimandano proprio a quel Giovanni XXII, nemmeno nominato, se non con un “ma tu”, odiato da Dante per aver confermato la scelta di Avignone come sede papale e per aver oltraggiato la Chiesa con il commercio delle indulgenze.

CANTO XIX
(Cielo VI – Giove – Spiriti giusti)

Il canto inizia con lo stupore, più che visivo uditivo, che viene prodotto dalla molteplicità delle anime illuminate che all’unisono parlano emettendo tuttavia una sola voce. Occasione unica per Dante per risolvere alcuni dubbi che i beati leggono nella sua mente, senza che lui li esprima.

Dopo che l’aquila rivela che è formata dagli spiriti giusti di uomini che furono famosi in terra per rettitudine, Dante, più che esprimere il primo dubbio, sapendo già che quei beati glielo leggono nella mente, gli rispondono relativamente alla giustizia divina, cui l’aquila stessa non può che affermare l’imperscrutabilità del modo in cui Dio giudica, salvando e punendo.

Ma è proprio qui che si pone il quesito forse più impellente e, in qualche modo ancora oggi attualissimo, che Dante questa volta chiede possa essere risolto:

ché tu dicevi: “Un uom nasce a la riva
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.
Muore non battezzato e sanza fede:
ov’ è questa giustizia che ’l condanna?
ov’ è la colpa sua, se ei non crede?”.
Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d’una spanna?
Certo a colui che meco s’assottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia.
Oh terreni animali! oh menti grosse!
La prima volontà, ch’è da sé buona,
da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.
Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona».
(…)
«A questo regno
non salì mai chi non credette ’n Cristo,
né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.
Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,
che saranno in giudicio assai men prope
a lui, che tal che non conosce Cristo;
e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.

Perché tu ti chiedevi: «Un uomo che nasce presso la sponda dell’Indo e in questo luogo non vi è nessuno che predichi né che insegni né che scriva di Cristo, e tutte le sue intenzioni e azioni siano buone, per quanto può vedere la mente umana, senza peccato nelle azioni e nelle parole. Questi muore senza battesimo e senza fede: qual è la giustizia che lo condanna? Che colpa ha se non ha la possibilità di credere?» Chi sei tu , che ti ergi a giudice per giudicare cose lontanissime con la vista non più lunga di una spanna? Certo avrebbe motivi di dubbio chi cerca di ragionare sottilmente come se non avesse a vegliare su di lui le Sacre Scritture. O esseri mortali! O menti ottuse! La volontà divina, che è per se stessa buona, da sé, che è il bene sommo, non si è mai allontanata. Pertanto è giusto ciò che si accorda a lei: nessun bene creato la può attirare, ma, al contrario, deriva da essa irradiata dai suoi raggi». (…) «Al Paradiso non salì mai chi non credette in Cristo né venturo né venuto. Ma guarda: molti che gridano “Cristo, Cristo!”, nel giorno del giudizio si troveranno meno vicini a Lui di altri che non lo conobbero; e un tal cristiano sarà condannato da un Etiope, quando si divideranno le due schiere, una eternamente ricca (di beatitudine), l’altra povera (dannata).

Il passo riportato ci conduce ad una riflessione che è tipica di ogni cristiano: che colpa ha chi non ha avuto la possibilità di conoscere Cristo e quindi essere battezzato, tanto da non essere salvato? La risposta è chiara: chi sei tu che giudichi con mente umana ciò che è divino? L’errore, o il dubbio dantesco, sta nel non aver rovesciato la prospettiva e nel voler giudicare da uomo la volontà divina.

Segue a questa riflessione un lungo elenco di principi che la giustizia divina non ha salvato, dall’imperatore Alberto a Carlo d’Angiò.

CANTO XX
(Cielo VI – Giove – Spiriti giusti)

Ancora nel cielo di Giove, dove l’aquila, simbolo di Dio, sempre parlando con voce unica da parte dei suoi beati, ci mostra ora il suo occhio, formato da sei eminenti spiriti gioviali:

«La parte in me che vede e pate il sole
ne l’aguglie mortali», incominciommi,
«or fisamente riguardar si vole,
perché d’i fuochi ond’ io figura fommi,
quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,
e’ di tutti lor gradi son li sommi.
Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l’arca traslatò di villa in villa:
ora conosce il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio,
per lo remunerar ch’è altrettanto.
Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s’accosta,
la vedovella consolò del figlio:
ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l’esperïenza
di questa dolce vita e de l’opposta.
E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per l’arco superno,
morte indugiò per vera penitenza:
ora conosce che ’l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de l’odïerno.
L’altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco:
ora conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
avvegna che sia ’l mondo indi distrutto.
E quel che vedi ne l’arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo:
ora conosce come s’innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.
Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?
Ora conosce assai di quel che ’l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo».

Quella parte di me che nelle aquile terrene regge la vista del sole, cominciò a dirmi: «Ora devi osservare con attenzione, poiché degli spiriti luminosi che formano la mia figura, quelli per i quali l’occhio sul capo risplende, sono le anime più nobili dell’intera schiera. Colui che brilla al centro come pupilla, fu Davide, che cantò ispirato dallo Spirito Santo e trasportò l’Arca Santa di città in città: ora conosce il merito del suo canto perché la ricompensa è ad esso misurata. Delle altre cinque anime che formano il mio sopracciglio, quella più vicino al becco è lo spirito di Traiano di cui già in Purgatorio (X canto) si racconta come egli, re dei Romani, seppe consolare una povera vedova per la morte del figlio; ora sa quanto si paghi nel non seguire Cristo, per l’esperienza di questa vita paradisiaca e per l’opposta. L’anima successiva, nella parte più alta del sopracciglio, è quella di Ezechia che allontanò la morte con la vera penitenza; ora sa che il giudizio che il giudizio di Dio non cambia, quando una degna preghiera rimanda all’indomani ciò che dovrebbe accadere oggi. Lo spirito seguente, Costantino, con le leggi e con me (insegna imperiale), con l’ottima intenzione di donare terre al pontefice si trasferì in Oriente; ora sa che sebbene la sua buona azione abbia procurato cattive conseguenze, non è stato a lui dannoso, per quanto da esso in mondo sia stato rovinato. L’anima posta nella parte discendente del sopracciglio è quella di Guglielmo II d’Altavilla (re di Napoli e di Puglia) che le terre rimpiangono e che ora sono tenute da Carlo d’Angiò e Federico II; ora riconosce come il cielo premia un re giusto, e lo dimostra nell’aspetto del suo splendore. Chi penserebbe giù nel mondo peccaminoso, che il troiano Rifeo sia il quinto tra gli spiri beati del mio occhio? Ora conosce bene quello che l’uomo non può comprendere della grazia di Dio, per quanto la sua capacità intellettuale non sappia scorgere le ragioni ultime dell’operare divino».

Sembra questa parte del canto rispondere al quesito che Dante aveva posto nel canto precedente riguardo la “non colpa” di chi non aveva potuto conoscere Cristo. Di fronte alla risposta dell’aquila e dei componenti della sua parte così importante come quella dell’occhio, Dante non può non meravigliarsi vedendo sue anime “pagane”, l’imperatore Traiano e il troiano Rifeo. E’ che il primo, mentre era al Limbo, per intercessione del papa Gregorio Magno, potette ritornare in vita per poter ricevere la verità di Cristo, e Rifeo, visse in modo così esemplare e giusto che venne illuminato dalla sua grazia, tanto da poter prevedere l’arrivo di Cristo.

Al di là delle spiegazioni (in parte convalidate dalla filosofia e dalle credenze medievali) la salvazione di due anime beate inducono Dante a riflettere sull’imperscrutabilità della giustizia divina che non può essere spiegata secondo la ragione e la concezione che l’uomo ha dell’Aldilà) tipiche della mente umana. Si affaccia il discorso della predestinazione divina che va letta secondo la “loro” giustizia; infatti per i beati (tutti i beati sino qui incontrati) la giustizia divina è accordarsi alla sua volontà: essendo lui il Sommo Bene non vi può essere che infinita bontà nel premiare e infinita giustizia nel punire.

CANTO XXI
(Cielo VII – Saturno – Spiriti contemplativi)

Gustave Doré: Il canto XXI

Siamo all’ultimo pianeta, quello di Saturno, in cui si mostrano a Dante gli spiriti contemplativi, di limpidissima e trasparente luce. All’arrivo in questo cielo, non vi è stata la consueta accresciuta luminosità di Beatrice, ma lo stesso Dante sottolinea che lei “non ridea”; ciò è determinato dal fatto che, arrivata a questo punto nell’ascesa paradisiaca, le sue facoltà travalicherebbero quelle ancora umane del pellegrino, tanto che Dante rischierebbe di rimanere incenerito. Inoltre in questo assoluta trasparenza non vi è nemmeno musica ed è proprio in questo incredibile silenzio scendono da una scala dorata che s’innalza verso il cielo una schiera di beati, chi volteggiando, chi volando, chi rimanendo sul posto. Il loro silenzio viene motivato allo stesso modo con cui Beatrice ha motivato la sua mancanza di riso. Tra tali anime, una in particolare, facendo pulsare la sua luminosità, mostra di voler parlare con Dante e richiesto del perché mostri tale desiderio, egli risponde che non dipende da lui, ma dalle volontà di Dio, senza alcun motivo e la scelta, pur essendoci anime altrettanto caritatevoli come la sua, è solo legata all’imperscrutabilità della volontà di Dio. L’anima è quella di San Pier Damiani:

«Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ’ troni assai suonan più bassi,
e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria».
Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: «Quivi
al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,
che pur con cibi di liquor d’ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne’ pensier contemplativi.
Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.
In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu’ ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano.
Poca vita mortal m’era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
che pur di male in peggio si travasa.
Venne Cefàs e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello.
Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.
Cuopron d’i manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott’ una pelle:
oh pazïenza che tanto sostieni!».

«Tra la costa tirrenica e quella adriatica si innalzano dei monti, non così distanti dalla tua patria, tanto che le folgori scoppiano con fragore più basso, e formano una protuberanza, chiamata Catria, sotto la quale vi è un eremo benedetto, il quale era dsolito esser consacrato a Dio». In questo modo ricominciò a rivolgermi la terza parte del discorso; e poi continuando disse: «Qui mi consacrai con ferma determinazione a Dio e mangiando cibi conditi solamente con olio, trascorrevo felicemente sia i periodi estivi che quelli invernali, contento solo di meditazione contemplativa. Quel chiostro produceva in modo fruttuoso anime sante, ora è diventato sterile, tanto che tra breve è necessario si riveli la sua infruttuosità. In quel luogo vissi io Pietro Damiano e nella casa di Nostra Signora sul lido Adriatico fui conosciuto come Pietro Peccatore. Ero sul finire della mia vita terrena, quando fui chiamato ed innalzato alla dignità cardinalizia, che ora passa da persone indegne ad altre peggiori. Vissero poveri San Pietro e San Paolo, cibandosi del pane offerto da ogni casa. Ora i moderni prelati vogliono servi ciascuno da ogni lato che li sorreggano tanto sono obesi e dietro qualcuno che alzi loro il mantello cardinalizio. Cioprono con il mantello stesso i loro cavalli tanto che sotto una coperta vi sono due animali. Oh pazienza divina che tolleri tanta vergogna.»

Forse le fonti dantesche sulla figura di Pier Damiani non furono così attendibili, tanto da indurlo a confondere fra due monaci di Ravenna (città nella quale il poeta soggiornò nell’ultima parte della sua vita), un certo Pier Damiani e un Pietro Peccatore fondendoli in un unico personaggio. Cero Dante seppe della sua azione riformatrice, tanto nel Papato che dell’Impero, con la fondazione di numerosi monasteri. Ma più nota è la sua lotta contro la corruzione e l’avidità della Chiesa, qui evidenziata dal sarcasmo con cui raffigura i prelati del tempo del pellegrino, durante le processioni, in pompa magna, accusa avvalorata dalle grida di approvazioni delle anime sante.

CANTO XXII
(Cielo VII – Saturno – Spiriti contempletivi)
(Cielo VIII – Stelle fisse)

Le grida di approvazione spaventano Dante, che verrà confortato da Beatrice, rivelando che dietro quel grido vi erano, per lui incomprensibili, parole che predicevano la vendetta divina contro coloro che in terra tradivano la missione affidata loro.

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Tra le anime che mostrano di aver letto il desiderio di Dante ve n’è una:

Quel monte a cui Cassino è ne la costa
fu frequentato già in su la cima
da la gente ingannata e mal disposta;
e quel son io che sù vi portai prima
lo nome di colui che ’n terra addusse
la verità che tanto ci soblima;
e tanta grazia sopra me relusse,
ch’io ritrassi le ville circunstanti
da l’empio cólto che ’l mondo sedusse.

Quel monte che ha sul suo versante la città di Cassino, fu frequentato un tempo sulla vetta da gente pagana e contraria alle fede cristiana, ed io sono colui che portai lassù per primo il nome di Cristo che tanto ci solleva; e una così intensa grazia divina mi illuminò che riuscii ad allontanare i villaggi vicini dal sacrilego culto pagano che traviò il mondo.

La presentazione di San Benedetto non si discosta molto da quella di Pier Damiani, il quale dopo essersi presentato e aver indicato a Dante le anime benedette così luminose di carità in quella scala santa, non può non rivolgere, come il predecessore, una critica alla situazione del suo monastero, come si era trasformato da luogo di santificazione a luogo di corruzione:

Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria.
Ma grave usura tanto non si tolle
contra ’l piacer di Dio, quanto quel frutto
che fa il cor de’ monaci sì folle;
ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per Dio dimanda;
non di parenti né d’altro più brutto.
La carne d’i mortali è tanto blanda,
che giù non basta buon cominciamento
dal nascer de la quercia al far la ghianda.
Pier cominciò sanz’ oro e sanz’ argento,
e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento;
e se guardi ’l principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov’ è trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno.
Veramente Iordan vòlto retrorso
più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse,
mirabile a veder che qui ’l soccorso»

«Le mura che erano soliti esser conventi, sono ora diventati covi di ladroni, e i sai monacali sono sacche ripiene di farina guasta. Ma nessuna grave forma di usura va contro la volontà divina quanto impossessarsi delle rendite conventuali che rendono il cuore dei monaci così cattivo, perché dovunque la Chiesa guardi, Dio comanda che tutto sia dato ai poveri, non ai parenti o a persone turpi. La natura degli uomini è tanto debole, che un’opera ben iniziata non dura un periodo sufficiente a quello che intercorre tra la nascita di una quercia e il suo fruttificare. San Pietro iniziò senza oro e senza argento, io con preghiere e digiuni, San Francesco il suo ordine con umiltà, e se ora guardi come hanno iniziato bene (con l’apostolato, gli ordini benedettini e francescani) e dopo fai attenzione a come sono arrivati, vedrai il bianco esser diventato scuro. In verità il ritirarsi del fiume Giordano e l’aprirsi del Mar Rosso, quando Dio volle, furono miracoli più stupefacenti di quanto il suo intervento d’aiuto in questo caso»

La struttura è la stessa, sebbene di minore lunghezza, con il canto XI e XII, se lì infatti avevamo visto il parallelismo tra San Francesco e e San Domenico, qui tale parallelismo è tra Pier Damiani e san Benedetto. Il fatto che si tratti di una vera e propria diade è testimoniato da una struttura simile: da una parte la fondazione, voluta dal Signore, quindi il sottolineare la povertà come modello di vita, facendo riferimento il primo a San Pietro e San Paolo, e lo stesso Benedetto cita la povertà di San Pietro e San Francesco, cui aggiunge la propria scelta. Ma ciò che interessa è che in questi spiriti contemplanti, tutti rivolti verso Dio, non si perde mai il riferimento alla storia della terra, il loro sguardo verso il mondo così diverso da quello paradisiaco.

Questi ci viene proprio dimostrato nell’ascesa verso il cielo delle Stelle Fisse, qui Dante incontra la sua costellazione, quella dei Gemelli, cui dedica un’apostrofe perché è grazie a lei che ha potuto dedicarsi alla poesia (secondo l’astrologia medievale la costellazione dei Gemelli presiedeva agli studi e alle arti liberali); poi su invito di Beatrice volge lo sguardo al percorso fatto:

Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.
Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell’ ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.
L’aspetto del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com’ si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone.
Quindi m’apparve il temperar di Giove
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove;
e tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci
e come sono in distante riparo.
L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’ io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci;
poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.

Con lo sguardo riattraversai i sette cieli inferiori, e vidi la terra in tale modo che mi spinse a sorridere per il suo aspetto meschino, e approvo quel consiglio che la considera poco e chi pensa a cose ulteriori chiamo saggio. Vidi la luna (figlia di Latona) luminosa senza quelle macchie lunari che mi fecero pensare alla sua maggiore e minora densità. Sostenni con lo sguardo la vista del Sole (figlio della luna) e vidi anche come si muovono i cieli a lui vicini, quello di Mercurio e Venere. Di lì mi apparve Giove, che attenua il calore posto com’è tra il padre Saturno ed il figlio Marte e quindi mi furono chiari i loro movimenti e tutti e sette mi mostrarono nella loro grandezza e velocità quanta distanza c’è tra di loro. La piccola aia (la terra abitata dagli uomini) che ci rende così crudeli, girando insieme alla costellazione dei Gemelli, mi apparve interamente dalle montagne ai mari, quindi rivolsi lo sguardo verso gli occhi di Beatrice.

E come se lo sguardo definitivo verso il percorso fatto e soprattutto verso la terra “vile”, “aiuola che ci fa tanto crudeli”, segni una definitiva rottura fra ciò che umano, terreno e ciò che è divino. Al pellegrino Dante ormai non rimane che l’ascesa verso l’Empireo, la sede di Dio.

CANTO XXIII
(Cielo VIII – Stelle fisse)

E’ un canto che segna il distacco totale di Dante dall’Universo al Paradiso, dai pianeti a Dio. Tale esperienza richiede una nuova voce, un nuovo modo di rendere percepibile ai lettori la sua straordinaria esperienza, basata sulla visione, così come sulla luce, splendore, riflesso, ed altri termini riferentesi a questo campo semantico, primeggiano in quest’ultima parte del “sacrato poema”.

Infatti è solo per Beatrice, al fatto che lei infonda in lui maggiore grazia “illuminante”, per mezzo del suo splendore che Dante può ammirare il trionfo di Cristo:

Quale ne’ plenilunïi sereni
Trivïa ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vid’ i’ sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l’accendea,
come fa ’l nostro le viste superne;
e per la viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
nel viso mio, che non la sostenea.
Oh Bëatrice, dolce guida e cara!
Ella mi disse: «Quel che ti sobranza
è virtù da cui nulla si ripara.
Quivi è la sapïenza e la possanza
ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra,
onde fu già sì lunga disïanza».
Come foco di nube si diserra
per dilatarsi sì che non vi cape,
e fuor di sua natura in giù s’atterra,
la mente mia così, tra quelle dape
fatta più grande, di sé stessa uscìo,
e che si fesse rimembrar non sape.

Come nelle notti serene di plenilunio, la luna splende tra le altre stelle immortali che illuminano il cielo in ogni parte, così io vidi al di sopra di quelle innumerevoli luci un sole che le faceva risplendere tutte quante, come fa il nostro sole quando accende le stelle del cielo e per il vivo splendore traspariva in modo così lucente l’essenza di quella luce davanti ai miei occhi che io non riuscivo a sostenerla. Beatrice, dolce e chiara guida!. Lei mi disse: «Quello che ti sovrasta e una forza virtuosa da cui nulla può trovare riparo. Qui vi è la sapienza e la forza (di Cristo) che fecero da tramite tra il cielo e la terra (che ristabilirono la pace tra Dio e l’uomo) per cui il desiderio di lui si attese molto a lungo». Come un fulmine si sprigiona da una nuvola per il fatto che i vapori di cui è formato non possono più essere contenuti, tanto che, contro sua natura, si scaglia verso terra, così la mia mente, esaltata da quelle visioni (vivande) divine, uscì fuori da se stessa e che cosa facesse allora non è più in grado di ricordare.

Dante può, ma non sa come, osservare il trionfo di Cristo, tanto da doversi quasi scusare per la sua incapacità espressiva:

Ma chi pensasse il ponderoso tema
e l’omero mortal che se ne carca,
nol biasmerebbe se sott’ esso trema:
non è pareggio da picciola barca
quel che fendendo va l’ardita prora,
né da nocchier ch’a sé medesmo parca.

Ma chi riflettesse sull’onerosa materia e sulla spalla umana che se ne fa carico, non farebbe rimproveri se sotto il suo peso vacilla: non è un piccolo tratto di mare per una piccola imbarcazione , quello che la mia coraggiosa nave sta percorrendo, né da nocchiere che si risparmi la fatica.

Franz Bayros: Illustrazione per il XXIII canto del Paradiso

Il trionfo di Cristo, così lontano dal concetto di triumphus classico, (un dux seguito da soldati), si configura come puro splendore formato dalla luminosità di tutte le anime che tutte le sovrasta. Di fronte a tale inusuale paesaggio, al Paradiso frutto della mente dantesca, del suo impegno intellettuale e conoscenza biblica e teologica, non può essere “definito”, servono comparazioni che ne danno solo una pallida immagine: il plenilunio, la folgore, immagini che possono solo evocare non rappresentare e questo ci testimonia il poeta.

Il canto prosegue con l’elevarsi di Cristo per permettere a Dante l’osservazione del trionfo della Madonna, baciata dai raggi del figlio. I beati ne cantano le lodi e un angelo (forse l’arcangelo Gabriele la incorona); quando anch’ella si librerà verso il cielo tutte le anime la seguiranno per raggiungerla nell’Emireo.

CANTO XXIV
(Cielo VIII – Stelle fisse)

Il canto inizia con la preghiera di Beatrice ai beati perché rendano partecipi il pellegrino della loro sapienza: loro infatti rappresentano un “ecclesia” di santi che danzano intorno a loro due, con maggiore o minore velocità, secondo il grado di beatitudine. Da essi si stacca l’anima di San Pietro, chiamata dalla dolce guida di Dante:

Ed ella: «O luce etterna del gran viro
a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,
ch’ei portò giù, di questo gaudio miro,
tenta costui di punti lievi e gravi,
come ti piace, intorno de la fede,
per la qual tu su per lo mare andavi.
S’elli ama bene e bene spera e crede,
non t’è occulto, perché ’l viso hai quivi
dov’ ogne cosa dipinta si vede;
ma perché questo regno ha fatto civi
per la verace fede, a glorïarla,
di lei parlare è ben ch’a lui arrivi».
Sì come il baccialier s’arma e non parla
fin che ’l maestro la question propone,
per approvarla, non per terminarla,
così m’armava io d’ogne ragione
mentre ch’ella dicea, per esser presto
a tal querente e a tal professione.
«Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
fede che è?». Ond’ io levai la fronte
in quella luce onde spirava questo;
poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch’ ïo spandessi
l’acqua di fuor del mio interno fonte.
«La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»,
comincia’ io, «da l’alto primipilo,
faccia li miei concetti bene espressi».
E seguitai: «Come ’l verace stilo
ne scrisse, padre, del tuo caro frate
che mise teco Roma nel buon filo,
fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate».
Allora udi’: «Dirittamente senti,
se bene intendi perché la ripuose
tra le sustanze, e poi tra li argomenti».
E io appresso: «Le profonde cose
che mi largiscon qui la lor parvenza,
a li occhi di là giù son sì ascose,
che l’esser loro v’è in sola credenza,
sopra la qual si fonda l’alta spene;
e però di sustanza prende intenza.
E da questa credenza ci convene
silogizzar, sanz’ avere altra vista:
però intenza d’argomento tene».

Simone Martini: San Pietro

E lei: «O anima luminosa del grande uomo, a cui Cristo consegnò le chiavi, che portò giù sulla terra da questo luogo di gioia meravigliosa, metti alla prova questo uomo su questioni secondari ed essenziali, come credi più opportuno, sull’argomento della fede, grazie alla quale tu camminasti sulle acque. Non ti è nascosto se egli possiede la carità, la speranza e la fede, in quanto il tuo sguardo è rivolto al volto di Dio dove appare ogni verità, ma poichè questo regno ha creato i suoi cittadini attraverso l’adesione alla vera fede, è opportuno che che a lui tocchi di parlarne al fine di gloriarla». Come il baccelliere (dottorando in teologia) si prepara e non parla fino al momento in cui il professore non pone la domanda, per fornire delle argomentazioni, non per concluderla (compito del maestro), così mi preparavo io di tutte le cose da dire, mentre Beatrice parlava, per esser pronto a un tale interrogante e auna tale materia. «Di’, buon cristiano, rendi palese la tua credenza: che cos’è la fede?» Per cui io alzai il viso verso quella luce da cui uscivano queste parole; poi mi rivolsi a Beatrice, e lei mi fece cenno affinché facessi sgorgare al di fuori l’acqua dal mio interno (facessi uscire all’esterno le mie conoscenze). Cominciai: «La Grazia che mi offre la possibilità di professare la mia fede richiestami da chi ne fu il primo comandante, renda le mie argomentazioni bene espresse.» E continuai: «Come la verace penna del tuo caro fratello San Paolo, che con te indirizzò il popolo nella retta via, ha scritto, la fede è il principio fondamentale di quello che speriamo e prova delle cose che non cadono sotto i nostri sensi; e questa mi sembra essere la sua essenza». Allora sentii dirmi: «Giustamente pensi, se ben hai compreso perché san Paolo la mise prima tra le sostanze e poi tra le prove». Per cui io. «Le profonde verità che qui, in Paradiso, mi offrono la vista del loro aspetto, sono tanto inacessibili agli occhi sulla terra che la loro realtà risiede soltanto nella loro credenza, sopra la quale si fonda la nobile speranza ed è per questo prende nome di sostanza. E da questa speranza che giù in terra è necessario ragionare, senza avere altra conoscenza, per questo prende nome di argomento».

Il brano proposto metaforizza quello che in realtà era un vero e proprio esame universitario: l’alunno /Dante deve mostrare di conoscere non soltanto i termini paolini relativi alla “sostanza” e all’ “argomento”, ma anche come, attraverso la filosofia tomistica, egli ne sia entrato in possesso. E’ pur vero che è un canto dottrinale, ma la poesia è proprio in questa volontà di insegnare la verità al lettore, affinché esca dall’errore di una vita fatta di corruzione ed egoismi, e lo conduca verso la “retta via”.

San Pietro e Dante

Il canto prosegue con l’interrogatorio di San Pietro che, dopo aver appurato la conoscenza di Dante rispetto alla verità sulla fede, domanda al nostro del suo possesso, e rispostogli affermativamente, il santo gli chiede come vi è arrivato, e saputo che vi è giunto dalle Sacre Scritture, vuol sapere come mai le ritiene parola di Dio; “per i miracoli che ne seguirono”. Soltanto dopo l’ultima risposta dantesca, le anime fanno risuonare un “Lodiamo il Signore”. L’esame di San Pietro ora si fa più intenso: non le basta aver sentito parole veritiere circa la fede, vuole ora che Dante esprima la sostanza del suo credere, tanto che il canto si chiude con “Il credo” del poeta.

CANTO XXV
(Cielo VIII – Stelle fisse)

Pur essendo in Paradiso, Dante, forse perchè giunto alla piena maturità e saggezza, può guardare, senza più acrimonia, alla sua patria, con struggente nostalgia:

Se mai continga che ‘l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra
sì che m’ha fatto per più anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
dal bello ovile ov’io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello,
ritornerò poeta, ed in sul fonte
del mio battesmo prenderò ‘l cappello;
però che ne la Fede, che fa conte
l’anime a Dio, qui intra’ io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte.

Se un giorno accadrà che il poema sacro, alla quale ha posto mano sia la dottrina divina sia la scienza umana, tanto che per molti mi ha logorato, vincerà l’ingiusta violenza chi mi tiene lontano dalla dolce patria dove io passai la giovane età, inviso soltanto ai malvagi, allora con maggiore fama, con capelli incanutiti, ritornerò con il nome di poeta e sulla fonte battesimale riceverò l’alloro poetico, poiché lì ricevetti la fede, che rende le anime gradite a Dio e qui san Pietro, per quella fede, ha cinto il mio capo con la sua luce.

William Blake: San Pietro incontra San Giacomo

L’esordio del canto sembra interrompere la narrazione dell’iter paradisiaco del Dante agens e soffermarsi sul Dante auctor, che, di fronte all’esser cinto sul capo da San Pietro, spera che tale atto le venga offerto dai suoi cittadini di Firenze. Non è un caso che tale passo funga da cerniera tra il canto della fede e quello di speranza; la nostalgia della patria, la maturità anagrafica e la consapevolezza di aver dato vita ad un’opera in cui ha posto mano terra e cielo, gli fa sperare che i cittadini, lasciando alle spalle il passato, lo accolgano e lo incoronino come grande poeta.

Quindi a San Pietro si unisce con letizia l’anima di san Giacomo, che si pone di fronte al poeta per il secondo interrogatorio:

«Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
lo nostro Imperadore, anzi la morte,
ne l’aula più secreta co’ suoi conti,
sì che, veduto il ver di questa corte,
la spene, che là giù bene innamora,
in te e in altrui di ciò conforte,
dì quel ch’ell’ è, dì come se ne ’nfiora
la mente tua, e dì onde a te venne».
Così seguì ’l secondo lume ancora.
(…)
«Spene», diss’ io, «è uno attender certo
de la gloria futura, il qual produce
grazia divina e precedente merto.
Da molte stelle mi vien questa luce;
ma quei la distillò nel mio cor pria
che fu sommo cantor del sommo duce.
‘Sperino in te’, ne la sua tëodia
dice, ‘color che sanno il nome tuo’:
e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?
Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
e in altrui vostra pioggia repluo».

«Dal momento in cui la grazia di Dio, il nostro imperatore, vuole che tu incontri, prima di morire, nel posto più riposto del Paradiso, i suoi dignitari, cosicchè, visto la verità di questo regn, tu possa rafforzare in te e negli altri la speranza, che in terra attira al vero amore, dimmi cosa essa sia, di come se ne abbellisce il tuo animo, e da dove ti giunge». Così continuò a parlare ancora San Giacomo (…) «La speranza è l’attesa sicura della nostra salvezza, e che giunge dalla grazia di Dio e dalle nostre azioni già acquisite. Questa verità mi giunge da molti padri; ma colui che la istillò per la prima volta nel mio cuore fu il più grande poeta di Dio (Davide, autore dei Salmi). Egli scrive nel suo canto a Dio: “Sperino in te, chi conosce il nome tuo”: e chi non lo conosce, se egli possiede la stessa fede? Tu mi instillasti (la fede nella speranza), attraverso la sua ispirazione, ed anche nella sua lettera, tanto che io ne sono così pieno, da riversare in altri la vostra grazia (pioggia)

Anche il secondo interrogatorio, come quello di San Pietro, si struttura come una vera e propria risposta teologica, ma qui è più “personale”, col sottolineare la “sua prima volta” in cui ha ricevuto il dono della seperanza e con quell’interrogativa retorica, che attenua l’elevatezza del riferimento all’autore dei Salmi, appunto.

CANTO XXVI
(Cielo VIII – Stelle fisse)

Il canto XXVI si apre con l’appatizione di San Giovanni che sottopone Dante al terzo interrogatorio, quello sulla carità. Infatti a lui si deve l’affermazione, nelle Lettere dell’apostolo, Deus caritas est. L’esame lo svolge privo della vista, perchè acceccato dalla luminosità dell’evangelista, ed è meno “impegnativo” rispetto a quello sulla fede e sulla speranza, in quanto non chiede la definizione teologica, ma a chi tale carità si rivolga. Questa è la risposta di Dante:

E io: «Per filosofici argomenti
e per l’autorità che quinci scende
cotale amor convien che in me s’imprenti.
ché il bene, in quanto ben, come s’intende
così accende amore, e tanto maggio
quanto più di bontade in sé comprende.
Dunque a l’essenza ov’è tanto avvantaggio,
che ciascun ben che fuor di lei si trova
altro non è che un lume di suo raggio,
più che in altra convien che si muova
la mente, amando, di ciascun che cerne
il vero in che si fonda questa prova.
Tal vero a l’intelletto mio sterne
colui che mi dimostra il primo amore
di tutte le sustanze sempiterne.
Sternel la voce del verace autore
che dice a Moisé, di sé parlando:
‘Io ti farò vedere ogni valore’.
Sternilmi tu ancora, incominciando
l’alto preconio che grida l’arcano
ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
di qui la giù sovra ogni altro bando».

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Ed io: «Attraverso ragionamenti filosofici e dall’autorità che deriva da qui (Paradiso) tale amore di carità è naturale che sia impresso in me: perché il bene, in quanto bene, appena si prova, fa nascere il sentimento amoroso, ed è tanto più grande, quando ha in sé maggiore bontà. Perciò l’intelletto di ogni uomo in grado di distinguere la verità sulla quale si basa questa argomentazione deve di necessità volgersi con amore, piuttosto che a uno diverso, all’Essere così favorito dal fatto che ogni bene a Lui estraneo non è se non una luce riflessa del suo splendore. Questa verità la spiega alla mia mente colui (Aristotele) che mi dimostra l’esistenza di un primo amore a cui tendono tutti gli esseri immortali. Me la spiega la parola di Dio, autore delle Scritture, che dice a Mosé “Io ti farò vedere ogni cosa buona”. E me la spieghi ancora tu, col sublime manifesto che rivela più solenne di ogni altra voce, i misteri celesti là nel mondo più di ogni altro messaggio».

L’argomentazione prodotta da Dante può sorprendere perché sembra citare Aristotele a cui l’intero medioevo attribuiva (erroneamente) l’opera De causis, che faceva derivare tutte le cose da un principio. Quindi l’amore che egli prova deriva da Dio stesso. D’altra parte è proprio Giovanni che nell’incipit del suo Vangelo aveva detto “In principium erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, Deus erat Verbum.” individuando la fonte da cui tutto deriva grazie all’amore / carità dell’essere supremo.

San Giovanni apostolo

Il canto prosegue con la riconquista di Dante della vista, tanto da poter incontrare l’anima di Adamo, che racconta al pellegrino di sé, di come fu creato, di quanto tempo rimase in Purgatorio, quale sia stata la natura del suo peccato e in che lingua parlò. Da qui l’occasione per Dante di riflettere sulla lingua:

La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
innanzi che a l’ovra inconsummabile
fosse la gente di Nembròt attenta:
ché nullo effetto mai razïonabile,
per lo piacere uman che rinovella
seguendo il cielo, sempre fu durabile.
Opera naturale è ch’uom favella;
ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che v’abbella.
Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia,
I s’appellava in terra il sommo bene
onde vien la letizia che mi fascia;
e El si chiamò poi: e ciò convene,
ché l’uso d’i mortali è come fronda
in ramo, che sen va e altra vene.

La lingua che parlai era già del tutto sparita prima che la gente di Nembròt si fissasse all’opera destinata a rimanere incompiuta (la torre di Babele); perché nessun prodotto della ragione umana, per il gusto degli uomini che continuamente cambia, seguendo il corso dei cieli, durò mai in eterno. Fatto naturale è che l’uomo parli; ma quanto al modo, la natura lascia poi che decidere all’uomo, nel modo che vi piace. Prima che io scendessi nelle sofferenze dell’Inferno (Limbo), sulla terra il nome di Dio, sommo bene, da cui proviene la luce che mi fascia, era I; poi si chiamo El, e questo è naturale, dal momento che l’uso delle cose umane è come a quello della foglia sul ramo, che quando cade un’altra vi spunta.

Adamo di fronte a Dante

Il discorso sulla lingua dantesco in questo passo mostra una maturazione del nostro rispetto a quanto detto nel De vulgari eloquentia. “Mentre nel De vulgari è, al pari del latino, sottratto alla deperibilità del parlato in quanto prodotto divino e perciò immutabile e perfetto, il linguaggio adamitico nel Paradiso, ricondotto com’è all’iniziativa personale del parlante, rientra nelle leggi di instrinseca variabilità che presiedono ad ogni lingua. Qui, e chiaramente, si prospetta una soluzione generale al problema delle lingue antiche e moderne, si sostiene che, se è naturale che l’uomo si esprima con un sistema significante di parole, la scelta espressiva, cioè l’adozione di questa o quella lingua, è opera fatale dell’arbitrio umano. L’asserita mobilità, la caducità effimera di ogni linguaggio, spinge Adamo a rapida esemplificazione personale ed empirica: la distinzione tra i nomi con i quali Dio si chiamava nell’idioma primitivo (I) e in quello ebraico (El) gli serve per ribadire la morte della lingua adamitica, avvenuta prima della confusione babelica, e la nascita di quella ebraica, sorta dopo sulle ceneri dell’originaria e prima” (Antonio Quaglio).

CANTO XXVII
(Cielo VIII – Stelle fisse)
(Cielo IX – Primo Mobile o Cristallino)

Le anime luminose insieme a quelle di Pietro, Giacomo, Giovanni e Adamo, ora innalzano un “gloria” a Dio, a festeggiare la promozione di Dante, dopo aver superato le interrogazioni dei santi. Ma l’anima di san Pietro improvvisamente si “arrossa”, per esprimere la sua rabbia per la corruzione della Chiesa di cui lui è stato padre. In seguito tutti i beati ascendono in cielo, sparendo dallo sguardo del poeta: Beatrice chiede a Dante di gettare per l’ultima volta uno sguardo sulla terra, prima di salire al Primo Mobile o Cristallino. Beatrice, al colmo della felicità, spiega a Dante le principali caratteristiche del nono cielo, il più esterno del mondo fisico ed è quello da cui dipende il movimento e il tempo unioversale.

 

Quindi anche Beatrice rivolge un’invettiva alla corrutibilità dell’animo umano, che nasce con il naturale desiderio di bene per poi cominciare a decadere moralmente sin dall’adolescenza. Ma la stessa termina il discorso con un’espressione di speranza, perché Dio interverrà a riportare giustizia e ordine nel mondo.

 

CANTO XXVIII
(Cielo IX – Primo Mobile o Cristallino)

Il canto inizia con l’apparizione di un punto luminosissimo in cui si manifesta la divinità:

E com’io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume
quandunque nel suo giro ben s’adocchi,
un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che il viso ch’egli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella par quinci più poca,
partrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si colloca
.

E come mi girai ed il mio sguardo fu colpito da quello che appariva in quel cielo, ogni volta che si osservi a fondo il suo movimento circolare, vidi un punto che emetteva una luce così intensa, che è necessario che l’occhio che esso illumina si chiuda a causa della grande intensità di quella; ed ogni stella che dalla terra appare più piccola, sembrerebbe grande coma la luna, vicino a quel punto come se si collocasse una dstella vicina a un’altra.

La divinità è circondata da nove cerchi angelici, illustrati a Dante da Beatrice:

E quella che vedëa i pensier dubi
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
t’hanno mostrato Serafi e Cherubi.
Così veloci seguono i suoi vimi,
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e posson quanto a veder son soblimi.
Quelli altri amori che ’ntorno li vonno,
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che ’l primo ternaro terminonno;
e dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto.
Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato ne l’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda;
e del vedere è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede.
L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Arïete non dispoglia,
perpetüalemente ’Osanna’ sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s’interna.
In essa gerarcia son l’altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l’ordine terzo di Podestadi èe.
Poscia ne’ due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.
Questi ordini di sù tutti s’ammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.
E Dïonisio con tanto disio
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com’ io.
Ma Gregorio da lui poi si divise;
onde, sì tosto come li occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise.
E se tanto secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio ch’ammiri:
ché chi ’l vide qua sù gliel discoperse
con altro assai del ver di questi giri».

E Beatrice, colei che leggeva nel mio pensiero i miei dubbi, mi disse: «I primi due cerchi luminosi ti hanno mostrato i Serafini e i Cherubini. Essi seguono così velocemente i loro legami per poter identificarsi a Dio quanto più possono, e lo possono in quanto sono perfetti nella loro visione di Dio. Gli spiriti che girano intorno a loro si chiamano Troni di Dio e loro furono posti a chiudere la prima triplice gerarchia celeste. Devi apprendere che tutti costoro hanno la loro felicità quanto si profonda la loro visione in Dio, verità in cui ogni mente trova pace. Da questo si può comprendere come la beatutudine si basa sulla visione e non sull’amore, che la segue; e la misura della capacità di vedere il merito che la Grazia e la buona volontà generano: così si accresce in beatitudine. L’altra gerarchia formata da tre cori angelici, che fiorisce rigogliosa in questa eterna primavera celeste che non c’è autunno che possa far appassire, canta in eterno Osanna con tre melodie, che risuonano in tre cori angelici in cui essi si compongono. In questa gerarchia ci sono altri divinità angeliche: prima le Dominazioni, poi le Virtù ed il terzo ordine è quello delle Potestà. Poi nel terzultimo e penultimo ordine ruotano con tripudio i Principati e gli Arcangeli; l’ultimo cerchio è composto da angeli festanti. Tutti questi ordini angelici tendono verso Dio e verso il basso esercitano la loro influenza affinché tutti vengano attirati e attirino loro stessi verso Dio. E Dionigi l’Areopagita con grande desiderio si mise a contemplare tali gerarchie angeliche dando loro nome, così come io te li ho riportati. Ma Gregorio Magno in seguito dissentì da lui, per cui, non appena si rese conto qui in Paradiso del suo errore, sorrise di se stesso. E non voglio che tu ti ammiri che un uomo mortale nel mondo terreno poté annunciare una verità tanto sublime, poiché glielo rivelò San Paolo, che vide qui in cielo insieme a tante altre sfere celesti.  

“Dionigi Areopagita è figura di grande spicco nella trasmissione del sapere antico e nella costituzione della teologia cristiana. Convertito  da San Paolo nel 52, fu poi vescovo di Atene e morì nel 95. Gli vennero attribuite molte opere, tra cui la più frequentata, anche da da Dante, è il De coelesti hierarchia, ma oggi si sa bene che sono tutte apocrife e che furono stese nel V secolo da un neoplatonico. E infatti le teorie dello pseudo-Dionigi sono una combinazione di neoplatonismo e di cristianesimo, cioè di emanatismo, secondo il quale Dio si manifesta nell’universo e tutto l’universo tende a ritornare a lui, e di creazionismo, per cui l’universo è opera diretta e istantanea di Dio. Gran parte della teologia tardoantica e medievale si era aggirata su questi temi, che giungono a penetrare anche la cultura protorinascimentale, anche se allora tutto ciò sarà complessivamente a contatto con motivi addirittura contrari.” (Riccardo Scrivano) 

CANTO XXIX
(Cielo IX – Primo Mobile o Cristallino)

Quasi come in un dittico, prosegue la spiegazione sull’angelologia di Beatrice. Dopo aver illustrato a Dante la loro il loro ordine e la loro gerarchia, ora la bella guida gli spiega l’ubi ed il quando della creazione, che chiaramente non avviene perché Dio avesse bisogno della loro creazione per sentirsi maggiormante perfetto, in quanto la perfezione è parte della sua essenza divina, ma dalla gratuita espansione de suo essere, con cui loro stessi possono dire subsisto (io esisto). Dio crea tutto: la forma (le pure intelligenze angeliche), la materia (la materia prima del mondo sublunare) e la sussistenza di intelligenza e materia che sono i cieli. Non è lecito chiedersi cosa vi era prima, perchè il prima non esisteva non esistendo il tempo. Quindi Beatrice parla della ribellione di Lucifero, ma solo per dirci che, contrariamente a lui, ci sono angeli buoni. Questi non hanno memoria, perchè contemplano tutto nell’eterno presente della luce divina. Il canto si conclude con la critica piuttosto puntuta contro chi, predicando in modo errato e non seguendo le Sacre Scritture disvia dalla verità e chi, per conquistare numerosi uditori per ottenere indulgenze, riempe le sue prediche di “ciance” e “motti”.

 

  CANTO XXX
(Cielo IX - Primo Mobile o Cristallino)

(Cielo X - Empireo)

Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l’ora sesta, e questo mondo
china già l’ombra quasi al letto piano,
quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così ’l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella.
Non altrimenti il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude,
a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Bëatrice
nulla vedere e amor mi costrinse.
Se quanto infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice.
La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda.
Da questo passo vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo:
ché, come sole in viso che più trema,
così lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema.
Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m’è il seguire al mio cantar preciso;
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l’ultimo suo ciascuno artista.
Cotal qual io la lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l’ardüa sua matera terminando,
con atto e voce di spedito duce
ricominciò: «Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:
luce intellettüal, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
Qui vederai l’una e l’altra milizia
di paradiso, e l’una in quelli aspetti
che tu vedrai a l’ultima giustizia».

Come sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da l’atto l’occhio di più forti obietti,
così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m’appariva.
«Sempre l’amor che queta questo cielo
accoglie in sé con sì fatta salute,
per far disposto a sua fiamma il candelo».
Non fur più tosto dentro a me venute
queste parole brievi, ch’io compresi
me sormontar di sopr’ a mia virtute;
e di novella vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
che li occhi miei non si fosser difesi;
e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;
poi, come inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge,
e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.
«L’alto disio che mo t’infiamma e urge,
d’aver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace più quanto più turge;
ma di quest’ acqua convien che tu bei
prima che tanta sete in te si sazi»:
così mi disse il sol de li occhi miei.
Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi
ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe
son di lor vero umbriferi prefazi.
Non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe».
Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l’usanza sua,
come fec’ io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
che si deriva perché vi s’immegli;
e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda.
Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non süa in che disparve,
così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch’io vidi
ambo le corti del ciel manifeste.
O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
l’alto trïunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com’ ïo il vidi!
Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
E’ si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.
Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza.
E come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,
sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là sù fatto ha ritorno.
E se l’infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l’estreme foglie!
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e ’l quale di quella allegrezza.
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.
Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna,
qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira
quanto è ’l convento de le bianche stole!
Vedi nostra città quant’ ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira.
E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta.
La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.
E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino.
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch’el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
e farà quel d’Alagna intrar più giuso».

In un luogo distante circa seimila miglia (da questo) arde il mezzogiorno e in esso la terra proietta già il cono d’ombra quasi all’altezza del nostro orizzonte , quando l’atmosfera del cielo, alta sopra di noi comincia a farsi tale che qualche stella comincia a esser visibile fin quaggiù sulla terra, e via via che l’aurora avanza, luminosa ancella del Sole, progressivamente il cielo sembra nascondere le sue stelle, sino alla più luminosa. Non diversamente i cori degli angeli che in eterno tripudiano intorno al punto dalla cui luce fui sopraffatto, che circondano e sono al contempo circondati, a poco a poco svanirono dalla mia vista: per cui il non vedere nulla e l’affetto mi spinsero a rivolgere gli occhi verso Beatrice. Se si potesse concetrare tutto in un’unica espressione di lode, questa sarebbe inadeguata ad esaurire tale compito. La bellezza che io vidi va al di là delle nostre capacità umane, ma solo Dio creatore può gioirne appieno. Mi dichiaro vinto da questo passaggio del mio poema, più che mai poeta comico o tragico si sentisse sovrastato da qualche punto del tema assunto a oggetto della sua poesia, perché come la luce del sole batte su occhi traballanti, alòlo stesso modo il sorriso di Beatrice fa venir meno il mio intelletto a me stesso. Dal giorno in cui vidi il suo viso nella vita terrena, sino a questa visione, non sono stato impedito dal seguire precisamente il mio canto, ma ora è inevitabile che il mio poetare venga meno nel seguire la sua bellezza, come ciascun poeta quando arriva al limite della sua capacità espressiva. Così, rispetto al mio fare poetico, che sta portando a termine l’ardua impresa,  l’affido a poeta in grado di poterla cantare nel modo in cui, con atteggiamento e parole di sicura guida riniziò a dirmi: «Noi siamo usciti fuori dal Primo Mobile verso il cielo che è pura luce: luce intellettuale (non fisica), piena d’amore, amore del vero bene, che infonde pienezza di gioia, gioia che sovrasta ogni dolcezza. Qui vedrai i beati e gli angeli del Paradiso ed i primi con l’aspetto che prenderanno nel giorno del giudizio universale». Come un lampo improvviso che disperda sin da subito la capacità visiva, privando l’occhio dal cogliere oggetti diventati troppo intensi per lui, così una luce intensa mi circondò col suo splendore e mi lasciò fasciato da talò luminosità da non poter veder nulla. «La carità di Dio, che riempie della sua pace questo cielo, accoglie vsempre in sé chi vi entri con un siffatto saluto, affinché l’anima possa ricevere il suo ardore, come una candela la fiamma». Queste poche parole non mi giunsero più velocemente di quanto io compresi di quanto di sollevarmi al di sopra delle mie capacità, e ripresi a vedere con una più accentuata capacità visiva tale che non vi è luce così fulgenre che i miei occhi non potessero osservare; e vidi una luce riplendente di fulgore che scorreva tra due rive adorne di mirabile fioritura primaverile. Da tale fiume emergevano faville vive che si posavano sui fiori come rubini incastonati nell’oro, poi, come inebriate dal profumo, si rigettavano nel fiume e mentre esse si immergevano altre sgorgavano all’esterno. «Il grande desiderio che ora arde in te e ti stimola, di sapere cos’è ciò che vedi, tanto mi piace quanto più cresce d’intensità; ma è necessario che tu beva quest’acqua, prima che la sete (il tuo desiderio) possa essere saziata», così mi disse la luce degli occhi miei. E quindi aggiunse: «Il fiume e le faville splendenti come pietre preziose che entrano eed escono nell’acqua del fiume, costituiscono velate prefigurazioni del loro autentico essere. Non perchè tali cose siano imperfette, ma per ancora tua incapacità, che non possiedi occhi così potenti». Non vi è bambino che corra velocemente verso la mammella materna se si sveglia un po’ più tardi del solito, di quanto feci io, per rendere i miei occhi più efficaci, chinandomi sull’acqua del fiume che scorre perché ci si renda migliori, e come gli occhi miei bevvero di quell’acqua, mi parve che il fiume da lungo diventasse circolare (allagasse l’intero spazio). Poi come persone sotto la maschera, diverse da come sembrano essere, se si svestono di essa, allo stesso modo i fiori e le faville si trasformarono in uno spettacolo ancora più festante, in quanto eserciti di Dio. Oh, splendore di Dio, grazie al quale potei osservare l’alto trionfo dell’autentico regno, dammi la forza affinché affinché rioesca a descriverlo così come lo vidi! Luce è lassù che rende visibile il Creatore a colui che nel contemplarlo trova il suo appagamento.  Questa luce si estende in forma circolare tanto che la siua circonferenza sarebbe troppo grande a contenere il sole. L’insieme di tale luminosità deriva da un unico raggio proveniente da Dio che si riflette sulla superficie esterna del Primo Mobile, ricevendo così la vita e la forza, tali da essere trasmessi ai cieli inferiori. E come un pendio che si riflette in uno specchio d’acqua ai suoi piedi , quasi per compiacersi della sua bellezza quando, in primavera, è verde e ricco di fiori , così allo stesso modo vidi tutte le anime beate, stando sopra tutt’intorno a quella luce, rispecchiarsi in essa disposti in innumerevoli gradini. E se l’ultimo gradino contiene una tale quantità di luce, quanta ne accoglie nei petali più lontani dalla luce, quindi più estesi! La mia capacità visiva non si smarriva per la vastità e la profondità, ma riusciva a cogliere la quantità e la qualità di quella beatitudine. Nell’Empireo il concetto di lontananza e vicinanza non hanno valore, perché dove Dio governa senza altro mezzo, le leggi fisiche non contano. Nel giallo (luogo degli stami e dei pistilli) della candida rosa che si distende progressivamente amplisandosi ed emana un profumo di lode al Signore, come persona che non dice ma desidera, mi condusse Beatrice e disse: «Osserva quanto è numerosa la riunione dei beati! Guarda la nostra città per quanto si estende; osserva i seggi come sono pieni, c he poca gente manca a riempirli. Ed in quel gran seggio su cui hai posto gli occhi, su cui è posta la corona imperiale, prima che tu ti sieda a questo banchetto di felicità eterna (prima della tua morte) si poserà l’anima che sarà nel mondo Augusta (imperiale) del nobile Arrigo, che giungerà in Italia per riportarla sulla retta via, prima di quanto essa sia preparata ad accoglierlo. La sordida avarizia che vi strega vi ha reso simili ad un infante che piuttosto muore di fame, pur di scacciare la balia. E in quel tempo sarà a capo della Chiesa un tale (Clemente V) che apertamente e nascostamente si distaccherà dal suo cammino. Ma Dio lo sopporterà poco a capo della Chiesa, tanto da essere gettato nel profondo là dove paga il suo peccato di simonia Niccolò III, facendo sprofondare più in basso Bonifacio VIII». 

Con questo canto Dante entra nel Paradiso vero e proprio, uscendo da quel luogo fisico che ancora il Primo mobile rappresentava. E lo fa attraverso la “difficile” descrizione di ciò che la sua vista può permettergli di ammirare: cioè, per meglio dire, della capacità visiva che, grazie a Dio, fuori da quella umana, consentirà a lui di osservare la “verità” che solo gli angeli e i beati “conoscono perchè la vivono”. Tale facoltà visiva, tuttavia, sembra contrastare con la capacità della parola: tanto aumenta l’una quanto diminuisce l’altra. Infatti dapprima riesce a percepire l’allontanamento degli angeli, lasciando il cielo vuoto, a preparare un nuovo spettacolo; quando si rivolge a Beatrice affinché possa illustrare ciò che accade, la sua bellezza o la sua essenza divina è talmente forte da non poter trovare parole umane che la possano rappresentare; riappare, cioè il topos dell’ineffabile. E questo accade anche quando, dopo un momentaneo accecamento, riacquisendo la facoltà visiva, si trova di fronte ad un lago di luce in cui ciò che era si trasformerà in ciò che sarà per sempre. Infatti Beatrice gli rivelerà che lui sta assistendo a ciò che avverrà il giorno del giudizio universale, quando corpo e anima si riuniranno a cantare le lodi del Signore. Dopo tanta ineffabile poesia, dopo essere stati invasi da immagini che rimandavano alla luce, allo splendore, a raggi riflessi, non poteva mancare un “accenno” a chi parteciperà a tale esplosione di gioia e luce e a chi ne sarà escluso: torna la storia, l’urgenza politica e Clemente V e Arrigo VII riceveranno da Dio pena e gloria, ma nella realtà tale esito non avrà effetti.

CANTO XXXI
(Cielo X – Empireo)

Il canto esprime l’estasi con cui Dante osserva la candida rosa. Angeli, con ali dorate, che vanno e tornano dagli eletti a Dio, comunicando pace e carità. Lo sguardo del poeta è rapito ed estasiato, e per fare in modo che il lettore possa partecipare a ciò che anche per lui è ineffabile, etereo, puro nel suo splendore, ricorre ad esempi umili, come quello dell’uomo dei paesi del nord che prova meraviglia di fronte allo splendore della città eterna, o di un pellegrino che si ritrova nel santuario che aveva deciso di visitare. Allo stesso lui, muto e stupefatto di fronte all’eccezionale spettacolo che Dio gli offre, volge lo sguardo per chiedere a Beatrice, lei non c’è più:

Uno intendëa, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti glorïose.
Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.
E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io.
Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio;
e se riguardi sù nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro».
Sanza risponder, li occhi sù levai,
e vidi lei che si facea corona
reflettendo da sé li etterni rai.
Da quella regïon che più sù tona
occhio mortale alcun tanto non dista,
qualunque in mare più giù s’abbandona,
quanto lì da Beatrice la mia vista;
ma nulla mi facea, ché süa effige
non discendëa a me per mezzo mista.
«O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestige,
di tante cose quant’ i’ ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.
Tu m’hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt’ i modi
che di ciò fare avei la potestate.
La tua magnificenza in me custodi,
sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi».
Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a l’etterna fontana.

Pensavo di rivolgermi ad una persona e mi rispose un’altra: credevo di vedere Beatrice e vidi un vecchio vestito come un beato. Era diffusa negli occhi e nel volto una amorevole gioia, nell’atto caritatevole come dev’essere un tenero padre. E subito io gli domandai: «Dov’è lei?» E lui: «A terminare il tuo desiderio, Beatrice mi ha fatto venire qui dal posto in cui ero, e se guardi in alto nel gradino più alto , tu potrai vederla nel seggio che i suoi meriti le hanno destinato». Senza rispondergli, volsi lo sguardo e la vidi che si circondava di un’aureola di luce riflettendo i raggi di luce divina. Da quella zona del cielo in cui più in alto risuonano i tuoni non è lontana la vista di nessun uomo, neanche di quello che più s’immerge nel mare, tanto quanto distava la mia da Beatrice in quel luogo, ma questo non aveva effetto, giacché la sua immagine non mi raggiungeva offuscata da elementi fisici. «O donna, per la quale si rafforza la mia speranza, e che hai sopportato di lasciare le tue impronte nel luogo infernale per la mnia salvezza, di tutte le cose che ho vedute, riconosco che la Grazia e la Virtù sono derivate dalla tua forza e dalla tua bontà. Tu da servo mi hai portato alla libertà per tutte quelle vie e con tutti i mezzi di cui tu possedevi il potere. Conserva in me la tua magnificenza, di modo che l’anima mia che hai reso pura, si separi dal corpo a te gradita». Così pregai, e Beatrice da tanto lontana come appariva, sorrise e mi guardò, quindi si rivolse a Dio, fonte infinita di grazia. 

L’assenza improvvisa di Beatrice e al suo posto l’apparizione di un vecchio, non produce su Dante lo sesso effetto che ebbe la scomparsa, anch’essa improvvisa di Virgilio, in quanto essa dà al nostro soltanto una sensazione di vuoto, che si colma subito vedendola divisa da uno spazio inesistente, seduta circondata dal raggio di Dio. Solo ora si innalza una preghiera che sembra portare a compimento ciò che nella Vita nuova “Apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei”. E sembra che la preghiera in suo onore sia la degna chiusura di un rapporto, con un cambio pronominale che la rende più vicina in quanto è proprio grazie a lei che egli ora è giunto da “schiavo” a “libero”. E dopo averlo ringraziato, Beatrice si allontana da lui, rivolgendosi a Dio. Nel volgere lo sguardo verso il Signore, la donna prediletta si allontana definitivamente con un congedo che equivale a un addio.

Il “sene” è San Bernardo di Chiaravalle. Egli è scelto da Dante per due motivi: la ripresa della sua visione mistica con angeli e beati in mezzo ai fiori nel suo De diligendo Deo, dall’altra nel suo essere devoto in particolar modo a Maria, come attesta in altri scritti. La sua opera e il suo ruolo ebbero molta fama nel Mediovo come promotore della seconda crociata, consigliere di papi, critico verso il razionalismo di Abelardo, ma soprattutto per il suo rigoroso ascetismo.

Sarà san Bernardo che chiederà a Dante di sollevare lo sguardo per osservare là dove sedeva Maria Vergine il cui splendore vinceva quello dell’ultimo gradino. Intorno a lei gli angeli facevano festa che ricevevano a loro volta il suo splendore. Il santo visto che il suo nuovo discepolo guardava con occhi ardenti lo splendore di Maria, rivolse anch’egli gli occhi alla Madonna.

CANTO XXXII
(Cielo X – Empireo)

In questo canto San Bernardo si fa precettore ed illustra l’Empireo a Dante. Vi è un anima ritta ai piedi di Maria, è Eva; quindi da una parte donne antiche sia bibliche che ebree, dall’altra in modo corrispondente uomini; queste anime sono ulteriormente divise tra coloro che credettero in Cristo venturo e in Cristo venuto. Inoltre al centro di questo empireo a forma sia di petali che di anfiteatro vi sono i bimbi morti in grazia di Dio, pur non avendo potuto esercitare il libero arbitrio. Infanti tutti loro hanno ricevuto una forma di “battesimo” a seconda il periodo in cui nacquero. Al tempo di Adamo ed Eva bastava seguire la fede genitoriale; da Abramo a Gesù fu necessaria la circoncisione e quindi dopo l’arrivo di Gesù il battesimo. Quindi come se ci trovassimo in una corte medievale, Bernardo illustra coloro che sono più vicini a Dio. Ma nel frattempo invita il pellegrino a prepararsi per la visione finale di Dio.

Paradiso 32 – Digital Dante

CANTO XXXIII
(Cielo X – Empireo)

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».
Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
per creatura l’occhio tanto chiaro.
E io ch’al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’ io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.
Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’ io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:
ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l’alta luce che da sé è vera.
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.
Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.
Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ’mpresa
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.
Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.
Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante;
ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’ io, a me si travagliava.
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ’poco’.
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

«Vergine madre, figlia di tuo figlio, la più umile e la più nobile di ogni essere creato, fine e scopo predestinati del volere divino, tu sei colei che hai talmente nobilitato l’intera umanità, che il suo creatore non rifiutò di diventar creatura. Nel tuo seno si accese nuovamente l’amore di Dio per l’uomo (interrotto dopo il peccato originale) grazie al calore del quale è germinato questo fiore dei beati. Qui sei per noi (angeli e beati) fiaccola di carità e giù, tra i mortali, sei perenne fontana di speranza. Signora, sei così grande e di così grande virtù, che chiunque desidera Dio e non si rivolge a te, il suo desiderio è destinato a fallire. La tua volontà di bene non solo corre in soccorso a chi lo chiede, ma spesso previene spontaneamente la domanda. In te misericordia, in te disposizione al bene, in te magnificenza, in te si raccoglie tutto ciò che di virtuoso c’è in un essere creato. Ora costui, che dal punto più basso dell’universo (l’inferno) ha fino qui visto gli stati delle anime nelle vita ultraterrena, ti supplica, per grazia, tanta virtù affinché possa elevarsi più in alto verso l’estrema salvezza. Ed io, che mai arsi di più per vedere Dio di quanto faccia per lui, ti porgo tutte le mie preghiere, e prego che non siano insufficienti, affinché tu con le tue preghiere lo liberi da ogni tenebra della sua natura mortale, di modo che Dio si sveli integralmente di fronte alla sua presenza. Ti prego ancora, o madre regina, che puoi realizzare ciò che vuoi che, dopo tale vista, lui conservi puri i suoi sentimenti. Vinca la tua protezione le sue passioni terrene, vedi come Beatrice, insieme a tanti beati, congiunga le mani alla mia preghiera». Gli occhi della Vergine, amati e venerati dallo stesso Dio, rivolti verso l’oratore, ci dimostrarono quanto siano a lei gradite le devote preghiere; quindi si rivolsero direttamente verso Dio, in cui non bisogna credere che si possa guardare in modo così chiaro (come quelli della Madonna) da parte di quasiasi altro essere creato (beati ed angeli). Ed io che mi avvicinavo al termine di tutti i miei desideri, così come doveva essere, sentii in me il massimo ardore di tale desiderio. Bernardo mi faceva segno, e sorrideva, per farmi guardar in alto, ma io già lo facevo di mia iniziativa: perché la mia capacità visiva, acquisendo chiarezza, penetrava via via con maggior forza dentro il raggio della profonda luce che per la sua essenza è veritiera. Da qui in poi il mio vedere fu maggiore di quanto la mia parola possa mostrare, che non regge di fronte ad un oggetto che eccede la possibilità per una visione a cui anche la stessa facoltà del ricordo si arrende. Come accade a colui che sogna e che, dopo il sogno, rimane impressa la sensazione di esso, ma non le immagini, allo stesso modo sono ora io, in quanto è svanito l’oggetto della mia visione, ma ancora permane nel mio animo una stilla della dolcezza scesa da quella visione. Così la neve si scioglie al sole, così la sentenza della Sibilla si perdeva nelle foglie colpite dal vento. O somma luce che così in alto ti sollevi dai pensieri umani, ridona un po’ alla mia mente come mi apparisti, e rendi la mia lingua tanto potente di modo che possa lasciare ai lettori futuri solamente una favilla della tua gloria; perché se ritornerà anche solo una piccola parte del mio ricordo e risuonerà parzialmente nei miei versi (ciò che io vidi) gli uomini comprenderanno meglio la tua sublime eccellenza. Io credo, per l’intensità del raggio luminoso che mi colpì, che sarei perduto (rimasto abbagliato) se avessi allontanato gli occhi da lui. E mi ricordo che appunto per questo motivo osai con maggior coraggio persistere a sopportare quell’intenso splendore, al punto da congiungere il mio sguardo con la divina essenza. Oh generosa grazia divina per merito della quale io ardii spingere lo sguardo attraverso la luce di Dio, tanto che vi impegai l’intera mia capacità visiva! Nella profondità delll’essenza divina vidi internarsi riunito con amore in un solo legame in un tutt’uno tutto quello che nell’universo appare distinto: le realtà che esistono per se stesse e il modo in cui esplicano la loro essenza e le loro reciproche relazioni, come intimamente compenetrati, di modo che il io modo di rappresentarlo è appena un piccolo barlume del vero. Il principio primo di tale compenetrazione credo di averlo visto, perché solo nell’affermarlo mi sento pieno di gioia. Un solo istante della visione è causa di maggiore oblio che venticinque secoli per l’impresa che fece stupire Nettuno nel vedere l’ombra della nave Argo. Allo stesso modo la mia mente, tutta assorta, guardava fissa, ferma e concentrata e sempre cresceva l’ardore della contemplazione. Sotto l’effetto di una luce così ci si diventa, che è impossibile assentire di volgere lo sguardo per un altro oggetto; per il fatto che il bene, che è oggetto della volontà, si raccoglie completamente in essa e quello che in questa luce (in lei) è perfetto, è imperfetto fuori di lei. Ormai sarà più inadeguato il mio dire, rispetto a ciò che costituisce il mio ricordo, di quanto un bimbo che suggelli ancora il latte da una mammella. Non perché vi fosse più di un solo aspetto nella luce vivida di Dio che io contemplavo, che anzi è eternamente tale e quale è sempre stata; ma a causa della mia facoltà visiva che in me s’accresceva di potenza mediante la contemplazione, una sola immagine, mutandomi io, si trasformava di fronte al mio sguardo. Nella profonda e luminosa essenza mi apparevero tre cerchi rotanti di tre colori e di una stessa dimensione; ed il secondo di questi pareva riflesso dal primo, come un arcobaleno si raddoppia da un altro, mentre il terzo sembrava un giro di fuoco che venisse alimentato dai primi due in pari misura (figura in cui si rivela la Trinità Padre Figlio e Spirito Santo). Oh quanto è inadeguato il mio dire e come è incolore il concetto rispetto a quello che della visione ho inteso e ciò, a paragone di quanto ho veduto è di tal misura che non è sufficiente affermare che è poco. O luce eterna che stai in te sola, sola ti comprendi (Padre) e intesa da te e intendendo te (Figlio) gioisci d’amore (Spirito Santo). Quel cerchio che in te appariva generato quale luce riflessa, osservato attentamente dal mio sguardo per un certo periodo, mi sembrava effigiato della nostra stessa natura umana: per cui il mio viso si era tutto affissato in lei. Come il matematico che si concentra con tutte le capacità intellettuali nel tentativo di trovare la quadratura del cerchio, ma non riesce a rinvenire, pur arrovellandosi strenuamente, il principio matematico risolutore del quale ha bisogno, allo stesso modo ero io di fronte a quella nuova visione: volevo vedere come la figura umana poteva adattarsi alla forma del cerchio e come in essa si collochi; ma le mie forze intellettuiali non erano sufficienti per svelare il mistero: ed ecco che la mia mente fu colpita da un lampo di luce; grazie al quale il suo desiderio fu esaudito. Alla mia forza immaginativa che si era sollevata così in alto, venne meno a questo punto la forza: ma già Dio, sommo amore che fa girare il sole e le altre stelle, faceva già girare il mio desiderio e la mia volontà, imprimendo in esse lo stesso movimento.  

E’ questo non solo il canto con cui si chiude la cantica del Paradiso, ma quello che conclude l’intera Comedìa. Era stato Virgilio a promettere a Dante (altro viaggio, dirà nel I canto infernale) che egli sarebbe stato tra le beati genti, guidato da Beatrice, ma soprattutto come nel II canto sarà la Vergine Maria a sollecitare Beatrice affinchè vada in soccorso a colui che per lei uscì dalla volgare schiera. Ed è proprio dalla Vergine Maria, a cui Bernardo nel canto precedente aveva invitato Dante a rivolgere lo sguardo, che prende avvio il canto, con una preghiera umanissima, in cui si sottolinea la gioia provata da Lei nel beneficare e quindi Le chiede di intercedere affinché il pellegrino possa ora trovare compimento al suo viaggio osservando la Dei imago. 

Da questo punto in poi la Commedia diventa un racconto in cui il Dante auctor cerca di ricordare ciò che il Dante agens ha vissuto, ma di tale elevatezza che il Dante “odierno” rammenta appena un’ombra, ma che neppure essa può essere rappresentata dalla limitatezza della parola umana. Il topos secondo cui il trasumanar significar per verba non si poria si alterna ad una descrizione iperbolica in cui alla luce accecante segue una descrizione – in linea con l’ortodossia cattolica – della trinità rappresentata con la visione di tre cerchi. Ed è proprio all’interno di essi che si verifica la metamorfosi in cui s’inscrive l’incarnazione divina nell’uomo: ma ciò che egli intuisce non può essere vissuto umanamente, in quanto egli ha provato l’excessus mentis o meglio una visione mistica in cui si è trovato in armonia con il creatore e le cose create.  

 
 

IL TEATRO A ROMA

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Maschera tragica e comica in un mosaico di Pompei

Sappiamo già che il teatro a Roma fu un genere di importazione: se la sua antica origine, quella dell’atellana, è italica, i fescennini provengono dall’Etruria; lo stesso nome histrio sembra sia originario della regione controllata dagli Etruschi.

Sappiamo tuttavia che per tematica, soprattutto per quanto riguarda la palliata e la cothurnata (rispettivamente commedia e tragedia d’argomento greco), le maggiori in quel tempo rappresentazioni teatrali, l’influenza è certamente d’origine ellenistica. Ciò non deve apparire contraddittorio, esemplificando potremmo dire che su una struttura di tipo etrusco veniva inserito un tema d’argomento greco.

Le rappresentazioni teatrali a Roma erano d’interesse pubblico e avvenivano durante le principali festività:

  • ludi Megalenses (aprile): istituiti in onore della Magna Mater sin dal 194 a.C.; l’organizzazione teatrale era curata dagli edili curuli (in seguito anche da altri magistrati);
  • ludi Apollinares (luglio) , istituiti in onore di Apollo sin dal 212 a.C., organizzati dal pretore urbano;
  • ludi Romani (settembre), i più antichi, in onore di Giove. Tito Livio afferma che fu proprio durante questa festività che Livio Andronico nel 240 a.C. rappresentò per la prima volta il primo dramma tradotto dal greco. Anch’essi venivano organizzati dagli edili curuli;
  • ludi plebei (novembre) istituiti dal 220 a.C. sempre in onore di Giove; erano organizzati dagli edili plebei.

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Da quanto detto è evidente che l’organizzazione di uno spettacolo teatrale è di spettanza pubblica, mentre l’autore di una pièce teatrale, i capocomici e gli attori sono dei privati.

Sappiamo con certezza che le compagnie teatrali avevano un capocomico chiamato il dominus gregis dove quest’ultimo termine sta ad indicare l’intera compagnia. Era costui un liberto, come liberti erano gli altri attori, anche se non si può escludere che la “bassa manovalanza” (musicanti o attrezzisti) fossero schiavi del dominus gregis.

Per quanto riguarda i copioni non sappiamo con certezza come avvenisse il contatto tra magistrato ed autore: si può supporre che fossero i dominus gregis a sottoporre al magistrato il testo anche se nei prologhi del teatro terenziano sembra si possa alludere ad un rapporto tra autore e magistrato stesso.

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La struttura del teatro:

  1. Orchestra: parte semicircolare posta alla base della cavea e frapposta tra la scena e gli spettatori;
  2. Cavea: insieme delle gradinate divise in settori;
  3. Fronte scenico:  il fondale dipinto;
  4. Proscenio: parte del palco più vicina al pubblico (spesso rappresentava la piazza)
  5. Quinte: collocate a destra e a sinistra, inquadrano la scena, lasciando spazi per l’entrata e l’uscita degli attori
  6. Ingresso degli spettatori

L’onere era tutto in mano dello stato, i magistrati preposti avevano una somma forfettaria con la quale pagavano l’intera compagnia; tale somma variava sulla base del nome dell’autore, dello stesso capocomico, della commedia stessa; sappiamo per certo che gli spettatori non pagavano. Non sappiamo bene quale fosse il ruolo dell’autore nella rappresentazione, da alcuni prologhi possiamo supporre che facessero un po’ da registi, aiutando il capocomico nella messinscena.

Per quanto riguarda lo “spazio teatrale” fino al 55 a.C. a Roma non venne edificato alcun luogo in pietra atto allo svolgimento delle rappresentazioni. Sappiamo che ci fu qualche tentativo a seguito dell’esperienza dei due grandi commediografi latini di edificarlo, ma la linea misoneista (avversa a qualsiasi novità) di Catone il Censore prese il sopravvento.

Gli spettacoli avvenivano in strutture lignee che, dopo lo spettacolo, venivano demolite: l’allestimento scenico prevedeva un fondale che rappresentava due case o tre case, delle volte due case e un tempio; la scena si svolgeva davanti ad esse immaginando una pubblica via o una piccola piazza; per le scene d’interni si aggiungeva una piccola pensilina sopra una porta. L’allestimento era in mano ad un choragus, figura che sta tra il trovarobe e il moderno regista.

Il pubblico o stava in piedi o era seduto di fronte al ligneo palcoscenico e ci piace immaginare che le sedie se le portassero da casa. I primi certamente sono gli schiavi, i secondi artigiani e commercianti e un pubblico femminile che chiacchiera durante la rappresentazione e con bimbi in braccio che frignano. Sembra non ci fossero senatori o cavalieri ma ipotizziamo che la mancanza di qualsiasi riferimento alla loro presenza nei prologhi sia determinata da una sorta di autocensura; infatti sicuramente a loro erano riservati dei posti nella parte più comoda della platea in subsellia (panche) che permettono loro una migliore visione.

Gli attori erano tutti maschi e portavano tutti una maschera e ognuna di essa rappresenta un “tipo” scenico: vecchio, lenone, signora per bene, cortigiana, ragazza di buona famiglia, servetta, schiavo, parassito, soldato e i loro sottotipi: vecchio benevolo o arcigno, giovane dagli irreprensibili costumi e dedito ai piaceri ecc. Ciò permetteva al pubblico, all’entrata scenica di un attore, di riconoscere immediatamente il ruolo che l’attore in quel momento stava interpretando, non solo, dava anche la possibilità per uno stesso attore di svolgere più ruoli; attraverso il suo uso si utilizzavano non più di quattro o cinque attori. Fra di essi dovevano esserci perlomeno due “virtuosi” capaci di eseguire dei cantica degli assolo cantati con base flautistica (nello Pseudolo Ballione e Pseudolo).

Ricordiamo che le rappresentazioni teatrali avvenivano in orario diurno.

800px-Exteriortheatreofpompey.jpgTeatro marmoreo di Pompeo

Il primo teatro marmoreo fu edificato da Pompeo Magno nel 52 a.C., vincendo l’opposizione di senatori tradizionalisti, i quali rifiutavano l’idea di un teatro lontano da un tempio cui lo spettacolo era dedicato. Pompeo lo costruì per festeggiare il suo terzo trionfo (Sertorio in Spagna, i pirati, Mitridate) vincendo la contrarietà di coloro che temevano ogni novità inserendo all’interno di esso un tempio di Venere il cui ingresso corrispondeva con la cavea del teatro. Al contrario di quello greco, che sfruttava il terreno costruendoli al fianco di una collina, per sfruttarne il pendio naturale, il teatro di Pompeo era tutto in muratura ed occupava una porzione importante del Campo Marzio. Intorno ad esso Pompeo fece inserire un quadriportico, detto portico di Pompeo, nel quale in seguito i Romani, nelle calde giornate estive, andavano a riposarsi dalla calura estiva.